Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

L’AMMINISTRAZIONE

QUARTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Burocrazia.

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Viabilità e Trasporti.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Disuguaglianza.

Il Welfare: Il Sistema Pensionistico ed Assistenziale.

I Patronati.

Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.

Il Reddito di Cittadinanza.

Lavoro saltuario: il Libretto di famiglia.

Il Lavoro Figo.

Il Lavoro corto.

Il Lavoro umile.

Il Lavoro sottopagato.

Alternanza scuola-lavoro.

Il Licenziamento.

I Martiri del Lavoro.

Alti e Bassi.

Il Dna.

La Cura.

La Cura Digitale.

La Politerapia.

L’omeopatia.

Il Tumore.

La SMA Atrofia Muscolare Spinale.

La SLA Sclerosi Laterale Amiotrofica.

La Sclerosi Multipla.

Il Diabete.

La pressione alta.

Il Cuore.

Il Fegato.

La Sterilizzazione.

La Disfunzione Erettile.

L’Ernia inguinale.

Il Fibroma e le Cisti ovariche.

L’Eclampsia.

La sindrome del bambino scosso.

Cefalea ed Emicrania.

L’Insonnia.

CFS/ME (Sindrome da Stanchezza Cronica).

Fibromialgia.

L’Astenia.

La Podofobia.

L’Ictus.

Longevità e invecchiamento.

La Demenza Senile. L'Alzheimer.

Il Parkinson.

L’Autismo.

La sindrome di Pandas.

Sindrome di Gilles de la Tourette.

Lo Stress.

Lo Svenimento.

Cinetosi: mal d’auto.

L’Insolazione.

La Vista.

L’Udito.

I Dolori.

Il Mal di pancia.

Malattie virali delle vie aeree.

I cattivi odori.

Il Respiro.

L’Asma.

L’Acetone.

L’Allergia.

La Vitiligine.

L’Epilessia.

La Dermatite.

La Scarlattina.

La Setticemia.

Formicolio alle mani.

La sindrome autoinfiammatoria VEXAS.

La Psoriasi a placche.

Il Colesterolo.

Effetti del Parto. Diastasi addominale.

Malattie sessuali.

La Dieta.

Bulimia, anoressia, binge eating: quali sono i disturbi alimentari più diffusi. 

Il Soffocamento.

Il Movimento.

L’Artrosi.

Osteoporosi.

Piedi piatti.

La Scoliosi.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.

Il Covid e le sue Varianti.

Le Origini del Covid.

Lo stigma dei covidizzati.

Io Denuncio.

Io Ricordo.

Protocolli sbagliati.

Morti per…morti con..

Vaccini e Cure.

I No Vax.

Gli Esperti.

Le Fake News: le Bufale.

Cosa succede in Puglia.

Cosa succede in Lombardia.

Cosa succede in Veneto.

Cosa succede nel Regno Unito.

Cosa succede in Cina.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)


 

L’AMMINISTRAZIONE

QUARTA PARTE



 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Amputazioni.

Le Donazioni di Organi.

In Codice Rosso.

Il Cibo Ospedaliero.

I Parti.

Infettati.

L’Illecito Finanziamento.

I Medici.

Il Fallimento.

La Croce Rossa Italiana.

Strumenti e macchinari obsoleti.

I Pronto Soccorso.

Le aggressioni.

L’Ideologia.

Le Esenzioni.

Le Liste d’attesa.

Il Sistema Privato.

Il Sistema Pubblico.

Incapacità ed inefficienza.

RSA: Le Case di riposo.

Le mistificazioni territoriali.

I Farmaci.

Le amputazioni.

Sempre più frequenti in Italia i casi di amputazione: parla il presidente Gise Giovanni Esposito. Angelo Vitolo su L'Identità l'11 Giugno 2023 

Talvolta comincia con un formicolio alla gamba, poi un dolore intenso fino alla formazione di lesioni che non guariscono. Questa la sintomatologia tipica dello stadio avanzato dell’arteriopatia periferica, patologia che riduce drasticamente l’afflusso di sangue alle arterie. In Italia colpisce circa il 10% degli over 40, con un trend in aumento fino al 23% nei prossimi anni.

“L’arteriopatia periferica si sviluppa quando le arterie si ostruiscono e non sono più in grado di portare con normale regolarità tutto il nutrimento di cui avrebbe bisogno il nostro organismo”, spiega Giovanni Esposito, professore ordinario di Cardiologia e direttore della Uoc di Cardiologia, emodinamica e Utic dell’Azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli e presidente del Gise.

Secondo gli esperti riuniti alla II edizione del meeting “Rome Peripheral Interventions”, è proprio in Italia che, nei casi più gravi, si ricorre più di frequente alle amputazioni: nel nostro Paese, infatti, vengono eseguite ogni anno 3.382 amputazioni (dati Pne 2021).

Obiettivo del convegno, fornire i più recenti aggiornamenti sulle evidenze cliniche e sulle possibilità attuali e future nel trattamento endovascolare delle patologie extra-coronariche. L’insufficiente uso di procedure ‘salva-arto’, soprattutto quelle ‘mini-invasive’ è la causa di un maggior numero di amputazioni e, di conseguenza, in un maggior carico di disabilità e un più alto rischio di mortalità precoce. “Iniziative come il meeting ‘Rome Peripheral Interventions’ – conclude Esposito – diventano quindi per gli specialisti appuntamenti di importanza cruciale per l’aggiornamento e per il miglioramento delle cure offerte ai pazienti”.

Le Donazioni di Organi.

L’Italia e il record delle donazioni così in silenzio salviamo le vite. Redazione su L’Identità il 14 Aprile 2023

DI UGOLINO LIVI

Domenica 16 Aprile si celebrerà la 26ma Giornata della Donazione degli Organi e per l’occasione il Centro Nazionale Trapianti (CNT) ha reso noti i numeri delle dichiarazioni di volontà alla donazione di organi & tessuti raccolte dai Comuni italiani nel corso del 2022 all’atto dell’emissione della Carta d’Identità Elettronica (CIE). Questa edizione dell’Indice del Dono è un rapporto analitico che fotografa il grado di generosità dei cittadini residenti nei vari comuni italiani, assegnando un valore in centesimi che tiene conto di alcuni indicatori come la percentuale delle dichiarazioni e dei consensi in rapporto alla popolazione nonchè la percentuale dei consensi sul totale delle dichiarazioni.

Tra le grandi città (>100.000 abitanti) è Trento a confermarsi per il secondo anno consecutivo la città più generosa con un Indice del Dono pari a 69,76/100, valore a significare che nel 2022 al rinnovo della CIE il 65,6 % dei cittadini ha espresso la propria volontà sulla donazione (34,4 % gli astenuti) e di quest’ultimi il 78,6 % ha dato il suo assenso (con 21,4 % di diniego). Tasso di consenso molto alto, ben al di sopra della media nazionale pari al 68,2 %. A seguire in gradatoria troviamo Sassari, Livorno, Verona, Padova, Cagliari, ecc., tutte con indici di consenso molto elevati, intorno all’80 % ma con astensione crescente (>40 %), cioè di cittadini che preferiscono non esprimere la loro volontà. Le metropoli vengono molto dopo, Milano al 16° posto, Torino al 29°, Roma al 32° e Napoli al 39°.

Per i Comuni di medie dimensioni (30-100mila residenti) il Comune di Corato in provincia di Bari spicca al vertice della graduatoria, seguito da da Nuoro ed Alghero, tutti con Indice del Dono di oltre 72/100, frutto di un consenso elevato registrato in oltre 80 % delle dichiarazioni. Per i Comuni medio-piccoli (5-30mila residenti) a primeggiare è Guardagrele in provincia di Chieti, con un tasso di adesione alla donazione che sfiora il 100 % e con un indice di astenuti molto basso, inferiore al 25 %. Tra i piccoli Comuni (30 %), nel 2022 è stato di circa il 32 %, che il suddetto tasso aumenta col crescere dell’età passando dal 28-30 % tra 18 e 60 anni d’età al 42 % tra 70 e 80 e al 56,5 % sopra gli 80, forse non per una minore sensibilità alla donazione delle persone anziane ma per l’errata convinzione che la donazione di organi non sia possibile ad una certa età. Se si guarda al genere, si scopre che gli uomini sono un pò più numerosi delle donne nell’espressione di volontà, quest’ultime viceversa esprimono percentuali superiori di consenso (71,3 % contro 66,2 %). La Giornata Nazionale della Donazione degli organi di Domenica 16 Aprile è un’occasione di sensibilizzazione e promozione per rafforzare la cultura del dono e far si che sempre più cittadini aderiscano con convinzione all’espressione di volontà alla donazione.

I pazienti in attesa di un trapianto di organi in Italia sono oltre 8000, molti dei quali in attesa di un organo salva-vita come fegato, cuore, polmone. La buona notizia è che nel 2022 c’è stato un incremento di donatori e di conseguenza un pari aumento del 2,5 % dei trapianti rispetto al 2021. I dati relativi ai primi 3 mesi del 2023 denunciano un ulteriore e significativo incremento dei donatori che ha consentito un maggior numero di trapianti (complessivamente, +12,7 %), con +47 % trapianti di cuore, +11 % di fegato, +17 % di rene e +27 % di polmone.

Se il trend attuale si confermasse per il resto dell’anno, il numero di donatori per milione di popolazione (PMP) passerebbe da 24,7 del 2022 a 28,0 del 2023, con un balzo che posizionerebbe l’Italia al secondo posto in Europa dopo la Spagna per numero di donatori utilizzati con finalità trapianto. Bene celebrare la Giornata della Donazione di organi e tessuti a suggello dell’eccellenza sanitaria del nostro paese che col programma nazionale della donazione e trapianto evidenzia la capacità del sistema ad affrontare nuove sfide (vedi il recente programma di donazione organi a cuore fermo) in risposta ai bisogni di salute dei cittadini ed a vantaggio della scienza quando messa al servizio dell’uomo.

In Codice Rosso.

Estratto dell'articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” il 17 aprile 2023.

Se la «lista d’attesa» appartenesse a una corporazione, sarebbe certamente più corta. Ma qui si tratta di una lista senza rappresentanza, formata da milioni di cittadini dove ognuno subisce in solitudine il proprio disagio o si arrangia come può. Chi può. Eppure nessun governo ha mai dichiarato di voler tagliare la spesa sanitaria, al contrario sono sempre stati snocciolati miliardi di investimenti. Per capire se lo Stato ne tira fuori abbastanza gli esperti usano un indicatore: il rapporto tra i finanziamenti pubblici al Servizio sanitario nazionale e il Pil. 

[…]

Con 114,4 miliardi spesi nel 2019, l’Italia arriva alla pandemia con un livello di finanziamento rispetto al Pil del 6,4%, contro il 9,8% della Germania, il 9,3% della Francia e il 7,8% del Regno Unito (dati Ocse). Il 2020 è l’anno della spesa record: 120,5 miliardi, pari al 7,3% del Pil. La grande lezione del Covid è quella dell’impegno solenne: mai più risparmi e tagli sulla sanità. Cosa è successo dopo? 

Nel 2021 le Regioni spendono 8,3 miliardi in più per coprire i costi extra: ricoveri in ospedale di chi ha contratto il virus, tamponi, reclutamento di medici, infermieri, e vaccinazioni di massa. Lo Stato a oggi gliene ha rimborsati solo 4,45: vuol dire che le Regioni hanno accumulato un buco da 3,86 miliardi. […]

Nel 2022 le Regioni continuano a sostenere spese extra legate al Covid: i ricoveri, la sanificazione obbligatoria degli ambienti ospedalieri, le uscite per il personale aggiuntivo, oltre alle visite e gli esami da recuperare. Con la fine dello stato d’emergenza del 31 marzo, però, lo Stato di fatto non riconosce più i finanziamenti aggiuntivi. In più si sommano 1,4 miliardi di costi per l’impennata delle bollette di luce e gas.

Con il decreto del 10 gennaio 2023 il governo Meloni mette 1,6 miliardi alla voce «maggiori costi delle fonti energetiche e per il perdurare della pandemia». I fondi vengono distribuiti in percentuale rispetto alla popolazione delle regioni. Risultato: solo in bollette l’Emilia-Romagna spende 188,2 milioni e ne prende 120,9; la Toscana 153 e ne prende 101; l’Umbria 31 e ne prende 23,8 […] 

La Sanità pesa all’incirca per l’80% sui bilanci delle Regioni, e gli ultimi due anni si fanno sentire. Lo dimostra il confronto tra il 2022 e il 2019: le Regioni che avevano conti in ordine ora sono indebitate. L’Emilia-Romagna è in rosso di 84,9 milioni; il Piemonte di 21; il Lazio di 125,5; la Basilicata di 20,9 milioni; l’Umbria di 69,5 milioni, la Sardegna di 41,7.

Mentre Regioni già in negativo come Toscana, Abruzzo e Puglia hanno peggiorato la loro situazione finanziaria. Bilancio in pareggio ma risicatissimo per la Lombardia che chiude con 296 mila euro contro i 6,3 milioni del 2019, e il Veneto a 7 milioni contro i 29,4 del 2029. 

Ora alle 20 Regioni arriverà 1 miliardo e 85 milioni per il cosiddetto payback: chi negli anni passati ha acquistato dispositivi medici in più rispetto al tetto di spesa fissato recupererà il 50%. In sostanza si distribuiscono un po’ di soldi a tutte le Regioni che hanno sforato su un altro capitolo di spesa, sperando che tappi il buco aperto dai costi del Covid e dalle bollette. Difficile.

Del resto, il finanziamento al servizio sanitario cresce solo sulla carta: 123,4 miliardi nel 2021; 125,98 nel 2022; 136 nel 2023; 132,7 nel 2024 e 135 miliardi nel 2025. Ma siccome i soldi si pesano rispetto al Pil, siamo passati dal 6,4% del 2019 al 6,9% del 2021, e poi la curva si inverte: 6,6% nel 2022, 6,7% nel 2023, 6,3% nel 2024 e 6,2% nel 2025. In pratica stiamo tornando addirittura indietro rispetto al pre-pandemia. 

Per arrivare ai livelli di Germania e Francia servirebbero all’incirca 40 miliardi in più all’anno, e 20 per raggiungere almeno il Regno Unito. 

Quando le risorse sono poche si è costretti a risparmiare, proprio nel momento in cui è necessario investire in vista delle sfide che ci attendono. A partire dalle liste d’attesa. Resta da recuperare qualche milione di prestazioni sanitarie perse per il blocco/rallentamento dell’attività sanitaria durante i mesi clou della pandemia.

Oltre a esami e visite specialistiche (vedi il Dataroom del 6 febbraio 2023), i dati diffusi da ministero della Salute e Agenas confermano il permanere di criticità anche sui ricoveri: nel caso degli interventi cardiovascolari che devono avere la precedenza per motivi di urgenza (classe A) e che dovrebbero essere eseguiti entro 30 giorni, ben 14 Regioni presentano risultati peggiori di quelli del 2019. 

[…] 

I primi 9 mesi del 2022 registrano una riduzione della spesa per investimenti di oltre il 13%. Che vuol dire meno soldi per l’acquisto di attrezzature nuove e per la manutenzione dei reparti «al fine di garantire a ciascun cittadino una risposta adeguata alla domanda di salute, sia in termini di prevenzione che di cura delle diverse patologie».

Lo fa presente la Corte dei conti che scrive: «Il programma straordinario degli investimenti pubblici in sanità costituisce un contributo sostanziale al perseguimento della finalità pubblica della tutela della salute (ai sensi dell’art. 32 Cost.) in quanto l’ammodernamento del patrimonio strutturale e tecnologico del Servizio sanitario nazionale consente meglio di rispondere con strutture e tecnologie sempre più appropriate, moderne e sicure, alle necessità di salute della comunità e alle aspettative di operatori e utenti del Servizio sanitario nazionale». In conclusione: snocciolare qualche miliardo in più fa sempre una certa impressione, ma rispetto alle necessità sono solo noccioline.

Col decreto Calderoli gli italiani dicono addio al Servizio sanitario nazionale. L’autonomia differenziata, non solo aumenterà i divari fra la qualità del servizio offerto fra Nord e Sud, ma farà crescere anche la mobilità sanitaria, cioè i viaggi dei meridionali per curarsi rischiando di mandare in tilt le strutture del settentrione. Gloria Riva su L’Espresso il 5 aprile 2023.

In Toscana c'è una sola azienda sanitaria territoriale. In Veneto ce ne sono nove. In Lombardia le aziende sanitarie si chiamano Asst, altrove si chiamano Ats, al sud si chiamano aziende provinciali. In Friuli Venezia Giulia ci sono le aziende uniche, al cui interno vengono coordinati ospedali, università e strutture territoriali. Poi il Veneto ha avviato la formazione complementare degli Oss, gli assistenti socio assistenziali, mentre in Campania è stato istituito lo psicologo di base, mentre in Lombardia non c'è. E si potrebbe andare avanti all'infinito, nel tentativo di dimostrare che, limitatamente alla Sanità, l'autonomia differenziata esiste già, eccome. E gli effetti del federalismo sanitario, che esiste dal 1992 e prevede che siano le Regioni a gestire la sanità, sono sotto gli occhi di tutti: basta leggere gli ultimi dati dell'Agenas, l'agenzia che fa capo al ministero della Salute e monitora l'attività delle singole regioni, a proposito dei Lea, cioè i Livelli essenziali di assistenza.

Dunque, i Lea sono le prestazioni e i servizi minimi – in termini di prevenzione, assistenza distrettuale e ospedaliera -, che il Servizio sanitario nazionale è obbligato a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o con una quota di ticket. Sono le Regioni che devono organizzarsi in modo tale da garantire un servizio adeguato a tutti, in modo tale che, da Palermo a Milano, il Ssn sia universale e le cure uguali per tutti. Questo, almeno, sarebbe l'obiettivo, perché nei fatti Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Piemonte e Lombardia riescono a soddisfare almeno l'87 per cento dei livelli minimi di assistenza, le regioni del centro Italia, più Liguria e Trento li raggiungono ma non pienamente, e invece sono profondamente arretrate le regioni del Sud.

Detto altrimenti, la Sanità italiana è diseguale. E la novità è che, con l'introduzione del Decreto legge Calderoli sull'autonomia differenziata, la situazione peggiorerà ulteriormente perché le Regioni potranno chiedere ancora più autonomia in ambito sanitario, specialmente rispetto al compenso previsto per il personale infermieristico e medico. Ma andiamo con ordine.

Con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del Ddl Calderoli sull'autonomia differenziata è iniziato il percorso che dovrebbe portare le Regioni a chiedere e ottenere maggiore indipendenza legislativa nella gestione di 23 materie che, oggi, sono di competenza dello Stato. Dentro c'è di tutto, dalla scuola all'energia, professioni e alimentazione, porti e casse di risparmio, sostegno all'innovazione e finanza pubblica, fino alla tutela della salute.

Dai sindacati alle sigle di categoria dei medici, tutti hanno espresso un parere negativo rispetto all'estensione dell'autonomia a un tema delicato come quello sanitario. Addirittura lo stesso ministero della Salute ha dichiarato che sarebbe meglio mantenere in capi al ministero stesso un ruolo di indirizzo.

Mentre la Fondazione Gimbe, un ente indipendente che si occupa di analisi sulla sostenibilità economica del Servizio Sanitario Nazionale, ha realizzato un intero dossier sulla questione, arrivando a descrivere uno scenario da incubo (per la qualità di vita dei cittadini delle regioni più svantaggiate) qualora l'autonomia differenziata fosse confermata anche per la sanità: «Il mancato raggiungimenti dei Lea in molte regioni, nonostante decenni di tentativi di riequilibrio, conferma quanto la disuguaglianza sanitaria sia un fenomeno già attuale», commenta Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, che continua: «Di conseguenza, l’attuazione delle maggiori autonomie richieste dalle Regioni con le migliori performance sanitarie è amplificherà le diseguaglianze di un Ssn, oggi universalistico ed equo solo sulla carta. I princìpi fondanti del Ssn si sono già dissolti senza alcun ricorso all’autonomia differenziata e il regionalismo differenziato finirà per legittimare normativamente e in maniera irreversibile il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute».

Per Cartabellotta l'unica soluzione possibile è eliminare la materia sanitaria dall'elenco di competenze al centro del processo di autonomia.

Il cuore del problema è capire infatti come sarà possibile finanziare le regioni economicamente meno floride se il Nord tratterrà per sé il denaro raccolto dalle proprie tasse. Per capirci, come colmeranno il gap oggi esistente Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia senza gli stanziamenti provenienti dalle regioni più ricche? E poi, già oggi la spesa sanitaria pubblica si attesta attorno ai 2.147 euro pro-capite, ma la distribuzione fra Regioni è già piuttosto diversificata: si va dai 2.186 euro per i veneti ai duemila euro per i campani e siciliani. E con l'autonomia questa diversificazione andrà ulteriormente aumentando.

Il punto più dolente del ddl Calderoli riguarda la possibilità, per ciascuna regione, di remunerare il personale in autonomia. Oggi tutte le Regioni hanno difficoltà a reclutare medici e infermieri, e se Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna aumenteranno il salario dei propri camici bianchi da 60 a 100 euro l'ora, è chiaro che ci sarà una vera e propria migrazione di massa dei sanitari dalle aree più depresse a quelle più ricche, cosa che per altro già avviene, ma è calmierata dal fatto che i salari dei medici sono più o meno gli stessi in tutta Italia.

A ruota, si intensificherà il fenomeno della mobilità sanitaria, con un pellegrinaggio ancora più massiccio dei cittadini del sud in cerca di cure adeguate al nord. Finanziariamente sarà un disastro, perché le regioni più carenti dal punto di vista dei servizi, pagano alle regioni in cui i pazienti scelgono di curarsi una compensazione finanziaria: secondo i calcoli della Corte dei Conti, 13 regioni, quasi tutte al Sud, hanno accumulato un debito di 14 miliardi nei confronti delle regioni del Nord (dove i meridionali scelgono di curarsi).

Ma sarà altrettanto disastroso dal punto di vista della sostenibilità materiale delle strutture sanitarie del Nord Italia, che a stento riescono a rispondere alle richieste di assistenza dei propri cittadini e, con l'autonomia differenziata, rischiano di doversi fare carico dell'assistenza sanitaria dei pazienti di tutta Italia. Proprio così, l'autonomia differenziata potrebbe incatenare ancora di più le regioni del Sud alla dipendenza sanitaria degli ospedali del Nord.

Taglia il bisturi: Report Rai PUNTATA DEL 03/04/2023 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Goffredo De Pascale 

Quali saranno le conseguenze per il Servizio Sanitario Nazionale?

Le Regioni sforano il tetto di spesa per l’acquisto dei dispositivi medici e le aziende fornitrici devono risponderne restituendo fino al 50% di quanto incassato dalle gare di appalto. Il payback sui dispositivi è una legge voluta dal Governo Renzi nel 2015, ma attivata da Draghi subito dopo le dimissioni. Più di 4000 piccole e medie imprese del settore rischiano di chiudere e, senza regole certe, hanno smesso di partecipare alle gare. Pochi giorni fa, il Consiglio dei ministri ha approvato una norma che prevede uno sconto di 1,1 miliardi di euro sui 2,2 inizialmente richiesti. La differenza ce la metterà il Governo che ha preso i soldi dal sostegno alle famiglie contro il caro bollette. Ma quali saranno le conseguenze per il Servizio Sanitario Nazionale? I pazienti rischiano di non poter usufruire di materiali adeguati nelle cure? Dovremo rivolgerci alla sanità privata?

TAGLIA IL BISTURI Di Luca Bertazzoni Collaborazione di Goffredo De Pascale Immagini di Giovanni De Faveri, Carlos Dias, Cristiano Forti, Paolo Palermo, Marco Ronca Ricerca immagini Paola Gottardi

MARCO SCATIZZI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CHIRURGHI OSPEDALIERI ITALIANI Questa è una sala operatoria, abbiamo il computer medicale per poter fare tutte le operazioni, il respiratore, il letto operatorio, alcuni carrelli con tutti i presidi.

LUCA BERTAZZONI Questi sono tutti dispositivi medici fondamentali.

MARCO SCATIZZI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CHIRURGHI OSPEDALIERI ITALIANI Questi? Irrinunciabili, senza questi noi non potremmo operare. Questo è un bisturi ad ultrasuoni, è uno strumento molto avanzato: taglia e cauterizza contemporaneamente; quindi è una cosa molto utile perché abbrevia i tempi e ci dà più sicurezza in sala operatoria rispetto a un bisturi comune. Se poi a un certo punto non mi viene fornito più, o andiamo su internet a catalogo, come si dice, e prendiamo uno strumento analogo del quale del quale ignoro la qualità. LUCA BERTAZZONI Cioè lei si sente di dire: “Se non mi danno questo o una cosa molto simile, io non sono in grado di garantire la sicurezza dell’operazione che normalmente faccio con questo”?

MARCO SCATIZZI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CHIRURGHI OSPEDALIERI ITALIANI Sì, risposta diretta.

LUCA BERTAZZONI Secco così.

MARCO SCATIZZI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CHIRURGHI OSPEDALIERI ITALIANI Assolutamente sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ogni giorno gli ospedali pubblici italiani usano migliaia di dispositivi medico-sanitari: dai macchinari per la Tac ai bisturi, dalle siringhe ai respiratori. La fornitura di tutti questi strumenti essenziali per salvare le vite dei pazienti è ora messa a rischio da un termine inglese: “payback”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Payback significa, tradotto, “recupero”, ma, secondo il dizionario Garzanti, potrebbe anche significare “vendetta”. Noi siamo certi che quando nel 2015 il governo Renzi, ministro della salute Beatrice Lorenzin, hanno concepito questa la legge nell’ambito della spending review avessero le migliori intenzioni, quelle cioè di risanare le casse della sanità pubblica. Però siamo altrettanto certi che poi una volta ideata questa legge il sospetto che potesse esser percepita come una vendetta da parte delle aziende l’hanno avuto. Tant’è vero che non è stata attuata. Cosa contemplava questa legge? Che una volta che le regioni superavano il tetto di spesa istituito per legge, fissato per legge, nell’acquisto dei dispositivi sanitari, le aziende dovevano contribuire a ripianare l’eccedenza fino anche al 50% del fatturato delle forniture. Insomma una legge che si pensava essere virtuosa, si è trasformata in una legge illogica, anche probabilmente incostituzionale – perché chiedeva di restituire i soldi a delle aziende che avevano partecipato a delle gare pubbliche anche al ribasso - e probabilmente anche molto dannosa. Il governo Renzi non l’ha approvata, non l’ha attuata, ha lasciato la patata bollente agli altri governi. L’ha raccolta la patata bollente, il governo Draghi che poi l’ha attuata. Secondo la legge le aziende avrebbero dovuto pagare per il quadriennio che va dal 2015 al 2018, ben 2,2 miliardi di euro entro il prossimo 30 aprile. Poi son scattate le proteste. Questo almeno secondo il decreto Aiuti bis. Ma aiuti per chi? Perché poi ci sono 4 mila aziende che rischiano il fallimento, 120 mila lavoratori rischiano di rimanere per strada, il Sistema Sanitario Nazionale che rischia di rimanere senza dispositivi medici: senza bisturi, senza pacemaker, senza valvole, senza stent, cioè senza quei dispositivi che consentono di salvare vite umane. Il nostro Luca Bertazzoni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Per acquistare i dispositivi medici nel quadriennio 2015-2018 le Regioni italiane hanno sforato il tetto di spesa per oltre 4 miliardi di euro.

MANIFESTAZIONE A ROMA CONTRO IL PAYBACK – 10/01/2023 No payback! No payback! Questa legge mostro farà morti e feriti. Il payback sui dispositivi medici è una follia normativa, è un segno di inciviltà.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A varare la legge sul payback è stato nel 2015 il Governo Renzi, Ministro della Salute Beatrice Lorenzin.

LUCA BERTAZZONI È stata Ministro per tanto tempo, ci può dire semplicemente la ratio di questa legge.

BEATRICE LORENZIN - MINISTRO DELLA SALUTE 2013 - 2018 Era una misura di spending review, brutalmente.

LUCA BERTAZZONI Lei lo ha subito dal Mef? Questo voglio capire.

BEATRICE LORENZIN - MINISTRO DELLA SALUTE 2013 - 2018 Sì, come anche il payback farmaci. Io penso che sono delle misure che possono essere temporanee per un brevissimo periodo, ma che poi devono essere superate e trovati altri modelli regolatori per fare quella cosa difficile che è trovare un equilibrio fra la sostenibilità economica del Servizio Sanitario Nazionale e l’accessibilità ai pazienti, poi, dei dispositivi.

LUCA BERTAZZONI Lei da Ministro non poteva dire: “Questa cosa non sta in piedi, perché ci sono le aziende che falliranno”?

BEATRICE LORENZIN - MINISTRO DELLA SALUTE 2013 - 2018 Da Ministro dissi che era complesso poterlo applicare, tanto è vero che volemmo fare un tavolo assieme alle aziende e le Regioni, che erano quelle che lo volevano, per trovare una misura che arrivasse ad essere scritta in un certo modo. Poi l’hanno scritta in un altro.

LUCA BERTAZZONI Se sforano le Regioni perché devono pagare le aziende questo molto banalmente?

BEATRICE LORENZIN - MINISTRO DELLA SALUTE 2013 - 2018 Succede così purtroppo nel meccanismo del payback.

LUCA BERTAZZONI Buongiorno Senatore

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014 - 2016 Buongiorno, che ci fate voi qua?

LUCA BERTAZZONI Avete fatto una legge che accolla alle aziende la metà degli sforamenti delle Regioni nelle spese per i dispositivi medici. Volevo capire il perché.

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014 - 2016 Quella legge serviva per la spending review, ma siccome non c’erano le condizioni per farla funzionare allora, fu una legge che non è mai entrata in vigore. Quindi tecnicamente è vero che abbiamo fatto una legge, ma…

LUCA BERTAZZONI L’avete accollata al governo successivo.

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014 - 2016 In realtà a 6 governi successivi. Tutti gli abbiamo sempre bloccato questa roba qua perché, nonostante fosse una richiesta sulla revisione della spesa che veniva dalla necessità europea di rimettere in ordine i conti, non stava in piedi e quindi l’abbiamo rinviata.

LUCA BERTAZZONI Però è cole se lei va a fare una conferenza, le dicono: “ti diamo 100” e dopo 5 anni le dicono: “ridammi 50”.

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014 - 2016 È diverso perché noi abbiamo fatto questa legge perché lo richiedevano i parametri europei, ma abbiamo creato le condizioni perché la legge non entrasse in vigore. Quindi siamo stati… da questo punto di vista.

LUCA BERTAZZONI E allora che l’avete fatta a fare?

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014 - 2016 Embeh non è mai entrata in vigore. È entrata in vigore o no?

LUCA BERTAZZONI È entrata in vigore dopo con Draghi.

MATTEO RENZI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2014 - 2016 Bertazzoni, ci vediamo all’autogrill.

LUCA BERTAZZONI Arrivederci.

MASSIMILIANO BOGGETTI - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA DISPOSITIVI MEDICI Se questo è un Paese che a un certo punto si sveglia e 8 anni dopo decide di applicare una tassa, quale attrattività ha il nostro Paese per gli investimenti in generale, ma anche per gli investimenti esteri?

LUCA BERTAZZONI Da giurista quali sono le distorsioni di questo meccanismo?

VITALBA AZZOLLINI - GIURISTA Se lo sforamento della spesa è stato dovuto ad un acquisto in eccesso di bisturi o di camici, sarà comunque chiamata a ripianarlo anche l’azienda che per esempio fornisce protesi ortopediche.

LUCA BERTAZZONI Quindi a monte la Regione sbaglia e però paga l’azienda.

VITALBA AZZOLLINI - GIURISTA Esattamente. La Regione sbaglia e chiamati a rimediare all’errore fatto dalla Regione, sono le aziende che forniscono i dispositivi.

LUCA BERTAZZONI E poi è un provvedimento retroattivo.

VITALBA AZZOLLINI - GIURISTA Le aziende non possono fare una corretta programmazione finanziaria nell’ambito del proprio bilancio non sapendo ogni anno quale è la somma che saranno costrette a ripianare.

SIMONE INNOCENTI - IMPRENDITORE AESSE CHIRURGICA Questo è il nostro magazzino dove noi riceviamo il materiale, i vari ferri chirurgici. Qui ci sono le pinze, bisturini, forbici: chiaramente essendo una microchirurgia bisogna entrare dentro l’occhio. Questo è un apparecchio che serve proprio per fare la chirurgia oftalmica, ovviamente con tutti i suoi accessori che servono per attaccare qui e operare.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Simone Innocenti è un imprenditore fiorentino che compra dispositivi medici dai produttori e li rivende alle Asl a un prezzo massimo stabilito dalle gare di appalto.

SIMONE INNOCENTI - IMPRENDITORE AESSE CHIRURGICA A noi ci è arrivata questa lettera qua il 14 novembre con Pec dalla Regione Toscana in cui ci imputano di pagare 2 milioni e 408mila euro: sul mio fatturato annuale, significa il 75% dove dentro ci sono le spese, l’acquisto di questo materiale. Oltretutto il prezzo lo fanno loro, noi dobbiamo andare al ribasso in una gara e mi vengono a richiedere i soldi di un prezzo che fanno loro, di un fabbisogno che fanno loro e materiale che hanno usato perché ne hanno avuto bisogno perché tutto l’altro è ancora in testa a me.

LUCA BERTAZZONI Su cui lei oltretutto ha pagato le tasse.

SIMONE INNOCENTI - IMPRENDITORE AESSE CHIRURGICA Su cui ho pagato le tasse assolutamente, i dipendenti, gli agenti, tutto. Ci è arrivata una gara in cui ci dicono che è sotto il decreto payback, noi gli abbiamo chiesto: “ma quanto sarà il decreto payback”? La risposta è: “non lo sappiamo fino al prossimo anno, al 30 settembre”. Ma come faccio io a fare un calcolo di quanto potrà essere?

LUCA BERTAZZONI E allora lei non parteciperà?

SIMONE INNOCENTI - IMPRENDITORE AESSE CHIRURGICA Non parteciperò, non abbiamo partecipato ad alcune gare. Assolutamente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Se oggi il primo effetto del payback è che le gare per le forniture di dispositivi medici per gli ospedali rischiano di andare deserte, il futuro per la sanità pubblica è ancora più a rischio.

MASSIMILIANO BOGGETTI - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA DISPOSITIVI MEDICI Come uno si poteva immaginare che fisicamente le industrie avessero i soldi per poter, nel giro di un mese, perché già avevano mandato i PagoPa, per poter versare queste somme.

LUCA BERTAZZONI Quale è lo scenario?

MASSIMILIANO BOGGETTI - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA DISPOSITIVI MEDICI Falliranno le aziende, quindi chiudendo non pagheranno.

LUCA BERTAZZONI Quindi le Regioni e lo Stato non incassano?

MASSIMILIANO BOGGETTI - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA DISPOSITIVI MEDICI Ma ovvio.

SIMONE INNOCENTI - IMPRENDITORE AESSE CHIRURGICA Oltretutto mi farebbero chiudere le banche, perché chi è che mi dà credito? Nessuno. E quindi si ferma la chirurgia oftalmica. Il giorno che mancherà la banale siringa sarà un disastro, una catastrofe.

LUCA BERTAZZONI Saranno le aziende a dover pagare con il rischio di fallire o pensate che lo Stato in qualche modo debba contribuire?

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELL’ECONOMIA Ci sarà una ragionevole via di mezzo.

LUCA BERTAZZONI Voi intendente modificarla o abolirla questa misura per il futuro?

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELL’ECONOMIA Pensiamo di superare questo sistema.

LUCA BERTAZZONI Superare che vuol dire? Abolirlo o cambiare qualcosa?

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELL’ECONOMIA Vuol dire superare questo sistema che ex post va a regolare gli anni precedenti, non va bene così.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il rischio è che “la ragionevole via di mezzo” di cui parla il Ministro Giorgetti sia comunque insufficiente a tenere in piedi il Sistema Sanitario Nazionale.

ROY DE VITA - PRIMARIO ISTITUTO NAZIONALE DEI TUMORI DI ROMA “REGINA ELENA” Un piccolo se è costretto pagherà, ma fallirà. Il grande invece non fallirà, ma siccome l’Italia rappresenta un mercato piccolo smetterà evidentemente di partecipare alle prossime gare e quindi noi perderemo, noi come Servizio Sanitario pubblico perderemo completamente tutta la tecnologia e avremo difficoltà ad approvvigionarci di qualsiasi cosa, per cui diventeremo un Servizio Sanitario Nazionale non di serie C, di Paese da terzo mondo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In realtà a leggere le voci di spesa sui dispositivi medici del sistema sanitario nazionale siamo nettamente al di sotto dei cosiddetti Paesi sviluppati.

MASSIMILIANO BOGGETTI - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA DISPOSITIVI MEDICI La spesa europea in dispositivi medici l’anno scorso si è attestata ai 240/260 euro procapite, la Germania addirittura 320 euro, e noi siamo a 120/130 euro pro-capite.

LUCA BERTAZZONI Che è un dato impressionante.

MASSIMILIANO BOGGETTI - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA DISPOSITIVI MEDICI Sottrarre dal sistema 2,2 miliardi vuol dire impoverirlo ulteriormente e quindi che la qualità diminuisce. Un mammografo di dieci anni e oltre, perché questa è l’età dei mammografi nelle nostre strutture pubbliche, rischia di non riuscire ad identificare delle lesioni tumorali in fase avanzata.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Una tecnologia obsoleta comporta ritardi nella diagnosi delle malattie e quindi un costo maggiore per lo Stato nella cura del paziente. Ma anche fare gare al ribasso sui piccoli dispositivi medici può non essere un vero risparmio.

ROY DE VITA - PRIMARIO ISTITUTO NAZIONALE DEI TUMORI DI ROMA “REGINA ELENA” Abbiamo bisturi cinesi, i bisturi cinesi ne apriamo due o tre perché le lame smettono di tagliare e quindi sei costretto a cambiarli e quindi ne apri di più. Compra cose scadenti, ma l’amministratore mica lo sa: pensa di aver fatto un risparmio. Mi davano dei drenaggi che erano ignobili, ignobili però costavano molto meno e avevano vinto la gara. Andiamo a vedere i privati: trovi soltanto materiale di prima qualità, con gente che fa business. Sono pazzi? No.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non sono pazzi, infatti fanno business. A volte anzi spesso lo fanno con i soldi della sanità pubblica. Ore. Guardando la lista delle spese delle regioni, colpiscono gli 0 centesimi della Regione Lazio e anche quelli della Regione Lombardia. Sono le più virtuose? No. In realtà loro non hanno tanto bisogno di comprare molti dispositivi medici, perché comprano soprattutto le prestazioni dalla sanità privata che fornisce anche i dispositivi medici, chiavi in mano. Però se la guardi dall’altra parte, la sanità privata riesce ad acquistare gli strumenti migliori, quelli più performanti, utilizzando anche parte del denaro pubblico. È proprio questo il rischio del payback: che poi vai in una struttura pubblica e quando la trovi, trovi un mammografo che magari è vecchio di 15 anni e non è performante. Insomma, senza investimenti nella sanità pubblica e soprattutto anche sull’aggiornamento e sull’acquisto anche di nuovi dispositivi medici, il nostro Sistema Sanitario Nazionale rischia di diventare quello di un paese del terzo mondo. Già la spesa pro-capite è bassa rispetto alla media europea: 120 euro pro capite rispetto ai 240/260 di quella di altri paesi europei. Ora; nel 2015 il governo Renzi e quello della ministra della Salute Lorenzin, avevano ritenuto che quella legge sul payback non fosse applicabile e che era scritta male. Ma allora perché non l’hanno corretta? Questa è una legge che favorisce sostanzialmente le multinazionali che in fatti sono state zitte in questo periodo perché grazie a questa legge possono sbaragliare i piccoli competitor. E favorisce anche la sanità privata che può acquistare liberamente dalle aziende i dispositivi migliori; perché è proprio alla sanità privata che le aziende hanno interesse a vendere visto che così evitano la roulette russa del payback, che imporrebbe di restituire fino al 50% del loro fatturato in forniture anche dopo aver partecipato alle gare al ribasso. Dopo la pubblicità vedremo invece la maglietta nera delle regioni, quelle che hanno speso di più in acquisto di dispositivi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, stiamo parlando del payback nella Sanità. Una legge che è stata concepita dal Governo Renzi nel 2015 poi attuata dal Governo Draghi dopo però che aveva annunciato le sue dimissioni. Prevede che quando una regione supera il tetto stabilito per legge per le spese per l’acquisto di dispositivi medici, le aziende fornitrici contribuiscono a risanare la spesa fino anche a versare, restituire, il 50% del fatturato delle forniture. In particolare apprensione ci sono le ditte fornitrici della Regione Toscana e della Regione Puglia, cioè le due regioni “maglia nera” nelle spese. Toscana ha sforato di 850 milioni di euro nel quadriennio 2015-2018, la Puglia di 530 milioni. Entrambe si erano anche dotate di un centro per ottimizzare i costi e anche snellire le procedure degli acquisti dei… sanitari insomma. Quanto hanno risparmiato e quanto hanno snellito?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Con 850 milioni di euro di sforamento del tetto di spesa sui dispositivi medico-sanitari, la Toscana è la maglia nera fra le Regioni italiane nel quadriennio 2015/2018. Enrico Rossi è stato il presidente della Regione Toscana dal 2010 al 2020.

LUCA BERTAZZONI Mi domandavo se lei da Presidente della Regione era al corrente di questi sforamenti del tetto.

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 No. Dello sforamento del tetto dei dispositivi francamente no. Se gli enti locali sforano il bilancio allora qualcuno ci deve mettere una pezza. Avevo letto qualcosa sul Quotidiano Sanità infatti.

LUCA BERTAZZONI Soltanto nel 2018 235 milioni di euro, nel 2017 222 milioni, 2016 220 milioni.

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 Ma a livello nazionale come mai hanno confermato che i nostri bilanci erano regolarmente in pareggio? Non c’è nessun tetto preciso e vincolante per quanto riguarda la spesa per i dispositivi.

LUCA BERTAZZONI È il 4,4% della spesa.

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 Era un tetto indicativo che noi abbiamo superato perché abbiamo fatto tanti interventi anche di carattere chirurgico e di altro tipo.

LUCA BERTAZZONI Non stiamo discutendo su quello.

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 Non stiamo discutendo, io le ripeto che noi abbiamo rispettato la spesa. Richiedere il payback spetta al Governo e non spetta alle Regioni.

LUCA BERTAZZONI Certo, però avete sforato voi.

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 Non abbiamo sforato proprio alcunché perché queste sono spese che all’interno di indicazioni generali, che vengono fatte le Regioni, sono libere poi di spendere più o spendere meno.

LUCA BERTAZZONI Lei mi sta dicendo che non ha sforato in assoluto, però in particolare sui dispositivi sì.

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 Io ho speso i soldi che mi venivano dati.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il problema del payback è che anche se una Regione rispetta il bilancio complessivo delle spese sanitarie, ma supera il tetto per i dispositivi medici, a ripianare una parte dello sforamento sono le aziende private che glieli hanno forniti.

GIANLUCA PAGNINI - AMMINISTRATORE KOSMED SRL Questo è un video laringoscopio che serve per fare l’intubazione dei pazienti sia in sala operatoria, che i pazienti critici in terapia intensiva o nel soccorso. Consta di una telecamera che con questo device monouso consente l’intubazione in sicurezza.

LUCA BERTAZZONI E la sua azienda rifornisce…

GIANLUCA PAGNINI - AMMINISTRATORE KOSMED SRL Riforniamo una buona parte degli ospedali toscani.

LUCA BERTAZZONI E che vi è successo poi, a un certo punto vi arriva questa lettera.

GIANLUCA PAGNINI - AMMINISTRATORE KOSMED SRL La Pec della Regione in cui ci venivano praticamente richiesti oltre 750mila euro.

LUCA BERTAZZONI Per quale periodo?

GIANLUCA PAGNINI - AMMINISTRATORE KOSMED SRL 2015-2018. Non esistono questi margini nel nostro settore per poterci garantire la possibilità di poter pagare queste cifre, assolutamente.

LUCA BERTAZZONI Quindi lei mi sta dicendo che se dovesse ridare indietro questi 750mila euro…

GIANLUCA PAGNINI - AMMINISTRATORE KOSMED SRL Noi chiudiamo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’ente che si occupa del fabbisogno delle Asl della Regione Toscana è l’Estar, la centrale unica di acquisto creata nel 2014 dall’allora Presidente Enrico Rossi con lo scopo di razionalizzare la spesa e ottimizzare i costi della sanità pubblica. È stato quindi l’Estar ad acquistare i dispositivi medici che hanno portato allo sforamento del tetto di spesa.

DIPENDENTE ESTAR – ENTE SUPPORTO TECNICO AMMINISTRATIVO REGIONALE - TOSCANA La verità è che siamo solo dei passacarte.

LUCA BERTAZZONI Come si arriva a definire gli acquisti dei dispositivi medici?

DIPENDENTE ESTAR – ENTE SUPPORTO TECNICO AMMINISTRATIVO REGIONALE - TOSCANA C’è un meccanismo dopato che porta le Asl a chiedere più del dovuto perché non sanno precisamente quello che otterranno. Le Asl della Toscana ci dicono il loro fabbisogno, noi prendiamo nota, segnaliamo alla Regione che questa specie di lista della spesa li potrebbe portare a sforare il budget, però tutto finisce là.

LUCA BERTAZZONI Ma voi non dovreste razionalizzare gli acquisti? È questa alla fine la vostra missione.

DIPENDENTE ESTAR – ENTE SUPPORTO TECNICO AMMINISTRATIVO REGIONALE - TOSCANA La nostra missione è questa, se solo la Regione ci ascoltasse. Ma che dobbiamo fare noi? Bloccare la sanità pubblica? L’anno scorso già ad aprile avevamo superato il tetto di spesa per i dispositivi medici, ma possiamo fermare gli ospedali dopo 4 mesi? E negli altri 8 come vanno avanti?

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 Se per garantire il livello di prestazioni sono stati necessari dispositivi medici o altro li abbiamo comprati, li ha comprati l’Estar molto bene perché la nostra Estar è di riferimento in Toscana ed ha funzionato benissimo.

LUCA BERTAZZONI Però la Corte dei Conti in una relazione segnala diverse criticità: mancata riduzione di costi, ingenti dimensioni della struttura…

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 L’Estar ha funzionato benissimo per quello che mi riguarda.

LUCA BERTAZZONI Quello che dice la Corte dei Conti è che c’è stata proprio una mancata razionalizzazione della spesa.

ENRICO ROSSI - PRESIDENTE REGIONE TOSCANA 2010-2020 Ma non è assolutamente vero perché anche la Corte dei Conti non è che le dice sempre tutte giuste.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nella relazione del 2019, la Corte dei Conti segnala alcune criticità nella gestione di Estar, a cui contesta costi in costante crescita. Un indebitamento di 42 milioni di euro dovuto all’accensione di nuovi mutui, fra cui quello da 6 milioni per la ristrutturazione della sede principale di via San Salvi a Firenze. E un incremento del personale a tempo indeterminato che conta 834 dipendenti, di cui 95 dirigenti, cioè uno ogni 9 dipendenti. Nel bilancio del 2021 le spese per il personale sono di 42,5 milioni di euro.

DIPENDENTE ESTAR – ENTE SUPPORTO TECNICO AMMINISTRATIVO REGIONALE - TOSCANA Estar è nato per ottimizzare la spesa sanitaria della Regione Toscana, però in realtà è un carrozzone voluto dalla politica.

LUCA BERTAZZONI Perché dice un carrozzone?

DIPENDENTE ESTAR – ENTE SUPPORTO TECNICO AMMINISTRATIVO REGIONALE - TOSCANA Perché per i ruoli dirigenziali fanno un concorso, però il meccanismo di scelta è l’opposto di quello che dovrebbe essere. Praticamente se vogliono fare entrare una persona gli cuciono su misura il concorso in modo che vinca. In apparenza sembra tutto trasparente, in realtà si tratta di assunzioni ad personam.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nella classifica degli sforamenti per il payback subito dopo la Toscana c’è la Regione Puglia, che ha superato di 530 milioni di euro il tetto di spesa per i dispositivi medicosanitari. L’equivalente di Estar in Puglia si chiama Innovapuglia ed è la centrale di acquisto territoriale.

LUCA BERTAZZONI Un Governatore si rende conto che sta sforando? Cioè man mano…

MICHELE EMILIANO - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA No, assolutamente. Credo sia praticamente impossibile e in ogni caso è uno sforamento obbligato perché si tratta di dispositivi necessari che vanno acquistati per operare la gente, per fare operazioni chirurgiche. Quindi o sfori o non sfori li devi comprare.

LUCA BERTAZZONI Qui in Puglia ho visto che ultimamente c’è un’emergenza sulle protesi.

ANTONIO SCARAMUZZI - RESPONSABILE SERVIZIO ACQUISTI E GARE INNOVAPUGLIA Sulle protesi sì. Gli operatori sanitari devono averne a disposizione tante.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Prevedono di usarne talmente tante che hanno bandito una gara di 3,2 miliardi di euro per i prossimi 4 anni.

MASSIMO RIEM - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA FORNITORI OSPEDALIERI Non può una Regione spendere esclusivamente di protesi ortopediche una somma di 3,2 miliardi di euro, benché per 4 anni, quando tutto il nostro sistema Paese spende 6 miliardi per quanto attiene a tutti i dispositivi non ortopedici, cioè complessivamente. In sostanza Regione Puglia stima di utilizzare in un anno l’equivalente del 45% del numero delle protesi al ginocchio utilizzate in tutta Italia.

LUCA BERTAZZONI 810 milioni di euro l’anno solo in protesi quando nel 2018, faccio un esempio, per tutti i dispositivi sanitari la Regione Puglia ha speso 470 milioni. Quindi già siamo quasi al doppio.

ANTONIO SCARAMUZZI - RESPONSABILE SERVIZIO ACQUISTI E GARE INNOVAPUGLIA Sì, però…

LUCA BERTAZZONI 140mila protesi per l’anca, 35mila all’anno quando nel 2021 sono state 115mila in tutta Italia. Di chi è la colpa di questa gara? Non sta in piedi questa cosa.

ANTONIO SCARAMUZZI - RESPONSABILE SERVIZIO ACQUISTI E GARE INNOVAPUGLIA Non sta in piedi…

LUCA BERTAZZONI È sproporzionata la spesa, questo lo dice il Tar, questo lo dice l’Anac.

ANTONIO SCARAMUZZI - RESPONSABILE SERVIZIO ACQUISTI E GARE INNOVAPUGLIA I fabbisogni vengono certificati dalle singole Asl.

LUCA BERTAZZONI E quindi sono impazzite le Direzioni Generali della Asl?

ANTONIO SCARAMUZZI - RESPONSABILE SERVIZIO ACQUISTI E GARE INNOVAPUGLIA O le Direzioni Generali delle Asl sono impazzite tutte quante oppure vuol dire che il fabbisogno è quello reale.

LUCA BERTAZZONI “I tavoli tecnici di esperti coordinati dal soggetto aggregatore”, voi, “non dovrebbero limitarsi alla mera raccolta dei fabbisogni dei beneficiari finali senza effettuare preliminarmente alcun tipo di analisi, discernimento e valutazione sugli stessi”. Questo lo dice la Regione Puglia di voi.

ANTONIO SCARAMUZZI - RESPONSABILE SERVIZIO ACQUISTI E GARE INNOVAPUGLIA Sì, però potrebbe anche dire un qualcosa che non è corretto.

MICHELE EMILIANO - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA Devo dire che sono stati ottimisti, cioè evidentemente InnovaPuglia avrà pensato di fare una specie di somma di tutte le richieste ipotetiche delle Asl nei prossimi anni che ovviamente sono prospettiche e ha fatto una gara che il Dipartimento della Regione Puglia ha giudicato un pochino sovradimensionata.

LUCA BERTAZZONI Il Tar stesso ha detto che non va bene questa…

MICHELE EMILIANO - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA Prima del Tar la Regione, quindi io penso che il provvedimento e la gara possano essere rivisti, ovviamente non è una cosa che decido io: lo decide il soggetto aggregatore.

LUCA BERTAZZONI Ora che il Tar ha annullato la gara voi rifarete il giro delle Asl e direte: “abbassiamo un po’”.

ANTONIO SCARAMUZZI - RESPONSABILE SERVIZIO ACQUISTI E GARE INNOVAPUGLIA Si renderanno loro conto perché con questo scherzetto abbiamo ritardato di diversi mesi la disponibilità.

LUCA BERTAZZONI Oltretutto, di queste famose protesi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Diciamo anche che i centri di spese della Regione Toscana e della Puglia, non sono esempi così virtuosi. Quelli della Puglia, ha indetto gare per quantitativi di protesi che basterebbero a soddisfare il 40% dell’intero fabbisogno nazionale. Quello invece della Toscana, secondo i magistrati contabili, spende troppo per mantenere i propri dipendenti e le proprie strutture. Tutto questo mentre è scoppiato il caos del payback, dove le aziende fornitrici di dispositivi medici, non partecipano più alle gare per il timore di dover restituire i soldi, rischiano il fallimento, rischiano di lasciare sguarnito il Sistema Sanitario Nazionale di dispositivi medici. Questo a favore della sanità privata. Ora il Consiglio dei Ministri ha pensato di ridurre quello che doveva essere il contributo di queste aziende, passato da 2,2 miliardi a 1,1 miliardi, hanno preso le risorse i ministri, dal sostegno alle famiglie per le bollette del gas e della luce elettrica. Ma hanno chiesto in cambio alle imprese, di rinunciare ai ricorsi presentati al Tar. Insomma, per le aziende cambia poco perché di fatto si trovano di fatto ad essere soci delle regioni senza diritto di parola. Se va male rischiamo che spariscano dal panorama 4 mila aziende, se va bene rischiamo invece di curarci con materiale scadente e di sottoporci a delle diagnosi con macchinari vecchi che non sono in grado di individuare in tempo una patologia. Magari alla fine i conti saranno anche un po’ più in ordine, ma come diceva quel medico furbo, per evitare di far riconoscere le proprie responsabilità, “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto.”

SANITÀ IN CODICE ROSSO. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 29 Marzo 2023

Codice rosso per il Sistema Sanitario Nazionale. Una crisi prodotta da una sommatoria di problematiche sottostimate e irrisolte che in oltre 15 anni di “indifferenza” hanno portato il nostro settore sanitario a un punto di non ritorno.

A denunciarlo è la Fondazione Gimbe che, per voce del presidente Nino Cartabellotta ha annunciato la necessità di un “radicale cambio di rotta”. Un annuncio che precede la presentazione, da parte di Gimbe, del Piano di Rilancio del SSN, in programma a Bologna venerdì 31 marzo.

SANITÀ E DEMOCRAZIA

Una crisi che Gimbe attribuisce anche ai governi che, negli ultimi anni, sono stati indifferenti ai problemi del Sistema Sanitario. Governi che “oltre a tagliare o non investire in sanità, sono stati incapaci di attuare riforme coraggiose per garantire il diritto alla tutela della salute”. Gravi mancanze che ignorano alcuni pilastri incontrovertibili e cioè “che la sanità pubblica è una conquista sociale irrinunciabile e un pilastro della nostra democrazia; che il livello di salute e benessere della popolazione condiziona la crescita economica del Paese; e che la perdita di un SSN universalistico porterà a un disastro sanitario, sociale ed economico senza precedenti”. Un disastro sanitario che sembra preannunciato e che è stato indebolito, nel corso degli ultimi anni, dall’emergenza del Covid-19 che ha mostrato i punti più deboli del sistema e del settore sanitario sia dal lato dei finanziamenti pubblici – tutti destinati all’emergenza -, sia dal lato dalla gestione dei servizi e del personale, rimasti indietro e spesso dimenticati. D’altra parte, l’emergenza pandemica ha anche messo la sanità sotto ai riflettori – nel bene e nel male – dove è rimasta per poco più di due anni, per poi tornare nel dimenticatoio più malconcia di prima, con gli strascichi della “retorica degli eroi” e le sole promesse sul potenziamento della sanità pubblica.

UNA CURA CHE NON C’È

Oggi i pazienti vivono ogni giorno le conseguenze di un SSN ormai in codice rosso per la coesistenza di varie malattie: imponente sottofinanziamento, carenza di personale per assenza di investimenti, mancata programmazione e crescente demotivazione, incapacità di ridurre le diseguaglianze, modelli organizzativi obsoleti e inesorabile avanzata del privato” tuona il presidente Cartabellotta. Un “sistema malato” che costringe i pazienti a usufruire poco – o a tratti per nulla – di un servizio pubblico a causa di liste di attesa infinite che gli enti territoriali non riescono a smaltire. Attese che si protraggono dalla pandemia, ma che portano conseguenze attuali che vanno dalla migrazione sanitaria – in altre Regioni rispetto a quella di appartenenza – alla spesa per visite e controlli nel privato, fino ad arrivare alla rinuncia alle cure. Rinunce dovute alla lunga attesa del pubblico e alle sempre minori possibilità economiche per accedere al privato. Secondo il recente Rapporto CREA Sanità, nel 2021 la spesa privata è stata in media di 1.734 euro per nucleo familiare, ovvero il 5,7% dei consumi totali. E nel 2020 oltre 600mila famiglie hanno dovuto sostenere spese gravose fino a diventare insostenibili rispetto ai budget dedicati alle spese per la salute, e quasi 380mila famiglie si sono impoverite per spese sanitarie.

FIGLI E FIGLIASTRI

Disagi che derivano da un sistema che non funziona e che si trasformano in disuguaglianze sociali. Lo aveva già reso noto, attraverso i propri canali, il Ministero della Salute che con la pubblicazione dei dati sui LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) aveva documentato “enormi diseguaglianze regionali con un gap Nord-Sud ormai incolmabile, che rende la questione meridionale in sanità una priorità sociale ed economica” ha sottolineato il numero uno di Gimbe. Disuguaglianze sociali, tra nord e sud del Paese, che potrebbero acutizzarsi – denuncia Gimbe – con l’attuazione dei provvedimenti relativi all’Autonomia Differenziata. E disugualianze territoriali che si uniscono ad altre, correlate alla residenza presso aree urbane e non, al sesso, al grado di istruzione e al reddito.

Un Sistema Sanitario, dice Cartabellotta che quindi “garantisce una ‘salute diseguale’ che si riflette anche sugli anni di vita perduti”.

CORSA AL PRIVATO

Elefante nella stanza, infine, il connubio disfunzionale tra sistema pubblico e privato, che si nota nell’offerta delle strutture sanitarie private accreditate, ovvero rimborsate con il denaro pubblico. Lo dimostrano i dati del 2021 per cui risultano private accreditate il 48,6% delle strutture ospedaliere (995), il 60,4% di quelle di specialistica ambulatoriale, l’84% di quelle deputate all’assistenza residenziale e il 71,3% di quelle semiresidenziali. Inoltre, per Cartabellotta “esiste un vero e proprio cavallo di Troia che erode risorse pubbliche dirottandole ai privati” ovvero la congiunzione tra i fondi sanitari e le assicurazioni.

Dopo la denuncia di Gimbe, che va avanti da dieci anni (dal lancio della campagna del 2013 “Salviamo il Nostro Servizio Sanitario Nazionale) ora la Fondazione con il “Piano di Rilancio del Servizio Sanitario Nazionale” del prossimo venerdì a Bologna, coglierà l’occasione per il lancio di un nuovo corso, che possa essere anche un manifesto per le istituzioni chiamate all’intervento.

Il Cibo Ospedaliero.

Quando la cura sembra peggiore della malattia. Il cibo in ospedale può essere buono? Maria Vittoria Caporale su L’Inkiesta il 15 Febbraio 2023.

Continuiamo ad approfondire il tema del cibo ospedaliero descrivendo Crunch, il progetto del Policlinico di Sant’Orsola a Bologna che ha come obiettivo integrare nel percorso clinico assistenziale nuove strategie nutrizionali sostenibili e funzionali alla guarigione

«Fa’ che il cibo sia la tua medicina e che la medicina sia il tuo cibo».

E fin qui niente di nuovo, l’illustre medico Ippocrate di Cos vissuto tra il 460 a.C. e il 377 a.C. aveva già capito tutto: l’importanza e il ruolo centrale dell’alimentazione ai fini della nostra salute e benessere.

Tutto bene se applichiamo questo pensiero alla nostra dieta quotidiana e ai piatti che cuciniamo nella comodità della nostra cucina di casa o che scegliamo di ordinare al ristorante.

Ma perché se veniamo catapultati, per qualunque ragione, in un letto di ospedale, al primo pasto, il cibo, che dovrebbe essere un elemento fondamentale ai fini della guarigione, ci appare addirittura peggiore della malattia stessa?

Domande che effettivamente ci si pone solo una volta calati nella parte alle quali ho cercato alcune risposte da chi si occupa di ristorazione ospedaliera in prima persona come Luisa Zoni, responsabile fino al 2019 dell’Unità Operativa di Nutrizione Clinica nell’Ausl di Bologna e oggi consulente al Tavolo Tecnico dell’Emilia Romagna sulla Sicurezza Nutrizionale (Tarsin), e Ferdinando A. Giannone, biologo e nutrizionista, responsabile del progetto Cucina e Ristorazione Uniti nella Nutrizione Clinica Hospedaliera (Crunch).

Innanzitutto, è sempre più lontano il tempo delle mense interne degli ospedali che, nella maggior parte delle strutture, hanno lasciato spazio ad appalti esterni, sottoposti al controllo da parte dell’ospedale attraverso l’economato, i dietisti o i servizi di dietologia. L’azienda che si aggiudica il contratto relativo al servizio di ristorazione ospedaliera fornisce pasti pronti al consumo che sono quindi preparati in edifici esterni all’ospedale, e, a volte, anche piuttosto lontani.

È con il dietetico ospedaliero, la raccolta di diete a composizione definita realizzate nel rispetto delle linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, che si definiscono il vitto comune – adatto a pazienti che non presentano particolari patologie, ispirato alla stagionalità e alle tradizioni locali, con scelta tra almeno due alternative per portata e piatti fissi – e i vitti specifici per diverse patologie, con possibilità di prescrizione da parte di personale di diete ad personam che prevedono grammature e/o alimenti e/o modalità di allestimento specifiche. Sempre garantendo gli apporti consigliati dai Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana (Larn).

Secondo le linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica: «I pasti erogati devono garantire prioritariamente i requisiti di food safety (sicurezza igienico-microbiologica) e di food security (apporto di energia e nutrienti adatto alle esigenze dell’utente), adeguando al contesto le definizioni stesse, considerandole un insostituibile completamento dei percorsi di prevenzione e cura» e ancora: «Il servizio di ristorazione collettiva deve raggiungere un ottimale livello sia in termini di qualità nutrizionale, che di qualità sensoriale».

Il dubbio è proprio sulla qualità sensoriale. Su che fine fa il gusto.

E qui entrano in campo diversi elementi, primo fra tutti la nostra esperienza pregressa di gusto secondo la quale viene stabilito inevitabilmente un confronto con ciò che troviamo sul vassoio che non lo reggerà, quel confronto. Anche perché non va dimenticato che il vitto stesso potrebbe prevedere preparazioni dalla scarsa espressione gustativa, che partono quindi male in partenza sotto questo aspetto.

La vista è il primo organo di senso coinvolto nell’esperienza perché interviene prima ancora dell’ingestione del cibo. E anche il primo che qui viene deluso, sia perché le pietanze vengono comunque preparate alcune ore prima – perdendo le caratteristiche di una preparazione espressa – sia perché il fattore estetico – che indubbiamente rende il piatto più o meno invitante – non è certo un elemento centrale in questo tipo di ristorazione. Solo l’olfatto, direttamente connesso all’ippocampo – centro della memoria a lungo termine – come il gusto, potrebbe venirci in aiuto nel caso in cui l’odore della pietanza attivi ricordi o stati emozionali di un cibo a noi gradito.

A questo, va aggiunto lo stato d’animo del paziente ospedaliero che, lontano dai propri affetti, dai propri indumenti, dalle routine abituali, costretto a stare in un luogo non familiare, senza punti di riferimento e con pochi stimoli non sarà certo propenso a trovare quel che di buono potrebbe esserci nel piatto. Prenderà quindi parte al rito collettivo di denigrare il pasto ospedaliero a prescindere.

La perdita di elementi gustativi a favore di food safety e di food security è reale, e forse, nella maggior parte dei casi, inevitabile per la natura stessa della ristorazione collettiva – quel settore della ristorazione che consiste nella preparazione e consegna di pasti su larga scala rivolto a comunità di persone – soprattutto nel caso degli appalti.

Quanto incide sul soggetto l’alimentazione del periodo di degenza?

Esattamente quanto incide la nostra alimentazione, spesso non troppo bilanciata, che seguiamo in vacanza, ad esempio. È una parentesi, auspicabilmente breve, che poi ci riporta alla routine di sempre.

Eppure, c’è chi ha accettato la sfida di non lasciar morire il gusto del cibo in ospedale, portando avanti progetti virtuosi che possano dare un valore e un senso all’alimentazione, anche qui.

Crunch è un progetto nato nel 2016 al Policlinico di Sant’Orsola a Bologna: 1.515 posti letto, 40.966 ricoveri ordinari annuali, 6.807 dipendenti. E soprattutto, cucine interne.

Capitanato da Ferdinando A. Giannone, biologo, nutrizionista e responsabile del progetto (all’interno  della struttura di Gestione Servizi & Operation diretta da Diego Lauritano), affiancato da Davide Sarti e Alessandro Guerzoni (assistenti tecnici della cucina centralizzata) e in collaborazione con le dietiste del Dipartimento di Nutrizione Clinica e Metabolismo, è un programma di sperimentazione quinquennale per far conoscere l’importanza del ruolo degli alimenti e dell’alimentazione nella prevenzione e nella terapia, che ha scardinato le procedure di appalto a favore di un controllo interno e diretto della cucina ospedaliera, unendo quindi la clinica alla ristorazione collettiva ospedaliera pubblica.

Crunch ha l’obiettivo principale di individuare nuove strategie nutrizionali nell’ambito del percorso clinico-assistenziale ospedaliero e adeguate pratiche di gestione della ristorazione ospedaliera per un miglioramento di tutta la filiera legata all’alimentazione – dalla materia prima al letto del paziente – permettendo ai cuochi di imparare dai clinici e di essere parte di un sistema che fa percepire loro la responsabilità di prendersi cura di qualcuno attraverso l’atto di cucinare e insegnare ai clinici che la cucina è una risorsa.

Si occupa di formazione e consulenza nel campo della nutrizione clinica applicata e delle più recenti Linee Guida nel campo della prevenzione alimentare, al personale della cucina ed altri operatori sanitari coinvolti in processi specifici (ad esempio personale sanitario, logopedisti…); di formazione e consulenza sulla valorizzazione delle produzioni territoriali tipiche del territorio per un utilizzo in ambito clinico-sanitario partendo dalla cucina e dal servizio di ristorazione del Sant’Orsola; di supporto tecnico professionale alla cucina e sviluppo di ricette e menu innovativi, con particolare riguardo al menu di alcune particolari patologie oltre che del menu vitto comune e della mensa interna; di sviluppo di analisi di fattibilità per preparazioni alimentari innovative a supporto delle singole Unità Operative e anche di supporto alla comunicazione per favorire il trasferimento delle conoscenze in campo nutrizionale all’alimentazione quotidiana.

Il cibo e la dieta sono concepiti come un supporto prezioso alla cura, ecco perché c’è una maggiore attenzione verso il cibo: contribuisce a migliorare, a più livelli, sia il percorso terapeutico che la qualità di vita del paziente. Il periodo di degenza può diventare uno strumento di educazione dei pazienti a un corretto stile alimentare, promuove la qualità del pasto a supporto delle terapie e sviluppa così una cultura del cibo come parte integrante della cura oltre che della prevenzione.

Alcuni esempi? Il pane viene acquistato da un forno locale, senza imballaggio e preparato con farina tipo 2, olio extra vergine di oliva e lievito madre; i menu rispettano la stagionalità, la carne è ridotta al minimo – e non manca mai nel sugo, fresco, del primo piatto della domenica perché siamo pur sempre a Bologna, i legumi sono sempre presenti, e, nel rispetto della tradizione locale, la pasta fresca, in occasione delle feste, è preparata a mano, direttamente nella cucina dell’ospedale.

Crunch dimostra come in ambito della ristorazione collettiva ospedaliera si può agire sì a vantaggio dei pazienti ma anche dell’ospedale.

La corretta gestione di un progetto così complesso lo rende sostenibile dal punto di vista economico con il raggiungimento del rapporto ideale tra qualità e prezzo ma anche perché attraverso il cibo si abbreviano le degenze, generando risparmi.

La sostenibilità è anche ambientale perché la gestione interna delle cucine elimina i costi dei trasporti – generati invece dagli appalti – elimina l’utilizzo di contenitori usa e getta per gli alimenti che lasciano spazio ai piatti in ceramica e riduce nettamente l’utilizzo di imballaggi. Inoltre, riduce gli sprechi, perché le eccedenze, non essendo uscite dall’ambiente cucina, vengono giornalmente donate, grazie a Last Minute Market – una società spin-off accreditata dell’Università di Bologna – ad associazioni beneficiarie.

Buono, sostenibile, educativo: Crunch è un modello senza dubbio virtuoso, una chiamata agli ospedali pubblici.

Ma come tutto – soprattutto tutto ciò che ruota intorno al cibo – anche il cibo che ci si presenta sul vassoio dell’ospedale, soprattutto se frutto di progetti così articolati, ha una storia che va raccontata.

Avrebbero mai avuto un impatto così positivo su di noi, i piatti di nostra nonna, estrapolati dal loro contesto, dalla loro storia, dalle loro modalità di preparazione? No.

E così anche la cucina in ospedale, di cui dal nostro letto non possiamo conoscere nulla, potrebbe acquisire tutto un altro significato.

I Parti.

Gli assistenti alla maternità.

In Italia.

A Brindisi.

A Napoli.

A Roma.

Gli assistenti alla maternità.

«Noi, assistenti alla maternità, boicottate dal mondo ostetrico». Anna Maria Becherini, puericultrice, racconta che in passato ci fu un tentativo di creare la figura della Mother Assistant. Ma nonostante il corso il progetto sfumò. Perché la loro professionalità non fu mai riconosciuta. «In fondo siete colf da sei euro l'ora». L’Espresso il 31 marzo 2023.

Nell'inchiesta Partorirai con Dolore, pubblicata su L'Espresso, è stata messa in luce la tendenza tutta italiana a lasciare sole le donne nella delicata fase del post parto. Le neo mamme, almeno quelle che non sono affiancate dalle ostetriche dei consultori, o seguite privatamente da professioniste dell'allattamento, restano in balia dei propri dubbi, dei propri dolori, della stanchezza fisica e mentale che si accompagna all'evento del parto.

La puericultrice, oggi in pensione, Anna Maria Becherini racconta a L’Espresso come all'inizio degli anni Duemila ci fosse stata una spinta alla creazione di una figura professionale per l'assistenza alle neo mamme, che tuttavia non ha mai preso piede, sconfessata e boicottata dalla politica e dal mondo dell'ostetricia.

Nei primi anni Duemila fu realizzato a Perugia un corso – finanziato dalla Comunità Europea - per la creazione di figure professionali femminili, non sanitarie, denominate Mother Assistant, cioè Assistenti alla Maternità. Il fine era duplice: offrire un'occasione di qualificazione professionale a donne – ragazze più o meno giovani – interessate a entrare nel mondo del lavoro o a rientrarvi dopo esperienze di inattività o licenziamento per promuovere la cultura dell'occupazione; e promuovere la cultura dell'assistenza domiciliare individuale, prima, durante e dopo il parto, ovvero dell'affiancamento alla neo madre nei primi complicati mesi di vita del neonato.

Il corso fu strutturato in 700 ore, la metà composto da lezioni frontali fornite da ostetriche di ampia esperienza, pediatri ospedalieri, antropologi, psicologi, ginecologi, la restante parte di tirocini pratici in reparti nascita, nidi, al domicilio di donne in molti casi in difficoltà, sole o straniere o impreparate, o legittimamente spaventate.

Le aspiranti Mother Assistant furono preparate essenzialmente ad affinare l'attenzione ai bisogni della coppia madre-bambino, a quella del nucleo familiare e furono anche accuratamente formate in merito ai diritti delle madri durante il travaglio, il parto, la scelta del tipo di nutrizione (allattamento al seno o latte artificiale), l'avvio dell'allattamento al seno. La Mother Assistant sarebbe stata «presenza competente e rassicurante» al fianco della neomadre. Un aiuto pratico personalizzato anche nella gestione dell'attività quotidiana di vita: per esempio offrendo un supporto nel disbrigo delle commissioni, organizzazione dei pasti, attaccamento al seno, supporto nelle visite mediche specialistiche, ascolto e consulto psicologico, tramite con il team di medici e infermieri specialisti a fronte di evidenti disturbi fisici e psichici.

L'ordine delle ostetriche ci osteggiò, perché non comprese che la Mother Assistant non sarebbe stata una concorrente, non essendo una figura sanitaria.

Finito il corso, incassata con esame finale la qualifica, il funzionario regionale incaricato di definire i termini economici delle nostre prestazioni, laconicamente, disse che in fondo eravamo colf, magari un po' più competenti, e che sei euro l'ora sarebbe stato il giusto compenso. Fummo lasciate sole, scopo e spirito del corso vanificati. Organizzammo convegni pubblici per promuovere la figura della Mother Assistant e, soprattutto, l'essenza "politica" dell'evento nascita.

Poi, incontrando resistenze e muri, in breve ciascuna prese altre strade.

In Italia.

«Ho partorito due volte: in Italia con urla e dolore, in Francia con rispetto e tutela». Valentina Montalto su L’Espresso il 23 marzo 2023.

Dopo la nostra inchiesta ci ha scritto una giovane mamma che ha avuto due esperienze molto diverse: a Varese l’epidurale le è stata “concessa” con il contagocce, è stata abbandonata con il piccolo nel post parto e zero attenzione una volta tornata a casa. Mentre in Francia, le cose sono andate molto diversamente

Dopo l’inchiesta dell’Espresso sulla violazione dei diritti delle partorienti italiane, riceviamo e pubblichiamo la lettera di Valentina Montalto, che racconta i suoi due parti: il primo avvenuto in un ospedale pubblico del Nord Italia, il secondo a Parigi.  

Quando lo avrai tra le braccia, dimenticherai tutto”. Questa è la tipica frase che viene detta alle madri che osano chiedere in cosa consista esattamente il parto.

A inizio 2021 ho dato alla luce il mio primo figlio. Ricordo perfettamente i dolori e le urla. E penso che li ricorderò per tutta la vita. Soprattutto non dimenticherò mai che l’epidurale è durata solo due ore, a cui se ne sono aggiunte altre due, più tardi, solo perché il ginecologo ha avuto la buona idea di passare e chiedere come stavo. L’ostetrica mi aveva detto che non potevo più averla, altrimenti non avrei sentito le contrazioni. Risultato: quattro ore di epidurale, su 12 ore di travaglio, per partorire un bimbo di oltre quattro chili. Ci ho messo dieci giorni per tornare a camminare. So che non è così per tutti, tra le mie conoscenze ci sono persone che hanno avuto esperienze migliori. L’impressione, infatti, è che, nonostante la possibilità di beneficiare dell’epidurale sia un diritto della donna, nei fatti dipenda dalla volontà dell’ostetrica di turno. Come se mancasse un protocollo condiviso. 

Mi sono tormentata di domande da allora. Non riuscivo a capire e ad accettare il perché di tanta sofferenza per un evento così importante nella vita di una donna. E mi sono sempre chiesta perché non si possa fare altrimenti.

Non credo di avere ancora tutte le risposte. Ma vorrei condividere l’esperienza del mio secondo parto, a Parigi, un mese fa. Non solo per mostrare che delle alternative esistono ma anche e soprattutto perché credo ci sia un gran bisogno di parlarsi. Tutt’oggi una donna non sa a cosa va incontro quando va a partorire. Il parto è tabù. Di conseguenza è impossibile porre le giuste domande. E resta diffusa l’idea che il parto non possa che essere doloroso.

Rispetto all’esperienza italiana, tre sono le cose che mi hanno più di tutte colpita del mio parto in Francia in un ospedale pubblico.

Prima di tutto la piena attenzione umana e la grande competenza medica nell’approcciare una donna che viveva ancora nell’incubo del primo parto. Mi hanno tutti spiegato che avrei avuto l’epidurale nel momento in cui sarebbe iniziato il travaglio e fino al momento del parto. E che avrei potuto regolare io stessa il dosaggio, per adattare l’anestesia alla mia personale soglia del dolore. È stato esattamente così, come da protocollo. Non ho sofferto e dopo il parto ero in piena forma. Niente di più importante per avere la lucidità mentale e le forze fisiche per occuparsi di un neonato. Inoltre, tutta l’equipe medica era al corrente del mio precedente parto e ogni mia richiesta - di chiarimento o assistenza - è stata affrontata con grande attenzione e cura. Un’ostetrica mi ha detto: “In quanto donna, non voglio che tu soffra e farò di tutto per farti affrontare il parto nel modo più piacevole possibile”.

Secondo, l’assistenza del servizio maternità è stata esemplare. Nessuna domanda risultava banale e il personale, la notte dopo il parto, si è offerto di tenere la piccolina, vedendomi esausta dopo cinque ore di pianto della bambina. In Italia, quando ho fatto presente che non avrei potuto prendere mio figlio per allattarlo perché non avevo le forze, mi hanno detto di tenerlo nel letto con me. Non mi ha stupito, purtroppo, la tragica notizia di Roma.

Terzo e non da ultimo, nonostante la carenza di pediatri in Francia, esiste una sorta di consultorio di prossimità (gratuito) che si mette in contatto con tutti i neogenitori per offrire la propria assistenza in merito a questioni come allattamento, monitoraggio del peso o svezzamento. Questo è molto importante, non solo per la qualità del servizio offerto ma perché non ti fa sentire mai sola. Inoltre, per il post-parto, l’ospedale prescrive, e il servizio sanitario rimborsa, un percorso di riabilitazione del perineo. Chi ha partorito sa quanto sia importante, ma in Italia non ne ho mai sentito parlare. Ciliegina sulla torta: l’ospedale mi ha invitata a riempire un questionario di soddisfazione via email, a riprova del fatto che l’attenzione al paziente esiste. Non solo sulla carta.

Non è esterofilia. E so bene che c’è un problema di risorse nella sanità pubblica che non si può risolvere dall’oggi al domani. Ma in base alla mia esperienza, mi pare che intorno al parto ci sia innanzitutto un grave problema culturale da cui deriva una mancanza di protocolli condivisi. È ora di permettere alle donne di operare scelte informate e consapevoli. Per davvero. Non si tratta di un capriccio o di una mera scelta valoriale. Ne va della salute della madre e del bambino.

A Brindisi.

Estratto dell'articolo di Antonio Della Rocca per il “Corriere della Sera” il 26 gennaio 2023.

La Asl aveva archiviato senza muovere alcun addebito il caso di Viviana Delego, la 41enne insegnante di inglese morta il 22 dicembre scorso all’ospedale Perrino di Brindisi dopo avere partorito due gemelli. Ma ora spuntano nuovi retroscena: il ginecologo avrebbe chiesto al primario di Chirurgia generale, Giuseppe Manca, di rimuovere l’utero della donna non essendo lui in grado di eseguire l’intervento.

E ancora: quello stesso giorno, il 17 dicembre 2022, nel reparto di Ginecologia che aveva in carico la paziente, erano assenti sia il primario, sia la sua vice, i quali quella operazione avrebbero potuto farla […]. Un documento che contiene la cronistoria di una mattinata drammatica, terminata con l’isterectomia, […] praticata dal chirurgo nel tentativo di mettere fine a una copiosa emorragia seguita al parto cesareo avvenuto poco prima.

[…] il medico racconta di essere stato chiamato la mattina di sabato 17 dicembre per praticare d’urgenza una isterectomia. A chiedere supporto, come precisa lo stesso estensore del documento, sarebbe stato proprio il ginecologo in servizio nell’unità operativa di Ostetricia[…]. Viviana era arrivata la mattina stessa in ospedale, a causa dell’emorragia cui si era tentato di far fronte con numerose trasfusioni, fino a prosciugare 17 sacche di sangue. […]

[…] Viviana Delego morirà in Rianimazione cinque giorni dopo l’intervento, ma non è dato sapere se le sue condizioni cliniche fossero già seriamente compromesse prima di subire l’isterectomia, tanto da rendere quest’ultima un disperato tentativo di salvare la vita alla donna. Né si possono ipotizzare ora altre responsabilità di qualsiasi natura nella gestione della paziente. Sarà la Procura, eventualmente, a doversi esprimere se la famiglia di Viviana decidesse di presentare un esposto. […]

Francesco Oliva, Lucia Portolano per repubblica.it il 27 dicembre 2022.

Una lettera per ringraziare i medici nonostante la morte della moglie nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale "Perrino" di Brindisi. E una telefonata arrivata da Papa Francesco. La vicenda è quella di Viviana, l'insegnate di 41 anni, originaria di Pezze di Greco (frazione di Fasano) morta giovedì 22 dicembre, subito dopo aver dato alla luce due gemelli: Edoardo Maria ed Emilia Maria. Purtroppo, nonostante tutti i tentativi di tenere in vita la donna, non c'è stato nulla da fare.

 Viviana lascia un'altra figlia oltre ai due gemelli e al marito, Giacomo. Quest'ultimo, nonostante il dolore, ha reagito nel modo più bello scrivendo una lettera per ringraziare i medici "della loro professionalità, impegno e umanità dimostrati". "Viviana era una donna, una moglie, una mamma fuori dal comune - si legge nella lettera diffusa dall'Asl di Brindisi - e mi spiace che non abbiate avuto la possibilità di conoscerla".

"Amava la vita ma soprattutto amava la famiglia tanto da sacrificare la sua vita per darla a due fantastiche creature: Edoardo Maria ed Emilia Maria. In realtà tutte queste sue caratteristiche non moriranno mai. È vero, il normale schema della vita non dovrebbe essere questo. Non è giusto - prosegue la missiva - che due splendidi gemelli non avranno mai la possibilità di conoscere la loro mamma né che una bimba di sei anni (Emma Maria) non possa più abbracciare la sua stella. Ma dietro tutto questo dolore, dietro tutta questa ingiustizia c'è comunque un aspetto positivo".

"Aver conosciuto tutti voi, di cui non ricordo i nomi, ma che per cinque lunghi e speranzosi giorni siete stati gli angeli custodi di mia moglie, della mamma dei miei figli. Aver visto le lacrime nei vostri occhi mi ha fatto capire tutta la vostra umanità e quanto abbiate sudato, studiato per cercare di dare una speranza a Viviana. Purtroppo così come mi avete insegnato, in medicina due più due non fa mai quattro. Sento comunque il dovere di ringraziarvi da parte mia, di mia figlia (che spero possa fare il vostro lavoro) e di tutta la mia famiglia - conclude il marito della donna - per l'impegno, la professionalità e l'umanità che vi rendono dei veri e propri angeli custodi in carne e ossa. Con affetto, Giacomo".

 Dopo la lettera l'uomo ha ricevuto anche una telefonata di Papa Francesco, come raccontato su Facebook da Don Donato Liuzzi che al Pontefice aveva indirizzato un messaggio dopo la morte di Viviana. "Ho sentito nel cuore l’ardire di bussare al cuore di Papa Francesco per raccontare di Viviana e dei gesti di vicinanza del nostro popolo ha scritto su Facebook - Questa mattina il Papa con umiltà disarmante mi ha indirizzato una lettera di vicinanza e nel tardo pomeriggio ha telefonato a Giacomo.Abbiamo sentito il cuore del Pastore attento e sensibilissimo. Ringraziamo il Signore per questa carezza sulla carne umana ferita che Egli viene a salvare. Ringraziamo la maternità della Chiesa, visibile negli umili gesti del Papa. È un Natale che non dimenticheremo mai!".

Sulla vicenda non è stata aperta alcuna inchiesta dall'Asl così come dalla Magistratura e i funerali si sono già celebrati. La donna era arrivata in ospedale circa una settimana prima accusando già malesseri importanti. Considerate le sue condizioni di salute, i medici avevano deciso di operarla d'urgenza facendo nascere i piccoli al settimo mese di gravidanza con un cesareo d'urgenza mettendo poi in atto tutte le procedure mediche per cercare di salvarla. Nonostante gli sforzi dei medici con interventi chirurgici e di terapia intensiva purtroppo la 41enne non ce l'ha fatta.

Cesare Bechis per corriere.it il 27 dicembre 2022.

Viviana Delego è morta la mattina del 22 dicembre all'ospedale di Brindisi. È morta dopo aver partorito due gemelli, un maschietto e una femminuccia. Viviana, insegnante di inglese 41enne di Pezze di Greco (Fasano), nel Brindisino, era arrivata in ospedale con un quadro clinico già compromesso.

 Il parto prematuro, crisi convulsive, distacco della placenta e rottura delle membrane. I medici sono intervenuti d'urgenza con un taglio cesareo, ma una forte emorragia, non compensata neanche dalle venti sacche di sangue trasfuso, ha reso inutili tutti i tentativi di salvarle la vita. I gemellini, invece, stanno bene. Viviana ha lasciato anche un'altra bimba, di sei anni, e il marito, Giacomo Cofano, maitre di sala in un albergo di Fasano. Una tragedia che ha colpito una famiglia bella e perbene proprio a Natale. Eppure, nel dolore che non si può descrivere, proprio il giorno di Natale questa casa colpita dal lutto è stata illuminata da un raggio di luce. Don Donato Liuzzi, il parroco del paese, aveva voluto informare la segreteria del Papa dell'accaduto. E il 25 dicembre Francesco ha chiamato il vedovo.

A che ora è arrivata la telefonata di papa Francesco?

«Esattamente alle 19.20».

 Le era stata preannunciata?

«Don Donato, a cui mi lega un rapporto di amicizia, mi aveva chiesto se ero solito rispondere a numeri sconosciuti. E mi aveva invitato a farlo. Potrebbe arrivarne una dal Vaticano, mi aveva detto...».

 Alle 19.20 squilla il telefono. E lei?

«Stavo rientrando dall'ospedale con Edoardo Maria, il gemellino appena nato, ho risposto e ho sentito: pronto, sono papa Francesco. Mi sono emozionato moltissimo e abbiamo cominciato a parlare. Siamo stati al telefono qualche minuto».

Cosa le ha detto?

«Parole di conforto. Ha compreso la tragedia di una mamma che ha dato la vita per i figli e il dolore che ha colpito la mia famiglia. L'emozione era fortissima, non ricordo le parole precise, sono rimasto stupito dal fatto che abbia pensato a me e trovato alcuni minuti per chiamarmi e rincuorarmi. Giuro, mi sembrava di parlare con una persona cara, con un amico. È stato quasi come una confessione. Ha chiuso dicendomi di essere a disposizione per qualsiasi cosa. Sembra assurdo dirlo con quello che ci è successo, ma è stato un bel Natale. Gli ha dato un senso. Fra l'altro c'è una coincidenza: i gemellini sono nati il 17 dicembre, lo stesso giorno del Papa».

Lei come sta?

«Un'altalena di emozioni, ma bisogna andare avanti. Ho tre figli, la più grande, Emma Maria, ha sei anni, fa la prima elementare, è stata lei a scegliere i nomi dei fratellini».

 Ha già saputo della mamma?

«Sì, le ho parlato io, non poteva farlo nessun altro. Mi sono confrontato con alcuni esperti che mi hanno suggerito il modo di comunicarglielo. Ora sa che la sua mamma è diventata un angelo».

 Ora che farà? Tornerà al suo lavoro?

«No, cambierò vita. Con tre figli così piccoli non posso continuare a fare il maitre, è un lavoro che non agevola la gestione di una famiglia. Voglio essere sempre presente con i miei figli. Appena passato questo periodo mi darò da fare, come sempre. Resterò qui, la mia vita è dove sono nato e cresciuto. Se si vuole, si può fare tutto».

 Lei ha voluto ringraziare i medici del reparto dov' è morta sua moglie. Perché?

«Ho scritto la lettera la stessa notte. Ho voluto ringraziare il personale per aver tentato tutto il possibile per salvare Viviana. So che lo hanno fatto davvero».

Il marito di Viviana Delego, morta dopo il parto: «Ringraziai i medici, ma forse non è stata curata al meglio: farò denuncia». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

La relazione choc del primario: «La situazione era estremamente difficoltosa e il collega non era in grado di trattarla…». La donna era in preda a una fortissima emorragia, ma non erano presenti né il primario né la sua vice e il ginecologo di turno non sapeva procedere all’intervento

«Io avevo addirittura ringraziato i medici e gli infermieri per gli sforzi fatti nel tentativo di salvare mia moglie, poi leggendo il Corriere ho scoperto tutta un’altra verità». Giacomo Cofano, il marito di Viviana Delego, l’insegnante di inglese morta a 41 anni il 22 dicembre cinque giorni dopo aver dato alla luce due gemellini con un parto cesareo, è incredulo. Era convinto che all’ospedale Perrino di Brindisi fosse stato fatto l’impossibile per salvare sua moglie, ma la realtà è diversa. Ed è contenuta in una relazione inviata alla direzione sanitaria dal primario di Chirurgia generale, Giuseppe Manca. Scrive di essere stato chiamato dal ginecologo in servizio il 17 dicembre nel reparto di Ostetricia per effettuare un’isterectomia su Viviana Delego dal momento che il suo collega aveva valutato «la situazione estremamente difficoltosa e non essendo in grado di trattarla…». La donna era in preda a una fortissima emorragia e quel giorno non erano presenti né il primario né la sua vice e il ginecologo di turno, a quanto pare, non sapeva procedere all’intervento. Viviana morì cinque giorni dopo.

Giacomo, si aspettava questo scenario?

«No, per niente. Tra l’altro non avevo ancora letto il giornale e mi ha informato con una telefonata mio fratello che vive a Pescara. Devo fare chiarezza e capire se c’è stato qualcosa che non ha funzionato, non solo negli ultimi cinque giorni ma anche durante la gravidanza. Non è escluso che sia stata trattata con superficialità, ma sono soltanto miei pensieri perché sin dall’inizio sapevamo che era una gravidanza a rischio e andava trattata come tale».

Cosa vuole dire?

«Mia moglie era stata già ricoverata al Miulli di Acquaviva delle Fonti per tre giorni, il 7, 8 e 9 dicembre a causa di perdite ematiche. E poi era ritornata a casa. Di nuovo il 13 dicembre l’avevo portata al Pronto soccorso sempre del Miulli, ma non c’era stato ricovero. Il 17 l’ho ricoverata al Perrino di Brindisi. Devo capire se qualcosa sia sfuggito».

Prenderà qualche iniziativa?

«È assolutamente necessario ricostruire gli eventi attraverso le cartelle cliniche. Vorrei che mi assicurassero che siano stati rispettati tutti i protocolli. Voglio saperlo perché solo così potrò farmene una ragione».

Ha già consultato un legale?

«Sì, l’avvocato Paolo D’Incecco di Pescara».

Cosa farete?

«Innanzitutto una denuncia contro ignoti ai carabinieri, perché aprano un’indagine e verifichino se esistono responsabilità».

Cos’ha provato nel leggere di questa relazione?

«Guardi, avevo trovato una sorta di pace, questa lettura mi ha profondamente smosso, mi ha tirato fuori la rabbia ed è arrivato il momento che io faccia chiarezza su tutto. Devo mettere a posto tutti i tasselli, altrimenti rischio di perdere il controllo».

Come ha raccontato a sua figlia di 6 anni ciò che è accaduto?

«All’inizio non volevo rovinarle il Natale, ma non era la scelta più giusta da fare. Noi siamo in simbiosi e lei capisce quando nascondo qualcosa. Ho preso il coraggio e ho usato le sue parole: la mammina non tornerà più a casa e diventerà un angioletto. Ma a 6 anni lei mi incalza e mi chiede: perché è un angioletto? Le ho promesso che le racconterò tutto al momento giusto. Ora va in prima elementare e la maestra mi dice che è una bimba serena, ciò mi fa stare tranquillo».

Come stanno i gemellini?

«Stanno bene finalmente. Il piccolino l’ho dovuto ricoverare qualche giorno fa per il virus della bronchiolite, ma ora sta bene. Mi rendo conto che la mia più grande responsabilità è proteggerli. Poi racconterò anche a loro della mamma».

Come farà?

«Sto riempiendo una scatola di ricordi conservando tutto ciò che la riguarda. I bigliettini ricevuti, le scatole fatte dai suoi alunni, i ritagli dei giornali, tutto ciò che può ricordarla».

Brindisi, morì dopo il parto di 2 gemelli: la relazione del chirurgo. "Il ginecologo non sapeva operare". L'Asl: "Medico esperto". Francesco Oliva su La Repubblica il 26 Gennaio 2023.

Si riapre il caso di Viviana Delego, l’insegnante d’inglese di 41 anni, deceduta il 22 dicembre scorso all’ospedale Perrino. Il Papa telefonò al marito a Natale. Lui: "Sono ricaduto in un vortice"

C'è una serie di presunte omissioni dietro la morte di Viviana Delego, l’insegnante d’inglese di 41 anni, residente a Pezze di Greco, frazione di Brindisi, deceduta giovedì 22 dicembre scorso all’ospedale Perrino di Brindisi, cinque giorni dopo aver dato alla luce due gemellini con un parto cesareo. I dettagli sono contenuti in un documento (finora secretato) inoltrato dal primario di Chirurgia generale, Giuseppe Manca, alla direzione sanitaria dell’ospedale.

Nelle carte si legge che il medico ha asportato l’utero della donna a causa di una forte emorragia non appena il ginecologo ammise di non essere in grado di eseguire l’intervento. E con il direttore dell’Unità operativa e la sua vicaria che erano assenti. Il documento è stato inviato ai vertici dell'azienda sanitaria il 20 dicembre, dunque due giorni prima il decesso e in un clima di piena tensione per l’evolversi del quadro clinico sempre più grave della donna.

Manca scrive di essere stato chiamato la mattina di sabato 17 dicembre per praticare in urgenza una isterectomia (l’asportazione totale dell’utero). Un supporto, secondo il chirurgo, sollecitato dal ginecologo in servizio nell’unità operativa di Ostetricia dopo che quest’ultimo si era reso conto di “non essere in grado di trattare una situazione estremamente difficoltosa”.

Per le complicanze sopraggiunte i medici erano stati costretti a effettuare più trasfusioni sulla donna.  L’intervento, come evidenziato nel documento dello stesso Manca, era stato motivato “da un’emergenza in paziente con shock ipovolemico da sanguinamento post-partum, dato che il direttore dell’Unità operativa non era in servizio perché fuori sede e la sua vicaria non era presente per malattia”. Assenti sia il primario che la sua vice, con  il ginecologo in servizio non in grado di eseguire l’intervento, stando alle carte. L’unico, peraltro, “al momento responsabile del reparto”.

La paziente in questione ha effettuato un parto cesareo in urgenza su gravidanza gemellare - sottolinea sempre il primario di Chirurgia - e da quel momento ha iniziato a sanguinare in modo incontrollabile, nonostante la terapia medica effettuata, quindi dopo numerose emotrasfusioni il ginecologo ha posto indicazione a isterectomia d’urgenza”. Ecco perché Manca ha voluto dare un senso sulla sua presenza nella gestione di una paziente ginecologica”. Per l’Asl, però, il caso appare già chiuso così come riportato nell’immediatezza della tragedia in un dispaccio in cui si specificava che “erano state messe in atto tutte le procedure mediche, chirurgiche e di terapia intensiva previste nel trattamento di questi gravissimi casi”.

La famiglia

La domanda che si fanno i familiari, però, è chiara: le condizioni di Viviana erano già compromesse prima dell’intervento tanto che l’operazione si doveva effettivamente ritenere l’ultima spiaggia in un contesto già molto grave? Il marito della 41enne, Giacomo Cofano, dice di essere "ricaduto in un vortice in cui credevo di non tornare. Non sapevo assolutamente nulla dell’esistenza di questa relazione. Pensate un po’, è stato mio fratello, da Pescara, a leggere per primo della notizia sui media e a mandarmi un messaggio, chiedendomi se ne sapessi qualcosa. Ma io non sapevo di cosa parlasse e quando ho letto è stata come una doccia gelata. Penso che sia una cosa grave, che questa nota sia comunque uscita per via della situazione. Dovessi andare d’istinto - sono le sue parole - mi sembra come una sorta di ammissione di un qualcosa che non ha funzionato".

La posizione dell'Asl

"L'intervento che si era reso necessario effettuare - si legge in una nota dell'Asl Brindisi - si precisa che la richiesta è avvenuta da parte del ginecologo di turno considerata la complessità del caso clinico. La necessità di intervenire con una gestione chirurgica multidisciplinare si è già verificata in altre circostanze di pari gravità. Il ginecologo cui si fa riferimento, peraltro, è un professionista con trent'anni di esperienza, che ha ritenuto di agire nell’esclusivo interesse della paziente e per garantire una maggiore sicurezza".

"Si fa presente, inoltre, che come previsto dalla Raccomandazione ministeriale n.6, l’unità Gestione del Rischio clinico aziendale, ha acquisito sin da subito gli atti relativi al caso e sono in corso, da parte dei medici legali dell’ufficio, tutte le valutazioni di competenza. Inoltre - continua la nota - si ricorda che la donna era arrivata in ospedale con il 118 già in condizioni critiche. Nella presa in carico della paziente sono state messe in atto tutte le procedure previste nel trattamento di situazioni di estrema gravità. È facile presumere che tutto questo, a distanza di oltre un mese, possa aver riacceso un dolore immenso nella famiglia, a cui l’azienda tutta esprime nuovamente la propria vicinanza".

Brindisi, muore dopo il parto di due gemelli, la Asl : «Ecco cosa accadde». Giacomo, il marito di Viviana: «Ora voglio la verità, lo devo al mio dolore e ai miei figli». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Gennaio 2023

Un nuovo tassello per far luce sulla morte della 41enne di Pezze di Greco Viviana Delego, il 22 dicembre scorso all’ospedale Perrino di Brindisi, cinque giorni dopo avere dato alla luce due gemellini con un parto cesareo. La Asl di Brindisi ha voluto spiegare ufficialmente il motivo della «partecipazione del direttore della Chirurgia Generale all’intervento che si era reso necessario».

«La richiesta - spiegano dalla Asl - è avvenuta da parte del ginecologo di turno considerata la complessità del caso clinico. La necessità di intervenire con una gestione chirurgica multidisciplinare si è già verificata in altre circostanze di pari gravità. Il ginecologo cui si fa riferimento, peraltro, è un professionista con trent'anni di esperienza, che ha ritenuto di agire nell’esclusivo interesse della paziente e per garantire una maggiore sicurezza». Una precisazione che arriva all'indomani di un'altra relazione, in cui si parlerebbe della inadeguatezza del ginecologo che aveva in carico la donna e della necessità, a quel punto, di far intervenire il direttore di Chirurgia generale.

Una verità che ha provocato la reazione del marito della donna: «Voglio che sia accertata la verità su quanto successo a mia moglie - dice - Lo devo al mio dolore, ma anche a quello dei miei figli». Giacomo Cofano non ha dubbi: «Farò quello che ci sarà da fare - dice - non avevo intrapreso nulla. Stiamo solo aspettando di avere tutto in ordine, e quindi la documentazione completa. È mia intenzione capire come effettivamente siano andate le cose. E non solo a Brindisi, ma anche andando a ritroso, e quindi capire l’intera gravidanza. Non mi concentrò solo sulla tragedia di Brindisi. Di sicuro non escluderò nulla. Mia moglie era viva a casa, apparentemente stava bene, ed ecco che ora ho bisogno di conoscere tutto».

Affiancato da «avvocati ed esperti» l’uomo conferma che si rivolgerà all’autorità giudiziaria. «Non so come tecnicamente, se sarà un esposto o una denuncia, ma qualcosa la farò - afferma - nel rispetto del nostro dolore, di quello che stiamo pagando, e ne rispetto dei miei figli prima di tutto. Prima o poi dovrò dare conto anche a loro che mi chiederanno cosa è successo alla loro madre». «Adesso - conclude Giacomo Cofano - sono piccolini, il tempo passa e vorranno sapere. Ed è giusto che il loro papà dica tutto a loro». 

La morte di Viviana ha commosso tutti e ha toccato anche il cuore di Papa Francesco, che saputo del dramma, in segno di vicinanza, telefonò pochi giorni dopo a Giacomo, per dargli conforto.

A Napoli.

Aperte due inchieste. Dall'ospedale: "Vicinanza ai familiari". La tragedia di Angela Brandi, morta a 24 anni dopo le dimissioni dal pronto soccorso: “Sanguinava dal naso”. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2023

L’Asl Napoli 2 nord vuole vederci chiaro sulla morte di Angela Brandi, la ragazza di 24 anni deceduta poche ore dopo essere stata dimessa dal pronto soccorso dell’ospedale Santa Maria della Grazie di Pozzuoli dove era arrivata nel pomeriggio di martedì 24 gennaio in seguito a forti dolori al petto e alla perdita di sangue dalla naso. L’azienda sanitaria guidata dalla direttrice Maria Iervolino ha avviato delle verifiche interne per appurare eventuali responsabilità.

Una inchiesta, dopo la segnalazione dei familiari della 24enne ai carabinieri, è stata aperta anche dalla procura di Napoli con il pm di turno che ha disposto il sequestro della salma e l’esame autoptico per chiarire le cause del decesso.

Angela, che viveva a Licola (Giugliano in Campania) con la famiglia, era arrivata al pronto soccorso dell’ospedale flegreo presentando epistassi, ovvero fuoriuscita di sangue dal naso. E’ stata assistita dallo specialista otorinolaringoiatra che le ha trattate come varici al setto nasale. Dopo la visita la 24enne è stata dimessa ed è tornata a casa. In serata la tragedia: la giovane ha avuto un malore ed è stata riportata al Pronto Soccorso dove però è arrivata già in arresto cardiaco. Nonostante i tentativi di rianimazione da parte dei sanitari, poco dopo è sopraggiunto il decesso.

L’ospedale ha consegnato agli inquirenti l’intera documentazione clinica richiesta e confida negli accertamenti disposti dal pm, esprimendo “profondo cordoglio e vicinanza ai familiari”. Tantissimi i messaggi di cordoglio che in queste ore si stanno susseguendo sui social.

A Roma.

Neonato morto al Pertini, la mamma: «Fu il personale a consigliarmi di tenerlo nel mio letto». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

La denuncia della madre: «Sconcertante. Mio figlio piangeva, fu il personale a suggerirmi di tenerlo nel letto con me»

«Ero distrutta per la stanchezza del lungo travaglio e ho chiesto consiglio a medici e infermieri: mio figlio piangeva spesso e io non sapevo che cosa fare, come calmarlo. Mi è stato suggerito dal personale di turno che, se il bambino avesse pianto, sarebbe stato opportuno tenerlo a letto con me». È il passaggio cruciale della denuncia presentata contro l’ospedale Pertini di Roma dalla mamma, 30 anni, che lo scorso 8 gennaio ha perso il figlio soffocandolo involontariamente con il proprio corpo per essersi addormentata dopo due giorni di insonnia.

 Il suggerimento è da lei considerato legato alla tragedia di cui sono stati vittime lei e il bambino morto 72 ore dopo la nascita: «Il consiglio, abbinato alla pregressa stanchezza, ha posto mio figlio di fronte ad un rischio che si è purtroppo concretizzato», è scritto nell’esposto presentato ieri alla Procura che indaga sul caso. L’accusa è di omicidio colposo, ancora però senza indagati.

La donna, che vive con il marito a poche decine di chilometri dalla Capitale, nell’esposto riporta un episodio da lei definito prima «spiacevole» e poi «sconcertante». È la mattina del 13 gennaio scorso e sono passati cinque giorni dalla tragica morte del piccolo. Alle 10, in casa, squilla il telefonino: è il medico di turno del reparto di Pediatria del Pertini. Motivo? «Mi chiedono chiarimenti per la mia assenza e quella del bambino alla visita (di routine dopo il ritorno a casa di madre e figlio, ndr). Mi hanno pure rimproverata...».

 La donna sottolinea che «la telefonata appare sconcertante per la maniera in cui il personale non ha avuto la delicatezza necessaria per gestire la vicenda». Chiaro il corto circuito all’interno dell’ospedale. Solo alle 13.10 di quel 13 gennaio, cioè circa tre ore dopo la telefonata, la donna riceve un’email dalla dottoressa Camilla Gizzi, in cui il medico, a nome di tutto il personale, si scusa per l’incresciosa situazione.

C’è anche un altro episodio ricordato nell’esposto che getta ulteriori zone d’ombra sul funzionamento del reparto di Ostetricia e Ginecologia: è il 6 gennaio quando il papà del neonato si reca nell’ospedale per stare insieme alla compagna e al neonato. Citofona. A rispondergli è un infermiere. Che comunica al neo papà che lei sarebbe potuta uscire, «lasciando il bimbo in camera se quest’ultimo dormiva». Come rimarca la puerpera, qualora lei fosse davvero scesa, il piccolo sarebbe rimasto «incustodito». E «tale circostanza è del tutto inconferente rispetto al protocollo del rooming in», sottolinea la donna, aiutata nella stesura della denuncia dagli avvocati Alessandro Palombi e Michela Tocci. La coppia ribadisce di aver detto più volte al personale sanitario di avere bisogno di aiuto per sostenere l’enorme fatica e stanchezza, accudendo il bambino al nido durante la notte. Sollecitazione che sarebbe caduta nel vuoto.

La denuncia infine si chiude con una circostanza finora mai emersa su quanto accaduto la notte tra il 7 e l’8 gennaio scorsi: poco prima dell’una la donna racconta di essere stata svegliata, senza preavviso, dal personale sanitario al fine di prelevare il bambino per svolgere l’esame relativo al livello di «iperbilirubinemia neonatale», il cosiddetto ittero, facendo un prelievo di sangue. Il piccolo viene riportato in camera dopo circa un quarto d’ora. La puerpera si addormenta con il figlio in braccio ma pochi minuti più tardi viene scossa con forza dell’infermiera di turno: «Abbiamo portato il piccolo in rianimazione».

Sono minuti di terrore. A un’amica scrive un sms all’1.20: «Mio figlio sta male». Pochi minuti dopo la tremenda notizia viene comunicata alla coppia: «Il vostro bambino è morto».

Il Soffocamento.

Si addormenta mentre allatta, il neonato muore. La mamma era in ospedale, aveva partorito da tre giorni. Indagine per omicidio colposo. Redazione il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Una tragedia inimmaginabile per una mamma che ha appena messo al mondo un figlio. Perderlo nel modo più atroce nel momento più felice della propria vita, a pochi giorni dal parto, schiacciandolo involontariamente con il peso del proprio corpo al termine di una poppata nel letto dell'ospedale dove aspettava di rimettersi in forma per potersene tornare a casa con il suo bambino.

È accaduto nella notte tra il 7 e l'8 gennaio nel reparto di ginecologia del Pertini, nosocomio romano in via dei Monti Tiburtini. Il dramma si è consumato senza che nessuno della struttura sanitaria si rendesse conto di nulla. Per questo adesso la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta e l'ospedale dovrà dimostrare di non avere responsabilità in quanto accaduto. La neomamma non è indagata ed è ancora in stato di choc. Nel tardo pomeriggio del 7 gennaio la trentenne voleva tenere tra le braccia il suo bambino, nato tre giorni prima, qualche minuto in più. E aveva chiesto al personale del reparto di poter restare con il figlio ancora un po' dopo averlo allattato al seno. Ma poi si è addormentata e nel sonno è finita inavvertitamente sul neonato con tutto il peso del suo corpo, soffocandolo. Se qualche infermiera fosse ripassata a stretto giro per riprendere il piccolo e riportarlo al nido, come prevede la prassi, la tragedia forse si sarebbe potuta evitare. Ma così non è stato. Forse per una dimenticanza, forse per la carenza di personale. Per questo gli inquirenti hanno aperto un fascicolo ipotizzando il reato di omicidio colposo contro ignoti. Vogliono verificare se ci sono state carenze nell'assistenza della madre o se il dramma è stata provocato soltanto da una fatalità. Il magistrato ha disposto l'autopsia e presto ascolterà il personale in servizio quella sera. La donna è comunque considerata parte offesa e il sospetto di chi indaga è che sia vittima di un comportamento omissivo o scorretto del personale della struttura sanitaria. Da una prima ricostruzione, sarebbe stata un'infermiera del turno di notte a notare nel letto, soltanto dopo la mezzanotte, il corpo senza vita del bimbo accanto a quello della madre. Sarebbe stato anche praticato un disperato tentativo di rianimazione, ma purtroppo per il neonato non c'è stato nulla da fare. I magistrati della Procura di Roma sperano di ottenere dall'esame autoptico risposte certe su cosa abbia causato il decesso e vogliono capire come mai non è stato rispettato il protocollo, secondo il quale il personale deve sorvegliare le fasi dell'allattamento e provvedere a riportare il piccolo in culla per evitare i danni collaterali del co-sleeping, considerato tra le principali cause di morte dei neonati.

Giovanni Iacoi, candidato di Forza Italia alla Regione Lazio, ha stigmatizzato il problema della carenza di personale in corsia: «Incredibile come il momento più felice del mondo per ogni donna possa trasformarsi in dramma. Mi stringo nel dolore a questa mamma che ha perso il suo piccolo e non posso non rilevare, ancora una volta, come la situazione dei nostri ospedali, in sofferenza per il poco personale, sia da non sottovalutare».

Roma, mamma neonato morto al Pertini: ho chiesto aiuto ma mi hanno detto no. Storia di Redazione Tgcom24 il 24 gennaio 2023.  

La mamma del neonato di tre giorni, trovato morto a Roma all'ospedale Pertini, nel letto in cui la donna lo teneva dopo averlo allattato ed essersi addormentata, interviene dopo il marito e sfoga la sua disperazione: "Sto leggendo le dichiarazioni rilasciate dalla Asl 2 dicono che hanno garantito tutta l'assistenza necessaria, che alle puerpere viene fatta firmare un'autorizzazione a tenere i figli con loro. Bellissime parole, peccato non siano veritiere". "Ho chiesto aiuto e mi hanno detto no", dice.

 "Più volte ho chiesto in reparto di essere aiutata - precisa al  Messaggero - perché non ce la facevo da sola e di portare per qualche ora il bambino al nido per permettermi di riposare, eppure mi è stato detto sempre di no", aggiunge.

"Non è che si giustificassero in qualche modo. Dicevano che non era possibile e basta. E io rimanevo lì a dovermi occupare di tutto. Dovevo allattare il piccolo, cambiarlo, riporlo nella culletta accanto al letto, e ho dovuto farlo anche subito dopo il parto anche se ero sfinita".

La mamma del neonato morto al Pertini: «Ho chiesto aiuto per tre notti di seguito, ma non mi hanno ascoltato».  Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2023.

La procura indaga (per ora) contro ignoti per omicidio colposo. La 30enne: «Mi hanno svegliata nel cuore della notte e portata in una stanza per dirmi che era deceduto, ma non mi hanno spiegato come era successo»

«È come se fosse successo ieri. Ancora sto mettendo in ordine quello che ho passato in quei giorni. Pretendo che sia fatta chiarezza sulla morte del mio bambino». Sono passate due settimane dalla tragedia all’ospedale Sandro Pertini. Anna, un nome di fantasia, non riesce a pronunciare più di tre parole senza che le lacrime le impediscano di andare oltre. Un misto di rabbia e dolore accompagna la giovane donna che abita con la famiglia alle porte di Roma. Mentre la magistratura e la polizia indagano per individuare eventuali responsabilità della struttura sanitaria nel decesso per soffocamento del bimbo che aveva appena dato alla luce, la notte fra il 7 e l’8 gennaio scorsi nell'ospedale romano, la mamma - tramite il suo avvocato Alessandro Palombi, che assiste lei e il compagno - accetta di rispondere ad alcune domande.

Ricorda cosa è successo quella notte?

«Ero ancora molto stanca, piuttosto provata dal parto, dopo 17 ore di travaglio, il 5 gennaio. Ero entrata in ospedale il giorno precedente, avevamo scelto il Pertini perché ero affezionata a questo posto visto che ci sono nata anche io. Per due notti, quella dopo aver partorito e quella successiva, sono riuscita, a fatica, a tenere il bambino vicino a me. Ero stravolta, ho chiesto aiuto alle infermiere, chiedendo loro se potevano prenderlo almeno per un po’, mi è sempre stato tuttavia risposto che non era possibile portarlo nella nursery. E lo stesso è accaduto la notte di sabato. Anzi, mi sentivo peggio dei giorni precedenti. Ho chiesto ancora di prendere il bimbo, non l’hanno fatto. Due notti ho resistito, l’ultima ero davvero affaticata. “Non è possibile”, mi è stato risposto ancora una volta». 

Come stava il bambino fino a quel momento?

«Benissimo, in piena salute. Pesava più di tre chili. Le infermiere mi hanno dato alcune indicazioni su come mettermi sul letto per allattarlo, ma a parte la stanchezza avevo sempre una flebo attaccata al braccio. Mi muovevo con difficoltà. Poi quella notte sono crollata, non ce la facevo proprio. Da quel momento non ricordo più nulla».

Fino a quando?

«All’improvviso, nel cuore della notte, sono stata svegliata dalle infermiere: il bambino non stava più nel letto con me. Senza dirmi una parola, mi hanno fatto alzare e mi hanno portato in una stanza vicina: lì mi hanno comunicato che il bimbo era morto. Non ricordo che fosse presente una psicologa, e nemmeno che mi abbiano dato una spiegazione più approfondita. Di sicuro non mi hanno detto come era successo. A quel punto non ho capito più niente, mi è crollato tutto addosso. Forse sono anche svenuta».

Quando ha appreso la notizia di quello che era successo al piccolo?

«Ho realizzato a poco a poco. Non ricordavo niente di quella notte. Non capisco come sia potuta succedere una cosa del genere: ho chiesto aiuto per tre notti di seguito al personale del reparto in cui ero stata ricoverata (Ostetricia e ginecologia, ndr), non mi hanno ascoltato. Due giorni dopo, il 10 gennaio, ho firmato le dimissioni e sono tornata a casa. Adesso pretendo giustizia». 

Anna, 30 anni, il compagno di 36 - che non sono stati sentiti dai pm - e gli altri familiari non hanno ancora sporto denuncia. «Questo passo non è stato ancora compiuto - spiega l’avvocato Palombi - perché in realtà l’indagine è scattata d’ufficio. Abbiamo massima fiducia nel lavoro dei magistrati». La procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo, gli agenti del commissariato Sant’Ippolito si sono recati nel pomeriggio dell’8 gennaio al Pertini su richiesta della direzione sanitaria: acquisite le cartelle cliniche del bambino e della madre (negativa agli esami sull’assunzione di farmaci), e i turni di servizio di medici e infermiere di Ostetricia dal 4 all’8 gennaio scorsi.

Neonato morto, ospedale sotto accusa. Il papà: "Mia moglie stravolta, aveva chiesto di tenerlo al nido". Test tossicologico negativo. Maria Sorbi il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«La mia compagna arrivava da un travaglio di 17 ore, non si reggeva più in piedi. Aveva chiesto di portare il bambino al nido per riposarsi ma le hanno detto di no. L'hanno abbandonata». È uno sfogo con una precisa accusa quello del padre del neonato soffocato all'ospedale Pertini di Roma nella notte fra il 7 e l'8 gennaio mentre la madre lo stava allattando. La donna, negativa al tossicologico, si è addormentata tenendolo in braccio e probabilmente lo ha schiacciato senza volerlo con il suo corpo.

«Ora vogliamo giustizia anche per le altre mamme e gli altri piccoli» dicono i genitori, distrutti dal dolore inaspettato. La donna, 29 anni, era stremata dal parto ma, per le regole anti Covid, nelle ore successive non aveva nessuno ad aiutarla di fianco al letto, nè parenti nè personale sanitario. I risultati dell'autopsia sul corpicino del bimbo, nato apparentemente sano, arriveranno tra 60 giorni. Sul caso è stato aperto un fascicolo della Procura di Roma contro ignoti: si indaga per omicidio colposo. Gli inquirenti hanno acquisito una serie di documenti in ospedale, compresa la cartella clinica della donna. La Asl Roma 2 precisa che, «come da prassi, ha attivato immediatamente un audit clinico per verificare la correttezza e l'aderenza alle best practice e l'appropriatezza delle procedure, ed ha consegnato alla magistratura tutta la documentazione in possesso al fine di consentire uno svolgimento delle indagini che conduca, il più rapidamente possibile, a ricostruire la dinamica degli avvenimenti e ad accertare eventuali responsabilità». La Asl tiene comunque a sottolineare in una nota che «l'ospedale Pertini è punto di riferimento per la città di Roma»: nel 2022 ha contato «916 parti con un trend in crescita rispetto agli anni precedenti».

Da chiarire se ci sia stata noncuranze nei confronti delle richieste della donna da parte delle ostetriche o no. Il personale sanitario ha lasciato il bimbo nel letto con la mamma seguendo la pratica del rooming-in, «consolidata nel contesto nazionale ed internazionale per sostenere il contatto tra neonato e mamma, sin dalle prime ore dopo la nascita».

Sia l'Organizzazione mondiale della sanità sia l'Unicef promuovono questo modello organizzativo, che permette al piccolo e alla neomamma di condividere la stanza 24 ore su 24. Per questo motivo il rooming-in viene attuato anche nell'ospedale Pertini, dove tutte le puerpere vengono informate dei rischi connessi alla gestione del bambino, venendo peraltro edotte, anche con la sottoscrizione di un modulo, sulle azioni da effettuare per evitare il verificarsi di eventi avversi.

«Quanto è successo al Pertini è un fatto tragico che ha dell'incredibile, la magistratura farà il suo corso perché le concause possono essere diverse: al vaglio degli inquirenti ci sono tutte le ipotesi, starà a loro decidere cosa è effettivamente accaduto» spiega Silvia Vaccari, presidente della Fnopo, la Federazione nazionale Ordini professione di ostetricia. «Non possiamo escludere nessuna causa - evidenzia Vaccari - tanto meno che si tratti di un caso di Sudden infant death syndrome (Sids), o morte in culla, ovvero il decesso improvviso e inspiegabile di un bambino al di sotto dell'anno di età. Lo stabilirà solo il medico legale ad autopsia avvenuta».

Bimbo morto in ospedale. Il padre: “Colpa delle regole anti Covid”. La denuncia del papà del piccolo soffocato a Roma all’ospedale Sandro Pertini: “Nessuno poteva stare con lei”. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 23 Gennaio 2023.

Un bimbo di tre giorni muore soffocato a Roma, nell’ospedale Sandro Pertini, mentre lo stava allattando la madre. E secondo il padre non si tratta affatto di mera fatalità. Egli punta il dito contro le sempre più folli misure anti-Covid nei nostri centri di cura e lancia il suo j’accuse: “Mia moglie dopo il parto era sfinita, ma le hanno portato il piccolo per l’allattamento, sebbene lei non si reggesse letteralmente in piedi. Hanno persino preteso che gli cambiasse il pannolino da sola”. E ancora: “Avevamo scelto il Pertini   perché la mia compagna è nata lì e lì voleva partorire. Ma gliel’hanno lasciato accanto ininterrottamente e con le norme Covid nessuno di noi ha potuto starle accanto. E lei, anche se ha 29 anni, era stanchissima, il piccolo era irrequieto, non l’hai mai fatta dormire. Così ha passato le nottate senza chiudere occhio”. Molte donne, è la denuncia, “sono lasciate sole nei reparti anche a causa delle restrizioni anti-Covid. I protocolli andrebbero rivisti”.

Dai primi accertamenti operati dalla polizia, sembrerebbe che il piccolo sia morto schiacciato dalla madre, la quale è comprensibilmente crollata dal sonno dopo un travaglio di 17 ore. Malgrado ciò anche in questo caso ha prevalso l’ottusa, intransigente battaglia del nostro sistema sanitario contro un virus clinicamente quasi scomparso e che – parole di Giorgio Palù, illustre virologo presidente dell’Aifa – attualmente registra un tasso di letalità cinque volte più basso rispetto a quello dell’influenza stagionale.

Da questo profilo, così come è accaduto a molte giovani vittime dei vaccini pseudo-sperimentali e ai tantissimi morti causati dal ritardo nelle cure di altre malattie, il neonato di Roma allunga l’interminabile lista di decessi determinati dalle più rigide restrizioni d’Occidente. Di fatto possiamo definire il prodotto di questa catastrofe, in parte ancora in atto, come i danni collaterali di una follia che non sembra avere mai fine.

Una follia che ci impone ancora di indossare l’inutile e malsana mascherina per accedere in qualunque ospedale della Penisola (per questo motivo sto procrastinando la mia consueta donazione di sangue, in attesa che il nostro formidabile ministro della Salute si decida ad eliminarne l’obbligo, perché mi rifiuto di subire una tale umiliazione), e che condanna ad una morte evitabile tante, troppe persone, così come pare che sia accaduto al povero bimbo della Capitale.

Ancora una volta bisognerebbe emulare in massa l’esortazione del protagonista del magnifico film Quinto potere, del grande Sidney Lumet, gridando dalle nostre finestre “sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più.” Tutto ciò nella speranza che dagli alti palazzi della politica qualcuno si prenda la responsabilità di mettere la parola fine a questa surreale vicenda, mandando finalmente al macero i citati, demenziali protocolli anti-Covid. Claudio Romiti, 23 gennaio 2023

Neonato morto al Pertini, l'allarme fu dato da una delle mamme. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Sorveglianza carente? Il pm vuole chiarire quali e quanti controlli furono fatti dal personale quella notte. L’avvocato della famiglia: «La prossima settimana arriverà la nostra denuncia»

È stata un'altra mamma, all’una di notte dell’8 gennaio, a lanciare l’allarme al personale sanitario dell’ospedale Pertini. Si era accorta che il neonato, nel letto accanto al suo, rischiava di morire soffocato sotto il peso della mamma, crollata nel sonno per l’estrema stanchezza. L’infermiera è arrivata subito, anche se ormai troppo tardi per salvare il piccolino, nato tre giorni prima. Il fatto che ad allertare il personale sanitario sia stata una paziente, ricoverata nella stessa stanza della tragedia, rappresenta una svolta nell’inchiesta sulla tragedia avvenuta all’ospedale Pertini. Si tratta di una novità che rafforza la principale ipotesi della procura: il piccolo sarebbe morto per la sorveglianza carente da parte del personale medico. A dare sostegno a questa tesi c’è ora una testimone oculare del dramma, che potrà parlare dei controlli lacunosi sulla mamma del piccolo, nei giorni seguenti al parto.

Questa la ricostruzione di quell’attimo fatidico, almeno in base alla testimone. È quasi l’una di notte, quando la puerpera si volta verso la compagna di stanza che stava allattando. Non vede più il neonato. Prova a chiamarla. Ma niente, la mamma non risponde. Allora lancia l’allarme. L’infermiera si precipita. Come la dipendente dell’ospedale scrive nel report, apre la porta e toglie il piccolo da sotto la mamma, addormentatasi per l’estrema stanchezza. Ormai però non c’è niente da fare: il piccolo è morto. I primi riscontri dell’autopsia danno un risultato prossimo alla certezza: il neonato sarebbe spirato perché soffocato, anche se per certificarlo in modo definitivo mancano gli esami istologici che deve finire di svolgere il professor Luigi Cipolloni. Il racconto della testimone sarà il cardine dell’inchiesta.

Alla puerpera che ha dato l’allarme sarà chiesto se ricorda un aspetto: c’è stato o no il rifiuto degli infermieri (riferito al Corriere dalla mamma), di portare il neonato nella nursery come chiesto dalla donna perché spossata dalla fatica, dopo 17 ore di travaglio e due notti insonni? Se il personale medico ha sottovalutato la stanchezza, lo chiarirà l’inchiesta del pm Maria Sabina Calabretta, che indaga per ora senza indagati con l’accusa di omicidio colposo in ambito sanitario. L’indagine è stata avviata su segnalazione dell’Ospedale Pertini, come succede sempre quando muore un neonato. Un particolare ha destato però l’attenzione degli investigatori. L’assenza della relazione dell’anatomopatologo dell’ospedale Pertini chiamato a fare un primo esame sulle ragioni del decesso. La mancanza è parsa un’anomalia che ha fatto sorgere un dubbio: il medico si è dimenticato oppure ha preferito proprio non farlo? Sarà l’inchiesta a chiarirlo. Un punto appare già certo agli inquirenti: la donna ha firmato un protocollo dove si avvertono le mamme sul divieto di dormire con i neonati. Tuttavia in capo al personale rimane l’obbligo stringente di evitare le disgrazie, tra le quali quella di un neonato che può morire soffocato sotto il peso della stessa mamma. «La prossima settimana presenterò una denuncia in procura, documentata con una investigazione difensiva», dice l’avvocato Alessandro Palombi, legale dalla signora. Intanto l’associazione «Mama Chat» lancia una petizione «Basta mamme sole» per chiedere di garantire accompagnatori h24 per le puerpere.

Estratto dell'articolo di Nadia Ferrigo per "la Stampa" il 25 Gennaio 2023.

Ripetuta dieci, cento, mille e ancora mille volte, è una frase che va oltre l'immedesimarsi nello stremo e nella solitudine della neomamma lasciata sola con il suo bimbo di tre giorni, morto soffocato al seno al Pertini di Roma perché lei è crollata per la stanchezza. Non è solo compassione, ma denuncia collettiva e rivendicazione: non è stato un incidente, una disgrazia.

[…] Sarah Malnerich, con Francesca Fiore ideatrice della community Mamma di Merda, dedita a «smontare la retorica della mamma perfetta e lenire i sensi di colpa». «Mia figlia aveva il cordone ombelicale girato intorno alla testa e nessuno se ne era accorto. […]. Dopo un primo giorno in cui hanno tenuto la bambina al nido, me l'hanno portata in camera e non c'è stato verso di farla tenere un minuto in più. Una notte chiamai una puericultrice chiedendole di aiutarmi a prendere la bambina dalla culla per allattarla. Non avevo forze e dolori lancinanti. Mi rispose: "Signora, che cosa si credeva? La maternità è questo: sacrificio"».

Poche ore dopo questo post, i commenti e le storie raccolte dalla community sono già centinaia. C'è che si sfoga con racconti lunghi e dettagliati, che ripercorrono passo passo la degenza, chi riassume quanto vissuto in poche, dolorose, parole. Come Federica di Perna, che scrive: «Quei tre giorni in ospedale sono stati un inferno. Non mi sono mai sentita così umiliata e impotente in vita mia». […]

 «Quando ho letto la storia del bimbo di tre giorni morto soffocato, ho pianto» racconta Martina Strazzeri, mamma di un bimbo nato a Rimini, in pieno Covid. «Dopo un lungo travaglio e un taglio cesareo d'urgenza sono rimasta completamente sola tre giorni, non riuscivo a piegarmi per tirarlo su dalla culla. Quando ho chiamato per chiedere aiuto, mi hanno detto che avrei dovuto impegnarmi un pochino di più, che la culla si chiama "next to me" proprio perché sta vicino. Loro mi hanno fatto una lezioncina di inglese, io non ho chiuso occhio per tre giorni, nel terrore di far cadere o schiacciare mio figlio. Mi hanno preso in giro».

[…] «Non è solo colpa dei tagli alla Sanità. Da queste testimonianze emerge un problema sistemico nell'affrontare la maternità, il dolore e il corpo delle donne – denuncia Malnerich -. La retorica della maternità ci dice che "verrà tutto naturale", che le donne "lo fanno da secoli" e hanno risorse infinite. Il sacrificio, lo sforzo estremo, è dovuto. E se non ce la fai il problema sei tu. Il riposo per una mamma non è concesso, nemmeno dopo il parto. Questa è la retorica patriarcale, che fa danni gravissimi». […]

Estratto dell'articolo di Paolo Russo per la Stampa il 25 Gennaio 2023.

 Il bambino è nato, che la festa cominci. Parenti e amici accorrono in ospedale con fiori e cioccolatini, pensando che sarà una passeggiata. Ma non sempre è così e ce lo ricorda la tragedia di Anna, che al Pertini di Roma ha schiacciato il proprio neonato, Andrea, addormentandosi dopo 17 ore di travaglio e il parto.

Soprattutto in un Paese come il nostro, dove si fa fatica a seguire le puerpere prima, durante e dopo il parto. […] spiega la dottoressa Silvia Vaccaro, presidente della Fnopo, la federazione dell'ordine delle ostetriche.

In Italia sono 20 mila, «ma ne servirebbero almeno altre 4 mila per offrire un'assistenza adeguata alle donne e assistere i neonati nei nidi degli ospedali anziché essere costretti ad affidarli a mamme magari ancora sotto stress per il parto», […]. «All'estero le donne continuano ad essere seguite anche a casa, controllando non solo lo stato di salute del neonato e della mamma, ma intercettando anche qualche eventuale trauma psichico […]».

Ma il nostro Servizio sanitario nazionale, a corto di soldi e personale, ha sempre più difficoltà a offrire cure adeguate alle partorienti, […] Lo dicono i dati di un'indagine a cura del Centro di collaborazione Oms per la salute maternoinfantile dell'Irccs «Bruno Garofolo» di Trieste, […]  Il 44,6% ha avuto già difficoltà ad accedere alle cure prenatali, fatte anche di accertamenti diagnostici e analisi che - quando i tempi nel pubblico si allungano oltre misura - si finisce per dover fare nel privato, pagando di tasca propria. […]

complici le restrizioni imposte dalla pandemia, il 78,4% delle partorienti non ha potuto contare sul proprio compagno in sala parto. Il 36,3% non ha invece ricevuto un supporto adeguato all'allattamento, il 39,2% non si è sentita coinvolta nelle scelte mediche, il 33% afferma di aver ricevuto indicazioni poco chiare dal personale, mentre il 24,8% ha riferito di non essere stata trattata con dignità, con un 12,7% che denuncia persino di aver subito abusi. E se questo è il quadro, non c'è di che stupirsi se a volte la solitudine della puerpera sconfina poi nel dramma.

«Noi, neo mamme stanche e affaticate: lasciate da sole con i nostri bambini appena nati». Simona De Ciero su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Farina (Ostetricia): «Contatto utile, ma ogni caso è diverso»

«Sono una mamma fortunata perché tengo mio figlio addormentato addosso. È vivo ed è sano. Ma sarebbe potuta andare diversamente». Sabrina Zanini, trentunenne torinese, è la mamma di Vittorio Milo, 11 mesi. È una delle tante neo madri di Torino e provincia che hanno deciso di riunirsi in un collettivo spontaneo ed esprimere il loro punto di vista dopo la morte del neonato all’ospedale «Pertini» di Roma in circostanze ancora da accertare ma che stanno facendo discutere l’opinione pubblica. Il piccolo sarebbe stato lasciato da subito in stanza con sua madre, e sarebbe morto mentre lei — esausta dopo travaglio e parto — si era addormentata. «Come ogni donna, nel post parto sono stata lasciata da sola con il mio bambino, sia di giorno sia di notte. Le puericultrici passavano la mattina a pesare il piccolo e a medicare il cordone — racconta Sabrina— . Passava un’infermiera a prendere temperatura e saturazione a noi mamme, e questo avveniva sia di giorno sia di notte. Passava il pediatra a visitare il piccolo, e una volta al giorno passava una signora a chiedere cosa volessimo per pranzo e cena. Le ostetriche passavano a controllare l’attacco al seno del bambino, e accorrevano quando chiamate». Secondo la signora Zanini, però, questo non basta. 

«Ricordo che non vedevo l’ora di essere dimessa per tornare a casa e dormire; perché in ospedale è quasi impossibile, specie se, oltre il tuo, ci sono bambini che piangono e mamme in travaglio nelle stanze vicine. La privazione del sonno, è una cosa terribile». Sabrina parla di una profonda e perenne stanchezza e «di un senso estremo di solitudine pur cercando di fare del mio meglio per stare accanto al mio bambino, allattarlo tutte le volte che lo desiderava e tenerlo vicino a me. Come mi avevano spiegato di dover fare durante il corso preparto: allattarlo a richiesta e tenerlo come me nel letto di notte». E così spiega di aver fatto. «Anche se facevo fatica a stare in piedi e a camminare per i punti del cesareo. Anche se non mangiavo da 36 ore e forse non ero lucidissima. Anche se, come tutte le altre mamme (Vittorio Milo è nato in pieno periodo pandemico, ndr), non avevo la possibilità di vedere il mio compagno per qualche minuto al giorno: ricevere un abbraccio, un aiuto o un po’ di sostegno, anche solo per mangiare qualcosa senza il mio bimbo in braccio». E aggiunge: «Sono stata fortunata. - Sarebbe potuto succedere anche a me, di addormentarmi e di schiacciare il mio piccolo». 

Come lei la pensa anche Valentina Viecca, madre di Raul. «Chi tiene i corsi preparto e le ostetriche, incoraggiano senza mezze misure il rooming-in (contatto pelle-pelle ndr) perché fondamentale per la crescita emotiva del neonato, alla base di un sano rapporto madre-figlio e della buona partenza dell’allattamento — precisa — una necessità ribadita così tante volte, che le neo mamme spesso si sentono in colpa e perse se ciò non può avvenire. È successo anche a me, che non ho potuto tenere Raul da subito a causa di complicazioni che hanno reso necessario il suo ricovero in terapia intensiva». Valentina Viecca e le altre mamme torinesi però non se la prendono con la sanità pubblica, almeno non direttamente. «Non stiamo dicendo che ostetriche e infermieri facciano il proprio lavoro senza giudizio e amore — prosegue Valentina — ma sono pochi rispetto alle partorienti e ai bambini. Il sistema non dovrebbe prevedere che le neo mamme rimangano sole per giorni a gestire il piccolo dopo il parto; è una questione culturale che deve cambiare per accettare e sostenere anche gli aspetti più scomodi della maternità, e lasciarsi alle spalle quel racconto retorico e che ci vuole unicamente felici». 

Così la vede anche Lucrezia Cerutti che ha partorito Margherita un anno fa, con cesareo d’urgenza e che «completamente stordita da emozioni, stanchezza e soprattutto dalla morfina. Dopo essere stata sgridata da un’infermiera perché non avevo cambiato il pannolino quasi per tutto il giorno, ho capito che non ero lucida e così, invece di chiedere aiuto mi sono fatta togliere la flebo di morfina, preferendo il dolore alla paura di far del male a mia figlia. Per tre giorni siamo state sempre da sole in stanza, io e lei, in un letto singolo, alto e senza sponde, con una cicatrice dolorante che mi limitava i movimenti, con la pressione bassissima e tutta l’insicurezza di quei primi momenti». 

Daniele Farina, a capo del Dipartimento ostetrico ginecologico di Città della Salute sostiene che il roaming-in sia «senza dubbio una buona cosa ma ogni situazione è a se stante e le mamme, specie in un periodo complesso come questo in cui la presenza dei caregiver è molto limitata, devono essere trattate con la giusta cura da parte nostra che abbiamo l’onore di partecipare al momento neonatale, tanto bello quanto complesso e faticoso». Insomma, i comportamenti estremi sono sempre sbagliati, anche se hanno buone radici. Intanto Torino non è l’unica città in cui le donne si stanno mobilitando per sollecitare un cambiamento culturale legato al post partum ospedaliero che molte definiscono «violenza ostetrica». A provarlo, le oltre 110 mila firme raccolte in pochi giorni online. 

Cittadine (in)consapevoli. Il mito della maternità e la tragica realtà del sistema sanitario nazionale. Alessia Centioni su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

La gravidanza non è un momento magico da raccontare come se fosse una favola: è un eccezionale sforzo fisico e mentale che ha bisogno di servizi di assistenza e di cura adeguati e pagati dalle tasse

La notizia della mamma che ha perso il suo neonato addormentandosi su di lui dopo l’allattamento ha colpito l’opinione pubblica. È una tragedia e sappiamo quanto le tragedie dove di mezzo ci vanno i bambini colpiscano la sensibilità di tutti. Per le madri invece c’è sempre la gogna morale. Assia Neumann Dayan ha scritto un pezzo perfetto, condivisibile anche nelle virgole che porta alla luce il grande equivoco sulla gravidanza e la maternità. Concepita ancora come “dono”, vissuta da molte madri che leggono libri sbagliati come fosse una lezione di yoga acrobatico, un’occasione per sperimentare pratiche naturalistiche. 

La realtà è che gravidanza e maternità sono state impacchettate con una serie infinita di stronzate, più verosimili alle credenze che alla medicina. Assia Neumann Dayan tocca un punto centrale quando parla di tasse, quelle pagate da noi donne ma dimenticate quando sperimentiamo il Servizio sanitario nazionale e altri servizi (?) del welfare. Ma andiamo per ordine.

Le visite ginecologiche ogni due settimane per nove mesi: fanno diciotto, minimo, a cui si aggiungono varie analisi. Tra queste analisi, i test del DNA fetale per scoprire possibili malformazioni del feto non rientrano nelle nostre tasse. Come se scoprire malformazioni del feto non sia poi necessario cara mamma, potrebbero esserci sofferenze supplementari che valgono il “dono” della maternità. Le scoprirai a tempo debito.

Oggi, in Italia, circa cinquantamila donne in gravidanza richiedono ogni anno il test del DNA fetale, pagando cifre comprese fra 300 e 700 euro. Bene per chi può permetterselo, e le altre? Scopriranno il “dono” il giorno del parto perché il Sistema sanitario nazionale non include il NIPT fra gli esami gratuiti.

Ritornando alle visite ginecologiche, ci fosse un medico, dico uno che ti informi sulle possibilità che possono avverarsi durante il parto, delle possibili complicazioni per te e il bambino o dei possibili interventi che subirai. Poi ti ritrovi su quel lettino, dolorante, distrutta nel corpo e nella mente e all’improvviso, se ce la fai ancora a tenere la testa su, vedi apparire una grande siringa, delle grandi forbici e in un attimo sei tagliata e ricucita. Un dolore cane, che si aggiunge ad altri ma guai a lamentarsi, devi soffrire. Alla fine non è niente di che. Sentire quel dolore profondo per settimane che ti farà tremare di paura anche solo lavarti, non è nulla cara mamma, puoi sopportare. 

Quando chiedi al medico spiegazioni sul perché non ti abbia informata sull’episiotomia ti senti rispondere: «non volevo spaventarla signora». Ma come non voleva spaventarmi? Non mi informa? State raccontando una fiaba a una bimba o state informando una paziente? Qual è la considerazione avete delle donne? Come siamo trattate? 

Siamo trattate come bambinette cui si racconta il mito della maternità, un mito che per definizione è privo di basi scientifiche ma pieno di omissioni a sostegno della narrazione di un mistero che tu madre scoprirai poco a poco e a tue spese. Invece no! Siamo pazienti che pagano le tasse e hanno il diritto di essere informate, di scegliere e di mettere limiti al sacrificio fisico che non siamo obbligate a sopportare e che al contrario deve essere alleviato con tutti gli strumenti di cui la medicina dispone. Sul rooming-in e allattamento è stato già detto tutto. 

Invece sulle terapie e l’assistenza post parto non è stato detto nulla dai ministri della Salute. In molti paesi europei, Belgio e Francia per citarne alcuni, nei giorni post parto la paziente riceve la visita di una fisioterapista che valuta lo stato fisico generale, del pavimento pelvico e del bacino, entrambi sconquassati. Riceve un appuntamento per iniziare le sedute nelle settimane successive e la aiuta a rimettersi in sesto. Il costo della fisioterapia è accessibile e rimborsato dal Servizio sanitario nazionale. 

Dopo il parto, quando rientri a casa disponi della possibilità di avere un’ostetrica a domicilio per otto settimane che aiuta te e il bambino, ti aiuta ad abituarti alla tua vita con il bebè, ti rassicura, ti guida, ti assiste. Prova a farti respirare mentre continui a perdere sangue per settimane, il seno ti esplode, i capezzoli sono lividi. Anche questo servizio è economicamente accessibile e rimborsato dal Servizio sanitario nazionale.

Se volessimo rendere il nostro Paese un Paese normale, se volessimo smettere di dire idiozie sull’inverno demografico e sull’essere genitori, se prendessimo seriamente la vita e il funzionamento dello Stato per come sono senza immaginarlo attraverso false credenze, la negligenza e l’ignavia mascherate da ideologie e inutili studi di associazioni militanti, inizieremmo a pensare la gravidanza e la maternità per quello che sono. Un eccezionale sforzo fisico e mentale che ha bisogno di servizi di assistenza e di cura adeguati. 

Inizieremmo a sostenere le spese per le cure per la fertilità, per la fecondazione assistita e in vitro. Metteremmo a disposizione protocolli di diagnosi e cure più efficaci per l’endometriosi e la vulvodinia. Finalmente smetteremmo di pensare al post parto come si trattasse esclusivamente della dieta più efficace che c’è per perdere quei chili di troppo (tanto c’erano pure prima), smetteremo di aspettarci e di convincerci che la gravidanza sia un “dono” bellissimo, ci baseremmo sulla scienza invece che su libricini mistici, esigeremmo cure e prestazioni sanitarie civili. Voteremmo chi sostiene che la buona sanità può cambiarci la vita e chi vuole investire nel Servizio sanitario nazionale. 

Noi donne per prime, dovremmo dopo migliaia di anni, appropriarci della narrazione del corpo femminile, maternità inclusa e pretendere di più, pretendere di essere curate e non riempite di stronzate. Dovremmo esigere che una donna che abortisce, una che partorisce e un’altra ancora che toglie una ciste ovarica non stiano nello stesso reparto. 

Dovremmo smettere una volta per tutte di sentirci fragili, vittime, fortissime wonder women capaci di tutto, e iniziare semplicemente ad essere CITTADINE che esigono informazioni precise, cure e servizi di alta qualità. Essere madri non è un “dono” magico da babyshower, perché quando lo scarti, trovi tante soprese che non ti aspettavi e forse non avresti voluto.

Restiamo vive. L’inganno del “rooming-in” e tutte le cose che non ci hanno detto prima di partorire. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta il 24 Gennaio 2023

L’ipocrisia della maternità senza problemi, anche per sopperire alla carenza di personale nei reparti maternità

Non è fantastico poter partorire in sale ospedaliere che fanno uso dell’aromaterapia? Vogliamo poi parlare di quando ci sono anche le luci biodinamiche per la cromoterapia? Che dire poi del parto in acqua, della musica in filodiffusione, del contatto pelle a pelle prolungato, della rava, della fava. Non è forse questo il migliore dei mondi possibili? La scienza esatta, l’avanguardia, l’evoluzione della medicina, tutto splendido, poi però capisci che il progresso non conta un cazzo perché a contare è solo la fortuna. Un neonato è morto soffocato al terzo giorno di vita perché la mamma si è addormentata mentre lo stava allattando.

È successo a tutte di addormentarsi col bambino nel letto: lo so io, lo sapete voi, lo sanno i vostri mariti, lo sanno le ostetriche, lo sa pure il primario, lo sanno tutti, ma noi abbiamo avuto fortuna, lei no. Il marito della donna ha detto che lei aveva chiesto di poter riposare, di poter lasciare il bambino al nido qualche ora, ma non è successo. E questo è quello che succede a tutte, perché non è un’eccezione, ma la prassi. Il buon senso viene sostituito dall’ideologia per diventare poi, di fatto, un abuso.

I nidi ospedalieri non ti aiutano, il neonato lo devi tenere con te anche la notte, perché adesso c’è il rooming-in perpetuo: sapete mamme, è meglio per l’allattamento al seno, per creare un legame madre figlio, sceme noi che abbiamo sempre pensato che nostro figlio ci avrebbe amato comunque, anche con il latte artificiale, anche da riposate.

Nella Dichiarazione congiunta OMS/UNICEF del 1989 dallo splendido titolo “L’allattamento al seno: protezione, incoraggiamento e sostegno. L’importanza del ruolo dei servizi per la maternità” possiamo leggere: «Il contatto tra madre e figlio, che si realizza sia a livello epidermico che visivo immediatamente dopo la nascita, dovrebbe continuare offrendo alla madre la possibilità di tenere sempre il bambino con sé. La pratica del rooming-in dovrebbe quindi sostituire quella di tenere madre e figlio in camere separate e a contatto soltanto durante “visite” programmate. La prima pratica presenta una serie di importanti vantaggi: per esempio, facilita il crearsi di un legame affettivo, rende possibile l’allattamento al seno tutte le volte che il neonato sollecita nutrimento e permette un contatto più stretto con il padre e gli altri familiari». Immagino che tutti i figli che hanno ammazzato i genitori abbiano usato come attenuante al processo la mancanza di un legame affettivo con la mamma per colpa dell’assenza di rooming-in, no?

Non sono un medico, ma possiamo supporre che prima o poi un legame con questo neonato si creerà, o vivremo per sempre ignorate e malvolute? Tanto succede lo stesso, quindi possiamo anche dormire due ore, no? Le mamme che quindi chiedono aiuto alle ostetriche, puericultrici, infermiere per tenere il bambino stanno compromettendo qualcosa? Non vogliono bene al loro bambino? Il meglio però arriva sul finale: «Il rooming-in può essere gestito in vari modi, in base alla struttura dell’ospedale o del reparto di maternità. Il principio fondamentale è consentire alla madre libero e facile accesso al neonato grazie alla sua vicinanza fisica, sia che il piccolo divida il letto con lei, traendo così molti importanti vantaggi, sia che si trovi in un altro letto posto nella stessa stanza». Possiamo smetterla di dire in continuazione «ma lo dice l’OMS!»? Dai, smettiamola.

Ho letto un numero importante di articoli di professori stimati, pediatri luminosi, riviste illuminate sull’importanza del tenere il bambino sempre vicino, sempre, mentre nemmeno una riga sul: se siete stanche, se non ce la fate, chiedete aiuto al personale ospedaliero, perché pagate le tasse. Ecco, noi dobbiamo smetterla di berci tutte le stronzate che ci vengono dette. Dobbiamo smetterla ancora prima che ci vengano dette. Essere madre ti dà sempre un vantaggio nell’era dove l’identità vale tutto, dove tutte possiamo fare gli editoriali sui quotidiani anche perché abbiamo un figlio: non serve essere un medico per capire che anche se dorme tre notti al nido il bambino ti vorrà bene, non serve essere un medico per sapere che anche se gli dai il latte artificiale non succede niente, non serve essere un medico per capire che una donna dopo aver partorito deve dormire.

Nessuno sa quantificare il dolore del parto: una volta ho letto che bisogna pensare alla rottura in contemporanea di tutte le ossa del corpo. Questa è un’idea vaga, perché una donna si fa anche venti ore di travaglio, il che vuol dire rompersi tutte le ossa per venti ore di seguito. E anche lì, secondo me non rende l’idea. Capite anche voi che dopo esservi rotti tutte le ossa ogni cinque minuti per 24 ore dovete dormire, no? E allora quello che succede negli ospedali cosa diventa? Diventa accanimento, tortura, buttar via le mie tasse, violenza, abuso. Poi il capitolo delle manovre vietate durante il parto che vengono fatte lo stesso, delle epidurali negate, nelle episiotomie a sorpresa lo apriamo un’altra volta, ma va aperto.

Io vorrei che qualcuno, ad esempio, mi avesse parlato dei morsi uterini: non del parto in acqua (dove non puoi farti fare l’epidurale, perché sa signora, coi tubi è un casino, lasci perdere l’epidurale, nuoti nel suo sangue che fa bene alla pelle), non della possibilità di usare oli essenziali alla citronella, non della palla su cui sedersi durante il travaglio: perché nessuno mi ha detto che dopo aver partorito avrei continuato ad avere le contrazioni? E non posso nemmeno dormire? Eh signora, poi sarà peggio a casa, meglio che si abitui, non avrà davvero pensato che fosse facile? E nessuna di noi risponde mai, e invece bisogna iniziare a farlo, perché lì siamo sole, perché credetemi, avere un brutto carattere aiuta a sopravvivere.

E allora anche basta berci la stronzata della maternità come santità perché partoriscono pure le gatte, iniziamo a pretendere che i reparti maternità funzionino, che i corsi preparto non siano dei ted sull’allattamento al seno, sulla diade speciale madre figlio, sull’epidurale che è meglio di no perché siamo donne e ce la possiamo fare, sul cesareo no che è brutto e cattivo, e iniziamo a parlare delle nostre tasse e di come i nostri soldi vengono spesi. Il rooming-in anche notturno risponde a una mancanza di organico ospedaliero, perché non possiamo davvero pensare che la spiegazione sia che se no non si crea un legame affettivo tra madre e figlio. I nostri figli ci ameranno lo stesso, noi ameremo loro, ma per succedere dobbiamo rimanere tutti vivi.

Non ho mai partorito, ma…Il dramma del metodo scientifico nel facinoroso mondo dei social. Guia Soncini su L’Inkiesta il 25 Gennaio 2023.

Il neonato morto in ospedale ha fatto emergere plotoni di picchiatelli che su Twitter e Instagram praticano epistemologia identitaria, mistica della maternità e se-non-sei-madre-non-puoi-capire

Non ho mai partorito, ma una volta, alle quattro di mattina, una neurologa che mi stava per fare una tac mi disse che lei non lo sapeva ancora, se avessi avuto un ictus, ma comunque non avrebbe potuto applicare il protocollo perché, acciocché sia efficace, quel protocollo di cura va somministrato entro tot ore, che erano più di quelle lungo le quali infermieri e dottori mi avevano mollata nella sala d’attesa del pronto soccorso.

Non ho mai partorito, ma alla vigilia d’un intervento (in clinica privata) per l’endometriosi ho detto all’anestesista (donna) che non volevo la spinale (mio padre era anestesista, e la sua storia del terrore preferita era la paralisi se ti sbagliano la spinale: grazie papà, tu sì che hai saputo lasciarmi i tabù giusti). Un attimo prima che entrassi in sala operatoria, la stronza è venuta a insistere, eh ma sennò poi devo farle più morfina, ma mi faccia la morfina e si faccia i cazzi suoi – che adesso lo dico perentoriamente ma lì singhiozzavo come chi è nella posizione di debolezza di una che ha paura pure dei prelievi di sangue e stanno per aprirle la pancia.

Non ho mai partorito, ma ho nel telefono dei filmati di una delle volte in cui sono stata in un pronto soccorso, nessuna delle quali per fortuna per cose letali. Ho dei filmati perché non c’era campo telefonico ma c’era il wifi (grande metafora di non so bene cosa), e agli amici preoccupati mandavo filmini della gente mollata assieme a me in una specie di deposito corpi non diagnosticati, molti (corpi) dei quali urlavano ininterrottamente.

Siete mai stati in un pronto soccorso? Urlano tutti, e nessuno fa quel che, se non sei mai stato in un pronto soccorso, ti sembra normale e naturale fare se qualcuno già malato urla: accorrere.

Medici e infermieri non accorrono perché sanno che sono falsi allarmi? Forse, ma poi ci sarà l’uno su mille che ha una vera emergenza (e pure se non ce l’ha: una volta una signora dall’apparente età di centoventi anni ha urlato che voleva l’acqua così a lungo che se ci ripenso mi sale la sete e l’angoscia e la voglia di prendere a schiaffi l’infermiera che poco più in là chiacchierava di linee di autobus con un’amica passata a trovarla).

Non accorrono perché se non hai tre dita di pelo sullo stomaco come diavolo fai a stare in mezzo a gente che sta male tutto il giorno e a non farti venire l’esaurimento? Forse. Mio padre, quando da piccola a cena mi lamentavo di qualcosa, rispondeva: che vuoi che sia, oggi abbiamo operato uno col cancro, l’abbiamo aperto e richiuso – e lo diceva col tono con cui io riferisco che Glovo mi ha portato il pranzo freddo.

E quindi questo non è un articolo sulla tizia il cui neonato è morto perché la mistica della maternità è persino più pervasiva di quella della bellezza, non lo è perché quel che c’è da dire sulle responsabilità del sistema l’ha già scritto Assia Neumann, ma soprattutto non lo è perché io non sono abbastanza sensibile da pensare al bambino morto: io penso alla madre viva, a una madre che ha per distrazione ucciso il figlio, al plotone di psicologi che spero le abbiano messo intorno, a una tragedia che persino Euripide o Sofocle avrebbero qualche remora a immaginare.

Non ho mai partorito, ma non è per questo che non parlo di come sarebbe meglio accudire le madri. Anzi, vi dirò: questa deriva dell’epistemologia identitaria non è la soluzione, è il problema.

Ormai siamo abituate, e quindi quasi non ci fa impressione la diffusa modalità per cui è autorizzato a parlare solo chi ha subìto il problema. L’altro giorno ho visto un filmato in cui una militante dell’Instagram sosteneva che se sei contrario all’aborto ti basta non abortire. Sotto, commenti d’entusiasta condivisione di questa miseria dialettica.

Non sarebbe un problema (il mondo è sempre stato costituito più da gente inabile dialetticamente di quanto lo fosse da Christopher Hitchens), non fosse che a quella militante lì la tv dà uno spazio per dire la sua sull’attualità, che per quella militante lì le case editrici stanno facendo un’asta per farle rilegare i suoi penzierini e farne un’intellettuale, una filosofa, una che legittimamente può sentirsi pensatrice di professione, una di quelle che gli americani chiamano pomposamente published author. Una che fa il mio stesso mestiere, che il dio del fare fatturato purchessia fulmini gli editori.

Quindi, se una troppo scema per capire che chi è contro l’aborto pensa si tratti di assassinio, e per questa metà della popolazione dire «e allora non farlo» è come dire che non servono leggi contro la pedofilia, «se sei contrario, non scoparti i bambini», se una così è una che io dovrei considerare interlocutrice alla pari, non è che possiamo prendercela con le disgraziate qualunque.

Disgraziate qualunque che ieri, a commento del dibattito sul neonato morto e le ostetriche stronze e le madri stanche e il sistema che non funziona, twittavano elogi ai loro ginecologi che ammettevano di non sapere niente del parto essendo (orrore) maschi che non l’avevano «vissuto per esperienza diretta».

Se non scartassi molti interventi social pensando «ma questo può essere un articolo» (e molti articoli pensando «ma questo può essere un libro»), avrei risposto alla signora che l’epistemologia identitaria, ovvero l’idea che il ginecologo conosca ciò che ha vissuto e non ciò che ha studiato, ci ha portate fin qui: alla mistica della maternità, del se-non-sei-madre-non-puoi-capire, dell’allattamento al seno che guai se non lo fai, come vivessimo nella foresta e al neonato servissero anticorpi a infezioni che il Napisan e gli antibiotici non conoscono.

Non ho mai partorito e non ho mai voluto figli, ma solo per caso non mi è capitato quel che accade a molte (saltate queste righe se la vostra identità di madri è una vocazione religiosa): d’innamorarmi di uno che i figli li vuole, e di assecondarlo.

In quel caso sono però abbastanza certa di come sarebbe andata, con la sicumera che ho quando non sono sul tavolo operatorio: li avrei adottati. Questo nella migliore delle ipotesi: ho un’amica di buoni studi e apparente equilibrio psichico che è quasi morta di parto perché, nonostante si sapesse che aveva molti problemi, il marito ci teneva troppo che il figlio avesse il suo dna per optare per l’adozione. Sì, in questo secolo.

Nell’ipotesi in cui anch’io fossi stata accondiscendente come la mia amica, e ridotta quindi alla gestazione, poi però cesareo e latte artificiale. Invece di pensare che la qualità della vita delle madri la faccia lo stipendio alle casalinghe, iniziamo a pensare che non è normale, nel ventunesimo secolo, farsi squarciare le innominabilità da quattro chili d’essere vivente e farsi sanguinare i capezzoli per nutrirlo. Si è sempre fatto così? Eh, si è anche sempre andati a cavallo e morti di vaiolo: ci si evolve.

Però. Però a me piacerebbe dire, come dice Eugenia Roccella, «Non credo che le donne siano deboli» – ma mentirei, considerata la mia amica che quasi muore perché il padre del feto vuole il sangue del suo sangue e le piume delle sue piume, considerate quasi tutte le donne che osservo da tutta la vita.

Credo invece che le donne siano abituate a considerare la debolezza uno strumento seduttivo, e che quindi i figli vengano lasciati con una madre esausta sì perché le linee guida sono una puttanata (ho solo dodici parole per voi: ma voi ve lo ricordate come l’Oms ha gestito la pandemia?), sì perché sono appunto esauste, ma anche per la ragione per cui le donne non chiedono più soldi al datore di lavoro: perché preferiscono essere benvolute che averla vinta. L’ha scritto ieri Assia, ed essendo mitomane sono convinta l’abbia capito osservandomi: il brutto carattere ti salva la vita (e il fatturato).

Sì, lo so che non posso liquidare l’Oms in quella parentesi. Lo so che c’è un problema di valutazione del principio di autorità, che nei secoli scorsi era dato dal fatto che i medici erano quelli che avevano studiato, e noi eravamo quelli che zappavano la terra e non avevamo gli strumenti culturali per metterli in discussione. In questo, di secolo, c’è stato un carpiato del dibattito culturale: siamo quasi tutti laureati, e tutti terrorizzati di dire che i medici sono incapaci. Un po’ perché la categoria è stata santificata dai sacrifici-fatti-durante-la-pandemia (cioè: dall’aver fatto né più né meno che il suo lavoro); un po’ perché nessuno vuole sembrare il picchiatello laureato all’università della vita che pensa di saperla più lunga di chi ha studiato la materia. Ma la materia sua l’ha studiata anche Orsini: nell’epoca in cui la laurea è più diffusa dei tatuaggi, mi pare evidente che non basta a certificare alcuna competenza (una laurea italiana, poi: un paese dove 30 può prenderlo anche uno che non conosce l’ortografia).

Oltretutto, diversamente dall’ingegnere che se progetta un ponte che poi crolla è proprio asino, il medico procede per tentativi: i metodi di cura cambiano nel tempo, e anche questo è un problema comunicativo. Meno di un anno fa l’ostetrica a capo del Royal college of Midwives si è scusata perché la linea-guida che pretendeva meno parti cesarei (negli ospedali inglesi fare più parti naturali faceva crescere la valutazione della struttura) aveva preso una deriva ideologica, non ti facevano il cesareo neanche se era l’opzione più sicura, e ne erano ovviamente derivati casi così agghiaccianti che non sto a descriverveli.

Il metodo scientifico è prendere una decisione, vagliarne i risultati, cambiare idea. Il metodo social è dire «no ma noi non abbiamo mai detto che i vaccini non vi avrebbero fatti ammalare», come gli archivi dei giornali non fossero a disposizione di tutti, perché ammettere che la medicina è una scienza inesatta – e che un vaccino progettato in tre quarti d’ora lo scopri vivendo che limiti ha, e cara grazia se ti evita di crepare – non appare una linea spendibile nell’epoca dei picchiatelli saperlalunghisti.

E quindi?, chiederanno coloro che non mi hanno mai letta e pensano di trovare risposte, oltre alle domande, in questo prolisso sproloquio. E quindi io mica lo so come se ne esce. So come non se ne esce: invocando epidurali fuori orario come se non servissero soldi per assicurarle (la polemica e le campagne elettorali, nel tempo che viviamo, sono due passatempi accomunati dal fatto che chi le fa non tiene mai conto del fatto che le risorse sono una quantità limitata). E so che per fortuna non ho mai partorito. Per fortuna ho sempre avuto un carattere così brutto che nessuno si è intestardito a volerlo far ereditare alla sua prole. Per fortuna, per il brutto carattere, non serve allocare un budget.

Infettati.

Cardiochirurgia pediatrica, 6 morti sospette per infezione: gli ispettori al Giovanni XXIII. Bari, blitz in reparto dopo lo stop agli interventi. La verifica della Regione è partita dall’esposto dei genitori di una bimba deceduta a 5 mesi. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Gennaio 2023

Nei quattro anni tra il 2018 e il 2022 al «Giovanni XXIII» di Bari ci sarebbero stati sei decessi a seguito di infezione da Klebsiella e stafilococco. Ad accomunare i sei casi ci sarebbero due circostanze: i piccoli pazienti sono tutti stati sottoposti a un intervento di cardiochirurgia pediatrica, e sono poi transitati dalla Terapia intensiva. Il sospetto - tutto da verificare - è che l’«ospedaletto» non avesse implementato protocolli per il controllo delle infezioni.

La scorsa settimana il Policlinico di Bari, da cui dipende il «Giovanni XXIII», ha annunciato la sospensione dell’attività di cardiochirurgia. E sabato gli ispettori della Regione hanno fatto un vero e proprio blitz all’ospedale pediatrico, per acquisire documentazione utile a completare l’indagine straordinaria chiesta dal governatore Michele Emiliano al Nirs guidato dall’avvocato Antonio La Scala.

Non è un segreto la situazione esplosiva che si è creata negli anni al «Giovanni XXIII» tra il direttore della Terapia intensiva, Leonardo Milella, e il direttore della cardiochirurgia Gabriele Scalzo...

L’Illecito Finanziamento.

Salute e Assistenza. Sanità, al Sud migliorano le cure ma la mobilità arricchisce il Nord. Dal 2012 al 2021 cinque Regioni del Sud hanno speso per i "viaggi della speranza" quasi 11 miliardi, che sono finiti nelle casse del Nord: si alimenta così il meccanismo che relega il Mezzogiorno in serie B. VINCENZO DAMIANI su Il Quotidiano del Sud il 21 Gennaio 2023.

Dal 2012 a 2021, cinque Regioni del Sud (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Abruzzo) hanno speso per la mobilità passiva, i cosiddetti “viaggi della speranza”, oltre 10,8 miliardi di euro: soldi che sono finiti nelle casse del Nord, principalmente Lombardia (6,1 miliardi) ed Emilia Romagna (3,3 miliardi), ma ci hanno guadagnato anche Toscana (1,3 miliardi) e Veneto (1,1 miliardi).

LA RISALITA DEL SUD

Così si è autoalimentato il perverso meccanismo che ha portato il sistema sanitario a spaccarsi in due tronconi, non garantendo al 40% della popolazione italiana gli stessi livelli di prestazioni. Soldi che, in sostanza, hanno finanziato gli ospedali lombardi, emiliani, veneti, toscani, andando a sommarsi alle risorse derivanti dall’iniquo riparto del fondo sanitario che premia, manco a dirlo, sempre il Nord.

Tutto questo nonostante negli ultimi dieci anni siano state le Regioni del Mezzogiorno a migliorare i loro conti e la qualità dell’assistenza: l’analisi impietosa è della Corte dei conti, che ha trasmesso al Parlamento la relazione sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali.

«I risultati delle Regioni in piano di rientro – si legge nel report – sembrano relativamente migliori e mostrano una riduzione da 2,1 a 0,7 miliardi di euro dei disavanzi dei servizi sanitari tra il 2012 e il 2020, con qualche segnale di peggioramento nel 2021, e indicherebbero un positivo sviluppo gestionale, già maturato con la spending review 2012-2019».

Le Regioni in piano di rientro sono quasi tutte del Sud, tranne il Lazio. Solamente nel 2020, le Regioni in piano di rientro hanno ridotto il disavanzo sul 2019 del 59% circa, quelle non sottoposte a piano di rientro del 34% e le Autonomie speciali (esclusa la Sicilia, inserita tra le Regioni in piano di rientro) del 19%. «Il risanamento finanziario – evidenziano i magistrati – inoltre, non sembra essere avvenuto a scapito dei Lea, migliorati costantemente almeno fino al 2019, tranne limitate eccezioni».

MOBILITÀ PASSIVA, UN BUSINESS PER IL NORD

In definitiva, nonostante il sottofinanziamento dei sistemi sanitari regionali del Mezzogiorno, nonostante una mobilità passiva che porta altri miliardi al Nord, il Sud ha ridotto il proprio deficit, riuscendo persino a migliorare la qualità dell’assistenza e delle cure. Passi in avanti importanti ma, ovviamente, con poche risorse finanziarie a disposizione restano «ancora significative le differenze geografiche nei servizi territoriali, come quelli per le cure palliative ai malati di tumore, il numero di anziani non autosufficienti in trattamento socio-sanitario e l’assistenza domiciliare integrata» si legge sempre nella relazione della Corte dei conti.

La mobilità passiva si è trasformata quindi in una sorta di business per il Nord, che ha potuto così alimentare ulteriormente le proprie casse. I pazienti si sono trasformati, indirettamente, in un “affare”. Una situazione che si è incancrenita per colpa anche del criterio della spesa storica applicato al riparto del Fondo sanitario nazionale.

I numeri, certificati sempre dalla Corte dei conti in un altro documento, parlano chiaro e sono a prova di smentita: dal 2012 al 2017, nella distribuzione del fondo, sei regioni del Nord hanno aumentato la propria quota, mediamente, del 2,36%; altrettante regioni del Sud, invece, già penalizzate perché erano beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno.

Significa che, nel periodo dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

LA CRESCITA DEI DIVARI

Ecco come è lievitato il divario tra le due aree del Paese: «Le politiche di finanziamento dei sistemi sanitari – evidenzia la Corte dei conti – condizionano l’accessibilità alle cure, la qualità dei servizi e la stessa efficienza dell’organizzazione del sistema sanitario. Il tema del finanziamento del Servizio sanitario nazionale costituisce, dunque, momento fondamentale della problematica connessa alle esigenze di tutela della salute, in virtù dello stretto legame tra l’effettività di tale diritto, costituzionalmente garantito, e le risorse disponibili e investite per renderlo concreto e sostenibile».

Tutto questo ha un solo riflesso: la spesa pubblica sanitaria pro capite è sbilanciata in favore del Nord. Infatti, nel 2019, tutte le regioni del Mezzogiorno, a esclusione del Molise, hanno avuto una spesa pro capite inferiore alla media nazionale, pari a 1.961 euro. Fanalino di coda è la Campania con 1.820 euro, segue la Calabria con 1.868 euro, poi il Lazio (1.875), Sicilia (1.884), Puglia (1.888), Basilicata (1.902). Al contrario, quasi tutte le regioni del Nord hanno una spesa pro capite superiore alla media: Liguria 2.132 euro, Friuli Venezia Giulia 2.129, Valle d’Aosta 2.096 euro, Emilia Romagna 2.067 euro, Toscana 2.032 euro, Lombardia 2.000. Fa eccezione il Veneto con 1.941 euro, superiore alle regioni del Mezzogiorno ma lievemente inferiore alla media nazionale.

Nel biennio 2020-2021 la spesa sanitaria è risultata in aumento, soprattutto in virtù degli effetti pandemici. L’Italia, nel complesso, continua, tuttavia, a spendere meno dei partner europei, pur reggendo il confronto nell’efficienza. «Le maggiori risorse impiegate nella sanità – scrivono i magistrati – hanno interrotto il trend decennale di contenimento della spesa nel settore, con prospettive di ritorno ai livelli pre-pandemia, ma sono ancora ampi i divari tra le Regioni».

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

I Medici.

Falsi.

Impuniti.

Omissioni.

Carenza.

Speculazioni.

Il Fallimento.

Falsi.

Estratto dell'articolo di Matteo Politi per ilgazzettino.it 22 Agosto 2023

Arrestato a Marghera Matteo Politi, il falso chirurgo estetico ricercato in mezzo mondo: lavorava in un hotel. Oggi, martedì 22 agosto, a Marghera i carabinieri del Nucleo Investigativo di Venezia hanno arrestato Matteo Politi, il 43enne veneziano ricercato tramite mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria romena per l’espiazione di 3 anni e 4 mesi di reclusione. 

I reati contestati sono quelli di truffa e falsificazione di documenti: l'uomo avrebbe esercitato in maniera abusiva la professione medica in Romania.

Secondo la magistratura romena, tra il marzo e il dicembre 2018, l’uomo si sarebbe finto medico estetico. Nove le vittime indotte a credere alla sue competenze di medico specialista in chirurgia plastica estetica. 

Una volta tratto in arresto l’uomo, le cui ricerche si erano spinte fino ad Hong Kong, i carabinieri hanno allertato il Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia per le comunicazioni con gli organismi esteri e, su disposizione dell’autorità giudiziaria, lo hanno condotto presso il carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia, in attesa delle procedure di estradizione. L’autorità giudiziaria romena aveva disposto l'arresto dell’uomo, che si era allontanato dalla Romania nel 2022.

Aveva la terza media e si spacciava da 15 anni per chirurgo estetico, ingannando Usl ma anche clienti stranieri come ad Hong Kong e in Romania, paese che ha emesso un mandato di arresto europeo eseguito oggi dai carabinieri di Venezia […]

Estratto dell’articolo da “il Giornale” 23 Agosto 2023

È finita la fuga del falso chirurgo estetico che aveva ingannato pazienti e aziende sanitarie, in Italia e all’estero, per anni. Matteo Politi, 43 anni, aveva la terza media ma da 15 anni si spacciava per chirurgo estetico, ingannando aziende ma anche e soprattutto ricchi clienti stranieri, arrivando ad esercitare, senza nessun titolo, anche a Hong Kong e in Romania. 

Proprio in Romania il suo caso era venuto alla ribalta, con la magistratura che dopo alcune denunce lo ha processato e condannato per truffa e ha emesso un mandato di arresto europeo. Politi, che nel frattempo aveva cambiato il suo nome in Luigi, era stato segnalato a Honk Kong o comunque in Oriente, invece è stato trovato ieri mattina a Marghera, vicino a Venezia, dove gli uomini del Nucleo investigativo dei Carabinieri lo hanno arrestato mentre si trovava in un albergo dove aveva trovato lavoro sotto falso nome.

Il mandato di arresto europeo emesso dall’Autorità Giudiziaria romena, prevede per il finto chirurgo una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione dopo la condanna definitiva in quel Paese per i reati di truffa e falsificazione di documenti. Eppure Politi, per anni, è sempre riuscito a farla franca. Nel nostro Paese e in giro per il mondo, il falso medico ha avuto in cura di centinaia di pazienti raccontando a tutti di essere un esperto in «cosmetic and aesthetic medicine».

Non solo, le sue capacità truffaldine gli hanno permesso di convincere delle sue capacità i dirigenti di ben sei strutture sanitarie in quattro diverse regioni. Nonostante fosse denunciato per esercizio abusivo della professione, non si era mai fermato, mettendo parzialmente nei guai anche un suo omonimo, lui però realmente medico e totalmente estraneo alla vicenda. 

[…], dopo il blitz, è stato portato in carcere in attesa che venga sbrigate le procedure relative all’estradizione in Romania dove sconterà la sua condanna.

Laura Tedesco per corriere.it 23 Agosto 2023 

«Matteo non ha mai fatto mistero di voler fare soldi senza fatica, diceva: “Voglio diventare ricco come Paperon de’ Paperoni”. A guadagnare uno stipendio di 800 euro al mese non ci pensava proprio. O meglio, 800 euro sì, ma in una sola serata... ». 

Gli studi abbandonati

È una vicina di casa a sintetizzare così il «Politi-pensiero»: abita nella palazzina dove i carabinieri hanno arrestato il veneziano che per 15 anni è riuscito a operare come medico estetico in Europa, Cina e Usa senza essersi mai laureato, e lo sentiva «ripetere di non volere la vita di lavoro e fatica che hanno fatto i miei genitori». 

In effetti, prima di reinventarsi «doctor Matteo Politi-Matthew Mode», il 43enne si è ritagliato altre cento-mille vite dall’unico comune denominatore: sfondare. E pensare che la sua primissima esperienza nel mondo del lavoro, dopo aver abbandonato anzitempo gli studi all’Itis di Mestre, lo vide impegnato in carrozzeria.

Ma nei suoi sogni c’era la tv: il giovane e capellone (all’epoca aveva una folta chioma lunga) Matteo era attratto dalle telecamere e partecipava a tutti i provini. Uomini e Donne, Ciao Darwin, L’Arena: nel 2006-2007 Politi, che è nato nel 1980, si è candidato come aspirante tronista alla trasmissione di Maria De Filippi, ha preso parte come figurante allo show di Paolo Bonolis, ha partecipato come comparsa al programma di Massimo Giletti. Puntava già a diventare famoso, ma la grande occasione non arrivò dalla televisione. Allora il tenace Politi non si demoralizzò e si concentrò sull’altra sua grande aspirazione: diventare medico.

[…] riuscì con l’aiuto di un falsario ad appropriarsi dell’identità di un medico salentino dal nome quasi identico, Matteo Vincenzo Politi. Iniziò così la vita di «dottore»: nel 2009 aprì un centro estetico a Verona dove effettuava iniezioni di botulino e acido ialuronico, tramite una cooperativa riuscì anche a lavorare in alcuni ospedali del Nord Italia, tra cui Bussolengo e Isola della Scala nel Veronese. Nel 2010 fu scoperto dopo la denuncia di una vigilessa e patteggiò a Verona 16 mesi per truffa con pena sospesa […] 

Dopo i guai veronesi si persero (ufficialmente) le sue notizie fino al 2018, ma lui nel frattempo si era reinventato un’altra delle sue tante vite: altra nazione, altro nome. Lo ritroviamo infatti a Bucarest, nuovamente con il camice di medico estetico, stavolta come «doctor Matthew Mode».

[…] quando nel 2019 lo arrestarono dopo aver scoperto che non era un vero medico, Politi collaborava con 4 cliniche private nella capitale romena dov’era considerato uno specialista nelle plastiche al seno. […] «Era solo molto lento -osservarono le infermiere al processo -. Per sostituire una protesi basta un’ora, lui ne impiegava quattro..». 

[…] Prima di essere condannato, ha fatto il presentatore, inciso un singolo, organizzato raccolte fondi per bambini disabili. Ultimamente faceva tutorial, dava consigli come influencer nei social, stava perfino girando un «film sulla mia vita». Fino al mandato d’arresto e alla (falsa) «fuga»... nella sua casa a Marghera.

Era ormai famoso in Romania. Chi è Matteo Politi: arrestato il finto chirurgo che operava senza essere medico

Aveva provato a sfondare in televisione, non c'era riuscito. Aveva aperto una clinica senza nessun titolo. Operava in Italia e all'estero, era diventato un di vip in Romania. Pensava a un film sulla sua vita. Redazione Web su L'Unità il 23 Agosto 2023 

Per anni si è finto chirurgo plastico senza esserlo: non aveva alcun titolo per esercitare la professione eppure ha fatto imprecisate operazioni tra l’Italia e altri Paesi stranieri tra Europa, Cina e Stati Uniti. Una vicenda da film insomma. È diventata virale la storia di Matteo Politi, 43enne di Mestre, arrestato martedì a Marghera. Su di lui pendeva un mandato di arresto europeo. Per le accuse di truffa e falsificazione di documenti legati all’esercizio abusivo della professione di medico Politi era stato condannato in appello a tre anni e quattro mesi a Bucarest, capitale della Romania.

Che Politi non fosse davvero un medico era emerso già in Italia nel 2010: una donna aveva denunciato l’uomo perché insoddisfatta di un intervento di chirurgia estetica. Politi aveva studiato all’Its a Mestre, aveva abbandonato e lavorato in carrozzeria. Aveva provato a partecipare a tutta una serie di trasmissioni televisive ma non era mai riuscito a sfondare né a convincere ai provini.

Aveva aperto nel 2009 una clinica a Verona, faceva soprattutto iniezioni di botulino e acido ialuronico. Aveva cominciato tramite una cooperativa anche a lavorare in alcuni ospedali del veronese. Si scoprì che l’uomo aveva la terza media e che esercitava la professione usando l’identità di una persona con un nome simile al suo ma realmente iscritta all’albo dei medici. Con l’aiuto di un falsario si era appropriato dell’identità di un medico salentino quasi suo omonimo. Fu processato per falso e sostituzione di persona, patteggiò a un anno e quattro mesi con pena sospesa.

La nuova indagine in Romania partì nel 2019 e il sedicente chirurgo venne arrestato in attesa del processo. L’indagine scoprì che il 43enne aveva ricominciato a esercitare abusivamente in almeno quattro cliniche private di Bucarest e che si faceva chiamare “Doctor Matthew Mode”. Era considerato uno specialista nelle plastiche al seno. Alcune infermiere che lo avevano affiancato nelle operazioni testimoniarono sulla sua inadeguatezza professionale. Anche lì, come in Italia, la maggioranza delle pazienti si disse tuttavia soddisfatta dei risultati. Non è chiaro come e dove e quando Politi abbia imparato.

Il caso ha avuto rilevanza nazionale in Romania dove Politi ha fatto anche delle comparsate in televisione, il presentatore e ha pubblicato una canzone nel 2020. Ultimamente dava consigli da influencer sui social e stava girando un film sulla sua vita. Quando è stata emessa la condanna in Appello a Bucarest, Politi non è stato arrestato perché non si trovava in Romania. Il suo avvocato ha raccontato a Il Corriere della Sera che dall’inizio dell’anno il suo assistito si trovava in Veneto e che lavorava in un hotel a Mestre. Da martedì si trova in carcere a Venezia, dovrebbe essere estradato in Romania. E in effetti un film, da tutta questa storia, qualcuno potrebbe tirarlo fuori.

Redazione Web 23 Agosto 2023

Finto chirurgo dei vip con la terza media, il 43enne arrestato aveva rubato l'identità a un medico salentino. La rocambolesca storia di Matteo Politi, che per 15 anni si è spacciato come chirurgo estetico con una clientela illustre da mezzo mondo. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Agosto 2023

Aveva la terza media e si spacciava da 15 anni per chirurgo estetico, ingannando Usl ma anche ricchi clienti stranieri, fino ad arrivare a Hong Kong e in Romania, postando foto da 'palestrato' sui social media. Ma nel paese balcanico la magistratura ha puntato gli occhi su di lui, lo ha processato e condannato per truffa e ha emesso un mandato di arresto europeo. 

L’attività medica di Matteo Politi, 43 anni - che nel frattempo aveva cambiato il suo nome in Luigi, di fatto rubando l'identità a un medico salentino, vero chirurgo e in servizio a Modena - è finita a Marghera (Venezia), dove il Nucleo investigativo dell’Arma di Venezia lo ha scovato e lo ha ammanettato, in esecuzione del mandato di arresto europeo emesso dall’Autorità Giudiziaria romena, per l’espiazione di 3 anni e 4 mesi di reclusione dopo la condanna definitiva in quel Paese per i reati di truffa e falsificazione di documenti. 

Nel suo peregrinare dall’Italia in mezzo mondo, Politi si è preso cura di centinaia di pazienti asserendo di essere un esperto in 'cosmetic and aesthetic medicine' ed è riuscito a convincere delle sue capacità i dirigenti di sei strutture Usl di quattro regioni diverse. Si era fatto chiamare anche Matthew Mode, e in Romania era diventato una celebrità arrivando a trattare clienti vip di mezzo mondo. Era stato anche denunciato per esercizio abusivo della professione, ma questo non l’aveva fermato mettendo in difficoltà tra l’altro un suo omonimo, lui sì vero medico ma estraneo alla vicenda. Si era 'fatto' un nome di prestigio nel campo e lo ha saputo vendere alle cliniche di molti paesi esteri, con una fama avvalorata anche da falsi attestati. Ma qualcosa non quadrava ai colleghi romeni, veri medici che hanno allertato l’autorità giudiziaria del loro paese, che ha così aperto le indagini e il processo per truffa. 

Le vicende finite in tribunale a Bucarest riguardano un periodo di tempo tra il marzo ed il dicembre 2018. Sempre fingendosi medico chirurgo estetico, Politi avrebbe ingannato nove persone qualificandosi come uno specialista in chirurgia plastica. Avrebbe inoltre utilizzato un nome contraffatto e sarebbe riuscito infine a eseguire interventi in cinque strutture sanitarie a Bucarest, ottenendo profitti per decine di migliaia di euro. 

Ricercato per queste truffe e la conseguente condanna, aveva fatto perdere le proprie tracce, ma i Carabinieri di Venezia hanno scoperto che il medico con la terza media aveva era finito a trovare impiego in una struttura alberghiera a Mestre. Qui il blitz ha preso forma, e Politi è stato portato in carcere, in attesa delle procedure di estradizione. 

Impuniti.

Estratto dell’articolo di Maria Sorbi per “il Giornale” il 7 marzo 2023

Il burnout, lo stress permanente sul lavoro, colpisce il 52% dei medici e il 45% degli infermieri che lavorano nei reparti ospedalieri di medicina interna, quelli che da soli assorbono un quinto di tutti i ricoveri in Italia. […] 

Si calcola che gli errori in corsia siano 100mila l’anno. A fornire la fotografia di medici e infermieri è la survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di oltre duemila professionisti sanitari. Sia per i medici sia per gli infermieri, l’incidenza di stress è più del doppio tra le donne […]

«L’influenza del burnout sulle malattie professionali è un fatto oramai acclarato dalla letteratura scientifica», afferma Francesco Dentali, presidente Fadoi. «Il rischio di infarto del miocardio e di altri eventi avversi coronarici è infatti circa due volte e mezzo superiore in chi è in burnout, mentre le minacce di aborto vanno dal 20% quando l’orario di lavoro non supera le 40 ore settimanali salendo via via al 35% quando si arriva a farne 70. Evento sempre meno raro con il cronico sottodimensionamento delle piante organiche ospedaliere» aggiunge Dentali.

[…]Uno studio condotto dalla Johns Hopkins University School of Medicine e dalla Mayo Clinic del Minnesota ha rilevato almeno un errore grave nel corso dell’anno nel 36% dei camici bianchi in burnout. Percentuale che proiettata sul totale dei nostri medici da un totale di oltre 20mila errori gravi. 

Discorso analogo per gli infermieri. Qui una serie di studi internazionali raccolti dalla Fnopi, la Federazione degli ordini infermieristici, stima siano addirittura il 57% gli errori clinici più o meno gravi commessi nell’arco di un anno. Dato che applicato sul numero degli infermieri dà altri 71.500 errori in fase di assistenza per un totale di almeno di 92mila, […]

La ricerca Fadoi contiene però anche un positivo e inedito rovescio della medaglia: sia la stragrande maggioranza dei medici che quella degli infermieri «sente di aver affrontato efficacemente i problemi dei propri pazienti». «Il lavoro sanitario ai tempi del burnout nuoce tanto alla salute dei cittadini che a quella di medici e infermieri» commenta a sua volta il presidente della fondazione Fadoi, Dario Manfellotto. […]

Le cause contro i medici stanno facendo a pezzi la sanità. In otto casi su dieci finiscono in un nulla di fatto. Ma le conseguenze economiche sono importanti, tra costi per i contenziosi ed esami inutili prescritti per ragioni “difensive”. Roberta Grima su L'Espresso il 14 Giugno 2023 

Sono 300.000 le cause per colpa medica, 35.000 ogni anno le richieste di risarcimento per danno biologico (compreso il decesso). La maggior parte dei casi denunciati riguarda l’attività chirurgica (38,4%), gli errori diagnostici (20,7%), terapeutici (10,8%) e le infezioni ospedaliere (6,7%). Un fenomeno in costante crescita, eppure oltre l’80% delle cause finisce in un nulla di fatto, che però pesa sulle casse dei contribuenti 22,5 miliardi di euro l’anno, il 15% della spesa sanitaria annuale.

Una cifra che riflette la difficile situazione del sistema, tanto da condizionare l’attività assistenziale nella pratica della medicina difensiva. Si tratta di prestazioni in più che i camici bianchi erogano per timore di contenziosi, generando un incremento della spesa sanitaria pari a 10 miliardi di euro, lo 0,75% del Pil e il 10% del fondo sanitario nazionale, incidendo sui costi della sanità per l’11%.

Le liti

Un corto circuito del sistema al quale si è cercato di porre rimedio con la legge Gelli-Bianco del 2017. «La norma prevede – spiega l’avvocato Renzo Lancia – che il medico risponda del proprio operato all’azienda sanitaria di appartenenza e non al cittadino che invece dovrà ricorrere contro l’ente e non contro il professionista, a meno che non abbia stipulato un contratto con lui. L’onere della prova è a carico del cittadino che ritenendosi danneggiato dal medico deve portare una prova del presunto nesso causale tra il danno subito e la colpa del professionista. Infine, è esclusa la punibilità del medico che abbia rispettato le linee guida vigenti».

Va detto tuttavia che le linee guida non sempre sono aggiornate o esistono in relazione a tutte le patologie. Il medico rischia di trovarsi di fronte al bivio se scegliere di seguire le linee guida tutelandosi da eventuali atti giudiziari o adottare terapie più moderne, anche se ancora non previste.

«La legge non sembra aver segnato un deterrente alla litigiosità in materia sanitaria e, negli anni, la medicina difensiva è aumentata», osserva però Raffaele Gaudio, responsabile nazionale pronto soccorso della Fismu (Federazione italiana sindacale dei medici uniti). Una delle ragioni è culturale. «Un tempo la gente accettava più facilmente la morte. Oggi si hanno troppe aspettative dalla medicina che si è evoluta ma che non sempre può dare le risposte sperate».

E i pronto soccorso sono anche per questo la frontiera, osserva Gaudio: il luogo in cui convergono tutti i pazienti che il territorio non gestisce. Con tempi di attesa che si allungano, moltiplicando i ritardi per i casi più urgenti, che diventano poi materia di contenziosi giudiziari nella caccia alle responsabilità individuali. La situazione non cambia nei reparti ospedalieri, come medicina, sotto pressione per la mole di ricoveri impropri: pazienti che potrebbero essere curati a casa se l’assistenza domiciliare funzionasse a dovere o lungodegenti che avrebbero bisogno di un diverso trattamento. Solo nel 2022 si sono registrati 1 milione e 300 mila ricoveri impropri.

La rete

Occorrerebbero strutture adatte al tipo di paziente, personale e posti letto sufficienti alla domanda di salute. In Italia si contano 995 ospedali, il 51% sono pubblici, il resto privati. L’andamento dal 2016 al 2021 ha registrato una diminuzione di entrambe le categorie con un -0,9% degli ospedali pubblici e un -0,3 di quelli privati, mentre nuove strutture territoriali arrancano a realizzarsi.

Il 52,5% dei nosocomi è dotato di un dipartimento di emergenza-urgenza, il che vuol dire possibilità di coordinare tutti i servizi emergenziali di un ospedale in modo efficace, guadagnando tempo e riducendo il rischio di errori. Possibilità che l’altra metà delle strutture ospedaliere invece non ha. Così il 67,8% ha un centro di rianimazione, il restante 33% è costretto a trasferire il malato che si aggrava, in altra struttura attrezzata di rianimazione con i rischi che ne conseguono durante il trasporto. E c’è, infine, il dato relativo ai pronto soccorso, presente nel 79,3% delle strutture di ricovero italiane e nel 17% di quelle pediatriche.

I bisogni

I posti letto collegati al servizio emergenziale sono ancora pochi: 7.469 posti letto di terapia intensiva, 1.121 di terapia intensiva neonatale, 2.413 posti letto per unità coronarica e 1.638 posti per terapia semi-intensiva, su tutto il territorio nazionale. In generale in Italia ci sono 3,4 letti ogni 1.000 abitanti. Un numero ben al di sotto della media europea, pari a 5,3 posti per ogni 1.000 abitanti.

Per non parlare della carenza di medici che ancora non ha visto un turnover per coprire i vuoti lasciati da chi è andato in pensione, mentre regioni come la Puglia che ha un disavanzo di 450 milioni ha bloccato le assunzioni di personale. Dieci le regioni che hanno un deficit di bilancio, con conseguente difficoltà a investire. Mancati investimenti in posti letto e personale non fanno che facilitare i rischi per i pazienti e aumentare la litigiosità tra le parti che si fa sentire soprattutto nel Meridione.

La distribuzione geografica dei contenziosi coincide con gravi criticità di alcune zone, il 44,5% delle denunce arriva dal Sud e dalle isole. Un dato che fa il paio con quello degli investimenti in sanità ridotti negli ultimi 10 anni di 37 miliardi di euro, a cui ha contribuito per il 50% il blocco delle assunzioni, con condizioni lavorative insostenibili per molti medici in servizio e che a lungo andare optano per l’estero. E così i costi per la formazione del personale non trovano alcun ristoro nell’impiego. L’ennesimo conto sballato di un sistema in tilt.

Assolti ma rovinati: medici vittime del panpenalismo. Malasanità, scagionato l’85% dei sanitari. Ma sullo scudo penale il magistrato Cisterna invoca cautela. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 27 aprile 2023.

I numerosi contenziosi che si aprono in materia di responsabilità medica molto spesso finiscono su un binario morto. Le denunce per casi di malasanità hanno come esito, il più delle volte, l’assoluzione del medico. Si tratta di un tema dal grosso impatto sociale ed economico, che riguarda il funzionamento della giustizia, con l’intasamento dei Tribunali, e mette al centro chi deve affrontare un procedimento giudiziario: primi fra tutti i medici.

Questi ultimi spesso vengono sbattuti in prima pagina sui giornali e sui telegiornali, perché ritenuti protagonisti di errori. Vicende che distruggono la vita privata e lavorativa del professionista, per non parlare della gogna mediatica che trova una sponda pure nelle “piazze” dei social. «Prima di risolvere tutte le questioni giudiziarie e accantonare definitivamente la mia vicenda giudiziaria – confida al Dubbio un medico che vuole restare anonimo – ho dovuto attendere oltre dieci anni. Tanto ci è voluto per tagliare il fatidico traguardo del giudizio definitivo davanti al Tribunale. In molti mi hanno considerato un professionista poco attento, per non dire poco capace. Anni di studio e di sacrifici offuscati da una vicenda che prima di essere chiarita ha richiesto tempo e danaro».

Considerazioni amare condivise da Musa Awad, consigliere dell'Ordine dei Medici di Roma, impegnato pochi giorni fa nella presentazione, in Campidoglio, del “Rapporto 2021 sui conflitti e sulla conciliazione” pubblicato da Maggioli Editore in collaborazione con l’Istituto regionale di Studi Giuridici del Lazio “Arturo Carlo Jemolo”. «Le controversie in medicina sono tante – commenta Awad -, ma l'85% delle presunte denunce per casi di malasanità finisce in una assoluzione per il medico. Come Ordine dei Medici abbiamo tutto l'interesse a ridurre le controversie e a cercare di chiuderle attraverso la conciliazione, senza arrivare in Tribunale. Già nel 2005, in tempi non sospetti e prima del legislatore, abbiamo istituito presso l'Ordine dei Medici di Roma lo sportello “Accordia”, una sorta di organismo di conciliazione fra le parti, medici e cittadini, proprio per risolvere le controversie. Siamo stati inoltre tra i primi a partecipare all'Osservatorio della conciliazione del Tribunale di Roma».

Qualcosa per i medici che incappano in vicende giudiziarie potrebbe però cambiare, come ha riferito in una intervista al “Messaggero” il ministro della Salute, Orazio Schillaci. Chiaro il messaggio del responsabile delle politiche sanitarie: depenalizzare gli errori medici, ad esclusione del dolo, e porre argine alla cosiddetta medicina difensiva (si veda anche Il Dubbio del 28 marzo scorso). «Dai dati che abbiamo – afferma Schillaci - gran parte delle cause giudiziarie contro i medici finiscono in un nulla di fatto, nell’assoluzione. Per questo va depenalizzato il reato. E poi la medicina difensiva è un male. Porta i medici a prescrivere troppi esami, ingolfa le strutture, aumenta le liste di attesa. E le dico da medico: confonde anche il medico curante che da tanti, troppi, accertamenti deve trarre le conclusioni. Bisogna prescrivere a ciascuno solo gli esami di cui il paziente ha realmente il bisogno».

Predica equilibrio Alberto Michele Cisterna, presidente della Tredicesima Sezione civile del Tribunale di Roma, dove operano sedici magistrati impegnati in via esclusiva in materia di responsabilità professionale. In tale ambito, la responsabilità sanitaria è prevalente con circa l’85% del totale dei casi. «La sindrome da denuncia da parte dei pazienti o dei loro familiari – sottolinea Cisterna - è un dato di fatto. Tante volte si getta discredito sulla sanità per cui le parti sono sempre convinte che sia successo qualcosa o che qualcosa sia andato storto per colpa di qualcuno. Tutto ciò avviene per una sorta di pregiudizio, per una percezione non tranquillizzante del modo in cui la sanità funziona. Tale situazione genera denunce ed esposti, che si indirizzano verso la Procura della Repubblica con la necessità di provvedere. Si tenga presente che la legge Cartabia ha dato una svolta, perché impone per l’iscrizione di un cittadino nel registro delle notizie di reato una soglia di elementi indiziari particolarmente qualificata. Non è più una iscrizione che si effettua automaticamente. Imporrebbe e impone una vigilanza da parte del pubblico ministero e una certa attenzione nell’individuare non già intere filiere di soggetti responsabili, come accaduto tante volte, ma di selezionare l’iscrizione nei confronti di soggetti che effettivamente appaiono attinti da elementi meritevoli di accertamento».

La normativa vigente ha avuto un impatto sulla riduzione dei contenziosi. «Bisogna dare atto – commenta il magistrato del Tribunale di Roma - che con la legge Gelli il numero di cause che vengono introdotte nei confronti dei medici è sceso vertiginosamente. Per le prestazioni rese nell’ambito di strutture complesse, ospedali, cliniche o presidii, le cause contro i sanitari sono pochissime. I danneggiati prendono ormai in considerazione direttamente la struttura e questo ha portato ad un decremento notevole delle cause. Lo studio di Eurispes pone l’attenzione sugli accertamenti svolti, che riguardano i medici, le strutture e le specializzazioni. Una ricerca che non riguarda tutte le cause di responsabilità professionale sanitaria, ma soltanto gli accertamenti svolti in via preventiva».

Sulla presa di posizione del ministro della Salute, Cisterna riflette in maniera approfondita: «Il tema dell’abolizione del reato colposo è molto delicato, nel senso che vorrebbe dire escludere le fattispecie colpose delle lesioni e dell’omicidio in relazione ad atti sanitari. Si tratta di fare una scelta politica estremamente onerosa. Comporta che anche di fronte a fatti di negligenza molto grave il reato non ci sia. Facciamo l’esempio del chirurgo che entra in sala operatoria ubriaco. In tal caso potremmo ravvisare una colpa, una negligenza, ma manca il dolo. Dovremmo poi ragionare se c’è un dolo eventuale. Si tratta di capire se si intende circoscrivere la responsabilità penale alla sola colpa grave. Su questo è già intervenuta la legge Gelli».

Il legislatore fa le leggi, il magistrato le applica. «Non mi permetto di sindacare – conclude Cisterna - sulle scelte del legislatore. La condanna del medico gravemente negligente è una necessità pubblica, non riguarda il solo paziente, ma attiene anche al fatto che occorre perseguire soggetti in grado di fare danni. Immagino che la proposta del ministro vada nel senso di circoscrivere la responsabilità penale colposa ai soli casi di colpa grave. Imprudenza, imperizia e negligenza sono tre elementi che, se espressi a livello grave, hanno un costo sociale che non si può aggirare».

L’era imbecille. La mastectomia cosmeticamente accettabile e la cialtronaggine dei medici (e di tutti noi). Guia Soncini su L'inkiesta il 18 Aprile 2023

Il chirurgo Ian Paterson è in galera dal 2017, gli sono morte 675 pazienti su 1206 operate di cancro al seno. La sua storia da cinema, ma senza finale geniale

Una cosa che succede invecchiando è che cambia il senso dell’umorismo. Per molta parte della mia vita, uno dei miei espedienti comici preferiti consisteva nella cronaca delle mie diagnosi sbagliate. Lasciate che vi racconti di quella volta che – figlia di medico, nipote di medici, in vacanza con medici – mi curarono per la malaria, e avevo la varicella, narravo garrula nei dopocena.

Negli anni, l’ilare aneddoto è diventato cupo presagio: una vita di diagnosi sbagliate, di medici cialtroni, di per fortuna non m’è mai venuto niente di serio sennò sarei morta sicuro. A una certa età, è tutto un complesso di cose, quello che ti fa venire lo sconforto.

Intanto c’è il fatto che le persone attorno a te si ammalano molto più spesso di quant’avvenisse a vent’anni, e l’idea che la categoria preposta a occuparsene scambi la varicella per malaria rende plausibile qualunque folle ipotesi: siamo sicuri che questa cisti della mia amica non sia una gravidanza extrauterina? Che questa influenza stagionale del mio vicino non sia meningite? Siamo sicuri che questo dottore non sia imbecille come la maggior parte dell’umanità?

Eravamo più giovani, quando i medici cani ci facevano ridere, ma soprattutto non avevamo i social. Sì, non ho mai incontrato un dottore che sappia fare il suo mestiere, pensavo a trent’anni, ma è di certo perché sono sfortunata. Poi sono arrivati i social e ho scoperto che la classe dirigente è formata quasi solo da imbecilli, e perché mai i medici dovrebbero fare eccezione.

Come aggravante, tra i miei trentaepocopiù e i miei cinquant’anni sono andate in onda diciannove stagioni di “Grey’s Anatomy”, quattrocentoquindici ore che avrei potuto trascorrere mandando a memoria la Recherche e ho invece passato a guardare una serie in cui i medici pensano solo alle loro vite sentimentali, e alla fine però hanno sempre un guizzo con cui risolvono un caso impossibile. Guizzo che però è chiaramente un trucco televisivo: nella realtà, se ti ritrovi in un ospedale vedi nei medici veri la stessa distrazione della tv, la stessa cialtroneria della tv, ma mai la stessa genialità della tv.

Il Sunday Times ha fatto un’inchiesta tra le ex pazienti di Ian Paterson, un chirurgo che operava donne malate di cancro al seno e che è in carcere dal 2017, condannato a vent’anni per diciassette imputazioni di lesioni dolose. In corso ci sarebbe un’indagine ulteriore, sulla morte di seicentocinquanta pazienti.

Paterson diceva di aver inventato la cleavage-sparing mastectomy, una mastectomia che permetteva di conservare una scollatura piacente. «Dite così, poi cambiate idea», pare abbia detto a una paziente (poi morta) che gli aveva chiesto di togliere tutto e si era invece risvegliata dall’anestesia con ancora le tette. Ovviamente per farti conservare la scollatura doveva lasciare del tessuto, ovviamente lasciando del tessuto c’era il rischio che il cancro si ripresentasse e metastatizzasse.

Come ha detto uno specialista del settore al quale ho chiesto di spiegarmi come fosse andata, «di cancro si muore», e può accadere che anche dopo un intervento la paziente muoia. Ma se è vero, come dice un documento prodotto nel 2017 da una fondazione legata al servizio sanitario inglese, che a Paterson sono morte 675 pazienti su 1206 mastectomie, ecco, il sospetto (che lo specialista trasforma in certezza) è che non siano esattamente proporzioni normali, in un secolo in cui il cancro al seno è molto curabile.

L’invenzione della mastectomia cosmeticamente accettabile mi ha fatto venire in mente “Malice”, che a ottobre fa trent’anni. Nel film un chirurgo arrogante asportava le ovaie a Nicole Kidman senza una giustificazione clinica. Durante l’udienza, al chirurgo – interpretato da Alec Baldwin – viene rinfacciata una valutazione giovanile in cui il primario aveva scritto ch’egli soffriva d’un certo qual delirio d’onnipotenza. Lo sventurato avvocato domanda, e Alec Baldwin – in uno dei primi tra i molti favolosi monologhi scritti da Aaron Sorkin per personaggi d’ego e di genio – risponde.

«Mi chiedo se abbia una vaga idea di che razza di talento bisogna avere per essere a capo di un’équipe chirurgica. Quando qualcuno entra nella cappella dell’ospedale e s’inginocchia e prega che la figlia non muoia dissanguata, chi crede che stia pregando? Legga la bibbia, e vada in chiesa, e se è fortunato vincerà pure la riffa, ma se sta cercando dio, dio era nella sala operatoria numero due, il 17 novembre, e non gli piace essere contraddetto. Mi chiede se ho un delirio d’onnipotenza? La risposta è: io sono onnipotente».

Leggevo la storia di Paterson e un po’ mi sembrava Alec Baldwin, un po’ no. Perché c’erano sì le accuse di lasciare tessuto canceroso pur di far vedere che lui era così bravo da toglierti il cancro lasciandoti le tette. Ma c’erano anche le accuse contrarie, le pazienti cui aveva fatto fare chemio inutili, o alle quali aveva consigliato l’asportazione di tette che il cancro non ce l’avevano. Insomma: più il pasticcio d’una storia vera che la nitida coerenza narrativa d’una sceneggiatura di Sorkin.

Avrei voluto che questa folle storia avesse quella magnificenza che culmina in monologhi stronzi e perfettissimi, e invece mi sa che è sempre la solita vicenda di baristi che fanno i cappuccini troppo caldi, idraulici che sbagliano a cambiarti i tubi, maestre elementari che t’insegnano a non accentare «sé stesso», avvocati che non preparano le arringhe. Decenni di sceneggiati in cui i medici hanno ogni sorta di difetto caratteriale ma mai sono afflitti da incompetenza professionale, seguiti da qualche anno di pandemia e di conseguente riduzione a santino della figura del professionista della sanità, e quasi ci dimenticavamo che il tasso di cialtronaggine è lo stesso in tutte le professioni. Ci voleva uno che ne ha ammazzate a centinaia nell’arco di due decenni, per ricordarcelo.

Contro i medici 30mila contenziosi ogni anno. Il 99% finisce nel nulla. In un libro i rischi della medicina difensiva: «Secondo un’indagine ministeriale, costa 10 miliardi l’anno». Simona Musco su Il Dubbio il 10 aprile, 2023

A luglio del 2022 Giovanni Buccoliero è morto in corsia. D’infarto, dopo un turno durato 24 ore per coprire le carenze di organico dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria. Aveva accumulato più di 170 giorni di ferie non godute, dimostrando una dedizione unica per il suo lavoro. Un amore incondizionato, nonostante da circa otto anni combattesse con un’accusa infamante per chi indossa un camice: omicidio colposo. Buccoliero era infatti sotto processo, per un reato che - si scoprirà solo dopo la sua morte - non aveva mai commesso. E se fosse sopravvissuto allo stress, alla fatica, lo scorso febbraio avrebbe avuto l’occasione di urlarla ad alta voce quell’innocenza che qualcuno aveva negato. Il medico era a processo a Taranto assieme ad altri tre colleghi: secondo l’accusa, i quattro avrebbero causato la morte di un settantacinquenne di Avetrana, deceduto a novembre del 2015. Per i giudici, però, «il fatto non sussiste». Una pronuncia che nei tribunali, quando a processo ci finiscono i medici accusati di aver svolto male il proprio lavoro, non è difficile sentire.

Secondo un dossier Ania - Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici -, sulla responsabilità civile delle strutture sanitarie e dei medici, il numero dei contenziosi è in continua crescita, con circa 30mila casi ogni anno. A fine 2022 erano 3 milioni 829mila i casi pendenti nei tribunali. Numeri altissimi, ma il 99 per cento dei medici sotto inchiesta viene dichiarato innocente al termine delle indagini, senza dover neppure affrontare un processo.

«L'esplosione del contenzioso - ha sottolineato l'ortopedico Lucio Catamo, coordinatore del Convegno dal titolo “Rivendicazione giusta e ingiusta rivendicazione” tenutosi il 29 ottobre scorso nella sede di Medinforma a Bologna - ha costi sociali elevatissimi e distrae risorse economiche dalla vera assistenza. Migliaia di medici in tutta Italia, nel timore di poter essere denunciati, applicano ormai di routine la cosiddetta “medicina difensiva”: sottoporre chiunque a tutti gli accertamenti diagnostici possibili, anche quando sono chiaramente inutili, con l'obiettivo di allontanare il rischio di possibili contenziosi legali per negligenza o superficialità. Ancor più clamoroso è l'abbandono degli ospedali da parte dei medici strutturati, soprattutto nei Pronto Soccorso, e spesso l'abbandono dell'Italia verso Paesi meno riottosi e più generosi economicamente».

Di casi la cronaca ne è zeppa. Il 7 marzo scorso, ad esempio, ad essere assolti sono stati tredici medici di Medicina e Chirurgia d'urgenza dell'ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d'Aragona, a Salerno, accusati per la morte di un 61enne, deceduto a luglio del 2015. Secondo la denuncia dei familiari, l’uomo non fu sottoposto alle cure più opportune dopo la diagnosi di una colecisti acuta grave. Secondo il giudice monocratico Francesco Rossini, però, Mario Memoli, Stefania Minichiello, Maria De Martino, Luigi Pecoraro, Antonio Battista, Gianluca Orio, Antonio Carrano, Pasquale Smaldone, Antonio Canero, Anna Pollio, Guido De Feo, Marcello Della Corte e Giuseppe De Nicola non avrebbero commesso il fatto. Sei giorni dopo, il 13 marzo, ad essere assolti sono stati altri sei medici imputati di omicidio colposo per la morte di una donna di 65 anni sottoposta a due interventi chirurgici. Il Gup Gelsomina Palmieri ha sancito il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per medici della casa di cura Sant'Anna di Caserta e dell'ospedale "Fatebenefratelli" di Benevento, accusati per la morte di una donna di Caserta, avvenuta nell'ottobre del 2017 nell'ospedale beneventano.

Stando ai dati del 2019, le denunce vengono presentate principalmente al Sud e nelle isole (44,5 per cento). Al Nord la percentuale scende al 32,2 per cento mentre al Centro si ferma al 23,2 per cento. Dati che impensieriscono i medici: il 78,2 per cento di loro ritiene di correre un maggiore rischio di procedimenti rispetto al passato, il 68,9 per cento pensa di avere treprobabilità su 10 di subirne; il 65,4 per cento avverte una pressione indebita nella pratica quotidiana. Proprio per tale motivo ad esultare, di fronte alla proposta di depenalizzazione avanzata nei giorni scorsi dal ministro della Salute, è il sindacato dei medici. «Si tratta di un intervento che chiediamo da tempo e che reputiamo essenziale per ridare maggiore serenità ai medici e per ridurre il ricorso alla medicina difensiva - ha affermato Guido Quici, presidente del sindacato dei medici Federazione Cimo-Fesmed -. Solo in Italia, in Polonia e in Messico l’errore medico rischia di essere sanzionato penalmente. Ora lavorare rapidamente al provvedimento in modo da superare tale singolarità».

A scrivere un libro sull’argomento era stato Pietro Bagnoli, chirurgo oncologo dell’apparato digerente, che ha raccontato la sua storia nel volume “Reato di cura” (Sperling & Kupfer), del 2016. Bagnoli nel 2009 finì sotto processo insieme alla sua équipe, altri due chirurghi e un radiologo, per la morte di una ragazza. I genitori fecero causa e i medici furono rinviati a giudizio, poi assolti in primo grado e in appello «perché il fatto non sussiste». Una storia giudiziaria lunga quasi quattro anni, che oltre a rappresentare il racconto di accuse naufragate nel nulla evidenzia anche la deriva della sanità italiana.

La medicina difensiva, infatti, «secondo un’indagine ministeriale, costa all’Italia 10 miliardi l’anno», scrive Bagnoli. C’è quella di tipo attivo, con il medico prescrive esami «che servono, più che a saperne di più sul paziente, ad accumulare referti per contestare un’eventuale contestazione. Pezze d’appoggio, insomma. Che chiaramente fanno crescere la spesa sanitaria e i tempi d’attesa per gli altri pazienti». E poi c’è quella “passiva”: «Il medico è portato a evitare atti terapeutici impegnativi e rischiosi. Perché se vanno bene, nessuno ti dice grazie. Se vanno male, ti portano dritto in tribunale». Una autocensura preventiva, insomma, per evitare conseguenze. La soluzione, secondo Bagnoli, è passare a una medicina «basata sull’evidenza» che esca dall’autoreferenzialità dell’appartenenza alle «scuole».

Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 9 aprile 2023.

«A breve sarà varato il fascicolo sanitario elettronico. Sarà descritta la storia clinica di ogni cittadino. In questo modo, con i dati digitalizzati, miglioreranno le cure perché ovunque andrà a chiedere assistenza, in qualsiasi struttura sanitaria, il medico potrà conoscere subito la sua situazione pregressa».

Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, punta a una ripartenza della sanità, dopo la drammatica paralisi del Covid («In autunno nuova campagna vaccinale ma solo per anziani e fragili e su base volontaria»). E assicura: «Perché la sanità torni a essere un fiore all'occhiello del nostro Paese siamo pronti a sbloccare il provvedimento che aggiorna le tariffe in attuazione dei nuovi Lea (livelli essenziali di assistenza)». Quelle prestazioni che il Servizio sanitario deve fornire ai cittadini («Sono ferme da sei anni»).

 Ministro, partiamo dalla piaga dei pronto soccorso affollati e delle lunghissime liste di attesa per esami e prestazioni. Si punta molto sulla realizzazione delle case di comunità, grazie ai fondi del Pnrr. Ma c'è ancora un punto dolente: il ruolo dei medici di famiglia, sempre più distanti dai cittadini.

«[…] Il carico di adempimenti burocratici per i medici di medicina generale sarà diminuito. Senza questo fardello, avranno più tempo da dedicare ai loro pazienti. […]  stiamo lavorando a un provvedimento legislativo che presto sarà pronto e che riguarderà anche il ruolo cruciale delle farmacie. Con i medici di medicina generale stiamo anche trovando delle formule grazie alle quali i medici più giovani, i neo assunti, possano collaborare con le case di comunità. Sulle case di comunità sono fiducioso che si possano realizzare tutte quelle previste dal Pnrr. Lo ricordo, sono 1.350. […]».

[…] Lei ha annunciato la depenalizzazione degli errori medici, ad esclusione del dolo, per limitare la cosiddetta medicina difensiva: si prescrivono molti esami perché in caso di denuncia si può dimostrare di avere fatto tutto il possibile. Questo però non rischia di alimentare la sfiducia dei cittadini che penseranno: "Per il medico non vale più il principio del chi sbaglia paga"?

«[…] Dai dati che abbiamo gran parte delle cause giudiziarie contro i medici finiscono in un nulla di fatto, nell'assoluzione. Per questo va depenalizzato il reato. E poi la medicina difensiva è un male. Porta i medici a prescrivere troppi esami, ingolfa le strutture, aumenta le liste di attesa. E le dico da medico: confonde anche il medico curante che da tanti, troppi, accertamenti deve trarre le conclusioni. Bisogna prescrivere a ciascuno solo gli esami di cui il paziente ha realmente il bisogno».

 […] Siamo vicini alla soluzione sulle tariffe dei Lea?

«Sì, manca poco, diciamo che per fine mese possiamo arrivare a una conclusione. Da più di sei anni mancano i nuovi Lea che rappresentano davvero il simbolo dell'universalità del sistema sanitario nazionale, la possibilità di accedere a cure adeguate indipendentemente dal luogo dove si abita. […]».

 Le case di comunità rappresenteranno un livello intermedio di assistenza sanitaria che consentirà, tra l'altro, ai cittadini di parlare con un medico o sottoporsi ad esami senza per forza mettersi in fila in pronto soccorso. Quando saranno pronte?

«Il piano ha varie tappe da completare, comunque, entro il 2026. […]».

 A che punto è il fascicolo sanitario elettronico che ad oggi è utilizzato solo parzialmente?

«Siamo alla fase conclusiva dell'iter, Sogei è già pronta con la piattaforma che ci consentirà di avere una sanità più moderna. Se mi visita un medico in un qualsiasi pronto soccorso, immediatamente, consultando il fascicolo elettronica, avrà chiara la mia storia clinica».

 Ad oggi però liste di attesa e i pronto soccorso affollati sono ancora una condanna quotidiana.

«Sui pronto soccorso siamo intervenuti portando dei benefici a medici e operatori sanitari dell'emergenza e rendendo dunque più appetibile lavorarci. Il sovraffollamento trova una forte causa nel fatto che molti dei pazienti potrebbero trovare una risposta in altri luoghi. […] Per questo dico che rafforzando la medicina territoriale, rafforzando la rete dei medici di famiglia e delle farmacie, rafforzando la telemedicina, una parte dei pazienti potrà trovare l'attenzione che cercano in luoghi alternativi al pronto soccorso. […]».

[…] Ecdc (l'agenzia Ue per la medicina) consiglia nuove vaccinazioni anti Covid in autunno. Vi state organizzando?

«Faremo una campagna di sensibilizzazione volta a invitare soprattutto le persone anziane, over 65, e i fragili a vaccinarsi per il Covid, così come viene fatto ogni anno anche per l'influenza. […]».

Estratto dell’articolo di Graziella Melina per “il Messaggero” il 9 aprile 2023.

[…] La carenza di medici e di macchinari, i turni sempre più massacranti e le continue richieste di prestazioni, aumentano ovunque il rischio di una diagnosi sbagliata o di una cura non corretta. E così alla fine per i camici bianchi il timore di commettere errori rende la giornata ancora più pesante. «Ogni anno ci sono circa 35mila denunce, quasi 100 al giorno - spiega Guido Quici, presidente del sindacato dei medici della Cimo Fesmed Ormai viviamo senza la dovuta serenità».

[…] solo in Polonia, in Messico e in Italia per gli errori sanitari si può rischiare un processo penale. «Oggi il medico è sottoposto a tre tipi di tribunali, paralleli e convergenti precisa Di Silverio : civile, penale e del'ordine. Se il medico risulta innocente per uno di questi tre tribunali, non è detto che si interrompa l'azione negli altri due. Ma se viene reputato colpevole è colpevole per gli altri due». E anche se alla fine il 97% delle denunce si conclude con un nulla di fatto, per evitare comunque possibili errori e richieste di risarcimento insostenibili, spesso negli ospedali si fa ricorso ad accertamenti eccessivi sui pazienti rispetto al fabbisogno reale.

«La cosiddetta medicina difensiva - ribadisce Quici - costa al servizio sanitario circa 11miliardi di euro; oltre il 90% dei medici la applica per evitare contenziosi penali». E a pagarne le conseguenze sono poi i pazienti in lista di attesa. […] provoca un sovratrattamento e sovradiagnosi per patologie che potrebbero essere diagnosticate con esami di primo livello; con una ricaduta sui tempi del Pronto soccorso, ma anche delle liste di attesa». […]

Omissioni.

Ecco quando è omissione di atti d’ufficio se un medico di guardia rifiuta la visita domiciliare. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2023.

Nel caso esaminato dai togati della Suprema Corte, un medico di guardia non si era recato a casa della paziente, né aveva effettuato un consulto telefonico. Si trattava di una anziana paziente , come è stata accertato nel processo, le cui condizioni di salute rendevano necessaria la visita domiciliare, e sulla colpevolezza del sanitario

Con la propria recente sentenza n. 44057/2022, la Corte di Cassazione, ha stabilito che il medico di guardia che non si rechi ad effettuare la visita al domicilio del paziente, commette il reato di omissione di atti d’ufficio, previsto e punito dall’art. 328 del codice penale. La Suprema Corte, nel confermare che la visita domiciliare resta opzionale e non è, quindi, un obbligo per il medico di guardia, stabilisce che il sanitario di continuità assistenziale, invece, ha il dovere di valutare, caso per caso, l’opportunità di recarsi presso il domicilio del paziente per una visita o, comunque, prestare un consulto telefonico.

Nel caso esaminato dai togati della Suprema Corte, un medico di guardia non si era recato a casa della paziente, né aveva effettuato un consulto telefonico. Si trattava di una anziana paziente , come è stata accertato nel processo, le cui condizioni di salute rendevano necessaria la visita domiciliare, e sulla colpevolezza del sanitario, a nulla ha rilevato il fatto che un altro medico, successivamente recatosi al capezzale dell’inferma, l’avesse classificata quale “codice bianco”, quindi non in pericolo di vita, né in condizioni da lasciar prevedere una rapida evoluzione peggiorativa del suo quadro clinico.

L’omissione d’atti d’ufficio

La condotta del medico di guardia è stata giudicata penalmente rilevante in quanto integrante il reato di omissione d’atti di’ufficio in quanto connotata dalla manifesta indisponibilità anche a fornire un consulto telefonico . Sul punto la Corte di Cassazione ha richiamato l’art. 13, comma 3, dell’accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, reso esecutivo ai sensi dell’art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, il quale postula un apparente automatismo, stabilendo che il medico di continuità assistenziale è tenuto ad effettuare, al più presto, tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall’utente entro la fine del turno al quale è preposto e non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita attraverso la richiesta di indicazioni precise in ordine all’entità della patologia dichiarata.

L’unica opzione possibile

Nell’inquadramento normativo della questione, altre fonti normative, precisano, come d’altronde appare logico, che il medico deve valutare, sotto la propria responsabilità, l’opportunità: 1) di fornire un consiglio telefonico, 2) recarsi al domicilio per una visita, 3) invitare l’assistito in ambulatorio. Nel caso di specie dunque – continua la Corte nella propria decisione – tre erano le opzioni che l’imputato poteva scegliere: considerato che la terza possibilità era fuori discussione a causa dell’età e delle condizioni della paziente – la signora per la quale era stato richiesto l’intervento era molto anziana, aveva riportato una frattura alle costole e non era, dunque, nelle condizioni di recarsi ad una visita ambulatoriale – e non si poteva ritenere valida l’alternativa di chiedere l’intervento di un’ambulanza, né, se la situazione fosse rimasta stazionaria, quella di rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base, l’imputato avrebbe dovuto recarsi al domicilio dell’ammalata. 

L’unica opzione era, quindi, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l’imputato, durante il processo, non ha addotto – tantomeno documentato – alcun impedimento. La difesa del medico ha eccepito la mancanza del requisito dell’urgenza, insito nella necessità che l’atto vada compiuto senza ritardo, e l’assenza del dolo.

Il potere di sindacare la valutazione del medico

A fronte di tali argomentazioni, la Cassazione ha ricordato che, sebbene la giurisprudenza di legittimità riconosca pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, tuttavia, riserva al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l’evidente erroneità di quest’ultima, potere che, nel caso in esame, è stato esercitato dai giudici laddove hanno accertato che il quadro clinico descritto dall’utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie in un contesto di età avanzata e frattura alle costole. 

L’omissione di atti d’ufficio è un reato di pericolo e, sulla base della ricostruzione del fatto operata dai giudici, tale pericolo (nel caso di specie, per la salute dell’assistito) sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva, a nulla rilevando la sua successiva neutralizzazione ad opera di un terzo (nel caso di specie, il secondo medico contattato).

L’elemento soggettivo del dolo

Né può ritenersi fondato l’ulteriore elemento sostenuto dalla difesa relativo al difetto del necessario elemento soggettivo del dolo, in quanto l’imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l’atto dovuto senza ritardo, non avendo ritenuto critica ed urgente la condizione clinica della donna. In base alla ricostruzione operata dai giudici, l’indifferibilità dell’atto dell’ufficio era ragionevolmente ipotizzabile già al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l’età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva non essersela rappresentata. Né può incidere sull’elemento soggettivo, elidendolo, la circostanza che, sempre sulla base della ricostruzione fattuale dei giudici, il pericolo fosse venuto meno, per effetto del successivo intervento, in chiave terapeutica, di un secondo medico di continuità assistenziale.

La sentenza di condanna

La Cassazione, quindi, nel confermare della condanna del medico per omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) ha ribadito i seguenti principi di diritto: – la violazione dell’interesse tutelato dall’art. 328 c.p. ricorre ogni qual volta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione, atteso che l’omissione di atti di ufficio ha natura di reato di pericolo (Cassazione, Sez. VI, sentenza n. 21631, 4 maggio 2017); – ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di omissioni di atti d’ufficio (dolo) è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento “contra ius”, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione (Cassazione, Sez. VI, sentenza n. 36674, 10 settembre 2015); – l’esercizio del potere-dovere del medico di valutare la necessità della visita domiciliare è pienamente sindacabile dal giudice sulla base degli elementi di prova acquisiti nel processo (Cassazione, Sez. VI, sentenza n. 43123, 20 settembre 2017; Cassazione, Sez. VI, sentenza n. 23817, 30 ottobre 2012).

di Antonio Serpetti di Querciara, avvocato a Milano ed autore Giuffrè –Francis – Lefebvre

Redazione CdG 1947

Carenza.

Estratto dell’articolo di Marzio Bartoloni per “Il Sole 24 Ore” martedì 17 ottobre 2023.

Un esodo biblico di quasi 40mila camici bianchi da qui al 2025 che rischia di mettere in ginocchio definitivamente la Sanità pubblica già uscita malconcia dopo la pandemia. È quello che aspetta il nostro Servizio sanitario nazionale che vedrà una uscita massiccia per pensionamenti dei propri medici dipendenti entro i prossimi due anni: da quelli ospedalieri ai dottori di famiglia, da quelli che lavorano negli ambulatori fino alle guardie mediche.

E sì perché la cosiddetta gobba pensionistica - il picco cioè di uscite per anzianità (67 anni è la media) - per tutte queste categorie di camici bianchi tocca i livelli massimi nel 2023, nel 2024 e l’anno successivo - quando si registreranno rispettivamente 12763 uscite, 12748 e 13156 - con qualche pesante ricaduta anche nel 2026 (12801 pensionamenti), poi il trend degli addii comincia a scendere per tornare ai livelli più fisiologici del 2020 soltanto nel 2030.

Del resto quella dei medici, a causa di un turn over con il contagocce e una programmazione sbagliata dei posti a Medicina e nelle specializzazioni, è una delle categorie con l’età più avanzata nella Pubblica amministrazione visto che quasi la metà dei nostri dottori in servizio in ospedale e negli studi ormai ha più di 60 anni: in particolare è over 60 il 45% degli ospedalieri e il 52% di pediatri e medici di famiglia. 

E proprio tra quest’ultimi c’è la situazione più critica: si sono già ridotti a 39.270 quando erano 42.428 nel 2019 (in pratica 0.69 per mille abitanti ) e ora per questa categoria (compresi i pediatri) sono previsti 4.747 pensionamenti nel 2023con l'apice della gobba pensionistica nel 2024 con 4.924 ritiri per poi scendere a 4822 uscite nel 2025. Insomma ogni anno va in pensione più del 10% dei medici di famiglia. 

[…]

Entro il 2025, facendo la somma complessiva perderemo in tutto 14.493 medici di medicina generale e pediatri di libera scelta; 3.674 specialisti ambulatoriali e 20.500 dirigenti medici per un totale di 38.667 camici bianchi. Insomma una vera e propria emorragia di dottori nel Ssn che non tiene nemmeno conto del fenomeno delle dimissioni volontarie - si stimano almeno 3mila medici che ogni anno si licenziano o chiedono il prepensionamento - per andare a lavorare nel privato o addirittura all’estero dove si aggiungono nuove ambite mete come i Paesi arabi dove i dottori vengono pagati a peso d’oro. 

A mettere in fila tutti i numeri sui nostri camici bianchi è un ampio rapporto del centro studi del Sumai Assoprof (il sindacato dei medici specialistici ambulatoriali) presentato nei giorni scorsi in occasione del congresso a Roma e realizzato sui database di Ordine, Enpam, Sisac, Aran, Istat, Corte dei conti e ministero della Salute.

Numeri davvero preoccupanti che fanno dire al segretario Sumai Antonio Magi che «se non ci saranno subito investimenti seri e decisivi sul personale sanitario, la Sanità pubblica Italiana che conosciamo oggi, anche se in crisi, dal 2025 rischia di saltare realmente». Un rischio concreto anche perché l’aumento dei nuovi laureati in Medicina e soprattutto degli specializzandi (dal 2021 sono state aumentate di molto le borse che ora viaggiano sulle 14mila l’anno) si vedranno dal 2026 in poi. […]

Estratto dell’articolo di Lavinia Lundari Perini per “la Repubblica” l'1 agosto 2023.

Pochi minuti prima dell’ora fatidica, le 20 di venerdì, si è presentato nella piazzetta davanti al suo ambulatorio: cappellino, divisa e mazza da baseball. E mentre un suo paziente improvvisava le note di “Se telefonando”, lui ha dato «quattro colpi mortali a un ordigno infernale che ha condizionato i miei ultimi anni da medico»: un telefono, filo e cornetta. 

Il dottor Ugo Gaiani, 66 anni, ha scelto questo gesto plateale per uscire di scena, per chiudere 33 anni di onorata carriera da medico di famiglia a Guastalla, nella Bassa reggiana, dopo la gavetta come guardia medica in Appennino. Fra gli applausi di decine di amici e pazienti, ma raccogliendo anche qualche malumore per un gesto considerato da alcuni «violento e diseducativo». «Se sono pentito? Niente affatto. È qualcosa che ho fatto per me stesso». 

Gaiani, perché ne ha sentito il bisogno?

«Perché negli ultimi anni il telefono ha squillato in continuazione, dalle 8 di mattina alle 8 di sera. All’inizio per scherzo dicevo fra me e me: l’ultimo giorno prendo una mazza da baseball e lo sfascio. Poi mi sono deciso a farlo davvero: ho comprato il materiale su Amazon, ho scelto simbolicamente l’ora e il giorno in cui si conclude la reperibilità del medico di famiglia. Con questa cerimonia catartica ho salutato amici, colleghi e pazienti». 

Quand’è che il telefono è diventato suo nemico?

«Durante le prime fasi della pandemia le persone erano sconvolte, impaurite. Chiamavano noi medici di famiglia, come era normale che fosse. Centinaia di squilli al giorno. Io e i colleghi ci dicevamo: siamo in prima linea, prima o poi finirà. Ma poi la gente ha capito che il proprio medico c’era e rispondeva sempre, e le chiamate sono continuate anche dopo l’emergenza». […] 

Pazienti poco pazienti, dunque?

«Aggressivi no, ma senz’altro più insofferenti e preoccupati. Più spaventati. Basta fare i conti: una settantina di chiamate, 5 minuti l’una, e se ne vanno 6 ore, mezza giornata. Nelle altre sei ore devi incastrare tutto: l’ambulatorio, le visite domiciliari. Sono arrivato a 16 ore di lavoro al giorno per fare tutto». 

Potesse tornare indietro, rifarebbe il medico?

«Sicuramente. È la professione più bella del mondo. Ti chiami medico di famiglia e in fondo ne fai parte, vedi le persone diventare grandi, segui i il travaglio di chi per anni cerca un figlio e alla fine ti chiama e ti dice: oggi è nata la mia bimba. Questo è davvero un lavoro bellissimo, difficile e complicato, che richiede un sacco di tempo. Il mio non è stato un gesto contro i miei pazienti ma per dimostrare che questo mestiere è diventato una follia».

[…] 

Il suo camice è ora appeso al chiodo?

«Un medico di famiglia il camice non se lo mette quasi mai. Crea una barriera. Ora sono in ferie, ma non smetterò di lavorare: chiudo con la medicina di famiglia e proseguirò nell’ambito delle cure palliative, dove farò solo il dottore e basta».

Estratto dell'articolo di Mauro Evangelisti per “Il Messaggero” l'8 maggio 2023.

Ogni giorno dieci medici si licenziano dagli ospedali italiani.

Chi può va all'estero, altri preferiscono il settore privato, c'è perfino chi fa il concorso per medico di base perché così ritiene di avere una vita più tranquilla. E poi ci sono i "gettonisti": coloro che vanno a lavorare per cooperative a cui si rivolgono le aziende sanitarie per colmare le lacune degli organici. 

Solo che un medico "gettonista" guadagna 110 euro all'ora, lavorando meno incassa molto di più di quando era in reparto come dipendente. I numeri sono stati raccolti da Anaao Assomed, l'associazione dei medici dirigenti. 

[…]

I numeri consolidati dimostrano che "la grande fuga", che in realtà è un fenomeno che riguarda anche altri settori e non solo in Italia, negli ospedali ha caratteristiche molto più marcate. Tra il 2019 e il 2021, 21mila medici hanno lasciato gli ospedali italiani. Quel dato elaborato da Anaao Assomed includeva 12.645 pensionamenti, compresi quelli anticipati. Lo studio però faceva notare che in 8mila se ne erano andati per scelta, si erano licenziati, soprattutto nelle strutture sanitarie di regioni del Sud, come Calabria, Sicilia e Liguria, ma anche nel Lazio, in Lombardia e in Liguria. 

[…]

 Al fenomeno poco virtuoso dei "gettonisti" il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha promesso che sarà dato un freno: «Possibile che dovessi arrivare io per accorgermi che questo tipo di gestione degli ospedali è inaccettabile?». Schillaci ha deciso di porre un limite al numero di affidamenti e comunque prima di ricorrere a incarichi esterni bisogna verificare la disponibilità del personale interno. Ci sarà inoltre molta più attenzione nei controlli del possesso dei requisiti professionali dei "gettonisti". Raccontano al Ministero della Salute: quando abbiamo disposto ispezioni da parte dei Nas, sono emersi casi di medici a gettone mandati in reparti per i quali non avevano qualifica necessaria.

Ricapitolando: la "grande fuga" dagli ospedali italiani è stata aggravata dallo stress causato dagli anni difficili del Covid, ma è causata anche da salari ritenuti bassi (su questo il Ministero sta intervenendo per chi è impiegato nei pronto soccorso); dalle «carenze degli organici che costringono a turni massacranti» dice Di Silverio; dalla tentazione rappresentata da stipendi più ricchi nel settore privato e del lavoro da "gettonista". 

C'è poi una serie di concause. La prima: la frequenza di aggressioni subite, soprattutto per chi lavora in prima linea. «E non dimentichiamo le continue cause giudiziarie di chi ritiene di avere subìto un torto in ospedale, che quasi sempre terminano in archiviazione perché sono ingiustificate, ma comunque alimentano lo stress tra i medici» osserva il leader di Anaao Assomed. […]

Estratto dell'articolo di Mauro Evangelisti per “Il Messaggero” l'8 maggio 2023.

La pandemia ha dato il colpo di grazia, ma la situazione era già drammatica prima. Tra medici e infermieri degli ospedali stanno crescendo stanchezza, scoraggiamento, stress, nervosismo. Un camice bianco su due è affetto dalla sindrome da burnout, che significa esaurimento psico-fisico delle forze e perdita di lucidità. Questo ha un effetto inevitabile anche sull'assistenza ai pazienti, perché un medico o un infermiere in crisi, inevitabilmente, commette più errori. Secondo uno studio commissionato da Fadoi sono almeno centomila all'anno.

[…] «Il quadro è devastante - spiegano a Fadoi -. I camici bianchi sono depressi, stressati e in perenne carenza di sonno per orari di lavoro che vanno ben oltre il lecito, impossibili da gestire. Il tutto aggravato da mancanza di riconoscimento del valore di quanto con competenza professionale si fa, un numero di pazienti per medici e posti letto che rende quasi impossibile instaurare un rapporto empatico con i pazienti e la burocrazia che rende tutto ancora più difficile.

C'è questo e di più in quello che in gergo tecnico si definisce "sindrome da burnout", quell'insieme di sintomi determinati da uno stato di stress permanente con il quale devono vivere il proprio lavoro il 52 per cento dei medici e il 45 per cento degli infermieri che prestano la loro opera nei reparti ospedalieri di medicina interna». In altri termini ci sono 56mila medici e 125.500 infermieri che si trovano in corsia pur affrontando la sindrome da burnout. Ma dal punto di vista del paziente questo cosa significa? Inevitabilmente si alza la percentuale degli errori medici.

Fadoi ha incrociato i numeri con gli studi realizzati da Johns Hopkins University School of Medicine e dalla Mayo Clinic del Minnesota, arrivando a concludere che quasi 100mila errori medici in corsia sono determinati da questa situazione di disagio di medici e infermieri. E come ci siamo arrivati? 

Spiega Dario Manfellotto, presidente della Fondazione Fadoi, del Dipartimento Medicina interna dell'Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina Gemelli di Roma: «Vent'anni fa non avremmo avuto questi dati. Contano tre variabili. La prima: l'invecchiamento del personale medico e infermieristico, provato da tanti anni di professione. Aggiungiamo i tre anni del Covid, che sono stati devastanti. Dal punto di vista emotivo, organizzativo e personale quell'esperienza ha inciso in modo drammatico: si è lavorato senza soluzione di continuità, prendendosi dei rischi, trascurando le famiglie. Infine, oggi il sistema sanitario è diverso da quello di vent'anni fa. Prima avevamo pazienti con un carico sanitario minore, oggi spesso hai ricoverati che necessitano di un'assistenza continua».

[…] Dalla ricerca emerge che l'84 per cento dei camici bianchi crede di influenzare positivamente la vita delle altre persone con il proprio lavoro e nel 73 per cento dei casi si sente "rallegrata dopo aver lavorato con i propri pazienti". Sarebbe importante anche liberare i camici bianchi da un pesante fardello di procedure burocratiche». 

Altra zona oscura, l'aumento delle aggressioni ai danni di medici e infermieri, specialmente di chi lavora nei pronto soccorso (quattro episodi ogni giorno, secondo gli ultimi dati), mentre si è ormai affievolito il ruolo del filtro dei medici di base. Osserva Francesco Dentali, presidente di Fadoi: [...] «L'influenza del burnout sulle malattie professionali è un fatto oramai acclarato dalla letteratura scientifica. Il rischio di infarto del miocardio e di altri eventi avversi coronarici è infatti circa due volte e mezzo superiore in chi è in burnout, mentre le minacce di aborto vanno dal 20 per cento quando l'orario di lavoro non supera le 40 ore settimanali salendo via via al 35 per cento quando si arriva a farne 70» […]

Estratto dell’articolo di Paolo Russo per “la Stampa” il 15 marzo 2023.

Forse nemmeno il dottor Terzilli, alias Alberto Sordi, avrebbe potuto fare più in fretta: 9 minuti per una visita, la maggior parte dei quali trascorsi a riempire moduli sul computer dopo aver dedicato appena una manciata di secondi all'ascolto del paziente.

 Se vogliamo un esempio lampante di come carenza di personale, condizioni di lavoro stressanti e tecnicizzazione portata all'estremo abbiano finito per disumanizzare la medicina, basta spulciare la ricerca dell'Università di Cambridge sulla durata media di una visita, condotta in 18 Paesi tra in quali l'Italia. Perché in 9 minuti non si può creare una relazione, tantomeno empatia tra medico e paziente. Tanto più se già dopo 20 secondi si viene interrotti dalle domande del medico.

Che passa due terzi del tempo incollato a un pc a compilare moduli e ricette. O a scrivere su Whatsapp, visto che secondo una ricerca dell'Ordine dei medici di Firenze il 47,6% lo usa per dispensare ricette e consigli medici.

 Eppure svariate ricerche internazionali narrano che già quella relazione tra curante e curato è una terapia, in grado di ridurre fino a 4 volte il rischio di ricovero e di aumentare del 30% la possibilità di tenere sotto controllo patologie come la colesterolemia, il diabete o quelle cardiovascolari. I dati sulla durata media delle visite sono del 2015, ma non è che da allora le cose siano migliorate, anzi.

Perché in questi ultimi anni il personale è ancora diminuito, tanto che, secondo il recente Rapporto Crea, di dottori ne mancano 30 mila, di infermieri addirittura 250 mila. Vuoti in organico che sono diventati via via una voragine per effetto di una politica scellerata, che continua ad imporre un tetto assurdo alla spesa del personale, ferma al livello del 2004 e diminuita per di più dell'1,4%.

Così, per aggirare l'ostacolo, Asl e ospedali ricorrono sempre più spesso ai medici a gettone, che finiscono nella voce di spesa per beni e servizi, che non ha tetti da rispettare, tant'è che come mostra la Relazione sullo stato sanitario del Paese appena presentata dal ministero della Salute, per la prima volta - spinta dai gettonisti - ha superato quella per il personale.

Peccato però che i medici in affitto non sappiano nulla dei pazienti, che vedono una volta prima di rispondere alla chiamata di un altro ospedale. E a farvi ricorso sono sempre più strutture, tant'è che solo in Lombardia coprono oramai sui 45 mila turni l'anno e in Veneto 42 mila. […]

Quanti medici ci sono nella tua città? Il database dell'emergenza sanitaria. Pediatri per i minori, ginecologi per le donne, cardiologi ospedalieri e medici di base: sono sempre meno e devono occuparsi di un numero crescente di pazienti. Ma la situazione cambia da città a città. Scopri come si classifica la tua provincia nei dati elaborati da Cittadinanzattiva. Mauro Munafò e Gloria Riva su L’Espresso l’8 Febbraio 2023.

Grazie al database elaborato da Cittadinanzattiva – Il tribunale per i diritti del malato, l'Espresso offre la possibilità a tutti i cittadini di sapere con esattezza quanti medici, pediatri, cardiologi e ginecologi lavorano nella propria provincia e regione.

Il record negativo è quello di Asti, con pediatra ogni 1.813 bambini, contro una media nazionale di mille pazienti e una normativa che prevede un medico ogni 800 bambini. Non sorride neppure Bergamo, con un medico di base ogni 1.517 pazienti a Bergamo, mentre a Caltanissetta il ginecologo è introvabile: uno ogni 40.565 donne, mentre a Roma ce n'è uno ogni 2.292 pazienti. C'è un cardiologo ogni 224.706 abitanti a Bolzano, mentre a Pisa ce n'è uno ogni 3.157 pazienti.

Il database di Cittadinanzattiva è stato realizzato grazie al progetto europeo Ahead, Action for Health and Equity, sulla base dei numeri forniti dal Ministero della Sanità e racconta che la crisi dei medici è drammatica, ma non ovunque allo stesso modo.

Sorpresa: il Nord sta peggio del Sud per carenza di medici. Ecco le città in cui è più difficile curarsi. Gloria Riva su La Repubblica il 19 Gennaio 2023.

Il report sulla desertificazione sanitaria di Cittadinanzattiva, l’associazione per i diritti del malato, mostra le città in cui è più complicato ricevere cure. Le peggiori? Bolzano, Asti e Caltanissetta

Cos'hanno in comune Asti e Caltanissetta sul fronte sanitario? La desertificazione sanitaria, ovvero la difficoltà ad accedere alle cure perché manca il personale, perché i tempi d'attesa sono infinitamente troppo lunghi o perché l'ambulatorio è troppo distante. In provincia di Asti ci sono 1813 bambini per ogni pediatra - contro una media nazionale di circa mille pazienti e una normativa che prevede un medico ogni 800 under quindici anni – mentre nel territorio di Caltanissetta c'è un ginecologo ogni 40.565 donne, con una media italiana di uno a 4.132. Questo a riprova del fatto che le difficoltà del Servizio Sanitario Nazionale non risiedono solo nel Sud Italia, ma coinvolgono l'intero territorio nazionale.

Di più, come racconta il report “Bisogni di salute nelle are interne, tra desertificazione sanitaria e Pnrr” reso pubblico il 19 gennaio, da Cittadinanzattiva, associazione che si occupa della tutela dei diritti del cittadino, «il sovraffollamento negli studi dei medici di base e dei pediatri è evidente soprattutto nel Nord del paese», si legge nel documento ricevuto in anteprima dall’Espresso. Infatti, tenendo presente le 39 province dove gli squilibri, tra numero di medici e cittadini, sono più marcati, primeggiano la Lombardia – e in particolare Bergamo, Brescia, Como, Lecco, Lodi e Milano – e il Piemonte con Alessandria, Asti, Cuneo, Novara, Torino e Vercelli in tesa alla classifica. Segue al terzo posto il Friuli Venezia Giulia e poi viene la Calabria, il Veneto, la Liguria, l'Emilia Romagna, Trentino Alto Adige e Lazio.

Attenzione però, la situazione non è drammatica ovunque. Esistono luoghi in cui curarsi è possibile e garantito dal Servizio Sanitario Nazionale. Facciamo un paio di esempi: sul fronte della ginecologia, Caltanissetta registra un medico specialista ogni 40.565 donne, mentre a Roma i ginecologi sono uno ogni 2.292 pazienti. Significa che la situazione nella provincia siciliana è 17 volte peggiore rispetto al capoluogo, il che implica una forte disuguaglianza fra cittadini per nulla uguali di fronte al diritto alla salute. E ancora: a Bolzano c'è un cardiologo ospedaliero ogni 224.706 abitanti (dove la media è di un cardiologo ogni 6.741 abitanti), mentre il dato migliore è quello di Pisa: uno ogni 3.147 abitanti: «La situazione di Bolzano è 71 volte peggiore rispetto a chi vive in provincia di Pisa», puntualizza Anna Lisa Mandolino, segretaria generale di Cittadinanziattiva che continua: «Raccogliere questi dati è stato tutt'altro che semplice. La verità che mancano dati certi, aggiornati e facilmente reperibili sulla carenza di personale sanitario e questo non agevola la programmazione degli interventi e la destinazione delle risorse. Per essere chiari, le risorse del Pnrr, che si concentrano sulle infrastrutture – case e ospedali di comunità in primis –, avranno senso ed efficacia solo se ci sarà un adeguato investimento anche sul personale». Altrimenti chi andrà a lavorare in quelle strutture se, in quelle già esistenti, manca il personale?

Non solo. Per quanto riguarda la dislocazione dei fondi del Pnrr destinati alla sanità, che equivalgono a circa 20 miliardi, di cui la maggior parte spesi per nuovi ospedali e case di comunità, Cittadinanzattiva ha analizzato quante di queste future realtà saranno realizzate per arginare la desertificazione sanitaria intesa come mancanza di strutture, ambulatori e punti di cura nelle aree interne. Il risultato dell'indagine è tutt'altro che roseo: su 1.431 Case della Comunità si prevede che 508 saranno costruite nelle aree interne, ovvero in una delle 39 province dove la carenza di personale sanitario e di ambulatori e ospedali è più marcato, ma nello specifico ci saranno cinque milioni di italiani che vivono nelle aree periferiche e ultraperiferiche che resteranno quasi sguarniti di qualsiasi presidio sanitario.

Detto altrimenti, il Pnrr ha pensato poco alle zone più scollegate e remote, dove sono previste appena il 16 per cento delle case di comunità, che dovrebbero accogliere gruppi di medici di base e infermieri per creare una solida rete di attenzione al territorio, e soltanto il 17 per cento degli Ospedali di comunità, dedicati alle cure a lungo termine per una funzione intermedia tra la cura della malattia acuta (da affrontare nell'ospedale locale) e il domicilio.

La situazione peggiore, ancora una volta, non si riscontra al Sud, ma nel Nord: dice il report di Cittadinanzattiva che in 13 comuni delle valli periferiche della Valle d'Aosta e in altri 36 comuni dell'entroterra ligure non è stata pensata e programmata la realizzazione di alcun tipo di servizio territoriale da parte del Pnrr. In totale, per ben 654.883 italiani che vivono in aree interne periferiche ed ultra periferiche di 7 regioni, non è previsto alcun ospedale di comunità: si tratta di Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Marche. E ancora una volta, sorpresa, è il Nord a subire la maggiore desertificazione sanitaria.

Speculazioni.

Medici ospedalieri: ecco quanto guadagnano davvero. DATAROOM, Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera martedì 15 novembre 2023.

Se mancano i medici è impensabile fare funzionare gli ospedali e garantire visite ed esami in tempi decenti. Agli errori di programmazione del passato dove non è stato formato un numero di specialisti sufficiente per sostituire chi va in pensione e dove sono state fatte scelte politiche assurde che scontiamo ancora adesso, come il blocco del turn-over, si aggiunge uno dei grandi problemi di oggi: lo scarso appeal della professione medica. Una questione che viene spesso collegata anche allo stipendio. Contratti alla mano vediamo, allora, quanto guadagnano davvero i 110 mila medici che lavorano a tempo indeterminato negli ospedali pubblici, e cosa cambierà dal 2024.

Se mancano i medici è impensabile fare funzionare gli ospedali e garantire visite ed esami in tempi decenti.

I contratti

Un primario di area chirurgica con incarico da oltre 25 anni prende 8.324 euro lordi al mese (per 13 mensilità); un medico con oltre i 15 anni d’anzianità 6.449 euro; un medico tra i 5 e i 15 anni d’anzianità 6.088; chi ha meno di 5 anni d’anzianità 4.495. A parità di potere di acquisto, è il 70% in meno dei colleghi tedeschi, il 41% in meno dei britannici e l’8% in meno dei francesi (qui i dati Ocse, alla voce «Remunerazione degli specialisti, PPA per consumi privati»).

Gli aumenti

Dopo infinite polemiche e mesi di trattative, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni che tratta per lo Stato (Aran) e le sigle sindacali a fine settembre hanno firmato il nuovo contratto collettivo nazionale che sta completando il suo iter burocratico (qui). Da gennaio o febbraio 2024, dunque, la busta paga di chi lavora avrà degli aumenti che riguardano 4 voci e complessivamente valgono quasi 2,4 miliardi di euro. Eccoli:

1) lo stipendio tabellare è la parte fissa uguale per tutti i medici a prescindere da posizione e anzianità: più 135 euro lordi al mese (per 13 mensilità);

2) l’indennità di specificità medica viene data per il fatto di «essere medico»: più 76 euro lordi al mese (per 13 mensilità) per i primari e 52 per tutti gli altri;

3) la retribuzione di posizione legata al ruolo ricoperto: più 41,50 euro per i primari; 28,80 euro per chi ha oltre 5 anni di anzianità; e 9,20 euro per chi non li ha ancora;

4) l’indennità per chi è a capo di una struttura complessa (primari): più 23,60 euro.

Risultato: i primari vedono un aumento in busta paga di 276 euro lordi al mese (per 13 mensilità) pari al 3,3%, i medici oltre i 5 anni di 216,60 pari al 3,5%, e quelli con meno di 5 anni 197 euro pari al 4,4%. A queste voci vanno poi ad aggiungersi guardie, festivi e pronta disponibilità che possono valere intorno ai 200 euro lordi mensili. E a valere dal 2022, ai dirigenti medici operanti nei servizi di Pronto soccorso, compete un’indennità di 12 euro lordi per ogni turno di dodici ore di effettiva presenza in servizio.

I dubbi

Basteranno questi aumenti a motivare e a trattenere chi è già in corsia, vista la carenza di personale? E basteranno questi aumenti a sistemare le voragini in alcuni reparti cruciali ma dove nessuno vuol più andare? Dei posti banditi per il 2023 nelle Scuole di specialità sono rimasti vuoti l’87% di quelli di Radioterapia, l’85% di quelli per Patologia clinica e Biochimica clinica (dove s’impara, per intendersi, a fare le analisi di laboratorio), e il 74% di Medicina d’emergenza-urgenza. Al contrario sono tutti occupati i posti per Chirurgia plastica e ricostruttiva, Dermatologia e Oftalmologia, specialità super-gettonate perché danno facilmente accesso all’attività a pagamento.

Le regole del gioco

Dopo il sacrosanto aumento di stipendio ai medici ospedalieri, le questioni di fondo restano tali e quali. Le regole del gioco definite nel 1996 dall’allora ministro alla Salute Rosy Bindi sono queste: io Stato non sono in grado di pagarti quanto dovrei e, allora, ti consento di svolgere fuori dalle 38 ore settimanali una parte dell’attività in libera professione dentro all’ospedale o in un ambulatorio collegato (qui). Hanno scelto questa strada in 44.791. Il loro guadagno in media è di 20 mila euro in più all’anno, nella realtà c’è chi incassa meno e chi raddoppia, triplica lo stipendio. Di certo non saranno gli aumenti che scatteranno dal 2024 a spingerli a rinunciare alla libera professione: gli stessi soldi li portano a casa con una o due visite private al mese.

La seconda possibilità che la legge Bindi dà ai medici ospedalieri è quella di rinunciare al vincolo di esclusiva per poter lavorare a pagamento, sempre fuori dall’orario di lavoro, nelle strutture private. Nel 2022 hanno preso questa decisione in 4.134. Il vincolo di esclusiva per un primario vale 1.804 euro al mese, per chi ha oltre 5 anni di anzianità dai 1.000 ai 1.353, e per quelli sotto i 5 anni 246 euro: quello che perdono rinunciandoci lo incassano con meno di dieci visite. E, anche in questo caso, non saranno certo i 200 e rotti euro lordi in più al mese a tenerli di più in corsia. Morale: finché permangono queste regole, per le liste d’attesa non c’è speranza.

In fuga

Ci sono poi i 61.055 medici che non fanno nessuna attività a pagamento, stravolti da turni massacranti e straordinari, sempre più tentati di abbandonare il pubblico o di ritornarci da medici-gettonisti, non più dipendenti, ma pagati per i turni che svolgono. Dai casi di cronaca la scelta appare sempre più frequente (nonostante il ministro della Salute Orazio Schillaci abbia tentato di porci un freno, con il divieto per chi interrompe volontariamente il rapporto di lavoro da dipendente di una struttura sanitaria pubblica di chiedere successivamente la ricostituzione del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale qui). Un medico ospedaliero assunto da più di 15 anni guadagna in media 52 euro lordi all’ora, per 6 ore e 20 minuti al giorno da contratto (che però vengono sempre superate) per 267 giorni l’anno. Il calcolo tiene conto di un giorno di riposo settimanale, 36 di ferie e 10 di festività. Gli stessi soldi un medico a gettone li guadagna facendo 84 turni da 12 ore, poiché la paga oraria minima in Ps e in Anestesia è di 87 euro lordi. Certo, a suo carico il gettonista ha ferie e malattia, ma c’è chi arriva a cumulare anche 20 turni al mese con uno stipendio che cresce esponenzialmente (vedi Dataroom del gennaio 2023 qui).

Non bastano, poi, questi aumenti in busta paga a risollevare dalla frustrazione medici che si vedono costretti a subire delle ingiustizie.

Umiliati per poche centinaia di euro

Non bastano, poi, questi aumenti in busta paga a risollevare dalla frustrazione medici che si vedono costretti a subire delle ingiustizie. Emblematico a tal riguardo è il caso dell’ospedale Niguarda, uno dei più importanti di Milano: i voti delle pagelle sulle capacità professionali dei medici, a cui sono legate poche centinaia di euro come parte variabile della retribuzione, vengono abbassati perché non ci sono abbastanza soldi nelle casse aziendali per pagarli secondo le reali competenze.

Più operi, più guadagni

Per chi si stanca di lavorare nel pubblico, stanno diventando sempre più attrattivi gli ospedali privati accreditati o il privato puro. Per i medici dipendenti che lavorano in queste strutture gli stipendi sono più bassi in media del 20-30%. Ma qui una delle forme di ingaggio più diffuse è il pagamento in percentuale alle prestazioni effettuate: il 15% della tariffa di un intervento chirurgico che viene divisa tra l’équipe medica generalmente di 3 persone; il 30-40% delle tariffe di rimborso degli esami diagnostici e il 65% delle visite ambulatoriali. Più ne fai, più guadagni. dataroom-corriere.it

Estratto dell’articolo di Paolo Russo per “la Stampa” sabato 12 agosto 2023.

Il doppio lavoro dei medici divide il mondo della sanità, mentre al ministero dele Salute si sta pensando, se non a una stretta, a nuove regole che impediscano si arrivi ad avere ospedali che fanno più attività nei reparti solventi che nel pubblico, come documentato dall’Agenas in una sfilza di strutture sparpagliare in ben 16 regioni. 

Le parole del padre dell’Istituto farmacologico Mario Negri, Silvio Garattini, che propone di abrogare l’intramoenia, ossia le visite private negli ospedali, in cambio di un aumento del 30% degli stipendi, hanno di nuovo aperto un solco tra sostenitori e avversari dell’attività libero professionale che i medici possono fare all’interno delle strutture pubbliche, fuori dall’orario di lavoro e cedendo il 20% della parcella alla stessa azienda sanitaria da cui dipendono.

Secondo i medici è un falso problema, perché le liste di attesa si allungano causa carenza di professionisti non per l’attività che questi svolgono privatamente. Per chi si occupa dei problemi di gestione in sanità invece c’è necessità di mettere dei paletti. […] Parole che rischiano di non far dormire sonni tranquilli ai camici bianchi, che saranno anche i meno pagati d’Europa, ma che nel 42% dei casi rimpinguano lo stipendio con il doppio lavoro, come mostra la relazione di ministero della Salute e Agenas appena consegnata al Parlamento.

Nel 2021, al netto del 20% dovuto ad Asl e ospedali per la messa a diposizione dello studio, i 45 mila medici che fanno l’intramoenia si sono messi in tasca un miliardo e 86 milioni, che sommati al miliardo e 169 mila euro dell’indennità di esclusiva, aumentata del 27% nel 2021, fanno in totale 45 mila euro a testa per lavorare privatamente in ospedale rinunciando a fare affari in clinica.  […]

«Le accuse all’intramoenia si commentano da sole e non tengono conto della realtà dei fatti», va giù duro Pierino Di Silverio, segretario nazionale dell’Anaao, il più grande sindacato dei medici ospedalieri. Che poi spiega: «Il numero dei medici in rapporto esclusivo che esercitano la libera professione è diminuito dal 2013 al 2021 di 10.198 unità. Questo perché appena il 30% dei ricavi della prestazione è, al netto di tasse e contributi, guadagno del medico. Le aziende, invece, incassano 250 milioni l’anno, da destinare in parte a progetti di riduzione delle liste di attesa di cui, in verità, non si vede traccia». Quelle liste che - comunque la si giri - finiscono per arricchire il privato. 

«Sì, è vero che pagai l’oncologo», il paziente che ha fatto arrestare il primario a Bari: «Mi chiese 200 euro a visita». Nell’interrogatorio di garanzia depositata la presa d’atto delle dimissioni del primario che resta ai domiciliari: «Chiariremo tutto». MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 luglio 2023.  

Vito Lorusso non è più un dipendente dell’Istituto Oncologico di Bari, che ha preso atto della richiesta di andare in pensione. Il medico, 69 anni, arrestato in flagranza mercoledì della scorsa settimana e da sabato ai domiciliari per peculato e concussione nei confronti dei pazienti, ieri ha preferito non rispondere al gip Rosa Caramia nell’interrogatorio di garanzia: con i difensori Gaetano e Luca Castellaneta si è riservato di chiedere un interrogatorio per spiegare, dal suo punto di vista, qual era il rapporto con i malati cui - secondo l’accusa - chiedeva somme di denaro non dovute.

La Procura, con il pm Chiara Giordano, ha depositato 15 registrazioni fatte dalle telecamere nascoste nella stanza del medico, al primo piano dell’Irccs: documentano i passaggi di denaro avvenuti tra il 20 giugno e il 12 luglio, quando sono scattate le manette a seguito della consegna di 200 euro da parte di un malato di tumore. La Procura ieri ha anche depositato il verbale di interrogatorio dell’uomo, che a caldo aveva negato di aver dato soldi a Lorusso e per questo era finito indagato per favoreggiamento. Sentito lunedì dalla pm (con l’assistenza dell’avvocato Tommaso Barile) l’uomo ha cambiato versione: ha detto che fin da marzo è sempre stato seguito da Lorusso, e che da un certo momento in poi il medico gli fece capire che ogni volta avrebbe dovuto consegnare 200 euro. Cosa che è poi effettivamente avvenuta...

Bari, dopo il caso dell'oncologo Lorusso fioccano esposti sui medici. Oggi il primario arrestato torna davanti al gip. Altre denunce di pazienti: richieste di soldi negli ospedali. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 luglio 2023

A quattro giorni dall’udienza di convalida che lo ha fatto finire ai domiciliari, stamattina l’ex primario Vito Lorusso dovrà tornare davanti al gip Rosa Caramia. Stavolta il medico barese, 69 anni, dovrà difendersi dalle accuse di concussione e peculato riguardanti i 17 pazienti da cui avrebbe ottenuto illegittimamente denaro, somme che vanno dai 50 ai 200 euro che non erano dovute oppure dovevano essere versate nelle casse dell’Istituto Oncologico.

Ma a una settimana esatta dall’arresto in flagranza del direttore dell’Oncologia medica (che nel frattempo ha chiesto la pensione), l’inchiesta della Procura di Bari potrebbe allargarsi. E abbracciare ulteriori casi che riguardano lo stesso Lorusso ma - a quanto sembra - anche altri medici, non necessariamente in servizio nello stesso ospedale barese dove in due anni sono già due gli oncologi finiti in manette...

Foggia, ginecologo in pensione torna in corsia: 12 mila euro per un mese di lavoro. Il professionista era stato chiamato a novembre per far fronte alla carenza di medici negli ospedali di San Severo e Cerignola. Una delibera della Asl Foggia, datata primo febbraio 2023, dispone in pagamento dell’importo. Antonio Della Rocca su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

Per un mese di servizio negli ospedali di San Severo e Cerignola, un ginecologo in pensione, reclutato per fare fronte alla carenza di medici, ha presentato alla Asl di Foggia una fattura di 12.239 euro che sarà liquidata a breve. Tanto valgono, evidentemente, le prestazioni di un camice bianco esterno all’organizzazione ospedaliera che vanta un contratto da 38 ore settimanali. La delibera dirigenziale del 1° febbraio 2023, che dispone il pagamento dell’importo, non eccepita in alcuna sua parte, sta facendo il suo normale corso attraverso i canali burocratici e tra non molto i soldi giungeranno sul conto corrente del medico, cooptato dalla Asl per coprire le esigenze cliniche del mese di novembre 2022 con la formula del rapporto di collaborazione.

Le motivazioni

In delibera si chiarisce che «avendo estrema necessità di personale medico specializzato in Ginecologia» da utilizzare, nello specifico, presso gli ospedali di San Severo e Cerignola, «con termine dell’incarico al 31 dicembre 2022», è stata siglata una convenzione tra la Asl di Foggia e personale medico specialista in Ginecologia. La Asl di Foggia, puntualizza che «i medici esterni vengono retribuiti secondo le norme. Nel presidio ospedaliero di San Severo, nella struttura complessa di ostetricia e ginecologia, a causa di pensionamenti e di trasferimenti presso altri enti, oggi abbiamo in servizio un organico ridotto di dirigenti ginecologi, a fronte di 24 posti letto», fa sapere l’azienda sanitaria guidata dal commissario straordinario Antonio Nigri. «Anche l’analoga struttura di Cerignola è in sofferenza per cui è stato necessario ricorrere ai medici in quiescenza per coprire i turni», precisa la Asl. Il fenomeno della penuria di medici è ben noto in Puglia e nel resto d’Italia e, a sentire gli addetti ai lavori, tra cui l’assessore alla Sanità della Regione Puglia, Rocco Palese, immaginare che da questa emergenza si possa uscire in breve tempo è un’utopia. Ci vorranno almeno 6-7 anni, secondo Palese, per riuscire a colmare le voragini createsi nei reparti di tutti gli ospedali a causa dei pensionamenti e delle dimissioni che fioccano per via della difficile situazione in cui i camici bianchi si trovano ad operare proprio per le carenze degli organici.

Chiamati gli idonei del concorso, ma nessuno ha risposto

Entrando nel dettaglio del singolo caso concreto riguardante il ginecologo gratificato con un compenso di oltre 12 mila euro, la Asl foggiana aggiunge: «La determina in questione comprende il corrispettivo delle ore di servizio rese nel mese, anche in reperibilità. Prima di arrivare a ricorrere ai medici in quiescenza sono state chiuse le procedure concorsuali per dirigenti di primo livello: quattro idonei di cui nessuno ha accettato l’incarico. Sono state stipulate apposite convenzioni con Asl Bat, Policlinico di Foggia, Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, con un risultato minimo, vista la carenza di personale delle aziende in questione». Insomma, la direzione strategica della Asl foggiana le avrebbe tentate tutte prima di ricorrere alla extrema ratio. «Abbiamo chiesto l’utilizzo delle graduatorie di concorso di altre Asl pugliesi, ma nessun ginecologo - sostiene ancora la Asl - ha accettato l’incarico. È di due giorni fa la pubblicazione della delibera di conferimento incarico per mobilità nazionale. Ha fatto domanda una sola ginecologa che, per venire a lavorare nella Asl Foggia, deve ricevere prima il nulla osta dalla azienda dove attualmente è in servizio. In queste ore stiamo attivando una nuova procedura concorsuale. In tutta la Puglia mancano centinaia di medici ospedalieri, ma le carenze riguardano anche i medici di medicina generale».

Il Fallimento.

Gettoni d'oro. Report Rai PUNTATA DEL 16/01/2023 di Walter Molino

Collaborazione di Federico Marconi

Il Servizio sanitario nazionale è in affanno.

Negli ospedali e nei pronto soccorso mancano migliaia di medici e infermieri. In Calabria il 20% dei malati è costretto a curarsi lontano da casa, le strutture sanitarie sono spesso inadeguate e i concorsi per assumere nuovi medici vanno deserti. Così per non chiudere i reparti di emergenza-urgenza le Aziende sanitarie devono ricorrere ai medici a gettone, pagando cifre esorbitanti a società di intermediazione e cooperative, spesso con affidamenti diretti che aggirano le regole del Codice degli appalti e che riducono sensibilmente la qualità delle cure. Per tamponare l’emergenza il Presidente della Regione Roberto Occhiuto ha firmato un accordo transnazionale per portare in Calabria centinaia di medici cubani.

Estratto dell’articolo di Paolo Russo per “la Stampa” il 15 Gennaio 2023.

L'allarme delle regioni è bipartisan: continuando di questo passo, dicono al governo, tra sottofinanziamento, carenza di personale, inflazione e caro energia la sanità è a rischio crac, con conseguenze che le stesse Regioni definiscono «catastrofiche». Il grido d'allarme viene dal coordinatore degli assessori regionali alla Sanità, l'emiliano Raffaele Donini, che a nome di tutte le Regioni ha inviato una lettera al ministro della Salute, Orazio Schillaci e al titolare dell'Economia, Giancarlo Giorgetti. Un appello condiviso, perché l'80% dei bilanci regionali è assorbito dalla Sanità e su questa si gioca una bella fetta del consenso elettorale.

«La sostenibilità economico-finanziaria dei bilanci sanitari è fortemente compromessa dall'insufficiente livello di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, dal mancato finanziamento di una quota rilevante delle spese sostenute per il contrasto alla pandemia da Covid-19 e per la campagna vaccinale», scrive Donini.

 I conti le Regioni al governo li avevano già fatti: tra maggiori spese sostenute per il Covid e quota non finanziata del caro bollette in Asl e ospedali, per l'anno passato i governatori lamentano un ammanco di 3,8 miliardi di euro. […]

GETTONI D’ORO di Walter Molino collaborazione Federico Marconi Filmaker Marco Ronca Cristiano Forti Alfredo Farina Montaggio Andrea Masella Giorgio Vallati Michele Ventrone Ricerca immagini Alessia Pelagaggi Eva Georganopoulou Paola Gottardi

GABRIELLA MALIZIA E adesso facciamo un bel calcio d’angolo!

GIUSEPPE Gol!

GABRIELLA MALIZIA Gol!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Giuseppe ha 8 anni ed è nato a Cosenza. Quando sua mamma Gabriella ha scoperto che era ammalato di leucemia sono partiti per Roma, per cominciare le cure all’ospedale pediatrico Bambin Gesù.

GABRIELLA MALIZIA La maglia dei campioni!

GIUSEPPE Si! Dove l’hai presa?! Dove l’hai presa?!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Giuseppe e la mamma vivono ormai da 9 mesi nella “Casa di Davide”, ospiti dell’associazione Ciavattini.

DONNA La befanina, guarda quanto è carina

WALTER MOLINO FUORI CAMPO I volontari accolgono gratuitamente decine di famiglie del Sud Italia che nella propria terra non hanno strutture sanitarie adeguate.

GABRIELLA MALIZIA A Cosenza non abbiamo il reparto di ematologia ed oncoematologia e io decisi di portarlo al Bambin Gesù. Siamo partiti direttamente dal Pronto soccorso di Cosenza il 14 già lui il 15 aprile lui già ha iniziato la terapia di cortisone.

WALTER MOLINO Da allora non è mai più tornata a casa.

GABRIELLA MALIZIA No, non sono più tornata perché se si verifica un evento come febbre lo devo portare subito al Pronto soccorso e a Cosenza non saprei dove portarlo.

WALTER MOLINO Lei ha dovuto lasciare il lavoro.

GABRIELLA MALIZIA Si.

WALTER MOLINO E il resto della sua famiglia è rimasto in Calabria?

GABRIELLA MALIZIA Si, ho un’altra figlia di 13 anni.

SORELLA DI GABRIELLA Ciao!

GABRIELLA MALIZIA Buona Befana! Qua c’è stata una Befana ricchissima! Giuseppe è tranquillo, è a posto, si. Anche lui ha avuto la sua calza, della Juve!

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Al Sistema sanitario calabrese mancano 2500 medici. Ogni anno più di duecento milioni di euro di mobilità sanitaria passiva: significa che un calabrese su 5 va a curarsi in altre regioni italiane, preferibilmente al Nord. E a chi non ha i mezzi per viaggiare, non resta che sperare. La Sanità è commissariata da 12 anni e il debito complessivo ha sfondato il muro del miliardo di euro.

ETTORE JORIO – PROFESSORE DIRITTO CIVILE SANITARIO UNIVERSITA’ DELLA CALABRIA Lei si immagini che il governo non programma più dal 2006. Hanno portato la mia regione a vivere il dramma di bambini, giovani che sono morti in sala operatoria e anziani che muoiono in attesa nei pronto soccorso.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Quando è stato eletto presidente della Regione, il forzista Roberto Occhiuto ha giurato che le cose sarebbero cambiate e si è fatto nominare dal Governo Commissario straordinario per la Sanità.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI Ogni mese si licenziano dal pubblico centinaia di medici in Italia per andare a lavorare nel privato, guadagnando venti volte di più che nel pubblico.

WALTER MOLINO Potreste fare dei concorsi con dei posti a tempo indeterminato anziché questi tempi determinati di pochi mesi…

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI E infatti ho detto ai commissari di fare concorsi a tempo indeterminato.

WALTER MOLINO E che cosa le hanno risposto?

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI Invece di selezionare tre, quattro, cinque medici, sono riusciti a selezionarne uno soltanto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A Cosenza il presidente dell’ordine è Eugenio Corcioni, gli piacerebbe far tornare a casa i medici calabresi emigrati.

EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA Mio figlio è radiologo al Sant’Orsola, ha quarantadue anni. Dico guarda: qui c’è la facoltà di medicina, qui a Cosenza. Mi hanno chiesto un giovane radiologo da inquadrare come aiuto anziano, capace, a Cosenza.

WALTER MOLINO E lei ha chiesto a suo figlio: perché non torni a casa?

EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA Vuoi venire tu? Ti fanno subito associato a Cosenza e tu fra 4-5 anni diventi ordinario di radiologia, ok? Mi ha mandato affanculo!

WALTER MOLINO E com’è finita la storia, chi hanno preso?

EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA Nessuno, ancora.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, è un problema sicuramente nazionale ma per chi parte con un handicap come la Calabria può rappresentare un dramma. E forse siamo solo all’inizio perché secondo il sindacato ben quattro medici su dieci sono pronti a lasciare il servizio sanitario nazionale per guadagnare di più da privati. Ora il presidente della regione e anche commissario alla sanità Roberto Occhiuto è riuscito finalmente a calcolare il debito della sanità: un miliardo di euro. È dal 2007 che stanno cercando di calcolarlo senza riuscirci e finalmente l’hanno fatto. E dentro la contabilità è finito un po’ di tutto: fatture doppie, triple, anche per prestazioni non esistenti. E ora dopo anni di blocco di assunzioni e di tagli si rischia di chiudere gli ospedali perché manca il personale e attingere ai privati e alle cooperative rischia di far saltare le casse. E allora qual è la soluzione che ha trovato il presidente Occhiuto? Lo vedremo nel servizio di Walter Molino, con la collaborazione del nostro Federico Marconi.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO I medici a gettone sono l’ultima disperata risorsa per le aziende sanitarie italiane a corto di personale. E le tariffe lievitano: la CMP di Bologna chiede 135 euro all’ora per un anestesista all’ospedale di Polistena, ma sul tavolo del Presidente Occhiuto è arrivata anche la proposta della GAP MEDICAL di Pisa: 150 euro all’ora per medici specialisti. Ma non è tutto: GAP precisa che i medici arruolabili per la Calabria preferiscono lavorare nelle località costiere, l’entroterra è pericoloso, troppo frequenti le aggressioni al personale sanitario.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI Un medico italiano costa al Sistema sanitario 6700 euro al mese tra netto, contributi, oneri previdenziali. Un medico selezionato con queste società d’intermediazione o cooperative, costa 1200 euro al giorno, 50 mila euro al mese.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO GAP Medical ha ottenuto ricchissimi affidamenti con aziende sanitarie di tutta Italia. Poi, l’8 agosto, scorso, GAP ha lanciato un accorato appello su Facebook: siamo stati chiamati in prima linea a supportare la Sanità della Regione Calabria.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI Una regione come la mia, che è una regione povera, che ha grande bisogno di medici, non può pagare queste somme.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Ma il Presidente Occhiuto si sbaglia. In Calabria queste somme si pagano eccome. Un medico anestesista o rianimatore assunto regolarmente verrebbe pagato 40 euro all’ora. Ma scopriamo che il 20 settembre l’azienda sanitaria di Reggio fa un affidamento diretto proprio a Gap Medical. In sei pagine di delibera la parola URGENZA compare 16 volte. E per i suoi medici GAP si è fatta pagare fino a 150 euro all’ora. Forse è per questo che l’Azienda sanitaria di Reggio Calabria ha deciso di chiedere un parere all’ANAC - l’Autorità anticorruzione - per sapere se il prezzo è giusto. Ma lo ha fatto con colpevole ritardo: la delibera è del 20 settembre, la richiesta all’ANAC è del 4 ottobre.

GIUSEPPE BUSIA – PRESIDENTE AUTORITA’ NAZIONALE ANTICORRUZIONE Mandateci gli atti prima di farli in modo che verifichiamo se sono rispondenti a quello che prevede il codice.

WALTER MOLINO Quando ve li mandano prima di farli.

GIUSEPPE BUSIA – PRESIDENTE AUTORITA’ NAZIONALE ANTICORRUZIONE Quando ce li mandano prima.

WALTER MOLINO Sottolineate il rischio che il frazionamento degli affidamenti possa essere anche artificioso così da eludere l’obbligo di evidenza pubblica. Questo è proprio l’ANAC che sente un po’ odore di potenziale corruzione.

GIUSEPPE BUSIA – PRESIDENTE AUTORITA’ NAZIONALE ANTICORRUZIONE Se faccio tanti piccoli affidamenti fraziono, pago di più e probabilmente sfuggo a un’evidenza pubblica che invece dovrei garantire.

WALTER MOLINO Se volessi aggirare il problema di fare gli affidamenti senza fare le gare questo sarebbe un metodo perfetto.

GIUSEPPE BUSIA – PRESIDENTE AUTORITA’ NAZIONALE ANTICORRUZIONE Assolutamente si. Perché riduco la garanzia e la trasparenza delle gare, pago di più e non ho adeguata concorrenza. Quindi è il doppio danno che elude la normativa che c’è.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Ma quanto guadagnano davvero le società e le cooperative di medici? Che percentuale trattengono sulle super tariffe imposte al pubblico? Nel bilancio 2021, GAP registra ricavi per 1,8 milioni di euro ma è possibile che gli utili siano di appena 40 mila euro? Siamo andati a cercarli. La sede legale è a Pisa, ma ben lontana dalla torre pendente. Nella periferia industriale della città abbiamo trovato questa etichetta sulla cassetta della posta dello studio di un commercialista.

WALTER MOLINO Quando costa un turno di un’ora fornito da GAP MEDICAL?

COMMERCIALISTA Lei contatta l’amministratore della società e se l’amministratore vorrà, le darà tutti i chiarimenti del caso.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO L’amministratore non ci ha mai risposto. Claudio invece è un anestesista che ha contattato GAP Medical per lavorare a gettone in Calabria.

MEDICO ANESTESISTA Mi hanno chiesto il curriculum e se fossi disposto a scendere in Calabria, in uno degli ospedali che è messo peggio…

WALTER MOLINO L’ospedale di Polistena?

MEDICO ANESTESISTA Si. Tenga presente che a luglio hanno dovuto chiudere i punti di primo intervento a Palmi, Oppido Mamertino e Scilla, perché non c’erano medici.

WALTER MOLINO Quanto l’hanno pagata?

MEDICO ANESTESISTA 1.400 euro per un turno da 12 ore.

WALTER MOLINO E quanti turni ha fatto?

MEDICO ANESTESISTA Eh, un bel po’…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora l’azienda sanitaria di Reggio Calabria ha chiesto un parere all’Anac: è congruo quanto io ho pagato i medici della Gap, della società di medici privati? Solo che l’ha fatto dopo che ha pagato. Infatti l’Anac dice: ma adesso me lo chiedi? E ha aperto una attività di vigilanza sul contratto per possibile violazione del codice degli appalti. E poi l’Anac ha sottolineato al ministro della Salute Schillaci le varie irregolarità, criticità, che si stanno accumulando in tutta Italia per questi medici privati e queste cooperative. Insomma, le cooperative, questi medici privati, che fanno? Monitorano, vedono dove sono le Asl dove manca il personale, dove sono con l’acqua alla gola, si presentano con un’offerta, che ovviamente è un’offerta capestro. Ecco, tutto questo è possibile perché è mancata la programmazione. Nell’urgenza bisogna creare un appalto, dipingere un bando, su misura, sulla società che propone i medici. Ecco bisognerebbe intervenire immediatamente con delle leggi. Anche perché il ricorso continuo a questi medici privati rischia di far saltare le casse pubbliche. Non solo, si rischia anche di abbassare la qualità della cura. Quando entri in un pronto soccorso, è come se giocassi alla roulette. Che cosa ha escogitato il presidente della regione Calabria? Che cosa si è inventato? Lo vedremo tra poco.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora siamo in Calabria dove ospedali e pronto soccorso rischiano di chiudere perché manca il personale. I concorsi per le assunzioni pubbliche vanno deserte. I medici preferiscono fornire le loro prestazioni da privati perché incassano 150 euro l’ora invece dei 40 se fossero dipendenti. Allora in questa situazione, con le casse pubbliche a rischio, cosa si è inventato il presidente della Regione nonché commissario alla Sanità Occhiuto? Ecco, lui è un politico di centrodestra, sincero liberale, ma alla fine insomma medici non olet, anche se c’è da finanziare quello che lui stesso definisce un regime. Un regime comunista.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI Quando muore un cittadino calabrese in un ospedale calabrese io avverto la responsabilità di avere il governo della Sanità. Dovevo scegliere: o chiudere gli ospedali o pensare a una soluzione d’emergenza.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO La soluzione del Presidente della Regione è stata quella di chiedere aiuto a Cuba. 497 medici per tamponare l’emergenza. Dopo molti intoppi burocratici i primi 51 sono arrivati il 27 dicembre scorso. Tutte le mattine vanno a studiare l’italiano all’Università di Cosenza.

MEDICO DONNA Buon pomeriggio dottor Jonas?

MEDICO UOMO Come va

MEDICO DONNA Non molto bene, sono preoccupata e un po’ nervosa. Penso di avere un cancro al fegato

MEDICO UOMO Mi dica dottor Dago, come si sente?

MEDICO UOMO Da ieri sento un dolore alla schiena che a volte si irradia al petto.

MEDICO UOMO Ha mangiato qualcosa di particolare?

MEDICO UOMO Ho mangiato cibo piccante.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Salute universale e gratuita per tutti, questo è il modello applicato da Cuba, che fin dagli anni ’60 ha attivato la Collaborazione medica internazionale, mandando oltre 400 mila medici in 164 paesi del mondo, mentre il Bloqueo imposto dagli Stati Uniti limita o impedisce del tutto all’isola caraibica l’acquisto di apparecchiature e medicine.

WALTER MOLINO Come le è venuto in mente di andare a prendere quasi 500 medici a Cuba?

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI Ho detto al Presidente dell’Albania, perché non mi mandi qualche medico in Italia? Lui mi ha detto: no, noi cerchiamo di mantenerli in Albania i medici, ma quelli che vanno via dall’Albania vanno in Germania perché guadagnano cinquanta volte più che in Albania, dieci volte più che in Italia. Io però avevo gli ospedali di Polistena di Locri, di Gioia Tauro e tanti altri che rischiavano di chiudere.

WALTER MOLINO Lei è un sincero democratico, è stato eletto con Forza Italia, sicuramente non può essere tacciato di essere un comunista. Ma è andato a prendere questi medici in una società di intermediazione del governo cubano a cui verserete circa 28 milioni di euro.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI Ho fatto quello che la legge mi consentiva di fare.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Il Presidente Occhiuto ha firmato un accordo di distacco medico internazionale con una società d’intermediazione, la Comercializadora de Servicios Medicos cubanos dal valore complessivo di 28 milioni di euro all’anno. Per i primi 51 medici arrivati in Calabria la regione pagherà 2,8 milioni di euro.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA -COMMISSARIO SANITA’ Noi versiamo una parte dei compensi alla società cubana e un’altra parte dei compensi al medico cubano.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Secondo l’accordo firmato in agosto, ai medici cubani in tasca rimarrebbe ben poco, appena 1200 euro per il mantenimento e il rimborso delle spese e dei costi.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA -COMMISSARIO SANITA’ Poi dovrebbero ricevere altro dalla società cubana ma questo dipende dalla società cubana.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Sul meccanismo di intermediazione però, il Parlamento europeo ha sollevato più di un dubbio: due risoluzioni, fondate su testimonianze e rapporti di associazioni umanitarie, parlano esplicitamente di sfruttamento del lavoro.

LAURA FERRARA – PARLAMENTARE EUROPEA MOVIMENTO 5 STELLE Ciò che ci indigna è chiaramente il possibile avallo indiretto della Regione Calabria su situazioni che sono state bollate dall’UNHCR, da diverse altre organizzazioni non governative come nuove forme di schiavitù.

WALTER MOLINO Questa forma di schiavitù in che cosa si concretizzerebbe?

LAURA FERRARA – PARLAMENTARE EUROPEA MOVIMENTO 5 STELLE Non possono avere relazioni di amicizia o amorose con persone del paese ospitante, non possono partecipare a eventi pubblici senza prima aver ricevuto l’autorizzazione, non possono abbandonare la missione prima del suo termine naturale altrimenti in base al codice penale cubano rischiano fino a 8 anni di carcere e non possono rivedere neanche i loro figli.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA - COMMISSARIO AD ACTA SERVIZI SOCIO SANITARI I medici cubani qui saranno trattati come medici italiani. È previso che lavorino come i medici italiani. In regime di assoluta libertà, altro che schiavismo. Se non fosse stato possibile fare un accordo di distacco transnazionale con un paese come Cuba, la legge italiana… l’Italia è un paese che…

WALTER MOLINO Quando dice un paese come Cuba cosa intende?

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA -COMMISSARIO SANITA’ Cuba è evidentemente un regime.

WALTER MOLINO – FUORI CAMPO E se da un regime comunista si possono importare medici a buon mercato, il presidente eletto con Forza Italia chiude volentieri un occhio. L’altro occhio però è a Roma: cosa ne pensa il Ministero della Salute? Nonostante le promesse non hanno risposto alle nostre domande, né quando c’era Roberto Speranza né con il nuovo ministro Orazio Schillaci.

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA -COMMISSARIO SANITA’ Il mio decreto poi dovrà essere validato dai due ministeri vigilanti.

WALTER MOLINO E se glielo dovessero bocciare?

ROBERTO OCCHIUTO – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA -COMMISSARIO SANITA’ Ma io intanto i cubani li faccio venire. E poi vediamo se me lo bocciano.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Però a differenza di tutti gli altri medici che esercitano in Italia non sosterranno l’esame per iscriversi all’Ordine.

WALTER MOLINO Avreste voglia di farlo questo esame per iscrivervi all’ordine?

DAYSI LUPERON - CARDIOLOGA Sicuro!

DAYLIS RAMOS – RADIOLOGA Ma noi siamo qui per aiutare, per solucionare la situazione, la emergencia sanitaria della regione. Insieme, tutti i medici calabresi.

DAYSI LUPERON – CARDIOLOGA Tutti siamo especialista in qualcuna materia e stiamo preparato.

DAYLIS RAMOS – RADIOLOGA È un contratto come i medici italiano, personale, tutti per noi. Io decido per la mia famiglia, per me, per fare la spesa.

EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA Non viene validato il corso di laurea. Viene detto: quello dice di essere anestesista, va in anestesia. Quello ha competenze particolari di chirurgia di pronto soccorso e va in pronto soccorso.

WALTER MOLINO E la fonte di questa competenza qual è? Il curriculum che lo stesso medico, anzi la società d’intermediazione, fornisce? EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA Fornisce.

ETTORE JORIO – PROFESSORE DI DIRITTO CIVILE SANITARIO UNIVERSITA’ DELLA CALABRIA Ciascuno di questi medici dovrà affrontare l’esame comparativo del titolo di studio

WALTER MOLINO E chi lo valuta questo medico?

EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA Nessuno! Nessuno! Lui vende fumo.

WALTER MOLINO La valutazione dei titoli, l’iscrizione all’ordine…

EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA Non l’hanno fatta! Non fanno niente! Questi faranno esercizio abusivo!

WALTER MOLINO Ma se l’ASP di Cosenza prende cinque medici cubani questi medici cubani dovranno presentare l’iscrizione all’Ordine di Cosenza.

EUGENIO CORCIONI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI COSENZA No! Ha detto di no! Ha negato questo! Anzi mi ha detto: e secondo te lascio a te di farmi saltare l’affare perché devi fare l’esame d’italiano?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma rischiamo di trovarci in un cul de sac, perché i medici cubani dovrebbero essere iscritti all’ordine per esercitare. Dovrebbero anche passare un esame in cui viene valutato il titolo, la specialità, e poi anche la conoscenza tecnica della lingua italiana, perché tu devi parlare con un paziente, devi stilare un referto, devi fare una prescrizione, una ricetta. E tuttavia i cubani questo esame non lo faranno, grazie anche a un decreto Cura Italia del 2020, quando in piena pandemia abbiamo aperto le porte ai medici che arrivavano da tutte le parti del mondo, perché eravamo disperati. Ora questa interpretazione della legge viene contestata aspramente dall’ordine dei medici. Però durerà fino alla fine del 2023. Poi si vedrà. Nel frattempo a giudicare i medici cubani sarà una commissione della Regione. Poi però c’è il problema degli stipendi. Inizialmente l’accordo prevedeva che sui 4700 euro lordi, 1200 andassero ai medici, il resto venivano versati alla società di intermediazione. Poi è intervenuto il ministero del lavoro. Sono intervenuti duramente gli ispettori del lavoro e Occhiuto ha cambiato idea. Ora i 4700 euro verranno versati direttamente sui conti italiani dei medici cubani. Ma la società di intermediazione cubana, quella del governo cubano, non avrà nulla da ridire? Insomma, vedremo. Ma una cosa ci tengo a dirla all’ordine dei medici che nulla ha detto, non ha stigmatizzato le richieste dei medici privati alla sanità con l’acqua alla gola. Voi fate un giuramento prima di cominciare l’attività, il giuramento di Ippocrate. Che ai primi punti recita questo: “Regolerò il mio tenore di vita per il bene dei malati, secondo le mie forze e il mio giudizio. Mi asterrò dal recare danno e offesa”. Ecco io capisco che non c’è arrivata la politica, non ci sono arrivate le leggi. Ma dove non arrivano le leggi e la politica dovrebbe arrivare la coscienza.

Sanità, medici a gettone: 100 mila turni in un anno. Tutti i rischi per i pazienti. Milena Gabanelli, Simona Ravizza e Giovanni Viafora su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

Gli errori commessi in vent’anni di politica sanitaria, sono oggi la causa di un fenomeno che, senza contromisure immediate, rischia di paralizzare il servizio sanitario nazionale: la mancanza di specialisti e la conseguente diffusione, senza regole, dei medici a gettone. Gli ospedali per coprire i buchi di organico appaltano alle cooperative, che i medici invece li hanno perché ingaggiano neolaureati, pensionati, liberi professionisti e chi ha lasciato il servizio sanitario perché stremato e sottopagato. I gettonisti sono pagati per i turni che svolgono: di solito 12 ore la notte, nei fine settimana e nei festivi. Dataroom è in grado di quantificarne per la prima volta le dimensioni nelle principali Regioni del Nord Italia: solo nel 2022 i turni appaltati in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna superano i 100 mila. Vediamo cosa nasconde questo numero e perché è stata superata la soglia d’allarme.

Dal Pronto soccorso alle Terapie Intensive

In Lombardia, secondo i dati forniti dalla Regione, i turni gestiti dalle cooperative sono oltre 45 mila, così ripartiti: 14.682 in Pronto soccorso; 9.960 coinvolgono gli anestesisti da fare entrare in sala operatoria e per le Terapie intensive; 20.515 in altre specialità tra cui Pediatria, Ginecologia-Ostetricia, Cardiologia, Psichiatria, Radiologia e Ortopedia. Il Fatebenefratelli di Milano con il suo Pronto soccorso di centro città ha appaltato 703 turni; il Ps di Lecco con i presidi di Merate e Bellano 4.674; quello di Varese con i presidi di Tradate, Cittiglio, Luino e Angera 1.800 e quello della Valtellina con i presidi di Sondrio, Sondalo, Chiavenna e Morbegno 1.080. In Veneto mancano 124 medici per i Ps, 75 anestesisti, 28 ginecologi e 20 pediatri: la conseguenza si traduce (sempre secondo i dati forniti dalla Regione) in 42.061 turni appaltati di cui 15.490 in accettazione e Pronto soccorso, 9.990 per gli anestesisti delle sale operatorie e per le Terapie intensive, 3.729 in Ostetricia e Ginecologia e 2.604 in Pediatria. In Piemonte i dati del 2022 riguardano solo il Pronto soccorso e sono 14.400. Il calcolo è della Società italiana di Medicina di Emergenza- Urgenza (Simeu), perché i numeri ufficiali della Regione sulle prestazioni esternalizzate al momento sono aggiornati al 2021 ed erano i seguenti: quasi 25 mila turni di cui il 31% in accettazione e Ps, 20% in Ginecologia e un altro 20% in Pediatria, 12% in Anestesia e Rianimazione e, complessivamente, il 17% tra Medicina interna, Ortopedia e Radiodiagnostica. Nella più virtuosa Emilia-Romagna il fenomeno è meno diffuso, ma comunque presente. Secondo i numeri forniti dall’assessore alla Sanità Raffaele Donini, 225 i turni appaltati al Ps di Ferrara negli scorsi mesi, mentre sono tuttora appaltati: 8 notti al mese al punto di Primo presidio di Santa Sofia (Forlì-Cesena); 60 turni mensili che da gennaio 2023 diventeranno 76 al Pronto soccorso di Carpi e Mirandola (Modena); 36 ai punti nascita di Mirandola; e dal 9 dicembre 30 turni mensili più 10 pronte disponibilità all’Ostetricia e Ginecologia di Carpi. Sempre a Carpi e Mirandola a gennaio è partito un nuovo appalto di un anno da 3,2 milioni per Pronto soccorso e Ginecologia.

Cosa dicono i dati

Da questa fotografia inedita emerge che alla carenza di medici per i turni d’emergenza in Pronto soccorso, in Ostetricia per i parti e in Pediatria per le urgenze dei bambini, si affianca una mancanza di medici che sta via via estendendosi anche alle altre specialità. È la riprova dei danni fatti negli anni dal blocco del turnover, dai continui tagli alla sanità e da una programmazione sbagliata sul numero di medici da formare. Ma non finisce qui. Tra gli ospedali in difficoltà per i buchi di organico spesso ci sono i più piccoli, scarsamente attrattivi per i medici e con pochi pazienti. Nel 2015 il decreto ministeriale 70 dal titolo «Definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera», voluto dall’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin, prevedeva che i reparti che non hanno un’attività minima devono essere riconvertiti in ambulatori di prima assistenza o chiusi, anche e soprattutto per ragioni di sicurezza: quando si fanno pochi interventi manca l’assistenza in caso di complicazioni. In realtà quel provvedimento è rimasto in larga parte lettera morta (qui il Dataroom dell’aprile 2019).

Tra gli ospedali in difficoltà per i buchi di organico spesso ci sono i più piccoli, scarsamente attrattivi per i medici e con pochi pazienti.

I rischi per i pazienti

Il problema oggi è la scarsità di garanzia di qualità delle cure ai pazienti poiché la diffusione dell’utilizzo dei medici a gettone non segue nessuna regola. La competenza e la lucidità del turnista dipendono solo ed esclusivamente dal livello di serietà delle cooperative che li selezionano e che vincono appalti: spesso l’unico requisito richiesto è il «minor prezzo». Al di là delle capacità del singolo medico (ci sono turnisti impeccabili), la conferma del rischio di inadeguatezza del servizio offerto arriva da un’indagine dei Nas che, d’intesa con il ministero della Salute, dalla metà di novembre ai primi di dicembre ha svolto verifiche a campione su 1.525 medici delle cooperative. Risultato: sono stati trovati dottori arruolati come ostetrici senza nessuna formazione per fare i parti cesarei, altri in Ps senza avere competenze in Medicina d’Urgenza, oppure già dipendenti di altri ospedali che facevano di nascosto i doppi turni per la cooperativa, altri ancora sopra i 70 anni e dunque fuori per legge dal servizio sanitario. Otto i casi di frode nelle pubbliche forniture in cui «con dolo vengono consegnate cose diverse da quelle pattuite». E in assenza di regole è anche difficile eseguire controlli: com’è possibile, per esempio, scovare il medico che dopo avere smontato il turno di 12 ore in un ospedale, senza osservare le ore di riposo, va a lavorare in un altro per accumulare gettoni, ossia soldi? Allo stato delle cose non è individuabile, eppure nessun paziente vorrebbe farsi curare da un medico in servizio da 24-36 ore. Inoltre sappiamo, da testimonianze dirette, che tra i medici a gettone ci sono molti neolaureati in medicina senza nessuna esperienza che si trovano a eseguire diagnosi.

Stipendi a confronto

Un medico ospedaliero assunto da più di 15 anni guadagna 52 euro lordi all’ora, per 6 ore e 20 minuti al giorno da contratto (che però vengono sempre superate) per 267 giorni l’anno. Il calcolo tiene conto di un giorno di riposo settimanale, 36 di ferie e 10 di festività (qui il contratto). In totale il salario annuo lordo è poco più di 85 mila euro. Gli stessi soldi un medico a gettone li guadagna facendo 84 turni da 12 ore, poiché la paga oraria minima in Ps e in Anestesia è di 87 euro lordi. Certo, a suo carico il gettonista ha ferie e malattia, ma c’è chi arriva a cumulare anche 20 turni al mese con uno stipendio che cresce esponenzialmente.

Stipendi a confronto

Il governo non è ancora intervenuto per regolare il fenomeno, così le Regioni cercano soluzioni in proprio aumentando la paga oraria: da 60 a 100 euro ai medici ospedalieri disponibili a turni extra. Il Veneto lo fa dallo scorso maggio, il Piemonte e l’Emilia-Romagna con la legge di Bilancio dello scorso dicembre. Quest’ultima permette anche agli ospedali di contrattualizzare direttamente liberi professionisti in aggiunta ai dipendenti. Mentre da fine settembre la Lombardia promuove accordi tra ospedali pubblici dove chi ha medici disponibili li manda a fare turni extra dove c’è bisogno sempre a 100 euro l’ora. Attraverso questo incentivo le Regioni puntano a ridurre il ricorso alle cooperative, anche perché trattandosi di somministrazione di pura manodopera, si potrebbe configurare una violazione del Codice civile.

È evidente che queste soluzioni tampone non possono protrarsi nel tempo perché gravano su un personale sanitario già sfiancato da oltre due anni di epidemia e dal recupero di qualche milione di visite ambulatoriali. Il tema è sempre lo stesso: una programmazione sanitaria in grado di formare i medici di cui c’è bisogno e poi pagarli il dovuto per non farli scappare. Ebbene, ancora una volta dalla legge di Bilancio non arriveranno investimenti. Paradossalmente si è discusso di più dell’abbattimento dei cinghiali.

La Croce Rossa Italiana.

Estratto dell'articolo di Paolo Russo per “la Stampa” il 16 gennaio 2023.

La Croce Rossa chiede soccorso. Non quella nazionale, che scaricata la sua valanga di debiti a una bad company, la «Esacri» istituita nel 2016, ora va avanti senza fardelli, grazie anche al surplus di appalti e commissioni piovuti dal cielo per via dell'emergenza pandemica, come rimarca nella sua ultima relazione del 2022 la Corte dei Conti. Il problema sono le miriadi di sedi locali, che con la privatizzazione sono diventate autonome anche dal punto di vista del bilancio e dove i commissariamenti fioccano.

(...)

Il comitato Croce Rossa di Crotone, ad esempio, è stato commissariato per la terza volta nell'arco di otto anni a causa di «una preoccupante situazione sia associativa che amminstrativo-gestionale». Leggasi assunzioni familiaristiche, stipula di un sub comodato con la locale Asp non consentito dalla legge, assenza di attività di volontariato

 La cattiva gestione è ugualmente all'origine del commissariamento della Cri di Como.

 (...)

A Vercelli la locale Croce Rossa è commissariata da quasi sei mesi ed è alle prese con una difficile situazione economica, con lo spettro di esuberi tra il personale dipendente. Il presidente regionale della Cri, Vittorio Ferrero, ascrive alle minori donazioni ricevute le difficoltà economiche. Ma intanto l'ultimo deficit accertato per il 2021 è di 130 mila euro.

 (...)

 Per cercare di capire come stanno andando invece le cose al livello nazionale, dove al posto di Francesco Rocca alla guida della Cri è arrivato Rosario Valastro, che già ricopriva la carica di vice presidente: dopo la privatizzazione che ha portato nel 2016 ad accollare tutti i debiti alla bad company Esacri, la Cri, senza più fardelli alle spalle, nel 2020 ha visto crescere il suo attivo del 13,9% rispetto all'anno precedente, certifica l'ultima relazione della Corte dei Conti del settembre scorso. Dove però si rimarca anche che questo è avvenuto grazie a un forte aumento della produzione, pari al 68,2%, frutto anche delle convenzioni sottoscritte con le amministrazioni pubbliche e delle donazioni ricevute per fronteggiare l'emergenza Covid. Come andrà in tempi di pace si vedrà.

Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 16 gennaio 2023.

Spacciava eroina, in quei tempi ormai lontani, perché non voleva più fare il bagnino se non da miliardario, come nel vecchio film di Elvis Presley che amava e che per lui, nato nel 1965, era già un cult.

 Ma il giovane Francesco Rocca si avvelenava, in dosi massicce, soltanto di fascismo che, in quegli anni, tra i '70 e gli '80, di sprezzava i drogati: "conigli da erba" e "zecche da siringa".

 (...)

Quando lo arrestarono, cambiò il suo rapporto col tempo che più passa e più leviga il ricordo come l'onda di risacca sui ciotoli di Ostia. Rocca ora dice che noi giornalisti lo inchiodiamo alla macchina del fango, ma è lui che non riesce a non parlarne, nelle interviste, nei convegni, dovunque: «Per fatto personale" comincia. La condanna definitiva è dell'87, tre anni e due mesi: i primi sei li passò a Rebibbia, nella cella di fronte c'era Ali Agca.

 Poi lo mandarono ai domiciliari perché collaborava: Clement Chukwrak e Patrick Okafor erano gli studenti nigeriani che fornivano la droga e Okafor aveva un rapporto speciale con un funzionario dell'ambasciata. Rocca si legò a uno spacciatore che si chiamava Alessandro Vettese e divenne il "ponte" fra i nigeriani e Ostia, già allora divisa in famiglie.

 Con il pentimento comincia l'epopea della resurrezione, da carcerato a candidato. C'era già Fabio Rampelli che lo riportò dentro il Fronte della gioventù che lo aveva espulso

 (...)

 Di sicuro in Croce Rossa, dove fu mandato da Gianni Letta e Gianfranco Fini come commissario straordinario ed è rimasto per 15 anni, in tanti adesso dicono di aver subito «il carattere bipolare del presidente», dolente e allegro, autoritario ma generoso, tipico della sua Ostia dove «niente è come sembra».

(...)

E Rocca non è solo Croce Rossa. È un amministratore della Sanità romana, «quel gran giro de quatrini» che sono le cliniche degli Angelucci di cui, sino alla settimana scorsa, ha pure presieduto una fondazione. Se chiedi di Rocca ti mandano dossier, ti raccontano storie a mezza bocca Respingo le offerte, dico che non mi interessa. Ma Rocca ha amministrato e presieduto tutto: le Asl, l'Idi, la Confapi e pure l'ospedale sant' Andrea, dove lo mandò come commissario straordinario Francesco Storace quand'era presidente della Regione e dove conobbe la sua seconda moglie, la nutrizionista e oncologa Debora Rasio che sposò in Campidoglio

Strumenti e macchinari obsoleti.

Paolo Russo per “la Stampa” il 12 gennaio 2023.

Se le liste d'attesa si allungano, se aumentano le diagnosi tardive di tumore, se sempre più giovani medici fuggono all'estero e l'assistenza domiciliare resta un miraggio per la quasi totalità dei nostri anziani di deve anche al Jurassic park tecnologico della nostra sanità, dove l'89% delle strutture utilizza macchinari obsoleti.

 Quelli che andando più facilmente fuori uso fanno allungare i tempi per eseguire una tac o una risonanza, che spingono i camici bianchi in carriera verso Paesi dove la tecnologia è più avanzata, che non fanno individuare un cancro allo stato iniziale o che non permettono il monitoraggio da casa di un anziano cronico.

 Come stanno le cose ce lo rivela l'Osservatorio parco installato di Confindustria dispositivi medici, l'associazione che rappresenta le imprese del settore. Il 71% dei mammografi convenzionali ha superato i 10 anni di età, il 69% delle Pet ha più di 5 anni e il 54% delle risonanze magnetiche chiuse hanno oltre 10 anni.

Partiamo dai mammografi. L'età media di quelli convenzionali è di 13,4 anni, quando non dovrebbero superare i sei, secondo gli standard di sicurezza e adeguamento tecnologico. Ma solo il 9% ha meno di 5 anni e l'84% supera comunque il limite anagrafico che darebbe diritto al pensionamento. Va un po' meglio per gli angiografi, le apparecchiature che servono a valutare lo stato dei nostri vasi sanguigni e delle coronarie. Insomma un esame importante, che nel 61% dei casi affidiamo a una strumentazione ormai obsoleta.

 La risonanza magnetica sappiamo tutti a cosa serve e quanto sia importante per diagnosticare in alcuni casi malattie, come quelle oncologiche, che prese per tempo possono ancora essere sconfitte. Peccato che ben il 74% di queste apparecchiature abbia superato il limite di età che le rende non più al passo con i tempi.

Anche perché parliamo di risonanze magnetiche con minor livello di precisione, secondo l'unità di misura "Tesla", che in questo caso è pari a 1, mentre quelle tecnologicamente più avanzate arrivano anche oltre il valore di 3. Qui la percentuale di obsolescenza scende al 41%. Ma le risonanze 4.0 sono una rarità degli ospedali italiani.

 Le tomografie assiali computerizzate, le tac tanto per capirci, sono troppo in là negli anni in un caso su due (il 51% per l'esattezza). Anche in questo caso la percentuale si abbassa quando si va a contare l'età delle apparecchiature multistrato, capaci di vedere più in profondità dentro ossa e organi.

Ma anche qui le Tac più avanzate sono quelle meno diffuse. A volte per fare una diagnosi corretta basta una semplice radiografia. Peccato che se parliamo degli apparecchi radiografici tradizionali l'81% abbia superato il limite dei 10 anni di anzianità, oltre i quali si farebbe bene a sostituirli, mentre obsoleto è il 48% di quelli digitali, che sono ancora una rarità nei nostri centri diagnostici.

 Quando pensiamo a una sala operatoria ci vengono in mente bisturi e chirurgo ma non immaginiamo quanta tecnologia ci sia. Ad esempio per monitorare i nostri parametri vitali con quei grandi macchinari, definiti in termini tecnici "sistemi mobili ad arco", obsoleti nel 57% dei casi. «Per capire come l'obsolescenza tecnologica finisca per influire sul nostro lavoro e sulla sicurezza dei pazienti basti pensare alla chirurgia mininvasiva laparoscopica. È chiaro che se abbiamo telecamere di ultima generazione aumenta la definizione delle immagini e questo ci permette di operare con più precisione» spiega Il professor Marco Scatizzi, presidente dell'Acoi, la società scientifica dei chirurghi ospedalieri.

Che poi aggiunge: «Purtroppo oggi con le imprese stritolate dal cosiddetto Pay back, che le impone di rimborsare 2,2 miliardi per il ripiano dello sfondamento di un tetto di spesa sottostimato, oggi abbiamo carenza anche di cose come bisturi elettrici e suturatrici meccaniche», denuncia. Lamentando poi il fatto che «il Pnrr investe circa 4 miliardi per l'ammodernamento tecnologico della sanità, ma nulla per quello delle sale operatorie».

Ma se negli ospedali la tecnologia appartiene in media all'era giurassica, nel territorio spesso manca proprio.

 In Italia ci sono oltre 200 mila pazienti con supporto ventilatorio domiciliare, 100 mila in ossigenoterapia, 30 mia nutriti artificialmente per via enterale o parenterale. In moltissimi casi i pazienti domiciliari necessitano di più terapie contemporaneamente, si pensi ad esempio agli oltre 6 mila pazienti affetti da Sla, che nelle fasi più avanzate della patologia hanno bisogno di supporto respiratorio continuo, di essere nutriti tramite Peg, di assistenza sanitaria e riabilitativa, di ausili per la comunicazione oculare.

Secondo distributori e produttori di dispositivi medici però oggi la fornitura di queste terapie domiciliari complesse va spesso a singhiozzo, ed è disomogenea da Asl a Asl, nonostante siano prestazioni a pieno titolo garantite dai Lea, i livelli essenziali di assistenza che garantiscono la mutuabilità delle cure.

 E questo finisce per pesare anche economicamente sui pazienti e badanti o familiari che li assistono in casa. Ma anche dove le apparecchiature ci sono mancano poi personale formato a leggere i dati prodotti e reti digitali in grado di connettere tra loro strutture sanitarie e professionisti. «Tutto il flusso di dati che arrivano dal monitoraggio dei pazienti a domicilio devono essere strutturati e gestiti da un collettore di informazioni, che le veicoli poi in modo strutturato giorno per giorno ai medici curanti e alle strutture sanitarie che hanno in carico il paziente.

Per questo occorre formare chi va a domicilio del paziente come avviene per le strutture ospedaliere. E per questo servirebbe un sistema di accreditamento anche per i servizi di assistenza a domicilio, che preveda l'uso delle tecnologie rispetto alla tradizionale presa in carico del paziente e l'integrazione tra medical device, telemedicina e professionisti della sanità».

Mentre oggi larga parte dell'assistenza domiciliare è delegata a cooperative e associazioni private, che hanno poco interesse a pagare di tasca propria la formazione digitale dei propri dipendenti. E così tra apparecchiature ospedaliere simili a vecchie 500 che arrancano nei nostri ospedali e Ferrari tecnologiche parcheggiate nei garage dell'assistenza territoriale la sanità 4.0 resta per ora un sogno.

I Pronto Soccorso.

Antonio Giangrande: Se non è estorsione questa…

Avetrana. In presenza di una patologia con disturbi urologici che pare abbastanza grave ed improvvisa ci si rivolge al medico curante: chiuso!

Allora ci si rivolge alla Guardia Medica. Il medico di guardia è assente per visite domiciliari. Si attende con pazienza. Dopo un po’ di tempo il medico arriva e ti visita, ma non si esprime sulla diagnosi e la cura: si dichiara incompetente e ti manda al Pronto Soccorso di Manduria a 20 km.

Al Pronto Soccorso si arriva con mezzi propri, ci si rivolge all’accettazione e si manifesta il disturbo. Questi si dichiarano incompetenti e ti invitano ad andare al Pronto Soccorso di Taranto a 50 km. Ritengono che a Taranto vi possa essere la relativa visita specialistica.

Si preferisce aspettare a Manduria almeno per le cure più immediate. Allora ti assegnano il codice verde: non critico.

Dopo ore di attesa (con altri pazienti arrivati ore prima con differenti codici) arriva la visita medica (con pubblico annesso: 1 guardia e 2 infermiere) con riscontro di edema dello scroto e del pene, che lo fa diventare grosso come una palla. Visita di un minuto: una punturina intramuscolo e via.

La sorpresina è il pagamento del Ticket:

Importo ticket 20,66

Quota ricetta 10,00

Quota pronto soccorso 25,00

Totale: 55,66

Naturalmente da aggiungere le spese per il doppio percorso effettuato con auto propria per la visita, prima, ed il pagamento in giorno successivo, poi. Più il costo dei farmaci.

Quando si dice: diritto alla salute…

Antonio Giangrande:

Una persona può essere sana o avere qualche malattia.

Le malattie sono curabili secondo l'evoluzione della scienza riconosciuta dalle istituzioni e dalle lobby farmaceutiche, e/o la preparazione dei medici, e/o nel caso della prevenzione e della scoperta nei tempi giusti.

La sanità italiana non permette la prevenzione o la cura adeguata, tenuto conto delle liste di attesa dovute alla gestione privatistica della sanità dei baroni e, spesso, della svogliatezza e dell’impreparazione dei medici.

Un malato: o è curabile o è terminale.

Al malato curabile si somministrano le terapie necessarie prescritte da uno specialista voglioso e preparato.

Il malato terminale, in base al censo ed alla famiglia, si abbandona o gli si somministrano le terapie palliative.

La parola palliativo deriva dalla parola latina pallium che significa mantello, protezione.

Per cure palliative si intende “l'insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”. (Legge n.38/1 Art. 2-Definizioni)

Le cure palliative, quindi, sono quell'insieme di cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita sia del malato in fase terminale che della sua famiglia.

La cura palliativa per i pazienti agiati in Italia diventa, spesso, accanimento terapeutico. I familiari, o solo per imposizione di alcuni di essi in contrasto con il resto della famiglia, o il malato, servito e riverito, protraggono egoisticamente la cessazione della vita di qualche giorno, al costo di immani sofferenze per il malato stesso con interventi chirurgici e cure inutili, che non vuol cessare una vita, spesso inutile per sè stesso e per la società, e con molti oneri assistenziali per loro da parte dei familiari e della sanità pubblica.

Quando si decide di dire basta alle cure palliative, non è eutanasia egoistica, ma vero senso di carità per una morte dignitosa e caritatevole.

Quale valore affettivo vuol significare vedere il proprio caro sofferente in perenne stasi o in catalessi con il catetere per l'urina, la pala al culo, la flebo attaccata, il sondino per l'alimentazione. l'occhialino dell'ossigeno?

Quale interesse è per il malato terminale a cui si danno false speranze di guarigione, facendolo morire disperato, anziché accompagnarlo ad una morte serena e consapevole?

Il Diritto e la Pretesa.

La gioventù e la vecchiaia sono facce della stessa medaglia. In entrambe le fasi della vita c’è qualcuno che dipende da un altro, che se ne prende cura.

I giovani sono mantenuti, istruiti ed educati dai vecchi.

I vecchi sono mantenuti dai giovani.

Cosa vuol dire e qual è la differenza.

Vuol dire che c’è un obbligo giuridico a carico di giovani e vecchi.

La differenza è che i giovani non possono scegliere, né pretendere, ma solo, eventualmente, recriminare. A loro viene dato il mantenimento, l’istruzione e l’educazione secondo i canoni familiari di appartenenza, che la fortuna gli ha riservato, e da lì dipende il loro futuro. Lo Stato interviene ove la famiglia manca fisicamente o per incapacità, ma non è sempre un giovamento. Spesso l’intervento è tardivo, o mancante, o nocivo. Ergo: essi non si discostano dalla falsa riga culturale ed economica di appartenenza.

I vecchi, invece, possono scegliere. Si diceva: i giovani sono i bastoni della vecchiaia dei genitori. E i genitori questo dogma l’hanno preso alla lettera, tanto che si creavano più di un bastone: famiglie con tanti figli. Figli che erano bastoni anche della gioventù dei genitori, perché lavoravano per loro.

Gli odierni vecchi sono persone che hanno usufruito del pensionamento in tenera età e si son goduti la vita. Si sentono giovani e non hanno nessuna voglia di morire. Hanno una bella pensione, spesso aggiunta a quella di reversibilità del coniuge. Quindi, non hanno bisogno di mantenimento, come per legge. E lì finisce l’obbligo dei figli nei loro confronti.

Invece, ad un certo punto i vecchi, però, fanno i capricci. Vogliono l’assistenza!!! Perché così fan tutti.

Fa niente se sono stati cattivi genitori e non la meritano: loro la pretendono.

L’assistenza, secondo i vecchi, è che i figli li devono accudire come bambini: averli presenti fisicamente notte e giorno con loro. Come moderni schiavi. Fa niente che questi hanno la loro famiglia ed il loro lavoro: i loro obblighi verso i loro figli.

I vecchi pensano solo per loro. Non vogliono lasciare la loro casa per stare, per comodità, con i figli. Spesso non dormono la notte e non fanno dormire i presenti, perché hanno paura di morire nel sonno o hanno delle allucinazioni, come le apparizioni di persone care defunte. Mentre di giorno poltroneggiano, di notte si mettono a camminare in casa. Vogliono essere accompagnati al bagno, per paura di cadere, o imboccati quando mangiano, per paura di sporcarsi. Voglio essere accuditi come malati, con medico ed infermiera al seguito. Medicine e visite mediche periodiche non devono mancare. Vogliono essere ascoltati. Parlano e parlano, dicendo sempre le stesse cose. Le loro opinioni sono incontestabili. Quindi, non sono persone incapaci, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a sé stesse. E quantunque fosse, lo Stato offre l’intervento dei Servizi Sociali, la possibilità dell’accompagnamento e dell’esenzioni mediche, oltre che delle agevolazioni della legge 104. Tra pensioni ed accompagnamento si ha la possibilità della Residenza per anziani o della badante. Ma loro vogliono i figli senza pagare.

Eppure, se non fai come loro pretendono, ti minacciano di diseredarti per qualcosa che non hai ancora avuto, o ti rinfacciano qualcosa che ti hanno dato. Fosse anche niente, ma per loro è tantissimo. Comunque, non mi sembra che nell’aldilà qualcuno abbia portato le cose terrene con sé.

Insomma, alla fine, riescono a rovinare tutto quel di buono vi era stato nei rapporti in famiglia.

Io spero di non diventare come loro e, magari, di morire prima…anche se vecchio già lo sono.

I Genitori.

Art. 30 della Costituzione:

E’ dovere dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio.

Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede che siano assolti i loro compiti”.

Dispositivo dell'art. 147 Codice Civile (R.D. 16 marzo 1942, n. 262):

Codice Civile LIBRO PRIMO - Delle persone e della famiglia Titolo VI - Del matrimonio  Capo IV - Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio

Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315 bis Dispositivo dell'art. 315 bis Codice Civile

Codice Civile LIBRO PRIMO - Delle persone e della famiglia Titolo IX - Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio Capo I - Dei diritti e doveri del figlio

Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.

Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.

Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.

Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.

I Figli.

Articolo 433 Codice Civile (R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

Codice Civile LIBRO PRIMO - Delle persone e della famiglia Titolo XIII - Degli alimenti

All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell'ordine:

1) il coniuge;

2) i figli;

3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti;

4) i generi e le nuore;

5) il suocero e la suocera;

6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.

Dispositivo dell'art. 591 Codice Penale:

Codice Penale LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare Titolo XII - Dei delitti contro la persona Capo I - Dei delitti contro la vita e l'incolumità individuale

Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Alla stessa pena soggiace chi abbandona all'estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro.

La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.

Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato.

L'obbligo di assistenza ai genitori anziani. Da studiolegalecastagna.it il 12 gennaio2023

I dati demografici degli ultimi anni, come noto, mostrano un progressivo invecchiamento della popolazione che pone spesso di fronte al problema di anziani in stato di bisogno che vivono soli o che possono essere a tutti gli effetti considerati genitori abbandonati dai loro figli.

All'interno del nostro codice civile, come è noto, è previsto l'obbligo dei genitori di prendersi cura dei propri figli e mantenerli sino al raggiungimento della loro completa autonomia economica.

Tuttavia, meno conosciuto ma non meno importante, potrebbe essere il corrispondente obbligo dei figli, nei confronti dei propri genitori, i quali si trovino in stato di bisogno e incapacità a provvedere al proprio mantenimento, sancito dall'art. 433 c.c.

Inoltre, se i genitori ormai anziani vengono lasciati a sé stessi, i figli e/o i nipoti potrebbero rischiare di incorrere nel reato previsto dall'art. 591 c.p., il quale sanziona l'abbandono di persone incapaci.

Per sapere quando questo reato sussista, occorre partire dall'articolo stesso del codice penale, secondo cui: chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Tali pene vengono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato.

Tale fattispecie è stata più volte interpretata dalla Corte di Cassazione, il cui precedente orientamento, prevedeva che ai fini della sussistenza del reato di abbandono di persone incapaci, era necessario accertare in concreto l’incapacità del soggetto passivo di provvedere a sé stesso.

A differenza dei bambini, che a prescindere vengono considerati incapaci fino al compimento dei 14 anni, per quanto riguarda gli anziani va valutato caso per caso, in quanto l'età avanzata, di per sé, non può essere considerata motivo invalidante.

Con la conseguenza che, non essendoci presunzione di incapacità per la vecchiaia, in quanto condizione non patologica, abbandonare il genitore anziano senza malattie specifiche, non poteva costituire reato.

Con la sentenza n. 44098/2016 la Corte cambia orientamento: il caso trattava di un anziano, padre della ricorrente, il quale trovandosi in uno stato di precaria salute e sostanzialmente abbandonato dalla figlia, sarebbe stato posto in pericolo.

La ricorrente era, infatti, stata condannata per abbandono di incapace dal tribunale di primo grado, con sentenza confermata anche dalla Corte d’appello di Bari.

La donna tuttavia si rivolgeva alla Corte di Cassazione lamentando un'errata applicazione dell’art. 591 c.p., poiché il pericolo per l’incolumità fisica derivante dall’inadempimento dell’obbligo di assistenza, non poteva sussistere, in quanto il padre non era mai stato affidato alla sua custodia. In aggiunta, precisava che l'impossibilità di assistere il padre derivava dalla necessità di accudire i propri figli.

La Cassazione ha ritenuto tutti i motivi presentati dalla ricorrente infondati, sancendo che: "l’elemento oggettivo del reato di abbandono di persone minori o incapaci è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità dei soggetto passivo"; sottolineando, inoltre, come dalle precedenti sentenze, soprattutto di primo grado, il Giudice abbia ampiamente motivato sul tema del dovere giuridico, oltre che morale, di cura ravvisabile in capo all’imputata verso il padre.

Tale motivazione viene fondata sull'interpretazione sistematica di diverse norme, sia di livello costituzionale, che riguardano il riconoscimento della famiglia come società naturale, il suo inquadramento tra le formazioni sociali ove si svolge la personalità dei singoli e l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale (artt. 3 e 29 Cost.), sia di quelle del codice civile che impongono il dovere di rispetto dei figli verso i genitori, che diventa concretamente stringente in caso di stato di bisogno ed incapacità del singolo a provvedere al proprio mantenimento ( art. 433 c.c.).

La Corte di Cassazione si sofferma infine sul dovere di cura gravante sulla donna, sancendo che chi lascia il proprio genitore anziano da solo, in condizioni di grave incapacità fisica o mentale, anche senza una patologia specifica ma semplicemente per vecchiaia, risponde del reato di abbandono di persone incapaci, così come previsto dall'art. 591 c.p., sancendo che l’obbligo di accudire i genitori non è più unicamente morale, ma stabilito per legge, grazie anche ai rinvii operati alla Costituzione e al codice civile.

Legge 104 assistenza genitori anziani: come funziona? Da epicura.it 3/2/2023

Indice

1. Assistenza genitori anziani da parte dei figli

2. Legge 104: a chi spetta?

3. Legge 104 e permessi: come funziona?

4. Legge 104: come fare domanda?

5. Assistenza genitori anziani: due anni di congedo retribuito

In Italia, più di 14 milioni gli anziani necessitano di cure e assistenza continua perché non più autosufficienti.

Negli ultimi anni, infatti, la figura di Caregiver familiare ha assunto un ruolo di primaria importanza. Con questo termine, s'intende "colui che si prende cura”, ovvero tutti i familiari che assistono un loro congiunto ammalato o disabile.

Tuttavia, ad oggi chi svolge questa attività di assistenza non è ancora formalmente tutelato da un quadro normativo.

L'unica modalità concessa dallo Stato Italiano è rappresentata dalla Legge 104 per l'Assistenza di Genitori Anziani, ovvero riconoscimento per un familiare che accudisce un parente anziano, con copertura da parte dello Stato dei contributi maturati durante l'assistenza e il lavoro svolto prendendosi cura del soggetto, equiparandoli a quelli che si maturano come lavoro domestico.

Assistenza genitori anziani da parte dei figli

Un genitore, per quanto possibile, desidera trascorrere il resto della sua vita nella casa dove ha visto nascere e crescere la propria famiglia. Si sente più tranquillo e sereno se a occuparsi di lui è un figlio o comunque una figura familiare, con la quale ha confidenza e intimità.

Prendersi cura di un genitore anziano è un atto meraviglioso, dettato dall’affetto e dalla necessità di garantirgli il necessario benessere emotivo, mentale e fisico.

Un desiderio legittimo, a cui segue, però, un'attenta riflessione sul rovescio della medaglia. Si tratta di un impegno che richiede nervi saldi, tempo, lavoro e qualche sacrificio in più perché le attività da svolgere sono tante e onerose.

E se il familiare da assistere non fosse autosufficiente o affetto da gravi patologie?

In questo caso, si può usufruire dei permessi e degli strumenti descritti nella Legge 104 per l’Assistenza ai Genitori Anziani.

Legge 104: a chi spetta?

La Legge 104 si applica a qualsiasi lavoratore dipendente, con un contratto a tempo indeterminato o determinato e con a carico un familiare affetto da una grave disabilità.

I soggetti che non hanno diritto alla 104 sono i lavoratori autonomi, quelli a domicilio, i lavoratori agricoli a tempo determinato occupati a giornata e chi svolge lavori domestici e familiari.

Legge 104 e permessi: come funziona?

Le agevolazioni previste dalla legge 104 / 92 per l’Assistenza dei Genitori Anziani sono di natura fiscale, economica e lavorativa.

Uno degli aiuti più importanti stabiliti dalla Legge 104 sono i giorni di permesso. La legge stabilisce che chi ha un familiare con patologia invalidante o handicap grave, ha diritto a 3 giorni al mese di permessi retribuiti. Inoltre, è possibile frazionarli in ore purché non si superi il triplo delle ore lavorative giornaliere.

Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che è possibile richiedere il permesso anche se il familiare è ricoverato in una struttura residenziale, a patto che sia una casa di riposo e non una RSA dove è garantita un’assistenza sanitaria continua.

A questa agevolazione, ha diritto chi è in possesso di 3 requisiti specifici ovvero:

l'assistito deve avere più di 65 anni

il grado di parentela deve essere al massimo entro il terzo grado

il lavoratore deve essere convivente o comunque abitare vicino al familiare anziano

L’assistenza esclusiva dei genitori anziani da parte dei figli prevista dalla Legge 104 stabilisce che il permesso possa essere richiesto da un solo lavoratore dipendente che diventa a tutti gli effetti un referente. Nel caso in cui una persona debba assistere più familiari contemporaneamente, può usufruire di più permessi.

Sarà necessario, inoltre, programmare un piano accurato con le assenze previste da consegnare all’amministrazione. L’INPS o datore di lavoro sono chiamati a effettuare dei controlli finalizzati all’accertamento della presenza dei requisiti richiesti dalla normativa.

Per quanto riguarda la sede lavorativa, la Legge 104 dispone che il lavoratore abbia la facoltà di scegliere quella più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso. Allo stesso modo, è possibile rifiutare di lavorare in orari notturni (7 ore consecutive a partire dalla mezzanotte) se si tratta di un familiare non autosufficiente.

Legge 104: come fare domanda?

Innanzitutto, bisogna richiedere un certificato medico per attestare l’intera storia clinica del genitore anziano da assistere. A compilarlo è il medico di base che, una volta visitato il paziente, è tenuto a inviare telematicamente all’INPS l’intera documentazione e a rilasciare il numero di protocollo.

Una volta in possesso del numero di protocollo, bisogna inviare la richiesta della Legge 104 alla sede dell'INPS che, una volta visionata l’anamnesi del medico di base, convocherà l'assistito per essere visitato dalla commissione medica della ASL di appartenenza.

Se la diagnosi non è sufficientemente chiara, la commissione potrà richiedere altri accertamenti.

In caso di esisto positive, si provvederà al rilascio del verbale in cui sarà indicato in maniera chiara e inequivocabile il grado di handicap grave ai sensi della Legge 104 articolo 3 comma 3.

Assistenza genitori anziani: due anni di congedo retribuito

I lavoratori dipendenti pubblici o privati possono usufruire anche di un’altra importante agevolazione, ovvero il congedo straordinario biennale, frazionato o continuativo, da richiedere nell’arco della vita lavorativa.

Il congedo è retribuito sulla base dell’ultimo stipendio percepito, dà diritto alla tredicesima ed è coperto dai contributi ai fini pensionistici.

Il requisito per richiedere tale congedo è che l'assistito non sia ricoverato a tempo pieno e che non presti attività lavorativa per il biennio in esame.

E se il figlio non fosse convivente?

A chiarire la questione, è intervenuto l’articolo 42 del D.Lgs. n.151/2001 che ha definito "non prioritario il requisito della convivenza a patto che suddetta convivenza abbia luogo entro l’anno dalla richiesta di congedo straordinario e sia conservata per l'intera durata dello stesso".

La Legge 104 in materia di Assistenza ai Genitori Anziani dispone che il figlio, se in possesso di 20 anni di contributi, possa richiedere la pensione anticipata. L’assegno mensile in questo caso non dovrà superare il tetto massimo di 1.500 euro lordi.

Tra i diritti stabiliti dalla Legge 104 per l’Assistenza dei Genitori Anziani da parte dei figli, c'è la possibilità di richiedere:

Indennità di accompagnamento

Agevolazioni che spettano per l’acquisto di attrezzature e accessori come le poltrone speciali destinate ai non deambulanti

Detrazioni fiscali per l’assunzione della badante, per l'acquisto di farmaci o per l’eliminazione delle barriere architettoniche.

Alla base di quanto descritto, la legge 104 rappresenta quindi un quadro normativo importante al quale fare riferimento per agevolare la vita degli assistiti e dei loro figli.

In conclusione, occuparsi di un caro non autosufficiente non è semplice: per questo è fondamentale vagliare tutte le opzioni per trovare la soluzione che garantisca la serenità alla persona anziana e a tutta la sua famiglia.

Figlio si occupa da solo della madre malata, può chiedere il rimborso al fratello?

Il figlio che cura gli anziani genitori adempie ad un’obbligazione naturale (articolo 2034 del codice civile). Di Marcella Ferrari, Avvocato, Pubblicato il 19/03/202 su altalex.com

 Nelle famiglie, capita spesso che uno dei figli si occupi, in via esclusiva, degli anziani genitori (o di uno solo di essi) e che il fratello, vivendo in un’altra città, se ne disinteressi. Il figlio che ha sempre assistito il genitore, che ha pagato le cure e ha investito il proprio tempo nella gestione della casa, può chiedere un rimborso all’altro?

Prima di rispondere al quesito, analizziamo gli obblighi gravanti sui figli in relazione all’assistenza degli ascendenti.

Sommario

L’obbligo degli alimenti a carico dei figli

L’obbligo di assistenza ai genitori

Le somme spese per i genitori e l’obbligazione naturale

Un figlio che si disinteressa dei genitori è indegno a succedere?

L’obbligo degli alimenti a carico dei figli

Qualora gli anziani genitori versino in stato di bisogno, poiché, ad esempio, la pensione non è sufficiente per pagare tutte le spese o perché malati, grava sui figli l’obbligo di alimenti (art. 433 c.c.). La legge richiede che il soggetto non sia in grado di sopportare le spese fondamentali, come il vitto, l’alloggio, il vestiario e i medicinali.

È irrilevante che lo stato di bisogno sia imputabile al genitore che, ad esempio, ha dilapidato il proprio patrimonio senza pensare al futuro. Il Codice civile indica un elenco di soggetti obbligati a versare gli alimenti. Primo tra tutti, l’altro coniuge (art. 433 n. 1 c.c.), anche se separato. Vi sono poi i figli e i discendenti (art. 433 n. 2 c.c.) chiamati a fornire un aiuto qualora non vi sia un coniuge o questi non possa soddisfare l’obbligo alimentare. Il diritto agli alimenti è limitato allo stretto necessario ed è proporzionato alle condizioni economiche dell’onerato.

Se il genitore ha più di un figlio, tutti sono obbligati a concorrere alla prestazione in base alle proprie capacità (art. 441 c. 1 c.c.).

Se il figlio non intende versare alcuna somma, può ospitare in casa propria il genitore, in tal modo adempiendo all’obbligo di legge (art. 443 c. 1 c.c.).

L’obbligo di assistenza ai genitori

Il Codice penale sanziona chi fa mancare i mezzi di sussistenza agli ascendenti con il reato di “violazione degli obblighi familiari” punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 a 1032 euro (art. 570 c.p.).

I mezzi di sussistenza sono quelli indispensabili a soddisfare le necessità essenziali della vita, come il cibo, l’abitazione e i medicinali. Inoltre, costituisce reato l’abbandono di una persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia o per vecchiaia, o per altra causa, della quale si debba avere cura; la fattispecie di reato è punita con la reclusione da 6 mesi a 5 anni e le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal figlio (art. 591 c. 4 c.p.).

Dalla norma penale emerge un generale dovere in capo ai figli di assistere i genitori.

Le somme spese per i genitori e l’obbligazione naturale

Torniamo ora alla domanda iniziale: il figlio che aiuta economicamente il genitore può chiedere il rimborso al fratello?

La risposta è negativa.

Il figlio che cura gli anziani genitori adempie ad un’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.). Con tale espressione, ci si riferisce alle somme versate spontaneamente in esecuzione di doveri morali e sociali. Si tratta di doveri imposti dal principio di solidarietà e il loro inadempimento comporta la disistima sociale. Ebbene, simili prestazioni non sono ripetibili, ossia non è possibile chiederne la restituzione.

Allora, cosa può fare il figlio che accoglie il genitore nella propria abitazione per farsi aiutare dai fratelli?

Come abbiamo visto, tenere in casa il soggetto bisognoso rappresenta un modo in cui adempiere all’obbligazione alimentare, pertanto, il genitore, in qualità di legittimato attivo, può chiedere agli altri figli di versare gli alimenti, come prescritto dal Codice civile e, in caso di loro rifiuto, rivolgersi al Tribunale per ottenere una condanna in tal senso.

Molto spesso, il figlio che ha accudito il genitore pensa di aver diritto ad una quota maggiore dell’asse ereditario. Anche in questo caso, la risposta è negativa. Infatti, la circostanza che uno dei figli si sia occupato in via esclusiva del genitore anziano o malato, non incide sulle quote del patrimonio ereditario.

Un figlio che si disinteressa dei genitori è indegno a succedere?

La morale e il diritto non sempre vanno di pari passo. Infatti, anche se eticamente è biasimevole la condotta noncurante di un figlio, non è possibile considerarlo giuridicamente come indegno a succedere. L’istituto dell’indegnità (art. 463 c.c.) riguarda casi tassativi come, ad esempio, l’ipotesi in cui un figlio attenti alla vita del genitore. Solo in tale evenienza egli può essere escluso dall’asse ereditario, perché l’indegnità rappresenta una causa di esclusione dalla successione. Al di fuori di tali casi limite, tutti i figli succedono ai genitori in base alle quote stabilite per legge in assenza di testamento.

Quindi, il genitore che intende “ricompensare” il figlio che si è preso cura di lui può farlo tramite una disposizione testamentaria. Infatti, oltre alla quota di legittima, che spetta di diritto anche all’altro figlio, il testatore è titolare di una quota disponibile che può lasciare a chi desidera.   

L’obbligo alimentare dell’art 433 codice civile. Studio Legale degli Avv.ti Berti e Toninelli. Articolo pubblicato: 17 Febbraio 2022

Chi e come deve versare gli alimenti ex art 433 codice civile

L’obbligo alimentare dell’art 433 codice civile per chi versa in stato di bisogno

Nel Titolo XIII, del primo libro del Codice Civile è contenuta la particolare disciplina inerente gli obblighi alimentari: dell’art 433 codice civile all’art. 448 bis codice civile si parla delle obbligazioni alimentari (conosciute anche come c.d. diritto agli alimenti) alle quali alcuni soggetti sono tenuti, in virtù dell’esistenza di vincoli familiari.

Presupposto del diritto agli alimenti è lo “stato di bisogno”. Una delle ipotesi più frequente è, ad esempio, quella del mantenimento genitore anziano non economicamente autosufficiente.

Il fondamento delle obbligazioni alimentari è individuato nei principi costituzionali di solidarietà e assistenza.

L’art. 433 codice civile indica i soggetti chiamati a prestare gli alimenti, secondo il principio del grado, sulla base della intensità del legame personale con il soggetto beneficiario.

In base all’elenco dell’art 433 codice civile, il primo degli obbligati è il coniuge del beneficiario. In sua assenza, sono obbligati i figli, gli ascendenti prossimi, i generi/nuore, i suoceri ed infine i fratelli/sorelle. Obbligato è altresì il donatario, cioè chi ha ricevuto una donazione dal beneficiario, ma nei limiti del valore “residuo” della donazione ricevuta.

Dopo una breve analisi generale sull’obbligazione alimentare, l’articolo si sofferma sui presupposti, sulle cause di modifica e cessazione dell’obbligo e sui soggetti obbligati.

Viene approfondita soprattutto l’obbligazione nei confronti del coniuge e dei parenti affini: l’articolo esamina se in caso di separazione consensuale gli alimenti continuano ad essere dovuti, e qual è la sorte degli alimenti dopo il divorzio (se cioè sono dovuti o meno gli alimenti al coniuge divorziato).

Viene esaminata anche la dimensione processuale: in che modo il beneficiario può richiedere il diritto agli alimenti. L’azione alimentare deve essere intrapresa dal beneficiario, oppure dal suo tutore, curatore o amministratore di sostegno (nominato tra i parenti e affini entro il quarto grado, oppure esterno alla famiglia), previa autorizzazione del Giudice Tutelare

Questi sono gli argomenti trattati:

Cos’è l’obbligo alimentare ex art 433 codice civile?

L’art 433 codice civile e le altre fonti delle obbligazioni alimentari

Quali sono i presupposti dell’obbligazione alimentare ex art 433 codice civile

Art 433 codice civile: cosa si intende per “stato di bisogno”

Gli alimenti nei confronti del fallito: art 433 codice civile e dlgs 14/2019

Chi sono i soggetti obbligati in base all’art 433 codice civile

Quando i figli (n. 2 dell’art 433 codice civile) sono obbligati al mantenimento del genitore anziano

Quando si è obbligati al mantenimento del suocero o della suocera (n. 4 dell’art 433 codice civile)?

Quale differenza tra alimenti e mantenimento

In caso di separazione consensuale gli alimenti sono dovuti?

Devono essere corrisposti gli alimenti dopo il divorzio?

Quando gli alimenti sono dovuti nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto

Perché il donatario precede tutti i soggetti indicati all’art 433 codice civile

Quali sono le caratteristiche dell’obbligazione alimentare

Art 433 codice civile: come si calcola l’assegno alimentare

Art 433 codice civile: come devono essere versati gli alimenti

Come si richiedono gli alimenti ai soggetti ex art 433 codice civile

Gli alimenti urgenti e provvisori ex art 433 codice civile

Art 433 codice civile: quando si modifica e si estingue l’obbligazione alimentare?

Cosa si rischia per l’inadempimento ex art 433 codice civile

COS’È L’OBBLIGO ALIMENTARE EX ART 433 CODICE CIVILE?

Nel codice civile non viene fornita una vera e propria definizione di obbligo alimentare. Si tratta dell’obbligo di garantire, ad una persona che versa in “stato di bisogno”, le risorse economici sufficienti a soddisfare i bisogni primari, quali il vitto e l’alloggio.

Tale obbligo può sorgere sia in base ad una disposizione di legge, ed è il caso dell’art 433 codice civile, sia in base ad un testamento, sia infine in base ad un contratto, quale la donazione in primis.

In via generale, i caratteri distintivi dell’obbligo alimentare sono:

Lo stato di bisogno del beneficiario: questo deve essere privo di risorse economiche sufficienti a soddisfare i bisogni primari della persona e nella impossibilità oggettiva di procurarseli.

Il particolare legame che lega l’obbligato ed il beneficiario: può trattarsi di un vincolo di famiglia (obbligati in base all’art. 433 del codice civile sono il coniuge, i parenti e gli affini più prossimi) o meramente giuridico (la donazione, oppure un diverso contratto, oppure ancora un lascito testamentario). Secondo una recente pronuncia di merito (Trib. Lecce, sentenza 1418/2020) il legame particolare può sostanziarsi anche nella convivenza di fatto (da non confondere con la mera coabitazione) intesa quale vincolo affettivo.

L’entità della prestazione deve essere commisurata alla situazione personale (non solo sul piano economico, ma anche di età, salute, capacità lavorativa …) di chi la richiede ed alle condizioni economiche di chi è tenuto a tale obbligo. Non può comunque superare alcuni limiti, identificabili in base alla posizione sociale dell’alimentando e ciò che appare necessario ai fini del suo sostentamento.

Nei prossimi paragrafi saranno approfonditi i requisiti richiesti per procedere ex art. 433 codice civile all’identificazione dell’obbligato, nonché altri aspetti tecnici dell’obbligo alimentare.

L’ART 433 CODICE CIVILE E LE ALTRE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI ALIMENTARI

Nel nostro ordinamento sono previste diverse fonti da cui può sorgere l’obbligazione alimentare.

Come anticipato la fonte principale dell’obbligo alimentare è l’art. 433 codice civile, e cioè la legge, la quale muove dal principio di assistenza e di solidarietà familiare.

La fonte dell’obbligo alimentare può altresì essere di natura convenzionale, nel rispetto del principio dell’autonomia contrattuale. Quindi è possibile, ad esempio, far sorgere un’obbligazione alimentare anche con contratto (prevedendo ad esempio un vitalizio alimentare) sulla base del principio dell’autonomia dei privati. Unico contratto previsto espressamente (articoli 437 e 438 codice civile)  è la donazione, tanto che “il donatario è tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante”, con esclusione della donazione fatta in riguardo di un matrimonio e della donazione remuneratoria.

Infine, l’obbligo alimentare può essere imposto per testamento: l’art. 660 codice civile stabilisce che “Il legato di alimenti, a favore di chiunque sia fatto, comprende le somministrazioni indicate dall’art. 438, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto.”

QUALI SONO I PRESUPPOSTI DELL’OBBLIGAZIONE ALIMENTARE EX ART 433 CODICE CIVILE

Concentrandoci sull’obbligazione alimentare di fonte legale ex art. 433 codice civile e successivi, i presupposti essenziali sono:

l’oggettivo ed incolpevole stato di bisogno dell’alimentando, che deve trovarsi in una condizione tale da non poter provvedere autonomamente al proprio sostentamento. Ad esempio, sono dovuti gli alimenti per il mantenimento del genitore anziano che percepisce un reddito complessivo (ad esempio la pensione oppure altre indennità o rendite) insufficiente per il vitto e l’alloggio;

lo stato di bisogno deve essere, secondo una valutazione prognostica, non provvisorio. Il soggetto deve versare nella impossibilità oggettiva di procurarsi i mezzi necessari alla sussistenza. Ad esempio, sono dovuti gli alimenti per il mantenimento del genitore anziano che non può svolgere alcuna attività lavorativa;

Anche il soggetto obbligato al versamento degli alimenti deve presentare alcune caratteristiche. Questo deve essere il donatario o un familiare stretto del beneficiario/donante e deve risultare capace di far fronte alla prestazione economica degli alimenti, ovvero avere una posizione economica tale da potervi provvedere senza sacrificare i propri bisogni primari.

ART 433 CODICE CIVILE: COSA SI INTENDE PER “STATO DI BISOGNO”

Lo stato di bisogno dell’alimentando è il presupposto per far sorgere l’obbligazione oggetto d’esame: ai sensi dall’art. 438 codice civile “gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento”. Per poterne dare una definizione più precisa, viene in aiuto la giurisprudenza che, in modi diversi, ha fornito specifiche indicazioni sul punto.

Nel 2013 la Cassazione ha affermato che per stato di bisogno va fatto riferimento ad uno stato di “impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l’abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie” (Cass., sent. 25248/2013).

Lo stato di bisogno richiede poi una valutazione prognostica sulla impossibilità, per il futuro, di ricevere fonti di reddito, quale l’attività lavorativa in primis. Questa è la parte più difficile da accertare, in concreto, poiché non si limita all’aspetto economico, ma coinvolge tutti gli aspetti della persona del beneficiario: l’età, lo stato di salute, financo il grado di istruzione.

Oltre che oggettivo, lo stato di bisogno deve essere incolpevole. Questo vuol dire che la causa della impossibilità di provvedere autonomamente ai propri bisogni deve essere non imputabile al beneficiario.

Inoltre il beneficiario deve aver tentato, in ogni modo ragionevolmente possibile, di provvedere autonomamente ai propri bisogni.

GLI ALIMENTI NEI CONFRONTI DEL FALLITO: ART 433 CODICE CIVILE E DLGS 14/2019

L’art. 147 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, riprendendo l’art. 47 della “vecchia” legge fallimentare, stabilisce che “Se al debitore vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia.”

Anche se la disposizione si riferisce agli “alimenti” condizionati alla mancanza dei mezzi di sussistenza, si tratta di qualcosa di diverso dall’istituto previsto dall’art 433 del codice civile.

Il sussidio a beneficio del debitore fallito e della sua famiglia, viene “concesso” dal giudice. Non si tratta quindi, in questo caso, di un diritto soggettivo, ma rimesso alla discrezionalità del giudice delegato. Inoltre, il sussidio viene attinto dal patrimonio dello stesso beneficiario, pur se destinato alla soddisfazione dei creditori.

CHI SONO I SOGGETTI OBBLIGATI IN BASE ALL’ART 433 CODICE CIVILE

Come già anticipato, soggetti obbligati a versare gli alimenti sono i familiari stretti e il donatario, cioè colui che in passato ha ricevuto una donazione da parte di chi, successivamente, si è trovato in stato di bisogno.

L’art. 433 codice civile, fornisce una elencazione tassativa dei soggetti obbligati a versare gli alimenti al familiare in difficoltà, indicandoli in ordine di “affezione” parentale. Infatti, l’art. 433 del codice civile stabilisce che all’obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell’ordine:

il coniuge;

i figli, anche adottivi (sono inclusi tutti i figli adottivi, sia quelli adottati dopo il compimento della maggiore età, sia i soggetti adottati nei c.d. casi particolari),

i discendenti prossimi (in mancanza di figli);

i genitori. Come stabilito dall’art. 436 codice civile, il genitore adottante è obbligato prima del genitore del beneficiario;

gli ascendenti prossimi (in mancanza dei genitori);

gli adottanti;

i generi e le nuore;

il suocero e la suocera;

i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.

Si applica il principio del grado: la possibilità dell’adempimento da parte di chi è più prossimo al beneficiario, esclude che l’obbligo ricada su chi è meno prossimo. In altre parole, solo se il coniuge non è in grado di provvedere al pagamento degli alimenti, l’obbligo del mantenimento del genitore anziano ricade sui figli o sui nipoti, e così via.

Il primo dei chiamati agli alimenti è l’eventuale donatario, che ai sensi dell’art. 437 codice civile precede ogni altro obbligato, salvo che si tratti di una donazione obnuziale o remuneratoria.

Nel caso vi siano più persone nello stesso grado (fratelli, sorelle, figli…) o di grado diverso (coniuge e figli) chiamate congiuntamente a corrispondere gli alimenti (ad esempio per il mantenimento del genitore anziano), l’obbligo viene tra essi diviso in proporzione alle condizioni economiche di ciascuna (art. 441 codice civile). Si tratta di una obbligazione parziaria, in base a cui ciascuno risponde in proporzione alle proprie sostanze, ma ai sensi dell’art. 443 codice civile, in caso di urgente necessità, l’autorità giudiziaria può porre temporaneamente l’obbligazione degli alimenti a carico di uno solo tra quelli che vi sono obbligati, salvo il suo diritto di regresso nei confronti degli altri. Peraltro, come sancito dalla giurisprudenza di legittimità, “qualora i bisogni dell’avente diritto agli alimenti sono soddisfatti per intero da uno solo dei condebitori ex lege, questi può esercitare l’azione di regresso, senza la necessità di una preventiva diffida ad adempiere” (Cassazione civile, sentenza n. 4883/1988)

Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 441 codice civile, i coobbligati possono accordarsi sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli alimenti. In mancanza di accordo, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze.

QUANDO I FIGLI (N. 2 DELL’ART 433 CODICE CIVILE) SONO OBBLIGATI AL MANTENIMENTO DEL GENITORE ANZIANO

Quando i figli sono chiamati al mantenimento del genitore anziano?

In caso di un genitore anziano i doveri dei figli sono indicati all’art. 315 bis del codice civile: “il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.

Indipendentemente dalla convivenza, i figli devono occuparsi del mantenimento del genitore anziano, quando ricorrono alcune condizioni:

il genitore anziano si trova in uno stato di bisogno, come ampiamente descritto nei paragrafi precedenti (art. 438 codice civile);

i soggetti chiamati in via principale (il coniuge del genitore anziano, nonché un eventuale donatario, se esistenti), sono impossibilitati totalmente o parzialmente ad adempiere (art. 433 del codice civile);

i figli hanno risorse economiche sufficienti a provvedere, almeno in parte, ai bisogni elementari del genitore (art. 441 capoverso del codice civile).

Al verificarsi di queste condizioni, i figli sono obbligati al mantenimento del genitore anziano, ciascuno in proporzione alla propria capacità economica.

QUANDO SI È OBBLIGATI AL MANTENIMENTO DEL SUOCERO O DELLA SUOCERA (N. 4 DELL’ART 433 CODICE CIVILE)?

La prestazione alimentare ex art 433 codice civile coinvolge anche gli affini, ed in particolare gli ascendenti prossimi del coniuge.

È quindi possibile che il genero o la nuora siano chiamati al mantenimento del suocero o della suocera in stato di bisogno.

Rispetto all’ipotesi precedentemente descritta, tuttavia, per poter configurare la sussistenza dell’obbligo, occorre che:

il suocero o la suocera versino in stato di bisogno;

siano impossibilitati a mantenerli, in tutto o in parte, i rispettivi coniugi, i loro figli o nipoti, i loro genitori o ascendenti prossimi, nonché eventuali donatari;

Il genero o la nuora abbiano risorse economiche sufficienti per provvedere, almeno in parte, al mantenimento dei suoceri.

QUALE DIFFERENZA TRA ALIMENTI E MANTENIMENTO

In caso di separazione giudiziale o separazione consensuale gli alimenti sono dovuti? Per rispondere a questa domanda, occorre distinguere tra mantenimento ed alimenti, sebbene nel linguaggio comune tali espressioni vengano spesso confuse ed utilizzate come sinonimi.

L’obbligo di mantenimento investe una serie di situazioni diverse, tutte riconducibili al contesto dei rapporti endo-familiari. Si parla dell’obbligo di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli (art. 147 codice civile), dell’imprenditore nei confronti del collaboratore familiare (art. 230 bis codice civile), del coniuge separando nei confronti dell’altro (art. 156 codice civile).

Come anticipato nei paragrafi precedenti, l’obbligazione alimentare è finalizzata ad assicurare a chi si trovi in “stato di bisogno”, la possibilità di provvedere al proprio sostentamento ed è dovuta in proporzione al bisogno di chi li richiede ed alle condizioni economiche di chi deve somministrarli.

Diversamente, il mantenimento che il soggetto economicamente “forte” versa all’altro, è una prestazione economica di portata molto più ampia di quella alimentare, finalizzata ad assicurare al soggetto “debole” non solo il minimo indispensabile per i bisogni vitali, ma anche un adeguato tenore di vita.

C’è quindi una differenza qualitativa e quantitativa.

IN CASO DI SEPARAZIONE CONSENSUALE GLI ALIMENTI SONO DOVUTI?

Fatta questa preliminare distinzione, alla domanda se in caso di separazione giudiziale o separazione consensuale gli alimenti sono comunque dovuti, occorre dare risposta affermativa.

Nel sistema italiano, la separazione dei coniugi non determina il venir meno del vincolo coniugale, ma solamente la sospensione di alcuni obblighi endo-familiari (come l’obbligo di coabitazione e di fedeltà tra i coniugi). Pertanto, anche in pendenza di separazione, al verificarsi dei presupposti il coniuge in stato di bisogno ha diritto a ricevere la prestazione alimentare dall’altro coniuge, e ciò a prescindere dall’eventuale addebito.

Inoltre, in materia di separazione, l’addebito (ne abbiamo parlato in questo articolo ) esclude il diritto al mantenimento, ma non quello agli alimenti.

In materia di successione, l’art. 548 comma 2 codice civile stabilisce che “Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L’assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero degli eredi legittimi, e non è comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta.”

DEVONO ESSERE CORRISPOSTI GLI ALIMENTI DOPO IL DIVORZIO?

Sono dovuti gli alimenti dopo il divorzio? Se la separazione costituisce una fase di “crisi” del ménage matrimoniale, il divorzio ne segna il definitivo scioglimento, e con esso la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ivi compresi tutti gli obblighi reciproci dei coniugi indicati all’art. 143 del codice civile.

Con la sentenza di divorzio, il “coniuge” cessa di essere tale. Perde quindi il diritto agli alimenti il coniuge divorziato, che tuttavia può ricorrere agli altri soggetti indicati dall’art 433 codice civile.

Lo stesso può dirsi in caso di annullamento del matrimonio, che a differenza del divorzio, lo cancella come se non fosse mai esistito.

Tuttavia, l’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio n. 898 del 1970 stabilisce che “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale (…) dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Anche in questo caso, occorre soffermarsi sulla differenza tra obbligo alimentare ed assegno divorzile, il quale ha funzione assistenziale, perequativa e compensativa (SS. UU. sent. n. 18287/2018). L’assegno divorzile ha la funzione di assicurare all’ex coniuge l’autosufficienza economica (Cass., sent. n. 11504/2017) e viene stabilito sulla base non solo dello stato di bisogno, ma anche su altri fattori, quali il contributo dato dall’ex-coniuge al nucleo familiare ed al patrimonio, alla durata del matrimonio, al nesso causale tra le scelte operate dagli ex coniugi in costanza di matrimonio e la loro situazione attuale (Cassazione, ordinanza n. 1786/2021).

QUANDO GLI ALIMENTI SONO DOVUTI NELLE UNIONI CIVILI E NELLE CONVIVENZE DI FATTO

L’art. 433 codice civile nulla dice in merito alla possibilità di poter considerare, alla stregua del coniuge, anche il soggetto convivente di fatto o unito civilmente. Orbene, l’art. 1 comma 65 della legge “Cirinnà” (legge n. 76/2016) afferma che in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice adito stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti, qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento.

Peraltro il Tribunale di Lecce (sentenza n. 1418 del 18.06.2020) ha interpretato l’art. 1 comma 65 della legge 76/2016 applicandolo anche alle coppie di fatto more uxorio non registrate. Pertanto, il convivente more uxorio, anche in assenza del contratto di convivenza, ha diritto agli alimenti “qualora sia accertato lo stato di bisogno del richiedente e questi non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’art. 438, co 2 c.c., in proporzione cioè del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli“.

La maggiore differenza rispetto alla disciplina “ordinaria” contenuta all’art 433 codice civile sta nella durata dell’obbligo: gli alimenti devono essere versati dall’unito civilmente per un periodo di tempo determinato dal giudice, che sia proporzionale alla durata della convivenza intercorsa e nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438, secondo comma, del codice civile.

Per quanto riguarda la “posizione” nella gerarchia dell’art. 433 del codice civile, la L. 76/2016 obbliga l’unito civilmente con precedenza su fratelli e sorelle, ma in subordine al coniuge, ai figli, ai discendenti, ai genitori, agli ascendenti prossimi, agli adottanti, ai generi e nuore, ai suoceri.

PERCHÉ IL DONATARIO PRECEDE TUTTI I SOGGETTI INDICATI ALL’ART 433 CODICE CIVILE

Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, l’art. 437 codice civile prevede che il donatario (colui che ha ricevuto una donazione) sia obbligato, con precedenza su ogni altro soggetto, a prestare gli alimenti al donante.

La ratio alla base è ben individuabile nel rapporto tra donante e donatario.

Quando la donazione viene fatta per assoluto spirito di liberalità, cioè in modo totalmente gratuito e fine a sé stesso, la legge ravvede nella posizione del donatario, un dovere di riconoscenza.

Tanto è vero che, ai sensi dell’art. 801 del codice civile, la donazione può essere revocata “per ingratitudine”, se il donatario rifiuta indebitamente di versare gli alimenti dovuti.

L’obbligo del donatario precede quello dei familiari, perché sarebbe irragionevole che il donatario si arricchisca, mentre la famiglia del donante, che pur ha risentito gli effetti sfavorevoli della donazione, debba provvedere al suo mantenimento. Viene tuttavia temperato nel quantum: l’art. 438 codice civile stabilisce che questo è obbligato nei limiti del valore della cosa donata, che residua al momento in cui nasce l’obbligazione alimentare.

Viceversa, laddove la donazione non sia animata da una liberalità “pura”, il donatario è escluso dall’elenco ex art 433 del codice civile e dai soggetti chiamati. È il caso delle donazioni remuneratorie ex art. 770 codice civile, cioè quelle effettuate per ricompensare il donatario di qualche merito, e quelle obnuziali ex art. 785 codice civile, effettuate in relazione alla celebrazione del matrimonio del donatario. Sono escluse anche le donazioni elargite in virtù di usi e consuetudini, e quelle di modico valore.

Rimane invece discusso se possano essere o meno escluse le donazioni indirette.

QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DELL’OBBLIGAZIONE ALIMENTARE

Il c.d. diritto agli alimenti di cui agli art 433 codice civile e seguenti ha carattere strettamente personale. Ai sensi dell’art. 447 codice civile, il credito alimentare è indisponibile: non può essere ceduto, né usato per compensare i debiti del beneficiario ed è intrasmissibile agli eredi.

È irripetibile (non ne può essere richiesta la restituzione) e inalienabile, non potendo neanche essere sottoposto a rinuncia o transazione.

Il carattere di indisponibilità non riguarda invece l’obbligo alimentare sorto per convenzione (Cass. civ. n. 10362/1997).

Le somme dovute a titolo di alimenti non possono essere pignorate, ai sensi dell’art. 545 comma 1 codice di procedura civile, tranne che per cause di alimenti.

Infine, è escluso dalla massa fallimentare, nei limiti di quanto necessario al fine di garantire il sostentamento del fallito e della sua famiglia .

ART 433 CODICE CIVILE: COME SI CALCOLA L’ASSEGNO ALIMENTARE

Gli alimenti sono dovuti “in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli” (art. 438 codice civile).

Il giudice determina il quantum dell’obbligo alimentare, considerate diverse circostanze, sia oggettive che soggettive.

Occorre valutare sia la situazione economica effettiva nella quale versa l’alimentando, comprese le fonti di reddito derivanti o derivabili da diritti reali che gli consentirebbero di sopravvivere dignitosamente, sia quella di coloro i quali sono chiamati ad adempiere la prestazione alimentare.

La Suprema Corte ha precisato che, per poter individuare il quantum del diritto agli alimenti, “il raffronto fra le rispettive condizioni economiche va effettuato con riferimento alla situazione in atto, e, quindi, deve prescindere da vicende future, quale la probabile riscossione di crediti, le quali potranno avere influenza, al loro verificarsi, per un’eventuale revisione di dette statuizioni, ai sensi dell’art. 440 c.c.” (Cass., sent. n. 9432/1994).

Tra fratelli e sorelle, gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto necessario (a prescindere dalle condizioni economiche e sociali del beneficiario) e possono comprendere anche le spese per l’educazione e l’istruzione, se l’alimentando è minorenne.

Il variare delle condizioni economiche dell’obbligato e/o del beneficiario, giustifica una variazione dell’importo da versare. Ai sensi dell’art. 440 codice civile “se dopo l’assegnazione degli alimenti mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve, l’autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l’aumento, secondo le circostanze.”

L’obbligo alimentare non può eccedere quanto necessario per la vita dell’alimentando, mentre un limite specifico è previsto per l’obbligo del donatario, per il quale l’importo da versare non può superare il valore attuale e residuo della donazione accettata.

ART 433 CODICE CIVILE: COME DEVONO ESSERE VERSATI GLI ALIMENTI

In base all’art. 443 codice civile, “chi deve somministrare gli alimenti ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto. L’autorità giudiziaria può però, secondo le circostanze, determinare il modo di somministrazione.”

Pertanto l’assegno alimentare, di regola versato mensilmente, può essere sostituito dall’accoglimento nella propria casa dell’alimentando, provvedendo così alle sue spese, garantendogli vitto, alloggio, assistenza (si pensi al mantenimento del genitore anziano) e cure mediche ove necessarie.

Nel caso in cui la scelta della convivenza non sia condivisa dal beneficiario, egli può chiedere che ai sensi dell’art. 443 comma 2 codice civile, sia l’autorità giudiziaria a determinare le modalità di somministrazione degli alimenti, anche prevedendo soluzioni alternative a quelle indicate al primo comma, come ad esempio la fornitura periodica di beni in natura, la messa a disposizione di una rendita, la stipulazione di un contratto di comodato abitativo di un immobile.

La prestazione alimentare è dovuta dal momento della domanda giudiziale o dal momento in cui si effettua la costituzione in mora dell’obbligato, se entro sei mesi dalla stessa viene iniziato il giudizio.

COME SI RICHIEDONO GLI ALIMENTI AI SOGGETTI EX ART 433 CODICE CIVILE

Per poter ottenere la prestazione alimentare, l’interessato deve rivolgersi al proprio legale di fiducia, al fine di instaurare un procedimento avanti al Tribunale competente.

Nel caso in cui al beneficiario sia affiancato un tutore, un curatore o un amministratore di sostegno, nominato tra i parenti ed affini entro il quarto grado, oppure esterno alla famiglia, è necessaria l’autorizzazione del Giudice Tutelare (art. 374 codice civile).

La domanda giudiziale, nella forma dell’atto di citazione (art. 163 codice procedura civile), instaura un giudizio ordinario di merito, nel quale il richiedente deve dimostrare il proprio stato di bisogno e l’impossibilità di provvedere al proprio sostentamento, nonché il vincolo (familiare o contrattuale) che lo lega al soggetto chiamato.

In merito al riparto dell’onere della prova, si evidenzia come sull’obbligato gravi la dimostrazione del suo stato di impossibilità economica a provvedere ai bisogni del parente in difficoltà, e/o la esistenza di altri soggetti, tra quelli indicati all’art 433 del codice civile, che lo precedono nell’obbligo del versamento.

Il deposito della domanda giudiziale segna anche l’inizio della debenza degli alimenti, che tuttavia retroagisce al momento della messa in mora dell’obbligato, se l’azione viene intrapresa entro i sei mesi successivi (art. 445 codice civile).

La sentenza che accerta l’esistenza del diritto e condanna l’obbligato è pronunciata “sic rebus stantibus”, cioè al permanere della situazione di fatto e di diritto attuale. Questo quindi non preclude la possibilità di una futura modifica della misura degli alimenti (sia in aumento, che in riduzione) o della cessazione dell’obbligo, al sopravvenire di nuove circostanze di fatto e di diritto.

GLI ALIMENTI URGENTI E PROVVISORI EX ART 433 CODICE CIVILE

Considerato che i lunghi termini del procedimento giudiziario non consentirebbero, nelle more della sua definizione, una tutela effettiva del richiedente, l’art. 446 codice civile prevede che il Presidente del Tribunale disponga, su richiesta ed in via provvisoria, la corresponsione di un assegno.

Inoltre, in base all’art. 443 codice civile, pur in presenza di più coobbligati (si è detto, in maniera parziaria, ciascuno in proporzione delle proprie capacità economiche), l’obbligo può essere temporaneamente posto interamente a carco di uno solo di essi, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri.

La giurisprudenza si è spesso interrogata sulla natura del provvedimento urgente e provvisorio emesso dal giudice e sulla possibilità che lo stesso possa essere reso in altri modi diversi dall’introduzione del giudizio di merito, cioè evitando la causa vera e propria in caso di disaccordo tra le parti. L’orientamento prevalente ritiene che sia necessario istaurare il giudizio di merito, non essendo possibile ottenere il provvedimento provvisorio in via cautelare, ad esempio tramite un provvedimento ex art. 700 c.p.c. (in tal senso, v. Trib. Milano ord. 3 aprile 2013; Trib. Venezia ord. 28 luglio 2004; Trib. Catania ord. 22 marzo 2005). Tuttavia, parte della giurisprudenza di merito invece ritiene ammissibile la tutela d’urgenza prima dell’inizio della causa vera e propria (v. Trib. Catania 22 marzo 2005; Trib. Trani 9 gennaio 2012).

ART 433 CODICE CIVILE: QUANDO SI MODIFICA E SI ESTINGUE L’OBBLIGAZIONE ALIMENTARE?

Come tutte le obbligazioni, anche quella alimentare può subire modifiche o estinguersi al verificarsi di svariate situazioni.

L’art. 440 codice civile stabilisce che, se le condizioni economiche di chi somministra o chi riceve gli alimenti mutano dopo la sentenza, occorre nuovamente rivolgersi al giudice per richiedere una modifica dell’importo da versare.

Tipicamente, un motivo di richiesta di modifica è la inflazione monetaria, anche se nella prassi, la misura dell’obbligo alimentare viene legata alla rivalutazione economica.

Inoltre, la prestazione alimentare può subire riduzioni anche al verificarsi di una condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato, ad esempio, quando alimentando non utilizzi le somme di denaro corrisposte a titolo di alimenti in maniera coscienziosa. In questi casi, i parenti e gli affini entro il quarto grado possono richiedere la nomina di un amministratore di sostegno, che si occupi della gestione economica dei beni dell’alimentando.

Inoltre, è possibile chiedere la cessazione dell’obbligo in capo ai soggetti ex art. art 433 codice civile nel caso in cui vengano meno i presupposti previsti dall’art. 438 codice civile.

L’estinzione dell’obbligo alimentare si verifica anche con la morte dell’alimentando o dell’alimentante (v. art. 448 c. c. caso di estinzione per morte dell’obbligato).

Sono poi previste ipotesi speciali di cessazione dell’obbligo:

per il figlio (o i suoi discendenti prossimi) cessa l’obbligo nei confronti del genitore per il quale sia stata pronunciata la decadenza della responsabilità genitoriale (art. 434 codice civile);

per i suoceri (e del genero e della nuora) cessa l’obbligo quando il beneficiario è passata a nuove nozze; e quando il coniuge, da cui deriva l’affinità, e i figli nati dalla sua unione con l’altro coniuge e i loro discendenti sono morti (art. 448 bis codice civile). Come da pacifica giurisprudenza, la sentenza di divorzio non determina l’automatica caducazione del vincolo di affinità fra un coniuge e i parenti dell’ex coniuge: di tale vincolo viene meno, in base all’art. 78 comma 3 codice civile, solo in caso di nullità del matrimonio. Quindi, il divorzio non fa venir meno l’obbligo alimentare tra affini, che resta disciplinato dall’art. 434 c. c.: la sentenza, mentre determina la caducazione dell’obbligo alimentare tra gli affini solo ove l’avente diritto passi a nuove nozze e se non siano vivi i figli nati dal matrimonio o loro discendenti, peraltro può giustificare soltanto una richiesta di revisione dell’obbligo medesimo, ove essa sentenza si traduca, anche in relazione alle statuizioni patrimoniali conseguenziali al divorzio, in un mutamento della situazione in base alla quale gli elementi siano stati riconosciuti e liquidati (in tal senso Cass., sent. n. 2848/1978).

per il donatario, in caso di revoca o nullità della donazione;

per il coniuge, che perde il diritto agli alimenti dopo il divorzio o in caso di annullamento del matrimonio.

COSA SI RISCHIA PER L’INADEMPIMENTO EX ART 433 CODICE CIVILE

L’inadempimento dell’obbligo alimentare comporta una duplice responsabilità, sia sul piano civile che su quello penale.

Sul piano civile, l’inadempiente potrebbe subire un procedimento di esecuzione forzata, con conseguente pignoramento dei propri beni.

Sul piano penale, l’art. 570 codice penale, rubricato “obblighi di assistenza familiare”, punisce con la reclusione sino a un anno, ed una sanzione pecuniaria che va da 103 a 1.032 euro, chi fa mancare i mezzi di sussistenza agli ascendenti (…ai discendenti di età minore, inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa…).

Inoltre, l’art. 388 comma 2 del codice penale (mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice) punisce con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032, chi “elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero ancora l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”.

Lo Studio Legale degli Avv.ti Berti e Toninelli opera presso i Tribunali di Pistoia, Prato, Lucca e Firenze ed in tutta Italia tramite i servizi online. Si trova a Pistoia, in Piazza Garibaldi n. 5.

Accompagnamento anziani: cosa è, a chi viene dato e come richiederlo. Da Seremy. Finalmente un pò di chiarezza sul tema dell'accompagnamento anziani, molto importante per chi si prende cura di un genitore avanti con gli anni.

Non tutti sanno esattamente cosa sia esattamente l’accompagnamento anziani, chi ne abbia diritto e a quanto ammonti la somma percepita. Per questo abbiamo deciso di fare chiarezza sul tema, molto importante per chi si prende cura di un genitore avanti con gli anni.

Chi ha diritto all’accompagnamento anziani?

La richiesta può essere fatta da tutti coloro che hanno un’età minima di 67 anni, ma non basta l’età anagrafica per ottenere l’accompagnamento anziani. In questo caso è fondamentale avere un’invalidità al 100% riconosciuta in modo permanente dall’INPS, ente nazionale di previdenza sociale.

Si tratta quindi di un beneficio che va a favore di chi ha difficoltà a compiere le attività quotidiane e necessita di costante assistenza.

Come fare domanda di indennità di accompagnamento?

Per ottenere l’accompagnamento anziani è importante avere un certificato di invalidità al 100% rilasciato dall’INPS. Successivamente il patronato correda questo documento con la dichiarazione dei redditi del richiedente e l’ASL di riferimento contatta il cittadino per la visita medica che ne certifichi il grado di invalidità.

Oltre all’invalidità al 100% è importante sapere che si deve avere un reddito inferiore a 17,340,17 euro all’anno per richiedere l’importo dell’accompagnamento anziani. Se la procedura di richiesta va a buon fine l’anziano riceve la somma dal mese successivo al recepimento del verbale.

A quanto ammonta l’assegno di accompagnamento?

Pochi sanno a quanto ammonti l’assegno di accompagnamento per anziani. Nel dettaglio si tratta di un sussidio di importo pari a 530,27€ mensili per un totale di 12 mensilità annue e che a differenza dell’indennità di invalidità civile non prevede la tredicesima.

Quali sono le differenze tra accompagnamento e invalidità?

Oltre all’importo erogato ci sono altre differenze tra accompagnamento e invalidità civile. La domanda di invalidità civile riguarda tutti coloro che – dai 18 ai 67 anni di età – sono affetti da gravi patologie o deficit fisici e psichici. La richiesta viene fatta anche dagli invalidi al 100% oltre i 67 anni di età e non più autosufficienti e bisogna rispettare alcuni requisiti di reddito.

In alcuni casi l’accompagnamento è rivolto anche ai minori di 18 anni con gravi patologie, anche in questo caso sulla base di requisiti di reddito.

In ogni caso in Italia le persone invalide hanno diritti ad un assegno di mantenimento che permette loro di vivere in modo adeguato e coprire le spese per un eventuale servizio di badante.

Vittorio Puglisi se n’è andato.

Non è ritornato a Catania in Sicilia, sua terra natia, per rinchiudersi in un ospizio, come aveva preventivato di fare. No! E’ morto.

E ad Avetrana, suo paese ospitante, nessuno ne sa niente. Nemmeno un manifesto funebre per avvisare la popolazione, eppure era conosciuto e beneamato da molti.

Non può essere che se ne vada così senza che di lui non vi rimanga un ricordo.

Era di Catania. Era un agente di commercio trasfertista, poi domiciliatosi nel barese. Era sposato con due figli.

Dopo che si era trasferito lasciò la moglie a Catania per la sua segretaria di Erchie (Br) con due figlie, che lui crebbe ed istruì. Una di loro è diventata Avvocato e poi Parlamentare.

La famiglia di Catania recise ogni rapporto con lui.

Da pensionato si trasferì con la nuova famiglia a Manduria e poi comprò casa in un condominio a San Pietro in Bevagna.

Con la seconda moglie le cose non andarono bene, tanto che lei, malata, lo lasciò per trasferirsi in una casa di riposo per anziani, fino alla sua morte. Anche le figlie di lei recisero ogni rapporto con Vittorio, salvo mantenere una lite giudiziaria per degli immobili comprati dai coniugi, ma in possesso delle figlie e non resi come quota ereditaria a Vittorio. Gesto che indusse Vittorio, per ripicca, a donare ai figli di Catania la sua casa al mare.

Lui rimase comunque solo, ultrasettantenne.

Su consiglio di un personaggio, che si autodefiniva guardiano dei condomini della litoranea in cambio di regalie, si trasferisce ad Avetrana, in un appartamento vicino al suo, affinché non fosse da solo a svernare sulla marina. Si scoprì poi che la ragione del gesto era di poter affittare l’appartamento ed intascare i soldi, senza che Vittorio ne sapesse niente.

Vittorio diventa mio vicino, spalla a spalla.

La casa vecchia presa in locazione, con lui si trasforma tutto a vantaggio del proprietario.

È autonomo, giovanile e distinto e voleva affrancarsi dai figli, assoggettandosi ad un estraneo. Non è acculturato e non riesce a capire che l’estraneo è limitato dalla legge nelle decisioni che lo riguardano, tantomeno non vi era alcun incentivo con la donazione modale, avendo dato tutto ai figli.

Lui fa amicizia con tutti quelli che si rapportano con lui.

Un giorno dalla mia cucina sento un tonfo dall’altra parte del muro divisore, con conseguenti gemiti.

Mio figlio Mirko, prima chiama il suo nome e poi, non ricevendo risposta, salta il muro e va a vedere cosa fosse successo.

Vittorio era caduto in bagno. Era scivolato nella vasca, aveva battuto la testa e si era rotto l’anca e non aveva la forza di chiedere aiuto.

Chiamammo l’ambulanza che lo ricoverò all’ospedale di Manduria. Durante la sua decenza lo assistemmo, io e la mia famiglia, e pagai le spese correnti, in quanto lui non poteva prelevare il denaro.

Gli consigliai di chiamare i figli, per l’assistenza e per poter prendere decisioni. Lui lo fece.

Loro rimasero solo un giorno, lasciando il malato da solo a letto, impossibilitato a muoversi.

Io chiamai l’OSS e l’assistente sociale di Avetrana. Non potevo assistere un malato con la spada di Damocle della circonvenzione di incapace. Io, per autotutela, rifiutai ogni forma di donazione di riconoscenza, cosa che altri, forse, non fecero dopo il mio allontanamento. Perché lui era prodigo con tutti, vantandosi della sua capacità di intendere e volere.

L’assistente sociale ed i carabinieri mi supplicarono di provvedere a Lui, ma non potevo. Non avevo la legittimità di agire dei figli o di un rappresentante legale.

Denunciai i figli per abbandono di incapace. Vittorio non poteva muoversi dal letto per l’operazione all’anca e non vi era nessuno ad aiutarlo, nemmeno per mangiare. La denuncia fu rigettata.

Vittorio sapeva della denuncia e ne rimase male. Lui voleva molto bene ai figli e soffriva per il fatto che l'amore non era ricambiato.

In questo modo Vittorio era rimasto solo, salvo la presenza della cagnolina. Comunque io non ho mai negato ogni aiuto urgente e necessario, o che altri non fossero capaci di dare.  

Vittorio in cerca di qualcuno che gli facesse compagnia, cercò la sponda in un altro vicino di casa.

Intanto con me festeggia le festività e il 2 giugno 2023 festeggia con me i miei sessant’anni in famiglia.

Dopo pochi giorni vende la casa, con la firma dei figli donatari. Questi rimangono poche ore, giusto il tempo della firma: ricevono i soldi e vanno via.

Agli inizi di luglio 2023 muore la cagnolina, sua compagna per 19 anni.

La sua routine giornaliera era regolare. Incombenze casalinghe e passeggiate con la cagnolina.

E così è andato avanti, fino a che nell’ultimo anno si sentiva stanco ed affaticato. Era un po’ sordo ed aveva la prostatite. Aveva fatto l’operazione della cataratta agli occhi ed altri esami di routine. Eppure arriva un giorno che, per l’ennesima volta, chiamo insieme a lui il medico, perché era un po’ di giorni che non andava al bagno. Lei arriva, lo visita, legge le analisi fatte giorni prima e chiama l’ambulanza. Il pronto soccorso di Manduria dopo un’ora mi chiama per riprenderlo, perché gli hanno dato l’uscita. Era il 25 luglio 2023: entrata ore 16-uscita ore 18. Gli danno come cura un placebo: degli integratori che io provvedo a comprare in farmacia.

Dopo tre giorni di cura inutile, uso di purghe varie e della peretta, nulla succede, Vittorio va nuovamente al pronto soccorso con un amico. Dopo ore di attesa senza che venga visitato, ritorna a casa debilitato.

Il 31 luglio 2023 alle ore 4 del mattino Vittorio si fa riaccompagnare al pronto soccorso di Manduria dallo stesso amico coetaneo.

Questa volta lo tengono in osservazione e lo ricoverano. Solo adesso si accorgono che Vittorio ha tutti i sintomi visibili della Leucemia ed i valori dei globuli bianchi sono sfalsati. Tutto visibile da un anno a questa parte. Tanto che il medico, che lo cura in reparto dell’ospedale, si spinge a dire: come mai nessuno si era accorto prima della malattia, nonostante i reiterati esami, omettendo l’accusa ai suoi colleghi del pronto soccorso.

Il Medico, stante la situazione, dice a Vittorio di chiamare i figli.

Loro vengono e nello stesso giorno vanno via, portandosi con sé la sua Mercedes pagata qualche mese prima 16mila euro.

L’11 agosto 2023 alle ore 18.00 Vittorio muore all’ospedale di Manduria. Aveva 86 anni.

I figli ritornano e il giorno dopo vanno via.

Vittorio è rimasto ancora una volta da solo nella camera mortuaria del cimitero di Avetrana, dall’11 al 17 agosto 2023, giorno della sua cremazione a Foggia, come lui ha sempre voluto.

Il proprietario della casa di Vittorio ne prende possesso.

Delle cose di Vittorio site nella sua dimora nulla più si saprà; delle sue volontà depositate dal notaio, nulla si sa.

Questo resoconto affinchè di Vittorio non rimanga solo cenere ed oblio.

Ciao Vittorio, ci ricorderemo di te…

Estratto da open.online il 7 Settembre 2023

Domenico, il padre del cantante Michele Merlo, dice che suo figlio è stato ucciso dal sistema sanitario. E sostiene di essere rimasto basito dalla richiesta di archiviazione dell’indagine da parte della procura. 

L’ex carabiniere ricorda l’accusa nei confronti del medico di base di Rosà Domenico Pantaleo. Ma poi aggiunge: «Il punto non è un giovane medico di base che ha commesso un errore madornale. Il punto è il sistema che per anni ha promosso i tagli e le politiche che hanno prodotto le condizioni perché un errore del genere fosse commesso». 

Annuncia l’opposizione alla richiesta di archiviazione.  

(...)

Michele Merlo è morto per una leucemia fulminante il 6 giugno 2021. Ma il padre non ci sta: «Ci sono diverse perizie che dicono la stessa cosa: con le giuste cure Michele aveva altissime probabilità di essere salvato. Eppure per il pm non è possibile stabilirlo con certezza. Lo capisco, ma che mi si venga a dire una cosa del genere dopo due anni… Io vorrei solo che il pm si mettesse anche solo per un minuto – non dico per oltre due anni, basterebbe un minuto – nei nostri panni. 

Se immaginasse cos’è diventata la nostra vita…». Nel colloquio con Maria Elena Grottarelli ricorda: «Prima ci eravamo rivolti al pronto soccorso di Cittadella, in provincia di Padova e, il 26 maggio, a quello di Vergato, fuori Bologna, da cui Michele venne mandato via con un antibiotico. E allora, secondo lei, io con chi me la dovrei prendere? Con Vitaliano Pantaleo? Con un ospedale? No, questo è un problema di sanità».

 Noci, turista 92enne muore dopo una caduta: 6 chiamate al 118 e una al 113 senza risposta. L'anziana vittima, Domenico Fiorelli, si era ferito alla testa scivolando da una scala esterna di un trullo. Il figlio Umberto sporge denuncia e scrive a Giorgia Meloni: «Ci pensi a portare il G7 in Puglia, qui la sanità non esiste». REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno l' 08 settembre 2023

. Una vacanza finita in tragedia per un 92enne di Bolzano che lo scorso 4 agosto è morto a Noci. L'uomo, Domenico Fiorelli si era ferito alla testa scivolando da una scala esterna di un trullo. Nonostante la famiglia e i vicini avessero chiamato per 6 volte il 118 e una volta il 113, non hanno ricevuto alcuna risposta. Così, i vicini decidono di portare il signor Domenico direttamente al presidio ospedaliero di Noci e, di fronte al medico, che per spostarsi ha bisogno di un’autorizzazione del servizio medico, chiamano ancora il 118. Ma ancora una volta non ottengono alcuna risposta.

Tra la prima e l’ultima chiamata passano 40 minuti. Momenti fatali visto che Domenico - secondo quanto raccontano i familiari - ha avuto un infarto. «Il medico, senza effettuare alcuna manovra di rianimazione come credo che si debba fare in queste situazioni, gli fa un elettrocardiogramma e mi annuncia che è morto. Erano in tre nell’ambulanza e nessuno ha tentato una manovra, nulla. Non so perché. Mio papà è morto così», spiega il figlio della vittima 

A denunciare la vicenda alla questura di Bolzano, città di residenza dell’anziano, è stato il figlio Umberto: il caso verrà preso in gestione dai magistrati di Bari. Il figlio della vittima anche scritto a Giorgia Meloni: “Ci pensi a portare il G7 in Puglia, qui la sanità non esiste”.

Il centro operativo del servizio 118 di Bari sta ora effettuando gli accertamenti per capire cosa sia accaduto realmente. Inoltre, chi indaga sta risalendo al registro delle chiamate e ai turni di lavoro nella sala operativa per verificare se effettivamente possano esserci responsabilità da parte dei sanitari.

Torino, l’odissea con mio padre 84enne, abbandonato per sei ore su una barella alle Molinette. Jan Pellissier su Il Corriere della Sera venerdì 17 novembre 2023.

Nel corridoio, al freddo, altri venti malati. «Questo è l’inferno, a breve me ne vado», le parole di un medico che dopo vari tentativi mi concede udienza

Da oltre dieci anni mio padre soffre, dopo una caduta, di attacchi epilettici. Il suo ospedale di riferimento è il Mauriziano, dove hanno una cartella clinica che è un libro oramai. Quasi sempre gestiamo gli attacchi in famiglia, qualche volta però serve ricoverarlo.

Lunedì scorso ha avuto ben due attacchi. Il primo al mattino dopo una leggera caduta, con conseguente ricovero al Mauriziano, esame della Tac negativo e rientro a casa verso le 14. Il secondo poco dopo le 15, con nuovo ricovero ma alle Molinette dove arriva alle 16 in codice rosso. Dopo una visita e una nuova Tac, mi viene concesso di entrare al Pronto Soccorso e il neurologo di turno mi chiede lumi sulla storia clinica di mio padre. Lui dovrebbe aprire la storia clinica di mio padre con un click, e invece sconsolato ammette che le banche dati dei due ospedali non si parlano.

Sono quindi costretto a riassumere dieci lunghi anni di malattia con i miei ricordi, con il rischio di omettere dettagli magari cruciali. Un’anamnesi dilettantesca, su cui vengono però prese decisioni vincolanti. Mi viene chiesto quale sia il piano terapeutico attuale di mio padre, ma letti i farmaci, il neurologo spiega che non sono disponibili. Il neurologo decide quindi di tenere mio padre in osservazione per sei ore. È abbandonato su una lettiga con indosso solo un pannolone chiuso male e una pettorina di stoffa bucata, a coprirlo un lenzuolo e una coperta. Fa freddo, siamo in un seminterrato, e le porte si aprono e chiudono di continuo facendo entrare altra aria fredda, e molte porte nemmeno si chiudono più. Nessuno monitoraggio su pressione, saturazione o altri parametri vitali. Lo copro con una giacca che mi sono portato da casa, e con la mia giacca a vento gli proteggo i piedi. Non è possibile dargli l’acqua, perché altrimenti fa la pipì e tocca portarlo in bagno. Quindi ha anche sete. Nel corridoio altri 20 malati. Intorno a me una donna seminuda, uomini anziani doloranti sulle barelle con organi sessuali en plein air. Alle 21, dopo cinque ore finalmente arriva una delle tre pastiglie della sua terapia, e un sorso d’acqua.

I medici si alternano, nessuno si ferma o chiede come stia mio padre, che prova a dormire, sempre più confuso. Alle 22 un medico, dopo varie richieste, mi concede udienza. È stanco, ma non come lo sono io. «Questo è l’inferno, a breve me ne vado» mi spiega, senza che gli abbia chiesto nulla. Legge nello schermo quel che ho raccontato io al neurologo, mi consegna un blister di potassio, con sole due pillole superstiti, e dà il via libera alle dimissioni. Sono solo e devo caricare in auto mio padre. Una ragazza del personale mossa a pietà, mi aiuta a rivestirlo. È stremato. Vado a prendere l’auto in strada, torno nell’area di parcheggio delle ambulanze e da soli, io e il mio papà 84enne, ci arrangiamo in qualche modo a salire in auto. Nessuno offre aiuto, nessuno vede nulla e nessuno, forse, si è mai accorto che c’eravamo.

La giornata di un medico al pronto soccorso da cittadino “semplice”: le falle e i successi della sanità. DANIELE COEN, medico, su Il Domani il 17 novembre 2023

Il percorso di una persona con un problema acuto di salute svela limiti e potenziale del nostro sistema sanitario. Ci sono i ticket da pagare e le difficoltà della medicina territoriale, ma anche l’efficienza del pronto soccorso

Un piccolo problema di salute di un giovane membro della famiglia mi ha proiettato per qualche giorno nella posizione di utente (indiretto) del Servizio sanitario nazionale. Credo che il breve resoconto di questa esperienza renda conto più di tante parole dei grandi meriti e degli altrettanto grandi limiti della sanità pubblica nel nostro paese.

Parliamo di un giovane uomo vigoroso che fa un lavoro fisicamente faticoso a partita Iva. Ogni giorno di lavoro perso sono impegni che saltano e soldi che non entrano in casa. Smania per riprendere il più presto possibile. Da due mesi ha una tosse stizzosa, ma passerà, si dice, e nessuno se ne preoccupa. Poi di colpo una tonsillite delle più classiche.

Febbre a 40, placche in gola, difficoltà a deglutire, linfonodi ingrossati. Grazie a un parente medico, inizia subito a prendere gli antibiotici, ma dopo sei giorni la situazione non è minimamente cambiata, la febbre resta altissima e il giovanotto è uno straccio.

LA MEDICINA TERRITORIALE

Dopo diversi tentativi riesco a mettermi in contatto telefonico con il curante. In via di amicizia riuscirà a vederlo fra tre giorni, intanto suggerisce una serie di esami e una radiografia del torace. Passo a ritirare le ricette e mi do da fare per gli appuntamenti.

Esami il mattino dopo. RX del torace non prima di sei giorni. Il mattino dopo trascino il giovane in ambulatorio per il prelievo, paghiamo un ticket di 36 euro. Ci dicono che ci sono degli esami “un po’ particolari” per cui i risultati non saranno disponibili prima di cinque giorni. E adesso? Ci guardiamo in faccia. Ci vergogniamo un po’ ad andare in pronto soccorso per una tonsillite, ma a estremi mali…

UN GIRO AL PRONTO SOCCORSO

Eccoci dunque al triage del grande ospedale cittadino dove ho avuto dei trascorsi lavorativi. Uno dei pochi pronto soccorso che tengono ancora botta. Ci accoglie un’infermiera sulla quarantina. «Pensi», mi dice, «ormai sono una delle più anziane».

I colleghi sopra i cinquanta se ne sono andati quasi tutti. Troppa fatica qui, e li capisco. I giovani ci sono e sono volenterosi, ma per accumulare quel bagaglio di competenze e di conoscenze ci metteranno anni, sempre che non se ne vadano prima. Ci assegna un codice verde e ci manda nell’ambulatorio “codici minori”. Quelli che, secondo molti, in ospedale non dovrebbero neppure mettere piede.

Giusto, ma allora dove? Nell’atrio dell’ambulatorio sono sedute una ventina di persone. Alcune attendono da ore. A un certo punto una ragazza dice che si sente svenire e viene fatta passare avanti. Dopo un quarto d’ora è un’anziana signora a sentirsi svenire ed essere accolta e distesa su una barella.

Al terzo potenziale svenimento, un omone grande e grosso che fino a quel momento passeggiava avanti e indietro parlando al cellulare, l’infermiere è meno gentile. Si sfiora la rissa, ma grazie alla professionalità dell’operatore la situazione torna presto sotto controllo. Finalmente tocca a noi.

Dopo un’attenta visita vengono prelevati nuovamente gli esami, viene richiesta una radiografia del torace e viene fatta seduta stante un’ecografia di torace e addome. Avremo i risultati nel giro di un’ora. Per “gli esami particolari” che fuori avremmo ricevuto dopo cinque giorni, bisognerà attendere solo fino al primo pomeriggio.

QUATTRO CHIACCHIERE

Lascio il mio giovane parente seduto nell’atrio e faccio un giro in cerca di vecchi colleghi.

Incontro Giorgio che è ancora lì dopo il turno di notte. «Non me la sono sentito di andare via», dice. «Abbiamo passato in consegna 48 pazienti ai colleghi che fanno mattina. Se non ne concludo almeno qualcuno prima di andarmene, non me la perdòno. Non capisco perché, ma, anche se gli accessi non sono aumentati di tanto, qui c’è sempre più gente».

Si avvicina un caposala. «È vero», dice. Nell’ultimo anno il tempo di permanenza medio in pronto soccorso si è allungato di un’ora. Circa trecento ore di assistenza in più al giorno, novemila al mese, centomila in un anno. Naturalmente a risorse umane immodificate. Chiedo se analizzando i dati non si riesca a capire qualcosa di più. Ci sono più malati anziani? Più gravi? Attendono più a lungo un posto letto? O sono i medici a chiedere più esami, o gli specialisti a tardare per le loro consulenze? Sono cambiate le patologie? «Magari potessimo», risponde, «ma con il nuovo sistema informatico non riusciamo più ad analizzare niente».

«Perché cambiarlo?», chiedo, ricordandomi che quello di prima andava come un olio. «Sì», mi risponde, «funzionava bene, ma non era più allineato con i nuovi requisiti regionali». Alza gli occhi al cielo. Ha vinto la gara un’azienda siciliana che ha sede nella città natale di un importante politico nazionale. «Un caso», dico io. «Certo, un caso», dice lui, «infatti adesso in regione hanno capito e ce lo cambieranno». Almeno sei mesi per metterlo in pista, poi bisognerà formare tutti. Tempo e soldi buttati via.

QUANTO COSTA L’ECCELLENZA?

Con la coda dell’occhio controllo la sala di emergenza. Le vecchie abitudini stentano a morire. Nel giro di mezz’ora sono arrivati quattro pazienti in codice rosso. Due incidenti gravi, un infarto, una donna in coma. In quei 60 metri quadrati, oltre a medici e infermieri che lavorano velocemente e ordinatamente, si muovono barellieri, poliziotti, tecnici di radiologia.

A pochi metri di distanza, sull’unico letto di emergenza rimasto libero, tre infermieri si sono fermati a fine turno per ripassare il protocollo di approccio al trauma maggiore usando un manichino. Una sanità che funziona, penso. Un’eccellenza che non è fatta solo di nuovi farmaci e di alta tecnologia, ma di organizzazione, di professionalità e di dedizione degli operatori.

Ormai mezzogiorno è passato da un po’ e accompagno un medico più anziano in mensa. Fra tre anni potrà andare in pensione e l’idea che il governo abbia tagliato quello che riceveranno medici e insegnanti lo fa inviperire. «Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto aumenti ridicoli», dice, «e abbiamo perso potere d’acquisto. Adesso ci tagliano anche la pensione! Lo sai», aggiunge, «che ci hanno abbassato tutti gli incentivi di risultato?» «Quelli che dovevano premiare il merito?», chiedo.

«Sì, proprio quelli», riportati al minimo per decisioni superiori. Poi, davanti al distributore del caffè aggiunge: «Per fortuna che ho cominciato a fare la libera professione come endocrinologo. Una vecchia specialità che non avevo mai usato. Adesso lavoro in intramoenia un pomeriggio alla settimana. Vedo cinque pazienti a 150 euro l’uno. Un terzo lo prende l’ospedale, trentacinque euro vanno in tasse e a me ne restano sessantacinque. Fanno quasi millecinquecento euro al mese con poca fatica. E pensare che, se ci va bene, con il prossimo contratto ci daranno duecento euro lordi!».

FINE DELLA STORIA

Finalmente i risultati degli accertamenti del giovane familiare si sono conclusi. La diagnosi è fatta. Si tratta di un virus un po’ particolare che, mi dicono i colleghi, stanno vedendo più spesso del solito da un po’ di tempo a questa parte e con quadri clinici più gravi. Ricordo come è cominciato il Covid e incrocio le dita. Viene raggiunto al telefono l’infettivologo che dà utili consigli.

«Il ticket?», chiedo. No, è un codice verde e non c’è niente da pagare. Torniamo a casa più sereni. Sappiamo cosa fare e più o meno quanto tempo ci vorrà perché le cose migliorino.

A questo punto è pleonastico chiedersi perché la gente continui a rivolgersi ai pronto soccorso nonostante l’affollamento e i tempi di attesa. Puoi fare tutti gli esami necessari nello stesso luogo e nello stesso tempo, non devi buttare via ore o giorni per prenotarli, per attendere il momento dell’appuntamento, per ricevere i risultati. In genere uscirai con una risposta ai tuoi problemi senza pagare, o pagando meno di quanto ti sarebbe costato farti seguire negli ambulatori del Servizio sanitario nazionale o del privato.

C’è ancora un enorme lavoro da fare perché la medicina del territorio possa raggiungere la stessa efficienza di un pronto soccorso ben funzionante, e forse non è neppure corretto porle questo obiettivo. Ma velocità ed efficienza sono le cose che i cittadini di uno stato moderno si attendono, e fin quando non succederà non ci sarà soluzione all’affollamento dei servizi di urgenza ospedalieri.

In sei ore ho visto o sentito raccontare esempi di soldi usati bene e di soldi gettati al vento. Una volta di più mi è apparso chiaro che immaginare una medicina universalistica, efficiente e gratuita per tutti, è un’utopia. Oggi si finge che la nostra sanità lo sia, ma quasi un quarto della spesa sanitaria italiana grava già, tra ticket ed esborsi diretti, sulle tasche dei cittadini. In futuro bisognerà lavorare perché chi non può spendere venga tutelato, mentre chi può farlo riceva una parte dei servizi sanitari attraverso canali di previdenza integrativi.

Formiamo eccellenti professionisti, ma rischiamo di perderli se non troveremo velocemente il modo di garantire loro una buona qualità di lavoro e un giusto compenso. Che sia l’attività libero-professionale a integrare le entrate che lo stipendio pubblico non è in grado di offrire non è probabilmente la migliore delle soluzioni, ma sarebbe senz’altro peggio restare senza medici perché nessuno vuole più fare questo mestiere.

Non siamo i soli a livello internazionale a dover affrontare questi problemi. Sarebbe allora bene che la smettessimo di crogiolarci nella convinzione di avere uno dei migliori sistemi sanitari del mondo e che incominciassimo a guardare con più attenzione, più umiltà e meno pregiudizi a quello che tanti altri paesi stanno provando a fare.

DANIELE COEN, medico. Medico d’urgenza, è stato per 15 anni direttore del Pronto Soccorso dell’Ospedale Niguarda di Milano.  Membro del Direttivo nazionale della Academy of Emergency Medicine and Care (AcEMC).  Ha collaborato per  anni con le associazioni dei consumatori a progetti di educazione e di divulgazione in campo sanitario. Ha pubblicato: Margini di errore (Mondadori  2019) e L’arte della probabilità (Raffaello Cortina 2021)

Malasanità, il Nas setaccia ospedali e case di cura: 3.884 liste d'attesa truccate, denunciati 26 medici. Tra le irregolarità anche prenotazioni chiuse per far fare le ferie al personale. La Stampa l'08 Settembre 2023

Ventisei, tra medici e infermieri, sono stati denunciati dai carabinieri del Nas in diverse città d’Italia a seguito di controlli effettuati tra luglio e agosto sulle liste d'attesa. Nel mirino del Nucleo Antisofisticazione dell’Arma sono finite in particolare le prestazioni ambulatoriali, ma l’indagine si è poi allargata ad altre questioni: visite specialistiche ed esami nel Servizio sanitario pubblico. Le ispezioni sono state eseguite in presidi ospedalieri e ambulatori delle aziende sanitarie, compresi gli Istituti di Ricovero e Cura a carattere scientifico e le strutture private accreditate, con l’obiettivo di accertare il rispetto dei criteri previsti dal Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa.

Sono stati effettuati controlli in 1.364 tra ospedali, ambulatori e cliniche, sia pubblici sia privati in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, analizzando 3.884 liste e agende di prenotazione per prestazioni ambulatoriali relative a svariate tipologie di visite mediche specialistiche e di esami diagnostici.

Tra i casi più rilevanti, i Nas di Milano, Torino, Perugia e Catania hanno denunciato 9 medici per aver favorito conoscenti e propri pazienti privati, stravolgendo le liste d'attesa, consentendo loro di essere sottoposti a prestazioni in data antecedente rispetto alla prenotazione ed eludendo le classi di priorità. Il Nas di Reggio Calabria ha denunciato, per l'ipotesi di peculato, 3 medici di Aziende Sanitarie per aver prestato in modo fraudolento servizio presso un poliambulatorio privato sebbene contrattualizzati in regime esclusivo con le aziende sanitarie pubbliche. Il Nas di Perugia ha invece individuato un medico radiologo svolgere attività privata presso un altro ospedale, pur trovandosi in malattia, oltre a due infermieri che svolgevano esami del sangue per privati, registrando falsi ricoveri.

Oltre 3 mila agende analizzate

Le ispezioni svolte sull'ingente mole di dati e riscontri relativi a oltre 3 mila 800 agende ha consentito, inoltre, di rilevare 1.118 situazioni di affanno nella gestione delle 2 liste di attesa e superamento delle tempistiche imposte dalle linee guida del Piano nazionale, pari al 29% di quelle esaminate. Tra le cause più frequenti degli sforamenti delle tempistiche sono state accertate, su 761 agende, carenze funzionali ed organizzative dei presidi ospedalieri e degli ambulatori, diffusa carenza di personale medico e tecnici specializzati che, oltre alla alla mancanza di adeguati stanziamenti e attrezzature, il che ha determinato il rallentamento dell'esecuzione di prestazioni sanitarie.

Nessun rispetto di priorità e urgenze

Slittamento che si ripercuote anche nel mancato rispetto delle classi di priorità (“Urgente”, “Breve” e “Differibile”) ricollocate, in 138 casi, in tempistiche entro i 120 gg (“Programmabili”), non compatibili con i criteri di precedenza ed urgenza. In 195 situazioni il Nas ha riscontrato la sospensione o la chiusura delle agende di prenotazione, in parte condotte con procedure non consentite, oppure determinate dalla carenza o assenza di operatori senza prevederne la sostituzione. Proprio in tale contesto, gli accertamenti svolti dai Nuclei di Palermo, Reggio Calabria, Latina e Udine hanno consentito di rilevare vere e proprie condotte dolose, con la denuncia di 14 dirigenti e medici ritenuti responsabili del reato di interruzione di pubblico servizio, per aver arbitrariamente chiuso in modo ingiustificato le agende di prenotazione a luglio/agosto, posticipando le prestazioni diagnostiche per consentire al personale di poter fruire delle ferie estive o svolgere indebitamente attività a pagamento. Alle carenze di organico si integrano anche comportamenti non allineati ad una corretta deontologia professionale, come nel caso di un dirigente medico di una Asl della provincia di Roma che - sebbene responsabile degli ambulatori di gastroenterologia e colonscopia per cui vi fosse indisponibilità presso l'intera ASL - esercitava le stesse prestazioni in attività intramoenia extramuraria – regolarmente autorizzata - presso un poliambulatorio privato, con una programmazione fino ad 8 esami giornalieri.

Tra pubblico e privato

Sono state anche individuate 21 irregolarità nello svolgimento di attività intramoenia per esubero delle prestazioni concordate con le Asl e omesse comunicazioni sullo svolgimento delle attività esterne da parte dei medici pubblici. Un ulteriore aspetto emerso dai controlli è la mancata adesione di cliniche e ambulatori privati, già convenzionati, nel sistema di prenotazione unico delle Aziende sanitarie o a livello regionale, aspetto che riduce la platea di strutture utili per l'erogazione delle prestazioni mediche specialistiche e diagnostiche.

Facebook. ZeroGas: Organizzazione di tutela ambientale

COME MUORE UN ANZIANO OGGI?

Muoiono in OSPEDALE.

Perché quando la nonna di 92 anni è un po’ pallida ed affaticata deve essere ricoverata. Una volta dentro poi, l’ospedale mette in atto ciecamente tutte le sue armi di tortura umanitaria. Iniziano i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie.

“Come va la nonna, dottore?”. “E’ molto debole, è anemica!”.

Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene frega più niente!

Esattamente lo stesso motivo (non per tutti, sia chiaro!) per il quale da diversi anni è rinchiusa in casa di riposo.

“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.

“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un’ ulcera o un tumore… dovremmo fare un’ endoscopia”.

Chi lavora in ospedale si è trovato moltissime volte in situazioni di questo tipo. Che senso ha sottoporre una attempata signora di 92 anni ad una gastroscopia? Che mi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? Ed inevitabilmente la gastroscopia viene fatta perché i nipoti vogliono poter dire a se stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.

Certe volte comprendo la difficoltà e il disagio in certi ragionamenti.Talvolta no.

Dopo la gastroscopia finalmente sappiamo che la Signora ha solamente una piccola ulcera duodenale ed i familiari confessano che la settimana prima aveva mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, “…sa, è tanto golosa”.

A questo punto ormai l’ ospedale sta facendo la sua opera di devastazione. La vecchia perde il ritmo del giorno e della notte perché non è abituata a dormire in una camera con altre tre persone, non è abituata a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambia il turno degli infermieri, non è abituata ad essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventano un incubo.

La vecchietta che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida ed affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte è sveglia come un cocainomane. Parla alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifà il letto dodici volte, chiede di parlare col direttore dell’albergo, chiede un avvocato perché detenuta senza motivo.

All’inizio le compagne di stanza ridono, ma alla terza notte minacciano il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. Comincia quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna viene finalmente messa a dormire.

“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.

Tutto questo continua fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna dorme senza la puntura di Talofen.

“Dottore, la vecchina del 12 non respira più”.

Inizia la scena finale di una triste commedia che si recita tutte le notti in tanti nostri ospedali: un medico spettinato e sbadigliante (spesso il Rianimatore sollecitato di corsa per “fare di tutto”)scrive in cartella la consueta litania “assenza di attività cardiaca e respiratoria spontanea, si constata il decesso”.

La cartella clinica viene chiusa, gli esami del sangue però sono ottimi. L’ospedale ha fatto fino in fondo il suo dovere, la paziente è morta con ottimi valori di emocromo, azotemia ed elettroliti.

Cerco spesso di far capire ai familiari di questi poveri anziani che il ricovero in ospedale non serve e anzi è spesso causa di disagio e dolore per il paziente, che non ha senso voler curare una persona che è solamente arrivata alla fine della vita.

Che serve amore, vicinanza e dolcezza.

Vengo preso per cinico, per un medico che non vuole “curare” una persona solo perché è anziana. “E poi sa dottore, a casa abbiamo due bambini che fanno ancora le elementari non abbiamo piacere che vedano morire la nonna!”.

Ma perché?

Perché i bambini possono vedere in tv ammazzamenti, stupri, “carrambe” e non possono vedere morire la nonna? Io penso che la nonna vorrebbe tanto starsene nel lettone di casa sua, senza aghi nelle vene, senza sedativi che le bombardano il cervello, e chiudere gli occhi portando con sé per l’ultimo viaggio una lacrima dei figli, un sorriso dei nipoti e non il fragore di una scorreggia della vicina di letto.

In ultimo, per noi medici: ok, hanno sbagliato, ce l’hanno portata in ospedale, non ci sono posti letto, magari resterà in barella o in sedia per chissà quanto tempo. Ma le nonnine e i pazienti, anche quelli terminali, moribondi,non sono “rotture di scatole” delle 3 del mattino.

O forse lo sono. Ma è il nostro compito, la nostra missione portare rispetto e compassione verso il “fine vita”. Perché curare è anche questo, prendersi cura di qualcuno.Anche e soprattutto quando questo avviene in un freddo reparto nosocomiale e non sul letto di casa.

di Carlo Cascone (belle persona conosciuta per caso da ZeroGas) 

11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».

La situazione del presidio continua ad essere drammatica. Primario chirurgo in ferie, niente interventi al Giannuzzi, pazienti trasferiti altrove. La Redazione de la Voce di Manduria, giovedì 17 agosto 2023

Dal 12 agosto e sino al 21, all’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria non si fanno interventi chirurgici perché il primario Rocco Lomonaco è in ferie. In questo periodo dunque il pronto soccorso non accetta più patologie che necessitano di intervento di natura chirurgica, neanche quelli di estrema urgenza come emorragie interne di qualsiasi natura. Quelli che capitano che vengono trasferiti altrove.

Lo ha comunicato la responsabile della direzione sanitaria del presidio ospedaliero messapico, la dottoressa Irene Pandiani, in una circolare indirizzata al pronto soccorso e alla centrale operativa del 118 che dal 12 scorso dirotta le ambulanze con i pazienti potenzialmente chirurgici negli ospedali di Taranto, Martina Franca e Castellaneta. «Considerate le note carenze di dirigenti medici nella struttura complessa di chirurgia generale – si legge -, è possibile inserire in turno un solo chirurgo reperibile e logicamente – aggiunge la nota -, non potranno essere effettuati interventi chirurgici da un solo chirurgo». L’organico interno è quello che è: tre specialisti di cui uno con limitazioni funzionali oltre al primario Rocco Lomonaco che è in vacanza. L’alternativa sembra essere scontata per chi dirige il Giannuzzi e per la stessa Asl ionica che lascia fare: «trasferire i pazienti chirurgici agli ospedali limitrofi in assenza del primario». 

In effetti a tutte le postazioni del 118, informato del caso, è stato impartito l’ordine di bypassare il Giannuzzi e portare i pazienti con accertata patologia chirurgica come primo step a Taranto e, in caso di indisponibilità di posti letto, negli altri presìdi della provincia. E per chi si reca in pronto soccorso con mezzi propri con disturbi di natura chirurgica, la storia non cambia perché, altro ordine impartito dalla direzione medica del Giannuzzi, prima di essere ricoverati tutti i pazienti devono essere valutati dall’unico chirurgo reperibile che deciderà se tenerlo o farlo trasferire altrove se i disturbi fanno prospettare una possibile implicazione di natura operatoria. 

I disagi sono sotto gli occhi di tutti con ambulanze che dai comuni del versante orientale della provincia fanno su e giù a Taranto e viceversa con gli immancabili intasamenti davanti al pronto soccorso del Santissima Annunziata che si deve far carico dell’utenza «servita» dalla struttura periferica chiusa per le ferie del primario. E attendere il proprio turno, a volte lungo anche diverse ore, significa lasciare scoperta la propria area di competenza con il rischio, quasi quotidiano per la centrale operativa, di dover attivare ambulanze di altre postazioni distanti decine di chilometri dal luogo della chiamata. Questo sia per i codici di piccola o medie gravità ma anche per i codici rossi che devono anche loro attendere l’arrivo della prima ambulanza disponibile spesso distante 15 o 20 chilometri, oppure «prestata» dalla centrale operativa 118 della provincia di Brindisi o Lecce.   Ovviamente questo crea disagi anche ai reparti di chirurgia degli altri ospedali il cui organico, seppure più fornito del Giannuzzi, risente sempre del calo della disponibilità dovuto allo stesso diritti delle ferie che deve essere garantito.

Sanità, «a Taranto attese per pazienti fino a 12 ore». La denuncia di Renato Perrini, vice presidente della commissione Sanità della Regione Puglia. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Agosto 2023   

«La sanità pugliese è allo sbando. Lo denuncio da tempo ma, evidentemente, Emiliano e Palese hanno altro a cui pensare. Una riflessione però va fatta, oggi, alla luce di tutto quello che sta succedendo: nel 2014 è stato un errore chiudere il Pronto Soccorso del Moscati, che come struttura sanitaria, era centrale, in quando serviva non solo a sollevare il sovraccarico del Santissima Annunziata di Taranto, ma anche di altri Comuni vicini». Lo dichiara in un comunicato il vicepresidente della commissione Sanità della Regione Puglia, Renato Perrini.

«Non è possibile - continua - che il paziente oncologico, già fortemente provato fisicamente, debba girovagare nei vari Pronto soccorso ed essere rimandato al Moscati. È un’inutile sofferenza. Dopo l’ennesimo sopralluogo - effettuato ieri sera - continuerò a sollecitare l’assessore Palese affinché venga riaperto il ps dell’ospedale S.Giuseppe Moscati e il Moscati diventi davvero un polo oncologico in grado di prendersi cura dell’ammalato».

«Oggi - conclude Perrini - alla luce di quello che sta avvenendo al Santissima Annunziata, dove le attese per essere visitati arrivano anche a 12 ore, dare ai cittadini di Taranto e provincia un presidio efficiente non è solo indispensabile, ma dignitoso per i tanti pazienti che hanno diritto a una Sanità degna di questo nome.

Quant’era bella giovinezza. La sanità italiana non riesce a compensare l’invecchiamento della popolazione. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 30 Agosto 2023

I medici sono in aumento, così come gli infermieri. A cambiare, negli ultimi vent’anni, è stato il rapporto tra il numero di dottori e gli anziani, cioè quelli che hanno più bisogno di cure e assistenza

Secondo i più recenti sondaggi di Eurobarometro sia per gli italiani che per gli altri popoli dell’Unione europea al primo posto tra le riforme prioritarie che i singoli Paesi, con l’aiuto di Bruxelles, dovrebbero intraprendere ci sono quelle riguardanti la sanità. Viene anche prima dell’istruzione, del mercato del lavoro, della transizione ecologica, del sostegno alle famiglie.

All’origine dell’emergenza, delle liste di attesa che si allungano, dell’assenza dei medici di famiglia, non c’è solo la maggiore consapevolezza dell’importanza del settore che il Covid ha portato, ma soprattutto una delle sfide epocali del ventunesimo secolo (e probabilmente anche dei successivi): il calo demografico. I dati, pubblicati molto di recente, sono chiari.

È importante sottolineare che i medici praticanti per adesso non sono in calo, né in Italia né altrove. Nel nostro Paese nel 2022 erano 424,9 per centomila abitanti. E facendo una media dei numeri degli ultimi tre anni siamo circa a metà classifica in Europa.

Lo stesso discorso si può fare per un’altra categoria indispensabile e spesso ignorata, quella degli infermieri, che sono 621,3, sempre ogni centomila persone.

Certo, in Italia già si nota un certo rallentamento del trend, non a caso negli anni Duemila vi erano più medici pro capite che in Spagna e in Germania, mentre ora in questi ultimi due Paesi ne sono presenti circa il sei per cento in più.

Questo è un dato importante, un sintomo del fatto che la situazione italiana è in realtà ancora più grave di quella degli altri Paesi.

Tuttavia il fatto più rilevante è il rapporto tra il numero di medici e quello di coloro che di cure sanitarie hanno più bisogno, gli anziani. È qui il principale problema, è qui che entra in gioco la transizione demografica e il suo impatto, che come si vede, è più trasversale di quello che si pensa.

Se nel 2000 vi era una ragionevole relazione diretta tra proporzione di over settantacinquenni nella popolazione e densità di medici, ovvero ve ne erano di più laddove vi erano più anziani, oggi le cose sono cambiate.

L’Italia si posiziona come il Paese in cui la percentuale di ultra-75enni, il dodici per cento degli abitanti, è di gran lunga la più ampia, eppure siamo passati dall’essere tra gli stati con più dottori a metà classifica. Ve ne sono decisamente di più in Spagna, Norvegia, Austria, Germania, Lituania, dove la quota di anziani è, di poco o di molto, più ridotta.

C’è stata un’evoluzione differente da quella che ha interessato il resto d’Europa. In alcuni (rari) casi come la Svezia il numero di medici pro-capite è cresciuto anche in assenza di invecchiamento della popolazione, in altri, come in Germania o Spagna, le due cose sono andate quasi di pari passo. In Italia, invece, la crescita della quota di over-75 è stata decisamente più rapida.

Il risultato è che oggi abbiamo il terzo peggior rapporto tra numero di medici e di popolazione con più di settantacinque anni dopo Lettonia e Francia. Ce ne sono solo 34,55 ogni mille. Non solo, scivoliamo al penultimo posto, davanti ai soli francesi, se il confronto è con gli over-80.

Ci sono 54,19 medici ogni mille ottantenni in Italia, mentre in Germania sono 63,48, in Spagna 73,78, nei Paesi Bassi 81,51, in Irlanda addirittura 115,13.

Considerando che, è pleonastico dirlo, sono questi, gli over-75, gli over-80, ad avere maggiore necessità di servizi sanitari, siamo davanti a un grande incremento di domanda di fronte a un’offerta che non aumenta abbastanza. Aggiungiamo a questo il fatto che negli anni, anche a parità di età, è cresciuta l’attenzione per la propria salute, vi è una maggiore premura di fare prevenzione, di approfondire un sintomo.

Come mai l’offerta stenta? In parte proprio per la stessa ragione che sta portando a un eccesso di domanda, la transizione demografica: i medici italiani sono i più vecchi d’Europa, più di metà, il 54,1 per cento di essi, ha più di cinquantacinque anni. Questa percentuale è del 44,1 per cento in Germania, del 44,6 per cento in Francia, del 32,7 per cento in Spagna. E questo invecchiamento è avvenuto in modo più veloce proprio nel nostro Paese che altrove.

Non si tratta solo di questo, però. Tra i motivi c’è anche il limitatissimo afflusso di medici dall’estero. Solo l’1,5 per cento di quelli presenti si è formato in altri Paesi e poi è arrivato in Italia, meno che in Romania, in Polonia, che in gran parte dei Paesi dell’Est. A questi ci accomuna, tra l’altro, un destino di emigrazione sostenuta del personale medico.

È stridente il confronto con realtà come quelle della Norvegia, dell’Irlanda, della Svizzera, dove intorno al quaranta per cento dei medici è immigrato.

Singolare è il caso della Grecia, dove un terzo dei dottori ha studiato altrove, per esempio proprio in Italia, ma si tratta in gran parte di greci che poi sono tornati.

Abbiamo grande bisogno di stranieri che si formino nel nostro Paese e ci rimangano, o che arrivino anche dopo. Come accade nel caso di tanti infermieri che sono giunti nel nostro Paese.

Ci si può consolare con il fatto che dal 2014 aumentano i laureati in medicina, e non di poco. Sono più di diciotto all’anno ogni centomilamila abitanti, erano meno di dodici un anno fa. Abbiamo fatto meglio degli altri Paesi europei da questo punto di vista.

Basterà di fronte all’invecchiamento di chi medico è già e sta per andare in pensione? Di fronte alla crescita inarrestabile della proporzione di anziani? No. La transizione demografica ci sta facendo pagare pegno anche in questo ambito, non solo in campo pensionistico, economico, fiscale.

Visto che interessa tutta Europa nel medio periodo neanche l’immigrazione da altri Paesi può essere una soluzione stabile. In una lotta a chi strappa più giovani, risorsa sempre più scarsa, all’altro, i Paesi più poveri come l’Italia sarebbero perdenti.

E di fronte all’ineluttabilità dei comportamenti riproduttivi in Occidente, non possiamo sperare in un ritorno a un numero di nascite analogo a quello di cinquant’anni fa, l’unico aiuto può venire dalla tecnologia. Anche se questo vuol dire che si tratterà soprattutto di soluzioni che importeremo, se il sistema Paese rimarrà questo, allergico alle innovazioni, allergico alla ricerca.

Insomma, il futuro non possiamo prevederlo, non sappiamo quanto l’informatizzazione e l’intelligenza artificiale potranno prendere piede nella sanità e quanto velocemente, ma una cosa appare piuttosto certa: è meglio se gli attuali over-50 che non sanno farlo comincino a imparare a usare il computer e gli strumenti digitali.

Se paghi salti la fila al pronto soccorso: la sanità neoliberista arriva a Bergamo. L'Indipendente giovedì 17 agosto 2023.

Il Policlinico San Marco, in provincia di Bergamo, facente capo al Gruppo San Donato, ha attivato il servizio di pronto soccorso a pagamento: si tratta della possibilità di sottoporsi a visite mediche e ad eventuali esami diagnostici senza bisogno di prenotazione. Lo stesso, inoltre, permette di saltare la coda ai pronto soccorsi per tutti quei casi non urgenti a cui sarebbero assegnati i codici bianchi o verdi pagando una cifra di 149 euro. Si tratta, dunque, di un ulteriore passo verso la privatizzazione della sanità come conseguenza del suo graduale e incessante processo di definanziamento pubblico, inaugurato a partire dall’epoca della “spending review” di Mario Monti e destinato a ingrassare le tasche dei privati, rendendo – di fatto – un servizio efficiente e disponibile solo per le fasce più abbienti della popolazione. Non si tratta comunque del primo caso di questo tipo: servizi simili, infatti, sono già stati attivati a Milano e a Brescia.

Il Gruppo San Donato, sul suo sito Internet, resta sul vago e parla di «Ambulatorio ad accesso diretto». Ha specificato, inoltre, che si tratta di un «servizio sperimentale» che sarà attivo cinque giorni su sette, dal lunedì al venerdì dalle 7.30 alle 18. Per prestazioni sanitarie che non hanno carattere d’urgenza, il paziente presso l’ambulatorio potrà ricevere assistenza da diversi specialisti, quali ortopedico, chirurgo polispecialistico, odontoiatra e urologo. Oltre ai 149 euro per la visita, si aggiungono i costi relativi ad eventuali esami diagnostici di 1° e 2° livello e strumentali stabiliti dallo specialista a seguito del controllo. Il servizio mira a colmare le ormai sempre più evidenti lacune del sistema sanitario pubblico afflitto dalla mancanza di personale sanitario, di strumentazione e spazi adeguati all’assistenza di tutti i pazienti. Una spinta ideale all’incremento del business privato nel settore sanitario.

Per denunciare questa situazione di squilibrio tra pubblico e privato a favore del secondo, è intervenuto il segretario provinciale della Funzione pubblica della Cgil Giorgio Locatelli: «È la sanità per ricchi figlia del depotenziamento della sanità pubblica territoriale», ha affermato, aggiungendo anche che «Al San Marco volano bassi perché si rendono conto della spregiudicatezza dell’operazione. Alla base c’è il sistema perverso di regole impostato da oltre 25 anni dalla Regione, in cui pubblico e privato giocano su tavoli separati a vantaggio del secondo, che si accredita per quello che reputa conveniente e poi si butta sugli spazi rimasti liberi». A criticare l’iniziativa c’è anche la onlus Medicina democratica che sta raccogliendo firme per un referendum sulla sanità pubblica: «Questo servizio è la dimostrazione di come la sanità privata si infili nelle pieghe dell’inefficienza pubblica, creando disparità di trattamento e agevolazioni per chi può permettersele economicamente, e di fatto pazienti di serie A e di serie B», ha dichiarato il referente Erik Molteni.

Quello dei pronto soccorsi a pagamento rappresenta uno dei risultati più evidenti del processo di smantellamento del Sistema sanitario nazionale e si può considerare l’anticipazione della sanità del futuro nel suo complesso se non ci sarà un’inversione di tendenza in quest’ambito. Si tratta della vittoria del neoliberismo e del business sullo stato sociale e sulla cura e i servizi ai cittadini.

Ai privati i casi meno gravi: in Friuli si inaugura la privatizzazione dei Pronto Soccorso. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 15 Giugno 2023 

In tutta Italia i Pronto Soccorso annaspano a causa di finanziamenti insufficienti, gestioni poco virtuose e carenza di visione programmatica. Viste le difficoltà nel garantire il diritto alla salute, l’Azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale ha indetto delle gare per esternalizzare il Servizio medico specialistico e di gestione dei codici minori relativi al Pronto soccorso del Santa Maria della Misericordia di Udine e degli ospedali di San Daniele e Palmanova. L’ente pubblico istituito dalla Regione Friuli Venezia Giulia nel 2020 cederà dunque per un periodo di sei mesi la gestione di una parte del servizio sanitario. Si prevede una spesa di oltre un milione di euro, calcolata però su un periodo di un anno, una scelta che potrebbe tradursi il prossimo inverno in una seconda fase di privatizzazione.

A Udine, la gara di appalto è stata vinta dalla società Amaltea, la quale fornirà personale al Pronto Soccorso del Santa Maria della Misericordia per i prossimi sei mesi. Oltre alla laurea in Medicina e all’iscrizione all’Ordine, i camici bianchi dovranno essere specializzati in Medicina e chirurgia di accettazione e d’urgenza, in disciplina equipollente o in Anestesia e rianimazione. A ciò si aggiunge la partecipazione a corsi certificati Blsd, Acls, Itls o Phtc. Per gli ospedali di San Daniele e Palmanova non sono ancora stati resi noti i risultati del bando, dunque il nome delle aziende private che gestiranno i codici meno gravi dei rispettivi reparti d’urgenza.

La decisione dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale è stata presa “per far fronte alla carenza di personale emergentista nelle strutture sanitarie”. Tra salari bassi, stress, turni massacranti e aggressioni, ogni settimana decine di medici si licenziano dalle nostre strutture. Ammalarsi di superlavoro è diventato sempre più frequente per gli eroi della pandemia da Covid-19 dimenticati dopo l’emergenza. «Siamo sotto organico e Giovanni, come tanti di noi, faceva anche da tappabuchi. Martedì sera, arrivando in ospedale, ha lavorato dodici ore al Pronto soccorso. Poi, dalle 8 del mattino successivo, altre dodici in reparto rientrando a casa solo mercoledì sera. Giovedì mattina era poi regolarmente in reparto a fare le visite ed è morto praticamente in corsia». Con queste parole il personale dell’Ospedale Giannuzzi di Manduria (Taranto) ha raccontato la morte improvvisa di Giovanni Buccoliero, 61 anni, che in quella struttura ricopriva il ruolo di primario facente funzioni del reparto di Medicina. Storie simili a quella di Giovanni riempiono le cronache, non smuovendo però l’indirizzo politico del Paese, stretto tra tetti alla spesa pubblica e impotenza nei confronti della privatizzazione, che si traduce in panacea per pochi e nell’inaccessibilità alle cure per molti. [di Salvatore Toscano]

I Pronto Soccorso allo sfascio tra medici a gettone e costi alle stelle. Nel 2020 le aziende ospedaliere avevano speso 6 milioni per gestire i Ps con le cooperative. Nel 2022 la cifra è salita a 23. E a causa della flat tax molti dottori si licenziano dal servizio pubblico per tornare in corsia a partita Iva. Ora il governo cerca di risolvere con provvedimenti urgenti presi nel Consiglio dei Ministri. Gloria Riva su L’Espresso il 29 Marzo 2023

Circolano aneddoti poco rassicuranti sui medici gettonisti, arruolati per una notte o poco più nei Pronto Soccorso. Nell’urgenza di coprire i turni, è stato preso a bordo anche uno specialista in Metodologia Clinica, esperto in Semeiotica Medica che di ictus e polmoniti ne ha visti pochi. Ha preso servizio anche un medico di base in pensione di San Marino, investito da un moto di nervosismo dei colleghi del turno successivo, ritrovatisi con 23 pazienti arretrati - nessuno dei quali era stato visitato e preso in carico - , più quelli di giornata. «Basta respirare e avere una laurea in medicina per essere arruolati», Fabio De Iaco è il capo del Pronto Soccorso dell'Ospedale Maria Vittoria di Torino e presidente di Simeu, Società Italiana di Medicina d’Emergenza Urgenza, che avverte: «Gli specialisti in Emergenza Urgenza sono così pochi da poter decidere dove lavorare. Scelgono gli ospedali centrali, più strutturati, con un minor carico di turnazione, e restano sguarnite le aree periferiche, i presidi più piccoli, creando disparità di servizio offerto», una sanità di serie B, insomma.

La novità di queste ore è che nel consiglio dei ministri di ieri, mercoledì 28 marzo, il governo ha preso alcuni provvedimenti urgenti per porre un freno all’abuso di medici a chiamata. Ad esempio, il governo ha imposto che i medici a gettone, ai quali sarà imposto un tetto di retribuzione e potranno lavorare per un massimo di dodici mesi, possano essere impiegati nelle aziende sanitarie solo in caso di necessità e urgenza e in un'unica occasione, senza possibilità di proroga, e solo se è impossibile utilizzare personale in servizio.

All’appello mancano cinquemila medici di pronto soccorso e il 25 per cento degli ospedali ricorre alle cooperative - in realtà sono per lo più società a responsabilità limitata - che reclutano persino i medici in pensione (anche se gli over 70enni non potrebbero lavorare in ospedale) e neo laureati. L’inchiesta dai Nas di fine 2022 ha smascherato 165 posizioni irregolari, segnalato 205 persone, sono stati deferiti otto titolari di cooperative per frode e inadempimento nelle pubbliche forniture. 43 i casi di esercizio abusivo della professione, con medici e infermieri che smontavano da 12 ore di turno, per attaccarne un altro, fino a 36 ore filate. Il caso più eclatante è quello di medici spediti a effettuare parti cesarei in sala parto, senza averne mai fatto uno.

«Il fenomeno pone problemi di qualità e notevoli costi che gravano sul settore sanitario, in forte sofferenza», ha detto il procuratore della Corte dei Conti del Lazio, Pio Silvestri, preannunciando un’inchiesta «sul sempre più massiccio impiego di gettonisti».

Anche il presidente dell’autorità nazionale anticorruzione, Giuseppe Busia, ha chiesto ai ministeri della Sanità e dell’Economia e delle Finanze di predisporre un decreto ministeriale per dare indicazioni certe sui prezzi da applicare perché all’Anac: «Sono giunte parecchie richieste di pareri di congruità dei prezzi per “forniture di servizi medico-sanitari disposti in somma urgenza”. Specie in reparti “sensibili” come Pronto Soccorso e Anestesia molti dipendenti si licenziano, per tornare allo stesso posto assunti da società private, con costi moltiplicati».

Lo stesso ministro della Sanità Orazio Schillaci, dopo aver definito «allucinante che in uno stesso reparto ci sia chi percepisce il triplo di chi è assunto», ha promesso provvedimenti legislativi e l’apertura di un tavolo al ministero che, tuttavia, non ha ancora dato risultati.

Di fatto l’unica certezza è che grazie alla flat tax introdotta dal governo in legge di bilancio, un medico gettonista che guadagna 85 mila euro con 20 turni di lavoro da dodici ore ciascuno, paga 12.750 euro l’anno di tasse.  Mentre il suo collega dipendente, 85mila euro li guadagna in un anno e versa allo Stato 36.550 euro. Per evitare che i medici in servizio si licenzino per assumere incarichi professionali da libero professionista sempre nello stesso ospedale, il governo ha imposto che costoro non possano più essere reintegrati in futuro nel Ssn e ha inoltre previsto 200milioni di euro di incentivi per i medici del pronto soccorso. 

Snocciola dati Giovanni Migliore, presidente di Fiaso, Federazione delle Aziende Sanitarie Ospedaliere: «La spesa lorda sostenuta dalle aziende sanitarie per il personale medico delle cooperative nel 2020 è stata di 6,3 milioni. Nel 2022 è salita a 23,3 milioni. Il costo orario per il personale strutturato è di 49,45 euro, mentre un gettonista costa alle casse pubbliche 99,26 euro l’ora». Ecco perché le società di medici a partita Iva fioriscono.

A Vicenza tre medici anestesisti hanno aperto la Mst Group, passata da 3.500 euro di fatturano nel 2019 a 1,2 milioni del 2021. Hanno solo tre dipendenti, ma reclutano - con accordi di prestazione d’opera - 75 medici per i reparti di Emergenza e Urgenza di Veneto e Sardegna. In Piemonte e in Lazio è attiva Medical Line Consulting, di Lorenzo Bartoletti, romano, ben introdotto nei palazzi del potere. Il volume d’affari della Srl in tre anni è passato da 10 a 15 milioni. I dipendenti sono dieci, ma offrono servizi sanitari per 14 milioni di euro. Stesso discorso per la romana Medical Service Assistence: il fatturato è passato da tre a sei milioni in tre anni, 10 i dipendenti. Il grosso dei costi di produzione se ne va “per servizi” e in nessun bilancio c’è l’ombra di contratti siglati con i medici. Perché le società non offrono agli ospedale personale medico, bensì un servizio. Così facendo qualsiasi responsabilità legale ricade sul professionista assoldato, mentre gli ospedali contabilizzano il costo nella voce “beni e servizi”, anziché sul personale.

Il motivo dell’esplosione dei medici gettonisti sta tutto qui, in una mera questione contabile: «Il blocco del tetto di spesa sul personale non consente né di aumentare gli stipendi, né di assumere. Mentre non vi sono limiti alla voce “beni e servizi”, su cui le Aziende Sanitarie hanno mano libera, riuscendo così a offrire ai gettonisti remunerazioni tre volte superiori rispetto al personale dipendente. Incredibile», commenta Andrea Filippi della Cgil. Già, perché il ministero dell’Economia e delle Finanze da un lato mette a dieta le Asl sul fronte del personale, dall’altro concede spese pazze per i servizi.

Orazio Schillaci, essendo un ministro-tecnico, non ha il potere politico di far passare quel regolamento che vieterebbe l’attività libero professionale all’interno degli ospedali, anche perché la materia dovrebbe quantomeno essere condivisa con Paolo Zangrillo, ministro della Pubblica Amministrazione.

E sempre Schillaci non ha la possibilità di intervenire sullo sblocco dei tetti di spesa al personale, o di accordare aumenti ai medici di pronto soccorso, perché la questione è in capo a Giancarlo Giorgetti, titolare del Mef, per nulla interessato ad allargare i cordoni della borsa. Nel frattempo si favorisce l’esternalizzazione di fette del servizio pubblico -ad esempio gli infermieri, ricercati ma sottopagati, stanno passando all'outsourcing - a scapito della qualità. Per esempio, nel 2021 una cooperativa di Sassuolo, la Fenice, è stata oggetto di segnalazioni per criticità e disservizi da parte dell’Ordine dei Medici di Campobasso, ma la stessa continua a crescere, passando nel giro di tre anni da 243 mila euro di ricavi a cinque milioni, perché le aziende ospedaliere non hanno alternative.

O forse ne avrebbero, se si riuscisse almeno a far passare un decreto d’emergenza per i prossimi 36 mesi: «Quello che osserviamo è l’effetto dell’imbuto formativo, ovvero per troppi anni le scuole di specializzazione hanno offerto poche borse di studio rispetto al turnover ospedaliero», spiega Migliore, della Fiaso, che propone di «valorizzare il trattamento economico di chi lavora nelle aree critiche e marginali e, in via transitoria, di reintrodurre la figura dell’assistente medico, così da consentire agli specializzandi, fin dal primo anno, di lavorare nei reparti. Per loro sarebbe un’occasione di formazione sul campo, di fare più attività pratica, per l’ospedale sarebbe così possibile ridurre il ricorso alle cooperative, affiancando specializzandi e medici strutturati, in un’ottica di continuità, maggiore qualità e minori costi». Una porposta che è stata parzialmente accettata nel Cdm di ieri: Fino al 31 dicembre 2025, in via sperimentale, i medici in formazione specialistica possono infatti assumere, su base volontaria e al di fuori dall'orario dedicato alla formazione, incarichi libero-professionali presso i servizi di emergenza-urgenza ospedalieri, per un massimo di 8 ore settimanali.

Mentre a lungo termine, dice Alessandro Vergallo, presidente di Aaroi-Emac, l’associazione degli anestesisti, c’è una questione da risolvere: «Il fenomeno ha colpito soprattutto i medici di emergenza e urgenza e gli anestesisti perché, in entrambi i casi, non hanno margini per effettuare la libera professione, come invece è consentito fare ai colleghi ospedalieri specializzati in cardiologia, dermatologia, ortopedia e via dicendo. Se il lavoro straordinario fosse retribuito e fosse compensata l’attività - più impegnativa - di emergenza urgenza, sarebbe possibile porre un freno ai gettonisti».

Dagospia il 23 marzo 2023. UN’ORA PUÒ VALERE LA VITA! - MELANIA RIZZOLI: “CHI È COLPITO DA INFARTO, ICTUS, TRAUMI, EMORRAGIE E SEPSI, SE ARRIVA ALLA OSSERVAZIONE MEDICA SPECIALISTICA ENTRO I SESSANTA MINUTI DALL’INSORGERE DELLA SINTOMATOLOGIA, HA UN’ALTA PROBABILITÀ DI SOPRAVVIVERE E DI VEDER RISOLTA LA PATOLOGIA IN ATTO IN MODO PIÙ CHE SODDISFACENTE - I CASI CLINICI TEMPO DIPENDENTI HANNO LA POSSIBILITÀ 4 VOLTE PIÙ ALTA RISPETTO ALLE STIME UFFICIALI DI VEDER STRONCATA OD ARRESTATA LA PATOLOGIA.."

Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 23 marzo 2023.

La scorsa settimana si è avuta notizia di tre personaggi famosi italiani che hanno avuto improvvisi ed inaspettati accidenti vascolari, con esiti differenti determinati dalla tempestività di diagnosi e intervento medico.

 La giornalista e scrittrice Bice Biagi era sola in casa quando è stata colpita da un infarto o da un accidente cerebrale, e quando la sorella, che viveva con lei ed era uscita da un’ora per fare la spesa, è rientrata nell’ appartamento, l’ha trovata ormai senza vita, ancora seduta sul divano del suo salotto, morta improvvisamente senza aver avuto la possibilità di muoversi e di chiedere aiuto.

 L’attore Jerry Calà era in albergo a Napoli quando ha accusato un forte dolore alla bocca dello stomaco. Il giorno dopo avrebbe dovuto iniziare a girare le scene del suo ultimo film, per cui ha avvertito telefonicamente la produzione che in giornata non sarebbe andato sul set per le prove di rito.

Il suo produttore però, preoccupato per lui e per l’inizio del film, nonostante la contrarietà dell’attore che minimizzava il suo sintomo, gli ha mandato un medico, il quale ha intuito immediatamente la criticità clinica e lo ha ricoverato in ospedale, dove è stata eseguita d’urgenza una angioplastica con applicazione di alcuni stent coronarici, che hanno evitato le conseguenze di un infarto cardiaco acuto in atto, e in pratica hanno salvato e guarito il paziente, che oggi sarà dimesso.

L’artista Mauro Coruzzi, in arte Platinette, ha avuto un ictus cerebrale mentre eseguiva la fisioterapia a domicilio con un operatore sanitario, il quale ha subito riconosciuto i sintomi ed intuito la gravità dell’evento ed altrettanto immediatamente lo ha soccorso e portato d’urgenza in ospedale, dove i medici hanno facilmente contenuto la patologia con le terapie d’urgenza specifiche, evitando così i consueti esiti invalidanti.

[…] A livello mondiale la prima ora in cui si sviluppa una malattia considerata potenziale letale è chiamata la “Golden Hour”, cioè l’ora d’oro in cui si può intervenire per salvare la vita ed impedire al soggetto di morire, poiché è scientificamente dimostrato che chi è colpito da infarto, ictus, traumi, emorragie e sepsi, se arriva alla osservazione medica specialistica entro i sessanta minuti dall’insorgere della sintomatologia, ha un’alta probabilità di sopravvivere e di veder risolta la patologia in atto in modo più che soddisfacente.

I casi clinici “tempo dipendenti” infatti, hanno la possibilità 4 volte più alta rispetto alle stime ufficiali di veder stroncata od arrestata la patologia acuta sul nascere, nella sua fase ancora di insorgenza, prima che raggiunga la gravità spesso fatale senza le cure adeguate.

[…]

Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” l’11 marzo 2023

I pronto soccorso sono l'imbuto infernale in cui le attese sono eterne, gli anziani restano nelle barelle anche per giorni, i medici fuggono (o vanno a lavorare a gettone dove pagano meglio). Il sistema sta implodendo in tutte le Regioni, sia pure con gradazione di gravità differente. Dice il ministro della Salute, Orazio Schillaci: «Oggi dal 60 all'80 per cento di coloro che vanno in pronto soccorso, vi si recano in modo inappropriato. Per evitarlo, dobbiamo offrire una sanità territoriale, come emerso in pandemia. Stiamo lavorando su questo, anche con i fondi del Pnrr che dobbiamo utilizzare in modo corretto. Ma la vera trasformazione sarà la digitalizzazione della sanità, che ci permetterà anche di superare le tante disuguaglianze che ci sono oggi nel servizio sanitario».

[…] l'affollamento infernale ha un effetto collaterale: in 3 anni negli ospedali italiani ci sono stati 5.000 episodi di aggressione e, molto di frequente, sono stati nei pronto soccorso, visto che è la prima linea. Ma davvero troppo spesso gli accessi sono inappropriati come dice il ministro? Davvero andiamo al Dea per malanni banali per i quali un tempo avremmo chiamato il medico di famiglia? Vediamo i numeri: nel 2021 gli accessi sono stati 14,5 milioni (e nel 2022 sono aumentati), di questi i codici rossi (quindi molto gravi) sono stati solo 366mila, i gialli quasi 4,5 milioni. Ma i bianchi e i verdi (dunque davvero per richieste banali) sono stati rispettivamente 1,8 e 7,8 milioni.

In un mondo perfetto questi quasi 10 milioni di cittadini non sarebbero andati ad affollare i pronto soccorso, ma sarebbero stati visitati dal loro medico di famiglia. Il problema è che il sistema dei medici di base di fatto è saltato (sono sempre di meno, hanno moltissimi assistiti e non riescono a occuparsi di tutti) e un cittadino che ha un problema di salute semplicemente non sa dove chiedere aiuto, se non in pronto soccorso.

Per questo Schillaci, in questo caso in continuità con il suo predecessore Speranza, sta puntando molto sulla realizzazione in tutta Italia delle "case di comunità", che saranno realizzate con i fondi del Pnrr, al cui interno il paziente deve trovare un medico o un infermiere che risponde a richieste non urgenti. L'altro strumento deve essere quello dell'"ospedale di comunità", già funzionante in alcune regioni […]

[…] In Italia tra il 1996 e il 2019 i posti letto sono stati dimezzati a causa dei tagli, sono 160mila in meno. In sintesi: oggi sono 189.826, un letto ogni 314 abitanti; nel 1996 erano 347.297, uno ogni 163 abitanti. Tutto questo è avvenuto con il numero di abitanti che è aumentato e, soprattutto, con l'età media della popolazione che è più alta, e dunque ci sono più patologie che giustificano il ricorso all'ospedale. Giusto potenziare la sanità sul territorio, ma è necessario anche avvicinarsi ai numeri degli altri Paesi per i posti letto. La Francia ha il doppio di letti dell'Italia, la Germania il triplo. Il Regno Unito ha programmato un incremento di oltre 20mila letti».

Le aggressioni.

SALVATE IL SOLDATO CAMICE. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 25 Aprile 2023.

Da Paola Labriola a Barbara Capovani. Dopo dieci anni dall’aggressione che ha portato alla morte della psichiatra di Bari, da ieri – quando è terminata la procedura di accertamento della morte con criteri neurologici – si piange anche la scomparsa della collega di Pisa, aggredita e uccisa da un ex paziente lo scorso venerdì. L’aggressore, un 35enne già noto alle forze dell’ordine per denunce e per un’altra aggressione al tribunale di Lucca, conosceva la donna e dalle ultime ricostruzioni sembrava conoscere bene anche la struttura dove è avvenuta la violenza. L’uomo, fermato ieri notte dalla polizia, ha atteso per oltre un’ora l’uscita della psichiatra che, una volta fuori dall’ospedale, è stata colpita ripetutamente con una spranga e lasciata in una pozza di sangue e in fin di vita sul luogo della violenza. Si tratta del più recente caso di una lunghissima sequenza di episodi violenti ai danni di medici e del personale medico, che vanno dalle minacce a lesioni più o meno gravi. A dare un quadro chiaro della realtà italiana sono i dati dell’Inail che prendendo in considerazioni tutte le strutture – dagli ambulatori di psichiatria fino alle guardie notturne e pronto soccorso – stimano nel nostro Paese circa 1600 aggressioni l’anno, con una media di oltre quattro episodi violenti al giorno. Un fenomeno in crescita per cui nel 2020 era nato un Osservatorio dedicato al tema ed era stata approvata una legge che prevedeva un aumento delle sanzioni penali in casi di violenza. Eppure, per chi tutti i giorni lavora e vive la violenza, i casi come quello della dottoressa Capovani sono solo la punta dell’iceberg: si tratta di casi eclatanti che rimbalzano nei notiziari e indignano l’opinione pubblica, ma che non raccontano ciò che tutti i giorni viene subito dai professionisti nelle strutture. 

UN ALLARME INASCOLTATO 

Quanto tempo ancora ci vorrà per far capire a tutti che il medico è un alleato e non un nemico del paziente?”. Così il presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze, Pietro Dattolo, esprime vicinanza per la morte della collega di Pisa. “Poco più di un mese fa avevamo rilanciato l’allarme sulle aggressioni ai colleghi in occasione della Giornata nazionale contro la violenza nei confronti degli operatori nazionali”. Parole portate via dal vento, spiega il presidente con troppi allarmi rimasti “inascoltati”. E così l’ordine dei medici di Firenze, insieme ad altri chiede di attuare iniziative concrete per permettere al personale sanitario di lavorare in sicurezza, ma soprattutto chiede di fare un “lavoro culturale”di sensibilizzazione, per “far capire ai pazienti che siamo dalla loro parte, non contro”. A intervenire in difesa della categoria e di tutti i professionisti è anche il presidente della federazione nazionale dell’Ordine dei Medici Filippo Anelli: “La violenza è sempre una sconfitta, non solo per chi la subisce ma per l’intera società”. Una morte che è avvenuta nonostante siano stati fatti passi avanti. Anelli ricorda come dalla morte di Paola Labriola è nato un movimento che ha portato a una serie di risultati, eppure non sufficienti perché “Siamo qui a piangere un’altra collega”. E non solo: secondo i dati dell’Ordine dei medici, il 55% dei professionisti riferisce di aver subito violenza e il 48% pensa sia normale. Questo perché persistono problemi di carattere culturale e organizzativo: primo tra tutti, dice “non abbiamo il tempo per parlare con i malati. La legge del 2017 che indica la comunicazione come tempo di cura non è realizzabile, per la carenza di personale, per il numero esiguo delle figure professionali”.

UN’EMERGENZA NAZIONALE

C’è la necessità di fare una riforma”. Così ribadisce Filippo Anelli e così chiede anche la Società italiana di psichiatria (Sip) per voce delle presidenti Emi Bondi e Liliana Dell’Osso. Perché la violenza contro gli operatori sanitari è una vera e propria emergenza nazionale. E così la Sip dopo le parole di commemorazione del ministro della Salute Schillaci chiede “un incontro urgente” al dicastero perché “gli intenti comuni non si esauriscano nella commemorazione del fatto di cronaca lasciandoci inermi di fronte al dolore e per iniziare una collaborazione proficua”. Ed è così che il ministro Schillaci ha convocato una riunione sulla riforma della psichiatria, in programma domani, 26 aprile. “Nel corso di questi ultimi mesi abbiamo già iniziato ad affrontare il tema della salute mentale e della riforma delle procedure per l’assistenza nelle strutture residenziali psichiatriche. Dobbiamo fare in modo che quanto accaduto a Barbara Capovani non si ripeta” ha dichiarato il ministro. Perché il caso Capovani riapre il dibattito sulla legge 180, o meglio nota Legge Basaglia. A spiegarlo è la Società italiana di psichiatria che di fronte alla crescita esponenziale di bisogno di salute mentale ha stato registrato un “progressivo e silenzioso smantellamento di quell’organizzazione, pur imperfetta, che è nata nei due decenni che hanno seguito l’applicazione della legge 180”. E cioè una perdita importante di risorse umane a cui si affianca il mancato ricambio con le nuove leve, con un conseguente impoverimento dei servizi pubblici che “riduce la capacità di risposta dei dipartimenti di Salute mentale, già in seria difficoltà”. Insomma, a decenni in cui si è arrivati a maggiore consapevolezza della salute mentale non si è affiancata una crescita del settore, che si ritrova sempre più carico di richieste di aiuto e di nuovi bisogni emergenti. Una riforma è necessaria non solo per evitare che i casi di violenza non si ripetano, ma anche per garantire a pazienti e professionisti un servizio degno di questo nome.

I dati sono stati diffusi dall'organizzazione sindacale Anaao Assomed. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Aprile 2023

Nel 2022 le denunce di aggressione nell’Asl di Bari sono state 42, di cui 17 per violenza fisica e verbale, 5 solo fisiche e 20 aggressioni solo verbali. I dati sono stati diffusi dal sindacato di medici e dirigenti sanitari Anaao Assomed che evidenzia che il «40,4% dei casi hanno riguardato medici, il 28,5% infermieri, il 7,1% assistenti sociali, 4,7% Oss, 4,7% amministrativi e 14,6% altro personale (psicologici, farmacisti, tecnici)».

«Anche la Puglia - riferiscono dal sindacato - ha pagato un prezzo troppo alto per la mancata sicurezza degli operatori della sanità; la morte di Paola Labriola, avvenuta per mano di un paziente il 4 settembre 2013, è una ferita insanabile, un dolore inconsolabile che si rinnova ogni volta che si ha notizia di una ennesima aggressione. Da allora, duole sottolinearlo, nulla è cambiato». Il 69% delle violenze registrate negli ospedali di Bari e provincia, viene evidenziato, ha visto "protagonista un paziente, il 28,5% parenti dei pazienti, il 2,4% utenza non identificata». Gli episodi, secondo quanto emerge dal report, si sono verificati principalmente nei Centri di salute mentale, Servizio per le dipendenze, Servizio psichiatrico diagnosi e cura, Neuropsichiatria, Pronto Soccorso.

«La Asl Bari ha il triste primato nelle aggressioni al personale sanitario - commenta Silvia Porreca, segretaria aziendale Annao Assomed Asl Bari -. La nostra posizione, come più volte espressa anche dal segretario nazionale Anaao Assomed, Pierino Di Silverio, è chiara: fino a quando non si metteranno in atto tutte le condizioni per tutelare il personale sanitario nell’esercizio delle proprie funzioni, non faremo che contare le vittime». «Occorre, lo ribadiamo, il riconoscimento del medico quale pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, l'inasprimento delle pene nei confronti degli aggressori, il rafforzamento - conclude - dei sistemi di vigilanza in tutti i presidi, soprattutto quelli con maggiore vulnerabilità come reparti e centri psichiatrici e pronto soccorso». 

Napoli, le testimonianze choc dei medici aggrediti: «Mi hanno puntato una pistola», «mi disse: so dove abita la tua famiglia». Simona Brandolini su Il Corriere della Sera l’11 Marzo 2023

I racconti dei dottori napoletani minacciati, picchiati. L'Ordine: servono leggi severe

 «La mia prima aggressione l’ho vissuta quando avevo 39 anni. Ero al pronto soccorso, all’improvviso mi trovai coinvolta in una rissa scoppiata tra i familiari di un paziente deceduto e la polizia. Un collega più anziano mi si parò davanti per proteggermi. Nonostante questo, qualcuno mi scagliò contro un monitor di computer. Ricordo molto bene quel giorno, lo sgomento e la paura». A parlare è la dottoressa Maria Carmela Corbisiero, uno dei medici chiamati dall’Ordine a condividere la propria esperienza nell’imminenza della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari. 

Il record

Napoli con il Cardarelli ha un triste primato in Italia: secondo Nursing up in un anno più di 50 episodi di violenza ai danni di medici e infermieri. Con il nosocomio più grande del Mezzogiorno che ne fa registrare almeno uno a settimana. L'ultimo eclatante, quello del ginecologo del vecchio Policlinico finito in una pozza di sangue e una commozione cerebrale perché i parenti di una sua assistita  l'hanno aggredito.

Il grido: «Io non ce la faccio più»

Per la dottoressa Corbisiero quella non è stata la sola aggressione, anni dopo è stata presa a schiaffi dal figlio di una paziente che stava visitando. «Si trattava di un accesso improprio. Nonostante tutto, stavo cercando di approfondire la sintomatologia lamentata dalla donna. All’improvviso mi trovai addosso il figlio che con violenza mi colpiva sulla nuca. Lo denunciai immediatamente». Oggi all’ospedale Pellegrini della Pignasecca è tornato ad esserci un drappello di polizia, anche se in molti ritengono che la presenza degli agenti dovrebbe essere costante. «Questa non è rabbia, né reazione alla sanità che non funziona - dice il presidente Bruno Zuccarelli – è addirittura premeditazione. Arrivati a questi livelli vuol dire che la gente aggredisce ed è violenta in modo premeditato. Servono leggi severe, ma anche un processo di educazione che parta dalle scuole». Il grido dei medici è «io non ce la faccio più», e l’Ordine ha intenzione di rilanciare con forza questo monito. «Ogni giorno sette medici si dimettono dal servizio sanitario nazionale. Un medico che ha paura non può lavorare al meglio. I cittadini dovrebbero capire che in queste condizioni è a rischio la salute degli stessi assistiti». Zuccarelli chiede che nei pronto soccorso più a rischio sia garantita la sicurezza che viene garantita nei tribunali o negli aeroporti e che allo stesso tempo si faccia molto di più sotto il profilo dell’informazione. «Le persone per bene sono la maggior parte nella nostra città – conclude Zuccarelli – non possiamo accettare che per gli atti di pochi che hanno atteggiamenti camorristici paghino tutti». Così, all’Auditorium dell’Ordine dei Medici è stata organizzata una mattinata di incontro e confronto tra medici, cittadini e gli studenti di 5 scuole di Napoli: convitto Nazionale Vittorio Emanuele, istituto tecnico Fermi e i licei Pansini, Genovesi e Vico. Ancora molto controversa è la questione che riguarda il riconoscimento dello status di pubblico ufficiale per i medici in servizio. 

Raffaella De Franchis, pediatra di famiglia

Dopo la dottoressa Corbisiero, prende la parola Raffaella De Franchis pediatra di famiglia: «Mi puntarono una pistola alla tempia», racconta. «In quegli anni ero una giovane dottoressa che si affacciava con entusiasmo alla professione. Facevo studio a Giugliano, una sera entrarono due uomini che, pistola in pugno, mi rapinarono. Forse credevano che il mio fosse un ambulatorio privato, pensavano di poter incassare un bel bottino. Ricordo ancora il terrore di quei momenti, mi puntarono la pistola alla tempia e mi dissero di consegnare ciò che avevo. Ovviamente, feci denuncia alle forze dell’ordine. Qualche giorno dopo, alla fine di una giornata di visite molto intensa, un uomo bussò dicendo di essere il papà di un bimbo. Quando aprii la porta si aggiunse un suo complice mi ritrovai nuovamente con un’arma puntata. Mi ritrovai nuovamente a vivere quella paura, un senso di rabbia e frustrazione che non ho mai potuto dimenticare. Per circa 15 giorni ebbi un agente di polizia con me durante le visite, poi fui costretta a cambiare studio. Quello è stato un periodo della mia vita che mi ha segnata molto». 

«Disse a mia moglie: so dove abitate» Anche nel racconto di Alfredo Scarpa, medico di famiglia oggi in pensione, c’è un vissuto carico di ansie e preoccupazioni. «Nel mio ambulatorio, in via Foria, circa tre anni fa si presentò un paziente che aveva cercato più volte certificati di assenza dal lavoro. Inizialmente feci di tutto per capire l’origine di questa lombosciatalgia che lamentava. Prescrissi diversi esami, che però risultarono tutti negativi. Gli chiesi allora di tornare dopo qualche giorno con la certificazione di uno specialista che dicesse più di quanto io non riuscissi a vedere. Sapevo che non sarebbe tornato, perché era chiaro a quel punto che la patologia era solo un pretesto. Mi sbagliavo. Non sul fatto che fosse un pretesto, ma sul fatto che non sarebbe più tornato. Quel paziente tornò a studio e al mio diniego mi aggredì. Mi scagliò addosso il mio stresso computer e solo l’intervento di altre persone che erano in attesa mi salvò dal peggio. Ricordo che una sera, pochi giorni dopo, suonarono al citofono di casa. Rispose mia moglie. La voce al portone le disse qualcosa che la fece impallidire. Poi mi raccontò che si trattava di minacce: “dite al medico che sappiamo dove abitate”. Fortunatamente riuscii a far ragionare quell’uomo, anche grazie all’interventi di un suo stesso parente. Ma non dimenticherò mai quei giorni terribili». 

Ornella Langhezza, medico del 118

Ornella Laghezza: «Il marito con una pistola in mano continuava a dirci “se succede qualcosa a mia moglie…». Il ricordo ancora molto vivo nella mente della dottoressa Ornella Laghezza è quello di un intervento a bordo dell’ambulanza del 118. «Eravamo stati contattati per un dolore toracico, una crisi ipertensiva e aumento della frequenza cardiaca. Un codice rosso. Al nostro arrivo facemmo quanto necessario da protocollo, ma nel visitare la paziente il marito incominciò a mostrarsi molto agitato. Con un cenno feci capire all’autista dell’ambulanza di allertare le forze dell’ordine. Gli agenti arrivarono in pochi minuti, ma furono attimi molto complicati. Restammo per un tempo che ci sembrò eterno a monitorare i parametri della donna con il marito evidentemente agitato. Con una pistola in mano continuava a dirci “se succede qualcosa a mia moglie…».

Da romatoday.it il 10 gennaio 2023.

Un medico è stato aggredito all'ospedale Sant'Andrea di Roma. A darne notizia è il sindacato dei medici Federazione Cimo-Fesmed. "Ancora un episodio di violenza ai danni di un collega, schiaffeggiato e colpito da una borsa mentre tutto il personale infermieristico e ausiliario presente veniva pesantemente insultato. Violenza che ha causato danni anche alle strumentazioni mediche presenti nel luogo dell'aggressione, che è stata scatenata dalla comunicazione del decesso di un parente degli aggressori. Il medico aggredito è stato assistito dal personale del pronto soccorso del Sant'Andrea e ha denunciato gli aggressori", si legge in una nota.

Il sindacato dei medici Federazione Cimo-Fesmed (cui aderiscono le sigle Anpo, Ascoti, Cimo, Cimop e Fesmed) esprime solidarietà al personale sanitario vittima dell'aggressione: "Chi si prende cura della salute dei cittadini deve essere protetto: le Istituzioni e le Aziende devono fare in modo che quanto accade ormai quasi quotidianamente negli ospedali italiani non accada più. Si tratta senz'altro di un problema di ordine pubblico, ma anche di tipo culturale: chi aggredisce, insulta o minaccia un medico, deve capire che mette a rischio il diritto alla salute di tutti".

Non è la prima volta che accade. L'ultimo episodio lo scorso 12 dicembre. Prima ancora un episodio del 18 ottobre scorso in cui un'infermiera ha subito un tentativo di strangolamento sempre in pronto soccorso. 

Giusi Fasano per corriere.it il 10 gennaio 2023.

«Già da tempo meditavo sulla scelta di iniziare una nuova facoltà e cambiare professione, dopo questo fatto so che sicuramente sarà la scelta giusta e la intraprenderò appena possibile». La dottoressa Adelaide Andriani ha 28 anni e ha fatto la sua scelta. Come dice lei stessa in un messaggio inviato via Whatsapp, ci pensava «già da tempo». Ma dopo l’aggressione subita l’altra sera non ha più dubbi: non farà la dottoressa anche se si è già laureata in Medicina ed è una specializzanda in Chirurgia generale. Un uomo ha cercato di strangolarla mentre lei era di turno alla guardia medica dell’ospedale Gervasutta,a Udine.

 «Mi ha messo le mani al collo e per qualche istante non sono riuscita a respirare, sentivo che l’aria non passava. Ho pensato: adesso muoio soffocata», ha raccontato lei ai carabinieri. Fortuna che in quel momento aveva accanto la collega che era di turno assieme a lei, Giada Aveni, 31 anni. È stata la dottoressa Aveni a strattonare l’aggressore e a costringerlo a mollare la presa. Forte abbastanza per lasciare vistosi segni sul collo e provocare abrasioni per cinque giorni di prognosi. Ma non sono i postumi fisici a pesare di più. In questa storia il dramma e il peso più grande stanno nel sentirsi vulnerabili, continuamente a rischio perfino fra le mura di una struttura pubblica come un ospedale.

 È successo tutto il giorno 7 gennaio, cioè sabato scorso. Era pomeriggio tardi, già buio. Le persone che arrivano all’interno dei locali della guardia medica — che oggi si chiama servizio di continuità assistenziale — di solito vengono prima intercettate all’ingresso via citofono oppure telefonano: questo per consentire ai medici una valutazione di massima del problema e per non affollare la sala d’attesa, dati i noti problemi legati al Covid. Ma quel pomeriggio all’improvviso compaiono fra gli altri pazienti in attesa due uomini entrati senza lo screening iniziale. Uno dei due ha un problema a una gamba e zoppica, l’altro lo sta soltanto accompagnando. «Il paziente non era agitato, ci ha detto che erano immigrati senza tetto e senza documenti», racconta la dottoressa Aveni.

«Invece era molto aggressivo e maleducato l’altro, l’accompagnatore. Voleva a tutti i costi che guardassimo la medicazione alla gamba che ci hanno detto che era stata fatta da poco dalla croce rossa. Così alla fine l’abbiamo medicata daccapo, anche se la medicazione andava bene. Aveva lesioni di cui però non potevamo stabilire la natura e così abbiamo consigliato al paziente di andare al pronto soccorso per accertamenti. Quando lui è uscito e l’ha detto all’altro, fuori dall’ambulatorio, quello se l’è presa tantissimo. Bussava insistentemente, alzava la voce, insultava... Allora ho chiamato i carabinieri».

Maria Sorbi per ilgiornale.it il 12 gennaio 2023.

 Le ore che ha passato sui libri di medicina sono infinite, la gioia il giorno della laurea impagabile. Eppure, a soli 28 anni, Adelaide Andriani, ha deciso di lasciare la professione medica. La specializzanda, aggredita al collo mentre era di turno come guardia medica a Udine, si è spaventata così tanto ha scelto di appendere il camice bianco, ancora immacolato. «Ci stavo pensando da tempo. Questo episodio è stata l'occasione per decidere di fare altro».

 Che una giovane dottoressa abbandoni la professione all'inizio della sua carriera è una sconfitta per tutta la categoria dei medici, che non solo sono sottopagati, incastrati in doppi turni e ferie saltate, ma sono anche a rischio, sempre di più. Ridare appeal alle professioni sanitarie è una delle missioni del nuovo governo per risolvere il problema della fuga dagli ospedali e della carenza dei medici in corsia, ma per farlo è necessario garantire sicurezza e incolumità.

 È di ieri la notizia di un altro medico aggredito a Palermo: i parenti di una paziente, che volevano entrare in reparto fuori dagli orari di visita, lo hanno preso a calci, pugni e gli hanno lanciato addosso una scrivania lussandogli una spalla.

 Secondo un rapporto dell'Inail, ogni anno in Italia si verificano almeno 2.500 episodi violenti nei confronti dei professionisti della sanità.

«Bisogna prevedere la presenza dell'Esercito e delle forze dell'Ordine innanzitutto nei presidi ospedalieri a maggior rischio perchè in aree più disagiate, ed avviare una sperimentazione da estendere poi eventualmente a tutto il territorio nazionale. Ma non solo: stop ai turni di notte nelle guardie mediche se si lavora da soli, prevedendo accordi con il sistema 118 per l'assistenza notturna» è la proposta del presidente della Federazione degli ordini dei medici (Fnomceo) Filippo Anelli.

Il vice presidente Fnomceo, Giovanni Leoni, alla guida del sindacato Cimo Veneto, sostiene che i punti chiave su cui lavorare siano: Deterrenza, pronto intervento e certezza della pena. «Occorre una videosorveglianza ben pubblicizzata e collegata con un servizio di guardianeria per il pronto intervento, pulsante rosso per la chiamata diretta e sirena di allarme attivabile. Servono guardie giurate dedicate come per il controllo dell'accesso ai servizi nelle ore diurne, servizi di pubblica sicurezza direttamente collegati. E poi va applicata la legge contro la violenza verso gli operatori sanitari».

 A breve potrebbe arrivare una direttiva del governo per portare più sicurezza nelle corsie. «Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, si farà promotore presso il Governo di una iniziativa per l'emanazione di una direttiva specifica da parte del Ministero dell'Interno a tutte le Prefetture, per procedere in tempi certi e rapidi alla stipula dei protocolli operativi con le Aziende sanitarie per garantire interventi rapidi delle forze odine in caso di aggressioni» assicura il presidente della Federazione delle Aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso), Giovanni Migliore.

A chiedere i ripristino delle forze dei drappelli di Polizia o dell'esercito è anche Manuel Ruggiero, presidente di Nessuno Tocchi Ippocrate, associazione nata per denunciare le violenze in corsia: «Finora però la risposta è stata negativa, perché implicherebbe togliere una volante dal territorio. L'esercito sarebbe una valida scelta anche per il numero di risorse disponibili». I militari sono disponibili a fare la loro parte: «Siamo pronti a qualsiasi evenienza, ma è proprio necessario che sia l'Esercito a occuparsi di queste mansioni? Anche perché distoglieremmo gli uomini da altri incarichi» commenta il Cocer dell'Esercito, con il delegato Gennaro Galantuomo.

Le mani al collo della dottoressa. L'aggressione choc dello straniero. Ennesimo episodio di violenza a un camice bianco, a Udine. La giovane specializzanda mostra sui social i segni sul collo frutto dell'aggressione. Lo aveva invitato ad andare in pronto soccorso. Federico Garau il 9 Gennaio 2023 su Il Giornale

Un nuovo episodio di violenza ai danni del personale sanitario si è verificato lo scorso sabato 7 gennaio a Udine: la vittima è una dottoressa specializzanda di 28 anni, aggredita mentre stava prestando servizio presso la locale guardia medica. L'aggressione è avvenuta nel piazzale esterno dell'ambulatorio di via Gervasutta, quando la giovane è stata assalita da un uomo che, giunto in qualità di traduttore per aiutare un conoscente di nazionalità pakistana a farsi comprendere, le ha messo le mani al collo. Evidenti i segni rimasti dopo la violenza subita, come dimostrato dalle foto postate sulla pagina Facebook "Nessuno tocchi Ippocrate".

I fatti

Tutto è accaduto intorno alle 18, quando i due uomini si sono presentati in ambulatorio per una medicazione. Il pakistano aveva una gamba fasciata, ma le ferite, risultate lesioni da ulcera, non potevano essere curate in guardia medica a causa della mancanza dei mezzi idonei per poter intervenire in modo efficace. La dottoressa, che in quel momento prestava servizio con una collega di 31 anni, ha quindi consigliato ai due di rivolgersi direttamente al Pronto Soccorso.

Una soluzione che non è piaciuta al traduttore, il quale ha intimato alle due di procedere alla medicazione richiesta. Inutile ogni tentativo di spiegarsi, per cui alla fine, visto il clima di tensione crescente, i due uomini sono stati invitati a uscire. Proprio nel piazzale antistante è avvenuta l'aggressione ai danni della 28enne, che ha potuto evitare conseguenze più gravi solo grazie al pronto intervento della collega. I carabinieri di Udine, giunti poco dopo sul posto, sono riusciti a identificare il facinoroso, ai danni del quale è stata sporta denuncia. La dottoressa, invece, è stata costretta a ricorrere alle cure del Pronto Soccorso.

Le reazioni

"Sono profondamente indignato per l'aggressione subita da una giovane medico specializzanda che presta servizio come guardia medica a Udine", dichiara Riccardo Riccardi, vicepresidente del Friuli Venezia Giulia, come riportato da Il Friuli.it. "La violenza e l'intimidazione che ha dovuto affrontare sono inammissibili e non devono essere tollerate in nessuna forma. I medici sono al servizio della nostra comunità", aggiunge, "e meritano rispetto e gratitudine per il loro lavoro indispensabile". "Prenderemo tutte le misure necessarie per assicurare la sicurezza dei nostri operatori sanitari. Condanno con forza questo comportamento riprovevole", conclude.

"Il 2023 inizia, purtroppo, con un nuovo caso di violenza ai camici bianchi", commenta invece il presidente dell'Ordine dei Medici di Udine Gian Luigi Tiberio. Episodi del genere continuano a moltiplicarsi e a richiedere interventi più decisi. Il presidente, tuttavia, rivolge innanzitutto un appello alla popolazione. "I cittadini devono rendersi conto che un medico è, prima di tutto, un essere umano. Il mio, oggi, vuole essere un forte richiamo alla popolazione a mantenere la corretta attenzione nei confronti degli operatori sanitari", esorta il presidente. "Tutti devono avere un senso di responsabilità verso gli altri, chi cura e chi viene curato. Non è accettabile che si rischi la propria incolumità per svolgere la professione che siamo chiamati a fare. Capisco che tutti ci portiamo dietro un alto livello di tensione, ma" dichiara in conclusione Tiberio, "l'uso della violenza non si può giustificare un alcun modo".

NEL BARESE. Bitonto, troppa attesa dal medico: paziente gli tira un calcio e gli frattura una mano. La solidarietà della Fimmg: «Episodi di questo genere, magari con conseguenze meno gravi e spesso non denunciati, continuano a ripetersi». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Gennaio 2023

In una nota diffusa oggi il segretario Fimmg Bari, Nicola Calabrese, esprime solidarietà a un medico che lo scorso dicembre a Bitonto è stato aggredito in studio da un paziente. L'uomo aveva ricevuto rassicurazioni sul fatto che sarebbe stato visitato a breve, ma in uno scatto d'ira ha sferrato un calcio al medico fratturandogli una mano. «Episodi di questo genere, magari con conseguenze meno gravi e spesso non denunciati, continuano a ripetersi - continua Calabrese - la sicurezza degli operatori sanitari è un’emergenza che non si è mai risolta. Semplicemente, è stata dimenticata per un po’ dai media. Non possiamo però attendere il caso tragico per ricordarcene. Chiediamo la piena applicazione della legge sulla sicurezza degli operatori sanitari, soprattutto in riferimento alla procedibilità d'ufficio, sgravando gli operatori dalla denuncia dell'episodio».

L’Ideologia.

Stanze singole ai trans e toilette "asessuate", sono le nuove regole della Sanità Lgbt. Polemiche per l'iniziativa dell'Iss rivolta agli operatori che devono usare linguaggi neutri I pazienti minori con dubbi sulla sessualità "dirottati" verso le associazioni arcobaleno. Massimo Balsamo il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Un manuale Lgbt in salsa gender ma anche un omaggio alla nuova religione woke. L'Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato un vademecum per gli operatori sanitari dal titolo «Linee di indirizzo per la comunicazione del personale sanitario con i/le pazienti lgbt+», destinato a fare discutere.

Approvato dall'Osservatorio medicina di genere, il documento è stato redatto dal gruppo di lavoro «Diseguaglianze di salute legate al genere»: 35 pagine con le linee guida per consentire ai medici di avere gli strumenti per comunicare con i pazienti della comunità arcobaleno. Stranamente privo di schwa, dati i contenuti, il bignamino accende i riflettori su temi come il benessere delle persone Lgbt, gli ostacoli nell'accesso e nell'utilizzo dei servizi sanitari o ancora le pratiche inclusive. A tal proposito, per gli esperti presumere che i pazienti siano cisgender e eterosessuali può rappresentare un'inconsapevole micro-aggressione. Ma il peggio deve ancora venire.

Per non urtare il mondo arcobaleno, il personale sanitario dovrebbe creare un ambiente accogliente a partire dall'utilizzo da cartelli, e brochure accoglienti negli studi e nelle sale d'aspetto. Un altro suggerimento è quello di «affiggere, in modo visibile, una dichiarazione di non discriminazione in cui si affermi che le prestazioni sanitarie erogate presso il Servizio sono uguali per tutti i pazienti a prescindere dall'età, dall'etnia, dalla religione, dall'abilità, dall'orientamento sessuale e dall'identità/espressione di genere».

Chiamati ad assumere un «atteggiamento affermativo» e ad utilizzare un «linguaggio neutro», medici e operatori dovrebbero inoltre «prevedere almeno un servizio igienico non specificatamente destinato ad un singolo genere. Nel caso di ricovero in una struttura sanitaria di una persona TGD (transgender e gender diverse, ndr), ove possibile, verificare la disponibilità d'uso di una camera singola, a garanzia della privacy della persona interessata». La toilette gender neutral, la vittoria di Zan.

Dalle domande iper-inclusive all'invito a non utilizzare termini come madre/padre, il documento è la fiera dell'ideologia dei risvegliati. Basti pensare al passaggio dedicato alle differenze sulle questioni legate alla salute sessuale: «Lo screening del cancro della cervice uterina è raccomandato per tutte le persone assegnate femmine alla nascita». Wokeismo allo stato puro. Capitolo a parte per i minori e la comunicazione da adottare. Vietato dire ai giovani pazienti che stanno attraversando una fase: «L'orientamento sessuale lesbico/gay/bisessuale/asessuale come quello eterosessuale è una variante naturale della sessualità umana. Se hai dubbi che vuoi risolvere e desideri avere più chiarezza potrebbe essere utile che tu ti rivolga ad associazioni LGBT+ sul territorio». In altri termini, i medici si chiamano fuori e spingono bambine e bambini minorenni tra le braccia del mondo arcobaleno. In chiusura, una decina pagine con un glossario che comprende termini come trigender (chi si identifica non con due ma con tre identità di genere), pangender e eterosessismo.

Le Esenzioni.

Laboratori pugliesi, dal 1° luglio stop alle analisi con esenzione. Non tutte le strutture convenzionate aderiscono alla serrata. GIANPAOLO BALSAMO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Marzo 2023.

Davvero non c’è pace per gli oltre 230 laboratori di analisi convenzionati disseminati su tutto il territorio pugliese. La maggior parte di essi, infatti, sono tornati sul piede di guerra proclamando una «serrata» a partire dallo scorso 27 marzo: stop delle prenotazioni delle analisi in esenzione successive al 30 giugno. In altre parole, dal prossimo 1 luglio i laboratori d’analisi privati in Puglia non erogheranno più prestazioni di laboratorio garantite dal Servizio sanitario nazionale.

Uno blocco che andrebbe a ripercuotersi soprattutto sulla fascia più fragile della popolazione e che giunge in un clima di attese e incertezze, dopo che, nel frattempo, è arrivata finanche una segnalazione dell’Antitrust a proposito della ripartizione delle risorse pubbliche all’interno della rete dei laboratori privati accreditati e in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci dopo che il Governo centrale ha deciso di impugnare innanzi al più importante organo di garanzia costituzionale l’art. 23 della legge n.30 con cui la Regione Puglia, lo scorso mese di novembre, chiarì la soglia di produttività delle 200mila prestazioni annue necessarie per mantenere l’accreditamento. Già qualche anno prima, è bene ricordare, a seguito della Lg 296/2006, la delibera regionale 736/2017 fornì i criteri per la riorganizzazione della rete delle strutture esistenti, in base ai quali i laboratori di analisi accreditati si sono adeguati facendo anche ingenti investimenti.

«Da lunedì scorso - precisa il referente di Confcommercio Sanità Puglia, Giuseppe Chiarelli - sono state sospese le prenotazioni delle analisi di laboratorio in esenzione successive al 30 giugno 2023. Ovviamente sarà garantito tutto ciò che era già stato prenotato prima». Una «serrata» che è stata promossa non solo da Confcommercio Sanità Puglia ma, anche, dal Sindacato nazionale biologi liberi professionisti (Snabilp) e Laboratori analisi associati pugliesi (Lanap). «Sia ben inteso, non si tratta di una mera difesa di interesse di categoria ma della tutela del diritto alla salute e dei servizi di assistenza sanitaria territoriale che va salvaguardato a beneficio di tutti i cittadini pugliesi e soprattutto quelli che si trovano in stato di particolare fragilità trattandosi di offerta di prestazione sanitaria rientrante nei livelli essenziali di assistenza (Lea)», precisano i rappresentanti delle tre sigle sindacali...

Le Liste d’attesa.

Liste di attesa per visite ed esami: ecco i trucchi per nascondere i ritardi. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 10 9 novembre 2023.

L’ultima novità è che le liste d’attesa non esistono! Eppure ciascuno di noi ogni volta che è alle prese con la prenotazione di una visita medica o di un esame diagnostico sa bene come funziona: o paghi o ti arrangi. Ma quanto tempo realmente passa fra la prescrizione del medico e l’erogazione del servizio che riceviamo come pazienti? Il dottore di famiglia o lo specialista indicano il codice di priorità sulla ricetta: se urgente, il sistema sanitario nazionale deve garantire la prestazione in 72 ore; se c’è il codice «breve» entro 10 giorni; se è differibile entro 30 giorni per una visita, e 60 per un esame; entro 120 giorni se si tratta di prestazioni programmate. In quale percentuale i tempi indicati sono rispettati? E c’è un controllo efficace per intervenire dov’è necessario? Vediamo come i cittadini continuano a essere presi in giro.

Perché finora ci hanno imbrogliato

Finora non ci sono mai state analisi sui tempi di attesa con numeri attendibili che provengono da fonti istituzionali indipendenti: come già denunciato in un Dataroom del maggio 2022 (qui) il sistema di monitoraggio previsto per legge non funziona (qui). Il motivo? Sui siti regionali sono pubblicati migliaia di dati, ma ogni Regione è libera di utilizzare il criterio di raccolta che più le fa comodo: i risultati dei tempi di attesa non sono differenziati in base al codice di priorità, i giorni indicati possono essere una previsione o quello che in realtà il paziente ha dovuto attendere, possono essere presi in considerazione solo gli ospedali più efficienti, oppure un giorno-indice, ecc.. Insomma, non c’è una linea guida comune e nessuna trasparenza sulla situazione reale, che era invece lo scopo delle legge voluta nel febbraio 2019 dall’allora ministro Giulia Grillo.

La settimana-campione

Per risolvere un problema bisogna innanzitutto conoscerlo. Partendo da questo assunto l’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas), che fa capo al ministero della Salute, con la Fondazione The Bridge, ha realizzato un progetto-pilota: alle Regioni sono stati chiesti i tempi di attesa di 14 visite e 55 prestazioni di diagnostica su una settimana campione, dal 22 al 26 maggio 2023. L’obiettivo è di portare alla luce tutta la verità sulle liste di attesa, con un criterio di raccolta dei dati che superasse le criticità denunciate. I risultati dell’analisi, per la prima volta, mostrano in modo inconfutabile i trucchi che vengono adottati per fare sembrare sulla carta che il problema non c’è.

I dati delle Regioni

Nove Regioni preferiscono continuare a trascurare il problema, o non riescono ad avere idea di quanto tempo deve attendere un cittadino per ogni singola visita o esame: Valle d’Aosta, Bolzano, Molise e Puglia hanno ignorato la richiesta di Agenas; Lombardia, Liguria, Basilicata e Sicilia non sono state in grado di produrre i dati; quelli della Calabria non sono utilizzabili perché incompleti. Invece 6 Regioni hanno risposto fornendo i tempi di attesa di 2-3 ospedali: Veneto, Lazio, Abruzzo, Campania, Umbria e Sardegna, per un totale di 23.656 visite e 24.478 esami. Hanno invece fornito tutte le informazioni richieste il Piemonte, Trento, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Marche, per un totale di 101.265 visite e 122.208 esami.

Il primo appuntamento disponibile

Prendiamo in considerazione 3 esami diagnostici e 2 visite da garantire entro 10 giorni e vediamo qual è il primo appuntamento disponibile all’interno dell’Asl di riferimento del paziente. Il 78% delle Tac, il 67,5% delle risonanze magnetiche e il 78% delle ecografie all’addome risultano erogate nei tempi di legge.

Concentriamoci sui casi più eclatanti. Piemonte e Sardegna riescono a garantire addirittura il 100% delle Tac e delle risonanze magnetiche, Campania e Lazio il 100% delle risonanze magnetiche, il Piemonte il 99,6% delle ecografie all’addome.

Abruzzo e Campania il 100% delle visite cardiologiche;

l’Abruzzo il 100% delle visite ortopediche.

Sembra di sognare! Anche con dati raccolti ed elaborati in modo corretto i risultati appaiono in gran parte ingannevoli. Perché?

Il gioco delle tre carte

I tempi di attesa monitorati dalle Regioni prendono in considerazione il numero di giorni che trascorrono dalla chiamata del paziente al call center (Cup) per prenotare alla data dell’appuntamento. Se però gli rispondono che in quel momento non c’è posto e lo invitano a ritelefonare dopo una settimana o due, la data che farà fede è quella della seconda chiamata, nella quale l’operatore fisserà effettivamente l’appuntamento. Della prima richiesta del paziente non resta traccia, anche se in realtà la sua attesa è iniziata da allora. In questo modo però tutti i tempi di prenotazione risultano più brevi. La prova che il meccanismo è diffuso la troviamo nei dati di Agenas che contano, e per la prima volta, quanto tempo trascorre da quando io ho in mano la ricetta del medico a quando telefono al Cup per prendere l’appuntamento. Solo il 18% lo fa il giorno stesso o il giorno dopo, se deve fare l’esame in 72 ore; il 41% se deve farlo in 10 giorni; il 51% se deve farlo entro 60. É paradossale: prima devo avere un esame o una visita, più tardi chiamo. Non può succedere davvero così. È ragionevole pensare che io la telefonata al Cup la faccio subito, ma solo al 18% viene dato l’appuntamento, e infatti ne rimane traccia. A tutti gli altri viene detto di richiamare perché non c’è posto. Se ne deduce che di quell’82% una parte non farà la visita nei tempi previsti, e un’altra parte si rivolgerà alla Sanità a pagamento. L’Osservatorio sui consumi privati in Sanità (Cergas-Bocconi) stima che su 100 esami 21 sono a pagamento; e 41 su 100 visite mediche.

L’altro problema è che i dati comunicati dalle Regioni si riferiscono solo alle telefonate fatte al call center che, nella realtà, spesso intercetta solo una parte delle richieste (non quelle, per esempio, fatte agli sportelli). Ciò emerge andando a vedere il numero di prenotazioni fatte per mille abitanti: è realistico che nell’Asl di Roma 1 e Rieti nella settimana tra il 22 e il 26 maggio solo 30 pazienti abbiano avuto bisogno di prenotare una Tac entro 10 giorni oppure che nell’Asl di Oristano solo 2 avessero bisogno di una risonanza magnetica sempre entro 10 giorni? Lo stesso vale per le visite: possibile che in tutto il Piemonte solo in 376 abbiano bisogno di una visita cardiologica? In Emilia-Romagna, che può essere considerata una Regione benchmark le prenotazioni sono intorno a 1 per 1.000 abitanti. Dove ci sono percentuali inferiori vuol dire che i dati non intercettano le vere richieste dei cittadini. E quindi come si risolve questa piaga se i direttori generali mascherano la realtà?

Le scelte dei cittadini

Infine, ci sono anche i pazienti che scelgono una data d’appuntamento diversa da quella proposta dal Cup, e in un caso su due aspettano di più. Quasi l’80% lo fa per andare in una struttura, o addirittura in un reparto, diversi da quelli proposti, dove pensano di essere seguiti meglio.

Qui però non si può puntare il dito contro nessuno, si tratta di ritardi subordinati a una libera scelta del paziente. Dataroom-corriere.it

Servizio sanitario nazionale, l’imbroglio che ci condanna alle liste d’attesa. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera mercoledì 4 ottobre 2023.

«C’è sempre una soluzione a tutto, ciò che conta è la salute», dice l’antico proverbio. Lo dice anche l’articolo 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». Su questo diritto abbiamo costruito uno dei sistemi sanitari migliori al mondo, salvo poi svuotarlo piano piano nel corso degli anni, pentircene, e giurare di risanarlo. Bene, guardiamo com’è oggi la situazione in Italia con un’elaborazione in esclusiva di Dataroom su dati dell’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che fa capo al ministero della Salute, e che per la prima volta ci permettono di capire davvero cosa è successo negli ospedali italiani dopo i 2 anni orribili del Covid. Il 2022 dovrebbe essere stato un anno di ritorno alla normalità, in cui è possibile anche recuperare l’attività rimasta indietro nei mesi clou dell’epidemia.

I ricoveri persi

Nel 2022 in Italia ci sono stati 6,9 milioni di ricoveri di cui 5,1 negli ospedali pubblici e quasi 1,8 nei privati accreditati con il servizio sanitario. Rispetto al 2019 gli ospedali pubblici perdono 740.788 ricoveri, che diventano 833.749 se togliamo i 92.961 ricoveri Covid che nel 2019 non ci sono stati. Tradotto in percentuale fa un meno 13%. È come se in Italia in 4 anni avessimo chiuso, nel silenzio più assoluto, oltre 17 mila posti letto. L’equivalente di 40 ospedali di medie dimensioni e oltre 800 reparti. Invece negli ospedali privati accreditati i ricoveri sono diminuiti solo del 4%, che al netto dei ricoveri per Covid la perdita è di 79.953 ricoveri.

Significa che nel 2022 gli ospedali pubblici perdono il triplo dei ricoveri rispetto agli accreditati, un dato che indica l’aumento del peso specifico della Sanità privata accreditata

Infatti se nel 2019 su 100 ricoveri 76 erano negli ospedali pubblici e 24 nel privato accreditato, ora il rapporto è 74 nel pubblico e 26 nel privato convenzionato. Può sembrare differenza piccola, ma in realtà indica una tendenza progressiva in corso da tempo e ancora non visibile al cittadino comune. Per lui non fa differenza, quello che gli interessa è essere curato al meglio, e generalmente le più importanti strutture convenzionate funzionano bene. Del resto il servizio sanitario nazionale accredita gli ospedali privati per contribuire a completare l’offerta sanitaria e potere erogare ovunque i livelli essenziali di assistenza. Dunque sulla carta hanno stessi diritti e stessi doveri. Ma è davvero così? Per rispondere a questa domanda bisogna capire se gli ospedali privati accreditati, i cui ricoveri Covid nel 2022 sono ormai limitati al minimo (12.311), si fanno carico di compensare l’attività non svolta dal pubblico ancora in evidente difficoltà. Vediamo cosa dicono i numeri. 

Patologie oncologiche

Partiamo dagli interventi chirurgici per tumori, e dunque per le patologie più gravi e urgenti:

• tumori al seno con mastectomia: nel 2022 il privato accreditato fa 412 interventi in più rispetto al 2019, e recupera anche il pubblico con +806;

• neoplasie al rene e uretere: il privato accreditato ne fa 494 in più, e recupera anche il pubblico +457;

• polmoni: il privato accreditato ne fa 316 in più, e recupera anche il pubblico +324;

• interventi per tumori prostata : il pubblico ne fa 1.545 in meno, il privato 2.413 in più.

Dunque: nel recupero dei ricoveri persi per le patologie tumorali più gravi la risposta del sistema sanitario nel 2022 è importante sia nel pubblico sia nel privato accreditato che in alcune aree è determinante per ottenere un saldo positivo rispetto al 2019. 

Altre malattie

Il quadro cambia se guardiamo i ricoveri per le altre patologie mediche e chirurgiche:

• ricoveri cardiologici come quelli per aritmia meno 7.588 nel pubblico e meno 1.427 nel privato, e quelli per insufficienza cardiaca meno 36.983 nel pubblico e meno 7.155 nel privato;

• interventi di chirurgia vascolare minore (legatura e stripping di vene): meno 5.349 nel pubblico e meno 2.023 nel privato;

• malattie degenerative del sistema nervoso: meno 9.152 nel pubblico e meno 5.522 nel privato;

• ricoveri legati alle malattie gastroenteriche e delle vie biliari come quelli per esofagite: meno 13.575 nel pubblico e meno 3.319 nel privato;

• interventi oculistici come interventi sulla retina: meno 2.583 pubblico e meno 79 privato;

• interventi di tonsillectomia e/o adenoidectomia: meno 8.295 nel pubblico e meno 2.002 nel privato. 

E la lista degli esempi può continuare.

Prestazioni più remunerative

Quindi per le patologie che possiamo definire più comuni, che però poi fanno impazzire i cittadini prigionieri delle liste d’attesa, il pubblico arranca e il privato accreditato non fa nessun sforzo supplementare. Cosa fa invece: il privato accreditato sceglie le attività in cui guadagnare quote di mercato su una base economica di redditività, specializzandosi sempre di più in quegli interventi con tariffe di rimborso più elevate (Drg ad alta redditività).

I dati lo dimostrano in modo inequivocabile:

• sostituzione di articolazioni maggiori o reimpianto degli arti inferiori (protesi): più 16.674 interventi nel privato che fa il 56% di questi interventi (in crescita rispetto al 49% del 2019). Rimborso: 12.101 euro.

• chirurgia dell’obesità: più 3.301 interventi nel privato che ne fa il 68% (in crescita rispetto al 59% del 2019). Rimborso: 5.681 euro.

• artrodesi, dove vengono inchiodate le vertebre della schiena, a seconda delle tecniche: più 1.413 interventi nel privato che ne fa il 60% (in crescita rispetto al 53% del 2019). Rimborso: 12.376. Oppure artrodesi vertebrale con approccio anteriore/posteriore: più 89 nel privato che ne fa il 66% (in crescita rispetto al 64% del 2019). Rimborso 19.723. 

Tra le prestazioni più remunerative anche quelle delle specialità di cardiologia/cardiochirurgia come dimostrato nel Dataroom del giugno 2021 (qui) che soprattutto su Milano vedono concentrazioni impressionanti e in continua crescita nel privato accreditato che sostituisce il 77% delle valvole cardiache (17.843 euro), fa il 67% dei bypass coronarici (19.018 euro) e impianta il 62% dei defibrillatori (rimborso 19.057 euro). 

Conclusione: gli ospedali pubblici nel 2022 perdono 1,27 miliardi

(meno 6,7%) rispetto al 2019, i privati accreditati guadagnano 57,7 milioni (+1%). I cittadini aspettano in lista d’attesa. O devono pagare

L’importanza delle regole

Ma cambiare le cose è possibile? Nell’agosto 2019 in Lombardia, tranne che in caso di tumori o gravi patologie, il rimborso dell’artrodesi viene tagliato: il minimo è 3.200 euro fino a un massimo di 7.600 e non più 19.723 euro. È una decisione dell’allora direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo, proprio per rendere gli interventi redditizi e tentare di limitare quelli inutili (qui il Dataroom del novembre 2019 e qui la delibera con le tariffe pag. 10).

In controtendenza rispetto al resto d’Italia succede che nel 2022 gli interventi calano del 23% rispetto al 2019.

I risultati, dunque, si possono ottenere, ma è necessario un sistema di governo che costringa i privati accreditati a fare quello che serve e non quello che rende di più. E bisogna poi resistere alle pressioni di chi difende interessi di parte

Il 15 maggio 2023 con la delibera 285 su proposta dell’assessore Guido Bertolaso le tariffe dell’artrodesi sono riviste al netto rialzo: l’artrodesi vertebrale con approccio anteriore/posteriore combinato arriva a 22.219 euro di rimborso senza più nessun paletto (qui l’allegato alla delibera con le tariffe, pag. 6). 

Dataroom su Il Corriere della Sera mercoledì 4 ottobre 2023.

Estratto dell'articolo di Elisa Campisi per corriere.it martedì 5 settembre 2023.

«L’angoscia di dovermi curare l’ho superata. L’idea di farlo lontano dalla mia famiglia è troppo», Gian Michele Angheleddu strozza il pianto. Ha 51 anni, è sardo e da poco ha scoperto di avere un cancro che richiede la radioterapia. Come autotrasportatore è abituato a viaggiare, ma non avrebbe mai immaginato di dover stare lontano dalla moglie e dai tre figli piccoli proprio adesso che si sente così vulnerabile. Eppure, è ciò che gli è stato suggerito nero su bianco il 28 agosto da un ospedale della sua provincia, il San Francesco di Nuoro.

«A causa della lista d’attesa — è scritto — non è possibile rispettare una tempistica oncologica corretta (come suggerito dal rapporto “Istisan” 02/2. Istisan , ovvero dell’Istituto Superiore di Sanità, ndr)». Deve aspettare circa 6 mesi solo per poter iniziare la radioterapia, «pertanto si invita il paziente a recarsi in altro centro fuori regione».

L’assessore regionale della Sanità, Carlo Doria, sostiene che il messaggio sia un falso o «vecchio di anni». Ma Angheleddu al Corriere ribatte: «Quel documento me l’ha mandato l’Asl ed è noto che i tempi sono lunghi anche per chi è più grave di me». 

[…]

Entro l’anno le nuove attrezzature dovrebbero permettere una riduzione dei tempi, ma il problema di Nuoro è la mancanza di personale, sufficiente per far funzionare solo uno dei due apparecchi disponibili. Tutti i bandi vanno a vuoto: «Abbiamo introdotto la paga di 60 euro all’ora più il rimborso spese per chi va a lavorare nelle aree problematiche. Presto arriverà pure un bonus da mille euro al mese, ma è difficile trovare dei tecnici».

«La colpa — dice — potrebbe essere degli stipendi bassi, dei numeri chiusi nelle facoltà o del fatto che alcune professioni sanitarie diventano meno attrattive». Per Angheleddu, Cugusi e tanti altri, però, ciò che conta è solo che la Regione si muova prima che sia troppo tardi.

Nuoro, il caso delle liste d’attesa per la radioterapia: «Situazione insostenibile sia per i pazienti che per i medici». Storia di Elisa Campisi su Il Corriere della Sera giovedì 7 settembre 2023.

La radiologa Maria Maddalena Giobbe è presidente del consiglio direttivo dell’Ordine dei medici di Nuoro. Da poco in pensione, per anni ha lavorato alla radiologia del San Francesco, lo stesso ospedale che ha inviato al paziente oncologico Gian Michele Angheleddu suggerendo di curarsi fuori regione per via della lunga lista d’attesa. Alla conferenza stampa organizzata per chiarire, lo stesso direttore dell’Asl nuorese, Paolo Cannas, ha ammesso che i documenti simili sono almeno 5-6 su un totale di 300 pazienti in carico. Ma per Giobbe «la situazione è diventata insostenibile, per i pazienti quanto per i medici».

Sei mesi d’attesa per iniziare la radioterapia sono tempi oncologicamente corretti per alcune patologie?

«Assolutamente no. Non sono compatibili con la cura e neppure tollerabili. Nel caso specifico del San Francesco io non so come è andata, ma obiettivamente sei mesi non erano compatibili con la patologia del paziente e se gli è stato suggerito di andare fuori, secondo me, vuol dire che era necessario».

Lei fino all’anno scorso lavorava proprio al San Francesco. Capitava già di dover invitare il paziente ad andare fuori Regione?

«Sì, ma la scelta di solito è motivata dal fatto che quelle cure oncologiche non possono essere applicate in quell’ospedale o dalla richiesta esplicita dello stesso paziente. È normale che un malato oncologico si scoraggi quando gli vengono comunicati tempi così lunghi. Rimanere in Sardegna diventa un’opzione difficile, ma non dobbiamo neppure pensare che per il paziente andare in un’altra Regione sia poco oneroso, a livello economico quanto affettivo. Anche le scelte personali vanno rispettate».

Perché le liste d’attesa sono così lunghe?

«Stiamo parlando di una radioterapia che prima in Sardegna era un fiore all’occhiello, ma negli ultimi anni è iniziato il declino e di conseguenza le liste d’attesa si sono allungate. Oggi la situazione è aggravata dalla chiusura parziale dell’ospedale Businco di Cagliari per via del rinnovo del parco macchine. Molti pazienti si riversano così a Nuoro».

Da che cosa è dipeso questo declino?

«Manca il personale e ogni anno va sempre peggio. Finora, però, sono state trovate solo soluzioni tampone, come i medici a gettone o la chiamata di quelli in pensione. Io stessa da poco mi sono ritirata, ma vengo ancora convocata nei momenti di difficoltà maggiore. Servirebbe l’inserimento di personale strutturale».

L’assessore regionale della Sanità, Carlo Doria, dice che i bandi vanno a vuoto…

«Allora anche lui riconosce che il problema c’è. La carenza di organico porta a dei ritmi di lavoro insostenibili. Saltano persino le ferie e molti colleghi soffrono di burnout. Tanto più la provincia è in affanno tanto meno questo polo diventa attrattivo per i medici. Molti scelgono di lavorare a Cagliari o a Sassari, sia perché sono le città in cui hanno studiato sia per l’idea che lì le condizioni siano migliori. Chi si specializza, poi, preferisce ambiti meno stressanti, a livello fisico ed emotivo».

Avete fatto presente questo problema all’assessore?

«A luglio c’è stato un incontro con Doria su iniziativa del prefetto di Nuoro, Giancarlo Dionisi. Abbiamo parlato di liste d’attesa, ferie non godute e stress del personale sanitario, ma provvedimenti concreti non se ne sono ancora visti. Si tratta di un problema annoso. Non hanno saputo programmare il numero dei laureati, le specializzazioni e le borse di studio. Per anni, molti colleghi sono rimasti bloccati a fare le guardie mediche perché non aprivano le specializzazioni. Di recente hanno aumentato sia i posti che le borse di studio, ma ci vorrà tempo prima che i nuovi professionisti entrino negli ospedali. Intanto, è già in corso l’esodo pensionistico».

L’Emilia-Romagna fa il triplo delle prestazioni della Calabria per la diagnosi dell’addome. Ma per altri controlli il divario in Italia è ancora più ampio. La Repubblica il 18 Aprile 2023.  

La sanità non è uguale per tutti. Non lo è praticamente mai stata, ma adesso le cose vanno peggio. Mentre il sistema dell’assistenza scricchiola per i problemi economici e di personale e il governo decide di far scendere ancora il valore della spesa sanitaria rispetto al Pil, le Regioni viaggiano ognuna per conto proprio.

E così succede che in Emilia-Romagna il sistema pubblico fa quasi 10 ecografie all’addome ogni 100 abitanti in un anno (il 2022) mentre in Calabria il dato scende a 3,1. Significa che da una parte i pazienti si sottopongono a troppi accertamenti e si rischia così l’inappropriatezza, e dall’altra vengono visti poco. Restando sullo stesso esame, la media italiana è di 6, il livello in teoria ottimale.

Se si guarda a chi lavora meno, però, è necessario fare un ulteriore distinguo. In certe realtà del Sud può esserci effettivamente un’offerta pubblica inferiore rispetto al Centro-Nord. Altrove invece i dati contenuti significano un’altra cosa: che le persone scelgono il privato. Cioè pagano per evitare attese e sistemi di prenotazione macchinosi. Succede ad esempio nel Lazio, dove accanto alle 3,5 ecografie all’addome fatte nel pubblico ce ne sono sicuramente tante altre svolte a pagamento. Stesso discorso potrebbe valere per la Sicilia (4,1).

A raccogliere i numeri è stata Agenas, l’agenzia sanitaria nazionale delle Regioni che ha preso in considerazione 10 prestazioni specialistiche e ha visto, appunto, quante ne sono state fatte nelle varie realtà locali in rapporto agli abitanti. Tra l’altro il lavoro delle strutture pubbliche e convenzionate anche nel 2022 è stato inferiore al 2019, cioè all’anno prima del Covid. Proprio le ecografie addominali sono state il 10% in meno, le prime visite neurologiche il 13%, quelle oculistiche addirittura il 24%, e qui probabilmente ha pesato molto il privato. Sono aumentate prestazioni a rischio inappropriatezza come le risonanze muscoloscheletriche (alle ginocchia, alle spalle e così via), cioè +4,6%, e le tac del capo (+6,8%). Le visite di controllo, che riguardano persone che hanno già una diagnosi, sono scese in modo preoccupante del 15%. E tutto questo succede anche se praticamente in tutte le Regioni le liste d’attesa sono lunghe. Malgrado la riduzione della domanda, quindi, l’offerta non riesce a essere adeguata. 

Riguardo all’andamento nelle Regioni di altre prestazioni, le risonanze muscoloscheletriche, uno degli esami considerato dai radiologi a maggior rischio di inappropriatezza, sono state 1,3 per 100 abitanti in Sicilia e 3,5 in Emilia-Romagna, che si conferma la Regione dove si fanno più prestazioni. La possibilità che molte di queste attività non siano necessarie è alto, visto che in realtà come Piemonte, Lombardia e Toscana si resta intorno a 2.

L’elettrocardiogramma è un test che spesso viene eseguito non da solo ma all’interno di una visita cardiologica. Comunque sia, anche in questo caso ci sono enormi differenze. La media italiana è di 6,7 esami per 100 abitanti ma in Emilia-Romagna si superano i 10 test e in Liguria e nelle Marche si resta sotto 2. Ci sono un po’ meno differenze nelle prime visite neurologiche. Rispetto a una media di 1,6, si va dallo 0,8 di Bolzano al 2,5 della solita Emilia-Romagna, in questo caso quasi appaiata da Basilicata e Liguria.

L'occhio di riguardo. Report Rai. PUNTATA DEL 10/04/2023 di Daniele Autieri

Collaborazione di Federico Marconi

L’Ospedale Oftalmico di Roma è il più antico e importante nosocomio italiano interamente specializzato nella cura dell’occhio.

Un’istituzione con quasi un secolo di storia che cura migliaia di pazienti ogni anno, persone che accedono all’ospedale attraverso il pronto soccorso, negli ambulatori o seguendo la strada delle liste d’attesa per poi essere operate. Una grande struttura con enormi inefficienze: solo nei primi mesi del 2022 oltre mille persone hanno abbandonato il pronto soccorso, mentre le sale operatorie sono state utilizzate per 1.080 ore su 1.951 disponibili. Ma oltre le inefficienze e la burocrazia, Report svela una profonda manipolazione delle liste d’attesa e un sistema di vasi comunicanti tra l’attività pubblica e quella privata, dove diversi medici indirizzano i pazienti dell’ospedale nei loro studi privati e allo stesso tempo favoriscono l’ingresso in ospedale dei pazienti che passano per gli studi, permettendogli di superare il tappo delle liste d’attesa. Un sistema così diffuso che – come rivela un’analisi interna che Report ha potuto leggere  in esclusiva – almeno il 20% delle chiamate per i ricoveri viene condotto non dai telefoni dell’ospedale, ma da numeri esterni. Dati allarmanti che hanno portato la procura di Roma ad aprire un’indagine proprio sulla gestione delle liste d’attesa del nosocomio.

Truffa per le liste di attesa, inchiesta sull'ospedale oftalmico di Roma. Inchiesta della procura di Roma sull'ospedale Oftalmico per presunti favoritismi fra i pazienti in attesa. Del caso si è occupata anche Striscia la notizia. Federico Garau il 6 Aprile 2023 su Il Giornale.

L'ospedale Oftalmico di Roma finisce sotto la lente d'ingrandimento delle autorità per alcune ncongruenze nella gestione delle liste d'attesa che hanno fatto insospettire gli inquirenti. La maxi inchiesta ha infatti portato alla luce un sistema opaco di vie preferenziali che ora deve essere chiarito. La procura romana, dunque, sta indagando per cercare di comprendere se all'interno della struttura di piazzale degli Eroi veniva di fatto portato avanti un meccanismo illecito.

Attese infinite e favoritismi

In un momento così critico per il nostro sistema sanitario, con scarsità di personale e di risorse, è più che mai fondamentale tutelare il paziente. Gli inquirenti incaricati di seguire il caso parlano di pazienti favoriti, inseriti nelle liste d'urgenza a discapito di altre persone, magari in gravi condizioni, lasciate invece nelle liste ordinarie, con tempi più lunghi.

Sarebbe venuta meno, dunque, la priorità assegnata a seconda dello stato di salute.

Un comportamento scorretto, che si inserisce in una realtà difficile come quella di Roma e del Lazio, dove i cittadini sono già costretti ad affrontare attese lunghissime per ottenere una visita o un intervento.

La pm Giulia Guccione sta seguendo attentamente il caso, coordinando il lavoro dei carabinieri Nas. I militari hanno trascorso gli ultimi mesi ad affettuare accurate indagini all'interno dell'ospedale.

Segnalazioni arrivano dal 2022. C'è un documento, citato da Repubblica, in cui vengono presentati i molteplici reclami arrivati all'ospedale. "A parte i reclami che segnalano atteggiamenti degli oculisti poco consoni al ruolo, gli utenti lamentano prevalentemente la mancata presa in carico, ovvero la difficoltà dopo un primo accesso (al pronto soccorso) ad avere continuità in particolare segnalando difficoltà ad avere informazioni sui tempi che lamentano sui lunghissimi e con generale senso di abbandono da parte della struttura", si legge nel testo.

Interviene anche Striscia la notizia

Dell'ospedale oftalmico si è interessata anche Striscia la notizia. Due settimane fa l'inviato Jimmy Ghione si è occupato della struttura in un suo servizio, denunciando la situazione. Mesi di attesa per una visita oculistica, anni per un intervento alla cataratta. A fine marzo, si parla di liste d'attesa piene fino a dicembre 2023, come è possibile ascoltare nel video mostrato da Striscia.

"Purtroppo è così, al momento", risponde il direttore sanitario Giuliana Villari a Ghione. "Ne abbiamo consapevolezza, e abbiamo attivato dei gruppi di lavoro per risolvere il problema. Ci auguriamo di riuscire a breve".

Pediatra cercasi nel caos sanità in lista d’attesa. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 31 Marzo 2023

Vogliamo fare una riforma a 360° per la nostra sanità” ha annunciato il ministro della Salute Orazio Schillaci. Perché le misure “toppa” – come il tetto ai medici gettonisti, la libera professione per gli infermieri, i fondi per il miglioramento dei pronto soccorso – servono, ma non bastano. I quasi tre anni di emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di Covid-19 hanno catapultato il Sistema Sanitario Nazionale in una bolla di allarmi e di lavoro straordinario che hanno posto sotto stress il settore e, se da un lato ne sono emersi i punti di forza, dall’altro il SSN ne paga lo scotto. Non tutte le colpe sono da additare alla pandemia, ma di certo gli strascichi non hanno aiutato e non aiutano alla ripresa.

UN PROBLEMA DI ATTESE

Manifesto di questa crisi sono le liste di attesa che hanno cominciato ad allungarsi da quel funesto 2020 e che oggi rendono le cure e la prevenzione dei cittadini sempre più difficile, tanto da spingere molti a rinunciarvi. Dai ricoveri alle visite mediche, abbattere i tempi delle liste di attesa è una delle priorità attuali degli addetti ai lavori per una ripresa del Sistema Sanitario, la cui gestione è stata fino ad ora “un fallimento”. A segnalarlo è il rapporto Healthcare Insights – Osservatorio sull’Accesso alle cure, presentato a Roma dalla Fondazione The Bridge. Per Alessandro Venturi, Vicepresidente Fondazione The Bridge, “il tema viene sempre affrontato come una lungaggine nell’accesso al sistema” quando invece va oltre: “le liste d’attesa servono per graduare la complessità nell’accesso al sistema e garantire quindi una parità di accesso, un’uguaglianza e soprattutto in funzione della sua gravità”. Ma per risolvere la problematica, sottolinea, servono i dati dai territori, che non ci sono e se ci sono presentano difformità, e per questo “non c’è nessuna politica per le liste d’attesa”. Senza uno studio, spiegano, non si può pensare a un intervento funzionale.

CERCASI PEDIATRI

L’attesa, per le cure, colpisce tutta la popolazione: anche i più piccoli. Perché tra le carenze del nostro Sistema Sanitario, c’è anche quella dei pediatri di base. Secondo le stime di Save the Children, in Italia mancano circa 1400 pediatri di libera scelta, con particolari carenze – e sproporzioni – in nove regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Calabria) e nelle zone periferiche e ultraperiferiche del Paese. A spiegare il disagio vissuto da famiglie e bambini è la professoressa Annamaria Staiano, presidente della Società Italiana di Pediatria: “Attualmente noi abbiamo un numero di pediatri di libera scelta pari a circa 7500 contro i 5500 pediatri ospedalieri o universitari. Mancano circa 1400 pediatri di libera scelta per assicurare quel tetto di 800 assistiti per pediatra che garantisce l’accuratezza della presa in carico e – secondo le stime dell’Anaao – nel 2025 ne mancheranno circa 3300”. Questo, spiega Staiano, compromette quelle aree geografiche più disagiate e i piccoli centri dove non è possibile assicurare una corretta assistenza pediatrica. Infatti, in molte regioni e aree urbane, la difficoltà è ormai tangibile, tanto è che si è provveduto a innalzare il numero di assistiti, arrivando ben oltre quello previsto (800, appunto) e sfiorando i 1.300-1.400 bambini per ogni pediatra. Visite, appuntamenti, prestazioni vanno a rilento e, anche qui, le liste di attesa aumentano, con il rischio di non fornire servizio anche ai piccoli pazienti che hanno necessità di cure anche più urgenti.

SPIRAGLI DI RIFORMA

Consapevole delle problematiche, il ministro della Salute Schillaci che, annunciando misure di contenimento per le problematiche sanitarie, ha dichiarato di voler migliorare il Sistema Sanitario Nazionale a 360 gradi, attraverso una riforma di settore che può iniziare ad avanzare a piccoli passi: potenziare la medicina del territorio, a decongestionare il flusso dei pazienti, concedere libera professione agli infermieri e aumentare il numero del personale sanitario. Proprio sul personale medico e assistenziale, si concentra l’attenzione del ministro. La riforma, annuncia: “mira a rimettere al centro del sistema gli operatori del Ssn, gratificando per tutto quello che fanno”. Una mancanza, quella dei medici, che rende difficile l’accesso alle cure, ma anche il lavoro di chi si trova in reparti ormai con personale sottodimensionato. Per questo, dice infine il ministro “credo si debba renedere più attrattivo il SSN, non solo come gratificazione economica, ma anche con una migliore organizzazione” per fornire a tutti – pazienti e personale – un servizio degno di questo nome.

Tre mesi per una risonanza: la Puglia delle liste d’attesa. La mappa dei ritardi. E nelle strutture privata le macchine lavorano il triplo. Sulle prenotazioni brilla Foggia, maglia nera alla Bat. Ma per una ventina di prestazioni le attese restano eccessive ovunque. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Febbraio 2023

La più moderna risonanza magnetica a disposizione del servizio sanitario pubblico pugliese è installata - chissà perché - nell’ambulatorio di radiodiagnostica dell’ex ospedale di Conversano. Qui viene fatto, più o meno, un esame l’ora. La stessa macchina, montata in una clinica privata, può effettuare un esame ogni 20 minuti. Funziona così più o meno dappertutto: la Tac dell’ex Cto di Bari fa sei esami al giorno, esattamente pari alle ore lavorative del turno degli operatori. Il pomeriggio: niente. La sera: niente.

Basterebbe questo a spiegare buona parte del problema delle liste d’attesa, che letto con i dati complessivi sembrerebbe meno grave di quanto appaia. Il sistema sanitario ha infatti (tra l’altro) un problema di efficienza e di allocazione delle risorse. Nonostante la sola Puglia abbia un numero di «grandi macchine» superiore a quello dell’intera Olanda, non riesce a stare dietro alle richieste. E il cittadino è messo di fronte a un bivio: aspettare oppure pagare.

In questo senso, infatti, i numeri sono fuorvianti. Guardiamo al totale delle prestazioni «brevi» richieste a settembre 2022 (ultimo mese disponibile per il monitoraggio del piano nazionale di riduzione delle liste d’attesa): in provincia di Bari il 65% delle prenotazioni viene evaso entro i 10 giorni previsti, e in provincia di Foggia si arriva addirittura al 95%. Se guardiamo a tutte le classi di prenotazioni, soltanto la Bat scende al di sotto del 50% di prestazioni effettuate entro i tempi previsti, ma Foggia è al 93%. Il dato medio però maschera la realtà: ci sono una ventina di visite ed esami specialistici per i quali, ordinariamente, non si può far altro che aspettare o pagare. Il problema è tutto lì.

Il grosso delle attese si concentra sugli esami strumentali, quelli su cui c’è il maggior numero di richieste. Per la prenotazione di una tac torace (lo scorso anno ne sono state effettuate circa 33mila in tutta la Puglia), l’attesa media è di 43 giorni. Per la risonanza alla testa (circa 15mila), si arriva a 87 (tre mesi). Un elettrocardiogramma (50mila solo in provincia di Bari) richiede 44 giorni (53 con l’holter), una ecografia all’addome un mese. Una mammografia bilaterale ne richiede addirittura 109. Non va meglio sulla specialistica: quasi due mesi per una visita cardiologica (36mila in provincia di Bari lo scorso anno), poco meno per una neurologica, 80 giorni per essere ricevuti dall’oculista...

STAND BY SANITÀ. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità l’11 Gennaio 2023

Una sanità fuori tempo massimo toglie ai cittadini il diritto a curarsi. Succede in Italia e oramai, purtroppo, non è una novità. A preoccupare sono sì i dati che raccontano la malagestione, ma anche e soprattutto la mancanza di una prospettiva di cambiamento, che almeno per ora sembra non vedersi. Cittadini che aspettano mesi per una visita di controllo, medici di base che nelle regioni aspettano di essere collocati, farmacie che attendono i farmaci e i dispositivi medici carenti e le stesse aziende sanitarie che con il payback “sospes”o aspettano di scoprire cosa gli riserverà il futuro.

TEMPI BIBLICI

Lo standby della sanità colpisce al cuore della società, ovvero sui cittadini, che al momento di una prenotazione per una visita o per un esame sanno già che a dividerli dall’incontro con lo specialista di turno potrebbero passare mesi. Se non anni. Difatti, le liste di attesa si sono allungate in maniera ingravescente, raggiungendo tempi infiniti: secondo i dati del “Rapporto civico sulla salute” di Cittadinanzattiva, nel 2021 l’attesa per una Tac e un’ecografia è arrivata fino a un anno, mentre si aspettano cento giorni per una colonscopia e più di due mesi per una visita oncologica. Ad avere la peggio, però, sono le visite per una mammografia, per cui si è aspettato – record negativo – fino a 720 giorni. Un’odissea dai numeri impressionanti che porta, come conseguenza, la rinuncia alle cure per un italiano su dieci. Perché se molti cittadini per aggirare la problematica delle tempistiche virano sulle visite private – nel 2021 gli italiani hanno speso nella sanità provata oltre 37 miliardi di euro – altri non hanno la possibilità economica per accedervi e rimangono orfani non solo del diritto ad essere curati, ma anche del benessere psicofisico.

ASSISTENZA SOLD OUT

In attesa, oltre ai cittadini, ci sono anche le strutture e le figure predisposte alla cura delle persone. Parliamo dei medici di base, il primo e più prossimo riferimento per il cittadino, e del comparto farmaceutico, alle prese con una carenza di medicinali mai vissuta – neanche in pandemia. Guardando ai numeri, la Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg) denuncia che quasi due milioni di cittadini rimarranno senza medico di famiglia e che oltre cinquemila medici non potranno più garantire l’assistenza negli ambulatori territoriali di Continuità assistenziale e lasceranno vacanti centinaia di presidi di emergenza territoriale. La causa si ritrova nell’errore interpretativo fatto da alcune Regioni che hanno impedito ai medici in formazione di assumere incarichi provvisori e di sostituzione di medicina generale, come invece deciso nella legge del 2018 che permetteva – in deroga alle incompatibilità precedenti – di assumere incarichi convenzionali. La giustificazione? Una norma poco chiara.

Altro numero che spaventa è quello dei medicinali mancanti, che continua a salire giorno dopo giorno arrivando – a oggi – a oltre 3200. Tra questi ci sono gli antinfiammatori, antipiretici, alcuni antibiotici, cortisonici per l’aerosol, prodotti per la tosse, ma anche farmaci antipertensivi e antiepilettici. La produzione è rallentata, la richiesta è alta e farmacisti e medici di base, in attesa di una soluzione, devono sopperire alle mancanze nella cura dei cittadini.

PAYBACK SOSPESO

Infine, in attesa di risposte sul proprio destino, ci sono le aziende, gli operatori e i lavoratori delle aziende produttrici di dispositivi medici che ieri si sono riuniti a Roma in una protesta per chiedere l’abolizione del payback sanitario. Si tratta dello strumento – in piedi dal 2015 ma mai applicato fino al governo Draghi – che costringe i fornitori dei dispositivi medici a restituire parte dei pagamenti ricevuti dalle Regioni che hanno comprato i loro prodotti eccedendo i tetti di spesa. “Un meccanismo – denuncia il presidente di Pmi Sanità Gennaro Broya – che vuol far pagare alle aziende italiane gli sprechi e gli errori delle Regioni incapaci di fare i conti e programmare la loro Sanità”. Una cifra che si attesta intorno a due miliardi e 200 milioni di euro che con l’applicazione dello strumento, porterebbe conseguenze economiche e occupazionali gravissime su tutto il settore industriale e sulla salute dei cittadini italiani. Proprio per questo, il governo si è indirizzato verso la proroga della misura, fino al 30 aprile. Ma non basta: per quella data, la condizione del comparto non sarà cambiata e, pertanto, la richiesta nei confronti dell’esecutivo è proprio quella di abolire definitivamente questa misura. Intanto si sospende la “pena” per altri quattro mesi e si rimane in attesa. Ma forse serve un miracolo.

«Basta intramoenia: le liste di attesa del pubblico sono troppo lunghe»: il monito della Corte dei Conti. Gloria Riva su L’Espresso il 06 Febbraio 2023

Negli ospedali toscani il numero di prestazioni private ma effettuate nelle strutture pubbliche ha superato quello delle visite con il Ssn. Ma la legge impone di bloccare quella pratica quando le liste d’attesa sono troppo lunghe

La Toscana è fra le regioni che più si è data da fare per riorganizzare il centro unico di prenotazione. Ha per esempio introdotto - unica in Italia - l’indice di cattura, cioè il rapporto tra le prestazioni prenotate e quelle prescritte. E nonostante abbia segnato un miglioramento nei tempi di attesa - 21 giorni in media - la Regione è stata recentemente bacchettata dalla Corte dei Conti, in particolare sul problema delle liste chiuse: «Bisogna consentire la registrazione di tutte le richieste di prenotazione che giungono al sistema, prendendo in carico, ad esempio nelle “preliste”, anche quelle per le quali non possa essere proposta una data di prima disponibilità entri i tempi massimi. Questa carenza comporta infatti una inevitabile barriera all’accesso alle prestazione che comporta casi di “blocco liste” vietati dalla legge».

Scrive, nella delibera, che al 30 giugno 2022 oltre l’80 per cento delle prestazioni arretrate sono ancora da recuperare e i tre quarti dei soldi stanziati dallo Stato per il loro recupero non sono stati spesi.

Negli ultimi cinque anni le prescrizioni per esami ambulatoriali sono arrivate a quota 4,9 milioni, al contrario l'offerta - e quindi le prenotazioni - sono 3,4 milioni.

Sempre più spesso i cittadini aggirano il problema ricorrendo all’intramoenia, cioè effettuano visite a pagamento all’interno degli stessi ospedali. Dice la Corte dei Conti che in alcune specialità il rapporto fra le prestazioni in regime di Ssn e quelle private è totalmente sbilanciato a favore del secondo: il rapporto è 161 a pagamento ogni cento gratuite negli accertamenti di chirurgia generale, così come il 102 per cento nelle gastroscopie, il 136 per cento nelle visite ortopediche e così via. Soluzione? È sempre la Corte dei Conti a far notare che «il Piano nazionale prevede espressamente che in caso di superamento del rapporto tra l’attività in libera professione e istituzionale sulle prestazioni erogate o di sforamento dei tempi di attesa massimi già individuati dalla Regione, si attui il blocco della libera professione, fatta salva l’esecuzione delle prestazioni già prenotate».

L’indicazione è chiara: con liste d’attesa così lunghe le visite a pagamento negli ospedali vanno bloccate.

Estratto dell’articolo di Paolo Russo per “la Stampa” il 2 Febbraio 2023.

[…] Ancora troppo devono invece aspettare i pazienti che non hanno la possibilità di ricorrere al privato per accorciare le liste d'attesa, che arrivano a due anni per una mammografia, uno per una tac, sei mesi per una risonanza. Tempi sempre più lunghi perché a causa della pandemia nel 2020 sono saltati due milioni e mezzo di screening oncologici.

Che si sono tradotti poi in altri ritardi di 5 mesi per i test del tumore al collo dell'utero, quattro e mezzo per quelli della mammella e 5 mesi e mezzo per il colorettale. Un tempo sospeso che secondo l'Osservatorio nazionale screening sarà la causa di oltre 3.300 carcinomi mammari, 2.700 lesioni cervicali, quasi 1.300 carcinomi colorettali e oltre 7.400 adenomi avanzati. Tutti tumori non intercettati a causa dei mancati appuntamenti con gli screening. Non solo per colpa del Covid, perché le liste d'attesa erano già insostenibili prima della pandemia. […]

Se circa due milioni e mezzo di italiani hanno rischiato di scoprire tardi di avere un cancro causa i tempi lunghi per ottenere un esame diagnostico o anche una semplice visita oncologica (fino a sei mesi di attesa per un appuntamento), anche una volta scoperto di avere un carcinoma la strada continua ad essere in salita. Perché per accedere alle cure dopo una diagnosi di tumore si arriva ad attendere più di 30 giorni prima di accedere alle cure.

È quello che succede al 25% dei malati secondo un'indagine presentata lo scorso anno da Cittadinanzattiva. Solo il 22% viene poi instradato in un percorso terapeutico assistenziale, che significa poi essere presi a tutto tondo in carico da una struttura pubblica, che pianifica terapie ed accertamenti senza lasciarci in balia delle telefonate al centro prenotazioni.

Oltre il 73% poi non ha ricevuto alcuna informazione circa la possibilità di eseguire a carico della propria regione un test genomico, essenziale per personalizzare le cure o evitare, quando è possibile, la chemioterapia. Tra chi lo ha fatto solo il 15% è riuscito comunque ad avere il rimborso.

 […]

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per la Stampa il 2 febbraio 2023.

Venerdì 27 avrei dovuto essere nel Salone d'Onore del Coni alla cerimonia del premio Estra. Avrebbero dovuto consegnarmi un riconoscimento per un articolo scritto un anno fa su La Stampa. Non sono potuta andare, e chiedo pubblicamente scusa al comitato organizzatore per la mia assenza. Venerdì mi stavo ricoverando d'urgenza per un tumore al colon diagnosticato poche ore prima, quando il mio medico ha visto i risultati della colonscopia e poi della Tac. «Ancora un po' e questa non l'avrebbe raccontata», mi ha detto il medico osservando gli esami.

 «Ma è arrivata appena in tempo. La risolviamo, non si preoccupi».

 Venerdì 27 mi hanno operata, mi sto lentamente riprendendo. Il medico non sapeva che fossi una giornalista, ha usato in modo casuale la parola «raccontare» ma, ora che inizio ad avere le forze, lo faccio davvero. Racconto quello che mi è successo e presto tornerò a raccontare anche altro, come ho sempre fatto nella mia vita.

 Racconto del mio tumore non per un improvviso bisogno di riflettori ma per lanciare un allarme, da giornalista quale sono. Da quando il medico ha pronunciato quella frase, sottolineando l'urgenza di intervenire, non smetto di pensare a chi non ha avuto la mia possibilità di essere rapida.

 Una possibilità legata solo alla capacità di pagare un esame che dovrebbe essere garantito a tutti. Il tumore al colon è il terzo per incidenza e mortalità tumorale nei Paesi occidentali.

Più diffusi e pericolosi sono soltanto quello mammario e quello polmonare. Ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa cinquantamila tumori al colon ma nel 2020, durante il primo anno di emergenza Covid, c'è stata una riduzione del 45 per cento degli screening e dell'11,9 delle diagnosi di tumore colon-rettale, secondo i dati della Fismad, la Federazione Italiana Società Malattie dell'Apparato Digerente.

 Eppure gli esami preventivi sono l'unico modo per scoprire in tempo questo e altri tumori.

Io ammetto di avere la colpa di non essermi sottoposta a una colonscopia o ad altre analisi ma, non avevo disturbi, non mi sentivo affatto stanca, mangio carne al massimo tre o quattro volte l'anno, mi nutro di alimenti il più possibile provenienti da contadini fidati, e ho un'età tutto sommato non troppo a rischio. Pensavo di essere tranquilla ancora per un po' di tempo. Proprio quel tempo che, secondo il medico che ha visto la mia Tac, invece non c'era.

 Se ho sbagliato a non sottopormi a un controllo preventivo, ho fatto molto bene – da quello che mi hanno detto i medici – a correre quando ho avuto il primo segnale d'allarme.

 Era due settimane fa. A quel punto avevo due possibilità: rivolgermi alla sanità pubblica o a quella privata. Se avessi provato a prenotare una visita gastroenterologica nel pubblico, in alcune Asl di Roma avrei dovuto aspettare più di un mese.

 In altre – forse – sarebbe andata meglio, a giudicare dai dati presenti sul monitoraggio dei tempi di attesa fornito dalla Regione. A questo teorico mese avrei dovuto sommare i tempi di attesa per la colonscopia, nella migliore delle ipotesi almeno un altro mese. E avrei anche dovuto considerarmi fortunata perché in altre Regioni i tempi di attesa sono più lunghi, come abbiamo scritto su questo giornale agli inizi di gennaio. Non mi sono rivolta al sistema sanitario pubblico, sarei arrivata tardi. In questi casi il tempo è tutto. Aspettare vuol dire consentire al tumore di farsi strada, di avanzare. Ho prenotato una visita nel privato.

Ho potuto farlo perché ho un lavoro e perché ogni mese dal mio stipendio viene automaticamente prelevato un contributo da versare alla Casagit, la Cassa di assistenza sanitaria integrativa dei giornalisti. Un'assistenza che in tanti hanno capito di dover pagare per avere accesso alle cure in Italia. Secondo un rapporto di Ania, l'associazione nazionale delle imprese assicuratrici, la spesa sanitaria privata ha raggiunto nel 2020 i 38 miliardi di euro, un aumento del 36 per cento rispetto al 2004. Si stima che il numero di cittadini italiani con una copertura sanitaria integrativa sia tra i 17 e i 20 milioni nel 2021, in crescita di circa 4 milioni dal 2017.

 (…)

Paolo Russo per lastampa.it il 7 gennaio 2023.

Il sistema sanitario più universalistico del mondo, quello che offre gratis a tutti tutta l’assistenza di cui si ha bisogno, si infrange contro il muro delle liste d’attesa. Perché quando si arriva a dover attendere un anno o più per un esame diagnostico e mesi per una visita specialistica le alternative sono due: ricorrere al privato pagando di tasca propria o rinunciare del tutto alle cure. La prima strada l’ha percorsa il 54% degli italiani spendendo qualcosa come 37 miliardi di euro nel 2021, alla rinuncia sono invece stati costretti in 5, 6 milioni. Erano poco più della metà solo due anni prima.

 Le cause di questo imbuto sono molteplici e in parte analizzate nelle precedenti puntate di questa inchiesta: carenza di personale medico negli ospedali e negli ambulatori delle Asl, 18mila macchinari diagnostici come tac e risonanze oramai obsoleti e per questo non di rado fuori uso, scarso filtro dei medici di famiglia nel territorio e, non da ultimo, il Covid, che ha tenuto per almeno due anni molti pazienti lontani dagli ospedali e dalle altre strutture sanitarie, facendo saltare oltre 100 milioni di prestazioni sanitarie.

 E così si è arrivati a quasi due anni di attesa per una mammografia, circa uno per un’ecografia, una tac o un intervento ortopedico. Mentre gli screening oncologici accusano ritardi in oltre la metà delle regioni e sono in calo le coperture per i vaccini, non solo quello anti Covid.

L’ultimo “Rapporto civico sulla salute” di Cittadinanzattiva rileva attese fino a 720 giorni per una mammografia, circa un anno per Ecografie e Tac, sei mesi per una risonanza, 100 giorni per una colonscopia. Ma si attende un anno anche per una visita dal diabetologo, 300 giorni per farsi visitare da un dermatologo, un reumatologo o un endocrinologo. Persino per l’oncologo, che si presuppone sottenda qualche urgenza, si aspettano anche più di due mesi. Un anno si può aspettare per un intervento chirurgico al cuore o per riparare una frattura, 180 giorni per operare un tumore. Nel 2021, l’11% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a visite ed esami per problemi economici o legati alle difficoltà di accesso al servizio.

Come al solito le cosa cambiano poi da regione a regione, con alcune situazioni particolarmente critiche. Ad esempio in Sardegna dove la percentuale sale al 18, 3%, con un aumento di 6, 6 punti percentuali rispetto al 2019; in Abruzzo la quota si stima pari al 13, 8%; in Molise e nel Lazio la quota è pari al 13, 2% con un aumento di circa 5 punti percentuali rispetto a due anni prima.

 Per il 57% delle regioni si segnala la sospensione o l’interruzione del normale svolgimento degli screening per tumore alla mammella, alla cervice, al colon retto. I danni dell’interruttore della prevenzione posizionato su “off” li vedremo con il tempo. Intanto, informa la Favo, la federazione delle associazioni dei malati oncologici, ogni persona colpita da tumore arriva a spendere di tasca propria 1. 841 euro l’anno, parte dei quali proprio per gli esami diagnostici.

 In realtà per gli assistiti un modo per liberarsi dalla trappola delle liste d’attesa c’è e sarebbe quello di vedersi applicato il diritto sancito da un decreto legislativo del 1998 che consente di rivolgersi al privato pagando il solo ticket quando il servizio pubblico non rispetta i tempi massimi di attesa: 72 ore se urgente (codice U sulla prescrizione), 10 giorni se da erogare a breve (B), entro 30 giorni le visite e 60 gli esami diagnostici se c’è la lettera P di programmabile. Ma quel diritto è di fatto non garantito per una serie di motivi.

Prima di tutto Asl e ospedali non forniscono quasi mai i moduli per fare richiesta di ricorso al privato. Poi per aggirare l’ostacolo in molti siti regionali vengono indicati tempi di attesa non veritieri ma in linea con quelli massimi consentiti. Non da ultimo quando i tempi si allungano le stesse aziende sanitarie pubbliche, ma anche quelle private convenzionate, chiudono illegalmente le agende di prenotazione per evitare di dover erogare prestazioni che poi non verranno rimborsate dalla Regione perché fuori budget. Cosa che solitamente inizia a verificarsi già dopo la prima metà dell’anno.

 Per uscire da questa situazione il ministro della Salute, Orazio Schillaci ha indicato due strade, entrambe bocciate dalle associazioni dei medici pubblici: alzare l’offerta del privato, dare un aumento ai medici che si mettono a disposizione per più ore di lavoro. «Stiamo valutando i risultati delle misure messe in campo fino ad oggi. In base a tali risultati – dichiara il ministro a La Stampa– cercheremo di investire le risorse in iniziative che ci consentano di recuperare le prestazioni inevase, anche con il contributo del privato accreditato. Ma con rigidi controlli sulla qualità e l’appropriatezza delle cure. Dobbiamo però garantire anche una remunerazione più adeguata ai medici che svolgono l’attività aggiuntiva dentro gli ospedali. È assurdo pagare quattro volte tanto professionisti esterni presi in affitto, quando ci sono quelli interni che già lavorano in team e garantiscono un alto livello di specializzazione».

Intanto un ordine del giorno di FdI approvato dal Parlamento impegna il Governo a valutare l’opportunità di abrogare il tetto di spesa per i privati convenzionati. E siccome le risorse quelle sono, significherebbe dare più soldi a loro a discapito del pubblico. Far lavorare di più i camici bianchi pagandoli extra fa invece proprio arrabbiare i medici ospedalieri. «Non siamo addetti alla catena di montaggio ma eroghiamo cure. Vogliamo essere retribuiti per il nostro lavoro ordinario e invece si avvantaggiano i liberi professionisti che con la flat tax vedono ridursi la tasse dal 41 al 15%. Un regalo alle cooperative che affittano medici a costi quadruplicati», tuona Pierino De Silverio, segretario nazionale dell’Anaao, il sindacato di categoria. La soluzione per gli ospedalieri c’è ed è una sola: «Assumere personale rendendo dignitoso e sicuro per tutti il lavoro in ospedale». Dove trovare le risorse per farlo resta però un rebus.

Sanità: liste d’attesa per visite ed esami: ecco perché sono sempre più lunghe. Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 06 Febbraio 2023.

In Italia da tempo indefinito la certezza di avere un esame o una visita medica in tempi rapidi ce l’ha solo chi può permettersi di pagare. Prima della pandemia, secondo il Censis, 19,6 milioni di italiani si sono visti negare almeno una prestazione dei livelli essenziali di assistenza in un anno e, presa visione della lunghezza della lista di attesa, hanno proceduto a farla di tasca propria: ogni 100 tentativi di prenotazione, 28 sono finiti nel privato (qui il documento). Dopo i due anni di picco del Covid (2020-2021) che cosa sta succedendo? Vale l’immagine che abbiamo utilizzato più volte: immaginate una lunga fila al binario che attende di salire sul treno a cui si sommano i passeggeri di oggi. Se al treno non vengono aggiunte altre carrozze, ci saranno sempre più passeggeri che dovranno rimandare quel viaggio, che in molti casi gli può salvare la vita, o in alternativa pagarsi un trasporto privato. È il motivo per cui recuperare velocemente le prestazioni sanitarie perse durante il Covid, a causa della paralisi dell’attività programmata, è per il Servizio sanitario nazionale una assoluta priorità. E per due ragioni: 1) la maggior parte della popolazione non può permettersi la sanità a pagamento; 2) il ritardo di una cura o di una diagnosi va ad aggravare sia il paziente che le casse pubbliche. Un’elaborazione di dati fatta per Dataroom dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) che fa capo al ministero della Salute ci permette di capire quanto è lunga quella coda e perché non si riesce ad accorciarla.

Esami e visite saltati

Rispetto al 2019, nel 2020 e nel 2021 sono state fatte in meno oltre 12,8 milioni di prime visite e 17,1 milioni di visite di controllo. Per quanto riguarda gli esami, sono stati persi 1,3 milioni di ecografie all’addome, sono saltati 3,1 milioni di elettrocardiogrammi e più di mezzo milione di mammografie. La lista può continuare, ma la storia non cambia: almeno una prestazione ambulatoriale su cinque è stata rinviata. Così adesso il diktat per tutte le Regioni – anche su indicazione dei governi che si sono alternati – è di tornare almeno ai livelli del 2019. Un obiettivo su cui potrebbero essere sollevate almeno due obiezioni. La prima: ci sono stati purtroppo oltre 186 mila morti di Covid, tra i quali soprattutto malati cronici che sono i principali consumatori di Sanità. La seconda: una parte delle prestazioni saltate poteva non essere strettamente necessaria e dunque, passato quel determinato momento, non venire più richiesta. In sintesi: potrebbero essere saltati esami e visite che oggi non devono essere recuperati perché chi ne aveva bisogno è deceduto oppure perché il problema si è risolto spontaneamente.

La richiesta di prestazioni

La realtà dei fatti e dei numeri però è impietosa: nel 2022 la richiesta di visite ed esami non solo è ritornata ai livelli del 2019, ma è addirittura in crescita esponenziale. Lo dimostrano i dati della Toscana, unica Regione a tener monitorate anche le prescrizioni: nel 2022 il numero di ricette per le visite è in aumento rispetto al 2019 del 25%, per le visite di controllo del 28%, per la diagnostica per immagini del 31%, e per quella strumentale del 17%. È verosimile che l’andamento sia questo più o meno dappertutto.

La domanda allora è: rispetto al 2019 quante prestazioni sanitarie sono state erogate nel 2022? L’analisi dei dati di Agenas per Dataroom fa per la prima volta una proiezione su tutto il 2022. I risultati: le prime visite sono ancora sotto di 3,1 milioni (- 14%), le visite di controllo meno 5,3 milioni (- 16%), le mammografie meno 127 mila (- 7%), le ecografie all’addome meno 334 mila (- 9%), gli elettrocardiogrammi meno 1 milione (- 20%). Conoscere le esatte dimensioni del problema è il primo passo per risolverlo. La difficoltà di recuperare la domanda di salute dei cittadini riguarda tutte le Regioni, seppure con differenze tra una e l’altra.

I risultati delle Regioni

Se guardiamo i dati rispetto ai volumi di attività del 2019 il quadro è questo: il Piemonte è ancora a meno 17%, la Provincia autonoma di Bolzano meno 46%, il Friuli Venezia-Giulia meno 25%, il Veneto meno 13%, la Lombardia meno 11,12%, l’Emilia-Romagna meno 12%, la Liguria meno 16%, il Lazio meno 10,9%, le Marche e la Sicilia meno 19%, la Calabria meno 22%. Solo la Toscana ha recuperato un più 1%.

Entrando poi nel dettaglio delle singole richieste: per un elettrocardiogramma il Piemonte è sotto del 39%, il Veneto del 27%, la Liguria meno 40%, la Toscana meno 18%, la Sardegna meno 31%. E sperando in tutto il Paese di non aver bisogno di una visita oculistica, per esempio la Lombardia deve recuperare un 21%, il Veneto il 25%, l’Emilia-Romagna il 15%, la Calabria il 45% e la Sicilia il 25%.

I soldi ci sono

Eppure, con la legge di Bilancio 2021 sono stati messi a disposizione 500 milioni per pagare più prestazioni e medici (un aumento di stipendio per chi fa turni extra: passato da 60 euro l’ora a 80). Perché, allora, il problema resta? I motivi principali sono due. Il primo riguarda le strutture pubbliche: già strangolate prima della pandemia per carenza cronica di medici, devono fare i conti con le difficoltà organizzative. Riuscire a prolungare gli orari delle visite e degli esami presuppone da parte dei direttori generali una capacità di pianificazione, che spesso non hanno perché la loro nomina da parte della politica non la considera un requisito essenziale. Il secondo motivo riguarda le strutture private accreditate: a loro più che offrire prestazioni con il Servizio sanitario nazionale conviene offrire prestazioni a pagamento. Giusto per fare un esempio: nel 2019 a Milano il 27% dell’attività complessiva e il 41% delle prime viste era svolta in regime di solvenza, nel 2022 sono salite rispettivamente al 36% e 58%. Su larga scala il fenomeno è lo stesso: accorciano l’attività in convenzione e allargano quella dove il paziente paga di tasca propria perché il margine di guadagno è maggiore.

(…) accorciano l’attività in convenzione e allargano quella dove il paziente paga di tasca propria perché il margine di guadagno è maggiore.

I tempi di attesa

Riepilogando: se, come abbiamo visto, la richiesta di prestazioni sanitarie è in aumento ma il volume di attività non cresce di pari passo nelle strutture pubbliche e private accreditate, la conseguenza che ne deriva è un peggioramento disastroso delle liste di attesa. Il paradosso è che quest’effetto potrebbe non vedersi dai dati con cui le Regioni monitorano i tempi per ottenere una visita o un esame. Oltre ai problemi del sistema di rilevazione già denunciati in un Dataroom del maggio 2022 che lo rendono di per sé inattendibile (qui), la realtà può essere alterata da altri due fattori: 1) l’aumento del ricorso degli assistiti alle prestazioni a pagamento 2) l’impossibilità di prenotare a causa della chiusura delle agende da parte degli erogatori. Un mascheramento che mostra un quadro apparentemente perfetto. E per i pazienti, oltre al danno, pure la beffa.

Chi paga e chi aspetta

Dal rapporto Censis: «Il ricorso alla Sanità a pagamento è l’esito, non di una corsa al consumismo sanitario inappropriato, ma di prestazioni prescritte da medici che i cittadini non riescono ad avere in tempi adeguati nel Servizio sanitario». Infatti, è in crescita costante la spesa che gli italiani sostengono di tasca propria per curarsi: secondo gli ultimi dati disponibili della Ragioneria generale dello Stato si è passati dai 34,85 miliardi di euro del 2019, ai 37 miliardi del 2021 (qui il documento, pag. 113). Un 6% in più, equivalente a 2,15 miliardi. La metà di questa spesa è per visite specialistiche ed interventi. In sostanza: chi può paga, gli altri aspettano.

Il Sistema Privato.

Padre Pio: debiti e clientele dell’ospedale del Vaticano. Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 28 Giugno 2023

Dice il Papa nell’Angelus di domenica 11 luglio 2021 dal Policlinico Gemelli, dove è ricoverato: «Anche nella Chiesa succede a volte che qualche istituzione sanitaria, per una non buona gestione, non va bene economicamente, e il primo pensiero che ci viene è venderla. Ma la vocazione, nella Chiesa, non è avere dei quattrini, è fare il servizio, e il servizio sempre è gratuito». Sacrosante parole, ma concentriamoci sulla malagestione: le sue conseguenze ci riguardano tutti come pazienti. Nella quasi totalità dei casi un ospedale meglio è gestito migliori cure può offrire e così i soldi non vengono buttati al vento. E viceversa: il principio dimostrato nel Dataroom dello scorso maggio per gli ospedali pubblici (qui) non può che valere anche per i privati accreditati con il servizio sanitario nazionale. Papa Francesco non fa nomi, ma il più vaticano degli ospedali italiani è la Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia), altrimenti conosciuta come l’ospedale di Padre Pio visto che lo fonda proprio il Santo nel 1956. È l’unico insieme al Bambin Gesù a essere controllato direttamente dalla Santa Sede e fa capo a una Fondazione di diritto canonico che, recita il suo statuto, «ha lo scopo principale … di dare ospitalità e assistenza, religiosa e sanitaria, agli ammalati ed ai pellegrini …». Nel 2022 in una masseria a pochi km da San Giovanni Rotondo, monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa, il dicastero a capo del patrimonio immobiliare e finanziario del Vaticano comprese le mura dell’ospedale pugliese, ammonisce i gestori dell’Opera di Padre Pio in una riunione riservata: «Occorre cambiare passo, ripristinare la credibilità e l’aspetto reputazionale, cercando la soluzione a questa vicenda che ha prodotto solo frutti amari che la Santa Sede non può permettersi». E qualche mese fa, ancora il Papa, manda un messaggio che suona così: aiutatevi da soli, i buchi di bilancio non saranno coperti con i soldi dei fedeli. 

Uno dei più grandi del Sud

È l’ultima chiamata, probabilmente, per l’ospedale di Padre Pio, 756 posti letto, 2.700 dipendenti, tra i più grandi del Sud con 32.500 ricoveri e quasi 923 mila prestazioni di attività ambulatoriale. Accreditato con il servizio sanitario, riceve dalla Regione Puglia circa 200 milioni all’anno per le prestazioni sanitarie convenzionate, su 230 di ricavi complessivi.

Però la Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza, l’ente vaticano proprietario, non rende pubblici i bilanci. Legittimo, formalmente: è un soggetto sottoposto al Codice di diritto Canonico, come leggiamo nelle carte della Segreteria di Stato della Santa Sede, dotato di personalità giuridica pubblica, canonica e civile

Ma non è stato proprio Papa Francesco nel pieno dello scandalo sulla gestione dei fondi della Segreteria a pretendere «assoluta trasparenza delle attività istituzionali dello Stato vaticano, soprattutto nel campo economico e finanziario?». L’ospedale di Padre Pio non è tecnicamente un’istituzione vaticana, ma rappresenta l’anima della Chiesa cattolica, è uno storico marchio e insieme anche una delle più grandi aziende controllate dal Papa. 

Conti in rosso

La Casa Sollievo della Sofferenza è incapace di uscire dalla terapia intensiva dove da tempo immemore è relegata. La diagnosi è seria: rischio crac. Da documenti riservati che Dataroom può leggere emerge che negli ultimi 18 anni ha chiuso solo 4 volte in attivo. La gestione operativa dell’ospedale, appesantita anche da costi considerati eccessivi per il personale, è in perdita di 673 mila euro nel 2015, -225 mila nel 2016, -4,5 milioni nel 2017, -17,1 milioni nel 2018, -27,5 milioni nel 2019, quest’ultima ripianata solo grazie al contributo di 38 milioni della Regione Puglia. Nel 2022, dopo gli anni del Covid che non fanno testo, il rosso è di 22 milioni. Solo con i fornitori i debiti sono vicino ai 100 milioni quando erano 57 milioni nel 2016. E questo forse è uno dei capitoli più delicati e spinosi. 

Qualità delle cure e ricoveri in calo

Dai dati del «Piano nazionale esiti» (Qui), lo strumento con cui l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) che fa capo al ministero della Salute testa annualmente la qualità delle cure, emergono chiaramente delle criticità: la mortalità a 30 giorni per ictus è del 18,8% contro una media di riferimento nazionale del 10,84%; per la sostituzione delle valvole cardiache è del 10,7% contro il 2,51%; per il tumore al polmone del 3% contro l’1,02%. I posti letto sono occupati solo al 74%. I 32.500 ricoveri del 2022 sono in calo del 25% rispetto al 2018. E, sempre per lo stesso periodo, l’attività ambulatoriale scende del 19%. 

Il piano di rilancio

I numeri delineano un quadro di lento e costante declino. Nessun arcivescovo (la presidenza per statuto spetta al titolare dell’Arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, attualmente Franco Moscone), nessun consiglio di amministrazione, nessun manager è stato in grado di aggredire debiti e clientele per rimettere stabilmente in linea di galleggiamento l’ospedale. Ora tocca al nuovo direttore generale e consigliere della Fondazione, Gino Gumirato, manager veneto di grande esperienza sanitaria, nominato dalla Santa Sede a novembre 2022. Il suo piano triennale prevede il ritorno al pareggio dal 2024, riduzione dei posti letto a 585 in tre anni, turnover più efficiente dei malati, sostituzione per lo stretto necessario dei 350 dipendenti che andranno in pensione entro il 2026, in prevalenza medici e infermieri. Ci riuscirà? 

L’esempio dell’ospedale di Negrar

Una cosa è certa: gestire con efficienza un ospedale religioso privato accreditato e no profit è possibile. Prendiamo come esempio l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona), anche questo fondato da un futuro santo. Siamo nel cuore della Valpolicella, colline foderate di vigneti, terra dell’Amarone e di Giovanni Calabria, sacerdote veronese, morto nel 1954, santo nel 1999, fondatore della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza che accoglie emarginati e sofferenti. «Il malato è, dopo Dio, il nostro vero padrone», si legge all’ingresso del Sacro Cuore, un ospedale in buona parte sovrapponibile a quello di Padre Pio: 549 posti letto, oltre 30 mila ricoveri e 1,5 milioni di prestazioni ambulatoriali nel 2022. Ci lavorano 2.311 persone di cui 307 medici e 1.536 tra infermieri, tecnici e altri. Su 185,6 milioni di euro di ricavi ne riceve dalla Regione Veneto 135,2 (dati 2022, anche se per i residenti offre prestazioni per 138,3 milioni, ma i tre milioni in più sono di fatto regalati perché c’è un tetto al budget oltre il quale la Regione non rimborsa). Almeno negli ultimi 30 anni non è mai stato in perdita, e gli utili vengono reinvestiti nell’attività sanitaria dell’ospedale: 150 milioni di investimenti complessivi dal 2013. 

Il manager cresciuto in ospedale

La Congregazione, a cui la struttura fa capo, ha affidato le redini e pieni poteri a un manager cresciuto all’interno della famiglia calabriana: Mario Piccinini, entrato nel 1975 come impiegato, nel 1988 diventa direttore del personale, nel 1991 direttore amministrativo e dal 2015 assume le funzioni di amministratore delegato. Nessuno al Sacro Cuore timbra il cartellino e l’ultimo conflitto sindacale è degli anni Settanta. Nel 2019 nell’ospedale viene installato il primo acceleratore lineare del Sud Europa per un tipo di radioterapia all’avanguardia contro i tumori ed è un punto di riferimento importante per la medicina rigenerativa. Produce radiofarmaci sperimentali, unico ospedale in Italia (Qui i dati sulla qualità delle cure). 

Tra i medici più noti ci sono Grazia Pertile, uno dei maggiori chirurghi internazionali per l’oculistica, convinta nel 2003 a rientrare dal Belgio dov’è già una professionista di fama, mettendole a disposizione le più avanzate tecnologie; e poi Claudio Zorzi, primario di Ortopedia e Traumatologia, che con un intervento di medicina rigenerativa ha operato la sciatrice Sofia Goggia al ginocchio rimettendola in piedi per le Olimpiadi ad appena 15 giorni dall’infortunio.

A Negrar sono tutti orgogliosi del loro ospedale che fa dell’efficienza e dei bilanci in utile la normalità. A San Giovanni Rotondo raggiungere efficienza e utili sarebbe un miracolo. Ma i Santi in paradiso (e i bravi manager) possono essere d’aiuto.

La nostra sanità pubblica sta morendo: la salute è diventata un affare privato. Liste di attesa infinite, pronto soccorsi al collasso, pochi medici, finanziamenti in calo. Mentre cresce a tassi record la spesa privata. È questa la “cartella clinica” del nostro Sistema sanitario nazionale, mentre per il 24 giugno la Cgil organizza una manifestazione a Roma per riportare il tema al centro dell’agenda politica. Gloria Riva su L'Espresso il 22 Giugno 2023 

Lunghissime liste di attesa, Pronto Soccorso allo stremo, medici di medicina generale assenti in molte aree del paese, massiccio ricorso alle cure del privato (con relativo esborso dalle tasche dei cittadini) per far fronte al deserto sanitario del pubblico, generale sotto-finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, interi settori – dalla Salute Mentale all'assistenza agli anziani – abbandonati a se stessi: ce n'è abbastanza per far insorgere un intero paese. Vedremo quindi quanti cittadini riuscirà a portare in piazza del Popolo, a Roma, la Cgil sabato 24 giugno per una Manifestazione a difesa del Servizio Sanitario Nazionale, che ha già raccolto l'adesione di un'ampia rete di associazioni.

Partiamo dai numeri del dissesto sanitario

Lo Stato italiano spende 126 miliardi in sanità, 1.947 euro a cittadino, cioè il 6,4 per cento del Pil. Siamo ben distanti da Francia e Germania, dove sulla sanità si investe il 10 per cento del Pil. Per capirci, ogni anno l'Italia dovrebbe mettere sul piatto della finanziaria altri 20 miliardi per eguagliare il Regno Unito e il Portogallo, oppure 40 miliardi per essere come Francia e Germania. Anche l’Ocse ha dichiarato che l’Italia, per garantire la tenuta sociale del Paese, dovrebbe spendere almeno 25 miliardi in più all’anno. A parole tutti difendono l’Ssn («Sono un fervente sostenitore della sanità pubblica», dice il sottosegretario al ministero della Salute, Marcello Gemmato, in quota Fratelli d’Italia), nei fatti quest’anno sono stati appostati due miliardi di euro in più: briciole. Del resto sono 20 anni che la spesa sanitaria è un elettroencefalogramma piatto e gli aumenti coprono soltanto i maggiori costi dell’inflazione.

Gli italiani aggiungono di tasca propria altri 41 miliardi per curarsi: un record mondiale. Vanno poi aggiunti altri 9,6 miliardi sborsati per assistere figli disabili e genitori anziani, più 9,1 miliardi di trasferimenti diretti alle famiglie dall’Inps che, sotto la veste di assegni di accompagnamento, alimentano il mercato privato e spesso informale delle badanti. In sintesi, ogni famiglia spende di tasca propria 2.200 euro l’anno per curarsi. A proposito di ricorso al privato, il centro di ricerca Cergas Bocconi, che monitora il Ssn, stima che tre famiglie su dieci a causa di impreviste spese per la salute stanno rischiando di scivolare sotto la soglia di povertà e oltre il nove per cento ha impegnato per le cure più del 40 per cento del denaro a propria disposizione. Si tratta di un altro record negativo italiano al confronto con gli altri Paesi dell’Europa occidentale.

E per il prossimo futuro andrà anche peggio: l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil scende al 6,5 per cento nel 2023 e al 6,1 nel 2025, in calo di oltre un punto e mezzo rispetto al 2022, al di sotto dei livelli pre-pandemici (era al 6,4 per cento nel 2019) e parecchio distante dalla media europea del 7,9.

Manca il personale

Otto assunzioni su dieci fatte nei mesi della pandemia sono state a termine. Quindi i nuovi ingresso a tempo indeterminato sono solo 17 mila: un numero non sufficiente a compensare le uscite per pensionamenti e burnout dovuti all’elevata età del personale e ai livelli di stress subiti in reparto e negli studi medici. Avverte Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, che oggi sono in servizio 103mila medici e 264mila infermieri, ma entro il 2027 andranno in pensione 41mila medici e 21mila infermieri. Oggi, stima la Federazione Nazionale Ordine dei Medici, mancano all’appello 20mila medici, di cui 4.500 nei pronto soccorso, 10mila nei reparti ospedalieri, sei mila medici di base.

Il buco degli infermieri

Le Università si preparano a formare 2.779 medici di base all’anno e 14.387 specialisti: pochi per stare al passo con le uscite. E se il numero di medici in servizio, nonostante le criticità, continua a essere in linea con quello europeo è invece l’infermieristica il tallone d’Achille. Sempre Agenas dice che l’Italia registra un tasso molto inferiore alla media europea con 6,2 infermieri per mille abitanti, contro gli 11 della Francia e i 13 della Germania. «In risposta alla carenza di medici, diversi Paesi hanno iniziato a implementare ruoli più avanzati per gli infermieri», scrive Agenas nel report, dove cita la Finlandia a titolo di esempio: «Qui le competenze più avanzate degli infermieri hanno migliorato l’accesso ai servizi e ridotto i tempi d’attesa, fornendo la stessa qualità delle cure». Da noi l'assenza di infermieri significa che i medici svolgono compiti che nei sistemi sanitari più moderni sono eseguiti dalle professioni sanitarie. Invece in Italia dell’infermiere continua a essere un mestiere poco pagato e non attrattivo, con 1,6 candidati per ogni posto in Università (contro il rapporto 7 a 1 del concorso a medicina), determinando un tasso di abbandoni addirittura del 25 per cento. Risultato: nei prossimi cinque anni usciranno dall’Università molti più medici specializzati che infermieri e paradossalmente questa situazione aumenterà la percezione che mancano dottori, semplicemente perché ci abitueremo a pensare che funzioni assistenziali, tipiche delle professioni sanitarie, vengano assolte dai camici bianchi.

L'illusione del Pnrr

La speranza di invertire la rotta con i 18,12 miliardi portati in dote dal Pnrr per creare nuovi ospedali, case della comunità, sistemi digitali di medicina territoriale a domicilio e ammodernamento tecnologico svanisce quando si considera che per far funzionare le nuove strutture servono fra i 30 e i 100 mila infermieri, che costano fra i 3 e i 7,8 miliardi annui. Soldi e personale che non sono neppure stati preventivati.

Gli effetti del sottofinanziamento

Come racconta il Rapporto Civico sulla Salute presentato a Maggio da Cittadinanzattiva la scarsità di risorse – economiche e professionali – si evidenzia principalmente nell'allungamento a dismisura delle liste d'attesa. Servono due anni per una mammografia di screening, tre mesi per un intervento per tumore all’utero che andava effettuato entro un mese, due mesi per una visita specialistica ginecologica urgente da fissare entro 72 ore, sempre due mesi per una visita di controllo cardiologica da effettuare entro 10 giorni. Sono alcuni esempi di tempi di attesa segnalati dai cittadini che lamentano anche disfunzioni nei servizi di accesso e prenotazione, ad esempio determinati dal mancato rispetto dei codici di priorità, difficoltà a contattare il Cup, impossibilità a prenotare per liste d’attesa bloccate.

Il secondo effetto, col quale facciamo i conti da almeno dieci anni, è la costante riduzione dei servizi di emergenza urgenza: si conta una riduzione sul territorio nazionale di 61 dipartimenti di emergenza, 103 pronto soccorso, 10 pronto soccorso pediatrici e 35 centri di rianimazione. Subiamo una riduzione di 480 ambulanze di tipo B, un incremento di sole 4 ambulanze di tipo A (ma nel 2019 il decremento rispetto al 2010 era di 34 unità), un decremento di 19 ambulanze pediatriche e di 85 unità mobili di rianimazione.

Anche rispetto alla tempestività dell'arrivo dei mezzi di soccorso, la situazione è peggiorata significativamente e in modo preoccupante: è il caso della Calabria in cui il mezzo di soccorso arriva mediamente in 27 minuti, Basilicata 29 minuti e Sardegna 30 minuti, quando la media nazionale è di circa 20 minuti.

Il terzo elemento di rischio è la riduzione dei fondi destinati alla prevenzione. Sono sei le regioni (erano tre nel 2019) che non raggiungono la sufficienza rispetto ai criteri Lea, ovvero i livelli essenziali di assistenza, per la prevenzione: in particolare a Sicilia, Bolzano e Calabria, che mostrano i dati più bassi, si aggiungono nel 2020 Liguria, Abruzzo e Basilicata.

Gli scenari

«È il momento di dire la verità», dice Mario Del Vecchio, professore di Economia all'Università Bocconi di Milano, che continua: «Con le scarse risorse a disposizione, il Servizio Sanitario Nazionale non può offrire un servizio universale. Serve un ridimensionamento delle aspettative e la politica deve ammettere la necessità di un sistema ibrido, pubblico e privato, cercando di governarlo, con un’attenzione esplicita alle iniquità». Nella migliore delle ipotesi, Del Vecchio ipotizza una collaborazione tra pubblico e privato, ma non esclude uno scenario segnato dalla massima disuguaglianza se il privato continuerà a competere e a viaggiare in parallelo al pubblico senza una regia di quest'ultimo. In tal caso si prefigura uno scenario argentino, nel senso di un totale default dell'Ssn.

Ad avere assistenza saranno i cittadini che possono permettersi cure private. Del resto già ora gli italiani pagano di tasca propria il 75 per cento delle visite specialistiche, il 62 per cento di tac, ecografie e altri accertamenti diagnostici, l’81 per cento dei trattamenti di riabilitazione. I cittadini sborsano 678 euro di tasca propria per curarsi. E si tratta di una media: nel dettaglio si passa dagli 849 euro della Lombardia ai 364 euro investiti privatamente dai campani.

Perché non si scende in piazza?

Il finanziamento alla Sanità è materia di discussione di ogni Finanziaria. Nel senso che i soldi destinati a questo capitolo di spesa pubblica vengono decisi ogni anno in base alle disponibilità economiche di quel momento. E visto che la Sanità non è mai un argomento su cui i partiti politici fanno battaglie di principio – come invece si fa sulle pensioni e sulle concessioni balneari – restano solo le briciole per il Ssn. «È quello che vogliono gli italiani. La collettività ha legittimamente scelto politiche che ridistribuiscono il denaro nelle proprie tasche, come gli 80 euro del bonus Renzi, Quota 100 e altri anticipi pensionistici, il reddito di cittadinanza, il taglio al cuneo fiscale: misure che valgono 42 miliardi l’anno», mostrando come dal 2012 i trasferimenti economici alle famiglie hanno superato la spesa sanitaria. «Non c’è un partito politico che si batte come un leone per destinare più soldi al fondo di sanità pubblica in occasione del tradizionale assalto alla legge finanziaria di fine anno».

Occhi puntati, dunque, sulla manifestazione di Piazza del Popolo del prossimo 24 giugno, sperando in un'alta adesione. Che per altro segue a poca distanza quella dello scorso 15 giugno indetta dai medici di Anaao-Assomed che ha portato in piazza migliaia di cittadini in 36 città d'Italia, e quella di inizio maggio in cui Cittadinanzattiva ha aperto la petizione su Change.org “Urgenza sanità: per il rilancio di un servizio sanitario accessibile e universale” perché, come spiega Anna Lisa Mandorino, segretaria di Cittadinanzattiva: «Ci sentiamo di proclamare noi questa volta lo stato di emergenza sanitaria, che scioglieremo quando avremo la prova concreta che le scelte e le politiche stanno andando nella direzione di rafforzare la sanità pubblica governando quella convenzionata, che ci sono all’orizzonte investimenti sufficienti a finanziare le riforme già previste, come quella per l’assistenza agli anziani non autosufficienti e per il ridisegno dell’assistenza territoriale, e che Stato e Regioni stringano un Patto per la salute con l’unico obiettivo di mettere al centro il diritto costituzionale di ogni individuo e della collettività».

Vuoi un posto letto all’Ospedale Gemelli? Sono 20mila euro a settimana. A un ultraottantenne al Pronto Soccorso del Policlinico romano per polmonite grave, viene proposto di trasferirsi in una struttura specializzata in dermatologia. Poi in una di ortopedia. Alla fine la direzione gli offre un posto nel reparto solventi. Lui rifiuta e attende un letto convenzionato con il Ssn: nell’attesa, però, contrae il Covid. Gloria Riva su L’Espresso il 21 Febbraio 2023.

«Vuole un letto? Fanno 20mila euro a settimana». Considerato che il signor Mario (nome di fantasia), 81 anni, è oggi ricoverano al Policlinico Gemelli di Roma da quasi un mese, il soggiorno in ospedale gli starebbe costato già centomila euro. Ma andiamo con ordine.

A raccontare a l'Espresso la storia di Mario è sua nipote, G.S., che una mattina di metà gennaio lo accompagna al Pronto Soccorso del Policlinico Gemelli, il più grande ospedale della Capitale, perché praticamente non respirava più».

La situazione è grave al punto che i medici lo fanno entrare subito in un'area protetta, «una sorta di accesso rapido, dove vengono accolti pazienti con problemi respiratori e con il covid», racconta G.S., che continua: «Resta in quell'area protetta per un intero giorno e la notte successiva, seduto su una sedia a rotelle, senza che nessuno se ne occupi. E lì succede una cosa strana».

Una donna in camice bianco, se fosse un medico o un infermiere non è possibile dirlo, si avvicina a Mario e gli propone un'alternativa: «C'è un letto libero all'Idi, ci vuole andare? Ha trenta minuti per decidere», la donna si volta e se ne va. La soluzione è allettante, soprattutto perché Mario giace parcheggiato da venti ore su una sedia a rotelle. Ma l'Istituto Dermopatico dell'Immacolata è specializzato in dermatologia e poco ha a che vedere con la polmonite bilaterale acuta che l'ha colpito e che non solo gli sta togliendo il fiato, ma gli sta anche gonfiando a dismisura i piedi, stretti nelle scarpe da ginnastica che nessuno si è preso la briga di sfilargli.

La donna torna. Mario rifiuta l'offerta. Ma la signora in camice bianco prova a mercanteggiare: «Allora ci sarebbe un letto all'ospedale San Feliciano». Il Polo Sanitario San Feliciano è un centro di cura romano specializzato nell'ortopedia. Ma anche qui, non c'è un reparto di Pneumologia. Mario ringrazia e rifiuta.

Com'è possibile che a un anziano uomo in quelle condizioni venga proposto di essere trasportarlo in un altro ospedale? «Il Gemelli ha alcune convenzioni con altre strutture sanitarie, fra cui il San Feliciano e l'Istituto Dermopatico dell'Immacolata, che offrono posti letto quando il Pronto Soccorso del Policlinico è sovraffollato», spiega a l'Espresso un dirigente medico dell'Emergenza e Urgenza. Un dettaglio: l'offerta è stata fatta a Mario prima che qualsiasi medico riferisse a lui o ai suoi famigliari la diagnosi. Insomma, in quel momento nessuno aveva comunicato a Mario di essere in pericolo di vita: «Solo la mattina successiva arriva una barella, lo sdraiano, gli tolgono le scarpe e, finalmente, lo conducono nell'area critica. E il giorno dopo, il terzo dacché siamo arrivati al Pronto Soccorso, i medici ci dicono che zio è in pericolo di morte, che la polmonite è grave».

Rifiutate le offerte per il San Feliciano e per l'IdI, G.S. bussa alla porta della direzione sanitaria del Policlinico Gemelli, per segnalare le irregolarità: «Ci viene detto che purtroppo c'è carenza di medici e di posti letto, ma ci dicono che c'è una possibilità, forse c'è un posto nel reparto solventi». Il reparto solventi, che non ha nulla a che vedere con la chimica, è riservato ai pazienti che hanno la capacità economica di pagarsi non solo il posto letto, ma anche le medicine, le cure, le visite, le prescrizioni, tutto. Il preventivo è da capogiro: «Vuole un letto? Sono 20mila euro la settimana». La direzione sanitaria cerca di capire se la famiglia ha la capacità economica di accedere al reparto solventi, facendo leva sul livello di disperazione dei parenti, che assistono impotenti al tragico abbandono del proprio caro in un'area del pronto soccorso: «Ci siamo fatti un paio di conti, considerate le condizioni di salute dello zio avremmo speso non meno di centomila euro», racconta la nipote.

Tutti i grandi ospedali privati convenzionati hanno un proprio reparto solventi, che di norma viene riservato a chi ha la capacità economica di potersi permettere cure su misura. Ad esempio, un'operazione alla prostata al San Raffaele di Milano in regime di solvenza, viene a costare 120mila euro. Per intenderci, il reparto solventi è quello utilizzato da Silvio Berlusconi al San Raffaele – per lui viene riservato il padiglione Diamante – ed è lo stesso utilizzato dal cantante Fedez lo scorso marzo per l'operazione al pancreas. La novità, ora, è il pressing che le dirigenze sanitarie, come nel caso del signor Mario all'ospedale Gemelli, stanno esercitando per offrire questo servizio a pazienti provenienti dal Pronto Soccorso.

Mario, che non ha la disponibilità economica di Fedez, tanto meno di Silvio Berlusconi, anche in questo caso rifiuta l'offerta e resta pazientemente in attesa di un posto letto a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Il letto arriva qualche giorno dopo, nel reparto Pneumologia, ma ben presto l'intera area viene chiusa perché si scopre che tutti i pazienti hanno contratto il Covid: «Mio zio ha preso il virus accedendo all'area riservata del Pronto Soccorso, dove avevamo capito che, accanto ad alcuni pazienti con problemi respiratori, altri erano affetti da Covid». A quel punto Mario viene ricoverato in un'area di cura subintensiva, riservata però ai casi Covid. E lì resta.

«I medici si danno un gran da fare e il personale è disponibile e preparato, ma come ci è stato spiegato, a causa dei protocolli Covid e della carenza di personale, la stragrande maggioranza delle cure non può essere effettuata». Nonostante di Covid non si parli più, all'interno degli ospedali la pandemia continua ad essere un grave problema per la gestione ordinaria. I pazienti positivi vengono collocati in apposite aree, accessibili solo con l'applicazione di protocolli e adeguate misure di sicurezza da parte del personale sanitario, che accedono al servizio il minimo indispensabile, in attesa che il tampone sia negativo.

Mario dopo quattro settimane è ancora positivo, avrebbe bisogno di fisioterapia e di cure specifiche per la sua polmonite. Ma secondo gli stringenti protocolli Covid il suo caso può attendere. L'alternativa? Pagando 20mila euro a settimana si può accedere all'area solventi.

Il primario del Gemelli: «Non abbiamo mai chiesto soldi per curare un paziente». Dopo il caso sollevato da L’Espresso, risponde il direttore della medicina d’Urgenza dell’Ospedale Gemelli, dicendo che la situazione è di forte stress per tutti i Pronto Soccorso, ma che le cure vengono assicurate a tutti. Gloria Riva su L’Espresso il 27 Febbraio 2023

Meno di un mese fa il professor Francesco Franceschi, direttore dell'area medicina dell'Urgenza e del Pronto Soccorso del Policlinico Gemelli, ha presentato al comitato tecnico scientifico del Parlamento Europeo a Bruxelles una relazione riguardante il fenomeno del sovraffollamento nei Pronto Soccorso, non solo italiani, ma di tutto il mondo Occidentale: «Tutti i pronto soccorso sono affollati in egual modo in questo momento storico. Il fenomeno interessa tutto il mondo occidentale a causa della crescita numerica dei pazienti fragili, dell'aumento dell'età media e dell'avanzamento delle terapie. Inoltre, quando il territorio non offre soluzioni, allora il punto di riferimento per tutti diventa il Pronto Soccorso e, specialmente nei grandi ospedali delle grandi città, il livello di stress è elevato».

Si sta riferendo anche al Pronto Soccorso del suo ospedale, il Policlinico Gemelli?

«Anche al Gemelli. Ma vorrei rassicurare i cittadini. Se il paziente non viene tempestivamente ricoverato in reparto, perché in quel momento non c'è un posto letto libero, questo non significa che il malato assistito in Pronto Soccorso sia abbandonato a se stesso: all'interno del Pronto Soccorso i pazienti ricevono tutte le cure, i farmaci, le terapie di cui necessitano. Certamente non si tratta di soluzioni comode, perché devono soggiornare su una barella e non hanno una stanza assegnata, ma tutti i pazienti vengono gestiti e curati al meglio già nel Pronto Soccorso».

E quando l'Ospedale non ha abbastanza posti letto per accogliere i malati provenienti dal Pronto Soccorso?

«La Regione Lazio ha emanato un piano per la gestione dell’iperafflusso di pazienti nei Pronto Soccorso. All’interno di questo piano è prevista la possibilità di ricoverare i pazienti non solo all'interno dell'Ospedale afferente al Pronto Soccorso, ma anche presso una rete di strutture sanitarie accreditate, con le quali, proprio perché convenzionate, è possibile interagire al fine di trasferire i pazienti. Queste strutture hanno già agito in tal senso nel corso della pandemia, mostrando una qualità che è stata condivisa da tutte le strutture sanitarie impegnate nel contrastare la diffusione della pandemia e nell’offrire l’adeguata assistenza ai pazienti con e senza Covid. Per questo motivo, un eventuale rifiuto del paziente al trasferimento in uno di questi ospedali con competenze comprovate è ritenuto equivalente alla rinuncia al ricovero, anche all'interno del Gemelli. Per questa ragione altri pazienti con analoga situazione clinica, presenti in Pronto Soccorso da meno tempo e in attesa di destinazione, sopravanzano il paziente che rinuncia, cui comunque continuano a essere assicurate tutte le cure necessarie».

Nel caso descritto da l'Espresso, il paziente aveva una grave polmonite e gli sono state proposte due strutture con altre specialità. Per questo ha rifiutato.

«Per prima cosa va detto che il paziente di cui si racconta nell’articolo è ricoverato da un mese al Gemelli in una stanza singola in regime di Servizio Sanitario Nazionale: questi sono i fatti. Poi, per completezza, è anche il caso di chiarire che gli accertamenti da noi fatti non inducono affatto a concludere che il paziente abbia contratto il Covid nel reparto dove è tuttora degente e smentiscono che il Covid abbia rappresentato un impedimento per l’erogazione delle prestazioni sanitarie. Come prima ricordato, al paziente in Pronto Soccorso sono state proposte due strutture accreditate, ossia rispondenti a standard e requisiti organizzativi, tecnologici e di risorse riconosciuti e accertati come presenti dagli organi di controllo regionali. Due strutture peraltro dotate di personale di grande competenza, entrambe con reparti di medicina interna, idonei dunque alla cura della malattia respiratoria in questione. Il paziente ha rifiutato il trasferimento, ma avendo una grave polmonite non era ovviamente possibile dimetterlo. Subentrato un peggioramento significativo, una volta ottenuta la stabilizzazione dei principali parametri, ricevuta la disponibilità di un posto letto in un reparto del Gemelli in grado di assicurare il monitoraggio costante di parametri essenziali per valutare l’evoluzione del quadro respiratorio e cardiologico, il paziente vi è stato ricoverato, trascorse complessivamente meno di 48 ore dal suo arrivo in ospedale. Detto questo, tutti i pazienti possono avere delle evoluzioni cliniche, ora per ora, giorno per giorno, e prima di effettuare un trasporto in altro ospedale ci sinceriamo delle condizioni di salute; soprattutto siamo noi stessi medici che sconsigliamo il trasferimento quando il fabbisogno di ossigeno supera il 35 per cento».

E se si fosse aggravato una volta trasferito?

«Il trasferimento è bidirezionale. Se il paziente si aggrava allora torna qui, con la massima disponibilità ad accoglierlo. Ma sia chiaro il Pronto Soccorso non ha nulla a che fare con il reparto solventi dell'Ospedale».

Dopo qualche giorno di ricovero in Pronto Soccorso, come l'Espresso aveva raccontato, i familiari del paziente hanno chiesto spiegazioni alla direzione dell'Ospedale, dove gli è stato proposta un'alternativa: un posto letto, al costo complessivo di 20mila euro a settimana.

«Non è possibile un ricovero in attività privata in quella modalità. Le spiego: l’attività libero-professionale intramoenia ruota attorno al medico scelto liberamente dal paziente. Se non si realizza questa condizione, non si può proprio parlare di ricovero né di costi di degenza (giornaliero o settimanale) in regime privato. Come pure non ha senso il riferimento alla Direzione Sanitaria: l’ufficio che gestisce i ricoveri privati (cioè in regime libero professionale) non ha nulla a che vedere con la Direzione Sanitaria. In ogni caso, è comprensibile che i parenti vorrebbero che il proprio caro fosse ricoverato subito – e il nostro obiettivo è quello di ricoverare tutti il prima possibile - ma c'è una priorità da rispettare in base alla gravità delle condizioni cliniche, una lista d’attesa che vale per i ricoveri in regime Ssn come in regime libero-professionale, ma, nel frattempo, tutti i pazienti assistiti in Pronto Soccorso vengono curati qui con la massima attenzione e dedizione».

Ecco le bugie di sinistra sui privati nella sanità: in testa le Regioni rosse. Dem all'attacco: in Lombardia poco pubblico. Ma i numeri fotografano una realtà diversa. Marta Bravi il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Contrordine compagni: ecco la verità sui rapporti tra pubblico e privato nel sistema sanitario nazionale. Smascherata in poco meno di un minuto, con semplici cifre, la vulgata faziosa e non corrispondente al vero secondo cui in Lombardia, fiore all'occhiello del sistema sanitario nazionale, la sanità privata sia prevalente sul pubblico.

Sei Regioni d'Italia, infatti, hanno un rapporto di letti rispetto al numero degli abitanti più spostato verso il privato accreditato rispetto alla Lombardia. Di queste, tre - udite udite! - sono governate dal centrosinistra come il Lazio, la Campania e l'Emilia-Romagna. I numeri parlano chiaro: se la Lombardia ha indice 3 come rapporto tra il numero dei posti letto (letti ordinari, day surgery e day hospital) pubblici per mille abitanti (30mila letti totali) e 0,8 per quelli accreditati ai privati (7.975) secondo i dati dell'Annuario statistico del SSN ministero della Salute 2019, nell'Emilia Romagna guidata da Stefano Bonaccini, lo stesso indice 3 vale per i letti pubblici (13.361) rapportati alla popolazione (per mille abitanti), ma sale a 0,9 per quelli privati (4.021 in numeri assoluti). Così il Lazio governato fino a novembre da Nicola Zingaretti che ha un indice di 2,7 come rapporto tra letti pubblici (15.442) e abitanti e 0,9 per il privato (5.441 letti). Rapporto che sale a 1 (5.561 letti) nella Campania di Vincenzo De Luca e a 2,1 per il pubblico (11.916).

«La presenza della sanità privata è un'ossessione che hanno a sinistra» attacca il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, candidato dal centrodestra alle Regionali, ai microfoni di Mattino5. Ossessione non comprovata dai fatti, come dimostra «un'indagine da cui emerge come sei Regioni hanno più sanità privata della Lombardia». Ecco smontato con delle semplici cifre, il teorema del candidato di Pd e M5S alla presidenza della Lombardia Pierfrancesco Majorino che continua a sostenere, in maniera del tutto infondata, come «in questi anni nella Regione Lombardia si è pensato di fare accordi con la sanità privata indebolendo la sanità pubblica». Si spiega così la giravolta del candidato dem di qualche giorno fa che ha annunciato come per «potenziare la sanità pubblica» e «riorganizzare il servizio sociosanitario, sarò io a tenere la delega perché credo debba essere il presidente della Regione Lombardia la prima persona responsabilizzata su questo terreno». Forse pareva brutto indicare come possibile assessore alla Sanità, come sbandierato, invece, all'inizio della campagna elettorale, Fabrizio Pregliasco, virologo, docente di Igiene alla Università degli Studi di Milano, ma soprattutto direttore sanitario dell'Irccs Ospedale Galeazzi del Gruppo San Donato, che con 56 strutture oggi costituisce il primo gruppo ospedaliero privato italiano.

A cadere nello stesso errore ieri anche il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni: «Sulla sanità in Lombardia bisogna fare il contrario di quanto fatto fino ad ora. Si è investito sulla privatizzazione e si è mortificato il servizio pubblico. Ma Fontana e soci si sono accorti che ci sono decine di migliaia di famiglie lombarde che non possono nemmeno permettersi le cure di base?».

Ai predicatori di fake news il governatore Fontana risponde con i fatti, ricordando come al Grande Ospedale Metropolitano di Niguarda di Milano, Irccs pubblico, in soli 10 giorni siano stati eseguiti 14 trapianti d'organo, 9 di fegato e 5 di rene. «La Lombardia si conferma l'eccellenza della sanità italiana, complimenti a tutte le équipe».

Così, un'altra dimostrazione dell'eccellenza della sanità lombarda si trova in quei 180mila italiani che si rivolgono ogni anno agli ospedali lombardi.

Antonio Giangrande: A.D. 2014. MORIRE DI DENTI, MORIRE DI POVERTA’, MA I DENTISTI SI SCAGLIANO CONTRO ANTONIO GIANGRANDE.

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, uniinfezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

Dr Antonio Giangrande

Il Sistema Pubblico.

Contro il cancro terapie al top solo in 30 ospedali. Gli oncologi: fare rete. Storia di Vito Salinaro su Avvenire il 2 dicembre 2023.

Dei 1.000 ospedali italiani, pubblici e privati, solo 30 (8 dei quali in Lombardia), erogano la terapia con radioligandi, l’ultima novità della medicina nucleare contro il cancro: si tratta di radiofarmaci che rilasciano radiazioni direttamente nelle cellule neoplastiche ovunque siano presenti, agendo quindi in modo altamente specifico e con estrema precisione.

E soltanto 35 ospedali del nostro Paese mettono a disposizione dei pazienti affetti da alcuni tumori del sangue, la terapia con Car-T, una innovativa procedura, in continuo perfezionamento, che “reingegnerizza” una parte delle cellule del sangue prelevate ai pazienti, istruendo i linfociti T ad attaccare e a distruggere quelle maligne.

E se un paziente necessita di sedute di protonterapia, che tratta sia i tumori sviluppati in organi critici o in sedi difficili da raggiungere, sia un crescente numero di neoplasie orfane di cura e che non rispondono alla radioterapia convenzionale, dovrà mettersi in fila per essere accettato nei tre centri italiani che la erogano: l’Ieo a Milano, il Centro nazionale di Adroterapia oncologica di Pavia e il Centro di protonterapia di Trento. Nel laboratorio dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) di Catania, si curano invece i melanomi oculari. Questi trattamenti sono il presente e il futuro della lotta al cancro, e sono destinati a gruppi di pazienti in rapida crescita. Richiedendo una specializzazione elevata, team multidisciplinari, oltre a tecnologie e laboratori d’avanguardia e molto costosi (i centri di protonterapia nel mondo sono un centinaio), non si può certo pensare di trovarli in ciascuna delle 1.000 case di cura sparse per il Paese. D’altra parte, non è neanche concepibile che il paziente oncologico gestito in nosocomi “periferici” e che non riesce a raggiungere i reparti di eccellenza degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e dei più prestigiosi ospedali universitari del Paese, siano destinati a campare di meno e peggio degli altri. Dunque, si pone un problema di accessibilità a queste terapie. A sentire l’Aiom (Associazione italiana oncologia medica), serve prima di tutto investire in équipe di specialisti adeguatamente formati, geograficamente ben distribuiti, che garantiscano ai pazienti il corretto e più aggiornato percorso di cura, che potrà poi svolgersi nei centri altamente specializzati.

Le nuove terapie, come quella con radioligandi, afferma Maria Luisa De Rimini, presidente dell’Associazione italiana di medicina nucleare, «nei loro molteplici aspetti di gestione», necessitano però anche «di un indispensabile adeguamento infrastrutturale, essenziale perché possa esserne garantita l’erogazione e perché queste strategie terapeutiche diventino opportunità di cura accessibile in modo uniforme sul territorio». Ottimizzarne l’impiego, «assicurerebbe equità di accesso in tutte le regioni». Impossibile avere tutto in ogni ospedale. Ma, aggiunge De Rimini, si può e si deve almeno «superare la disomogeneità di distribuzione geografica aumentando il numero di strutture» in grado di offrire le nuove terapie. Perché l’obiettivo è «eliminare il fenomeno della migrazione sanitaria che spesso costringe pazienti e loro familiari a disagi da lunghi viaggi».

Fondamentali, così come raccomanda il Piano oncologico nazionale, sono i gruppi multidisciplinari. Per molti tumori, oltre ad oncologi ed ematologi, serve una condivisione del piano terapeutico che comprenda anche figure molto diverse: dal medico nucleare all’endocrinologo, dal patologo allo specialista di fisica medica, al radiologo.

Se è vero che per un cambio di passo bisogna investire in tecnologie e formazione, è altrettanto vero che i soldi impiegati sarebbero non solo ben spesi ma anche destinati a tornare indietro con gli interessi. Perché il ricorso sempre più frequente alla personalizzazione delle cure è garanzia di maggiore efficacia e, di conseguenza, come rileva l’Aiom, di una consistente riduzione dei costi di ospedalizzazione. Per la terapia con radioligandi, per esempio, servono uno, massimo due giorni in reparto ogni sei-otto settimane, per un totale di 4 cicli. A tutto vantaggio del nostro traballante bilancio sanitario. «Anche le più recenti linee guida Aiom-ItaNet – sottolinea il presidente eletto Aiom, Massimo Di Maio, docente di Oncologia all’Università di Torino, e direttore dell'Oncologia medica all'Ospedale Mauriziano del capoluogo piemontese – sanciscono l’importanza della condivisione delle scelte terapeutiche e la necessità di inserire il paziente in un percorso integrato e dedicato, gestito». Per restare alla terapia con radioligandi, confinata al momento in pochi istituti, «è importante che i team multidisciplinari dei centri periferici siano messi in condizione di lavorare quanto più possibile a stretto contatto con l’expertise centrale delle strutture in grado di prendere in carico i pazienti».

Non proprio una formalità, stando a quanto denuncia il Cipomo (Collegio dei primari oncologi medici ospedalieri) per il quale le strutture di oncologia medica italiane, «soffrono negli aspetti organizzativi interni e nella gestione del percorso del paziente dall’ospedale al territorio». Non solo: meno della metà di queste unità (circa il 40%), ha una connessione strutturata con i dipartimenti di prevenzione primaria e secondaria e con centri screening; una cartella informatizzata manca nel 66% delle strutture, ed è condivisa con il territorio solo nell’8% dei casi. Come dire: in tanti ospedali le terapie top possono attendere.

Le armi più potenti contro i tumori: il ruolo dei vaccini

Immunoterapia, vaccini, radiofarmaci, protonterapia. Il cancro ha nuovi, potenti, nemici. Alcuni già disponibili. Altri che saranno presto disponibili. Appena ieri l’Istituto nazionale tumori “Pascale” di Napoli ha annunciato il via libera in Italia ai test di fase 3 sul vaccino a mRna contro il melanoma. Il Pascale è il primo centro a partire nel nostro Paese con l'ultimo step di sperimentazione clinica, e tra i primi al mondo. L'avvio poche settimane fa, con l'arruolamento di pazienti con diagnosi di melanoma radicalmente operato. «Il vaccino si basa sulla stessa tecnologia adottata per quelli contro il Covid – spiega il direttore del dipartimento di Oncologia, melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative del Pascale, Paolo Ascierto –. Sono prodotti che utilizzano mRna sintetici progettati per “istruire” il sistema immunitario a riconoscere specifiche proteine, chiamate “neoantigeni”, che sono espressione di mutazioni genetiche avvenute nelle cellule malate». I dati, a 2 anni dalla somministrazione del vaccino contro il melanoma, mostrano una riduzione del rischio di recidiva o morte del 44% in chi lo ha ricevuto in combinazione con il farmaco immunoterapico pembrolizumab. «Ci vorrà qualche anno prima di avere i risultati di quest'ultima fase clinica – puntualizza Ascierto –. La nostra speranza è di poter dare una nuova e più efficace opzione terapeutica a quanti più pazienti possibili».

Sono invece impiegate contro tumori del sangue, linfomi aggressivi o leucemie linfoblastiche, in pazienti che hanno subito anche molteplici ricadute, le terapie con Car-T, che rappresentano una possibilità concreta di controllo della malattia, con un importante aumento della sopravvivenza, e con percentuali di guarigione che possono superare il 40% dei casi. All’inizio dell’autunno erano già sei i farmaci che utilizzano Car-T approvati. Mentre non è certo un caso se in tutto il mondo si contano 1.400 studi clinici registrati che si occupano di questa procedura.

La protonterapia utilizza protoni e ioni carbonio, particelle atomiche che hanno il vantaggio di essere più pesanti e dotate di maggior energia rispetto agli elettroni (utilizzati dalla radioterapia) e di conseguenza di essere ancora più efficaci nel distruggere le cellule tumorali. È stata inserita nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) nel 2017. Il ministero della Salute ha individuato 10 patologie oncologiche per le quali è considerata appropriata. Dal prossimo primo gennaio 2024 questa procedura, che presenta minori rischi di malattie indotte dai raggi e meno tossicità durante e dopo il trattamento, entrerà tra le prestazioni erogabili dal Sistema sanitario nazionale per i cittadini di tutto il territorio italiano.

La rivoluzione dei radioligandi

Ma una delle novità che riscuote interesse in tutto il mondo nella lotta al cancro è rappresentata dai radioligandi, ovvero dei radiofarmaci. La nuova frontiera aperta da questo trattamento sta nel fatto che diagnosi e cura fanno parte dello stesso percorso perché utilizzano la stessa molecola. «Nessuna altra strategia – spiega il presidente della Fondazione Aiom, Saverio Cinieri – è in grado di delineare con altrettanta accuratezza e predittività se, quanto e come si potrà colpire il target tumorale ancor prima di iniziare la terapia». Oggi i radioligandi sono utilizzati per i tumori neuroendocrini (definiti “Net”), le cui cellule sono presenti in tutto l’organismo e che dunque possono colpire organi molto diversi tra loro come intestino, pancreas, polmoni, tiroide, timo o ghiandole surrenali. Sono tumori che si presentano il più delle volte già in fase metastatica. In questo tipo di malattie, i radioligandi hanno già dimostrato di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti, anche nei casi molto compromessi. Ma i ricercatori considerano questa terapia, da poco approvata dagli enti regolatori statunitense, Fda, ed europea, Ema, potenzialmente in grado di arrecare enormi vantaggi anche su altri tumori. «Partendo dall’esperienza dei Net – dice Marcello Tucci, primario oncologo dell’Ospedale “Cardinal Massaia” di Asti –, numerosi studi internazionali hanno valutato il potenziale dei radioligandi in fase diagnostica e terapeutica in diverse neoplasie, come il cancro della mammella, del pancreas, del polmone, della prostata, nel melanoma, nel linfoma e nel mieloma multiplo». Non solo: «Grazie ai radioligandi, il tumore della prostata sta vivendo il suo ingresso in una nuova “era” di terapie nel segno della medicina di precisione».

Anche per via di questi sviluppi, si moltiplicano gli studi sui radiofarmaci sperimentali. L’Italia, anche grazie ai fondi erogati dall’Airc, è in prima linea nella ricerca. Tra gli ospedali al centro di questo fermento scientifico, c’è il Policlinico Gemelli di Roma che ha avviato una serie di progetti per diverse patologie, non solo oncologiche: da quelle neuro-psichiatriche al diabete, ai linfomi, alle neoplasie ginecologiche, gastroenteriche, fino alle malattie infiammatorie croniche, che vedranno le prime applicazioni sperimentali sui pazienti nel 2024. Né restano immuni, da questa nuova frontiera della medicina, le grandi aziende farmaceutiche, convinte più che mai del potenziale terapeutico dei radiofarmaci. Non si spiegherebbe altrimenti l’investimento da 104 milioni di euro, annunciato poche settimane fa dal colosso svizzero Novartis, per il polo dell’innovazione oncologica di Ivrea, in Piemonte, dove si produrranno i radioligandi del futuro.

Estratto dell'articolo di Antonio Noto per “la Repubblica” martedì 24 ottobre 2023.

[…] La sanità privata supera quella pubblica nella fiducia degli italiani. È quanto emerge da uno studio condotto dall’Istituto demoscopico Noto Sondaggi per Repubblica, […] Dopo la prima ondata di Covid in cui emerse che gli ospedali non erano in grado di reggere l’emergenza, […] da un punto di vista strutturale con la carenza dei posti letto in terapia intensiva, è iniziata a calare la fiducia nel confronti della sanità pubblica.  E forse non è un caso che proprio negli ultimi anni si sta registrando una significativa uscita di medici ed infermieri dalle Asl che trovano invece lavoro presso strutture private o all’estero. 

Oggi il 56% degli italiani non valuta soddisfacente il servizio pubblico sanitario nel suo complesso e quasi il 60% valuta un peggioramento negli ultimi 4 anni, cioè rispetto al periodo pre-pandemico.

[…] Per il 47% i servizi pubblici sono meno efficienti di quelli privati e solo l’11% li giudica migliori. Le liste di attesa sono in cima nella classifica dei fattori che determinano un giudizio negativo. […]

Solo il 4% dichiara di aver aspettato pochi giorni ed il 15% qualche settimana. Le cose non migliorano se si chiedono i tempi di attesa per l’effettuazione di esami diagnostici: un italiano su 2 (48%) aspetta mesi ed un altro 12% anche più di un anno. Appena l’8% esprime soddisfazione indicando in pochi giorni dalla richiesta l’esecuzione del servizio. […] 

Altro dato critico che emerge dallo studio è il modo in cui le strutture convenzionate, che dovrebbero essere di supporto alla sanità Pubblica, gestiscono per un loro tornaconto di business le richieste di prestazioni dei cittadini. Ben 3 cittadini su 4 (75%) affermano che quando si rivolgono a privati convenzionati con il Sistema Sanitario Nazionale si sentono rispondere che il tempo di attesa è di almeno un mese ma che in regime privato in quella stessa struttura le visite o gli esami possono essere effettuati nel corso di qualche giorno.

Certo, escludendo la malafede, questo è dovuto anche al fatto che le strutture convenzionate hanno dei limiti di saturazione di prestazioni che possono erogare per conto delle Asl pubbliche ma al contempo evidenzia anche che il sistema delle convenzioni private spesso non risolve i problemi derivanti da un sottodimensionamento della capacità del sistema pubblico di far fronte in tempi celeri alle richieste dei cittadini. Questo però ha determinato che nell’ultimo anno il 65% dei pazienti ha preferito pagare privatamente visite specialistiche o esami diagnostici pur di abbreviare i tempi delle attese, in alcuni casi incompatibili con lo stato di salute.

[…]

Oltre il 60% valuta la performance della sanità pubblica migliore al nord, questa percentuale aumenta fino quasi a sfiorare il 70% fra gli stessi residenti nelle regioni settentrionali. Il crollo di reputazione della sanità pubblica, dunque, non sembra avere solo a che fare con le capacità organizzative ma trova giustificazione anche nella disparità della qualità dei servizi. È per questo che l’82% condivide le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Mattarella cioè che «la Sanità è un patrimonio prezioso da difendere », […]

Manovra: gli extracomunitari dovranno pagare 2.000 euro per la sanità pubblica. Storia di Redazione online su Il Corriere della Sera lunedì 16 ottobre 2023.

C’è uno degli articoli della manovra illustrata oggi dal governo destinato a fare discutere e riguarda ancora una volta i migranti: viene previsto infatti un contributo di 2.000 euro per gli extracomunitari residenti in Italia che vogliano usufruire della sanità pubblica.

La norma prevede che i residenti in Italia di nazionalità non Ue potranno continuare a iscriversi al Servizio sanitario nazionale versando «un contributo» di 2mila euro all’anno. «Per i residenti stranieri cittadini di Paesi non aderenti all’Unione europea - si legge in una nota del Mef - si prevede la possibilità di iscrizione negli elenchi degli aventi diritto alle prestazioni del Ssn, versando un contributo di 2.000 euro annui. L’importo del contributo è ridotto per gli stranieri titolari di permesso di soggiorno per motivi di studio o per quelli collocati alla pari».

Il primo commento alla «tassa sulla salute» per extracomunitari arriva dalla federazione dei medici: «L’articolo 32 della Costituzione tutela gli individui, oltre che la collettività. E sottolinea che le cure debbono essere gratuite per i poveri. Se gli stranieri extracomunitari sono nullatenenti devono essere assistiti gratuitamente: non si parla di cittadini ma di individui. E a mio parere, quindi, il diritto alla salute deve essere garantito comunque a chi non può pagare» ha dichiarato il presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, Filippo Anelli.

Il Servizio Sanitario Nazionale è al capolinea: i numeri nel nuovo rapporto Gimbe.  Stefano Baudino su L'Indipendente il 14 ottobre 2023.

Il servizio pubblico e il diritto costituzionale alla tutela della Salute sono sempre più compromessi. Lo attesta, dati alla mano, la Fondazione GIMBE, che ha presentato il 6° Rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Le statistiche diramate dalla Fondazione – in cui si evidenziano grandi criticità in relazione alla spesa sanitaria, ai Livelli Essenziali di Assistenza, alle disuguaglianze su base regionale e al personale – raccontano infatti che, tra il 2010 e il 2019, sono stati sottratti alla sanità pubblica oltre 37 miliardi.

Il rapporto ha sottolineato che, nel giro di 10 anni, il Fabbisogno Sanitario Nazionale – ovvero il livello complessivo delle risorse del Servizio sanitario nazionale al cui finanziamento concorre lo Stato – è aumentato di € 8,2 miliardi (crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua, che si è attestata a 1,15%). Tra il 2020 e il 2022, il FSN è aumentato di € 11,2 miliardi, crescendo in media del 3,4% annuo, ma questo rilancio è stato assorbito dai costi della pandemia COVID-19. La spesa sanitaria totale per l’anno 2022 è pari a 171.867 milioni di euro, di cui 130.364 milioni di spesa pubblica (75,9%), e 36.835 milioni a carico delle famiglie (21,4%), e € 4.668 milioni di spesa intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (2,7%). Essa si è attestata al 6,8% del PIL, sotto di 0,3 punti percentuali rispetto alla media OCSE (7,1%) e a quella europea (7,1%). Complessivamente, nel periodo 2010-2022, rispetto alla media dei Paesi del continente europeo la spesa sanitaria pubblica italiana è stata inferiore di 345 miliardi.

Impietosi risultano anche i dati riferiti ai Livelli Essenziali di Assistenza. Nel mirino della Fondazione c’è, in particolare, il mancato raggiungimento del dichiarato obiettivo di “continuo aggiornamento dei LEA, con proposta di esclusione di prestazioni, servizi o attività divenuti obsoleti e di inclusione di prestazioni innovative ed efficaci, al fine di mantenere allineati i LEA all’evoluzione delle conoscenze scientifiche”. Il report evidenzia infatti come il ritardo di oltre 6 anni e mezzo nell’approvazione del Decreto Tariffe ha reso impossibile ratificare i 29 aggiornamenti proposti dalla Commissione LEA, nonché l’esigibilità delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e di protesica inserite nei “nuovi LEA”. Il DM Tariffe è stato approvato il 4 agosto 2023, ma i LEA rimarranno ancora in stand-by sino al 1° gennaio 2024 per la specialistica ambulatoriale e al 1° aprile 2024 per l’assistenza protesica.

L’analisi conferma inoltre una vera e propria “frattura strutturale” tra Nord e Sud. Per questo motivo, negli adempimenti cumulativi 2010-2019 nessuna Regione meridionale si posiziona tra le prime 10 e continua ad essere alimentato “un imponente flusso di mobilità sanitaria dalle Regioni meridionali a quelle settentrionali”. La Fondazione mette dunque in guardia dagli effetti dell’attuazione di maggiori autonomie a livello sanitario richieste dalle Regioni “con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione”, che non potranno che “amplificare le diseguaglianze”. Per quanto riguarda i numeri del personale sanitario, il rapporto registra che “il nostro Paese si colloca poco sopra la media OCSE per i medici e molto al di sotto per il personale infermieristico”, con un rapporto infermieri/medici tra i più bassi d’Europa.

«La Fondazione GIMBE invoca un patto sociale e politico che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di Governi, rilanci quel modello di sanità pubblica, equa e universalistica, pilastro della nostra democrazia, conquista sociale irrinunciabile e grande leva per lo sviluppo economico del Paese», ha dichiarato il presidente Nino Cartabellotta. «Il preoccupante “stato di salute” del SSN – ha continuato – impone una profonda riflessione politica: il tempo della manutenzione ordinaria per il SSN è ormai scaduto, visto che ne ha sgretolato i princìpi fondanti e mina il diritto costituzionale alla tutela della Salute. È giunto ora il tempo delle scelte: o si avvia una stagione di coraggiose riforme e investimenti in grado di restituire al SSN la sua missione originale, oppure si ammetta apertamente che il nostro Paese non può più permettersi quel modello di SSN. In questo (non auspicabile) caso la politica non può sottrarsi dal gravoso compito di governare un rigoroso processo di privatizzazione, che ormai da anni si sta insinuando in maniera strisciante approfittando dell’indebolimento della sanità pubblica». [di Stefano Baudino]

Angelucci, De Benedetti, Rotelli: chi sono i privati che guadagnano dai tagli alla Sanità. L’offerta pubblica ormai soccombe di fronte all’avanzata del privato, ora in maggioranza. Ecco i protagonisti di questo settore tra affari per miliardi, porte girevoli, agganci politici, contributi ai partiti e controllo dei giornali.

Sergio Rizzo su L'Espresso giovedì 19 ottobre 2023

Quando si è saputo che il maggior finanziatore privato alla luce del sole dell’ultima campagna elettorale per le politiche rispondeva al nome di Marco Rotelli, classe 1993, nessuno si è sorpreso più di tanto. Il contributo standard del giovane esponente della famiglia che controlla il più grande gruppo privato convenzionato con la sanità pubblica ammontava a 30 mila euro. Soldi arrivati a Fratelli d’Italia, Partito Democratico, Lega, Forza Italia, Impegno civico e Italia Viva. Nella lista dei finanziatori di Azione ecco invece, con 50 mila euro nel 2022 e 30 mila l’anno prima, Gianfelice Mario Rocca, patron della multinazionale Techint. Il quale, da qualche anno, ha però deciso di investire anche nella sanità. Suo è il gruppo sanitario Humanitas, nel cui consiglio di amministrazione ha chiamato anche una vecchia e mai abbandonata conoscenza: l’ex capo dell’Eni e attuale presidente del Milan e dell’Enel, Paolo Scaroni. 
La verità? Un contributo di qualche migliaio di euro non può cambiare il corso di una campagna elettorale. Ma negare che siano piccoli segnali di attenzione è impossibile. Il fatto è che la sanità pubblica italiana ormai è pubblica per modo di dire. Da 25 anni a questa parte molte cose sono cambiate. La diga dello Stato è venuta rapidamente giù. E il metodo sdoganato per primo da Roberto Formigoni in Lombardia, soppiantando gli ospedali pubblici con quelli privati accreditati e finanziati dallo Stato, ha dilagato ovunque senza freni. Senza però migliorare le cose, a giudicare dallo stato dei servizi sanitari. 

Nel 1997 le strutture pubbliche di ogni ordine e grado erano 12.719: il 64 per cento del totale, contro il 36 per cento rappresentato da 7.171 strutture private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale. Oggi il rapporto si è ribaltato completamente. Nel 2021 il peso delle strutture pubbliche, calate di un migliaio di unità, è sceso al 43,7 per cento, mentre quello delle strutture private, più che raddoppiate, ha raggiunto il 56,3 per cento. 

E la strategia per favorire i privati ha assunto proporzioni ancora più evidenti nel campo ospedaliero. Nel 1997 le strutture pubbliche erano 777, quasi il 60 per cento del totale. In 25 anni si sono ridotte a 511 e sono poco più del 51 per cento. Nello stesso periodo anche il numero di cliniche e ospedali privati rimborsati dallo Stato è diminuito, ma da 537 a 484, e ora il loro peso sfiora il 49 per cento. Il tutto con effetti talvolta devastanti, apparsi clamorosamente evidenti durante la pandemia. Quando si è scoperto che lo sbilanciamento delle strutture ospedaliere verso il privato convenzionato aveva accentuato la carenza di terapie intensive, particolarmente costose e quindi non convenienti in una logica di profitto. Fatto sta che a fronte di 4.600 posti per le emergenze negli ospedali pubblici, le strutture private che rappresentavano quasi metà dell’intero sistema, ne avevano appena 396.

I tagli inferti soprattutto alle strutture pubbliche le hanno rese sempre meno efficienti, spingendoci automaticamente verso il privato. Dove per una mammografia non si aspetta un anno, anche se costa cara. La spesa diretta degli italiani (non rimborsata dal servizio nazionale) per compensare i buchi della sanità pubblica è così ormai prossima a 40 miliardi l’anno. E aumenta in continuazione. Una cifra mostruosa, ormai superiore a un terzo della spesa statale. 

Ma torniamo all’inizio del nostro racconto, per spiegare come in questi 25 anni la ritirata dello Stato abbia favorito con i soldi dei contribuenti la crescita impetuosa di autentici imperi. Al punto che sono nate imprese così votate al profitto da venir quotate in borsa, come Garofalo Health Care, che si autocomprende nel proprio sito fra «i leader nel settore della sanità privata accreditata». Però soltanto dal Lazio in su, dove tutto funziona meglio. 

L’affare è apparso subito così redditizio che vi si sono gettati volentieri i pesci grossi. E talvolta non è impossibile scorgere il riflesso neppure troppo opaco di qualche venatura politica. Il gruppo San Donato della famiglia Rotelli vanta un giro d’affari di 1,65 miliardi. Nel 2019 ha ingaggiato come presidente l’ex ministro Angelino Alfano, ormai fuori dal Parlamento. Nel cda degli Istituti clinici Zucchi, appartenenti allo stesso gruppo, era arrivato pure il compianto Roberto Maroni, ex ministro ed ex presidente leghista della Regione Lombardia. 

E come dimenticare che una decina d’anni fa la famiglia Rotelli era diventata il primo azionista singolo di Rcs, editore del Corriere della Sera? Perché c’è un’altra caratteristica che oltre alla politica unisce quel mondo. È la passione per la stampa. Prendete l’abruzzese Antonio Angelucci, l’ex portantino del San Camillo che ha messo in piedi uno dei più grandi gruppi sanitari privati pagati dai contribuenti. Già deputato di Forza Italia, così organico al berlusconismo da aver finanziato personalmente Denis Verdini, a sua volta parlamentare azzurro nonché editore di un quotidiano locale venduto in edicola assieme al Giornale della famiglia Berlusconi, è stato a lungo il secondo onorevole più ricco d’Italia dopo il Cavaliere. E ora che è stato eletto nelle liste della Lega salviniana il Giornale se l’è addirittura comprato, portando a tre il numero dei quotidiani nazionali nella sua orbita, contando Libero e Il Tempo. 

Ma prendete anche l’ex senatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico, andreottiano senza se e senza ma, già proprietario di ospedali convenzionati con il pubblico ed editore di alcuni giornali locali nel Lazio meridionale, da Ciociaria oggi a Latina oggi. Le sue cliniche sono poi finite in Eurosanità, di cui era azionista pure il presidente dell’editoriale L’Espresso al tempo di Carlo De Benedetti e fondatore di Repubblica con Eugenio Scalfari, Carlo Caracciolo. Ancora oggi di Ciarrapico, scomparso nel 2019, Eurosanità porta il marchio, visto che il figlio Tullio Ciarrapico ne è azionista e direttore generale.
E prendete lo stesso Carlo De Benedetti, attualmente editore del quotidiano Domani, già azionista di maggioranza del gruppo Kos, ora passato ai figli e specializzato nelle residenze sanitarie per anziani. Solo in Italia ne ha 93. L’affare più redditizio per la sanità privata in convenzione, che ha avuto per ragioni demografiche una progressione impressionante. 

Nel 1997 le strutture residenziali sanitarie private, voce che comprende appunto le residenze per anziani, erano 732; oggi sono 6.708, quasi dieci volte tanto. Denaro a palate, grazie ai vecchietti. E nell’affare Kos non manca l’ombra dello Stato, visto che azionista di minoranza dei De Benedetti è il fondo F2i, nell’orbita della Cassa depositi e prestiti. Curioso, no? Ai meno giovani farà tornare alla mente la scellerata operazione Italsanità, società fatta dall’Italstat per gestire le case di riposo. 

Quanto alla politica, in un business che si basa sulle convenzioni con le Regioni il rapporto non può che essere obbligato. Ma se nel caso dei grandi gruppi assume toni anche sfumati, e il rapporto di dipendenza addirittura si capovolge, ai livelli più bassi la faccenda cambia decisamente faccia. E sia pure in sedicesimi tende ad assomigliare allo schema Angelucci, con un coinvolgimento più diretto della politica. Come dimostrano certe vicende siciliane. 

Vent’anni fa in Sicilia era la normalità che un gran numero di cliniche convenzionate fosse di proprietà degli stessi politici che in qualche caso avevano voce in capitolo nelle convenzioni. Sulla carta nulla di vietato, ma a dir poco singolare. Con il passare del tempo tante di queste sono passate di mano. Ma qualche traccia di quel sistema ormai sul viale del tramonto ancora rimane. A Palermo la clinica Candela, convenzionata con il Servizio sanitario, è tuttora di proprietà di Barbara Cittadini, figlia del medico Ettore Cittadini, già assessore regionale alla sanità, e moglie dell’ex deputato Salvatore Misuraca, ex assessore regionale ed ex capogruppo di Forza Italia nell’assemblea siciliana.

Lo stato della salute. Report Rai PUNTATA DEL 15/10/2023 di Claudia Di Pasquale

Una fotografia della situazione della sanità pubblica oggi nel nostro Paese.

La sanità pubblica è a pezzi, i vecchi ospedali sono fatiscenti, quelli nuovi sono semivuoti, interi reparti vengono chiusi per mancanza di personale, mentre le liste d'attesa sono infinite. Trent’anni di tagli alla sanità hanno lasciato un segno indelebile. Neanche la lezione del Covid sembra essere servita. L'ancora di salvataggio lanciata dal Pnrr potrà salvare il Sistema sanitario nazionale? Basterà potenziare la medicina territoriale con la costruzione di case di comunità per garantire ai cittadini il diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione? Dalla Lombardia alla Liguria Report farà una fotografia di come sta messa oggi la sanità pubblica e di qual è la direzione che ormai ha preso il nostro Paese.

LO STATO DELLA SALUTE di Claudia Di Pasquale Collaborazione di Goffredo De Pascale e Raffaella Notariale Immagini di Giovanni De Faveri, Alfredo Farina, Andrea Lilli, Fabio Martinelli, Marco Ronca e Paco Sannino Montaggio di Daniele Bianchi e Andrea Masella

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel febbraio 2022 l'ex assessore Moratti e il presidente Fontana hanno inaugurato a Bergamo la casa di Comunità di Borgo Palazzo, che dovrebbe essere obbligatoriamente aperta h24, sette giorni su sette.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Presa in carico della persona prima ancora che del malato, prima valutazione ed eventualmente anche visita con lo specialista. Tutto all'interno della stessa struttura.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ci siamo entrati per la prima volta lo scorso autunno e l'unica cosa che allora sembrava funzionare era la guardia medica.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve, buongiorno. Volevo sapere se era possibile parlare con un medico di base?

OPERATORE Qua non ci sono medici di base, se può aspettare stasera alle 8 che apre la guardia medica, si fa visitare dalla guardia medica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ci siamo tornati di sera, ma un anno dopo, quest'estate. Il caso ha voluto che proprio quella notte la guardia medica fosse chiusa. È quello che è capitato a giugno anche a Maria, che abita a Bergamo.

MARIA SPATARO Mia madre ha 91 anni e lei soffre da qualche anno di Alzheimer. E Una mattina la mamma si sveglia molto infastidita, dolorante e ho constatato che aveva sotto il lobo destro un forte rigonfiamento.

CLAUDIA DI PASQUALE Che giorno era della settimana?

MARIA SPATARO Era un sabato. Ho chiamato la guardia medica…

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa le dicono?

MARIA SPATARO Mi informano che in quella giornata a Bergamo purtroppo non c'erano medici e che nessuno poteva venire a casa per verificare lo stato di salute di mia madre.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dei giovani medici della continuità assistenziale ci spiegano cosa è successo in questi mesi nel bergamasco.

CLAUDIA DI PASQUALE A Borgo Palazzo quanti eravate?

STEFANIA BREMBILLA - MEDICO CONTINUITÀ ASSISTENZIALE BORGO PALAZZO - BERGAMO Allora a dicembre 2022 eravamo in una quarantina, da gennaio ci siamo ritrovati circa una quindicina.

CLAUDIA DI PASQUALE E come facevate a coprire i turni?

STEFANIA BREMBILLA - MEDICO CONTINUITÀ ASSISTENZIALE BORGO PALAZZO - BERGAMO Non siamo riusciti a coprire comunque tutta la turistica del mese abbiamo lasciato scoperti quasi due settimane e poi dei colleghi ovviamente si sono licenziati, hanno disdetto il contratto, poi la situazione è sempre andata a peggiorare perché si sono ritrovate anche scoperte tutte le altre sedi.

GIACOMO TESTA - MEDICO CONTINUITÀ ASSISTENZIALE BORGO PALAZZO - BERGAMO Ci siamo trovati anche a scoperture che arrivavano al 70-80%.

CLAUDIA DI PASQUALE Dei turni?

GIACOMO TESTA - MEDICO CONTINUITÀ ASSISTENZIALE BORGO PALAZZO - BERGAMO Dei turni. In cui un solo medico deve coprire l'intero distretto. Qua parliamo di un medico ogni due 200-300.000 persone che va a coprire tutto il servizio.

CLAUDIA DI PASQUALE fuori campo Oggi in tutta la provincia di Bergamo che conta oltre un milione di abitanti i medici della continuità assistenziale sono poco più di un centinaio. Cioè circa la metà di quelli previsti e all’inizio di quest’estate si è arrivati a contarne addirittura solo 30.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti medici dovreste essere?

DAVIDE FRATUS – EX MEDICO CONTINUITÀ ASSISTENZIALE SAN GIOVANNI BIANCO – BERGAMO Dovremmo essere in 220 medici, numero stabilito dall'accordo collettivo nazionale che prevede un medico ogni 5000 abitanti.

DAVIDE FRATUS – EX MEDICO CONTINUITÀ ASSISTENZIALE SAN GIOVANNI BIANCO – BERGAMO Il dover gestire situazioni su distanze così… così grandi e su numeri così ampi ci mette di fronte a rischi medico-legali non indifferenti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, dopo che il covid ha mostrato tutte le criticità del nostro Servizio Sanitario Nazionale, insomma la ciambella di salvataggio può arrivare dai miliardi del Pnrr, oltre 15 miliardi di euro destinati alla telemedicina, all'assistenza domiciliare e allo sviluppo della medicina sul territorio. Anche a costruire Case e ospedali di comunità. Le Case di comunità, l’abbiamo visto, sono dei centri polifunzionali, dentro c’è… dovrebbero esserci medici di base, pediatri, medici specialisti. Quelle definite HUB dovrebbero essere aperte 7 giorni su 7, 24 ore su 24. Ora quella che ha inaugurato di più è la regione Lombardia. Solo che è difficile capire a che punto è arrivata perché proprio durante la nostra inchiesta dall’ufficio dell’assessore al welfare Bertolaso, ufficio stampa, è partito un messaggio rivolto alle Aziende sanitarie locali sul territorio e dice: “Attenzione, Report sta realizzando un’inchiesta sulle Case di comunità, non date loro informazioni o dati”. Ecco, insomma, il pubblico che si nega al servizio pubblico su un tema che è di alto valore pubblico e difeso dalla Costituzione. Queste cose è bene saperle. Poi siccome la nostra Claudia Di Pasquale è tenace, qualche informazione alla fine è riuscita ad ottenerla. Le Case di comunità avevano cominciato a inaugurarle a fine del 2021. Era alla vigilia delle elezioni, c'era da recuperare l’immagine di una sanità efficiente agli occhi di quei cittadini che avevano sofferto più di tutti la tragedia del virus. L’allora assessora al welfare Moratti e il governatore, il presidente della Lombardia Fontana avevano cominciato a inaugurare a raffica, esaltandone le qualità. Ma la nostra Claudia Di Pasquale è andata a vedere come funzionavano questi centri e che cosa ha scoperto? Che, intanto, non è che fossero aperti 7 giorni su 7, nel week-end o alla notte erano spesso chiusi… che i medici di base o non c’erano o erano pochi o assistevano esclusivamente i propri assistiti, facendo venire meno il senso della Casa di comunità. Insomma, poi dopo l’assessora al Welfare Moratti si è dimessa, è subentrato Bertolaso, ha continuato a inaugurare il presidente Fontana, invece, dopo dicembre con il nostro servizio ha proprio smesso di inaugurare e anche il sito della Regione non dà più informazioni su inaugurazioni future, su date o luoghi. Insomma, a distanza di un anno, la nostra Claudia Di Pasquale è tornata su quel territorio che più è stato colpito dal virus, dove le amministrazioni sono finite sotto accusa proprio per non aver sviluppato e conservato la medicina territoriale. Ecco, la nostra Claudia Di Pasquale con la collaborazione di Raffaella Notariale.

LO STATO DELLA SALUTE Report Rai di Claudia Di Pasquale Collaborazione: Goffredo De Pascale, Raffaella Notariale Immagini: Alfredo Farina – Giovanni De Faveri – Andrea Lilli – Fabio Martinelli – Marco Ronca – Paco Sannino Montaggio: Daniele Bianchi – Andrea Masella Grafica: Giorgio Vallati

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Proviamo allora una notte di mezza estate a fare un giro delle guardie mediche del bergamasco. Prima tappa Zanica. Citofoniamo ma non risponde nessuno. Ci accorgiamo poi che con un foglio di carta hanno coperto la targa con gli orari della continuità assistenziale. A 18 chilometri si trova la sede della Guardia medica di Bonate. Ma anche qui il campanello squilla a vuoto. Stessa storia a Zogno e a Seriate. Troviamo aperta invece la porta della guardia medica di Osio Sotto. Ma è solo un'illusione. Dentro la sala d'attesa è vuota. C'è pure un corridoio interdetto e l'ambulatorio della continuità assistenziale è chiuso a chiave. Non ci arrendiamo e andiamo a Dalmine, dove alcuni mesi fa è stata aperta una casa di comunità nella sede del distretto e dove già in precedenza c’era la guardia medica. Ma anche qui quella notte non ci risponde nessuno e alla fine chiamiamo il numero unico.

VOCE SEGRETERIA 116117 I nostri operatori al momento sono tutti impegnati. La preghiamo di rimanere in linea grazie.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve scusi un'informazione. Io sono davanti la sede di Dalmine della Guardia medica.

OPERATRICE NUMERO UNICO 116117 No, no non c'è servizio a Dalmine.

CLAUDIA DI PASQUALE E dove posso trovare in zona qualcosa?

OPERATRICE NUMERO UNICO 116117 Non c'è servizio in quasi tutta la zona. Non c'è Trescore, non c'è a Romano, non c'è a Calusco, non c'è a Bonate.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Insomma, dove posso andare? Mi scusi.

OPERATRICE NUMERO UNICO 116117 Sulla bergamasca e sull'Ats di Bergamo in carenza di personale non c'è il servizio: Albino no, Alzano no, Bonate no, Calusco no, Casazza, no, Dalmine no, Gromo no, Lovere no, Osio no, come le dicevo Treviglio no, Romano no, San Giovanni no, Sant'Omobono no, no Sarnico, no Selvino, no Seriate, no Serina, no Treviglio, no Zanica, no Zogno.

VITTORIO MILESI, VICESINDACO SAN PELLEGRINO TERME (BG) Noi avevamo 4 sedi e delle 4 ce ne è aperta, non sempre, forse 1…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Vittorio Milesi è il vice-sindaco di San Pellegrino Terme, in Val Brembana, uno dei territori più colpiti dalla carenza dei medici della continuità assistenziale.

VITTORIO MILESI, VICESINDACO SAN PELLEGRINO TERME (BG) Una volta comunicavano i sindaci quali erano aperte e quali erano vicariate? Non lo fanno più.

CLAUDIA DI PASQUALE Se riusciamo a capire quali sono aperte, chiuse.

VITTORIO MILESI, VICESINDACO SAN PELLEGRINO TERME Sì, ma anche quelli aperte, tenga conto che poi possono esserci dei turni scoperti.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è il prospetto dei turni delle guardie mediche del bergamasco da maggio ad agosto. Come si può vedere quasi nessuna sede è stata aperta tutte le notti nell’arco di un mese, il caso più eclatante quello di Sant’Omobono aperta 0 notti a giugno, 3 a luglio e 4 ad agosto. E così ora l’ipotesi è quella di dimezzare le sedi della guardia medica che passerebbero da 27 a 14 e di supplire al taglio con una centrale per la televisita.

CITTADINO Come cittadino io sento nei bar, per strada, in farmacia, ovunque io vada, gente arrabbiata veramente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per rassicurare i cittadini l'Ats di Bergamo ha organizzato un incontro pubblico fornendo dati e numeri.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi vorremmo capire quante postazioni di guardia medica ci sono in provincia di Bergamo, quante sono realmente aperte oggi e quante sono chiuse.

MASSIMO GIUPPONI, DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Guardate, avete assistito all'incontro per 2 ore e mezzo, se avete delle domande ulteriori da fare, rappresenterete ed io risponderò.

CLAUDIA DI PASQUALE A me risulta, dottor Giupponi…

MASSIMO GIUPPONI - DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Non adesso, si metta in contatto con l'ufficio comunicazione della nostra agenzia e daremo le informazioni che sono necessarie.

CLAUDIA DI PASQUALE Dunque, noi ci siamo stati in giro. Una sera non ne abbiamo trovata neanche una aperta.

MASSIMO GIUPPONI - DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Tolgo io il microfono?

CLAUDIA DI PASQUALE Sì MASSIMO GIUPPONI - DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Tolgo io.

CLAUDIA DI PASQUALE Guardi, Sant'Omobono, 27 notti senza medico.

MASSIMO GIUPPONI - DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Scusi, scusi… Le ho già risposto.

CLAUDIA DI PASQUALE Che non mi vuole rispondere ora.

MASSIMO GIUPPONI - DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Bravissima.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il giorno dopo la stampa locale ha titolato: “Report in Val Brembana Giupponi fugge alle domande”, mentre al personale della Asst è arrivata questa mail. “Presenza sul territorio di giornalisti d'inchiesta, anche in incognito, qualora entriate in contatto con persone che pongono domande sospette non rilasciare alcuna dichiarazione”.

CLAUDIA DI PASQUALE Sono stata anche alla Casa di comunità di Ponte San Pietro, la conosce?

MASSIMO GIUPPONI - DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Sì, la conosco.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma è vero che l’Ats non ha dato l’accreditamento come casa di comunità?

MASSIMO GIUPPONI - DIRETTORE GENERALE ATS BERGAMO Le ho già detto che se vuole avere informazioni si rivolge all’ufficio di comunicazione. La saluto a lei e a tutti

CLAUDIA DI PASQUALE Grazie. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Casa di comunità di Ponte San Pietro è stata inaugurata due mesi prima delle elezioni regionali: il 23 dicembre 2022, nella stessa sede del distretto.

CLAUDIA DI PASQUALE Che servizio offre questa Casa di comunità? DIPENDENTE La Casa di Comunità offre i servizi che normalmente ha sempre offerto il distretto sociosanitario, quindi vaccinazioni, assistenza domiciliare integrata, tutta la parte consultoriale. Psicologi, assistenti sociali…

CLAUDIA DI PASQUALE Questi servizi c'erano già prima?

DIPENDENTE Sì, di nuovo non c'è nulla se non la presenza degli infermieri di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE Sono stati fatti comunque dei lavori.

DIPENDENTE Nel piano interrato sono stati ricavati un punto prelievi e un ambulatorio. Sono stati chiamati gli operai, tirate su le pareti di cartongesso per creare questi ambienti che avrebbero permesso la certificazione che la Casa di comunità era una casa di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE Entriamo dentro la Casa di comunità e scendiamo nel seminterrato per vedere i nuovi locali inaugurati a dicembre. Il punto prelievi è completamente al buio. Mentre l'ambulatorio infermieristico è vuoto.

DIPENDENTE Gli ambienti ci sono, sono chiusi e non sono mai stati usati e sono pieni di materiale nuovo: flebo, pc, scrivania, sedie. L’ATS Bergamo non ha ancora accreditato gli ambienti perché non ci sono, a quanto pare, i requisiti per essere accreditati.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il paradosso è che la casa di comunità di Ponte San Pietro è stata aperta all'interno della sede del distretto solo in via temporanea. Secondo il piano della Regione, andrebbe realizzata nell'edificio accanto, un ex poliambulatorio chiuso ormai da anni. I lavori di ristrutturazione, però, hanno subito dei ritardi.

DIPENDENTE Questi lavori avrebbero dovuto iniziare all'inizio del 2023. Sono state trovate delle enormi quantità di amianto sul tetto e anche all’interno della struttura.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In compenso a Ponte San Pietro c'è il Policlinico del gruppo San Donato, con tanto di pronto soccorso. A una ventina di chilometri, a Zingonia, il gruppo San Donato ha invece il Policlinico San Marco che ha lanciato l’ambulatorio ad accesso diretto, cioè una specie di pronto soccorso a pagamento per casi lievi. Costo: 149€. Esami diagnostici esclusi.

CLAUDIA DI PASQUALE Nel 2022 suo padre inizia a stare male. Che cosa accade esattamente?

STEFANIA POPI Ha febbre, tosse stizzosa, sensazione di soffocare. Inappetenza… un peggioramento generale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per capire cosa avesse, il medico di base ha prescritto più volte il ricovero in ospedale e Stefania ha più volte ha portato suo padre al pronto soccorso, ma non è mai riuscita a farlo ricoverare.

STEFANIA POPI A luglio, invece, abbiamo fatto un altro tentativo. Siamo entrati in ospedale in pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Sempre all'Humanitas?

STEFANIA POPI Sempre in Humanitas e sempre con una richiesta di ricovero. Però l'hanno dimesso anche questa volta.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa c'è scritto nel referto di dimissioni?

STEFANIA POPI Le acuzie non giustificavano un ricovero, secondo loro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è la lettera di dimissioni del pronto soccorso dell'Humanitas. C'è scritto nero su bianco “non indicazione al ricovero in ambiente pneumologico”, mentre la febbricola viene collegata ad una possibile infezione delle vie urinarie. Le cose però stavano diversamente.

STEFANIA POPI Per cui abbiamo deciso di farlo ricoverare a pagamento, sempre in Humanitas, e in cinque giorni hanno scoperto finalmente che cosa avesse mio papà.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa aveva esattamente?

STEFANIA POPI Aveva una endocardite, che è una brutta infezione, grave… da dover curare necessariamente in ospedale per tanto tempo anche.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto sono costati questi cinque giorni di ricovero a pagamento?

STEFANIA POPI Tredicimila euro. 12.950. Io sono stato molto chiara, ho detto noi non ci possiamo permettere più altri giorni in ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A quel punto Stefania fa dimettere il padre e lo riporta al pronto soccorso dell'Humanitas per farlo accedere finalmente al servizio sanitario pubblico.

STEFANIA POPI Chiamo un'ambulanza, ovviamente a pagamento. Usciamo da quel reparto in solvenza ed entriamo in pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE E quanto è costata questa ambulanza privata?

STEFANIA POPI 120 o 150€…

CLAUDIA DI PASQUALE Per fare quanti metri?

STEFANIA POPI Dal secondo piano siamo scesi al piano terra, pochi metri e siamo entrati in pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto Bertolaso annuncia l'aumento delle guardie mediche della città di Milano. 05/07/2023.

GUIDO BERTOLASO - ASSESSORE AL WELFARE REGIONE LOMBARDIA Cambia tutto il sistema, l'impianto organizzativo. Cambia la possibilità di avere più ambulatori organizzati sul territorio della città di Milano rispetto a quelli che ci sono oggi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Peccato che questi ambulatori di guardia medica chiudano al massimo a mezzanotte. Uno di questi si trova, per esempio, all'interno della nuova casa di comunità inaugurata lo scorso dicembre in via Monreale, a Milano, in quella che era la sede del consultorio.

ADRIANO BONOMI - DIRETTORE CONSULTORI FAMILIARI ASST MILANO - SANTI PAOLO E CARLO 1998 -2022 È stata realizzata una ristrutturazione dell'edificio.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto è costata questa ristrutturazione?

ADRIANO BONOMI - DIRETTORE CONSULTORI FAMILIARI ASST MILANO - SANTI PAOLO E CARLO 1998 -2022 è costata circa 1.000.000 di euro.

CLAUDIA DI PASQUALE Questi lavori di ristrutturazione in che cosa sono consistiti?

ADRIANO BONOMI - DIRETTORE CONSULTORI FAMILIARI ASST MILANO - SANTI PAOLO E CARLO 1998 -2022 È stato ampliata l'area di ingresso con una piccola sala d'attesa. Al tempo stesso sono state realizzate 3 o 4 postazioni destinate sia alla funzione di Cup sia alla funzione di “scelta e revoca”.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Entriamo allora dentro la casa di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve, volevo sapere se era possibile prenotare con il Cup una visita?

OPERATORE Il Cup noi non ce l'abbiamo ancora, lo sportello non è ancora funzionante.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Le postazioni del Cup, infatti, ci sono, ma sono chiuse. Sugli schermi della nuova sala d'attesa non c'è scritto nulla. La guardia medica, invece, attivata quest'estate, è a scartamento ridotto. OPERATORE Noi la guardia medica ce l'abbiamo ma fino a mezzanotte, invece il sabato e la domenica dalle nove di mattina alle 21.

CLAUDIA DI PASQUALE E di notte invece no? OPERATORE No, no. Di notte no.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In compenso, di fronte la casa di comunità c'è l'Istituto clinico San Siro del gruppo San Donato, che offre numerose prestazioni in convenzione, a pagamento e con le assicurazioni.

MARIA LUISA In Italia ormai prenotare una visita medica con il Servizio sanitario nazionale è diventato praticamente impossibile. In seguito alla scoperta della seconda gravidanza dovevo prenotare la visita ginecologica. E in gravidanza ci sono dei tempi nei quali eseguire tutti gli esami e le visite mediche.

CLAUDIA DI PASQUALE Certo. MARIA LUISA La dottoressa mi aveva messo una priorità a 30 giorni per eseguire la prima visita, appunto col call center su Milano non si trovava nulla.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma in nessun ospedale?

MARIA LUISA In nessun ospedale di Milano col Servizio sanitario nazionale, perché poi dagli stessi call center il suggerimento di provare a tentare privatamente arriva praticamente subito.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei chi ha chiamato alla fine?

MARIA LUISA Ho chiamato l'ospedale San Raffaele e l'ospedale San Raffaele non aveva proprio niente in agenda col servizio pubblico.

CLAUDIA DI PASQUALE Invece poi cosa le hanno proposto?

MARIA LUISA La visita a pagamento il giorno dopo con due medici diversi. Il giorno dopo c'era sia al mattino che alla sera, con due tariffe differenti nello stesso ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto le chiedevano come tariffa?

MARIA LUISA 143 euro e 160 euro circa.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso gennaio, intanto, l'assessore Bertolaso ha inaugurato il primo nucleo della casa di Comunità di Crema.

GUIDO BERTOLASO - ASSESSORE AL WELFARE REGIONE LOMBARDIA Stiamo partendo bene, abbiamo già realizzato alcune iniziative che sono sicuramente fondamentali per dare le prime risposte.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Poi lo stesso Bertolaso ha ammesso che mancava ancora qualcosa.

GUIDO BERTOLASO - ASSESSORE AL WELFARE REGIONE LOMBARDIA Ci manca l'ascensore, ci manca il parcheggio, ci mancheranno ancora delle attività che sono previste per il futuro. Benissimo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Passiamo dalla casa di comunità un venerdì pomeriggio e alle ore 16 la troviamo già chiusa. La sede è quella del vecchio distretto che ha già i suoi acciacchi. Dal mese di gennaio hanno cambiato i cartelli, ma i lavori per realizzare la casa di comunità partiranno solo quest'autunno. E se tutto va bene, finiranno il 31 dicembre 2024.

GUIDO BERTOLASO - ASSESSORE AL WELFARE REGIONE LOMBARDIA Abbiamo imparato dall'esperienza tragica del Covid che la sanità va riorganizzata, va rimodulata…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In provincia di Cremona, Bertolaso ha inaugurato anche la casa di comunità di Casalmaggiore.

MATTEO PILONI - CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA – PARTITO DEMOCRATICO Casalmaggiore però non è aperta sette giorni su sette, non ha la presenza di tutta una serie di servizi.

CLAUDIA DI PASQUALE Non ci sono medici di medicina generale?

MATTEO PILONI - CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA – PARTITO DEMOCRATICO No.

CLAUDIA DI PASQUALE Non c'è guardia medica.

MATTEO PILONI - CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA – PARTITO DEMOCRATICO No.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso luglio la Corte dei Conti ha fatto proprio una relazione sulle case di comunità lombarde e ha rilevato quale principale criticità la mancanza del personale medico. Su 89 case di comunità attivate, solo 19 avevano il pediatra di libera scelta e meno della metà i medici di base. E anche dove questi erano presenti erano pochi. Uno. Due. Inoltre, ha sottolineato la mancanza di una puntuale rendicontazione delle spese che sarebbero state sostenute per i lavori di ristrutturazione e il fatto che non emerga con chiarezza la fonte delle risorse impiegate.

CLAUDIA DI PASQUALE Assessore, scusi, grazie al Pnrr sono state inaugurate tante case di comunità, ospedali di comunità. Li abbiamo visitati già l'anno scorso, ci siamo ritornati quest'anno e anche quest'anno le abbiamo trovate semivuote queste case di comunità. Ed è stato anche certificato dalla Corte dei Conti che mancano medici di base, pediatri.

GUIDO BERTOLASO - ASSESSORE AL WELFARE REGIONE LOMBARDIA C'è chi dice che sono semivuote e c'è chi dice che sono semipiene. Dipende da come uno vuole vedere...

CLAUDIA DI PASQUALE Sono semipiene se si considera che sono state inaugurate in luoghi che già offrivano gli stessi servizi, erano già Presst, cioè presidi territoriali, no?

GUIDO BERTOLASO - ASSESSORE AL WELFARE REGIONE LOMBARDIA I miracoli ancora non riusciamo a farne. Quando avremo disponibile più personale medico e più infermieri disposti a lavorare nel pubblico in Italia e in Lombardia, sicuramente le prestazioni continueranno ad aumentare. Stiamo continuando a crescere anche come numeri di case di comunità che vengono ultimate e vengono aperte.

CLAUDIA DI PASQUALE è che sono state fatte inaugurazioni di case di comunità in via temporanea, anche in posti privati...

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Milano si prevede la costruzione di una nuova casa di comunità nel quartiere Baggio. I lavori però non sono ancora partiti e così la casa di comunità è stata aperta in via temporanea in via Masaniello, in questo edificio, che storicamente è sede di un poliambulatorio.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi cos'è cambiato con la casa di comunità?

ADRIANO BONOMI - DIRETTORE CONSULTORI FAMILIARI ASST MILANO - SANTI PAOLO E CARLO 1998 – 2022 È stato fatto un parziale lavoro di ristrutturazione per creare alcuni spazi, punto di accoglienza, l'ambulatorio degli infermieri…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma l'immobile è pubblico o privato?

ADRIANO BONOMI - DIRETTORE CONSULTORI FAMILIARI ASST MILANO - SANTI PAOLO E CARLO 1998 – 2022 L'immobile è di proprietà privata.

CLAUDIA DI PASQUALE E pagano un affitto?

ADRIANO BONOMI, DIRETTORE CONSULTORI FAMILIARI ASST MILANO - SANTI PAOLO E CARLO 1998 – 2022 Si paga un affitto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In provincia di Cremona, invece, è stata aperta una casa di comunità, sempre in via temporanea, a Soresina, all'interno del polo sanitario Nuovo Robbiani, che è gestito da una cooperativa sociale privata che mette a disposizione punto prelievi e specialisti in convenzione. A Sarnico, sul lago d'Iseo, si trova invece l'ex ospedale Faccanoni, che da diversi anni è gestito da una società privata, la Habilita Spa, che oggi collabora anche con la nuova Casa di Comunità aperta dalla Asst. Di contro, qui il servizio di guardia medica è sospeso da tempo.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Se la Lombardia va bene è perché la Lombardia aiuta il lavoro, perché la Lombardia cerca di far collaborare il pubblico con il privato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Incontriamo allora il presidente Fontana a Pontida.

CLAUDIA DI PASQUALE La sanità è un problema in questo territorio. Nella provincia di Bergamo abbiamo fatto un giro, quest'estate c'erano quasi tutte le guardie mediche chiuse.

CITTADINO Bravissimo.

CLAUDIA DI PASQUALE Presidente, anche la Corte dei Conti questo luglio ha certificato che le case di comunità non hanno personale… Io capisco salutare, però non può ignorare completamente le domande. Prima della sua elezione, presidente, avete inaugurato 51 case di comunità. Molte non hanno i medici…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quel giorno sul palco di Pontida c'era anche la deputata Silvana Comaroli che sta in Parlamento dal 2008, con la Lega dal 1996 ed è originaria di Soncino, un piccolo comune della provincia di Cremona, noto per la sua imponente rocca sforzesca. Qui, all'interno delle mura, si trova l'ex nosocomio di Santo Spirito, dove lo scorso 24 giugno l'onorevole Comaroli, insieme al ministro Giorgetti, ha inaugurato un nuovo ospedale di comunità.

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE La politica quindi non è decreti legge, Pnrr scritti. Servono uomini e donne che ci credono.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In realtà, l'onorevole Comaroli è presente all'inaugurazione in quanto presidente della Fondazione Rsa Soncino Onlus che avrà un ruolo fondamentale nella gestione dell'ospedale di Comunità, che conta 19 posti letto.

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Diamo a disposizione i locali e diamo a disposizione il personale, personale infermieristico e il personale ASA, OSS eccetera

CLAUDIA DI PASQUALE Sono posti letto accreditati?

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Sempre posti letto accreditati.

CLAUDIA DI PASQUALE E l'Asst vi dà un contributo, cioè vi in paga per questo servizio?

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Sì, sì. Certo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO GRAFICA CONVENZIONE Grazie a questa delibera, la ASST Di Crema, cioè l'azienda sanitaria, ha affidato per un anno in modo diretto la gestione dell'ospedale di comunità alla Fondazione presieduta dall'onorevole Comaroli. Spesa presunta: 811mila euro.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi cosa ne pensate di questa operazione?

MATTEO PILONI - CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA – PARTITO DEMOCRATICO Che è un'operazione che anticipa quello che succederà in Regione Lombardia, con tante case di comunità e ospedali di comunità che finiranno poi a essere gestiti dal privato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Dentro l'ex nosocomio di Soncino, la Fondazione gestisce, oltre all'ospedale di Comunità, un altro centinaio di posti letto accreditati, una Rsa per anziani, una residenza per disabili, un reparto per sub acuti, un centro diurno e anche dei poliambulatori.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanto ricevete come contributo pubblico da Regione, da ASST, Comuni?

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS L'anno scorso abbiamo introitato 3 milioni e 8, a cui quest'anno introiteremo anche la quota parte dell'ospedale di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Fondazione ha la proprietà solo di questa palazzina liberty. Tutto il resto dell'ex ospedale di Soncino è di proprietà del Comune.

GABRIELE GALLINA - SINDACO COMUNE DI SONCINO (CR) L'abbiamo acquistato, abbiamo fatto un investimento nel 2006 pagando 1.589.000 euro, pagandolo diciamo al Servizio sanitario regionale. Questa qui l'abbiamo chiamata l'operazione del secolo, cioè acquistare il nostro ospedale e riqualificarlo per metterlo a disposizione dei nostri cittadini.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi pagate un affitto al Comune?

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS No, abbiamo una convenzione con il Comune dove non paghiamo affitto. CLAUDIA DI PASQUALE Quindi gratis.

SILVANA ANDREINA COMAROLI, DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Per quanti anni?

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Per trent'anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Cinquanta.

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Cinquanta. Per cinquanta. Non me lo ricordo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La leghista Silvana Comaroli è presidente della fondazione dal 2015. A nominarla è stato l'attuale sindaco di Soncino che è di Forza Italia.

CLAUDIA DI PASQUALE Sembra un po' un feudo elettorale…

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Trovare qualcuno disponibile a ricoprire questo ruolo, non è che c'è la coda, visto che non percepisce il compenso.

CLAUDIA DI PASQUALE Il marito della Comaroli è un suo assessore? È vera questa cosa o no?

GABRIELE GALLINA - SINDACO COMUNE DI SONCINO (CR) Il marito della Comaroli è il mio vicesindaco.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma fa anche l'assessore oltre che vicesindaco giusto?

GABRIELE GALLINA - SINDACO COMUNE DI SONCINO (CR) Sì, sì. È assessore all'Urbanistica, all'edilizia.

CLAUDIA DI PASQUALE E lui è di Forza Italia o della Lega?

GABRIELE GALLINA - SINDACO COMUNE DI SONCINO (CR) Lui è della Lega. E come fanno in casa se no, non possono mica litigare in casa, giusto?

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei è di Forza Italia, lui è della Lega? E voi avete nominato la moglie come presidente? GABRIELE GALLINA - SINDACO COMUNE DI SONCINO (CR) No, io non ho nominato la moglie, io ho nominato l'onorevole Silvana Comaroli. Che poi si sia sposato Fabio dopo è un problema loro.

CLAUDIA DI PASQUALE Stavano insieme, immagino.

GABRIELE GALLINA - SINDACO COMUNE DI SONCINO (CR) Ma stavano insieme da..... Però vi piacciono queste cose qui del marito e la moglie…

CLAUDIA DI PASQUALE Non va detto?

GABRIELE GALLINA - SINDACO COMUNE DI SONCINO (CR) Sta scherzando, ma scherzando? Ma… ditelo. Anzi, sono marito e moglie, né! Mi raccomando! Avete capito?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Insomma, tra moglie e marito non mettere il dito. Meglio puntarlo sul fatto che la deputata Silvana Comaroli fa parte della Commissione Bilancio della Camera che sta discutendo la manovra economica e i soldi dare alla sanità pubblica.

CLAUDIA DI PASQUALE Quello che io vorrei comprendere è se in effetti le Rsa, anche quindi quelle private, secondo lei, dovrebbero avere un ruolo nella gestione degli ospedali di comunità o anche delle case di comunità…

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Non riesco a capire dove è sbagliato… Voi dite: Ah, deve essere tutto pubblico. Ma se il pubblico non riesce a raggiungere tutti, come facciamo?

CLAUDIA DI PASQUALE Onorevole, potete fare qualcosa per potenziare il pubblico o no? Il Servizio sanitario pubblico..

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Ma certo, ma ben venga. Però non ci sono medici, non ci sono infermieri. Come facciamo?

CLAUDIA DI PASQUALE Il Servizio Sanitario è stato di fatto progressivamente… diciamo nel corso di 30 anni… smantellato. È chiaro che siamo arrivati a un punto che uno dice: Come si fa? Per forza dobbiamo ricorrere al privato…

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Ma dove non arriva il pubblico cosa faccio? Lascio sguarniti i cittadini di un servizio?

CLAUDIA DI PASQUALE Però lei non parla solo come onorevole, ma anche come Presidente di una Fondazione privata che gestisce RSA, RSD, Centro diurno, Poliambulatori…

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Sì, sì… E ne vado fiera.

CLAUDIA DI PASQUALE A suo avviso è giusto che i privati entrino nella gestione anche degli ospedali di comunità.

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS Chiunque lo può gestire. Che sia il pubblico o il privato Io non faccio una differenza tra privato o pubblico.

CLAUDIA DI PASQUALE A me interessa capire cosa farete del Pnnr visto che lei è anche deputata.

SILVANA ANDREINA COMAROLI - DEPUTATA LEGA PER SALVINI PREMIER – PRESIDENTE FONDAZIONE RSA SONCINO ONLUS (ride)

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Fa bene a sorridere, presiede una fondazione che gestisce una RSA convenzionata ed è anche nella Commissione di bilancio che discute di manovra finanziaria e anche di spesa sanitaria. E proprio in questi giorni si sta cercando soldi per rinnovare i contratti per diminuire i tempi delle liste d'attesa. Ora, però, secondo gli ultimi aggiornamenti, insomma, la previsione di spesa sanitaria è in diminuzione rispetto al pil: siamo passati dal 6,6% di quest’anno alla previsione del 6,2% per gli anni 2024 e 2025 e al 6,1% nel 2026. Siamo sotto la media europea che è del 7,1% e lontani dalla Germania che investe quasi l’11%. Ed è per questo motivo che la fondazione Gimbe che si occupa proprio di analizzare i dati sulla sanità dice “la sanità pubblica è sull’orlo del baratro”. Ecco, e poi immaginiamo che i soldi del Pnrr non serviranno a risolvere il problema. C’è già chi pensa addirittura di tagliare, ridurre le Case di comunità: da 1350 nel nostro Paese dovrebbero diventare 936, mentre gli ospedali di comunità da 400 a 304. Ecco, in base a quale ragionamento taglieranno? Lo possiamo immaginare. Fa venire i brividi l’idea di accedere a quello che somiglia a un pronto soccorso e pagando pure 149 euro… Ecco, ma ormai la direzione è quella. L’hanno capito anche in Liguria dove c’è una popolazione di circa un milione e mezzo, quasi quanto Milano città, ma spalmata lungo un territorio che è complicato perché è allungato, è montuoso, un territorio fragile. Insomma, se ne accorgono soprattutto quando c’è un’emergenza.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è il Palio di Albenga, una rievocazione storica che si celebra ogni estate. I quattro quartieri della cittadina si scontrano in varie competizioni. Questo, per esempio, è il tiro alla fune. A cadere in questi casi è il quartiere di Sant'Eulalia, dove si trova il vecchio ospedale di Albenga.

GINO RAPA COMITATO “SENZAPRONTOSOCCORSOSIMUORE” Albenga è sempre stata sede di un ospedale importante che risale addirittura al XVI secolo. È stato costruito verso la fine del 1500 grazie ai lasciti dei nostri antenati e delle città vicine. Questa è l’ala nuova dell'ospedale che è stata costruita sul finire degli anni ‘50. Qui c'era il pronto soccorso ed era un pronto soccorso efficiente che serviva benissimo tutto il territorio.

CLAUDIA DI PASQUALE E oggi cosa c'è qua?

GINO RAPA - COMITATO “SENZAPRONTOSOCCORSOSIMUORE” È tutto chiuso. Ospita, come spesso succede in questi edifici abbandonati, senzatetto, barboni, microcriminalità...

GINO RAPA - COMITATO “SENZAPRONTOSOCCORSOSIMUORE” Questo è il retro dell’ospedale. Oggi è diventato una latrina a cielo aperto.

CLAUDIA DI PASQUALE Oddio…

GINO RAPA - COMITATO “SENZAPRONTOSOCCORSOSIMUORE” Questo era uno degli accessi per il laboratorio analisi. Si veniva a fare i prelievi del sangue qua… Questa porta e un'altra sul lato opposto davano accesso, per esempio, al reparto di radiologia che funzionava benissimo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il vecchio ospedale di Albenga è stato chiuso e venduto negli anni 2000. Allora nell'operazione di compravendita è entrato anche l'imprenditore Andrea Nucera, poi coinvolto in un'inchiesta sul crac del gruppo Geo. E così oggi l'ex ospedale è sotto la tutela di un curatore fallimentare.

GINO RAPA - COMITATO “SENZAPRONTOSOCCORSOSIMUORE” Questo ospedale è stato chiuso quando, nei primi anni del 2000, si è deciso di realizzare un ospedale nuovo, moderno, efficiente, vicino all'autostrada, vicino all'aeroporto. Quindi l'ospedale perfetto, l'ospedale ideale…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è il nuovo ospedale di Albenga. È costato circa 52 milioni di euro. Metà dei soldi è stata ricavata dalla vendita del vecchio ospedale e di altri beni, l'altra metà l'ha messa lo Stato. A volerlo è stato l'ex presidente della Regione Sandro Biasotti del centrodestra. Ma ad inaugurarlo, nel 2008, è stato l'ex presidente Claudio Burlando del Pd.

GINO RAPA - COMITATO “SENZAPRONTOSOCCORSOSIMUORE” Lo ha costruito il centrodestra, lo ha inaugurato il centrosinistra, ha iniziato a demolirlo subito il centrosinistra e ha proseguito l'opera il centrodestra. Due mesi dopo l'inaugurazione, è stato già chiuso il primo reparto, il reparto di ostetricia e ginecologia.

CLAUDIA DI PASQUALE Che di fatto non ha mai funzionato…

GINO RAPA - COMITATO “SENZAPRONTOSOCCORSOSIMUORE” Non ha mai funzionato. Noi cittadini abbiamo pensato in più occasioni che venissero chiusi proprio volutamente dei reparti per lasciare piani dell'ospedale liberi all'iniziativa privata.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E infatti, solo tre anni dopo l'inaugurazione la gestione del reparto di ortopedia è stata affidata a dei privati. Prima al gruppo sanitario ligure e poi al Policlinico di Monza.

CLAUDIA DI PASQUALE L'ortopedia è tornata pubblica?

TERESIANO DE FRANCESCHI - DIRETTORE MEDICINA INTERNA OSPEDALE DI ALBENGA (SV) 2004 - 2022 No. Non… non c'è più l'ortopedia. Questi han chiuso, punto, buttato la chiave.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'ex primario di Medicina interna Teresiano De Franceschi è stato negli anni 2000 vicesindaco di Albenga con Forza Italia e ha coordinato proprio la costruzione del nuovo ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE I reparti chiusi quali sono stati?

TERESIANO DE FRANCESCHI - DIRETTORE MEDICINA INTERNA OSPEDALE DI ALBENGA (SV) 2004 - 2022 La chirurgia generale, l’otorinolaringoiatria e l’oculistica come degenze.

CLAUDIA DI PASQUALE Le sale operatorie vengono utilizzate tutte e sette?

TERESIANO DE FRANCESCHI - DIRETTORE MEDICINA INTERNA OSPEDALE DI ALBENGA (SV) 2004 - 2022 Ritengo assolutamente di no. Ritengo che ne venga utilizzata forse una.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'ospedale di Albenga è stato costruito per avere fino a 210 posti letto, oggi ce ne sono solo una settantina. E infatti basta entrare dentro per trovare interi reparti chiusi.

CLAUDIA DI PASQUALE L'unico ospedale nuovo che è stato costruito è quello di Albenga, che però è semivuoto, potrebbe avere 200 e passa posti letto, al massimo ce ne sono una settantina oggi.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Le sale operatorie non vengono neanche usate. Forse ne viene usata una…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Sì. Su quell'ospedale lì c’è una proposta di partenariato pubblico/privato.

CLAUDIA DI PASQUALE Da parte di chi?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA È una ditta, un gruppo che è in valutazione da parte della Regione.

CLAUDIA DI PASQUALE Non si può sapere il nome?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA No.

CLAUDIA DI PASQUALE Sarà sempre l'Asl a pagare il privato che gestirà?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Sì. Un ospedale pubblico gestito da privati.

CLAUDIA DI PASQUALE E perché? Lasciate che i privati entrino nei vostri ospedali?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Ma guardi, lei vede i privati come se fossero il demonio.

CLAUDIA DI PASQUALE Io le sto facendo una domanda. Perché lo trova giusto?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Ma lo trovo giusto perché il pubblico fa… arranca e fa enormemente fatica a garantire le strutture che ha.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il privato però non salverà il pronto soccorso del nuovo ospedale di Albenga, che è stato chiuso e declassato a punto di primo intervento già nel 2012, quando c'era il centrosinistra. Poi, nel 2020, il centrodestra ha chiuso anche il punto di primo intervento che alla fine, dopo numerose proteste, è stato riaperto quest'estate, ma funziona solo di giorno e può occuparsi solo di casi lievi.

CLAUDIA DI PASQUALE L’ospedale di Albenga nasce per avere un pronto soccorso.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Sì, nasceva per avere il pronto soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Che non ci sarà mai più…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Per ora c'è il PPI. Io non dichiaro…

CLAUDIA DI PASQUALE Il vostro piano non prevede…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA No. Non lo prevede. Prevede il PPI.

CLAUDIA DI PASQUALE Possiamo dire che non ci sarà?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA No, ma lo sanno tutti, c'è scritto nell'atto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO È così che da anni la Croce Bianca di Albenga porta tutti i casi più gravi ed urgenti al pronto soccorso dell'ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, che si trova ad una quindicina di chilometri.

DINO ARDUINO - PRESIDENTE CROCE BIANCA DI ALBENGA (SV) Ma non si deve parlare da Albenga a Santa Corona. Noi alle nostre spalle abbiamo quattro vallate da 40 chilometri che gravitano su Albenga. Di queste persone cosa facciamo?

CLAUDIA DI PASQUALE E come è messo il pronto soccorso di Pietra Ligure?

DINO ARDUINO - PRESIDENTE CROCE BIANCA DI ALBENGA (SV) Sono pieni che non ci sono letti, la gente è seduta in terra. Quando ti va bene ci stai dieci, dodici ore, quando ti va male ci stai un po’ di più.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Entriamo allora al pronto soccorso di Pietra Ligure. Le barelle invadono il corridoio. L'attesa è lunga e così un operatore ci consiglia di andare in una casa della salute.

OPERATORE Se ritiene che la sua problematica possa essere differibile, lei può andare in queste strutture qua.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ci danno anche un foglio con indirizzi e orari. C'è scritto che le case della salute sono aperte sette giorni su sette. Una si trova proprio nel centro storico di Albenga e ci lavora anche il sindaco che di mestiere fa il medico di base.

CLAUDIA DI PASQUALE Siamo stati al pronto soccorso di Pietra Ligure e ci hanno consegnato questo foglio e qua c'è scritto: “Le Case della salute sono aperte dalle 9 alle 19 tutto l'anno 7 giorni su sette”. È così?

RICCARDO TOMATIS - SINDACO ALBENGA (SV) No, non è così perché noi con un grosso sforzo siamo riusciti a mantenerla aperta dalle 9 alle 19 i giorni della settimana, il sabato dalle nove alle 13, il sabato pomeriggio e la domenica purtroppo è chiusa.

CLAUDIA DI PASQUALE Da quanto tempo c'è questa situazione?

RICCARDO TOMATIS - SINDACO ALBENGA (SV) Eh, sarà circa cinque anni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E infatti ci andiamo un sabato pomeriggio e la troviamo completamente vuota.

CLAUDIA DI PASQUALE Qui l'affitto chi lo paga?

RICCARDO TOMATIS - SINDACO ALBENGA (SV) I medici.

CLAUDIA DI PASQUALE E la Regione Liguria dà un contributo per questi posti?

RICCARDO TOMATIS - SINDACO ALBENGA (SV) La Regione Liguria non dà più un contributo. Lo ha dato fino a circa quattro, cinque anni fa, poi ha smesso di darlo.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè di fatto non è più aperto la domenica e il sabato pomeriggio, perché la Regione non dà più un contributo?

RICCARDO TOMATIS - SINDACO ALBENGA (SV) Esatto, è proprio così.

CLAUDIA DI PASQUALE E cosa ne pensa del fatto che dopo cinque anni ancora diano questo volantino?

RICCARDO TOMATIS - SINDACO ALBENGA (SV) Questa è, secondo me, proprio la dimostrazione di una mancanza di comunicazione tra strutture.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure che ormai accoglie tutte emergenze di Albenga e delle vicine vallate è classificato come Dea di II livello, cioè dovrebbe avere tutte le principali discipline mediche e chirurgiche. La struttura risale ai primi del Novecento ed è composta da più padiglioni. A guardarli bene, però, diversi sono fatiscenti, inutilizzati, vuoti. Alcuni sono addirittura abbandonati da decenni. Su un retro c'è persino una discarica e per non farci mancare nulla, nel 2020 è stato chiuso il reparto di ostetricia e ginecologia. Significa che in tutta la provincia c'è solo un punto nascite, quello di Savona.

STEFANO VIO - AUTISTA SOCCORRITORE CROCE BIANCA DI ALBENGA (SV) Alle cinque e dieci di mattina arriva la chiamata del 118 di una ragazza partoriente. La ragazza aveva già rotto le acque, dunque carichiamo la ragazza il più presto possibile e più velocemente possibile in ambulanza e ci dirigiamo verso… verso Savona. Prima dell'uscita di Savona, ovvero a Vado Ligure, la ragazza ci partorisce in ambulanza…

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè dove vi siete fermati?

STEFANO VIO - AUTISTA SOCCORRITORE CROCE BIANCA ALBENGA (SV) Ci siamo fermati su una piazzola in autostrada e la ragazza ha partorito lì.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma è la prima volta che ti è capitato di far partorire una…

STEFANO VIO - AUTISTA SOCCORRITORE CROCE BIANCA ALBENGA (SV) Seconda.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E solo pochi giorni fa c'è stato il quarto caso del 2023. Un altro bambino è nato lungo l'autostrada che è regolarmente trafficata.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Lei potrebbe mettere un punto nascita a ogni semaforo e lei troverebbe la gente che partorisce per la strada…

CLAUDIA DI PASQUALE Diciamo che succede spesso. È successo pochi giorni fa, è successo a luglio… ce ne sono quattro, cinque dall’inizio dell’anno..

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA È successo a Varese, l'altro ieri a Varese.

CLAUDIA DI PASQUALE Se c'è un parto difficile, che accade in autostrada, rischiano il bambino e la madre.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Ma non lo risolve mettendo un punto nascite ad ogni angolo.

CLAUDIA DI PASQUALE E quindi non serve secondo lei un punto nascite a Petra Ligure?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Servirà nel momento in cui noi avremo strumenti per aprirlo.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi dia una data.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLE REGIONE LIGURIA Non ce l’ho una data. No, guardi, io non faccio promesse.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La promessa ora è quella di realizzare a Pietra Ligure un monoblocco nuovo di zecca. L'idea però non è nuova, se ne parlava già nel 2010. Intanto, in questi anni l'ospedale Santa Corona è stato lasciato un po’ alla deriva.

MARCO BERTOLOTTO - DIRETTORE TERAPIA DEL DOLORE OSPEDALE SANTA CORONA - PIETRA LIGURE (SV) 2006 – 2022 Era veramente una delle eccellenze italiane. Poi le scelte strategiche, politiche sono state quelle di ridurre la funzione di questo ospedale, quindi i primari sono andati in pensione negli anni e la direzione ha deciso di non coprire i posti.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei invece era primario di?

MARCO BERTOLOTTO - DIRETTORE TERAPIA DEL DOLORE OSPEDALE SANTA CORONA - PIETRA LIGURE (SV) 2006 – 2022 Io ero primario della terapia del dolore e cure palliative, un centro che abbiamo aperto qua nel ‘94, un reparto di 800 metri quadrati con dentro la sala operatoria, sala raggi... L'unico reparto di questo tipo in Regione Liguria.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa facevate voi che non faceva nessun'altro?

MARCO BERTOLOTTO - DIRETTORE TERAPIA DEL DOLORE OSPEDALE SANTA CORONA - PIETRA LIGURE (SV) 2006 – 2022 E tutta la parte che riguarda… si chiama la neuromodulazione del dolore, cioè tutta la parte di intervento sul midollo spinale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il reparto di terapia del dolore, di cui era primario il dottor Marco Bertolotto, si trova al quarto piano del padiglione 18 di Pietra Ligure. Ci andiamo una domenica pomeriggio e lo troviamo chiuso e deserto.

MARCO BERTOLOTTO - DIRETTORE TERAPIA DEL DOLORE OSPEDALE SANTA CORONA - PIETRA LIGURE (SV) 2006 – 2022 Adesso c'è solo un medico, una dottoressa…

CLAUDIA DI PASQUALE Ma si fanno più interventi, operazioni?

MARCO BERTOLOTTO - DIRETTORE TERAPIA DEL DOLORE OSPEDALE SANTA CORONA - PIETRA LIGURE (SV) 2006 – 2022 No. Non più.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè la sala operatoria non viene più usata…

MARCO BERTOLOTTO - DIRETTORE TERAPIA DEL DOLORE OSPEDALE SANTA CORONA - PIETRA LIGURE (SV) 2006 – 2022 Gli interventi che facevamo sul midollo per controllare il dolore… non c'è più nessuno che lo fa. Poco prima di andare in pensione questa roba l’ho denunciata. Sono stato deferito al Consiglio di Disciplina…

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa ha denunciato?

MARCO BERTOLOTTO - DIRETTORE TERAPIA DEL DOLORE OSPEDALE SANTA CORONA - PIETRA LIGURE (SV) 2006 – 2022 C'erano medici e anestesisti che volevano venire a lavorare con me. Anestesisti di questo ospedale qua. Invece la direzione aveva proprio detto no e li abbiamo persi, cioè persone che abbiamo formato se ne sono andati.

CLAUDIA DI PASQUALE Possibile che va in pensione un medico e finisce il servizio?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Dipende. Dipende… Guardi la terapia antalgica è un altro settore in grave carenza perché spesso…

CLAUDIA DI PASQUALE E a Pietra Ligure per questa vicenda se ne sono andati anche gli anestesisti. Quindi è vero che avete poco personale, ma li fate anche scappare.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Mancano gli anestesisti rianimatori, mancano a maggior ragione i terapisti del dolore.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'ultimo comune della provincia di Savona è quello di Andora. Qui abita Sabrina che ha vissuto sulla sua pelle i tagli della sanità. Il padre dei suoi figli è infatti in cura dagli anni ‘90 per il morbo di Crohn, che è un'infiammazione cronica dell'intestino. Ed è stato costretto nel corso degli anni a cambiare ben tre ospedali.

SABRINA GRASSA - COMITATO SOS SALUTE PUBBLICA LIGURIA È stato operato ben due volte ad Albenga.

CLAUDIA DI PASQUALE Il padre dei suoi figli viene seguito dal nuovo ospedale di Albenga?

SABRINA GRASSA - COMITATO SOS SALUTE PUBBLICA LIGURIA No. Prima ha fatto un percorso a Pietra Ligure nell'ospedale Dea di secondo livello.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché?

SABRINA GRASSA - COMITATO SOS SALUTE PUBBLICA LIGURIA Perché ad Albenga non era più possibile seguire questa patologia qua. E adesso di recente è ancora peggio perché siamo a Savona, a 50 chilometri.

CLAUDIA DI PASQUALE In quanto tempo arrivate a Savona?

SABRINA GRASSA - COMITATO SOS SALUTE PUBBLICA LIGURIA Se siamo fortunati ci mettiamo circa 1 ora. Se invece c'è qualche minimo intoppo, una coda, un incidente diventa molto drastica. Anche 2 ore e mezza.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E non è finita qui. A seguito degli interventi subiti si è formata anche un'ernia.

SABRINA GRASSA - COMITATO SOS SALUTE PUBBLICA LIGURIA Per questa ernia siamo in lista d'attesa da due anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Due anni?

SABRINA GRASSA - COMITATO SOS SALUTE PUBBLICA LIGURIA Da due anni. Una lista d'attesa veramente imbarazzante, anche perché lui non sta bene, ha un'ernia che si sta ingrandendo sempre di più. Poi è un ragazzo che è un artigiano, quando sta male non può lavorare, ma incombono le spese.

CLAUDIA DI PASQUALE Qual è la situazione delle liste d'attesa qua in Liguria?

MAURIZIO CALA’ - SEGRETARIO GENERALE CGIL LIGURIA Noi abbiamo per esempio a Genova per una colonscopia di tipo B ci vogliono 113 giorni. A Savona per una visita oculistica ce ne vogliono 330. Una tac all'addome a Savona ci vogliono 170 giorni, ad Imperia una visita cardiologica e una visita comune ci vogliono 194 giorni, così come un ecodoppler 108. A La Spezia per una colonscopia ci vogliono 220 giorni.

CLAUDIA DI PASQUALE Quello che uno vede è che ci sono o ospedali vecchi che cadono a pezzi o ospedali nuovi che non vengono usati appieno. In mezzo ci sono i cittadini.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Sì, sì, questo noi lo sappiamo.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi possiamo promettere, realizzeremo, costruiremo… ma di fatto poi i cittadini vengono privati di quelli che sono i livelli essenziali di assistenza.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA I nostri cittadini non sono privati della necessità di assistenza. Lo certifica il ministero i nostri LEA sono in regola.

CLAUDIA DI PASQUALE Due anni per un'operazione per un'ernia...

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Il covid ha disastrato qualunque tipo di attività ospedaliera. Gli ospedali si sono messi a curare una patologia sola. Tutto il resto sono rimaste in coda, da recuperare…

CLAUDIA DI PASQUALE Ed è questo che diceva la Corte dei Conti, che voi siete all'ultimo posto per il recupero degli interventi programmati…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Ma non è, ma non è proprio così. Noi abbiamo fatto le nostre controdeduzioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Però non siete sicuramente ai primi posti.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA No, no, tanto non si vince nulla lì.

STUDIO SIGFRIDO RANUCCI Certo, poi a rimetterci sono i cittadini che attendono mesi per una visita o un intervento. Secondo la Corte dei Conti, il procuratore generale della Corte dei Conti Silvio Ronci la Liguria è all'ultimo posto in Italia per il recupero di quei ricoveri programmati e saltati durante il Covid. Avrebbe recuperato solo il 14% contro una media nazionale del 66. È penultima per gli inviti, per gli screening, 20% rispetto a una media nazionale dell’82%, è penultima tra le regioni del nord per il recupero delle prestazioni ambulatoriali: 36% a fronte del 57% nazionale. Ora questo nonostante la Liguria abbia ricevuto un finanziamento dallo Stato di oltre 13 milioni di euro per recuperare sulle liste d'attesa. La regione contesta i dati della Corte dei Conti, secondo lei non ha analizzato compiutamente tutto. Però noi con i nostri occhi abbiamo visto lo stato in cui versano gli ospedali nuovi, semivuoti, quelli vecchi abbandonati e infatti anche qua visto che non si può accedere sempre alla cura, chi può, chi se lo può permettere, cambia regione per andare a curarsi. E la Corte dei Conti infatti segnala anche questo: la Liguria spende per la mobilità extraregionale sanitaria 52 milioni di euro, ed è un dato che sta… un indebitamento che sta aumentando, in crescita. Ecco, tra le aziende che soffrono di più di questo stato sanitario c'è quella di La Spezia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il Levante Ligure dominato dalla città di La Spezia. Qui l'ospedale principale è il Sant'Andrea che serve un bacino di oltre 100.000 abitanti. All'interno si trova anche la sede del Tribunale per i diritti del Malato.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma cos'è quest’odore?

RINO TORTORELLI - REFERENTE TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO – LA SPEZIA È muffa, pesante, perché ci sono queste infiltrazioni. Quindi ovviamente è impraticabile perché colpisce la gola.

CLAUDIA DI PASQUALE Pioveva dentro?

RINO TORTORELLI - REFERENTE TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO – LA SPEZIA Sì, veniva giù dell'acqua e lì si vedono ancora le gocciolature nei tubi. Poi è anche gocciolata per terra.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma c'è ancora acqua?

RINO TORTORELLI - REFERENTE TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO – LA SPEZIA Sì, sì, per terra c'è ancora dell'acqua. Qua si vede bene. Confido che si stia provvedendo perché di là c'è anche un impianto che serve alla dialisi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La centrale per la dialisi si trova all'interno di questo cortile ridotto così. Nei mesi scorsi il reparto di neurologia è finito nell'occhio del ciclone per alcune crepe e il resto dell'ospedale non sta messo meglio. Muri fatiscenti, tubi incerottati, superfetazioni metalliche.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA In questo momento l'unica cosa importante è fare manutenzione, come stiamo facendo in maniera meticolosa su quell'ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE La manutenzione non sembra proprio fatta benissimo. Mi sembra… appare molto rattoppato.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Eh, in effetti…

CLAUDIA DI PASQUALE C’è proprio lo scotch sui tubi degli impianti…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA No… voglio dire… è un ospedale vecchio che ha bisogno di fare tutto quello che potrà fare da qui a quando avremo l'ospedale nuovo, tanto non esiste un'altra via.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'idea, infatti, è quella di costruire appena fuori dalla città il nuovo ospedale Felettino che avrà il compito di sostituire il vecchio ospedale Sant'Andrea.

CLAUDIA DI PASQUALE Da quanto tempo si parla della costruzione del cosiddetto nuovo Felettino, il nuovo ospedale di La Spezia?

SONDRA COGGIO - GIORNALISTA DE “IL SECOLO XIX” Il primo stanziamento è del 1993. Sono passati 30 anni e abbiamo messo tante prime pietre alle quali non ne sono seguite altre.

CLAUDIA DI PASQUALE L'ultima prima pietra del nuovo ospedale Felettino l'ha posata il presidente Toti il 7 ottobre 2016. 07/10/2016

GIOVANNI TOTI – PRESIDENTE REGIONE LIGURIA Cioè dopo qualche problema amministrativo, dopo qualche falsa partenza, dopo qualche intorcinamento di troppo, come la pubblica amministrazione talvolta sa darsi anche da sola, finalmente ci siamo riusciti. Oggi è un giorno di svolta…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Allora l'appalto del valore di 177 milioni di euro se l'era aggiudicato la ditta Pessina. CLAUDIA DI PASQUALE La Pessina fa i lavori?

SONDRA COGGIO - GIORNALISTA DE “IL SECOLO XIX” Apre il cantiere, inizia i lavori. Senonché si accorge che nell'autorizzazione data dall'ente competente, la Provincia de La Spezia, c'è scritto che quel tipo di fondazione proposta dagli ingegneri potrebbe avere un rischio di deformazione. Allorché l'impresa Pessina dice, cambiamo questa parte, e chiedono una variante.

CLAUDIA DI PASQUALE La variante alla fine che fine fa?

SONDRA COGGIO - GIORNALISTA DE “IL SECOLO XIX” Fa una fine tragica. La Provincia stabilisce che la proposta di Pessina è buona, che è migliorativa e dà parere favorevole.

CLAUDIA DI PASQUALE E la Regione quindi che fa?

SONDRA COGGIO - GIORNALISTA DE “IL SECOLO XIX” Invece, decide che non va bene e rescinde il contratto con Pessina che adesso è in causa per 50 milioni di euro.

CLAUDIA DI PASQUALE 50 milioni?

SONDRA COGGIO - GIORNALISTA DE “IL SECOLO XIX” E in più questo giochino, queste perdite di tempo sono già costate 22 milioni di euro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La ditta Pessina prima della revoca del contratto ha demolito un altro ospedale, il vecchio Felettino, raso al suolo proprio per far posto a quello nuovo, di cui oggi resta solo questo cantiere abbandonato. E così la Regione Liguria ha bandito una nuova gara e solo pochi mesi fa ha aggiudicato l'appalto.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi spiega questo bando com’è?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Il costo totale è di 264.300.000.

CLAUDIA DI PASQUALE Il bando precedente, però, era 177 milioni, com’è che è aumentato di quasi 100 milioni?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Eh, ma guardi, bastano piccole congiunture. Piccoli eventi. La guerra in Ucraina, quello che vuole...

CLAUDIA DI PASQUALE Sono saliti abbastanza.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Sono saliti abbastanza, sì.

CLAUDIA FUORI CAMPO Il nuovo ospedale sarà finanziato con la formula del project financing. 104 milioni di euro li metterà lo Stato, 63 la Regione, 97 milioni la ditta che ha vinto l'appalto, che avrà il compito di costruire il nuovo ospedale e di gestirlo poi per 25 anni.

RINO TORTORELLI - REFERENTE TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO – LA SPEZIA Questo soggetto per 25 anni e mezzo riceverà in cambio un canone di oltre 9 milioni di euro all'anno. Oltre ai denari necessari per la gestione dei servizi, è un canone che la Asl nostra ovviamente non riuscirebbe a sopportare. Quindi noi abbiamo già chiesto che almeno la Regione si assuma i costi di questo canone annuale, altrimenti la nostra Asl fallirà.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Sono prezzi del mercato. Non è che, voglio dire, è stata fatta una trattativa.

CLAUDIA DI PASQUALE Però le sembra conveniente questo canone?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Non lo so, io non sono un esperto di contratti.

CLAUDIA DI PASQUALE Di 9 milioni mezzo per 25 anni a fronte…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Può esser tanto, può essere poco.

CLAUDIA DI PASQUALE Però lei è l’assessore…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Sì, ma questo non vuol dire, non è che è l'assessore che fa il contratto, eh!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Inoltre nel bando è prevista la cosiddetta opzione Cassa Depositi e Prestiti.

CLAUDIA DI PASQUALE E i soldi che metterà il privato, chi glieli darà? Le banche?

RINO TORTORELLI - REFERENTE TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO – LA SPEZIA Per come è costruito il bando, c'è la possibilità che questi soldi glieli dia appunto la Cassa Depositi e Prestiti, che è quella che gestisce il risparmio postale degli italiani.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi sempre Stato…

RINO TORTORELLI - REFERENTE TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO – LA SPEZIA C'è una sorta di partita di giro da parte dei cittadini che finanziano il privato, che poi il privato ci mette questi soldi e poi li recupera con lauti interessi nel corso di 25 anni e mezzo.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè, è come dire che Cassa Depositi e Prestiti, quindi Ministero dell'Economia…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Finanzia la ditta…

CLAUDIA DI PASQUALE Esatto, presterà i soldi… finanzierà la ditta che poi recupererà i soldi.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Capisco. Voglio dire, sono giochi all'interno del contratto, ma alla fine alla Regione interessa che l'ospedale venga costruito.

CLAUDIA FUORI CAMPO Ad aggiudicarsi l'appalto è stata la Guerrato di Rovigo, l'unica ditta a partecipare al bando. Leggendo i verbali della gara scopriamo che ha vinto più appalti in campo sanitario. In Veneto, però, nel 2017 l'azienda sanitaria ha risolto il contratto per la costruzione del nuovo ospedale di Arzignano. Mentre in Trentino l’ex presidente del CDA è finito in un’indagine sul nuovo ospedale di Trento per una presunta turbativa d’asta.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Poco conta, in realtà. Quello che conta è che la documentazione, all'atto della presentazione della gara fosse in ordine.

CLAUDIA DI PASQUALE E' un'indagine per turbativa d'asta, in cui loro si sono affidati a una società maltese per un finanziamento. Società maltese che è una società di gestione risparmio che non poteva dare neanche il finanziamento. Se lei si sente tranquillo…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Ma io capisco… ma, tranquillo, voglio dire… Ha vinto questa… questa ditta. Io non è che posso dire: “Siccome ci sono in atto cose…”. Questi sono lavori che farà la magistratura.

STUDIO SIGFRIDO RANUCCI Tranquilli loro. Tanto aspettano l’ospedale da 30 anni la cui costruzione viene sventolata dai candidati agli elettori a ogni elezione. L’ultima pietra l’aveva posta sette anni fa Toti. Doveva costruirlo quell’ospedale Pessina, il costruttore ex editore, ex salvatore dell’Unità all’epoca del PD targato Renzi. Si era aggiudicato l’appalto proprio con quella giunta regionale targata PD, Burlando, ma poi sotto la giunta del centrodestra di Toti aveva proposto una variante. La provincia dice di sì, la Regione dice di no. E nel 2019 rescinde il contratto con Pessina che fa causa e chiede un risarcimento di 50 milioni di euro. Poi nel 2023 l’appalto se lo aggiudica la ditta Guerrato. Costava prima 177 mln di euro costruire l’ospedale. Tutti soldi pubblici. Ora costerebbe 264 milioni, anche con una parte di project financing. Cioè lo mettono sostanzialmente una parte i privati. In attesa del nuovo ospedale, nel 2016, intanto, avevano buttato giù il vecchio ospedale Felettino e hanno lasciato senza manutenzione un altro vecchio ospedale, il Sant’Andrea di La Spezia. Che è messo proprio male, forse quello che è messo peggio di tutti. Andrebbe data una sistemata anche al vecchio Galliera che è nel centro di Genova. Un ospedale storico, costruito nell'Ottocento per volere della duchessa di Galliera, è un ente pubblico autonomo, ha un suo cda, la presidenza è della curia di Genova. E ora anche loro da anni vorrebbero costruire un nuovo ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il Galliera è un importante complesso ospedaliero nel cuore di Genova. Risale alla fine dell'Ottocento ed è composto da sette padiglioni storici e da un elegante corpo centrale. Alla fine degli anni ‘50 è stato invece realizzato l'edificio del pronto soccorso, che oggi appare regolarmente sovraffollato.

MASSIMO GHILLINO, REFERENTE USB – FEDERAZIONE REGIONALE LIGURIA Ci sono anche vere e proprie degenze che durano giorni all'interno del pronto soccorso proprio per questa mancanza di posti letto.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti posti letto c'erano?

MASSIMO GHILLINO - REFERENTE USB – FEDERAZIONE REGIONALE LIGURIA In origine il Galliera negli anni ‘80 aveva 1200 posti letto. Fino ad arrivare al dato più recente nel 2022 con 413 posti letto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI ONDA Negli anni ‘70 è stato poi realizzato questo grande edificio, il cosiddetto padiglione C. Basta però salire per verificare che oggi al quarto piano, le camere di degenza sono state trasformate in ambulatori per l'attività intramoenia, mentre la maggior parte dei piani è chiusa.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi qual è il destino di questo padiglione?

MASSIMO GHILLINO - REFERENTE USB – FEDERAZIONE REGIONALE LIGURIA Il destino di questo padiglione è di essere abbattuto, farà spazio al nuovo ospedale Galliera.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Del nuovo Galliera se ne parla da anni. Dovrebbe sorgere in quest'area e per realizzarlo si prevede l'abbattimento non solo del padiglione C, ma anche di altri immobili come l'antico ambulatorio necroscopico e le lavanderie storiche. In origine, nel 2009, il nuovo ospedale doveva avere 560 posti letto. Oggi sono scesi a 404, compresi i posti del day hospital e del pronto soccorso.

PAOLA PANZERA - PORTAVOCE MOVIMENTO INDIPENDENTE CITTADINI PER CARIGNANO In realtà quello che si prevede è una fortissima offerta di visite private a pagamento, parcheggi a pagamento, attività commerciali a pagamento …

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo studio di fattibilità risale al 2020. Allora il costo del nuovo ospedale si aggirava sui 154 milioni di euro, di cui 41 messi dallo Stato, 75 ricavati dall'accensione di un mutuo e altri undici dalla permuta e trasformazione di alcuni edifici del vecchio ospedale in appartamenti.

PAOLA PANZERA - PORTAVOCE MOVIMENTO INDIPENDENTE CITTADINI PER CARIGNANO Noi come cittadini, insieme a “Italia Nostra”, nel corso di questi anni abbiamo presentato una serie di ricorsi perché non sono state fatte le valutazioni ambientali.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma avete vinto questi ricorsi?

PAOLA PANZERA - PORTAVOCE MOVIMENTO INDIPENDENTE CITTADINI PER CARIGNANO Sì, sì. Abbiamo vinto al Consiglio di Stato sia sul filone ambientale sia sul filone dei beni culturali.

CLAUDIA DI PASQUALE E ora cosa c'è in ballo?

PAOLA PANZERA - PORTAVOCE MOVIMENTO INDIPENDENTE CITTADINI PER CARIGNANO Dopo che noi abbiamo vinto il progetto è stato riproposto e quindi con Italia Nostra sono stati reimpugnati un'altra volta.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè avete fatto un’altra volta ricorso?

PAOLA PANZERA - PORTAVOCE MOVIMENTO INDIPENDENTE CITTADINI PER CARIGNANO Esattamente.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Naturalmente il tempo è passato. Il progetto che era stato fatto ha lievitato di costi, certamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Infatti costerà 154 milioni.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Questo era la prima versione.

CLAUDIA DI PASQUALE E invece secondo lei quanto potrebbe costare? Perché secondo me questo dato non è più realistico…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Non lo so più dire perché non c'è una stima reale del costo finale.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché costerà sicuramente molto di più…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Costerà di più, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto il Galliera, quello vecchio, avrebbe bisogno di manutenzione. Ovunque ci sono ponteggi. Nonostante abbiano spazi immensi, hanno persino noleggiato due container per svolgere attività ambulatoriali. Uno di questi si è allagato lo scorso fine agosto, quando a Genova si è abbattuto un nubifragio. Quella notte si è allagata anche l'area del pronto soccorso, mentre in altri locali è caduto il soffitto. A luglio, invece, è scoppiato un incendio nel principale ospedale di Genova e della Liguria: il San Martino. Il fuoco è divampato probabilmente a causa di un corto circuito al terzo piano del monoblocco, nell'area rianimazione.

GIANNI PASTORINO - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE SANITA’ REGIONE LIGURIA Sono dovuti intervenire pesantemente i vigili del fuoco con l'inevitabile spostamento di decine di malati di area critica, quindi persone intubate e con difficoltà.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nella zona ovest di Genova c'è invece l'ospedale Villa Scassi, che da solo non ce la fa. Il pronto soccorso è al collasso e così per anni ha tenuto banco l’idea di realizzare il nuovo ospedale di Vallata, nella Val Polcevera. Doveva sorgere nella cosiddetta area ex Miralanza. Oggi qui c'è un cantiere in corso, ma non nascerà un nuovo ospedale, bensì un polo della logistica.

GIANNI PASTORINO - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE SANITA’ REGIONE LIGURIA L'idea di ospedale di Vallata è nata nel 1976. Se ne è sempre parlato.

CLAUDIA DI PASQUALE E non è stato mai realizzato…

GIANNI PASTORINO - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE SANITA’ REGIONE LIGURIA Non è stato mai stato realizzato l'ospedale di Vallata. Questa è in parte una vergogna che dura da 50 anni, quasi.

CLAUDIA DI PASQUALE Però per realizzarlo ci risulta che sono stati chiusi degli ospedali.

GIANNI PASTORINO - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE SANITA’ REGIONE LIGURIA Beh, qui a Genova sono stati chiusi, per lo meno, per realizzarlo tre siti, per fare un ospedale di Vallata che non è mai stato realizzato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI Nel 2011 è stato chiuso l'ospedale di Busalla. Al suo posto oggi c'è una RSA gestita da una cooperativa privata. A Pontedecimo il pronto soccorso è stato declassato a punto di primo intervento e dal 2020 non c'è più neanche quello. A Bolzaneto l'ospedale è stato chiuso già negli anni 90, mentre a Rivarolo negli anni 2000… E così ora la promessa è quella di realizzare un nuovo ospedale sulla collina degli Erzelli che si trova sopra l'aeroporto di Genova.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho trovato questo articolo del 2018 c'è scritto che sorgerà nel 2023. Non è sorto, però.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Vabbè…

CLAUDIA DI PASQUALE Non è sorto, però.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA No.

CLAUDIA DI PASQUALE Sempre annunci della Regione…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Vabbè…

CLAUDIA DI PASQUALE Aspetti, e quanto costerà?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Circa 400 milioni? Le torna?

CLAUDIA DI PASQUALE Allora, in quest'articolo del 2018 c'è scritto 160 milioni.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Sì, vabbè, ma dipende poi che progetto era. Diciamo che oggi ragionevolmente potrebbe essere un ospedale che si riesce a costruire nelle sue strutture principali intorno ai 300 e qualcosa milioni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'area collinare degli Erzelli un tempo era di proprietà del re dei container genovese, Aldo Spinelli, poi negli anni 2000 è stata acquistata dal gruppo GHT interessata alla costruzione di un parco tecnologico.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA In questo momento c'è solo una manifestazione di interesse da parte di GHT a dire “mi interesserebbe costruire l'ospedale lì”, ma non ha ancora formulato per ora nessun tipo di progetto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quel che è già successo è che dal 2021 l'area in cui dovrebbe sorgere il nuovo ospedale viene usata come parcheggio temporaneo di mezzi pesanti e furgoni. In base ad una convenzione siglata tra il Comune di Genova e il gruppo GHT.

CLAUDIA DI PASQUALE Lì c’è in realtà in questo momento un parcheggio con dei container, dei camion… A

NGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Beh, sì, è evidente. Non è ancora iniziato. Non è che possiamo costruire qualcosa che non è ancora stato progettato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'unico ospedale che è stato costruito negli ultimi anni, oltre a quello di Albenga, è quello di Rapallo. Si trova a circa 30 km da Genova ed è stato inaugurato nel 2010. Ci andiamo, all'interno troviamo dei reparti chiusi, mentre il pronto soccorso è da tempo fuori uso e dal 2020 non funziona più neanche come punto di primo intervento.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Ma guardi che la storia dei pronto soccorso va sfatata, e non è che possiamo ..

CLAUDIA DI PASQUALE è chiuso, è nuovo ed è chiuso.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Ma questo non importa se è chiuso o è aperto…

CLAUDIA DI PASQUALE Non mi dica che non fa niente se è aperto o chiuso..

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA È stato chiuso perché non è necessario in questo momento averlo aperto. Perché esiste l’ospedale…

CLAUDIA DI PASQUALE Allora non serviva l’ospedale…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Ma non è vero che non serviva l'ospedale.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti posti letto potrebbe avere? Quanti ce ne sono oggi usati?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Oggi che sono occupati meno forse di metà di quelli che avrebbe, è un ospedale che non ha tutta ‘sta potenza.

CLAUDIA DI PASQUALE Però è mezzo vuoto.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Dipende poi uno come la declina questa roba qui.

CLAUDIA DI PASQUALE Basta andarci.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Tutte le volte che lei apre qualche cosa in giro, lei deve avere qualche truppa che gliela governa, se no rischia la fine di Napoleone.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La fine di Napoleone, la sanità rischia di farla anche con i soldi del Pnrr che possono essere investiti solo in tecnologie e strutture, ma non nel personale. Nello specifico, in Liguria si prevede la realizzazione di 32 case di comunità.

CLAUDIA DI PASQUALE Dove realizzerete queste case di comunità?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA La funzione delle case di comunità è quella di essere grande potenziamento del territorio e quindi è sul territorio.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La maggior parte delle case di comunità è prevista però dove già ci sono delle strutture poliambulatoriali. Per esempio, nel genovese a Pegli hanno programmato una Casa di comunità nella stessa location di questo nuovissimo Palazzo della Salute, inaugurato nel 2017. Stessa storia a Genova, la casa di comunità sarà dove oggi già c'è un altro Palazzo della Salute, mentre a Voltri sarà aperta una casa di comunità dove è stata inaugurata nel 2019 una casa della salute, che in pratica è la stessa cosa.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi in qualcuna ci siamo passati. Non sono aperte nel weekend.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA C'è un problema di sopra che è quello del problema legato alla carenza del personale.

CLAUDIA DI PASQUALE Qual è la carenza di personale nel settore della sanità?

MAURIZIO CALA’ - SEGRETARIO GENERALE CGIL LIGURIA Diciamo che mediamente pensiamo che siamo intorno al 30 per cento di carenza del personale generale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel piano socio-sanitario 2023-2025 della Regione Liguria al fabbisogno di personale viene dedicata solo mezza paginetta e non c’è neanche un dato.

GIANNI PASTORINO - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE SANITA’ REGIONE LIGURIA Non c'è un ragionamento sulla programmazione assunzionale, cioè, pur sapendo che nel 2024 tu avrai un turnover, perlomeno del tutto personale per motivi pensionistici.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho letto il vostro piano, no? 2023-2025. Questo è il paragrafo dedicato al personale. Non c'è scritto nulla, quanti sono i medici, quanti sono gli infermieri? Quanti ne vorreste...

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Ma nel piano non ci deve stare scritto niente di tutto questo.

CLAUDIA DI PASQUALE Però lei mi ha detto: “Il nostro problema è la carenza di personale”, poi uno legge il vostro piano e non c'è scritto niente sul personale.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Ma non deve esserci scritto nulla, il nostro problema è il personale che non c'è.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, la carenza di personale è la scusa perfetta per chiudere ospedali e pronto soccorsi. Ma poi da chi dipende questa carenza se non dalla stessa politica che oggi allarga le braccia per la loro incapacità di avere visione, programmazione, per via dei tagli. È inutile scrivere il libro dei sogni dove scrivi che costruirai Case di comunità, ospedali, se non sai poi chi metterci dentro. E poi, raschia, raschia, di che cosa stiamo parlando? Di vecchi progetti rispolverati che costano anche molto, molto di più rispetto all’originale. Il nuovo ospedale Erzelli, in provincia di Genova, costava 160 milioni, oggi si parla di ben 405 milioni di euro, di cui 65 finanziati dal Pnrr per un centro di ricerca. Poi sempre a Genova vorrebbero costruire il Nuovo Galliera, se ne parla da oltre vent'anni, nel 2021 è stata anche fatta una anche la gara, è stata bandita una gara, però il progetto originale è rimasto impigliato in ricorsi per via della mancanza di una valutazione d’impatto ambientale. Attendiamo adesso l’esito dell’ultimo ricorso. Insomma, di un nuovo ospedale a La Spezia si parla da oltre 30 anni, hanno fatto in tempo ad arrestare Matteo Messina Denaro. Gli ultimi nuovi ospedali sono stati costruiti negli ultimi 15 anni ad Albenga e a Rapallo. Però l’ultimo ospedale che fa notizia è quello di Bordighera.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Al confine con la Francia si trova la città ligure di Ventimiglia. Qui abitano Adriano e sua sorella Laura. La sera del 21 agosto la madre di 69 anni si è sentita male e a casa è arrivata la guardia medica.

LAURA Aveva incominciato a sudare e ad avere un forte dolore al petto e al braccio sinistro. È venuto un dottore, voleva darci delle gocce di melatonina per farla dormire, perché secondo lui era ansia, tanto che io e mio fratello di questo non eravamo convinti e così abbiamo deciso di portarla al pronto soccorso. Noi volevamo portarla a Sanremo.

ADRIANO Perché a Sanremo? Il dottore mi dice… Perché a Bordighera è chiuso. Nooo, a Bordighera hanno riaperto. Di nuovo… c'è di nuovo il primo soccorso, a Sanremo sarà pieno.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi è il medico della guardia medica a convincervi ad andare a Bordighera.

ADRIANO Me ne ha parlato veramente bene.

CLAUDIA DI PASQUALE VOCE FUORI CAMPO Lo storico ospedale Saint Charles si trova in pieno centro a Bordighera. Un tempo era dotato di pronto soccorso. Ora c'è solo un punto di primo intervento. Ed è proprio qui che, su consiglio della guardia medica, Adriano e Laura hanno portato la madre lo scorso 21 agosto.

CLAUDIA DI PASQUALE Il medico cosa vi ha detto?

LAURA Testuali parole: Io metto nella diagnosi come un problema gastrointestinale. Poi in realtà non è andata così. Lui ha scritto che era un problema osteo-muscolare e secondo lui il cuore era veramente da escludere.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E’ così che la madre di Adriano e Laura quella sera è stata dimessa ed è tornata a casa. Ma due giorni dopo, di mattina, è stata trovata morta a letto. I figli hanno quindi sporto denuncia e la Procura di Imperia ha aperto un'inchiesta.

MARCO NOTO - AVVOCATO Occorre capire da un dolore a una spalla, quindi dolori muscolari, un dolore osseo a una morte… Dove sia l'errore?

CLAUDIA DI PASQUALE E il medico che ha visitato la signora era un medico di pronto soccorso?

MARCO NOTO AVVOCATO Era uno specializzando.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma specializzando in emergenza?

MARCO NOTO AVVOCATO No, in pronto soccorso, no.

CLAUDIA DI PASQUALE E in che cosa si stava specializzando?

MARCO NOTO AVVOCATO A quanto sappiamo noi in urologia.

CLAUDIA DI PASQUALE Questo medico era uno specializzando..

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Non conta nulla. Il PPI di Bordighera è un punto di primo intervento. La norma dice che basta un laureato in medicina, punto. Il fatto che fosse uno specializzando di urologia era un valore aggiunto, in questo caso, perché era di più di un medico semplice.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi andava bene?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Andava bene.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'unico esame fatto quella sera al punto di primo intervento di Bordighera è stato un elettrocardiogramma.

CLAUDIA DI PASQUALE Per escludere che sia un problema al cuore, un elettrocardiogramma è sufficiente?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Un elettrocardiogramma potrebbe non essere sufficiente.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa serve?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Bisognerebbe fare altri esami, tipo per esempio dosare la curva delle troponine.

CLAUDIA DI PASQUALE è proprio il Protocollo che lo dice?

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Il protocollo più.. cioè l'elettrocardiogramma più gli enzimi cardiaci.

CLAUDIA DI PASQUALE Ha fatto solo l'elettrocardiogramma? LAURA Sì, solo l’elettrocardiogramma. Non è stato fatto tutto quello che andava fatto, perché magari no, ma anche magari sì, mia madre si sarebbe potuta salvare.

ADRIANO Io sono andato in un ospedale dove penso che sono lì per salvare le vite. E mi mandano a casa così? In che mani siamo?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nelle mani di un ospedale pubblico che la Regione ha deciso di dare in gestione ai privati. Proprio lo scorso febbraio, infatti, l'Asl ha firmato un accordo con il gruppo GVM del romagnolo Ettore Sansavini, che per gestire l'intero ospedale riceverà circa 15 milioni di euro l'anno.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA È un accordo tra la società GVM e l'ospedale di Bordighera che rimane un ospedale pubblico a gestione privata.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè le mura restano pubbliche…

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Sì, sì, l’ospedale è pubblico.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma la gestione sarà privata..

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Privata..

CLAUDIA DI PASQUALE Diciamo che l'esperienza di Bordighera non è partita benissimo.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Giudicarla dopo due mesi sarebbe quantomeno ingrato.

CLAUDIA DI PASQUALE La signora di 69 anni non c’è più.

ANGELO GRATAROLA - ASSESSORE ALLA SANITA’ DELLA REGIONE LIGURIA Che c'entra quello? Scusi? Ma lei vuol dire che il fatto che sia poi morta a casa dopo due giorni una signora che è passata dal PPI di Bordighera possa in questo modo giustificare il buono o il cattivo funzionamento di un ospedale? Ma non le sembra che sia ingiusto questo?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ingiusto sarebbe anche minimizzare sulla morte di una persona. Sarà la magistratura a verificare eventuali responsabilità sul decesso di una persona che dopo essere stata visitata, è stata dimessa dal Punto di Primo Intervento di Bordighera. Un punto che è stato preso in gestione, dall’agosto del 2023 dalla Gvm, una società privata che fa capo al gruppo Sansavini. Ora ogni Governo che arriva dà la colpa a quello precedente per i tagli alla Sanità. Mai che ce ne fosse uno, però, che imbocchi una strada diversa. Decisamente. Sono del 1948, in Costituzione viene messa la salute come diritto inalienabile della persona. Abbiamo aspettato 30 anni, Tina Anselmi, per restituire il Servizio sanitario nazionale, ma il primo tentativo di erosione, di infiltrazione del privato l’abbiamo col ministro De Lorenzo. Negli anni Novanta trasforma le Usl in aziende e apre alla collaborazione con i privati. Una linea che poi verrà ampliata anche da Rosy Bindi che introdurrà l'intramoenia, cioè la possibilità per i medici pubblici di svolgere l'attività privata all’interno della struttura pubblica. Però dopo 10 anni dall'istituzione del SSN, 1988, Donat Cattin aveva proposto di tagliare questi ospedali con meno di 120 posti letto. Posti letto che poi verranno tagliati da Balduzzi che passerà da una media di 6 posti letto ogni mille persone a 3,7 posti letto ogni 1000. Si sarebbe dovuto però ampliare l’assistenza sul territorio, la medicina territoriale, che è andata però a finire come abbiamo visto. Ecco, la mazzata però arriva col DM 70. Nel 2015 il ministro della salute Lorenzin che quantifica le prestazioni in qualità e anche come numero dei reparti degli ospedali. Quelli che non sono o che non forniscono determinato numero di prestazioni devono essere chiusi. Il risultato è che gli ospedali rimati sono affollati e i pronto soccorso anche. Ora il Governo attuale ha davanti una scelta: o tagliare l’Irpef o finanziare la sanità. Che strada imboccherà? Lo vedremo.

Bancomat di Stato. I tagli continui alla Sanità italiana dal 2010 a oggi. Linkiesta il 10 Agosto 2023

In un decennio gli investimenti si sono ridotti di trentasette miliardi, e gli operatori sono venticinquemila in meno. Tutti i governi hanno scelto di ridurre i finanziamenti, tranne negli anni della pandemia

Da decenni in Italia gli investimenti nel settore sanitario sono in diminuzione, ci sono sempre più interventi per restringere e mai nessuno per allargare le maglie, c’è sempre meno personale e tutti i governi, di qualsiasi colore e composizione, in un modo o nell’altro l’hanno sfuttato come un bancomat di Stato. In dieci anni, dal 2010 al 2020, i tagli ammontano a trentasette miliardi di euro, tra ospedali, medicina territoriale, macchinari e personale – costretto alla fuga da una sanità pubblica che paga poco e fa lavorare male.

I tagli alla Sanità sono stati raccontati dalla Stampa in un articolo di approfondimento che dipinge un quadro cupo in cui la «razionalizzazione della spesa» cambia volto e come niente diventa un «razionamento della spesa».

Non c’è molta differenza, scrive la Stampa, tra governi democristiani, governi di centrodestra e governi centrosinistra: tutti hanno tagliato. Fino alla pandemia, quando i finanziamenti sono temporaneamente risaliti. « Ma, passata la paura del Covid, con il governo Meloni è già cominciata la discesa, che nel 2025 porterà a soli settantacinque miliardi le risorse disponibili al netto dell’inflazione. Nel 2006 erano novanta».

Del resto il bilancio del decennio passato per la sanità è tutto un segno meno. I medici ospedalieri sono quattromimlaottocento in meno, gli infermieri noovemila, i medici di famiglia e le guardie mediche ottomila. Ed è lo stesso con i posti letto – 30.492 in meno – con gli ospedali (centoundici in meno), i pronto soccorso (centotredici in meno). Mentre al contrario il privato convenzionato, quello che spesso lascia al pubblico i malati più complessi e meno redditizi, ha raddoppiato, passando da 445 a 993 strutture che lavorano pagate dalle Regioni.

«Con il perpetuo definanziamento del nostro Servizio sanitario nazionale – scrive la Stampa – non ci si stupisca poi che le liste d’attesa arrivino anche a superare i dodici mesi per una tac o una mammografia, oppure se oltre l’ottanta per cento delle apparecchiature diagnostiche è obsoleto e quindi soggetto ad andare in panne o se gli over 65 assistiti a domicilio non sono nemmeno il tre per cento contro quel dieci per cento indicato come minimo sindacale dallo stesso ministero della Salute».

Non solo sta scomparendo l’immagine di un sistema sanitario nazionale che fornisce cure gratis a tutti i cittadini. Ma anche rispetto alla media europea l’Italia non riesce a tenere il passo: per riallinearci alla spesa degli altri Stati membri dell’Unione europea, secondo l’ultimo rapporto del Crea-Sanità, occorrerebbero circa miliardi di investimenti.

Servirebbe quindi una crescita annua del finanziamento di dieci miliardi per cinque anni, circa, più quanto necessario per garantire la stessa crescita degli altri Paesi europei presi a riferimento, ovvero altri cinque miliardi. Non solo non è una traiettoria così scontata, ma anzi il governo sembra indirizzato sul senso di marcia opposto: lo dicono i numeri della Def, il documento di programmazione economica del governo, che rispetto al Pil segna un taglio degli investimenti in sanità dal 7,4 per cento del 2021 a meno del sei per cento nel 2025. A questo va aggiunto che, secondo le elaborazioni dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani della Cattolica, nel 2025 l’inflazione si sarà mangiata quindici miliardi del fondo sanitario.

Ormai bastano le ferie estive per mandare al tappeto gli ospedali italiani. Roberto Demaio su L'Indipendente il 25 luglio 2023.

Gli ospedali italiani sono in affanno a causa delle carenze di organico che ormai rendono impossibile anche fare fronte alle ferie di medici ed assistenti senza ridurre le capacità di assistenza. È ciò che emerge da una ricerca condotta dalla Federazione dei medici internisti ospedalieri (Fadoi). Con un terzo degli organici in ferie l’attività di assistenza sanitaria è calata del 52,7% e addirittura il 15% degli ambulatori ha chiuso. L’assistenza è in crisi complessivamente nel 56% dei reparti. Per tentare di rimediare quasi la metà dei medici sta aumentando i carichi di lavoro saltando spesso i turni di riposo settimanali. Secondo il presidente Fadoi Francesco Dentali tra le cause ci sarebbe la classificazione a “reparti a bassa intensità”, la quale comporterebbe una minore dotazione di tecnologie e personale. Secondo il presidente della Fondazione Fadoi Dario Manfellotto, l’affanno degli ospedali implicherebbe poi un’ulteriore riduzione di personale nelle medicine interne.

Le ferie valgono per tutti, medici compresi. Ciò che non vale per tutti invece è il fatto di dover rinunciare ai turni di riposo per assicurare che i diritti costituzionali vengano garantiti. In questo caso è il diritto alla salute, così come stabilito dall’articolo 32 della Costituzione, ad essere messo a rischio e garantito solo grazie ai sacrifici di medici e assistenti che rimangono in servizio, rinunciando anche ai giorni di riposo e facendo ore di straordinario. A fornire il quadro della situazione è Fadoi, Federazione che nasce nel 1995 con l’intento di promuovere lo sviluppo delle conoscenze medico-scientifiche e della ricerca clinica nell’ambito della Medicina interna. Secondo l’ultima analisi, condotta in ben 206 Unità ospedaliere di medicina interna sparse in tutte le regioni italiane, il diritto alle ferie di medici e operatori ospedalieri sta comportando un affanno del sistema sanitario nazionale tutt’altro che indifferente: attività ambulatoriali diminuite del 52,7% e nel 56% dei casi la richiesta di assistenza sanitaria è compromessa in modo sensibile. Riduzione degli organici di reparto che varia tra il 21 e il 30% nel 48% dei casi, tra il 30 e il 50% nel 19,4% e tra l’11 e il 20% nel 21,8% dei casi. Il volume di lavoro aumenta nel 42,7% dei casi e questo incide sull’assistenza nel 93,7% dei casi. Ai problemi di igiene e pulizia, già trattati da L’Indipendente, si sommano quindi problemi di turno e di lavoro, che hanno già portato all’abbandono dell’incarico di 15mila medici.

Il presidente di Fadoi, Francesco Dentali, ha dichiarato: «Nelle medicine interne le carenze di organico che vanno ad accentuarsi nel periodo di riposo estivo vanno a rendere più critico il quadro per via del fatto che i nostri reparti sono ancora erroneamente classificati come a “bassa intensità di cura”, il che non riflette in alcun modo la complessità dei pazienti anziani e con pluri-morbilità che abitualmente trattiamo nelle nostre Unità operative, che da sole assorbono un quinto di tutti i ricoveri ospedalieri. E questa anacronistica classificazione delle medicine interne implica già di per sé una minor dotazione di tecnologie, medici e infermieri per posto letto, che diventa esplosiva nel periodo estivo, quando anche il nostro personale usufruisce del meritato riposo».

Sono infatti il 56,8% sul totale i medici che tra giugno e settembre saltano i riposi settimanali per sopperire alla carenza di personale. Il 44,7% è obbligato a coprire i turni notturni con attività aggiuntive mentre il 28% è chiamato a garantire anche i turni in pronto soccorso. Il numero di ore settimanali varia tra le 12 e le 60 nel 56,1% degli ospedali mentre nel 10,5% dei casi si supera quota 90. Secondo il presidente della Fondazione Fadoi Dario Manfellotto, «questo va a tutto discapito dell’attività delle medicine interne, che già dotate di un minor numero di professionisti sanitari in rapporto alla complessità dei pazienti trattati, finiscono così per perdere ulteriori quote di personale, che anziché essere presente in reparto è dato “in prestito” ai pronto soccorso». [di Roberto Demaio]

Estratto dell’articolo per repubblica.it il 28 giugno 2023.

C’è una pista infallibile da seguire per capire cosa succede alla sanità pubblica e di conseguenza a quella privata. Si tratta dell’andamento del rapporto tra il valore della spesa sanitaria, cioè di tutti i costi sostenuti in un anno dalle Regioni per curare i loro cittadini, e quello del Pil. Ebbene la prospettiva per i prossimi anni, certificata dal Mef, è quella di una discesa a livelli bassi, praticamente mai raggiunti. In questo 2023 il rapporto è al 6,7%, nel 2025 e nel 2026 scenderà fino a un misero 6,2%. 

(...) La media europea comunque è sempre rimasta lontana, visto che è all’8%, con Paesi come Francia e Germania che viaggiano addirittura intorno al 10. Insomma, si potrebbe fare molto di più. 

E mentre la spesa pubblica si rivela troppo bassa per dare una svolta a un sistema in difficoltà, ad esempio in quanto ad organici e tempi di risposta nella specialistica, il privato fa affari.

Negli anni, intanto, sono cresciuti i fondi riconosciuti dalle aziende sanitarie ai convenzionati, cioè a cliniche e anche centri diagnostici che lavorano per conto del servizio sanitario. Si tratta di strutture che, sempre citando i dati del Mef, nel 2002 ricevevano 14 miliardi di euro per le loro attività. Nel 2021 sono arrivate a 25 miliardi, ma si veniva da un 2020 che a causa Covid aveva interrotto il trend di crescita. Altrimenti il dato sarebbe stato anche più alto. 

Se si osservano esclusivamente le strutture territoriali accreditate, cioè laboratori, ambulatori, consultori e così via, e non cliniche che fanno ricoveri, nel 2000 rappresentavano il 38,9% dell’offerta sanitaria totale pagata dallo Stato. Venti anni dopo la percentuale è salita al 58%. A dirlo è il rapporto Oasi dell’Università Bocconi. Alcune Regioni hanno visto una enorme esternalizzazione dell’offerta sanitaria: nello stesso arco di tempo il Piemonte è passato dal 23,9% di strutture accreditate sul totale di quelle territoriali al 64%, in Lombardia si è passati dal 34 al 70%, l’Emilia Romagna dal 31 al 57%, in Puglia dal 38 al 63%.

(...)

Secondo un’elaborazione dei dati Istat dell’Osservatorio sui consumi privati in sanità sempre di Bocconi (che tiene conto anche di quanto sborsato per le assicurazioni sanitarie) questa spesa privata valeva 34,4 miliardi di euro nel 2012 e 41 miliardi nel 2021. Cioè, il 20% in più in dieci anni. Il dato è così suddiviso: gli italiani spendono direttamente circa 20 miliardi per la specialistica, compresa l’odontoiatria, altri 15 per comprare farmaci, attrezzature terapeutiche e altri prodotti medicali. 

Poi ci sono quasi 6 miliardi per ricoveri ospedalieri o in strutture di lungodegenza, la voce che incide di meno anche perché pochissimi si possono permettere interventi chirurgici e degenze nel privato. La spesa privata diretta degli italiani racconta di una sanità pubblica che fatica a rispondere a tutti, soprattutto quando si tratta di prestazioni di base. 

I numeri dell’attività privata non riguardano una fascia di italiani, le persone che non possono permettersi di pagare una prestazione privata. Talvolta, di fronte ad attese lunghissime nel pubblico, dovute magari anche all’inappropriatezza di una parte consistente delle prescrizioni, rinunciano. Si tratta, secondo Istat, di circa 2,5 milioni di italiani. Sono gli espulsi dal sistema sanitario.

Estratto dell'articolo di Paolo Russo per “la Stampa” il 27 giugno 2023.

[…] la salute degli italiani è a rischio. Ma non nella stessa misura da Nord a Sud, perché la nostra malandata sanità marcia sempre più a due velocità. A documentarlo sono due rapporti: quello dell'Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane della Cattolica e il rapporto sulle performance regionali del Crea sanità.

I dati dell'OsservaSalute dicono che la mortalità evitabile nel Paese è salita da 63,98 decessi per 100 mila abitanti a 65,53 […]Morti che si sarebbero potute evitare se le malattie si fossero intercettate per tempo con le campagne di screening. Nel periodo 2020-21 il 47% della popolazione target femminile si è sottoposta a screening per il tumore della cervice uterina […] Ma in generale nelle regioni meridionali la quota di donne che si sottopone a screening nell'ambito di programmi organizzati è fra le più basse (34%) […]

La copertura media nazionale dello screening per il tumore del colon-retto è molto lontana dai valori attesi: nel 2020-2021 il 44% della popolazione target riferisce di essersi sottoposta, a scopo preventivo, a uno degli esami per la diagnosi precoce. […] la copertura dello screening per il tumore del colon-retto raggiunge valori più alti fra i residenti a settentrione (67%), ma è significativamente più bassa fra i residenti del Centro (56%), mentre al Sud e nelle isole precipita al 25%. […]

In calo anche le prime visite specialistiche. Nel 2021 ammontano a 23,6 milioni. Nel 2019 erano circa 26,7 milioni. Per quanto riguarda invece le visite specialistiche di controllo, nel 2021 ne sono state erogate 25 milioni e 243 mila; nel 2019 erano circa 32 milioni e 700 mila. In entrambi i casi il calo è più marcato al Sud.

[…] commenta Walter Ricciardi, direttore di OsservaSalute e Ordinario di Igiene alla Cattolica.  […]  «dai dati dell'Osservatorio emerge che le diseguaglianze regionali in termini di assistenza sono aumentate nel tempo, determinando una sempre più forte spaccatura tra cittadini di seria A e di serie B». Ma se il rapporto della Cattolica rimarca il ritardo del Sud sulla prevenzione, quello del Crea sanità mostra il volto di una sanità che in tutti gli aspetti marcia a due velocità.

I risultati delle regioni su appropriatezza delle cure, esiti delle stesse, equità sociale, performance economiche e finanziarie, innovazione, sono state poi analizzate da un panel di 100 esperti ai quali è toccato dare i voti. Tre le promosse con ottimo: Veneto, Trentino e Alto Adige. La promozione la raggiungono anche Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna, Lombardia e Marche. Rimandate in 7: Liguria, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Umbria, Molise, Valle d'Aosta e Abruzzo. Mentre le bocciate sono 6, guarda caso tutte del Sud: Sicilia, Puglia, Sardegna, Campania, Basilicata e Calabria.

Scendendo nel dettaglio, si vede che la percentuale di persone che rinunciano alle cure per motivi economici e liste di attesa è chiaramente più alta nelle regioni meridionali, con Sicilia e Calabria al 7,2%, Puglia e Basilicata al 7,5%, Sardegna addirittura al 12,3%. Fa eccezione la Campania con il 4,7%. Percentuali che scendono tra il 5 e il 6% al Nord, ad eccezione del Piemonte che è al 9,6%.

Stesso discorso per le famiglie che hanno avuto difficoltà ad accedere a servizi come farmacie o pronto soccorso. Al Centro-Sud Campania, Abruzzo, Molise, Sicilia e Puglia sono tutte tra il 9 e il 10%, al Nord le percentuali variano invece tra il 2 e il 5%, salvo il Friuli Venezia Giulia al 6% e la piccola Valle d'Aosta al 7,7%. Eccezioni che confermano la regola di una sanità sempre più spaccata in due.

Antonio Giangrande: Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.

Emergenza Covid e la paralisi della Sanità: altro che dare la colpa ai No Vax. E’ Il fallimento del sistema sanitario.

Baronato, demeritocrazia, austerity ed interessi privati nella gestione di un servizio pubblico sono la causa del fallimento.

Parola d’ordine: austerity e interessi privati. Con questi principii la sanità pubblica è stata ridimensionata e, spesso, data in mano ai privati, sostenuti dai media, dalla politica interessata e dalla finanza.

Il sistema privato accreditato è parte integrante e necessario del sistema sanitario italiano. Ed ha assunto una grande rilevanza in nome dell’austerity. Con l’epidemia il sistema sanitario limitato nel suo agire è al collasso.

Del sistema sanitario italiano fanno parte erogatori sia pubblici sia privati.

Il Sistema privato si distingue in accreditato con il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e non accreditato.

Il primo è parte integrante dell’offerta delle cure garantite dal nostro paese. Il suo obiettivo è di essere complementare all’offerta dei servizi sanitari del pubblico in una logica di partnership istituzionale e di condivisione dei valori fondanti il Ssn: universalità, uguaglianza, equità.

Negli ultimi anni le prestazioni sanitarie private accreditate hanno assunto una rilevanza maggiore. Ma anche quelle non accreditate sono aumentate.

Il contenimento della spesa ha portato inevitabilmente a una contrazione dell’offerta del Ssn.

Il Nord Italia, capofila nell’accreditare al privato la cura pubblica, è stato quello che ha pagato più dazio alla limitazione del servizio di cura ed assistenza.

Invece i media prezzolati e la politica interessata, anziché denunciare l’anomalia costituzionale, parlano e sparlano sempre dei No Vax, incentrando su di loro le pecche del sistema e giustificando con questo ogni indirizzo politico di contrasto: obbligo vaccinale e Green Pass

Gli ospedali top e i peggiori: vi diciamo quali sono e perché. Ecco le pagelle mai rese note. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2023

Le aziende ospedaliere, come tutte le aziende, funzionano bene o male a seconda di come sono gestite. Con una differenza però: le prime gestiscono la salute e gli errori di gestione non sono ammessi. Le cronache ci raccontano di solito i casi eccezionali del tipo: «Molinette, salvata bambina di 5 anni con un trapianto di fegato collegato direttamente al cuore» (11 dicembre 2022); «Policlinico Gemelli, caso di rara complessità: nella stessa seduta, effettuato un bypass coronarico, asportato un tumore renale e rimosso un enorme trombo. Impegnate 3 equipe per 10 ore» (10 febbraio 2023); «Padova, trapiantato un cuore fermo da 20 minuti: prima volta» (15 maggio 2023). Un clamore meritato e rassicurante. Contemporaneamente ci sono gli episodi di malasanità che fanno altrettanto rumore e ci terrorizzano. La quotidianità con cui ci confrontiamo abitualmente da pazienti è fatta, però, soprattutto d’altro: Pronto soccorso, liste d’attesa, esami diagnostici che per essere precisi vanno eseguiti con macchinari sotto i 10 anni. Ed è qui che, tranne rare eccezioni, qualità delle cure e capacità dei manager sono strettamente legate. Vediamo cosa vuol dire.

Quando un ospedale funziona bene

Un’azienda ospedaliera funziona bene quando rispetta requisiti imprescindibili:

1) un Pronto soccorso dove i pazienti non se ne vanno perché non hanno ricevuto entro le 8 ore le cura e l’assistenza necessaria;

2) tempi di attesa che rispettano quanto indicato dalla legge (per esempio l’intervento chirurgico per la protesi d’anca entro 180 giorni e gli interventi per tumore alla mammella, al colon retto e al polmone entro 30 giorni);

3) tassi non elevati di ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza (come l’artrodesi), ricovero dei pazienti nel reparto giusto per il loro problema (per esempio meno ricoveri possibile di pazienti medici in reparti chirurgici), non fare passare troppi giorni dall’ingresso in ospedale per un intervento chirurgico all’intervento chirurgico stesso, capacità di attrarre pazienti da fuori Regione;

4) bilanci e conti in ordine;

5) numero adeguato di medici e infermieri per posto letto;

6) macchinari e apparecchiature non obsolete. 

Le pagelle ai direttori generali

In base a questi indicatori, per la prima volta, è possibile dare una pagella su come sono guidati gli ospedali pubblici: l’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che fa capo al ministero della Salute, ha valutato le performance dei manager di 53 ospedali pubblici, di cui 30 universitari, divisi rispettivamente per chi ha più di 700 posti letto o meno di 700 posti letto. Lo ha fatto come previsto dalla legge di Bilancio del 2019 che le affida il compito di monitorare il raggiungimento degli obiettivi dei direttori generali: «L’Agenas – si legge all’art. 1, comma 513 – realizza (…) un sistema di analisi e monitoraggio delle performance delle aziende sanitarie che segnali, in via preventiva, attraverso un apposito meccanismo di allerta, eventuali e significativi scostamenti relativamente alle componenti economico-gestionale, organizzativa, finanziaria e contabile, clinico-assistenziale, di efficacia clinica e dei processi diagnostico-terapeutici, della qualità, della sicurezza e dell’esito delle cure, nonché dell’equità e della trasparenza dei processi». Esclusi gli Irccs non universitari, i mono-specialistici, le Asl e le aziende territoriali come le Aziende sociosanitarie territoriali (Asst) della Lombardia che dal 2015 hanno incorporato quasi tutti gli ospedali pubblici lombardi: la scelta di escluderli dell’Agenas è motivata dalla necessità di avere dati comparabili tra loro. I risultati che leggerete di seguito sono stati incrociati con i dati del «Piano nazionale esiti», lo strumento con cui Agenas testa annualmente la qualità delle cure, a conferma della corrispondenza tra capacità dei manager e risultati clinico-assistenziali. 

I 9 ospedali al top

Ecco cosa dicono i risultati del primo report presentato a Roma ieri, 24 maggio 2023 (i dati sono disponibili sul portale realizzato sull’argomento da Agenas a questo link ). È stato preso in considerazione il 2021, anno in cui gli ospedali hanno dovuto fare ancora pesantemente i conti con il Covid (in grafica tutti i risultati anche del 2019 che, in assenza della pandemia, vedono performance più alte). Dei 53 ospedali esaminati, 12 hanno un livello di performance basso, 32 medio e solo 9 alto che sono: gli ospedali universitari Senese (Siena), Careggi (Firenze); Pisana (Pisa), Padova, Integrata Verona e Policlinico Sant’Orsola (Bologna); e gli ospedali S. Croce e Carle (Cuneo), Riuniti Marche Nord e Ordine Mauriziano (Torino). 

I 12 ospedali da bollino rosso

Gli ospedali con le performance più basse sono: Cosenza, San Pio (Benevento), Sant’Anna e San Sebastiano (Caserta), Riuniti Villa Sofia Cervello (Palermo) Ospedali Civico Di Cristina Benfratelli (Palermo), Cannizzaro (Catania), San Giovanni Addolorata (Roma), San Camillo Forlanini (Roma); e gli universitari: Luigi Vanvitelli (Napoli), San Giovanni di Dio Ruggi d’Aragona (Salerno), Mater Domini (Catanzaro) e Policlinico Umberto I (Roma). 

Tempi di attesa di interventi per tumori

Questi i 10 ospedali con i più bassi tempi di attesa per gli interventi di tumore (qui il documento ufficiale): Senese, Padova, Pisana, Policlinico Umberto I Roma, Careggi, S. Croce e Carle, Integrata Verona, Policlinico Sant’Orsola, Riuniti Foggia, Sant’Andrea di Roma che però viene indicato di bassa qualità per l’intervento chirurgico al colon. E questi, invece, i 10 ospedali con i tempi di attesa per gli interventi di tumore più lunghi: SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo (Alessandria), San Luigi Gonzaga (Torino), Sant’Anna e San Sebastiano (Caserta), Ospedali Riuniti Bianchi Melacrino Morelli (Reggio Calabria), Policlinico Monserrato (Cagliari), Per l’Emergenza Cannizzaro (Catania), Azienda ospedaliera universitaria Sassari e infine: Giaccone (Palermo), Pugliese e Mater Domini (Catanzaro) dove l’attesa è lunga, ma poi i livelli di cura sono buoni. 

I macchinari più o meno obsoleti

I 10 ospedali con apparecchiature meno obsolete risultano (qui il documento ufficiale): Policlinico San Martino (Genova), Riuniti (Foggia), Policlinico Sant’Orsola (Bologna), Maggiore della Carità (Novara), S. Croce e Carle (Cuneo), San Pio (Benevento), Sant’Andrea (Roma), Cardarelli e Monaldi Dei Colli (Napoli), San Giuseppe Moscati di (Avellino). Gli ultimi tre in Campania che, evidentemente, ha fatto investimenti per rinnovare i macchinari, anche se i tre ospedali hanno ancora livelli scarsi per la cura dei tumori. Gli ospedali, invece, con le apparecchiature più obsolete – e un macchinario vecchio è sempre meno preciso di uno nuovo –: Azienda ospedaliera universitaria di Cagliari, Riuniti Villa Sofia Cervello (Palermo), Papardo (Messina), Per l’Emergenza Cannizzaro (Catania), Azienda ospedaliera universitaria Sassari, Brotzu (Cagliari), Civico di Cristina Benfratelli (Palermo) e, sorprendentemente in questa lista ci sono anche tre ospedali quotati: Mater Domini (Catanzaro), Senese e Policlinico San Matteo di Pavia. 

Durata del ricovero a parità di gravità

C’è poi un indicatore (che tecnicamente si chiama «Indice comparativo di Performance») che permette di valutare a parità di gravità del caso la durata del ricovero (qui il documento ufficiale): più è lungo più vuol dire che l’ospedale ha problemi organizzativi. I migliori: Riuniti Marche Nord, Careggi, Pisana, Pugliese, Maggiore della Carità. I peggiori: S. Giovanni Di Dio Ruggi D’Aragona (Salerno), San Luigi Gonzaga (Orbassano), Civico Di Cristina Benfratelli (Palermo), Cardarelli (Napoli), Umberto I (Roma). 

Le responsabilità della politica

Con tutte le dovute eccezioni, questi risultati sono la prova della capacità organizzativa e di gestione delle risorse, o meno, in capo al direttore generale. Dai dati Agenas risulta, per esempio, che in media una sala operatoria di un ospedale fa solo 400 interventi l’anno, vuol dire poco più di uno al giorno: performance del genere in altre aziende non sarebbero mai accettate. I direttori generali come vengono scelti e da chi per gli ospedali pubblici? Dal 2012 le Regioni possono nominare esclusivamente direttori generali iscritti all’albo nazionale. Requisiti richiesti: laurea, comprovata esperienza dirigenziale di 5 anni nel settore sanitario o di 7 in altri, frequenza di un corso di formazione in materia di sanità pubblica e non aver compiuto i 65 anni di età. Poi ci sono anche le commissioni di esperti che valutano, ma alla fine chi dà le carte è il presidente della Regione in condivisione con il suo assessore alla Sanità. La scelta quindi è politica.

Estratto dell’articolo di Paolo Russo per “la Stampa” il 10 marzo 2023.

Dietro le liste di attesa che si allungano all'infinito ci sono senz'altro la carenza di medici e l'obsolescenza di macchinari come Tac e risonanze. Ma a costringere gli assistiti ad aprire il portafoglio per aggirarle o a rinunciare proprio alle cure c'è anche il fenomeno di Asl e ospedali pubblici che, in barba alle leggi, erogano più prestazioni in modalità «solvente» che in regime Ssn.

 Così le aziende sanitarie risanano i propri bilanci e il 42% dei medici che fa il doppio lavoro rimpinguano per bene lo stipendio, mentre le famiglie italiane sono arrivate a spendere oltre 1.700 euro l'anno per curarsi.

A svelare l'altra faccia dello scandalo liste d'attesa sono due relazioni di oltre 150 pagine ciascuna sulla cosiddetta «intramoenia», l'attività privata che i medici esercitano appunto all'interno delle strutture pubbliche. […]

 Ma di privato se ne fa già tanto anche nel pubblico. Infatti dopo il calo legato al Covid del 2020, la spesa degli assistiti per l'«intramoenia» nel 2021 è salita da 816 milioni a un miliardo e 86 milioni, riportandosi così vicina ai livelli pre-pandemici.

 Ma a scandalizzare è il fatto che in ben 16 regioni su 21 ci sono strutture sanitarie pubbliche che erogano più interventi in forma privata che non in regime mutualistico. Con casi al limite dell'assurdo che spuntano dalle tabelle relegate tra gli allegati della relazione al Parlamento.

All'ospedale Salvatore Paternò in Sicilia gli interventi al cristallino eseguiti privatamente sono qualcosa come 140 volte più numerosi di quelli fatti dal pubblico. Al Cardarelli di Napoli e al Policlinico di Parma le ecografie eseguite privatamente per ostetricia sono due volte tanto quelle eseguite in regime Ssn.

 Al Rummo, in Campania, le visite pneumologiche private sono il 250% di quelle fatte nel pubblico. Di test cardiovascolari da sforzo all'ospedale Moscati in Calabria privatamente se ne fanno il triplo che nel pubblico. E la quota dei solventi supera il 300% all'Arnas Garibaldi in Sicilia.

Le elettromiografie eseguite in forma privata all'ospedale romano San Giovanni sono il doppio di quelle in regime Ssn, mentre 165% è la percentuale di privato per lo stesso esame alla Asl di Biella in Piemonte. All'ospedale umbro di Umbertide è sicuramente più facile ottenere pagando un intervento a orecchio, naso, bocca e gola, visto che la quota di privato è circa il 220% di quella assicurata gratuitamente grazie alle tasse che versiamo per il servizio sanitario nazionale.  […]

Di esempi se ne potrebbero fornire molti altri ed è inutile dire che, mentre nel pubblico - secondo l'ultimo report di Cittadinanzattiva - si arrivano ad attendere fino a 720 giorni per una mammografia, un anno per Tac e risonanze, pagando nel 57% dei casi si aspettano meno di 10 giorni, tra gli 11 e i 30 per le visite specialistiche, tra i 30 e i 60 per gli accertamenti diagnostici in un altro 28% di casi, mentre ad attendere oltre è solo il 14% dei solventi.  […]

Estratto dell’articolo di Patrizia Floder Reitter per “La Verità” il 13 aprile 2023.

Ha dovuto aspettare 15 anni perché la Cassazione ponesse fine alla causa contro la Regione Lazio, stabilendo che l’ospedale pubblico San Giacomo, un intero isolato lungo quasi 500 metri in pieno centro storico a due passi da piazza del Popolo, debba essere riconsegnato alla città di Roma e ai suoi cittadini, secondo la volontà testamentaria del cardinale Antonio Maria Salviati, che lo donò nel 1593.

 Per tutto questo tempo, la duchessa Oliva Salviati ha combattuto con i suoi legali una battaglia durissima, contro quella che definisce una «palude vergognosa» di interessi e speculazioni, perché fosse rispettata la volontà del suo antenato e l’edificio restasse un ospedale pubblico. […]

Partiamo dall’agosto 2008, quando l’allora presidente della Regione Lazio, il piddino Pietro Marrazzo, decide di chiudere l’ospedale.

«Una delibera assurda dopo che, per un anno e mezzo, la Regione aveva finanziato circa 30 milioni di euro di ammodernamento. Ogni due mesi, Marrazzo e la sua giunta inauguravano un reparto, a luglio si svolse la grande cerimonia di conclusione lavori, trenta giorni dopo decidono che la struttura va sacrificata per contenere il deficit sanitario».  […]

Lei seguiva le vicende dell’ospedale?

«No, ero occupata nell’azienda in Toscana. Quando ho saputo che veniva chiuso, mi sono profondamente indignata e da quel momento ogni mio minuto è stato speso per ridare a Roma il suo ospedale».

 Quali furono le sue prime mosse?

«Andai a protestare con i politici. Chiesi perché buttare via denaro per poi chiudere un’eccellenza che era stata data in dono. Massimo D’Alema mi guardò schifato dicendo: “Lei lo sa che la sanità pesa per il 70% sul bilancio regionale?”. Anche quando, l’anno dopo, andai a parlare con il ministro della Salute Ferruccio Fazio, mi disse: “Gli ospedali non servono più. La sanità moderna non ne ha bisogno”. Zingaretti, mi fece chiamare chiedendo che gli presentassi io, un progetto di nuovo ospedale. Intanto, stavo scoprendo che cosa era stato macchinato dall’amministrazione».

Cioè?

«Mentre l’ospedale veniva ammodernato, i tecnici facevano rilievi ovunque. Per l’obiettivo finale, ovvero trasformarlo in un residence di lusso, nulla doveva sfuggire di quei 32.000 metri quadrati dell’immobile».

 Chi era il proprietario dell’ospedale?

«La San.Im, società il cui capitale sociale è interamente posseduto dalla Regione Lazio. Cinque anni prima era stato inserito in un maxi processo di cartolarizzazione per rientrare dal deficit della sanità laziale. Venduto, ma con il divieto di cambiare la destinazione d’uso».

 Invece era quello che si voleva fare.

«Non hanno potuto andare fino in fondo, in quella grossissima speculazione immobiliare da almeno 500 milioni di euro, perché ho detto chiaro che, se non veniva rispettato il vincolo, allora avrei fatto battaglia per tornarne in possesso dell’immobile».

 L’ospedale fu chiuso il 31 ottobre 2008.

«Venne inscenata una protesta dei centri sociali, polizia e carabinieri entrarono e mandarono via tutti i pazienti in ambulanza in altri centri, chiudendo i reparti. Ero all’interno, ho visto tutto. Il giorno dopo, sono arrivati i camion che hanno distrutto attrezzature, macchinari, posti letto perché il San Giacomo non potesse più essere riutilizzato». […]

Estratto dell'articolo di Giacomo Galeazzi per “la Stampa” il 13 aprile 2023.

Lo schiaffo d'Anagni, la saga dei Florio «leoni di Sicilia», Valéry Giscard d'Estaing, la donazione del cardinale Antonio Maria Salviati, la vendita per decreto dei beni pubblici.

Sembra la «ghigliottina» che nel quiz «L'eredità» si abbatte su concetti apparentemente inconciliabili. In realtà bastano due parole a unire tutto: San Giacomo. Dalla villa di famiglia nella pianura pisana a raccontare il clamoroso «scacco al Palazzo» è la duchessa Oliva Salviati, nipote dell'armatore Ignazio Florio e del fondatore della Stampa, Alfredo Frassati.

 La sorte dell'ospedale romano a due passi da piazza del Popolo era segnata. Nonostante il centro della capitale sia congestionato ogni giorno da centinaia di migliaia turisti e lavoratori pendolari (un alveare impazzito per il Giubileo 2025 e il possibile Expo 2030), 15 anni fa una decisione bipartisan […] ha chiuso una struttura pubblica appena ammodernata e che in pandemia avrebbe alleggerito la pressione sui policlinici. La destinazione d'uso (foresteria per parlamentari) azzera con un tratto di penna otto secoli di cure e assistenza.

 A cambiare un finale già scritto, però, è una telefonata e così la palla di neve diventa valanga. Settembre 2008 squilla il cellulare di Oliva Salviati. È sua figlia Polimnia che in via del Corso si imbatte in un picchetto di medici e infermieri che protestano contro la giunta guidata da Piero Marrazzo per aver abbassato la saracinesca del San Giacomo.

«Sono morti tutti gli eredi del cardinale Salviati che lo aveva donato ai malati», spiega un manifestante. Oliva ha un tuffo al cuore: «Sapevo che era una donazione della mia famiglia, come ricorda una grande targa all'ingresso del nosocomio. Mia figlia si precipita agli archivi per cercare i documenti del Cinquecento.

Inizia la mia corsa contro il tempo, un mese per salvare dalla chiusura un ospedale in piena funzione. La sanità nel Lazio è stata poco prima commissariata. Il piano di rientro del governo si fa forte del depotenziamento del San Giacomo. I posti letto tolti all'ospedale pubblico finiscono un mese dopo a un centro privato: il Campus Biomedico». Come è stato possibile? «[…] Da un lato si tagliavano posti letto per poi trasferirli a strutture private, dall'altro si inserivano in organico cento nuovi dipendenti. Tutto per poter dire che il San Giacomo costa troppo e registra utili insufficienti a sostenerlo».

 Intanto Valéry Giscard d'Estaing è in visita a Roma e la sua amica Oliva Salviati lo porta al San Giacomo. L'ex presidente della Repubblica francese definisce «uno scandalo» la soppressione di un ospedale rinnovato due mesi prima e dotato delle più moderne tecnologie. Nelle stesse ore i documenti riannodano i fili della memoria familiare e collettiva. Il cardinale «protettore degli orfani» aveva ricostruito dalle fondamenta nel 1575 l'ospedale edificato dalla famiglia Colonna per farsi perdonare dal Papa l'affronto di Anagni: il 7 settembre 1303 un gruppo di armati agli ordini di Sciarra Colonna cinse d'assedio il palazzo di Bonifacio VIII.

[…]

 Nel giorno della chiusura i centri sociali occupano l'unico reparto non ristrutturato del San Giacomo, tra cariche della polizia e possibilità di salvezza ridotte al lumicino. Fino al colpo di scena. Dal Rinascimento spunta un rescritto in cui l'avo porporato stabilisce l'inalienabilità della struttura «sotto alcun Diritto, sotto alcuno Stato». Prevedendo che lo Stato e il Diritto sarebbero cambiati nei secoli. Dallo Stato Pontificio a quello italiano. E così dopo una causa durata 14 anni contro la Regione Lazio, Oliva Salviati vince il ricorso in Cassazione per la riapertura dell'ospedale che non diventerà il residence dei deputati. «Ho vinto la battaglia più importante della mia vita. Se tutto ha un prezzo, nulla ha più valore. Per una volta il senso d'umanità ha prevalso sul freddo calcolo. Lo spirito del cardinale benefattore soffia ancora».

La sanità pubblica non è più per tutti. Ma ormai nessuno protesta. Già oggi un terzo delle spese sanitarie è a carico dei cittadini. In Lombardia, addirittura, la spesa per ospedali e cliniche private è arrivata a eguagliare quella per le strutture pubbliche. Gloria Riva su L’Espresso il 9 Marzo 2023.

Duecentocinquantamila, secondo la polizia. Un milione per gli organizzatori. Anche in Spagna non c’è mai accordo sulla conta dei manifestanti di piazza, di plaza de Cibeles de Madrid, per la precisione. Al di là dei numeri, le immagini parlano da sé: migliaia di persone — al grido di «la sanidad pública no se vende, se defiende» — a febbraio hanno protestato contro lo smantellamento della sanità pubblica da parte del governo conservatore madrileno, accusato di destinare metà dei fondi pubblici al settore privato e di spogliare gli ospedali statali delle risorse per ridurre le liste d’attesa e assumere nuovo personale.

Anche in Italia il Servizio sanitario nazionale è in crisi, ma da noi nessuno protesta. Eppure ne avremmo tutte le ragioni, se si considera che lo Stato italiano spende in sanità 1.947 euro a persona. Cioè il 6,4 per cento del Pil, proprio come in Spagna. Cifre ben distanti dai modelli con cui ci paragoniamo, Germania o Francia, dove s’investe fra i tre e i quattromila euro a cittadino, arrivando a puntare il dieci per cento del Pil sulla sanità. Sommando i soldi sganciati direttamente dai cittadini per curarsi, Spagna e Portogallo spendono più di noi, mentre l’Italia si avvicina pericolosamente alla Grecia.

In base agli ultimi dati elaborati dall’Osservatorio sui Consumi privati in Sanità dell’Università Bocconi, per colmare questo gap, l’Italia dovrebbe mettere sul piatto della finanziaria 20 miliardi in più per eguagliare Regno Unito e Portogallo, 40 miliardi per essere come Francia e Germania.

Anche l’Ocse ha dichiarato che l’Italia, per garantire la tenuta sociale del Paese, dovrebbe spendere almeno 25 miliardi in più all’anno. A parole tutti difendono l’Ssn («Sono un fervente sostenitore della sanità pubblica», dice il sottosegretario al ministero della Salute, Marcello Gemmato, in quota Fratelli d’Italia), nei fatti quest’anno sono stati appostati due miliardi di euro in più: briciole. Del resto sono 20 anni che la spesa sanitaria è un elettroencefalogramma piatto e gli aumenti coprono soltanto i maggiori costi dell’inflazione.

E allora perché nessuno protesta? Il professor Mario Del Vecchio dell’Università Bocconi allarga le braccia: «È quello che vogliono gli italiani. La collettività ha legittimamente scelto politiche che ridistribuiscono il denaro nelle proprie tasche, come gli 80 euro del bonus Renzi, Quota 100 e altri anticipi pensionistici, il reddito di cittadinanza, il taglio al cuneo fiscale: misure che valgono 42 miliardi l’anno», mostrando come dal ‘12 i trasferimenti economici alle famiglie hanno superato la spesa sanitaria. «Non c’è alcun partito politico che si batta come un leone per destinare più soldi al fondo di sanità pubblica in occasione del tradizionale assalto alla legge finanziaria di fine anno. Ecco perché l’Ssn resta al palo. Quindi, è il momento di dire la verità: con le scarse risorse a disposizione l’Ssn non può offrire un servizio universale. Serve un ridimensionamento delle aspettative e la politica deve ammettere la necessità di un sistema ibrido, pubblico e privato, cercando di governarlo, con un’attenzione esplicita alle iniquità». Nella migliore delle ipotesi, Del Vecchio ipotizza una collaborazione tra pubblico e privato, ma non esclude uno scenario segnato dalla massima disuguaglianza se il privato continuerà a competere e a viaggiare in parallelo al pubblico.

Del resto i cittadini italiani già ora pagano di tasca propria il 75 per cento delle visite specialistiche, il 62 di tac, ecografie e altri accertamenti diagnostici, l’81 dei trattamenti di riabilitazione. Detto altrimenti, solo il 73 per cento della sanità è a carico del pubblico, mentre i cittadini sborsano 678 euro di tasca propria per curarsi. E si tratta di una media: nel dettaglio si passa dagli 849 euro della Lombardia ai 364 euro investiti privatamente dai campani. È forse per via di questo divario che un economista prestato alla politica come Ettore Cinque, già commissario straordinario della sanità campana e oggi assessore al Bilancio, rilancia: «La politica, sul tema del finanziamento all’Ssn, è totalmente assente e distratta. Ma non sta scritto da nessuna parte che nei prossimi anni non sia possibile avviare una grande riforma. Ad esempio, in Campania abbiamo scelto, e sottolineo “scelto”, di aumentare le addizionali regionali per sostenere la sanità pubblica, l’unico mezzo di contrasto alla disuguaglianza».

Un po’ come è stato fatto nel Regno Unito, dove un aumento delle tasse dovrebbe sostenere il National Health Service, o in Francia, dove è stata introdotta una tassa di scopo su alcolici, tabacchi e assicurazioni. In Germania è stato istituto un fondo per le spese assistenziali di lunga degenza, per rispondere alla vera emergenza: gli anziani fragili. L’alternativa, già percorsa da Spagna, Giappone e Francia, è promuovere la sottoscrizione di polizze assicurative. Lo si è fatto anche in Italia, dove è stata introdotta l’obbligatorietà dell’adesione al fondo sanitario integrativo per i metalmeccanici.

Ma in un Paese dove disoccupazione, lavoro nero e precariato sono l’elefante nella stanza, quella soluzione risulta difficile da percorrere. Lo conferma il rapporto di Intesa Sanpaolo Rbm Salute, realizzato con il Censis: il 23 per cento degli italiani ha un piano di sanità integrativa, ma si passa dal 43 per cento di chi vive nel Nord Ovest al nove per cento di chi sta al Sud. «La logica dei fondi assicurativi è quella di raccogliere denaro per pagare le attuali prestazioni sanitarie, ma non è provata l’efficacia di questi strumenti», commenta Luca Baldino, direttore generale dell’assessorato alla Salute della Regione Emilia Romagna che, a proposito dell’adeguatezza dell’Ssn, dice: «È necessario riportare le aspettative dei cittadini a una dimensione di realtà. Ad esempio, molti chiedono di preservare i pronto soccorso sotto casa, quando non c’è il personale adeguato per mantenerli in vita e ne risente la qualità della cura. Ma l’avanzata della sanità privata è spregiudicata: si concentra su attività facili e redditizie, senza alcuna integrazione con il pubblico».

La presenza del privato, specialmente in alcune zone del Paese, è ormai oltremodo diffusa. Non solo del privato-privato, ma anche del privato convenzionato che in molti casi sopperisce alle carenze del pubblico. Per esempio, dal 2019 le Regioni hanno a disposizione mezzo miliardo di euro per modernizzare i sistemi di gestione delle liste d’attesa: semplicemente non li hanno spesi e capita che prenotare una visita in regime di Ssn diventi un’impresa. In alcuni casi per le Regioni è più facile raggiungere gli obiettivi di sanità minima demandando al privato. La Banca dati delle amministrazioni pubbliche dice che lo scorso anno la Lombardia ha conferito alle cliniche private 6,4 dei 22 miliardi di spesa pubblica: più di un terzo è servito per acquistare visite sanitarie, anche da consultori e comunità terapeutiche; i ricoveri ospedalieri sono costati altri 2,1 miliardi e le visite specialistiche 1,1 miliardi. Sempre in Lombardia la spesa per abitante affidata a operatori privati ammontava a 583 euro nel 2012, lievitata oggi a 645 euro. Lo stesso vale per il Lazio: su 12,5 miliardi di budget complessivo, 3,8 sono destinati ai privati. E il peso delle convenzioni private è cresciuto del dieci per cento in dieci anni. Nonostante per le Regioni sia economicamente più vantaggioso sostenere le proprie strutture pubbliche, anziché esternalizzare il servizio alle cliniche, il ricorso a queste ultime è in costante aumento: «Fino a che punto possiamo considerare sostenibile la spesa sanitaria convenzionata?», si domanda Monica Monella, ricercatrice dell’Istat e autrice del saggio “Lombardia e Lazio: quando la sanità pubblica cede il passo ai privati” assieme a Franco Mostacci, dove i due fanno notare come «la progressiva riduzione del personale sanitario, delle strutture pubbliche, delle immobilizzazioni materiali per impianti, macchinari, attrezzature sanitarie e scientifiche fa ritenere che in Italia, ma soprattutto in Lombardia e nel Lazio, siano in corso da diversi anni politiche economiche tese a depotenziare la sanità pubblica, lasciando maggiore spazio agli operatori privati». La vera novità è che in Lombardia si è prossimi al sorpasso: la Regione destina alla sanità pubblica 1.555 euro pro capite, mentre ai privati – sommando agli stanziamenti pubblici i soldi che i cittadini spendono di tasca propria per curarsi — vanno 1.494 euro a persona. La differenza è di solo 61 euro. Proprio come a Madrid, la sanità privata si mangia metà delle risorse. A Madrid, però, si protesta.

Incapacità ed inefficienza.

A Lecce.

A Napoli.

A Roma.

A Terni.

Ad Arezzo.

A Bergamo.

A Lecce.

Muore a 2 anni di encefalite, per i medici era influenza. La piccola era stata per ore in ospedale. L'ira del papà: "Hanno detto che non era nulla di grave". Tiziana Paolocci il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Troppe ore di attesa in ospedale hanno portato Ludovica Puce, due anni e mezzo, verso la morte.

La piccola di Sannicola di Lecce è stata uccisa da una encefalite fulminante causata probabilmente dalla febbre alta. Prima di arrivare nel nosocomio la bimba era anche svenuta. I genitori lo avevano fatto presente ai medici dell'ospedale di Gallipoli, dove era stata accompagnata per i classici sintomi influenzali, ma non è servito a catturare la loro attenzione.

Ora sarà la denuncia querela nei confronti della Asl di Lecce, sporta dall'avvocato Alessandro Greco, ad accertare se ci siano stati ritardi, inadeguatezze nelle cure prestate e se quel decesso si sarebbe potuto evitare. Ludovica era arrivata alle 19 del 26 dicembre in pronto soccorso, ma aveva dovuto aspettare, nonostante i genitori degli altri bambini in attesa di essere visitati fossero disponibili a darle la precedenza, viste le condizioni. Ma, da quanto ha messo nero su bianco la famiglia, la dottoressa di turno, vista la loro impazienza, li avrebbe invitati ad andare direttamente al reparto di Pediatria. Alle 19.45 la piccola è stata accettata come «codice verde»: paziente non grave. Non c'era posto in corsia, così Ludovica è stata fatta stendere su un lettino dell'ambulatorio, assistita solo dalla madre. Il papà dopo circa un'ora e mezza, è entrato spazientito perché la figlia non riceveva assistenza e, sempre secondo la denuncia, i sanitari gli avrebbero detto di riportare Ludovica a casa, trattandosi di influenza, o di trasferirla in auto da Gallipoli all'ospedale Vito Fazzi di Lecce, perché da loro non c'era posto in corsia. La famiglia, a quel punto, ha preteso un'ambulanza, ma il codice restava verde, a quanto riferiscono le cartelle cliniche.

«Peraltro nella stessa cartella clinica il trasferimento a Lecce viene giustificato dall'assenza di posto a Gallipoli», evidenzia l'avvocato Greco. Poco prima delle 22 l'ambulanza, senza medico a bordo, è partita verso il capoluogo salentino e una volta giunta, alle 22.30, la bambina è stata intubata perché non respirava bene, quindi le hanno fatto una Tac e altri esami. Nella notte Ludovica, durante la seconda Tac, ha avuto le convulsioni che hanno reso necessario il ricovero in rianimazione, dove il 29 dicembre è morta. A Lecce le hanno diagnosticato una encefalite fulminante, forse dovuta a un virus influenzale.

Il 24 gennaio i genitori hanno presentato la denuncia per far luce su tutta la vicenda. «Ci hanno detto che non era nulla di grave», si dispera il papà. «Il loro cruccio - spiega l'avvocato - è dovuto proprio alla tempistica e alla mancata individuazione della causa del malessere: due ore di attesa in ospedale senza che venisse fatto nulla, come attestato dai referti medici, qualche dubbio ce lo fanno sorgere».

Morta a 27 anni per una meningite batterica non diagnosticata in 4 diversi ospedali di Roma. Valeria Fioravanti ha iniziato il suo calvario ospedaliero nel giorno di Natale, e da quel momento è stata visitata per ben sette volte, ma nessuno dei medici è riuscito a diagnosticarle il male che l'ha strappata alla sua bimba di 13 mesi. Nel pomeriggio di martedì 10 gennaio, le sono state staccate le macchine e poco dopo Valeria, un'impiegata di Aeroporti di Roma, è spirata, scrive la Repubblica.

Secondo la testimonianza dei genitori della giovane donna, solo quando ormai il virus era in stato avanzato, è arrivata la corretta diagnosi del batterio killer, ma per Valeria non c'erano più cure. Tutto è iniziato il 25 dicembre scorso, quando la donna è stata operata al Campus Biomedico di Roma per un ascesso. Due giorni dopo dalle dimissioni, la 27enne è andata al pronto soccorso del Policlinico Casilino, accusando un forte mal di testa, dolori alla schiena e al collo. La diagnosi è cefalea e Valeria è dimessa con la prescrizione di antinfiammatori.

Il malessere non diminuisce, al contrario peggiora. Nuova visita al Casilino e di nuovo mandato rispedita a casa. Al San Giovanni, la diagnosi è diversa, protrusione alla colonna vertebrale ed una cura di antinfiammatori e collare per una settimana. Niente da fare, le condizioni di Valeria continuano a peggiorare ed il 5 gennaio un nuovo accesso al pronto soccorso, al quarto tentativo, i medici capiscono che si tratta di una meningite batterica. Ma per Valeria, ormai, il tragico destino è scritto e muore.

Pronta la denuncia dei genitori alla procura di Roma: «Dal Casilino è stata praticamente cacciata, le hanno detto che esagerava e hanno minacciato l'intervento delle forze dell'ordine». Ora spetta alla magistratura compiere tutti gli accertamenti per capire cosa sia realmente accaduto a Valeria.

Estratto dell’articolo di Claudio Tadicini per il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2023.

«La superficialità dei medici ha ucciso nostra figlia. Ora vogliamo chiarezza, affinché ciò che le è accaduto non accada anche ad altri bambini». A parlare è Gianluca Puce, padre della bimba di Sannicola (Lecce) morta a fine dicembre scorso, a soli 2 anni e mezzo, per un’encefalite virale.

 Insieme alla moglie Fabiana, si è rivolto alla magistratura per chiedere che sia fatta luce sulla morte della figlia Ludovica, «lasciata sul lettino senza cure per un’ora e mezza, nonostante fosse priva di sensi».

I genitori della piccola non si danno pace. Assistiti dall’avvocato Alessandro Greco, hanno presentato una denuncia-querela alla Procura di Lecce — ipotizzando il reato di responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario — per verificare se la morte di Ludovica sia stata conseguenza di quella che il padre definisce «negligenza e superficialità assoluta» dei medici dell’ospedale di Gallipoli, dove il 26 dicembre scorso accompagnò la figlia esanime e con la febbre a 41 gradi.

 «Appena poche ore prima Ludovica giocava coi cuginetti, poi — racconta Gianluca Puce — nel pomeriggio è sopraggiunta la febbre. Su consiglio del nostro medico le abbiamo dato una Tachipirina, ma la febbre ha continuato a salire finché la bimba non è svenuta tra le mie braccia».

«Giunti al pronto soccorso, ci hanno subito dirottato a quello pediatrico. Non sapevamo dove fosse, così una guardia giurata ha preso in braccio nostra figlia e ci ha fatto strada. C’erano altre due mamme in fila, ma per un quarto d’ora non è entrato né uscito nessuno. Sentivamo solo qualcuno parlare al telefono. Poi la guardia ha bussato con veemenza. Quando la dottoressa si è affacciata, si è messa a gridare: “Rispetti il turno o vada in Pediatria”. E così abbiamo fatto».

Una volta in reparto, dove la bimba sarebbe giunta mezz’ora dopo l’arrivo in ospedale, la piccola — secondo quanto denunciato — non avrebbe ricevuto alcuna cura.

«Nonostante mia figlia fosse ancora priva di sensi, verso le 22.15 mia moglie è stata invitata a riportare a casa la bimba, lasciata sul lettino per un’ora e mezza senza che le facessero neanche una flebo.

 Qualsiasi medico si sarebbe allarmato: mia figlia non dava segni di vita, non aveva alcuna reazione, era completamente collassata. L’hanno “rivalutata” solo quando ho iniziato a fare foto e video: hanno provato a farle una flebo, ma avevano difficoltà a trovare le vene perché mia figlia era ormai disidratata. È stato a quel punto che hanno iniziato a preoccuparsi anche loro».

[…]

 «A Lecce si sono accorti subito della gravità della situazione, mentre a Gallipoli ha regnato la superficialità, sottovalutando le condizioni di mia figlia e comprendendole soltanto dopo due ore e mezza di negligenza assoluta. Mia figlia stava benissimo, ma l’ho persa in pochi giorni […]

A Napoli.

Prima la diagnosi e le cure sbagliate poi la tremenda verità. “Chiederò giustizia per Vincenzo fino alla fine dei miei giorni”, il dramma di Lina che ha visto morire il suo bambino. Rossella Grasso su Il Riformista il 17 Marzo 2023

Chi perde un figlio perde un pezzo d’anima”, dice Lina Pierro, 36 anni, senza riuscire a trattenere le lacrime. La sua casa a Villaricca comune in provincia di Napoli è piena di foto dei suoi bambini, compreso Vincenzo, il suo primogenito che ha perso quando aveva 4 anni e mezzo a causa di un tremendo tumore. “Oggi avrebbe 8 anni Vincenzo, io non lo vedrò mai crescere e non sentirò mai più la sua voce”, dice guardando una delle foto. Lina non è disposta a cedere di un millimetro: “Mio figlio non ha avuto tutte le cure che meritava di avere e io per questo continuerò a combattere finchè vivo”. Mentre racconta al Riformista il suo dramma i sue due bambini di due e 6 anni la accarezzano e le asciugano le lacrime con le manine: “Mamma non piangere più”, le dicono.

Lina di lacrime ne ha già versate tante. Il calvario del suo Vincenzo inizia ad agosto 2019 quando viene preso in cura con la diagnosi di bronchite asmatica e adenoidi. Il primo aprile 2020 gli è stato diagnosticato un linfoma non Hodgkin di tipo t, un terribile tumore del sangue. Il 2 aprile, nemmeno 24 ore dopo, Vincenzo è morto. “Per 8 mesi è stato curato per le adenoidi con cortisone, broncodilatatori,…nulla che servisse a curare per davvero il suo male – continua Lina – La mia rabbia non è dovuta al fatto che mio figlio avesse questo tipo di tumore che è molto aggressivo e probabilmente sarebbe andata ugualmente così. La mia rabbia sta nel fatto che non è stato curato per quello che realmente aveva, non ci abbiamo nemmeno provato”.

Noi in media ogni 15 giorni stavamo al pronto Soccorso perché il bambino stava male – continua la mamma – senza contare le visite private…otorino, pneumologo, pediatra,…e alla fine al pronto soccorso mi hanno detto che dovevo stare tranquilla e mi dovevo affidare. Io così ho fatto”. Lina racconta che portò Vincenzo al pronto soccorso perché affannava e come si fermava si addormentava. Era particolarmente senza forze. “Alla mia insistenza un otorino visitò mio figlio e disse che non aveva nulla, erano solo le adenoidi – continua Lina – ma erano 8 mesi che lo curavamo per quello e non c’erano mai miglioramenti. Un’altra dottoressa mi vide seduta in lacrime e le confidai la mia frustrazione nel vedere mi figlio stare male e io non potevo fare nulla. Lei mi rispose: ‘Ve lo dico non da dottoressa ma da madre che al 99,9% il problema di Vincenzo sono le adenoidi. Non si preoccupi perché le sue ansie si ripercuotono sul bambino”. Ma Lina continuava ad avere seri dubbi su quella diagnosi.

Insieme al marito decise di procedere privatamente e fare delle analisi del sangue e una radiografia. “Ci richiamarono entrambi i centri: ci dissero che Vincenzo aveva un polmone collassato e lo dovevamo portare di corsa al pronto soccorso”. Cinque giorni dopo l’ultimo accesso, Lina e Vincenzo erano nuovamente al Pronto Soccorso. “Dai medici che aumentavano dietro il vetro mentre Vincenzo faceva la tac capii subito che c’era qualcosa che non andava – racconta Lina – La dottoressa mi disse che mio figlio aveva una massa. Pensai subito che se per 8 mesi si erano sbagliati si stavano sbagliando anche in quel momento. Pensai anche che non avevo capito io. Io e Vincenzo abbiamo passato tutta la notte svegli in rianimazione. Appena Vincenzo ha visto l’alba mi ha detto: ‘mamma portami a casa’”. Era la cosa che più desiderava al mondo Lina, tornare a casa, aprire gli occhi e scoprire che era solo un brutto incubo.

Mi dissero che il mio bambino aveva l’1% di possibilità di sopravvivere. Solo 5 giorni prima al 99,9% erano adenoidi – racconta affranta – L’oncologo ci disse che la cosa migliore da fare era fare una biopsia per capire di che tumore si trattasse. Ci fecero firmare un foglio dove c’era scritto che molto probabilmente mio figlio non si sarebbe svegliato dall’anestesia: ormai un polmone era andato e solo una parte di polmone continuava a farlo respirare. Io non ero pronta all’idea che quella sarebbe stata l’ultima volta che vedevo mio figlio. Avrei voluto esserci io al posto suo. Me lo tirarono dalle braccia, non l’ho potuto abbracciare quell’ultima volta, nemmeno un bacio. Quando è uscito dalla biopsia era in coma farmacologico. Alla fine lui è stato seguito da un’equipe di eccellenza. L’ultimo giorno. Vincenzo ha avuto il primo arresto cardiaco alle 10.30 e alle 11 meno cinque è morto. L’ho visto per l’ultima volta a quattro anni e mezzo in una sala di obitorio. Non l’ho mai più potuto portare a casa come avrei voluto”.

Da quel momento è iniziata la battaglia di Lina che vuole verità e giustizia per il suo bambino. “Ho fatto un anno di tribunale mentre ero anche incinta – continua Lina – perché credevo di poter dimostrare la colpa che avevano i dottori. Il giudice li ha assolti perché il fatto non sussiste. Comunque cercherò di andare avanti anche facendomi del male perché mio figlio non può finire nel dimenticatoio o in un fascicolo buttato su una scrivania a prendere polvere. La vita ormai è andata e nessuno me lo restituirà. Però che abbiano almeno il pensiero di dire: potevamo fare qualcosa e non lo abbiamo fatto. Continuerò a lottare per lui perché se non lo faccio non sarei sua mamma”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

A Roma.

Il padre di Valeria Fioravanti, morta a 27 anni per una meningite dopo le visite in tre ospedali: «Ora vogliamo giustizia». Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

Stefano Fioravanti trova la forza di raccontare gli ultimi giorni di vita della figlia e le corse nei diversi ospedali. La verità dall'autopsia che verrà effettuata all'istituto di Medicina legale del Policlinico Umberto I

«Vogliamo la verità, non solo su come Valeria abbia contratto la malattia, ma anche su chi avrebbe dovuta diagnosticarla e invece l’ha mandata via. Vogliamo giustizia per Valeria». Stefano, il papà della 27enne morta per una meningite batterica dopo essere stata visitata e dimessa da tre diversi ospedali romani non ha dubbi.

Andrà fino in fondo alla vicenda di malasanità che purtroppo ha colpito la sua famiglia. Il primo atto è stato presentare una denuncia in questura, e quindi incaricare degli avvocati per esaminare la documentazione clinica, a cui la procura di Roma ha dato seguito aprendo un fascicolo d’inchiesta per omicidio colposo per colpa medica, al momento contro ignoti. Mentre la Regione Lazio «ha disposto un audit per ricostruire quanto accaduto nei diversi ospedali di Roma — ha spiegato l’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato — ma ci vorrà qualche giorno».

Il calvario della giovane Valeria Fioravanti, dipendente di Aeroporti di Roma nel settore della security e da quasi 16 mesi mamma della piccola V., avuta con il compagno Fabrizio, inizia il giorno di Natale. A ripercorrere tutta la vicenda è suo papà: «Valeria aveva scoperto di avere un ascesso, una cisti sotto l’ascella destra, forse causata da un pelo. Era al lavoro quando l’hanno portata al pronto soccorso del Campus Bio-Medico. Lì le hanno praticato un’incisione e le hanno messo dei punti di sutura — ricorda —. Ma due giorni dopo la ferita si è infettata e le faceva male, per questo l’abbiamo portata al Policlinico Casilino (è il 29 dicembre, ndr) dove l’hanno medicata e rimandata a casa».

Ma neanche questo serve per aiutare Valeria. «Una volta tornati, ha cominciato a stare male veramente: mal di testa e alla spalla. Finché non ha cominciato a contorcersi dai dolori. Allora siamo tornati ancora una volta al pronto soccorso, dove mia moglie Tiziana ha insistito per una visita più approfondita. Ma il personale ha minacciato di chiamare i carabinieri. E siamo andati via». Nonostante la prescrizione e l’uso di antinfiammatori, le condizioni della giovane donna continuano a peggiorare, così i familiari il 4 gennaio la portano al pronto soccorso del San Giovanni. «Qui le fanno una tac, da cui si evidenzia una protrusione alla colonna vertebrale — prosegue —. Ancora antinfiammatori e stavolta anche un collare. Ma la mattina dopo Valeria non parlava più e se lo faceva diceva cose senza senso».

L’infezione l’aveva ormai invasa e a poco è valsa l’intuizione della dottoressa del San Giovanni che è arrivata alla diagnosi corretta che, se fatta in modo tempestivo, avrebbe potuto salvare la vita alla giovane. «Tornati per l’ennesima volta in ospedale le hanno fatto un prelievo da far analizzare allo Spallanzani e si è scoperto che era meningite». Il resto è accaduto velocemente e inesorabilmente. «Valeria è stata intubata e trasferita al Gemelli in terapia intensiva. La mattina seguente i medici ci hanno detto che per lei non c’era più niente da fare». Era troppo tardi. Due giorni fa è morta. Quel tempo perso tra una diagnosi errata e un’altra le è stato fatale. Se questa è la verità, potrà emergere dall’esame medico legale che verrà effettuato al Policlinico Umberto I.

A Terni.

L’assurda vicenda della mamma di Terni. Le amputano gambe e braccia per un tumore, ma la diagnosi era sbagliata: Bebe Vio la aiuta con le protesi. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Febbraio 2023

Quella di Anna Leonori, ternana, mamma di due ragazzi di 13 e 17 anni, è una storia incredibile di dolore ma anche di amicizia. Si porta addosso i segni indelebili e irrimediabili di un gravissimo errore che le ha stravolto la vita. Per una diagnosi sbagliata di tumore le sono state amputate gambe e braccia, la sua vita stravolta per sempre. Proprio quando tutto sembrava più buio in suo supporto è arrivata Bebe Vio che l’ha supportata in questo difficilissimo momento: “Imparerai a spostarti da un posto all’altro e nelle valigie avrai solo protesi. Farai una vita che si avvicina il più possibile alla normalità”, le disse. Anna ha postato su Instagram la foto di quel momento: “L’incontro decisivo che ha segnato tutto il mio percorso, grazie Bebe Vio #forza #nuovavita #amputeegirl #incontro”.

Il calvario di Anna è iniziato nel 2014 quando riceve una diagnosi agghiacciante: un tumore maligno che richiede un intervento molto invasivo. A raccontare l’assurda vicenda è il Messaggero. Viene operata a Roma con l’asportazione di utero, ovaie, 40 linfonodi e della vescica sostituita con una ortotopica. Ma il referto dell’esame istologico non rileverà alcuna formazione maligna: non era un tumore. Sono seguiti 4 anni di inferno: infezioni, febbre, dolori lancinanti, ricoveri. Fino al 7 ottobre 2017, quando viene ricoverata in ospedale e operata per una “peritonite acuta generalizzata causata dalla perforazione della neo vescica” che le è stata fatta dopo la diagnosi di tumore. Ne è seguito un mese e mezzo di coma profondo, il trasferimento a Cesena e la terribile necessità di tagliarle gambe e braccia. Ora chiede giustizia: “Sono stata costretta a rivivere il mio calvario, a sottopormi a una visita di fronte ad una quindicina di periti. Tutto questo in attesa di avere giustizia per i danni che ho subito. La cosa che mi addolora è che l’ospedale di Terni, la mia città, in tutti questi anni non mi ha neppure chiamato a visita”, ha raccontato al Messaggero.

La sua vita è distrutta ma ha reagito a tutto grazie alla forza che le hanno dato i suoi figli. Al Messaggero racconta anche i sui avvocati avevano già inviato una richiesta di apertura di sinistro per il risarcimento del danno patito dalla donna. Ma non aveva avuto nessuna risposta da parte delle strutture che hanno avuto in cura la donna. Così i due avvocati si sono dovuti rivolgere al tribunale civile. “I periti concluderanno il loro lavoro a giugno. Non so come andrà a finire questa fase ma so con certezza che non si libereranno di me in alcun modo. Se sarà necessario affronterò anche il processo”, ha detto Anna.

Ma c’è un motivo preciso per il quale Anna non ha intenzione di mollare: “Le costosissime protesi acquistate grazie alle raccolte fondi di associazioni di volontariato e privati mi hanno cambiato la vita – ha raccontato Anna -. So bene che non avrò mai più l’autonomia ma mi hanno restituito un minimo di dignità nella vita di tutti i giorni. La quotidianità è fatta di tante cose, alcune non potrò farle mai più da sola, altre grazie alle protesi sì. Il problema è che si deteriorano e che sono garantite solo per due anni. Non è un capriccio la necessità di avere un risarcimento per quello che ho subito. Vivo ogni giorno con la preoccupazione che si possa rompere un pezzo, cosa che mi costringerebbe a tornare sulla sedia a rotelle”. Anna da un anno utilizza protesi di ultima generazione grazie ai consigli di Bebe Vio la sua vita è migliorata drasticamente ma il riconoscimento del danno subito per lei è fondamentale.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Ad Arezzo.

Estratto da gazzettino.it il 3 marzo 2023.

Pene amputato per un tumore, ma scopre che il cancro non c'era: inchiesta ad Arezzo

Lo choc e l'inchiesta. L'intervento chirurgico è riuscito, l'amputazione del pene, ma il tumore non c'era e così l'urologo è sotto accusa mentre il paziente si ritiene vittima di un gravissimo danno e chiede di essere risarcito. 

 A rischiare il processo, riferisce il «Corriere di Arezzo», è un medico trentenne che il 13 novembre 2018 eseguì all'ospedale San Donato di Arezzo l'operazione chirurgica demolitiva su un uomo, classe 1954, della Valtiberina, che era stato precedentemente visitato in ottobre. Si sospettava una «patologia tumorale al pene» poi smentita dagli esami istologici «tardivi», secondo i legali del paziente, sui tessuti prelevati.

A Bergamo.

Treviglio, la denuncia di un paziente: «Dimesso con un dito ricucito, ma mi usciva un pezzo di osso». L'ospedale: «Seguite le regole». Pietro Tosca su Il Corriere della Sera l’8 aprile 2023.

Il racconto di Francesco Steffanoni, ex consigliere del M5S: dopo un incidente con lo scooter era andato al pronto soccorso della città della Bassa.  In una clinica nel Veronese ha poi scoperto che l'osso della falange era esposto

Francesco Steffanoni con le radiografie della sua mano 

«Al Pronto soccorso dell’ospedale di Treviglio mi hanno suturato un dito ma non si sono accorti che avevo una frattura scomposta e mi hanno lasciato l’osso della falange esposto». Una settimana dopo, Francesco Steffanoni ha il dito steccato ed è ancora scosso. L’ultimo consulto dice che probabilmente non riuscirà a salvare il polpastrello. Consulto che ha avuto in una clinica veronese specializzata nella chirurgia della mano.

Attivista del M5S e di Legambiente

 Steffanoni è un volto noto a Treviglio: è un attivista storico del M5S per il quale è stato capolista alle Comunali del 2022. A inizio anno ha lasciato i grillini ma non è venuto meno il suo impegno pubblico: è presidente del circolo trevigliese di Legambiente e soprattutto è uno degli animatori del Comitato sanità territoriale, gruppo nato per combattere proprio i disservizi del sistema sanitario. 

La mano ferita 

«Sabato — racconta — ero di ritorno da Milano dove ero andato a incontrare la onlus Medicina democratica di cui siamo referenti in città: il 18 ospiteremo Vittorio Agnoletto per parlare appunto delle difficoltà della sanità pubblica. Arrivato a casa ho parcheggiato lo scooter ma è successo un incidente». Il cavalletto non è scattato e la due ruote gli è caduta addosso: «Cercando di trattenerla, la moto mi è finita sull’anulare della mano sinistra. Il polpastrello si è mezzo amputato e perdevo molto sangue».

Al pronto soccorso e il controllo dall'ortopedico: «Tutto a posto»

 Steffanoni è subito andato al Pronto soccorso. «Impazzivo dal dolore — ricorda —. Le fitte erano terribili. Più volte mi hanno somministrato degli antidolorifici». Alle 21.40 è stato dimesso dopo essere stato ricucito con l’avvertenza di tornare domenica per la visita dell’ortopedico. «Così ho fatto — spiega ancora Steffanoni —. Lo specialista mi ha controllato il dito e mi ha detto che tutto era a posto chiedendomi di tornare giovedì. Quando sono andato a casa però mi faceva male e non ero tranquillo». 

Il dolore e la visita in un centro specializzato

Passano 24 ore e lunedì Steffanoni decide di farsi visitare da un centro specializzato: «Dopo che mi hanno visto mi hanno detto che c’era una frattura scomposta alla falange, scoprendo che la punta dell’osso rimaneva esposta. Per ridurre la frattura sono stato operato il giorno stesso in day hospital. Sono sconcertato dall’esperienza che ho vissuto». 

L'Asst: «Codice rosso e amputazione della falange»

L’Asst Bergamo Ovest a cui fa capo il Pronto soccorso ribatte però che il paziente è stato preso in cura correttamente e così ricostruisce l’accaduto: «Il paziente si è autopresentato — scrive l’azienda sanitaria in una nota — e, fatto un triage alle 18.39 con assegnazione del codice rosso, è entrato immediatamente in sala visita dove gli è stato riscontrato un trauma della mano sinistra con amputazione della 1^ falange del 4° dito. Gli è stata somministrata l’antitetanica e sono stati eseguiti gli esami del caso, quindi si è proceduto a suturare la ferita previa anestesia. Si è proceduto poi a eseguire la radiografia della mano e del polso con riscontro di amputazione della porzione distale del 4° dito con distacco parcellare della tuberosità ungueale». 

«Preso in cura correttamente»

La ricostruzione dell’Asst continua precisando che il paziente è stato dimesso in condizioni generali buone, in codice verde, con l’indicazione di ritornare la mattina successiva: «Ha avuto la valutazione specialistica ortopedica — si legge ancora nella nota — e poi gli si è consigliato di ritornare giovedì per la medicazione in ambulatorio ortopedico, dove risulta invece che non si sia presentato».

RSA: Le Case di riposo.

Da open.online martedì 22 agosto 2023.

Esercizio abusivo della professione, abbandono di incapaci e maltrattamento nei confronti di alcuni anziani ricoverati nella Rsa “Noli me Tollere” di Sorso, in provincia di Sassari. Queste le accuse nei confronti di sei persone, iscritte nel registro degli indagati dalla Procura della provincia sarda. 

Nei confronti dell’amministratrice, Maria Franca Lupino, 57 anni, originaria di Castelsardo e residente a Porto Torres, e di una dipendente, Emanuela Gaspa, 49 anni, di Sorso, il giudice ha, inoltre, emesso un provvedimento di sospensione per 12 mesi dall’attività professionale, pubblica e privata, che implichi lo stop alla gestione e contatti con persone anziane o non autosufficienti.

Entrambe sono accusate di maltrattamenti; l’amministratrice, insieme a un’altra dipendente, è indagata anche per abbandono di incapace a seguito della morte di un’ospite con problemi di deglutizione: poteva ingerire solo pasti solidi ed è deceduta il 10 maggio scorso, soffocata dal cibo con cui era stata imboccata dall’assistente, che si era poi allontanata per parlare al cellulare. La causa della morte è stata accertata dall’autopsia. 

Più in generale, l’operazione dei militari ha permesso di smascherare la serie di «continui» e «sistematici» maltrattamenti subiti dagli ospiti della Rsa, ovvero minacce, ingiurie, percosse, pizzicotti, costrizioni fisiche (immobilizzazione mediante legatura alle carrozzine) e condotte omissive dei doveri di solidarietà, nonché – si legge nel comunicato dei carabinieri di Sassari – malfunzionamenti strutturali e carenze igienico-strutturali.

Dopo il blitz dei carabinieri del Nas di sabato 21 agosto, avvenuto al termine di un’articolata attività di indagine svolta dai militari del Nucleo Antisofisticazioni e Sanità attraverso servizi di osservazione e controllo, la struttura è stata inoltre posta sotto sequestro. I 48 anziani della casa di riposo non sono stati trasferiti e la gestione amministrativa della struttura è stata affittata al sindaco di Sorso Fabrizio Demelas.

Ultima fermata ospizio, non luogo dell'addio. Ieri ospizi, oggi Rsa. Ma sempre il luogo della sofferenza e dell'ultimo sguardo. Daniele Abbiati l'8 Luglio 2023 su Il Giornale.

«“O tu che vieni al doloroso ospizio”/ disse Minòs a me quando mi vide,/ lasciando l’atto di cotanto offizio,/ “guarda com’entri e di cui tu ti fide;/ non t’inganni l’ampiezza de l’intrare”./ E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride?/ Non impedir lo suo fatale andare:/ vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare”». Quel «doloroso ospizio» è forse il primo ossimoro presente nella Commedia di Dante. Siamo infatti nel canto V dell’Inferno, dove il figlio di Giove ed Europa sta, mulinando la coda, all’entrata del secondo cerchio, custode burbero e inquietante. Il «doloroso ospizio» è dunque un ospizio inospitale, una casa che è una prigione, la vita che muore. Dante profeta, sui «dolorosi ospizi» di oggi dove tramontano i nostri vecchi? Un tempo li chiamavano proprio così, «ospizi». Poi, tentando di diluire agli ospiti il dolore dell’abbandono con l’acqua fresca della compassione, si passò a «case di riposo», o «pensionati», o «istituti». Dalla metà degli anni Novanta, quando già i nostri vecchi erano più numerosi dei nostri giovani, divennero «Rsa», ovvero «Residenze sanitarie assistenziali». Vi misi piede una sola volta, per far visita a nonna Ester, e spero di non farlo più. No, non vidi gente maltrattata, né sporcizia, né incuria, né squallore. Vidi una residenza dignitosa dove si prestavano cure sanitarie con spirito assistenziale, come da definizione governativa. Ma in quella comunità di solitudini (altro, piccolo, ossimoro) vidi la morte come non l’avevo vista, tanti anni prima, sul volto dei nonni Pierino ed Enrico, composti nei loro letti, o come l’avrei vista su quello di mio padre Silvano, giacente non nel suo letto, però a casa sua. Nonna Esterina, invece, è come se si fosse dissolta nell’aria, un’anima portata via dal vento impetuoso e frettoloso della contabilità di posti e tariffe, domande di pietà e offerte di silenzi.

La tragedia di Milano è tale perché, come nell’inferno dantesco, sono state le fiamme a portar via sei persone. Nel maledetto biennio 2020-21 era stato il virus a banchettare sulle spoglie di migliaia di anziani che in strutture simili avevano trovato (o sperato di trovare) ricovero. Ma lì, tutti i clienti ai quali è rimasto ormai poco da mettere sul tavolo del dare e dell’avere, ogni giorno vivono intimamente una tragedia. La Rsa è un non luogo diverso da quelli descritti, proprio all’inizio degli anni ’90, da Marc Augé.

È l’unico che sta fermo, a meditare su sé stesso. Non partecipa alla corsa contro il tempo caratteristica della società attuale che l’antropologo francese chiama surmodernité, perché sa che il tempo, e molto a breve, l’avrà vinta. La Rsa non è un porto di mare dove chiunque può attraccare per poi ripartire. È una spiaggetta solitaria, una rada nascosta dalle finestre chiuse dalle quali nessuno si affaccia, non avendo più un orizzonte da guardare.

Estratto dell'articolo di open.online.it domenica 9 luglio 2023.

Quasi dieci minuti. Questo il ritardo nell’allarme dell’incendio nella Rsa che ha ucciso sei persone e provocato diversi feriti. A parlarne è oggi il Corriere della Sera. Ne sono trascorsi troppi dalla disperata chiamata arrivata dalla stanza 605 alla reception fino alla prima richiesta d’aiuto al 112. 

Nadia Rossi, 69 anni, una delle due donne morte carbonizzate, urla al telefono: «Al fuoco! Al fuoco!». La chiamata alla custode è arrivata «verso l’una». La prima telefonata ai vigili del fuoco è dell’1.18. All’1.26 arrivano in via dei Cinquecento i primi mezzi dei pompieri. Ma oramai c’è poco da fare. Moriranno le due donne della 605 e quattro degenti rimasti intossicati. 

Ed è proprio sul ritardo nell’allarme che si muove l’inchiesta dei pm Tiziana Siciliano e Maura Ripamonti che nelle prossime ore potrebbe portare ai primi indagati tra personale, tecnici comunali e responsabili della «Proges» che gestisce la Rsa comunale da 14 anni. Sotto al corpo di una delle vittime della 605 è stato trovato, carbonizzato, un pacchetto di sigarette.

Non ci sono dubbi sul fatto che tutto sia partito da una sigaretta fumata in stanza. Ed è proprio sulle sigarette che una parente di uno degli ospiti in una struttura gestita dalla stessa cooperativa lancia l’allarme.

[…]

Vittorio Feltri: indignati per tutto, ma se il nonno brucia se ne fregano. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 luglio 2023

Perdonatemi se insisto, ma qualcuno dovrà pur farlo. Realizziamo campagne di sensibilizzazione per i diritti delle donne e degli omosessuali, marciamo contro la violenza di genere e l’omofobia, ci indigniamo e insorgiamo davanti ad una pacca sul sedere e persino per un fischio, però dei diritti e della condizione degli anziani nel nostro Paese, dove di anno in anno aumentano anche di numero, non si occupa nessuno. Regna l’indifferenza in questo ambito e, quando un vecchio viene ammazzato o si leva di mezzo, quasi sembra che sia un bene, una pensione in meno da pagare.

Nella notte tra il 6 e il 7 luglio scorsi sono morti arrostiti in un rogo e intossicati a causa dei fumi, ovvero nel peggior modo possibile, sei anziani che risiedevano all’interno della “Casa di riposo per coniugi” di via dei Cinquecento a Milano. Altri 160 ospiti della struttura, di cui 81 sono stati ricoverati in ospedale, sono stati tratti in salvo dai vigili del fuoco, altrimenti sarebbero andati incontro alla medesima fine, ovvero sarebbero deceduti carbonizzati. La Rsa in questione è di proprietà del Comune di Milano, gestita dalla cooperativa Proges.

C’è un’indagine in corso, volta ad accertare le responsabilità. Le ipotesi di reato sono omicidio, lesioni colpose plurime e incendio, tra gli indagati anche il direttore del Welfare del Comune, Michele Petrelli, e il responsabile dell’area residenzialità anziani e persone con disabilità, Guido Gandino.

Lo sappiamo tutti: gli incidenti possono capitare. Tuttavia è doveroso chiedersi se questa tragedia avrebbe potuto essere evitata. Cosa non ha funzionato?

Gli impianti di sicurezza erano a norma, incluso quello della rilevazione del fumo? Sembra di no. Nella stanza da cui ha preso origine l’incendio erano presenti materiali che non avrebbero dovuto trovarsi lì. Per di più, quattro mesi prima stava per accadere quanto poi è avvenuto a luglio e pure in quel caso i rilevatori di fumo erano rimasti spenti, insomma non era scattato l’allarme. Per quale ragione, nonostante tale precedente, non è stato compiuto nulla affinché non si presentasse mai più una situazione simile?

Il sindaco Beppe Sala non si è tirato indietro, ha affermato che «se ci saranno responsabilità, chi ha sbagliato, compreso il Comune, dovrà pagare». E ha aggiunto che, per gli interventi di manutenzione della Rsa divorata dalle fiamme, l’amministrazione comunale aveva aperto un bando. Quando? L’anno scorso, addirittura. Sala specifica che si sa - «i tempi della pubblica amministrazione non sono veloci e, del resto, strutture che meritano interventi di manutenzione straordinaria sono tantissime in tutta Italia». Queste considerazioni, però, non costituiscono valide scusanti. Non ci convincono. Stadi fatto che sei anziani hanno perso la vita bruciati vivi o avvelenati dal fumo ed era noto che nella casa di riposo, di proprietà del Comune, non solo gli impianti di rilevazione erano fuori uso da mesi, ma altresì c’era già stato un pericolo di incendio. Possiamo concludere che questo evento terribile poteva e doveva essere evitato. Eppure è stata più forte l’indifferenza rispetto al senso del dovere. L’indifferenza che imperversa nei confronti degli anziani, ritenuti cittadini di serie b, un peso sociale, una zavorra, un impedimento, un rifiuto, qualcosa da dimenticare, da sistemare in un angolo e poi lasciare appassire. Qualche anno addietro fu proposto persino di togliere loro il diritto di voto, quindi il diritto ad essere rappresentati, dunque quello di esistere. Siamo di fronte ad un problema culturale, è la cultura ageista, che discrimina chi è canuto. Quale futuro per una società che maltratta i nonni? 

Cause e responsabilità da accertare. Milano, incendio casa di riposo: gli anziani abbandonati tra le fiamme | “Nessun medico in servizio” e “la direzione sapeva” | I tre fronti dell’indagine per i sei decessi. Redazione su Il Riformista il 10 Luglio 2023 

Due medici si erano dimessi nei mesi scorsi, ma non ne era stato preso ancora uno in sostituzione. Morale della favola, la notte del terribile rogo che ha costretto all’evacuazione completa di tutti gli anziani ospiti della Rsa Casa per Coniugi in via Cinquecento 19 a Milano, non c’era nessun medico in servizio.  “Prima che si verificasse questo episodio ci avevano negato le ferie perché non volevano assumere personale in sostituzione. Adesso ci hanno detto di prendercele data la situazione”. La donna riferisce di essere molto preoccupata perché “non ci hanno mai ascoltati. La direzione era al corrente dei numerosi disagi nella Rsa, ma ci ha sempre detto che la responsabilità è del Comune”.

La denuncia dei dipendenti

Una dipendente della rsa Casa per i Conigi ha denunciato la situazione precaria di un’altra Rsa gestita dalla Cooperativa Sociale Servizi alla Persona Proges, in via Panigarola 14. “Mi auguro che non si ripeta lo stesso errore”, dichiara la donna. “Nella struttura qui vicino la situazione è terribile. Manca il materiale e la manutenzione è inesistente”. Perfino “l’ascensore è rotto da anni”, aggiunge. E anche nella residenza di 7 piani per anziani di via Panigarola “manca il personale”, aggiunge. “Non vogliamo rischiare la nostra vita per andare al lavoro”. La dipendente a causa dell’inagibilità della residenza è stata trasferita, insieme ad alcuni colleghi, nella struttura vicina.

I fronti dell’indagine per l’incendio che ha ucciso sei anziani a Milano

La causa del rogo iniziale, il rispetto delle prescrizioni antincendio e l’attivazione tempestiva dei soccorsi. Sono questi i filoni sui quali si concentrano principalmente le indagini.

Sul primo punto gli inquirenti non sembrano avere dubbi in quanto il fuoco sarebbe partito dalla scintilla dell’accendino o dalle braci di un mozzicone acceso da Laura Blasek, l’86enne rimasta carbonizzata insieme alla compagna di camera della 605 Nadia Rossi, 69 anni. Accertamenti e verifiche, in carico agli investigatori dei Vigili del Fuoco, invece si concentrano sul malfunzionamento dell’impianto di rilevazioni fumi, inattivo almeno dal gennaio 2022.

Estratto dell'articolo di Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera" sabato 8 luglio 2023. 

[…]

Il fumo avvolge subito i corridoi del primo piano, toglie l’ossigeno, soffoca il respiro. Muoiono in sei: Nadia Rossi, 69 anni compiuti due settimane fa; Laura Blasek, romana, 86 anni; Anna Garzia, 85 anni, Loredana Labate di 84, Paola Castoldi, 75 anni e l’unico uomo, Mikhail Duci, 73 anni, nato in Egitto. Tutti ospiti della Rsa «Casa per coniugi» di via dei Cinquecento, al Corvetto. 

L'impianto bloccato

Qui nella prima ondata di Covid c’erano state più di cinquanta vittime e focolai incontrollati. Ora a provocare la strage è il fuoco. Con la complicità dell’uomo: perché l’impianto di rilevazione fumi nelle camere è guasto da più di un anno e sostituito da un «controllo dinamico» di un operatore antincendio. Tutto consentito dalla legge nell’attesa che il Comune — proprietario della struttura — dia il via ai lavori dopo la gara d’appalto. 

Una procedura che però non è bastata a evitare le fiamme. Quelle che si sprigionano nella stanza 605 al primo piano che ospitava Nadia Rossi e Laura Blasek. Entrambe avevano patologie invalidanti. Sono morte uccise dal fuoco e dal calore. I loro corpi sono stati estratti quando ormai era mattina. Gli altri sono deceduti a causa del fumo che ha invaso i corridoi della Rsa. Mentre un 62enne lotta per la vita al Policlinico in condizioni disperate. In totale i feriti sono 81: 14 sono gravi sparsi su quindici ospedali di mezza Lombardia. 

L'innesco

Le fiamme si sono innescate nella stanza 605 ma non si sono estese ad altre aree della struttura. Non ci sono dubbi sulla causa accidentale. Sembra che tutto sia partito da una sigaretta, fumata dalla 69enne. Poi le fiamme hanno lentamente avvolto materassi e coperte, sprigionando un fumo denso e soffocante. Fino ad arrivare a una bombola d’ossigeno che salta in aria e il gas che fa da «accelerante» all’incendio e avvolge quasi ogni cosa. Un testimone racconterà poi alla polizia di aver sentito un forte colpo prima di notare il fumo.

L'allarme

La signora Laura è nel letto a fianco si sveglia e si accorge di tutto. Sono pochi drammatici secondi. È inferma nel letto e nonostante i suoi 86 anni riesce disperatamente ad afferrare il telefono. Alza la cornetta e si collega con la reception all’ingresso: «Aiuto». Poi più niente. È dalla portineria che parte la prima chiamata al numero unico d’emergenza. Sono le 01.18. Il custode parla di un incendio nella struttura, la voce è concitata. Viene avvertito il tecnico dell’antincendio che però non s’è accorto di nulla. 

In quel momento oltre al custode ci sono sei operatori: cinque Oss e un infermiere. Quanti ne ha previsti la direzione sanitaria per la copertura dei turni notturni per accudire 173 degenti distribuiti su tre piani. Da fuori non ci sono fiamme né fumo. Si vede solo un bagliore dalle finestre del primo piano. Ma l’aria puzza di plastica e cavi bruciati, stringe la gola. Le scale si stanno riempiendo di fumo.

Il primo intervento

Alle 01.26 — otto minuti dopo — arriva la prima squadra dei pompieri. La caserma di piazzale Cuoco è lontana solo due chilometri e mezzo. È una fortuna perché il bilancio delle vittime poteva essere ancora più pesante. I pompieri salgono con i respiratori ma anche senza, perché c’è da fare in fretta, c’è da mettere in salvo un intero piano. Il fuoco nella 605 viene spento in meno di una manciata di minuti. Le due donne ormai sono senza scampo. Le altre vittime muoiono soffocate dal fumo, nelle stanze e nei corridoi. Via dei Cinquecento e l’intero Corvetto si riempiono di ambulanze, macchine della polizia e mezzi dei pompieri. Verranno evacuate più di cento persone.

I vicini in strada

«Vedevo i vecchietti alle finestre, le stanze piene di fumo con gli stracci sulla faccia che aspettavano che qualcuno andasse a salvarli», racconta la signora Lucia Guaragni, che abita nel palazzo di fronte. La gente delle case popolari scende in strada, porta acqua e coperte. Le ambulanze corrono verso gli ospedali, senza sosta. Vengono chiamati anche i bus dell’Atm per trasportare via gli sfollati in altre Rsa. All’angolo della strada si decide di creare un’area protetta a cielo aperto: una lunga fila di carrozzelle e le sedie prese dal refettorio. Si radunano gli anziani evacuati. Parte la conta dei feriti e vengono allertate le strutture di tutta la provincia. 

Prime indagini

C’è il sole della prima alba, invece, quando alle cinque e mezza inizia il sopralluogo degli investigatori. I primi pompieri intervenuti parlano di un possibile corto circuito. «Le fiamme hanno interessato una sola stanza», dice il sindaco Beppe Sala che alle sette arriva in via dei Cinquecento. Un’ora più tardi tocca al sopralluogo del procuratore Marcello Viola con l’aggiunto Tiziana Siciliano che coordina il dipartimento Tutela salute: «Escludiamo il dolo. Ma servirà tempo per capire cosa è successo».

La foto salva

I primi esami dei vigili del fuoco di Milano, diretti dal comandante Nicola Micele, dicono che il rogo si è propagato da uno dei due letti. Uno è come liquefatto. L’altro quasi integro. Come è solo danneggiato un comodino di legno. Sopra c’è una foto di Padre Pio, intatta. La pista della sigaretta sembra sempre più concreta. La procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo plurimo, per ora senza indagati. Nei prossimi giorni potrebbero essere iscritti i nomi dei responsabili della Rsa, del tecnico antincendio e del personale in servizio quella notte. Alla fine si decide di evacuare tutta la struttura: troppi rischi con l’impianto antincendio fuori uso.

Milano: la tragedia della Rsa e l’allarme fuori uso. Angelo Vitolo su L'Identità il 7 Luglio 2023 

Il via dell’incendio intorno all’una di notte, in una stanza al primo piano. Quella dove i vigili del fuoco hanno rinvenuto le prime due vittime. L’innesco delle fiamme da un letto: ancora ignota la natura dei primi focolai. Da quel momento, la Rsa Casa dei coniugi di via dei 500 a Milano che ospitava circa 170 persone si è trasformata in una camera a gas, per l’enorme quantità di fumo che ha invaso ogni ambiente e che ha provocato, secondo una ricostruzione apparsa subito rivestita dai toni della tragedia, altri quattro decessi. Immediato l’allarme, a cura di un dipendente della struttura. Immediati gli interventi di vigili del fuoco e forze dell’ordine. Per i soccorritori una totale emergenza, con centinaia di pazienti, la maggior parte dei quali allettati, trasportati all’esterno a mano, su teli o lenzuola. Una lunga catena di uomini per combattere il trascorrere del tempo conducendo al riparo i sopravvissuti.

Alla fine circa ottanta subito ricoverati in varie strutture sanitarie del capoluogo lombardo, due di loro in gravi condizioni. Immediati pure i messaggi di cordoglio del Governo, della Regione e del Comune. Con l’amministrazione Sala che già si metteva al lavoro per un piano di ricollocazione che intervenga almeno sulla sessantina di ricoverati in codice verde, quelli che potranno essere ospitati in altre strutture cittadine.

A seguire – mentre venivano avviati i rilievi della polizia scientifica coordinati dalla magistratura, con il contributo dei vigili del fuoco in forze impegnati sul posto anche per la messa in sicurezza dell’immobile – l’ufficialità della posizione dei gestori della struttura. “Proges è impegnata con tutte le sue persone a supportare i soccorritori, che ringraziamo per la loro dedizione, e le autorità nell’accertamento della dinamica dell’evento prestando loro la massima collaborazione”: così Giancarlo Anghinolfi, dg della società cooperativa che gestisce la Rsa. Che ha poi garantito ai sopravvissuti “tutta l’assistenza per il pronto rientro dall’ospedale e la sistemazione temporanea in altre strutture gestite dalla nostra società cooperativa”.

Ferma e decisa, subito pervenuta dal Quirinale, la reazione del Capo dello Stato con un messaggio inviato dal presidente Sergio Mattarella al primo cittadino di Milano. A Sala “il cordoglio per le vittime”, precisando che “Mattarella ha espresso vicinanza e solidarietà ai feriti e ai soccorritori, augurandosi che venga ben chiarita la dinamica dell’accaduto”. Una domanda che rappresenta l’assillo finale della giornata, per gli investigatori e per l’opinione pubblica, anche perché in serata si è diffusa la notizia che l’impianto di rilevazione fumi era fuori uso da qualche giorno.

Nadia e Laura, vicine di letto carbonizzate nella stanza 605. Le due donne avevano 69 e 86 anni. Uccise dal fumo le altre 4 vittime. L'attesa dei parenti per avere notizie. Maria Sorbi l'8 Luglio 2023 su Il Giornale.

Quando finalmente è arrivato il loro turno e la domanda per entrare in Rsa è stata accettata, molte di loro si sono sentite sollevate. In fondo non era male avere un'amica con cui chiacchierare in stanza e un po' di aiuto per alzarsi, mangiare e lavarsi. Mai, mai, avrebbero potuto immaginare un epilogo del genere. Sapevano che avrebbero passato gli ultimi giorni della loro vita in quell'istituto ma come fai a pensare di morire carbonizzato nel letto. Proprio nel luogo che ti deve proteggere.

L'incendio è divampato nella stanza 605 del nucleo 6 della casa di riposo. E ha colto nel sonno Nadia Rossi, milanese di 69 anni, e Laura Blasek, 86 anni e originaria di Roma, vicine di letto, che non hanno potuto reagire in alcun modo e sono state divorate dal rogo.

Il fumo che ha invaso il corridoio e le altre camere ha poi ucciso altre quattro persone: si tratta di Paola Castoldi, 75 anni di Milano, Loredana Labate, 84 anni, Anna Garzia, 85 anni, e Mikhail Duci, 73 anni.

I loro nomi sono stati identificati incrociando i nominativi degli ospiti della residenza per anziani e quelli degli oltre 80 ricoverati in 15 diversi ospedali di Milano.

Prima di diffondere le loro generalità, la questura si è accertata di aver informato tutti i familiari in modo che nessuno potesse venire a saperlo direttamente dai giornali. Tuttavia in un caso non è stato possibile rintracciare nessuno, perché l'ospite risultava sola.

Il bilancio è tragico ma sono tutti consapevoli che poteva essere ancor più impietoso. Degli 80 pazienti ricoverati in ospedale, due sono stati trasportati in codice rosso (uno al Policlinico, l'altro al San Raffaele). Gli altri sono in cura negli altri ospedali di Milano e della zona. Qualcuno ha avuto i riflessi pronti e non appena ha sentito le urla e l'odore del fumo ha spaccato il vetri delle finestre o ha inzuppato d'acqua gli asciugamani per farli mettere davanti alla bocca degli amici. E probabilmente ha salvato la vita a qualcuno di loro.

I familiari degli anziani della Casa dei coniugi, allarmati dalle notizie sull'incendio, ieri mattina si sono precipitati davanti alla struttura, transennata, e un addetto si è avvicinato loro prendendo i nomi e appuntandoli su un registro. Quindi, dopo aver chiesto informazioni all'interno, l'addetto è uscito per riferire le condizioni dei parenti, uno per uno. Quando ha riferito che le condizioni sono buone, i familiari sono andati via visibilmente sollevati, come è successo a padre e figlia arrivati insieme davanti alla struttura del quartiere Corvetto. A loro è stato spiegato che saranno avvertiti quando potranno vedere la loro parente. Al momento è vietato entrare e gli ospiti sono stati trasferiti per ragioni di sicurezza. Oggi alle 17,30 nella chiesa di San Michele Arcangelo e Santa Rita, in piazza Gabriele Rosa, l'arcivescovo Mario Delpini presiederà la recita di un rosario per le vittime.

Sarà il momento del dolore. Di un dolore cumulato a un'altra sofferenza. La casa di riposo durante la pandemia ha perso 50 ospiti, uccisi dal virus. E ora si trova a rivivere un nuovo incubo. Che per alcuni poteva anche essere evitato. L'incidente è lo spunto per tornare a chiedere il censimento prima e la riforma poi per le Rsa.

Ma il dibattito verrà rimandato dopo i funerali dopo le lacrime. Quando anche gli altri ospiti torneranno alla loro tiepida quotidianità.

Rogo alla Rsa, imbarazzo Sala. "Errori del Comune? Pagherà". Impianto fermo da un anno ma il bando è ancora aperto. Scontro tra il sindaco e il gestore sul numero degli addetti. Chiara Campo il 9 Luglio 2023 su Il Giornale.

«Se ci saranno responsabilità, chi ha sbagliato pagherà, compreso il Comune». Il giorno dopo il rogo alla «Casa per Coniugi» di via dei Cinquecento a Milano in cui sono morti sei anziani tra i 69 e gli 84 anni, il sindaco Beppe Sala ieri mattina è tornato sul luogo della tragedia. E ha corretto il tiro. A poche ore dall'incendio scoppiato venerdì notte, con 151 ospiti portati al sicuro quasi uno a uno a braccia da vigili del fuoco e operatori, aveva rimarcato che la Rsa «è una struttura del Comune ma data in gestione ai privati da tanti anni». Una presa di distanza criticata dal centrodestra, che ha già chiesto a Sala di riferire in Consiglio comunale domani sulle anomalie nei sistemi di sicurezza. L'impianto antincendio era fuori uso da oltre un anno, l'immobile è di proprietà comunale. Nonni morti per colpa della burocrazia? Il 29 dicembre scorso la giunta aveva approvato una delibera da un milione di euro per «interventi di manutenzione straordinaria degli impianti tecnologici delle Rsa comunali», la gara d'appalto è rimasta aperta dal 2 al 16 maggio ma le procedure sono ancora in corso. «Il bando era aperto da tempo - conferma Sala - e non è un mistero che i tempi della pubblica amministrazione non sono veloci e che le strutture che meritano interventi di manutenzione straordinaria in Italia sono tantissime». La gara si è chiusa «il 19 giugno, la commissione stava esaminando le offerte. C'entra anche il modo in cui si fanno le gare, avevamo già aggiudicato ma è scattata un'interdittiva antimafia, l'impresa è stata giudicata inadatta, a volte succede». Nel frattempo «il gestore doveva vigilare. Non è nel mio stile fare illazioni, chiarirà la magistratura. Doveva esserci una vigilanza notturna. Ora, perché la società che garantisce la gestione di questo immobile non abbia fatto sufficientemente bene non sta a me dirlo, ci sono indagini in corso». Chi ha sbagliato pagherà «compreso il Comune. Rimane il fatto che sei persone sono morte, una tragedia». E tira in ballo il Pnrr, «forse più che pensare a grandi opere bisognerebbe pensare a mettere in sicurezza case di riposo e di edilizia popolare». Dichiarerà lutto cittadino il giorno delle esequie.

Sta di fatto che il materasso della stanza 605 da cui sono divampate le fiamme a causa di una sigaretta, si è liquefatto rapidamente (con una velocità di combustione che lascia perplessi gli inquirenti, saranno verificati i materiali di tutti i letti). E che l'impianto antifumo fosse guasto era scritto da martedì anche sui muri: la cooperativa Proges che gestisce la Rsa dal 2009 aveva appeso volantini che certificavano «problematiche agli impianti» e informavano che ogni notte sarebbe stato presente un addetto di un'azienda specializzata nella lotta antincendio ad alto rischio. Un piano B fino ai lavori per il nuovo impianto, come stabilito tra gestore e Comune. La carenza di personale? È stata denunciata anche da sindacati e dipendenti. Proges ieri ha precisato che le persone in servizio al momento del rogo erano sette (per 159 ospiti). Cinque operatori sociosanitari, un infermiere e un custode, «le presenze in tutte le strutture di Proges rispettano le soglie di minutaggio previste dalla Regione Lombardia e dai contratti che regolano la gestione delle strutture». Conferma la presenza «un addetto antincendio»in attesa del ripristino dell'impianto antifumo», e agli Oss «sono stati somministrati corsi antincendio straordinari per garantire persone formate in ogni turno». Le «dotazioni antincendio «erano a norma», estintori e porte tagliafuoco. Il minutaggio è il meccanismo con cui viene calcolato per ogni paziente quanti minuti ogni operatore debba spendere per assisterlo. In Lombardia lo standard minimo è di 911 minuti a testa alla settimana, circa 130 minuti al giorno. Il sindacato Cub indirà uno sciopero dei lavoratori delle Rsa per «ribadire le denunce inascoltate rispetto alla carenza di controlli e sicurezza nelle rsa. Molto non funziona nel sistema di gestione dato in appalto a coop che puntano al risparmio». Chiedono all'assessore regionale al Welfare Guido Bertolaso «un intervento per evitate future tragedie». Per la Cgil Milano «vanno cambiate le regole per avere più addetti, minutaggi troppo bassi».

(ANSA l'8 giugno 2023) - Umiliazioni, maltrattamenti, minacce e violenze: è quanto avveniva in una struttura per anziani del quartiere Chiaia di Napoli dove i Carabinieri hanno arrestato sette operatori sociosanitari (oss) accusati, in concorso fra loro, di maltrattamenti continuati e pluriaggravati in danno di persone affidate alla loro cura e vigilanza.

I carabinieri della compagnia Napoli centro supportati dai colleghi del Nil e del Nas stanno effettuando perquisizioni e accertamenti urgenti sullo stato dei luoghi e delle persone nella struttura per anziani che si trova al corso Vittorio Emanuele 656. Sul posto anche personale dell'Asl e i carabinieri della sezione rilievi del Comando provinciale di Napoli.

Secondo quanto emerso dalle indagini dei militari dell'Arma della Stazione di Napoli Chiaia, coordinate dalla IV sezione della Procura di Napoli ('Violenza di genere e tutela delle fasce deboli della popolazione', coordinata dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone) sono emerse reiterate e quotidiane condotte di umiliazione, minaccia, grave violenza fisica e psicologica nonché molteplici episodi di deliberata indifferenza rispetto agli elementari bisogni di assistenza ai pazienti, di età compresa tra gli 80 ed i 100 anni. 

Due indagati sono stati chiusi nel carcere di Poggioreale, una donna nel carcere di Pozzuoli, mentre ai restanti quattro sono stati applicati gli arresti domiciliari. Tre avrebbero indebitamente percepito il reddito di cittadinanza: uno in forma diretta i restanti due in maniera indiretta.

I carabinieri e i magistrati della IV sezione della Procura di Napoli, coordinata dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone, stanno facendo ulteriori approfondimenti per accertare quali siano state le cause del decesso di due anziani deceduti nella "Casa di Nonna Rosa" di Napoli. Oggi i militari della Stazione Chiaia hanno arrestato sette operatori di quella struttura accusati, in concorso fra loro, di maltrattamenti continuati e pluriaggravati in danno di persone affidate alla loro cura e vigilanza.

Le indagini hanno consentito di documentare - anche attraverso riprese video definite raccapriccianti - l'orrore a cui gli anziani venivano sottoposti. Uno dei due vecchietti deceduti era affetto da una patologia che gli impediva di nutrirsi a sufficienza. Ciononostante alcuni degli indagati hanno continuato a vessarlo e a urlargli contro per costringerlo ad alimentarsi, fino al giorno in cui si è reso necessario il suo ricovero in ospedale. 

"Devi andare in bagno? Prima della partita...". Non voleva perdersi nemmeno un attimo dell'incontro di serie A tra Empoli e Napoli uno dei sette operatori socio sanitari arrestati dai carabinieri a Napoli al termine di indagini coordinate dalla sezione "fasce deboli" della Procura partenopea per maltrattamenti nei confronti di anziani, tra cui una di 100 anni, ospitati nella "Casa di Nonna Rosa" a Napoli.

Lo si evince da una registrazione audio agli atti risalente al 25 febbraio scorso. "Devi andare in bagno?" chiede ancora l'operatore socio sanitario ma la risposta dell'anziano - "dopo... dai" - scatena la sua reazione: "...ora, o dopo non te ne venire che devi andare nel bagno... se devi andare in bagno ti devi muovere...". L'anziano a cui fa riferimento la registrazione - deceduto il successivo 26 marzo - è uno dei due casi sui quali sono in corso ulteriori approfondimenti investigativi. L'altro riguarda un ospite della struttura deceduto il primo marzo 2023.

Lo scandalo delle Rsa pugliesi: Il 78% delle strutture è irregolare. I dati della Regione: verifiche a rilento, le Asl danno l’ok anche quando non si può. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2023

 In Puglia ci sono 359 strutture private che si occupano di anziani e disabili e che, in base alla legge, dovrebbero dimostrare di possedere i requisiti necessari a svolgere una funzione così delicata per conto del servizio sanitario pubblico: dalla dotazione di personale all’idoneità delle strutture. Dopo il riordino con cui nel 2019 è stato risistemato il settore, queste strutture vanno tutte ricontrollate affinché la Regione possa procedere al rilascio delle autorizzazioni e degli accreditamenti definitivi. Ma in quattro anni le Asl sono riuscite a effettuare soltanto 212 ispezioni su 359 visite finalizzate alla conferma dell’autorizzazione (e 88 su 251 finalizzate all’accreditamento), e i risultati sono sconcertanti: il 78% delle strutture non è in regola. Con picchi che in alcune province (Taranto) toccano il 100%...

Morti sospette nell'hospice di Torremaggiore: inchiesta choc della Procura. Si indaga per omicidio volontario. Qualcuno potrebbe aver somministrato un farmaco, causa dei decessi: riesumate 16 salme. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Aprile 2023.

Sedici morti sospette nell'hospice di Torremaggiore. E si fa strada l'ipotesi che a causare quei decessi sia stato un dipendente in servizio nella struttura, ma non per errore.

La Procura di Foggia, che sta indagando per omicidio volontario, ha disposto la riesumazione dei corpi di 16 pazienti ricoverati e morti nell’hospice di Torremaggiore (Foggia) tra il 14 novembre 2022 e il 16 febbraio 2023. Troppi in appena quattro mesi.

L’ipotesi che si fa strada è che i degenti siano morti dopo la somministrazione di un farmaco a base di Midazolam.

La Procura ha già disposto - le indagini sono coordinate dal procuratore Ludovico Vaccaro e dalla pm Antonella Giampetruzzi - l’autopsia e l'esame tossicologico. Si indaga per omicidio volontario a carico - come detto - di un dipendente in servizio proprio nel periodo in cui si sono verificati i decessi.

Le prime riesumazioni risalgono a lunedì, 24 aprile, quando sono state prelevate le prime 5 salme. Altre ce ne saranno il 2 e il 5 maggio prossimi. Bisognerà accertare - le autopsie si svolgeranno nell'ospedale di San Severo - l'effettiva presenza del farmaco sotto accusa e stabilire se possa essere causa di morte. I medici incaricati avranno 90 giorni di tempo per depositare le perizie. 

Una notizia che ha immediatamente determinato la reazione della Asl foggiana, la quale si affida all'operato della magistratura per la verità dei fatti. «Siamo fiduciosi nell’operato della Magistratura alla quale, come di consueto, abbiamo offerto ed offriamo la più completa disponibilità  - dice in una nota - anche al fine della ricerca della verità per il bene della collettività e delle famiglie coinvolte nel caso». La Asl, è stato specificato, «ha in corso tutte le procedure utili alla salvaguardia di pazienti e dipendenti». 

Gli anziani non autosufficienti sono dimenticati del Servizio Sanitario Nazionale. Sono 3,9 milioni, in crescita costante, ma nessuno si occupa di loro: sopravvivono fra i rincari delle Rsa e l’assenza di cure domiciliari. Per chi se lo può permettere c’è la badante, che in metà dei casi è in nero. Gloria Riva su L’Espresso l’1 marzo 2023.

Soli, stesi in un letto a fissare il soffitto con addosso lo stesso stracolmo pannolone. L’abbandono e la trascuratezza igienica sono il sottofondo di una sinfonia di degrado e irregolarità - fatta di abusi, urla, farmaci scaduti, soprusi di varia natura -, registrata dagli ispettori dei Nas in una recente indagine condotta su 607 residenze sociosanitarie per anziani, Rsa: irregolare una su quattro, sei sono state chiuse. Contemporaneamente le intercettazioni ambientali alla Rsa Don Uva di Foggia mettono in luce abusi e violenze su anziani indifesi, molti affetti da demenza: percosse, minacce del tipo «Ti infilo il coltello in gola», «Ti sparo», quotidiane molestie anche sessuali sui pazienti. E a Latina, la Procura di Velletri ha scoperto che la titolare di una Residenza Sanitaria Assistenziale, approfittando dell'infermità mentale di alcuni, riscuoteva per loro la pensione.

La terza età, per chi l’affronta non esattamente nel pieno delle proprie capacità fisiche e mentali, rischia di essere un calvario, per sé e per i “caregiver”, cioè per chi sta loro accanto. Nel silenzio più totale. Perché il tema fa rumore quando arrivano i Carabinieri a svelare maltrattamenti in casa di riposo, per poi scomparire dai radar, confinando l’argomento alle titaniche fatiche famigliari. Eppure il tema dei grandi anziani riguarda un terzo degli over 65, cioè 3,9 milioni di italiani non autosufficienti, e interessa il 17,4 per cento della popolazione, cioè otto milioni e mezzo di persone: tanti quanti sono i caregiver. Tocca anche 1,12 milioni di badanti, in crescita dell’11 per cento nell'ultimo biennio, la metà in nero: sono il più numeroso esercito di cura in Italia, essendo il doppio dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale (600mila fra medici e infermieri).

La silver age, l’età d’argento, è anche un grosso problema per gli ospedali, spiega Giovanni Migliore, direttore generale del Policlinico di Bari e presidente della Fiaso, Federazione delle Aziende Sanitarie Ospedaliere: «Qui al Policlinico, a fronte di una media di 70 ricoveri al giorno, non riusciamo a dimetterne quaranta perché manca l’assistenza domiciliare. Sono anziani che restano in carico all’ospedale perché manca un tessuto sociale, fatto di assistenti, operatori, strutture residenziali, centri diurni e cure domiciliari, verso cui indirizzare queste persone. Ciò incide negativamente sul boarding, cioè favorisce l’allungamento dell’attesa per un posto letto in reparto», che può arrivare anche a cinque giorni. Lo conferma la Fadoi, Federazione dei Medici Internisti, secondo cui ogni anno sono due milioni le giornate di degenza ospedaliera che si potrebbero evitare se i grandi anziani fossero assistiti altrove, con un risparmio per le casse pubbliche di 1,5 miliardi.

I dati pubblicati la settimana scorsa dall'Osservatorio Long Term Care dell'Università Bocconi scattano una fotografia impietosa del livello di disattenzione verso il fenomeno: lo 0,6 per cento degli anziani fragili si rivolge a un centro diurno e negli ultimi due anni, complice la pandemia, il loro numero si è ridotto del 24 per cento; un altro 6,3 per cento ha trovato risposta nelle case di riposo ma, anche in questo caso, gli assistiti sono diminuiti del 12 per cento; un quinto dei non autosufficienti viene curato a casa, attraverso l’assistenza domiciliare, che tuttavia offre non più di due visite al mese. E la gran parte del lavoro di cura è sulle spalle delle badanti.

Per quanto riguarda le residenze per anziani, se da un lato i famigliari lamentano aumenti delle rette da capogiro, più 15 euro al giorno per una media di 111 euro al dì (ma circa metà della tariffa è coperta dalla Regione), i gestori sostengono di lavorare in perdita, perché i pazienti sono sempre più anziani e gravi, perché il personale è in fuga e chi resta pretende aumenti salariali, mentre le bollette del gas zavorrano i fatturati, al punto che ogni settimana chiude una Rsa, riducendo ulteriormente il numero di posti letto, che oggi sono 19 ogni mille over 75, la metà della media europea.

Sul fronte badanti, c’è il problema di ridurre il ricorso al lavoro nero, reso ancora più appetibile dal recente aumento dei minimi contributivi stabiliti dall’Inps. Per far fronte all’inflazione, una circolare dell’Istituto previdenziale ha comunicato alle famiglie che gli stipendi dei lavoratori domestici devono aumentare dell’8,1 per cento, più dell’adeguamento pensionistico. Da tempo Andrea Zini, presidente dell’Associazione dei datori di lavoro domestico, rivendica il diritto ad agevolazioni fiscali che, se applicate, convincerebbero molte famiglie a regolarizzare il proprio collaboratore. Tuttavia nel mare magnum delle detrazioni sembra non esserci posto per le badanti, forse perché la nave delle agevolazioni è già piuttosto carica (di lobbisti): lo scorso anno sono stati censiti ben 626 provvedimenti per un costo erariale di 128 miliardi. «Manca la volontà di un riordino complessivo delle detrazioni, non è giusto tagliarci fuori», denuncia Zini, che fa notare come la partita delle badanti sia praticamente assente dallo schema di legge delega approvato a fine gennaio dal governo Meloni sulla Non Autosufficienza, che in larga parte ricalca quello già approvato dal governo Draghi: «È un grave sbaglio, perché il 97 per cento della gestione della non autosufficienza è domiciliare».

Il rapporto Domina dice che grazie a una spesa famigliare di quindici miliardi l’anno per le badanti - di cui sette pagati cash -, le casse pubbliche risparmiano ogni anno 10,1 miliardi di euro, «ovvero l’importo di cui lo Stato dovrebbe farsi carico se gli anziani accuditi in casa venissero ricoverati in struttura», per altro sorvolando sull’incapacità del Servizio Sanitario Nazionale di garantire una cura universale e gratuita a tutti: già oggi lo Stato spende circa 21 miliardi di euro per gli anziani e, volendo rispondere appieno ai bisogni dei più fragili, dovrebbe sganciarne altri nove.

Al contrario la riforma disegnata dalla viceministra al Lavoro e alle Politiche Sociali, Maria Teresa Bellucci, è a costo zero e usa le parole «razionalizzazione» e «vincoli di assunzione», lasciando presagire un contenimento delle risorse e il malcelato intento di soddisfare quanti pensano che sulla terza età si riversano troppi quattrini: nulla di più sbagliato, perché nelle tasche degli anziani più fragili finiscono solo le briciole, ovvero i 527 euro dell’assegno di accompagnamento, per un totale di 13 miliardi, che coprono il 70 per cento dei costi sociali per la Long Term Care e sono meno di un decimo dei 131 miliardi che ogni anno lo Stato versa all’Inps per le spese assistenziali. Per di più, conquistare l’indennità di accompagnamento può diventare una caccia al tesoro visto che serve passare attraverso quattro commissioni di valutazione - Inps, Regione, Asl e Comune - e la probabilità di accettazione varia a seconda dell’area geografica.

«L’innovazione più importante della riforma, che recepisce molte delle indicazioni della società civile e va nella giusta direzione, è il sistema di Accesso Unico, che prevede una sola valutazione, uguale per tutti», dice Cristiano Gori, coordinatore del Patto per la Non Autosufficienza, network di 57 realtà a contatto con questo mondo, che continua: «Il secondo importante obiettivo è l’introduzione di una prestazione progressiva e universale, che sostituisca i 527 euro dell’assegno di accompagnamento con i servizi utili alla persona». Insomma, meno soldi in tasca, ma più assistenza concreta. Ma per fare questo serve spingere forte sull’assistenza domiciliare e sulla capacità di comuni, Asl e residenze diurne di rispondere ai bisogni dei tre milioni di cittadini che chiedono di essere curati a casa: «Il Pnrr mette 2,7 miliardi per l’assistenza domiciliare, da usare soprattutto per l’assunzione di personale, con l’obiettivo di raggiungere una platea di 1,6 milioni di assistiti. Ma attenzione, il 60 per cento di quelle persone riceve una sola visita al mese, il 20 per cento tre controlli mensili. Sono una goccia nel mare», dice il geriatra Paolo Da Col. Insomma, nonostante tutte quelle risorse, qualcosa potrebbe andare storto perché c’è il rischio, come spiega Gori, «che mentre il Pnrr esercita una pressione enorme sulle Asl e sugli infermieri per raggiungere un numero altissimo di anziani, offrendo comunque un servizio estemporaneo, a Roma si scriva una bella riforma del welfare, con zero risorse, e quindi incapace di modificare lo stato delle cose».

Non basterà dirottare più risorse su questo settore, bisognerà anche inventarsi nuovi servizi e soprattutto puntare sull’innovazione e la tecnologia per ridurre i costi, che continueranno inesorabilmente a crescere. Perché a causa della bassa natalità l'Italia sta invecchiando velocemente: tra vent’anni gli anziani saranno 19 milioni, il 34 per cento della popolazione, e gli over sessantacinque saranno 293 per ogni bambino con meno di 15 anni.

Case di riposo, in Lombardia l’anziano o paga o si arrangia. Domenico Affinito, Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

È sempre doloroso portare un proprio familiare anziano in una casa di riposo, ma quando non è proprio più possibile gestirlo a casa diventa purtroppo una scelta obbligata. In questi casi vorremmo non trovarci di fronte a liste di attesa troppo lunghe, essere certi di portarli in un posto dove siano ben assistiti e pagare una retta che non ci tolga il sonno la notte. Vediamo come funziona in Lombardia che, con quasi 1,2 milioni di over 75, è la Regione con più anziani d’Italia. E grazie alla crescita dell’aspettativa di vita diventeranno 1,3 milioni già nel 2030. Inoltre, bisogna fare i conti con il potere d’acquisto degli stipendi, sempre più basso. Per comprendere il meccanismo ci aiuta Antonio Sebastiano, alla guida dell’Osservatorio sulle Rsa della Liuc.

Come funziona

In Lombardia le case di riposo sono di due tipi: quelle «a contratto», dove la Regione paga quasi metà della retta, e quelle solo «accreditate», dove paga tutto l’ospite. I requisiti sono praticamente gli stessi (non consideriamo le Rsa semplicemente autorizzate perché hanno standard differenti e non è corretto metterle sullo stesso piano): 901 minuti minimo di assistenza settimanale per ospite, presenza delle medesime figure professionali (infermieri, medici, fisioterapisti e personale educativo). Sono identiche le regole in materia di tenuta della documentazione sociosanitaria, tra cui la stesura del piano assistenziale individuale (Pai) e la sua rivalutazione periodica.

La differenza tra Rsa «a contratto» e «accreditate» viene introdotta a partire dal primo gennaio 2011 (Dgr 937 del dicembre 2010) per ampliare l’offerta di posti senza fare aumentare la spesa pubblica della Regione. Va detto che per quel che riguarda il numero di letti la Lombardia è messa meglio rispetto al resto d’Italia, ma in ogni caso non bastano. Dunque il ragionamento è: io Regione ti do la possibilità di andare un po’ a mie spese in determinate Rsa, dopodiché siccome il mio budget è limitato, e di conseguenza i posti che io posso mettere a contratto, ti metto a disposizione altri letti che però ti devi pagare completamente. Un sistema che scarica tutti i problemi sulle famiglie. Ecco perché.

Cosa c’è

Sono 58.355 i posti letto nelle case di riposo dove la Regione si fa carico dei 50 euro al giorno della quota sanitaria (cifra variabile in base alla gravità dell’ospite). Le famiglie pagano in aggiunta la quota alberghiera che va dai 67 ai 77 euro in media al giorno a seconda della città (a Milano si superano i 97 euro), vale a dire almeno 2.100 euro mensili. Il fabbisogno stimato è di 7 posti ogni 100 over 75, oggi ce ne sono 5,3. Dal 2015 il numero è cresciuto solo di 481 letti, mentre gli over 75 in più sono 110 mila: vuol dire che la disponibilità ogni 100 anziani già risicata non si è mantenuta nel tempo ma è addirittura diminuita (-0,45%). Conseguenza: le famiglie spesso devono attendere a lungo il posto. Nell’ultimo triennio pre-Covid (2017, 2018, 2019) l’attesa media è di oltre 4 mesi e mezzo e c’è la certezza che si tornerà a questi livelli. Chi riesce a entrare lo fa in condizioni sempre più gravi, tant’è che la degenza media è di 12 mesi. Chi può permetterselo si rivolge alle strutture dove la quota da pagare è completamente a carico dell’ospite: in media 90 euro al giorno, con una spesa mensile di almeno 3.000 euro. Qui di solito non c’è nessuna attesa e i posti a disposizione oggi sono 4.078, quasi raddoppiati rispetto al 2015.

Cosa non va bene

Primo problema: come dimostra un plico di documenti riservati raccolti da Dataroom, e incrociati con numerose testimonianze sul campo, Regione Lombardia non tiene monitorate le richieste di posti nelle case di riposo. Vuol dire che non sa quante persone davvero ci sono in lista di attesa e qual è dunque l’ipotetico fabbisogno di letti. Dai calcoli di Dataroom è verosimile che pre-Covid ci fossero in lista di attesa almeno 26 mila anziani. Invece a inizio 2023 in un documento ufficiale all’interno di una contesa giudiziaria la Regione conta 103.860 utenti nel 2019 in attesa di un posto.

È un dato costruito sommando le persone in attesa in ogni casa di riposo, senza preoccuparsi di verificare (e quindi eliminare) chi si è messo in lista contemporaneamente in più strutture, o purtroppo nel frattempo è deceduto. In sostanza Regione Lombardia, in un documento ufficiale, ha riportato dei numeri palesemente sbagliati. Questo dimostra che non c’è interesse a capire il problema, e quindi a risolverlo. Risultato: non può fare e non fa nessuna programmazione. E le liste di attesa sono destinate a restare.

Secondo problema: quel che interessa a Regione Lombardia è non fare lievitare la spesa pubblica oggi a quota 960 milioni di euro all’anno. Del resto le risorse non sono infinite e non è possibile pagare tutto a tutti, e dunque un tetto al budget è comprensibile. Un sistema equo dovrebbe però filtrare le richieste per privilegiare a spese pubbliche chi è in condizioni più gravi. È quello che fa per esempio il Veneto: valuta le condizioni di salute di chi fa domanda per entrare in una casa di riposo e, in presenza di determinati requisiti, gli dà un voucher con il quale l’anziano paga la casa di riposo che si è scelto. Invece Regione Lombardia per pagarti meno di metà della retta ti costringe ad andare solo in determinate Rsa, senza fare alcuna valutazione né certificazione del bisogno dell’anziano.

Terzo problema: in Regione Lombardia le case di riposo «a contratto» sono sempre le stesse da anni e si vedono assicurate un business certo da 2,5 miliardi l’anno senza nessun vantaggio per chi offre servizi di qualità o penalizzazione per chi non lo fa. Già nel 2012 in un documento ufficiale (qui, allegato 3, pagina 2) viene ammesso: «Uno dei limiti principali è rappresentato dal criterio della spesa storica (do gli stessi soldi sempre agli stessi, ndr) e dalla mancanza di considerazione di altri fattori di valutazione come la qualità delle prestazioni e i fabbisogni effettivi del territorio». La riforma regionale del 2015 andava in questa direzione, ma è stata bloccata.

Il coraggio delle scelte

Ora che Attilio Fontana e la sua squadra sono stati rieletti con un mandato forte del 55% di voti e hanno cinque anni davanti c’è da sperare che mettano mano alla questione. Per essere davvero dalla parte di chi ha più bisogno, e per rispettare la legge. Il Ddl concorrenza dell’agosto infatti 2022 dice: «La selezione (delle strutture private, ndr) deve essere effettuata periodicamente tenuto conto della programmazione sanitaria regionale e sulla base di verifiche delle eventuali esigenze di razionalizzazione della rete in convenzionamento e, per i soggetti già titolari di accordi contrattuali, dell’attività svolta» (articolo 15, comma 1, lettera b).

Le mistificazioni territoriali.

La Lombardia.

La Toscana.

L’Emilia Romagna.

La Lombardia.

Diritto alla salute. Il falso mito dell’eccellenza sanitaria lombarda. Michele Sasso su L’Inkiesta l’11 Febbraio 2023

Il modello di privatizzazione ha creato delle realtà di eccellenza, ma si sta mostrando inefficiente nel curare in maniera ottimale tutti i tipi di pazienti. Emilia-Romagna, Toscana e Veneto sono molto più efficaci nel fornire ai loro cittadini i livelli essenziali di assistenza

Quella dell’“eccellenza sanitaria” della Lombardia è un’espressione autocelebrativa che è stata molto usata dai tre presidenti della giunta regionale, tutti di centrodestra, che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo: il berlusconiano e ciellino Roberto Formigoni in carica per 18 anni (poi condannato in via definitiva a cinque anni e dieci mesi per corruzione nel processo per il crac delle fondazioni Maugeri e San Raffaele – una corruzione fatta di cene, viaggi e gite in barca e anche un acquisto agevolato di una villa in Sardegna), e poi i leghisti Roberto Maroni e Attilio Fontana, che dal 2018 intona il mantra dell’eccellenza con regolarità.

Un mantra così radicato da dedicargli anche una pagina web regionale, «Lombardia Speciale. I dati e le eccellenze della Lombardia in tempo reale», che in una rassegna stampa dedicata, in collaborazione con il quotidiano di Confindustria «Il Sole 24 Ore», mette in fila tutti i successi di «una Regione concreta, attiva, trasparente» secondo le parole dello stesso Fontana. Mettendo però da parte le pompose parole usate dai governatori per autocelebrare un modello troppo spostato verso infrastrutture private ormai maggioritarie rispetto a quelle pubbliche – e sostenute con soldi provenienti dalle tasse –, si può davvero affermare che il modello lombardo sia un esempio? Sta dando risultati sul fronte dell’efficienza?

Al di là della grande qualità di singole strutture sanitarie pubbliche e private, i risultati sono soddisfacenti sul piano della prevenzione, dell’epidemiologia, dell’igiene pubblica, dei servizi di base? Sono giustificati l’enorme spazio di manovra e i copiosi finanziamenti che il governo regionale ha dato e dà alla sanità privata?

La risposta la fornisce la classifica delle Regioni italiane in base ai Lea (Livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario è tenuto a fornire a tutti i cittadini con le risorse pubbliche): secondo la Direzione generale della programmazione sanitaria del ministero della Salute, la Lombardia, dal 2012 in poi, riporta un punteggio che la colloca regolarmente al quarto posto, dietro a Emilia-Romagna, Toscana e Veneto.

Insomma, benché la cessione di spazi ai grandi gruppi sia stata perseguita anche dalle giunte Maroni e Fontana, la Lombardia è tra le prime della classe ma non è la prima della classe, e soprattutto il modello della privatizzazione della sanità si sta mostrando inefficiente dal punto di vista dei pazienti e del loro diritto alla salute. I cittadini per lo più non se ne rendono conto, ipnotizzati dal mantra dell’eccellenza. Solo il caos accaduto durante l’emergenza sanitaria ha squarciato il velo.

Di fatto l’infrastruttura pubblica del sistema, quella che dovrebbe garantire la capacità di programmazione, è stata destrutturata, se non distrutta. La docente dell’Università Statale di Milano Maria Elisa Sartor, nel suo libro La privatizzazione della sanità lombarda dal 1995 al Covid-19, fornisce prove in grado di dimostrarlo: si tratta delle scelte politico-amministrative – dai grandi piani alle singole delibere – che la Lombardia ha adottato dal 1995 in poi. L’autrice, in un corposo lavoro di oltre due anni e più di 500 pagine, le ha messe in fila cronologicamente e analizzate, riuscendo così a dimostrare che nulla è accaduto e sta accadendo per caso. Semmai ci sono state tattiche e strategie ben studiate per arrivare a un sistema di leggi e regole che scardina il modello originario del Servizio sanitario nazionale.

(…)

Si tratta di un nuovo paradigma, in cui la sussidiarietà orizzontale si svolge nell’ambito del rapporto tra autorità e libertà e si basa sul presupposto secondo cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono direttamente i privati cittadini mentre i pubblici poteri intervengono in funzione “sussidiaria”, di programmazione, di coordinamento ed eventualmente di gestione. Un paradigma ideato per far entrare sempre più il privato profit e no profit laddove possibile in sostituzione del soggetto pubblico. Paradigma che di fatto ha aperto le porte del Servizio sanitario regionale (Ssr) alle imprese, inducendo erroneamente a pensare che la sussidiarietà orizzontale in versione lombarda fosse la traduzione del principio introdotto in Costituzione. Ma non era e non è così.

Da “Assalto alla Lombardia Sanità, trasporti, ambiente: tutti i disastri di una classe politica”, di Michele Sasso, Editori Laterza, 256 pagine, 20 euro

La Toscana.

Codice rosso. Perché la sanità toscana rischia il collasso. Pietro Mecarozzi su l’Inkiesta il 23 Febbraio 2023.

Un disavanzo strutturale da mezzo miliardo, mancanza di personale, liste d’attesa gestite male e il nodo del payback. Sono solo alcuni dei problemi che stanno facendo implodere il modello sanitario della Regione

«Senza lilleri un si lallera». È tra i detti più famosi in Toscana, ed è un invito a essere realisti: vuol dire che è inutile pensare in grande, sviluppare progetti importanti o fantasticare senza i soldi (lilleri) per farlo. Un concetto che, da un po’ di anni, non sembra però valere per il servizio sanitario della Regione Toscana.

Il sistema regionale, infatti, è alle prese con una serie di problematiche frutto di anni di sprechi e riforme poco lungimiranti. Per intenderci: il disavanzo strutturale dei conti delle aziende sanitarie in Toscana si aggira attorno al mezzo miliardo. In altre parole, mancano 500 milioni di euro nelle casse della Regione per far fronte al fabbisogno del sistema sanitario.

L’ammissione arriva dallo stesso presidente della Regione, Eugenio Giani, che ha puntato il dito sul fatto che il Fondo Sanitario Nazionale assegna alla Toscana meno risorse di quelle necessarie a far pareggiare i conti. Giani ha spiegato che «per mantenere il sistema è necessario individuare e aggiungere risorse ordinarie della Regione» e che per questo, nella terza variazione dei conti per il 2022, ha previsto un trasferimento di 36 milioni di euro da altre voci di bilancio alla parte corrente della sanità. Briciole rispetto alle necessità, in un anno che ha visto ridursi la spesa per il Covid rispetto al 2021 solo di qualche decina di milione di euro, a fronte invece di un aumento dei costi energetici calcolato per ora in 200 milioni in più.

Ma andiamo con ordine. La Toscana vanta da sempre uno dei miglior complessi ospedalieri in Italia, come certifica anche l’ultimo rapporto appena pubblicato dal Ministero della salute, secondo cui la Regione è riuscita a garantire i livelli essenziali di assistenza, in sanità, anche durante la pandemia.

Un riconoscimento che tuttavia stride, per molti versi, con la realtà dei fatti. La gestione di servizi e risorse delle varie amministrazione che si sono susseguite negli anni ha seguito il principio del consenso politico, ovvero quello di ottenere effetti tangibili ma di breve durata. Come nel caso della delibera 1220 (in procinto di essere riformata) promulgata dall’allora direttrice dell’assessorato alla Salute, Monica Calamai, nel 2019, che aveva stabilito che per ricucire sulle liste d’attesa operatorie e dare massimo spazio ai pazienti toscani, le cliniche private convenzionate avrebbero dovuto bloccare gli interventi sui non toscani. Obiettivo della norma di tre anni fa era abbattere le liste d’attesa, ma, secondo Acop (l’associazione coordinamento dell’ospedalità privata), avrebbe solo tolto dalle casse della sanità pubblica regionale 100 milioni ogni biennio.

Rimanendo in tema, dalla Corte dei Conti è arrivata poche settimane fa una bocciatura per i ritardi nel recupero proprio delle liste d’attesa. Si tratta del risultato di un’indagine approvata dalla Sezione regionale di controllo per la Toscana, che certifica le difficoltà del sistema sanitario regionale nell’assorbire le richieste dei pazienti con una dura critica all’inefficienza del Cup, il sistema di prenotazione, e all’impatto del «no show», l’alto numero di appuntamenti disponibili ma non messi a disposizione all’utenza in tempi adeguati. I giudici rilevano «purtroppo persistenti disfunzioni del sistema nel garantire il generalizzato e tempestivo accesso alle prestazioni sanitarie» e invitano la Toscana a «un più sollecito impiego dei finanziamenti statali destinati allo scopo dalla legge di stabilità per il 2019 che la Regione ha già totalmente incassato, ma che alla fine del 2021 risultavano quasi del tutto inutilizzati per la realizzazione delle infrastrutture informatiche».

Quello delle spese è un punto dolente. Secondo alcuni documenti, che Linkiesta ha potuto consultare, lo Stato, nel 2019, aveva destinato alla Regione 26 milioni di euro per superare le liste d’attesa, ma ad oggi ne sono stati spesi solo 4. Mentre in termini di entrate: dal governo Draghi sono state stanziate risorse per coprire parte delle spese Covid, ma ancora non sono a bilancio perché manca l’accordo per la ripartizione tra le Regioni. Alla Toscana dovrebbero spettare circa 90 milioni, 100 ad essere ottimisti. Non di più. Ed è l’unica certezza, al momento.

Il grosso della partita si giocherà sul payback, un sistema di rimborsi che le aziende farmaceutiche devono alle Regioni: alla Toscana spetterebbero 90 milioni per il payback farmaceutico e 390 per quello delle attrezzature medicali. Ma solo in teoria. Le aziende farmaceutiche hanno sempre contestato la legge sul payback e fanno resistenza nell’erogare i rimborsi, oppure li erogano solo in parte, aprendo puntualmente dei contenziosi legali.

Ma i problemi non finiscono qui. «In Toscana i pronto soccorso sono al collasso, c’è una carenza di personale del 25% degli organici, mancano circa 400 medici nel comparto della medicina d’emergenza, e da oltre un anno si stanno susseguendo dimissioni a raffica di personale impiegato nei Dea (dipartimento di emergenza accettazione ndr)» spiega il capogruppo di Forza Italia al Consiglio regionale della Toscana, Marco Stella.

Solo a Firenze, nell’ultimo anno, venti medici sono fuggiti dai pronto soccorso. Mancano 1200 tra infermieri e operatori socio-sanitari, e circa 700 medici su tutto il territorio regionale. Molti scelgono di fare il medico di famiglia o di andare a lavorare a gettone per cooperative in subappalto nella sanità pubblica di altre Regioni. La Toscana ha detto no a questo modello, ma ora rischia la fuga in massa, visto che i gettoni possono valere fino a 100 euro l’ora.

Per tutti questi motivi, a inizio febbraio sono state presentate le linee programmatiche che le Aziende Sanitarie dovranno recepire nei prossimi quattro mesi, per ridisegnare l’architettura della nuova assistenza socio-sanitaria territoriale. I pilastri della nuova riforma sono chiari: integrazione e potenziamento delle cure domiciliari, sviluppo della sanità di iniziativa (percorsi per gestire meglio le malattie croniche) e presa in carico sul territorio, anzitutto dei soggetti più fragili e degli anziani.

Niente assunzioni, però. Anzi, probabilmente gli organici dovranno essere un po’ limati. Quando si parla di far calare i dipendenti non significa certo licenziamenti: con 55 mila lavoratori, il sistema sanitario toscano vede decine di uscite per pensionamento ogni settimana; si tratterà, all’inizio, di bloccare il turn over, per arrivare all’obbiettivo regionale e poi poter sostituire di nuovo coloro che escono per anzianità o perché si trasferiscono in un’altra Regione o nel privato. Il meccanismo pensato dall’assessorato rende tuttavia le cose un po’ difficili ai direttori generali, in quanto ci sono settori che hanno grandi carenze, come i pronto soccorso, le terapie intensive e alcune chirurgie, che avrebbero bisogno di un gran numero di nuovi assunti.

Infine, c’è la questione geografica. La sanità toscana deve fare i conti con un Regione morfologicamente complessa per spostamenti e logistica delle infrastrutture ospedaliere. E così la crisi sanitaria morde soprattutto nelle piccole realtà, come nel caso di Castel del Piano, dove sono ormai presenti i rimasugli di quello che una volta era un ospedale. «Non vi è un anestesista, non vi sono specialisti se non occasionalmente. Ma c’è di più: durante la notte esiste un solo medico, quello del pronto soccorso che deve gestire tutto il plesso ospedaliero. A questo si aggiunge la strutturale e annosa mancanza di posti letto che per il polo amiatino con fatica raggiunge la metà della media nazionale, a fronte di una popolazione molto anziana e con problematiche di salute multiple», denuncia un politico locale.

Senza contare poi la gestione dell’elisoccorso, fondamentale per i paesi più difficili da raggiungere. «Dal 2009 la Regione paga ogni anno milioni di euro di soldi pubblici per affidare il servizio di elisoccorso sanitario a una multinazionale privata e, parallelamente, costringe a terra gli elicotteri dei Vigili del Fuoco, nonostante siano già pagati dalla fiscalità generale. Un utilizzo sbagliato delle risorse dei toscani che si finiscono così per pagare un servizio due volte. E non stiamo parlando di spiccioli, visto che tra il 2013 e il 2020 le spese per il Pegaso sono passate da 12,4 milioni a 18,3 milioni di euro. Un’enormità che potrebbe essere almeno in parte compensata affidando il servizio ai Vigili del Fuoco esattamente come accade in altre regioni d’Italia, Emilia Romagna in testa», aggiunge la Cinque Stelle Irene Galletti, ex candidata alla presidenza della Regione Toscana.

A venire incontro alle difficoltà della sanità toscana ci sono i tempi lunghi per l’approvazione del bilancio che verrà chiuso solo nella primavera del 2023. Anche se il rischio di un commissariamento – che comunque non si configurerebbe prima dell’estate – adesso non sembra un’ipotesi così lontana.

L’Emilia Romagna.

La paziente emiliana. Le straordinarie avventure di GS nella sanità di una regione bonaccina. Guia Soncini su L’Inkiesta il 31 Gennaio 2023

Questo articolo viene pubblicato grazie alle nostre delicatissime fonti e fa riferimento a scambi di messaggi avvenuti tra il 2022 e il 2023. L’ultima mail è ancora in bozze in attesa d’essere inviata: seguiranno aggiornamenti, forse

Pubblichiamo grazie alle nostre fonti il riservatissimo epistolario degli ultimi tredici mesi relativo alla paziente GS, in carico alla sanità d’un’imprecisata regione bonaccina. Dall’epistolario sono stati espunti i nomi in ragione della delicatezza dei temi trattati.

Avvertenza: le maiuscole da appuntati dei carabinieri sono state lasciate invariate rispetto agli originali, così come la sintassi. Le uniche modifiche sono state apportate agli accenti, che negli originali sono quasi tutti apostrofi e a chi trascrive sanguinavano gli occhi.

Lettera della Regione, datata 4 gennaio 2022 e consegnata al domicilio della paziente il 17 gennaio 2022. «Con la presente si comunica che dal 13/01/2022 il Dr. FD, Medico di Medicina Generale di Sua fiducia, cesserà dal proprio incarico». Italo Calvino e le maestre elementari tutte si rivoltano nella tomba; la paziente si limita a chiedersi se, non essendo il pensionamento un’eventualità che giunge a sorpresa, non si potessero avvisare i pazienti prima che il medico in questione fosse ai giardinetti a spese dell’Inps.

Scambio WhatsApp tra la paziente GS e il di lei amico PG, 24 marzo 2022. «Sono in fila alla Asl». «A parte mia madre novantacinquenne non conosco nessuno che vada alla Asl». «Ho passato un pomeriggio al telefono con le musichette, alla fine m’hanno spiegato che la ragione per cui non riesco a ottenere un nuovo medico collegandomi al fascicolo sanitario è che per il fascicolo sanitario esisti solo finché hai un medico, se non ce l’hai non sei paziente e non puoi scegliere un medico». «Se Joseph Heller fosse vivo, si suiciderebbe per l’invidia».

Scambio WhatsApp tra l’amica IC e la paziente GS, sempre 24 marzo. «Ce l’hai fatta?» «Mi ha fatto scegliere molti medici da un faldone in corridoio, prevedendo che poi, quando tornavo nella stanza e lei li inseriva nel computer, sarebbero risultati tutti pieni». «E?». «E dopo otto tentativi ne abbiamo trovato uno vuoto, che come tutti riceve due ore nei giorni in cui ha più voglia di lavorare, ma almeno non è lontano da casa». «Benvenuta nella Regione dell’eccellenza sanitaria».

Scambio WhatsApp tra la paziente e il dottor AB (sostituto del dottor AC, assegnato dalla Asl alla paziente GS e che la paziente GS non vedrà mai), 25 ottobre 2022. «Buongiorno, sono GS, sto provando a prenotare la tac alle coronarie che mi aveva prescritto ma il fascicolo sanitario mi dice che non riconosce il numero». «Messaggio automatico. Il dottor B sostituisce il dottor C. Risponde alle telefonate nei seguenti orari: […] NON LASCIARE MESSAGGI IN SEGRETERIA». Segue messaggio non automatico: «La può prenotare solo al Cup e non tramite la piattaforma online». (Sul fascicolo non puoi sostituire il medico pensionato né prenotare una tac: a cosa minchia serve il fascicolo elettronico, oltre che a sentirsi moderni perché, ehi, ha la app?).

Mail ricevuta dalla paziente GS, sempre il 25 ottobre, dopo lunga attesa telefonica con lo sportello prenotazioni, e dopo che un impiegato le ha detto che no, lui non le poteva prenotare la tac, lui poteva solo mandarle una mail con le indicazioni: «Gentile utente, in relazione alla sua prestazione che non ha trovato disponibilità, le ricordiamo che può stampare il relativo modulo informativo». Il modulo allegato dice: «Gent. Sig.re/ra, La prestazione richiesta è prenotabile direttamente al Servizio di Radiologia del Policlinico S.Orsola Malpighi. Può inviare VIA FAX al numero […] IL RADIOLOGO VALUTERÀ LA SUA RICHIESTA E VERRÀ CONTATTATO PER L’APPUNTAMENTO».

Scambio WhatsApp tra la paziente GS e il suo amico D, primario in un ospedale di Regione meno rinomatamente eccellente. «Ma chi diavolo è che ha un fax, nel 2022?». «Ne ho uno in ufficio, se ti serve posso mandare la richiesta. Certo se poi rispondono a quel fax magari la risposta va persa». «Il prossimo che mi parla della qualità della vita nella regione più progressista d’Europa gli sputo».

Scambio WhatsApp tra la paziente GS e il sostituto AB (sempre quello di prima, v’avevo avvisato che AC non compariva mai, tipo Keyser Söze), 26 ottobre 2022. «Buongiorno, ho prenotato privatamente perché col fax era impossibile, ma la clinica mi dice che lei deve firmarmi un modulo per certificare che non muoio se m’iniettano il liquido di contrasto. Ho spiegato che mi ha visto una volta sola e che sono più competente io nell’autocertificare i miei precedenti, ma il tizio alle prenotazioni mi ha risposto che lei è laureato». «Il modulo devono darglielo loro». «Loro dicono che deve darmelo lei». «Passi domani in ambulatorio dopo le 17 a ritirarlo».

Messaggio WhatsApp senza risposta della paziente GS al sostituto AB, 27 ottobre 2022. «Buonasera, sono qua ma il portone è chiuso e al citofono non risponde nessuno».

Messaggio automatico del fu sostituto AB alla paziente GS che chiedeva una ricetta, 14 novembre 2022. «IL DOTTOR B NON È PIÙ IN SOSTITUZIONE DEL DOTTOR C. Attualmente è presente la Dottoressa BK. Lieto di avervi assistito». Non dimenticate gli oggetti personali sotto al sedile.

Messaggio WhatsApp che resta senza risposta della paziente GS alla sostituta del sostituto, BK, il 14 dicembre 2022. «Buongiorno, mi può inserire la ricetta delle pastiglie per la pressione nel fascicolo? L’ultima volta me ne ha data una scatola invece di due e quindi stanno già finendo».

Lettera ricevuta dalla paziente GS il 20 dicembre 2022: «Con la presente si comunica che dal 16/12/2022 il Dr. AC cesserà l’incarico di Medico di Medicina Generale». In questi undici mesi la Regione con la miglior curva d’apprendimento del mondo non ha quindi imparato a organizzare l’invio le lettere trovatevi-un-altro-medico in tempi utili.

Mail automatica in risposta a richiesta della paziente GS di pillole per la pressione alla dottoressa VA, suo terzo medico titolare e quinto effettivo in poco più d’un anno di competenza della Regione con la sanità meglio amministrata del mondo, 9 gennaio 2013. «Si segnala che l’utilizzo del servizio di posta elettronica è dedicato alle comunicazioni SENZA carattere d’urgenza, la lettura e la risposta alle mail inviate verrà eseguita nell’arco dei 2-3 giorni lavorativi successivi alla data d’invio».

Mail della dottoressa VA alla paziente GS, 12 gennaio 2013. «Buonasera. Le ho appena prescritto il farmaco». Nota: si calcola che questa sia la seconda volta che la paziente riesce nell’audace impresa di farsi prescrivere questo farmaco dal servizio sanitario nazionale, avendolo il resto del tempo pagato e potendoselo fortunatamente permettere.

Mail della paziente GS alla dottoressa VA il 19 gennaio 2023, in seguito a telefonata alla segretaria la quale ha dato come prima possibilità d’appuntamento una data di marzo. «Buonasera dottoressa. Ho chiamato il suo studio qualche giorno fa per prendere appuntamento ma mi dicono non ci sia posto prima di marzo. La sua segretaria mi ha detto di chiamarla al mattino per spiegarle le cose da risolvere a breve, ma io al mattino non posso mai e quindi provo a chiederle qui le cose più a breve termine [segue elenco di domande su esami da fare perché li vuole vedere il cardiologo, prescrizioni di farmaci per il colesterolo e altri ammennicoli della senilità]».

Mail del 21 gennaio, dall’indirizzo della dottoressa VA. «Buongiorno, le ho intanto inviato su fascicolo il Crestor. Un saluto. Dott.ssa SG (sostituta)». Come sarebbe sostituta, l’avevo scelta apposta più giovane di me, mica sarà andata in pensione pure lei? Ma no, sarà in vacanza, due ore di visite al giorno ti stressano, deve riposarsi. (In farmacia, la paziente scoprirà che, delle pastiglie per il colesterolo, le è stata prescritta una scatola invece delle due che sono la norma per i medicinali continuativi. Sarà un modo di risparmiare escogitato dallo sveglissimo servizio sanitario nazionale? Sarà che nei tre giorni necessari a rispondere a una mail le giovani d’oggi mica possono imparare anche a compilare una ricetta? Chissà).

Mail della paziente GS, ancora in bozze in attesa d’essere inviata alla dottoressa VA. «Gentile dottoressa A, la sua sostituta ha risposto alla mia mail entro i tre giorni che lei e i suoi collaboratori vi concedete per smaltire le mail: sono molto invidiosa del vostro vivere nel 1995 collegandovi da casa con un modem che trilla, qui nel 2023 se ci concediamo un lusso simile la nostra vita lavorativa va a puttane. Il condor che la sostituisce nei tre giorni della mail non ha però risposto alla principale delle mie domande, e dovendo portare analisi aggiornate al cardiologo torno quindi a chiederle di prescrivermele. Inoltre, mi ha segnato sul fascicolo una sola confezione di Crestor invece delle due prescrivibili: sono quindi qui a comunicarvi che no, non sono l’unica paziente al mondo che miracolosamente avrà bisogno delle statine per un solo mese. Essendosi la sua segretaria raccomandata di non disturbarla mai al telefono un minuto dopo le dieci o un minuto prima delle otto, desumo lei abbia uno spiccato senso della preziosità del proprio tempo; la prego di applicare questo criterio anche a quello altrui: non si capisce perché io debba andare in farmacia due volte invece di una, ricordandomi due volte invece di una di chiederle i farmaci con una settimana d’anticipo perché lei apre la mail solo nei giorni di luna piena. Sono infine lieta che il sistema sanitario nazionale sia sveglio come un aspirante segretario del Pd e le permetta di gestire i suoi orari di lavoro come lei fosse una libera professionista e non una pagata – mi perdoni il populismo – con le mie tasse; ma faccio presente che questo far cadere dall’alto la propria disponibilità di preziosa compilatrice di ricette può essere controproducente: a non voler essere disturbate se non dalle otto alle otto, si rischia di fare la fine della pizza di fango del Camerun».

I Farmaci.

Esiste una probabile relazione tra inquinamento e resistenza agli antibiotici. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 21 agosto 2023.

La resistenza agli antibiotici è un problema in aumento in tutto il mondo, che ogni anno causa milioni di morti premature – circa 1,27 solo nel 2019. Sebbene l’uso improprio e l’abuso di farmaci in grado di rallentare e bloccare la proliferazione batterica, soprattutto negli allevamenti intensivi, siano i principali responsabili dell’avanzata del fenomeno, una nuova ricerca ha sollevato l’ipotesi che alla base della resistenza antimicrobica ci sia anche l’inquinamento atmosferico. Secondo lo studio, basato sui dati raccolti in 116 paesi tra il 2000 e il 2018, sarebbe il PM 2.5 (particelle microscopiche dannose presenti nell’aria, in parte emesse in atmosfera direttamente dalle sorgenti e in parte formate attraverso reazioni chimiche) a contenere diversi batteri e geni resistenti agli antibiotici, agenti che introduciamo direttamente nel corpo con la normale respirazione.

Nel concreto, per gli autori della ricerca, ad ogni aumento dell’1% dell’inquinamento atmosferico corrisponde una crescita della resistenza agli antibiotici compresa tra lo 0,5 e l’1,9%, a seconda dell’agente patogeno. Un fattore che solo nel 2018 avrebbe ucciso quasi mezzo milione di persone. Al contrario, gli esperti sostengono che se tutti i paesi seguissero le linee guida sulla qualità dell’aria redatte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, entro il 2050 la resistenza dei batteri agli antibiotici potrebbe ridursi del 17%, ed evitare così il 23% delle morti premature ad essa collegate.

Tuttavia, prima di trarre conclusioni affrettate, va tenuto conto che quello pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet è solo il primo studio sull’argomento, e che per questo potrebbe non essere esaustivo. Nonostante, come si legge nello studio, “questi risultati confermano che il PM 2.5 è un fattore primario che determina la resistenza globale agli antibiotici”, già per ammissioni degli stessi autori alla stesura finale del documento mancano i dati di alcuni Paesi. E, inoltre, servono ulteriori studi sia per capire le esatte cause del nesso tra inquinamento e antibiotico-resistenza che per includere nella ricerca altri potenziali fattori che potrebbero interferire nelle analisi. Se confermata, la correlazione tra inquinamento e resistenza agli antibiotici, non sarebbe altro che un nuovo tassello volto a provare le innumerevoli conseguenze negative altamente sottostimate dell’inquinamento sulla salute umana e sulla qualità del sistema immunitario. Una realtà provata, ad esempio, anche nell’abito del Covid-19, dove uno studio scientifico volto a dimostrare la relazione tra inquinamento e tasso di mortalità per coronavirus ha avuto decisamente meno attenzione di quanto meritasse sui media.

Al momento, quello che è certo, è che l’abuso di antibiotici è causa della sempre più frequente inefficacia degli stessi. Il risultato di questo abuso è che alcuni batteri si sono evoluti in forme resistenti a tutti gli antibiotici in commercio: tra questi a far paura sono soprattutto la Klebsiella (responsabile di forme acute di polmonite) e l’Escherichia coli. Negli Stati Uniti – dove esistono dati maggiormente accurati – l’incidenza di ricoveri ospedalieri dovuti a infezioni antibiotico-resistenti è aumentata del 359% in 10 anni. Anche in Europa i dati sono sempre più allarmanti, ed in modo particolarmente in Italia e Grecia, dove il tasso di pazienti che resistono ai trattamenti antibiotici è arrivato ad una percentuale compresa tra il 10 e il 25% a fronte dell’1% medio negli altri paesi dell’Unione.

Senza antibiotici efficaci anche le infezioni più piccole potrebbero causare danni (perfino) mortali. Eppure, intanto, l’uso di farmaci nell’allevamento animale, cioè uno dei fattori che maggiormente contribuisce a inspessire la resistenza antimicrobica, aumenterà dell’8% entro il 2030, nonostante gli sforzi di limitarne e controllarne l’uso. Oltre a non essere una buona notizia per gli animali stessi, le previsioni, fatte incrociando i dati della World Organization for Animal Health (WOAH) sull’utilizzo di antibiotici e quelli dell’ONU sul numero di animali da allevamento, sono piuttosto preoccupanti anche per noi. [di Gloria Ferrari]

La classifica delle dieci medicine più richieste in Lombardia: «C'è una notevole differenza con il Sud Italia». Sara Bettoni su Il Corriere della Sera il 26 Giugno 2023.

Il report di Federfarma sulla spesa farmaceutica in convenzione con il Servizio sanitario nazionale 

Lombardi ipertesi, impegnati a combattere il mal di stomaco e con le ossa fragili. E quindi, in fila al bancone della farmacia per ritirare pillole o gocce, destreggiandosi tra un lista sempre più lunga di ricette del proprio medico. 

Nella classifica dei dieci principi attivi più prescritti in regione (in percentuale, sul totale di confezioni distribuite nel 2022. La classifica completa è in fondo all'articolo), il podio è occupato dal bisoprololo fumarato, dal pantoprazolo sodico sesquidrato e dal colecalciferolo. 

Nomi complessi per farmaci di uso comune, utili a combattere, nell’ordine, l’insufficienza cardiaca e l’ipertensione, il reflusso gastroesofageo e la carenza di vitamina D.

La classifica emerge dai dati raccolti da Federfarma, Federazione nazionale dei titolari di farmacia italiani, sulla spesa farmaceutica convenzionata col Sistema sanitario nazionale. Tra le prime dieci medicine indicate nelle prescrizioni troviamo altri «alleati» nella lotta all’ipertensione, come il ramipril e l’amlodipina besilato, alcuni farmaci per tenere a bada il diabete (la metformina cloridrato), un diuretico legato alla cura dello scompenso cardiaco. L’acido acetilsalicilico, ovvero l’aspirina, occupa solo la settima posizione ed è seguito dall’atorvastatina, ben conosciuto da chi rischia di vedere schizzare il colesterolo a livelli preoccupanti.

Guardando invece i dati sotto il profilo economico, le malattie che incidono di più sulle casse pubbliche sono quelle dell’apparato gastrointestinale e del metabolismo (25,81% della spesa totale), quelle al sistema cardiovascolare (25,74%) e al sistema nervoso (15,38%).

L’analisi fotografa anche l’andamento del numero di ricette che passano per le mani dei farmacisti, in aumento dal 2018, con un unico momento di calo in corrispondenza dell’esplosione della pandemia nel 2020. L’anno scorso, le prescrizioni hanno toccato quota 82,7 milioni, per una spesa lorda di 1,8 miliardi di euro.

I malanni e le cure dei lombardi assomigliano a quelli degli altri italiani? Se i protagonisti della top ten dei principi attivi sono in larga parte simili, ci sono notevoli differenze nell’ordine. L’aspirina, per esempio, nel Sud Italia e nelle Isole occupa i primissimi posti della classifica. Il report non spiega i motivi della differenza: maggior utilizzo o solo più frequenti prescrizioni, mentre i lombardi tendono a decidere quando prendere la pastiglia senza consultare del medico?

Assente, tra le Alpi e il Po, la levotiroxina sodica, che è invece ben posizionata a livello nazionale. La terapia contro le disfunzioni della tiroide passa in secondo piano rispetto ad altri rimedi. In Italia, ricorda il documento, i farmaci con ricetta medica rappresentano il 55% del fatturato delle farmacie. Questo settore nel 2022 ha raggiunto un valore di 14 miliardi, in aumento del 2,2% sull’anno precedente.

I 10 principi attivi più prescritti in Lombardia

Bisoprololo fumarato (insufficienza cardiaca e ipertensione)

Pantoprazolo sodico sesquidrato (reflusso gastroesofageo)

Colecalciferolo (carenza di vitamina D)

Ramipril (pressione alta)

Metformina cloridrato (diabete mellito di tipo 2)

Amlodipina besilato (malattie coronariche)

Acido acetilsalicilico (febbre e sindromi influenzali)

Atorvastatina calcio triidrato (livelli alti di colesterolo) 

Furosemide (diuretico)

Omeprazolo (bruciori di stomaco)

Da open.online il 4 gennaio 2023.

L’allarme per la carenza di farmaci si allarga a causa di Covid-19 e influenza. L’ultimo bollettino dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) segnala la carenza di oltre 3 mila medicine. Di cui 554 per problemi della produzione e della distribuzione. Ma mancano anche quelli salvavita: dagli antiepilettici agli antipertensivi fino ai diuretici e agli antitumorali. Per questo le farmacie stanno cercando di aumentare la loro produzione di farmaci galenici.

Ma c’è carenza anche di antimucolitici che si utilizzano per l’Aerosol. E l’azitromicina, erroneamente considerata come utile per Sars-Cov-2. Così come antibiotici usciti dalla produzione. Ma per questi ci sono ancora alternative. Ma cosa ha causato l’attuale carenza di farmaci?

Il Messaggero spiega oggi che si tratta di una combinazione di fattori. In primo luogo c’è la stagione dell’influenza, che è una delle più forti degli ultimi dieci anni. Poi c’è, appunto, il Coronavirus. Ma aumentano anche le infezioni da virus respiratorio sinciziale. Questi tre fattori contribuiscono all’aumento della domanda. Roberto Tobia di Federfarma aggiunge che in molti casi c’è chi fa incetta di farmaci per precauzione o per prudenza.

Infine c’è il problema strutturale: la dipendenza dell’Italia nella produzione di alcuni principi attivi. «Molti farmaci arrivano dall’India o dalla Cina. A causa della pandemia e dei lockdown gli stabilimenti in questi paesi hanno rallentato la produzione», spiega Tobia. Ma c’entra anche la guerra tra Ucraina e Russia: «A causa del conflitto soffriamo della carenza di materie prime.

Nel totale di 3 mila farmaci carenti ci sono praticamente tutte le medicine utili per l’influenza. Si fa quindi fatica a trovare l’Ibuprofene. Ma anche il paracetamolo. E ci sono mamme che cercano antifebbrili anche nelle chat di Whatsapp. Ci sarebbe la soluzione dei farmaci equivalenti. Ma l’Italia è una delle nazioni in cui è più basso l’utilizzo di questo tipo di farmaci. Mancano anche i plasmaderivati, mentre sugli antibiotici la carenza di quelli specifici è sopperita dagli altri prodotti.

Silvestro Scotti, segretario della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, dice al quotidiano che la fase è delicata ma che non c’è bisogno di fare scorte. «Ciò che è evidente però è che le chiamate di pazienti spaesati sono in aumento. Sempre più spesso arrivano in farmacia e non trovano ciò che gli ho prescritto».

Scotti dice che il picco c’è stato prima di Natale, ma anche oggi la situazione è delicata. E imputa la penuria anche alla scarsa capacità di stoccaggio e a una logistica imperfetta. Sui farmaci equivalenti, invece, «per chi segue multiterapie è necessario prima parlare con il medico. Può capitare che una medicina crei un condizionamento nella terapia. I preparati galenici? Meglio. Così anche i farmacisti torneranno a fare il proprio lavoro». Possibilmente, i pazienti devono evitare la psicosi delle scorte: «Non sono necessarie. E se capita di avere un dubbio, meglio rivolgersi al medico».

Farmaci mancanti, sono 3.200, dalla Tachipirina al Moment: perché e come fare. Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2023.

L’allarme, anche in Italia, della carenza di alcuni farmaci si è trasformata in un vero e proprio assalto al bancone. Secondo l’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, ha pubblicato il suo annuale elenco di medicinali difficili da reperire e - al 3 gennaio 2023 - il totale si attesta a 3.198, crescendo di 66 unità rispetto al rilevamento di dicembre (in cui era 3.132). I nomi più comunemente noti presenti nella lista sono Moment, Neo Borocillina, Nurofen e Spididol, principalmente antivirali o antinfiammatori e antibiotici.

No alla corsa alle farmacie

Nella metà dei casi, come spiega l’agenzia, si tratta di una cessazione dei farmaci, che quindi sono sostituibili con altri a disposizione della farmacia. Nel 46% delle casistiche, invece, è una vera e propria mancanza. All’elenco si aggiungono anche Tachipirina, Efferalgan, Tachifludec e Amoxicillina. Nonostante l’evidente difficoltà, FederFarma, Federazione nazionale dei titolari di farmacia italiani, ha specificato che non si tratta di un’emergenza sanitaria ma di un semplice rallentamento dovuto all’intreccio di diversi fattori: dalle complicanze legate al Covid e all’influenza, fino alla produzione dei farmaci stessi. L’ente, soprattutto, ha invitato i consumatori a non accorrere nei punti vendita per creare scorte con il rischio di aggravare la situazione. Le soluzioni per contenere la complicanza e rimediare alle carenze ci sono.

Perché c’è carenza di farmaci

«Il principio attivo che più si fa fatica a rintracciare è l’ibuprofene in sciroppo — così Marco Cossolo, presidente di Federfarma, spiega le motivazioni dietro alla carenza di determinati farmaci —, ma ciò che non manca sono alternative e valide soluzioni. In ambito nazionale, c’è un aumento dei consumi legato da una parte al diffondersi di un’influenza con sintomatologia più pesante rispetto al passato e dall’altra anche al Covid, che nel 90% dei casi viene curato tra le mura domestiche con anti-infiammatori». Per entrambe le patologie sono richiesti gli stessi medicinali e ciò porta la domanda a crescere vertiginosamente. L’offerta fatica a stare al passo anche per la situazione internazionale che influisce anche in questo settore. «Innanzitutto, la delocalizzazione di alcuni farmaci in Cina e in India ha reso più problematica l’importazione — aggiunge il presidente di FederFarma —, perché sono paesi al momento in pieno lockdown e questo rallenta la produzione». Inoltre, la crisi energetica e il rialzo dei prezzi costringe a un allungamento della supply chain: «Basti pensare all’aumento del carburante: i camion non partono per consegnare la merce se non sono pieni». Anche la carenza di materie prime, legata al conflitto in Ucraina, incide sul rallentamento della consegna dei farmaci, in quanto non ci sono plastica, carta e vetro per il packaging.

Le alternative ai medicinali mancanti

Le soluzioni, però, non mancano. «Tenendo conto del principio attivo, il farmacista può benissimo consigliare un medicinale equivalente», specificando forma e dosaggio, «che il paziente può assumere senza problemi», continua Cossolo. Anche lavorare sulla misurazione potrebbe essere una valida alternativa. Ad esempio, se l’ibuprofene 600 non è momentaneamente reperibile, possono essere sommate tre dosi da 200. Per quanto riguarda la versione in sciroppo, quella più carente, «è un problema sopratutto nelle preparazioni pediatriche, dal momento che ai bambini non si possono somministrare capsule e pastiglie — conclude Cossolo —, ma anche a questo si può rimediare allestendo il preparato nei laboratori galenici», di cui ormai molte farmacie italiane sono dotate.

(ANSA il 5 maggio 2023) – Il Comitato tecnico dell'Oms, ha detto il direttore generale Tedros Ghrebreyesus, "ha raccomandato la fine dello stato di emergenza ed io ho accettato l'indicazione". Lo stato di emergenza sanitaria internazionale era stato dichiarato il 30 gennaio 2020. "Questo è un momento da celebrare - ha detto Ghebreyesus - ma è anche un momento per riflettere. Deve restare l'idea della potenziale minaccia di altre pandemie. 

Ora abbiamo strumenti e tecnologie per prepararci a pandemie meglio e riconoscerle prima, ma globalmente una mancanza di coordinamento potrebbe inficiare tali strumenti. Sono state perse vite che non dovevano essere perse, promettiamo ai nostri figli e nipoti che non faremo mai più gli stessi errori".

"Dall'inizio della pandemia, fuori dalla Cina - ha aggiunto il dg dell'Oms - c'erano circa 100 casi di Covid-19 e non vi erano morti dichiarati. In tre anni da qual momento il mondo si è capovolto: circa 7 milioni di morti sono stati riportato dall'Oms, ma noi sappiano che la stima è di molte volte maggiore, pari almeno a 20 milioni di morti".

La pandemia di Covid è finita. Non i dubbi e le paure. Andrea Soglio su Panorama il 5 Maggio 2023.

L'Oms oggi ha dichiarato la fine dell'emergenza che ha messo in ginocchio il mondo per più di tre anni. Mostrandoci tutti i nostri limiti, umani e politici

Quante volte ci siamo chiesti: «quando ne usciremo?». Erano i giorni, le settimane, i mesi del lockdown, del suono continuo delle sirene delle ambulanze dei bollettini con morti e contagi, delle mascherine e delle file fuori dai supermercati per la spesa, poi dei vaccini e delle prime restrizioni per non parlare della didattica a distanza... La prima ondata, la seconda, la terza. Il covid era anche questo: sembrava sconfitto e scomparso ma poi tornava, mutato, lasciandoci una sensazione di paura infinita che forse era la cosa più spaventosa. Oggi a quella domanda abbiamo una risposta, una data che finirà sui libri di storia: la pandemia finisce oggi, 5 maggio 2023. Lo ha dichiarato l’Oms, organizzazione mondiale della Sanità, che proprio in quei primi mesi di contagi dalla Cina al resto del globo dimostrò la sua pochezza ed impreparazione. Quindi, è finita; tre anni e due mesi dopo il via ufficiale. 38 mesi carichi di emozioni, dolore, speranza, gioia, rabbia. 38 mesi per sempre stampati nella nostra memoria e destinati a finire sui libri di storia dei nostri nipoti e pronipoti. Il mondo si scoprì fragile per colpa di un virus, cambiando per sempre. Sulla gestione della pandemia in Italia e nel mondo ci sono ancora dubbi, domande, persino inchieste e processi. È evidente che qualcuno, a casa nostra, fece male (Arcuri-Conte), ed altri molto meglio (Figliuolo-Draghi) ma molte, troppe sono ancora le cose da chiarire. Lasciamo al Manzoni, che per uno strano gioco del destino, a questa giornata dedicò la sua ode più famosa… «Ai posteri l’ardua sentenza». Noi, sopravvissuti e tornati alla normalità, oggi abbiamo una cosa in più da ricordare e festeggiare. Basta e avanza.

Estratto dell’articolo Noemi Penna per repubblica.it il 2 maggio 2023.

Anche l'orecchio è uno dei bersagli del Long Covid. Diversi studi hanno già confermato come Sars-Cov-2 sia in grado di compromettere la funzionalità audio-vestibolare, anche nei pazienti asintomatici. E a tutt'oggi ci sono persone che soffrono di acufene da Covid da più di tre anni. Un fastidio sottovalutato, con risvolti psicosomatici, che spesso non viene riferito ai propri medici o collegato all'infezione, ma che alla lunga può diventare insopportabile. 

L'acufene è un disturbo dell'orecchio che si manifesta con la percezione di un rumore acuto che non ha origine esterna. Per alcuni è un ronzio costante di sottofondo, che diventa ancor più incessante nel silenzio. Per altri è un tintinnio o un fischio occasionale in una o entrambe le orecchie.

Se non lo avete mai provato, si potrebbe paragonare a quello stordimento che si sente nelle orecchie dopo una serata in discoteca o lo scoppio di un palloncino. E, in base agli effetti che comporta, può essere classificato da lieve a "catastrofico", quando arriva a interferire con il sonno e le azioni di tutti i giorni. Ma è bene precisare che si tratta di un sintomo, non di una patologia, collegata a una perdita più o meno grave dell'udito. […]

In Italia il professor Roberto Albera, medico specializzato in Otorinolaringoiatria, Audiologia e Foniatria della Città della Salute di Torino, ha visitato molte persone con acufene dopo il Covid ma anche dopo la vaccinazione. "Abbiamo svolto a inizio marzo - spiega il propfessor Albera - un confronto con i colleghi piemontesi proprio sul Long Covid, ma dai dati nazionali che abbiamo raccolto sinora l'incidenza dell'acufene e della perdita dell'udito non ci preoccupano. Sicuramente Covid ha delle conseguenze anche a livello nervoso, quindi ha le armi per causare perdita dell'udito, ma non più di altri virus respiratori". […]

Come conferma il professor Albera, fra le tante possibili cause dell'acufene c'è anche quella psicosomatica. Ed è per questo che questo sintomo potrebbe essere definito anche una "conseguenza emotiva della pandemia".  […] 

Potrebbe essere questa quindi la causa che, risolta l'infezione, continua a farci sentire i ronzii nelle orecchie. Un altro studio, su un piccolo campione di pazienti con acufene cronico già prima della pandemia, ha registrato un peggioramento dei sintomi nelle persone che si sono prese il Covid, con strascichi a lungo termine. E tutto questo ci ricorda quanto poco ancora sappiamo delle infinite sfaccettature del Long Covid, anche in termini psicologici.

La nuova variante in circolazione. La variante Arturo arriva in Italia, quali sono i sintomi e i pericoli del “Covid che colpisce gli occhi dei bambini”. Elena Del Mastro su il Riformista il 14 Aprile 2023

Da quando aveva iniziato a circolare in India, la sua fama ha preceduto il suo effettivo arrivo: Arturo, (o meglio XBB.1.16), una delle ultime varianti Covid di cui siamo a conoscenza, sembrerebbe essere definitivamente arrivato in Italia. Lo ha dichiarato l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità datato 4 aprile scorso secondo il quale ci sarebbero già 4 casi sequenziati in Italia della variante responsabile dell’esplosione di infezioni in India (+ 70%). Arturo già da tempo è un sorvegliato speciale insieme a Kraken (XBB.1.5) e all’ultima arrivata Hyperion (XBB.1.9.1), anche per via della mutazione F486P, comune a tutte e tre. Quali sono a questo punto i rischi per l’Italia? Gli scienziati restano ottimisti. 

La nuova variante del Covid è stata identificata dall’équipe del professor Fausto Baldanti, direttore dell’unità di Microbiologia e virologia del Policlinico San Matteo di Pavia. “Il Centro Europeo per il controllo delle Malattie Infettive (Ecdc) — continua il virologo — nel report del 23 marzo non ha ancora associato la variante a caratteristiche di maggior impatto né sulla gravità, né sulla capacità di infettare. Al momento stiamo valutando attentamente la situazione”. “Per questa nuova variante — ha detto Guido Bertolaso, assessore alla Sanità di Regione Lombardia— non sono presenti evidenze per prevedere misure aggiuntive: rimane sempre importante come prevenzione, non solo per il Covid ma per tutti i virus respiratori, una corretta igiene delle mani e l’utilizzo di mascherine in presenza di persone fragili/malate e quando si hanno i sintomi dell’influenza”.

Una novità però c’è e riguarda i sintomi di Arturo. In India è stato osservato che ha infatti causato un aumento dei contagi tra i bambini anche molto piccoli apportando rossore, bruciore e prurito agli occhi. Sintomi simili a una congiuntivite allergica raramente associati al Covid fin ora. Secondo uno studio dell’Università di Tokyo, Arturo potrebbe essere 1,2 volte più contagiosa di Kraken. “Tutte le sottovarianti Omicron XBB con la sostituzione F486P si sono ampiamente diffuse in tutto il mondo — si legge nello studio, come riportato dal Corriere della Sera —. XBB.1.16 ha un immenso potenziale di infettare le persone, in misura maggiore rispetto a XBB.1 (Hippogryph) e XBB.1.5 (Kraken)”. Questo però non significherebbe che Arturo possa provocare sintomi più gravi rispetto alle altre varianti del gruppo Omicron.

Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive al policlinico San Martino di Genova, mette in guardia dall’”allarmismo ingiustificato”. “A leggere alcuni giornali italiani sembra che dispiaccia che la pandemia sia finita e il Covid sconfitto nella sua gravità clinica – scrive su Twitter l’infettivologo -Si legge infatti: ‘in India la variante Arturo sta contagiando moltissimi bambini, anche i più piccoli. L’infezione colpisce gli occhi. Ben 7.830 nuovi positivi nelle ultime 24 ore’. Sapete quanti sono gli abitanti dell’India? Un miliardo e mezzo. Sarebbe come avere 300 casi al giorno nel nostro paese. Quanti probabilmente ce ne sono abitualmente ogni giorno a Milano o a Roma. Si dice poi che è pericolosa per gli occhi. No, non è pericolosa per gli occhi. Causa una congiuntivite come quasi tutti i virus influenzali e parainfluenzali. Per noi medici è un segno molto tipico che non ci preoccupa. Arturo è una sottovariante di Omicron ed è quindi molto contagiosa. Questo virus di oggi non ha più’ alcuna caratteristica clinica di quello visto nel marzo del 2020. Assomiglia più al raffreddore o ad un virus parainfluenzale che non al Covid-19”.

Per Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità epidemiologica all’Università Campus Biomedico di Roma, il fatto che Arturo sia stata identificata anche in Italia “è una buona notizia, perché indica il fatto che la sorveglianza delle varianti funziona. In termini di pericolosità e contagiosità, non desta timore: visto che è della stessa famiglia di Omicron. Probabilmente abbiamo già ben più di un caso in Italia, ma ciò che conta è la sintomatologia e su questo non dobbiamo preoccuparci”. In India, precisa Ciccozzi, la variante è diventata prevalente e traina un aumento di contagi, ma “bisogna tenere in considerazione le caratteristiche di quello Stato, a partire dal fatto che produce vaccini ma che ha vaccinato poco la popolazione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Per ora "basso rischio" per l'uomo. Aviaria H5N1, dall’Oms l’allarme sulla potenziale nuova pandemia: i rischi per il “salto di specie” dopo il contagio dei mammiferi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 10 Febbraio 2023

Mentre la pandemia di Sars-Cov-2 è ben lontana dall’essere sconfitta, anche se grazie ai vaccini è sicuramente meno pericolosa di un tempo, all’orizzonte si profila già una possibile nuova emergenza globale.

A dirlo, pur tenendo il ‘profilo basso’, è il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus durante il periodico briefing con la stampa.

Il pericolo ha un nome non nuovo, H5N1, l’influenza aviaria. “Per il momento, l’Oms valuta il rischio per l’uomo come basso” ma “non possiamo presumere che rimarrà tale e dobbiamo prepararci a qualsiasi cambiamento”, ha spiegato mercoledì da Ginevra Ghebreyesus, raccomandando “di rafforzare la sorveglianza in ambienti in cui interagiscono esseri umani e animali d’allevamento o selvatici“.

Emerso per la prima volta nel 1996, il virus si è diffuso ampiamente negli uccelli selvatici e nel pollame per 25 anni ma recentemente è stato rilevato anche nei mammiferi: ad oggi invece le trasmissioni “da e tra esseri umani” sono state “rare”, ha spiegato il numero dell’Oms.

Una nuova allerta è scattata dalla fine del 2021, con Europa ed America colpite da un’epidemia di influenza aviaria che ha portato all’abbattimento di decine di milioni di pollame domestico, molti con il ceppo H5N1 del virus. Ma a preoccupare maggiormente sono le più recenti segnalazioni, avvenute nelle ultime settimane, di “infezioni in mammiferi tra cui visoni, lontre, volpi e leoni marini” in particolare nel Regno Unito e in Spagna.

Il pericolo e la paura, spiega all’AdnKronos Walter Ricciardi, docente di Igiene all’Università Cattolica di Roma, è che il virus “faccia il salto di specie,  purtroppo è una costante del nostro abitare questo pianeta”. “Viviamo – continua Ricciardi – nell’epoca del rischio infettivo legato: al contatto continuo che abbiamo con gli animali, allo stravolgimento con cui interagiamo con l’ambiente, al grande affollamento del pianeta perché siamo 8 miliardi e, infine, alla rapidità dei viaggi. Sappiamo che quella Covid non è l’ultima pandemia e dobbiamo essere vigili“.

Timori condivisi anche da Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova. Parlando dell’H5N1 il primario ricorda infatti che tra gli animali “ha una mortalità di oltre il 50%”, dunque se arrivasse negli umani “sarebbero dolori“. “Bisogna lavorare tutti insieme – scrive su Facebook Bassetti – per evitare che succeda e per mitigarne le conseguenze se dovesse succedere“.

Negli ultimi due decenni, ci sono stati 868 casi confermati di H5N1 nell’uomo con 457 morti, secondo l’Oms. Il mese scorso, l’Ecuador ha riportato il primo caso in Sud America in un essere umano, una bambina di nove anni, che è stata in contatto con pollame da cortile.

I sintomi della pur rarissima infezione da aviaria nell’uomo sono diversi e vanno da un lieve coinvolgimento delle vie respiratorie superiori (febbre e tosse) a una rapida progressione fino a forme gravi di polmonite, sindrome da distress respiratorio acuto, fino alla morte nei casi più complessi.

I più esposti al rischio sono ovviamente coloro che lavorano a stretto contatto con gli animali: i tempi di incubazione possono andare dai due ai sette giorni.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da Cerberus a Centaurus fino a Gryphon: tutte le sottovarianti che fanno paura. Antonio Caperna il 31 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Omicron resta preponderante in Italia, timore per le nuove mutazioni. Calano le polmoniti. Mal di gola, raffreddore e febbre i sintomi più comuni

Cerberus, Centaurus, Gryphon. Sui social ci si è divertiti a inventare nomi, per rendere più comprensibili le sigle delle sottovarianti di Omicron, soprattutto perché oramai la pandemia sembrava superata. Così anche se XBB.1.5, cioè Gryphon, ricombinante di Ba.2.10.1e Ba.2.75 (Centaurus), con 14 mutazioni aggiuntive nella nota proteina Spike Ba.2 di ancoraggio alle cellule sia presente in Europa già da ottobre e non è arrivata ora dalla Cina, ha destato interesse solamente negli esperti. Ancora oggi, secondo l'ultimo bollettino (survey) dell'Istituto Superiore di Sanità (dal 14 novembre 2022 al 25 dicembre 2022) non sarebbe più patogenica ma potrebbe eludere meglio l'immunità da infezione o da vaccino, e per questo diffondersi più rapidamente.

La sua presenza è per ora bassa: solo 36 sequenze rilevate (su oltre 1.500 totali), 2 in meno della precedente rilevazione. Nella corsa continua delle sottovarianti per scavalcarsi a vicenda, la principale a livello globale è Cerberus, o BQ1: data in forte crescita anche da noi (sempre nell'ambito di Omicron). L'ultima survey dell'ISS evidenzia un «significativo aumento», arrivando a rappresentare il 64,1% (era 30,7% nella precedente indagine), sul totale dei campioni BA.5. «La variante BQ.1 è attenzionata a livello internazionale - sottolinea l'ISS - per la presenza di ulteriori mutazioni rispetto a BA.5, quali la R346T, nella sequenza codificante la proteina Spike, mostrando un significativo vantaggio di crescita rispetto ad altre varianti». Benché queste Varianti di Interesse (VOI) per il momento non abbiano dato nessuna prova sulla trasmissibilità e sulla gravità, mentre è aumentato l'impatto sull'immunità, come riporta il sito del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC), la situazione è «ancora preliminare e associata a grande incertezza», da qui la puntuale attenzione a cominciare dall'Italia.

È comune in tutte la tendenza ad attaccare prevalentemente le vie aeree superiori, causando mal di gola, raffreddori e febbri, e risparmiare quelle inferiori, e quindi le polmoniti interstiziali. Il problema è nella grande capacità di contagio che, sui grandi numeri e in popolazioni non protette da precedenti esposizioni o vaccinazioni, può portare affanno ai sistemi sanitari, più decessi soprattutto tra i fragili e il rischio di qualche ricombinazione pericolosa. Per adesso Omicron 5 rimane comunque predominante, anche se preoccupa la cugina Omicron 2 (o BA.2), spinta dalla sottovariante Centaurus: «Tra le 95 BA.2 evidenzia il report ISS - sono stati identificati 25 sotto-lignaggi, oltre a quello BA.2. Si segnala la presenza di 75 sequenze riconducibili a BA.2.75 (Centaurus) e relativi sotto-lignaggi». Quindi al momento la variante Omicron rappresenta il 99,95% dei sequenziamenti depositati e il restante 0,05% è da attribuire a ricombinanti Delta/Omicron. Il lignaggio BA.5 risulta predominante (91,09%, contro lo 0,05% di BA.1, il 5,5% di BA.2, lo 0% di BA.3 e lo 0,7% di BA.4). All'interno del lignaggio BA.5 sono stati identificati 151 differenti sotto-lignaggi. Tra questi i più frequenti sono BQ.1.1, il cosiddetto Cerberus (30,84%), BF.7 (10,31%), BQ.1 (5,24%). Pochissime le sequenze depositate di BA.2.75, il cosiddetto Centaurus, corrispondenti allo 0,2% del totale. Inoltre, afferma l'Iss, «si continua a monitorare anche la circolazione del ricombinante XBB (ricombinante dei sotto-lignaggi BA.2.10.1 e BA.2.75) e dei relativi sottolignaggi, appunto Gryphon», fermo intorno al 2% oramai da qualche mese.

Nel Regno Unito cresce la preoccupazione. Variante Orthrus, cosa sappiamo sulla nuova ‘minaccia’ Covid: i sintomi della ‘figlia’ di Omicron. Redazione su Il Riformista il 20 Gennaio 2023

Se la variante Kraken, ultima minaccia per quanto riguarda il Covid-19 resta ancora contenuta in Italia mentre si diffonde ad alta velocità negli Stati Uniti, il nostro Paese e l’Europa vedono affacciarsi anche un nuovo ‘pericolo’, Orthrus.

Lo spiegano l’Istituto superiore di sanità (Iss), ministero della Salute, laboratori regionali e Fondazione Bruno Kessler nel quadro delineato dall’indagine rapida sulle varianti realizzata il 10 gennaio.

Per quanto riguarda Kraken vengono  12 sequenziamenti rispetto all’unico dell’indagine precedente. XBB.1.5, il suo nome ‘tecnico’, ”ha mostrato un importante vantaggio di diffusione negli Stati Uniti rispetto alle varianti circolanti, come plausibile conseguenza della combinazione tra una più elevata immuno-evasività e trasmissibilità – evidenzia la survey – Al momento non ci sono evidenze correlabili ad una maggior severità della malattia associata a XBB.1.5”.

Ma mentre Kraken sembra dunque ancora non rendersi pericolosa alle nostre latitudini, un nuovo allarme arriva da un Paese ben più vicino: nel Regno Unito Orthrus, in codice CH.1.1 e come Kraken ‘figlia’ della variante Omicron, è vista con preoccupazione.

Assieme a Kraken mostra una crescita significativa e sarebbe pronta a scalzare Cerberus (BQ.1) dal trono di attuale variante dominante.

Orthrus, evidenzia oggi Repubblica, è stata identificata per la prima volta a novembre del 2022 e si è diffusa rapidamente in varie contee della Gran Bretagna, divenendo dominante nel Northumberland, a Oxford e nel Leicestershire nordoccidentale. Caso limite è quello di Blackburn, città di 120mila abitanti nel Lancashire, nord-ovest dell’Inghilterra, dove si ritiene che questa variante abbia raggiunto il 100% tra i casi di positività al Covid-19.

Come evidenzia l’indagine di Iss, ministero, laboratori regionali e Fondazione Bruno Kessler, le sue caratteristiche “sono oggetto di investigazione” ma “stime preliminari condotte nel Regno Unito hanno evidenziato un vantaggio di crescita di CH.1.1 rispetto al sotto-lignaggio attualmente predominante BQ.1.18”, ovvero Cerberus.

Su Orthrus, che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) nella sezione “Tracking SARS-CoV-2 variants” definisce figlia di Centaurus (a sua volta ‘derivato’ di Omicron), con l’aggiunta di due mutazioni significative sulla proteina S, non è ancora chiaro se è capace come nuova variante di provocare sintomi severi, né se può determinare un’infezione più grave o avere una maggiore capacità di eludere i vaccini Covid.

Derivando da Omicron, è probabile che anche Orthrus colpisca maggiormente le alte vie respiratorie, causando febbre, tosse e altri effetti assimilabili a uno stato influenza: riviste di settore britannico comunque invitano a prestare attenzione anche a sintomi come rinorrea, mal di testa, affaticamento, sia lieve che grave, e mal di gola.

Quel che è certo è che nel Regno Unito la sua progressione si fa importante. Sempre Repubblica cita i dati dell’Ukhsa, che ha segnalato come fra tutti i tamponi sequenziati nel Regno Unito tra il 26 dicembre 2022 e il 1 gennaio 2023, la variante Cerberus (BQ.1) aveva una prevalenza del 51,3%; seguita proprio da Orthrus al 19,5%.

Che cos’è il colera e perché si sta parlando di questa malattia. Ruggiero Corcella su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2023

In 24 Paesi si sta assistendo ad un’ondata senza precedenti di questa infezione intestinale facilmente curabile se presa in tempo. Ecco quali sono i sintomi e le terapie 

Il colera non ha mai smesso di fare paura. Soprattutto in Africa. Ma adesso la situazione sta diventando drammatica in diverse parti del mondo. L’ultima segnalazione di un’epidemia riguarda il Sudafrica, dove la malattia infettiva ha ucciso almeno 10 persone nella provincia di Gauteng, la provincia più popolosa. Lo hanno riferito le autorità sanitarie citate dai media locali, secondo cui almeno 95 persone da lunedì scorso sono state ricoverate in ospedale con sintomi di colera ad Hammanskraal, un’area a nord della capitale Pretoria, come riporta Agenzia Nova.

Il primo allarme a marzo

Il primo allarme però è stato lanciato a marzo dall’Organizzazione mondiale della sanità , nel corso della Giornata mondiale dell’acqua e della storica Conferenza delle Nazioni Unite sull’acqua a New York. «Il mondo sta affrontando un’ondata di colera, toccando anche Paesi dove non si vedeva da decenni. Anni di progressi contro questa malattia secolare sono scomparsi. Sebbene la situazione sia senza precedenti, la lezione da trarre non è nuova: acqua potabile sicura, servizi igienico-sanitari e igiene sono le uniche soluzioni a lungo termine e sostenibili per porre fine a questa emergenza colera e prevenire quelle future» hanno scritto gli esperti della Global Task Force for Cholera Control (GTFCC) facendo appello ai Paesi e alla comunità internazionale per trasformare tale preoccupazione in azioni concrete.

A soli due mesi di distanza, quel grido di allarme viene ripreso con forza da Jérôme Pfaffmann Zambruni, responsabile dell’Unità di Emergenza per la salute pubblica dell’Unicef: «L’attuale situazione globale del colera è senza precedenti a causa delle dimensioni allarmanti dei focolai, della diffusione geografica e del tasso straordinariamente elevato di decessi. Dobbiamo aumentare le capacità di intervento».

Che cos’è il colera e come si trasmette

Il colera è un’infezione diarroica acuta causata dal batterio Vibrio cholerae. La sua trasmissione avviene per contatto orale, diretto o indiretto, con feci o alimenti contaminati e nei casi più gravi può portare a pericolosi fenomeni di disidratazione. Nel diciannovesimo secolo il colera si è diffuso più volte dalla sua area originaria attorno al delta del Gange verso il resto del mondo, dando origine a sei pandemie (per pandemia si intende una manifestazione epidemica di una malattia su larghissima scala, anche planetaria) che hanno ucciso milioni di persone in tutto il mondo.

I ricercatori hanno stimato che ogni anno ci sono da 1,3 a 4 milioni di casi di colera e da 21.000 a 143.000 decessi in tutto il mondo a causa del colera. La settima pandemia è ancora in corso: è iniziata nel 1961 in Asia meridionale, raggiungendo poi l’Africa nel 1971 e l’America nel 1991. Oggi la malattia è considerata endemica in molti Paesi e il batterio che la provoca non è ancora stato eliminato dall’ambiente. Il colera è una malattia a trasmissione oro-fecale: può essere contratta in seguito all’ingestione di acqua o alimenti contaminati da materiale fecale di individui infetti (malati o portatori sani o convalescenti). I cibi più a rischio per la trasmissione della malattia sono quelli crudi o poco cotti e, in particolare, i frutti di mare. Anche altri alimenti possono comunque fungere da veicolo.

La «pandemia dei poveri»

Come sottolinea Unicef, il colera è da tempo una «pandemia dei poveri». Colpisce in modo sproporzionato le comunità povere e vulnerabili che non hanno accesso ai servizi di base e dove i sistemi sanitari sono più deboli. La malattia è sempre più presente in contesti fragili e di emergenza. Dal 2019, si sono verificati focolai di colera in oltre la metà dei Paesi che vivono emergenze umanitarie. Lo scarso investimento nei sistemi idrici e igienici è un indicatore di rischio preciso per il colera: il 97% dei casi di colera dal 2010 al 2021 si è verificato nei Paesi con i livelli di servizi idrici e igienici più bassi al mondo. Senza accesso a servizi idrici e igienici sicuri, prevenire e controllare la trasmissione del colera e di altre malattie trasmesse dall’acqua è praticamente impossibile.

I numeri dell’emergenza

I numeri di Unicef spiegano meglio di tante parole la nuova emergenza: 25 Paesi hanno già dichiarato focolai dall’inizio del 2023. Secondo una nuova analisi, altri 22 Paesi nel mondo rischiano di dichiarare epidemie di colera. Negli ultimi 10 anni il mondo ha registrato un calo costante del colera. Ma la tendenza si è invertita: nel 2021 si è registrata un’impennata dei casi che è proseguita nel 2023. A maggio, sono 24 i Paesi che riportano focolai di colera, rispetto ai 15 dello scorso anno. Se la tendenza continua, soprattutto perché l’Africa occidentale sta entrando nella stagione umida, potremmo superare il numero totale annuale di Paesi che hanno combattuto i focolai nel 2022 e nel 2021.

E, come già sottolineato dalla Global Task Force for Cholera Control, il tasso medio di mortalità dei casi attuali è il doppio della soglia obiettivo inferiore all’1%. E ciò segnala solitamente problemi di qualità, accesso e rapidità delle cure. Con l’insorgere di focolai in molti più Paesi, stiamo anche assistendo a un numero maggiore di morti per colera rispetto al passato. Ad esempio, sono morte 3 persone su 100 contagiate dalla malattia in Malawi (dall’inizio dell’epidemia nel marzo 2022) e in Nigeria (e in Nigeria nel 2023).

In Malawi, dove è in corso una grave crisi umanitari, un’epidemia di colera ha già causato 1.759 vittime. «I bambini del Malawi sono al centro di una policrisi globale. L’insicurezza alimentare, esasperata da una crescente crisi climatica, dall’insorgere di malattie e dalla recessione economica globale, minaccia di creare scompiglio e di sconvolgere la vita di milioni di bambini», ha dichiarato il rappresentante dell’Unicef del Paese Gianfranco Rotigliano. «La prospettiva di avere oltre mezzo milione di bambini che soffrono di malnutrizione è inaccettabile. Senza una risposta immediata, l’impatto su questi bambini vulnerabili sarà mortale», aggiunge

Una malattia curabile

Eppure si tratta di una malattia facilmente curabile. La maggior parte delle persone può essere curata con successo attraverso la pronta somministrazione di una soluzione di reidratazione orale. Fornire acqua potabile e trattare correttamente le acque reflue protegge le persone dall’infezione. Esiste inoltre un vaccino orale.

In un articolo pubblicato su The Conversation , il microbiologo Sam Kariuki, direttore del Kenya’s Medical Research Institute, prova a spiegare perché il colera è così difficile da controllare in Africa. «A mio parere, i governi nelle aree endemiche non riconoscono il colera come un grave problema fino a quando non c’è una grande epidemia, quando è fuori controllo — scrive tra l’altro — . Alcuni paesi negano ancora i focolai. Ciò è in parte dovuto ai timori di ripercussioni sul commercio e sul turismo. Ma in un mondo interconnesso questo atteggiamento è inutile. Ciò che manca è uno sforzo concertato affinché tutti i paesi endemici – che considero tutti i paesi dell’Africa subsahariana – dispongano di misure congiunte per affrontare la trasmissione transfrontaliera e la persistenza delle epidemie di colera».

Scarso sostegno alle campagne di prevenzione

Che fare? Nel novembre 2022, l’Unicef ha lanciato un appello ai donatori per ottenere 150 milioni di dollari per rispondere alle epidemie di colera. Ma il sostegno è stato scarso. Da allora, in soli sei mesi, l’appello ai finanziamenti è cresciuto del 220%, mentre la situazione diventava sempre più grave. L’inazione costa vite, e denaro.

La situazione è destinata a peggiorare. «Sappiamo che non è una questione di se, ma di quando. Stiamo assistendo al cambiamento climatico come moltiplicatore di vulnerabilità. Con l’aumento del numero e dell’intensità degli shock climatici e l’innalzamento delle temperature, aumenteranno i danni ai servizi idrici e igienici, la contaminazione delle fonti d’acqua sicure e l’aumento degli sfollamenti di persone. Si pensi, ad esempio, ai cicloni come Freddy in Mozambico e Malawi, alle inondazioni in Pakistan e Nigeria dello scorso anno o alla siccità nel Corno d’Africa, che hanno creato condizioni favorevoli alle malattie trasmesse dall’acqua.

All’indomani del ciclone Mocha in Myanmar e Bangladesh, l’Unicef teme che il rischio di malattie trasmesse dall’acqua possa aumentare nei prossimi giorni» sottolinea Pfaffmann Zambruni che torna a chiedere con urgenza 480 milioni di dollari per interventi immediati di prevenzione e risposta al colera nei settori sanitario, idrico e igienico e della comunicazione del rischio e il coinvolgimento delle comunità per il cambiamento sociale e comportamentale.

Nel 2017, l’Oms ha lanciato una strategia globale per il controllo del colera dal nome suggestivo: «Ending Cholera: a global roadmap to 2030», con l’obiettivo di ridurre del 90% i decessi per colera. Di questo passo, però, più che un obiettivo rischia di diventare un miraggio.

Ecco perché il Covid ha fatto una strage in Val Seriana, lo studio: «Diffusione favorita dai geni dell'uomo di Neanderthal». Federico Fumagalli e Fabio Paravisi su Il Corriere della Sera giovedì 14 settembre 2023.

Giuseppe Remuzzi ha presentato i risultati dello studio effettuato dall'Istituto Mario Negri dopo avere analizzato i dati di 9.773 abitanti della valle. Bertolaso: «Informazioni eccezionali» 

Nella diffusione del Covid in Val Seriana hanno avuto una parte importante la presenza dei geni che risalgono all'Uomo di Neanderthal. Lo dice una ricerca che l’Istituto Mario Negri ha presentato oggi nel corso di un convegno ospitato dal Presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana. Si tratta di Origin, un articolato studio di popolazione che negli ultimi due anni ha visto i ricercatori del Mario Negri impegnati nell'analisi della relazione fra i fattori genetici e la gravità della malattia COVID-19 nella provincia di Bergamo, epicentro della pandemia. Lo studio, pubblicato sulla rivista iScience, dimostra che una certa regione del genoma umano si associava in modo significativo col rischio di ammalarsi di Covid-19 e di ammalarsi in forma grave nei residenti in quelle aree più colpite dalla pandemia.

 “La cosa sensazionale – commenta Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto Mario Negri - è che 3 dei 6 geni che si associano a questo rischio sono arrivati alla popolazione moderna dai Neanderthal, in particolare dal genoma di Vindija che risale a 50 mila anni fa ed è stato trovato in Croazia. Una volta forse proteggeva i Neanderthal dalle infezioni, adesso però causa un eccesso di risposta immune che non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. Le vittime del cromosoma di Neanderthal nel mondo sono forse 1 milione e potrebbero essere proprio quelle che, in assenza di altre cause, muoiono per una predisposizione genetica”.

 Lo studio ha coinvolto l’intera comunità e hanno aderito 9.733 persone di Bergamo e provincia che hanno compilato un questionario sulla loro storia clinica e familiare riferita al Covid-19. Il 92% dei partecipanti che avevano avuto Covid-19 si era infettato prima di maggio 2020. Tra questi, 12 persone avevano avuto sintomi già a novembre-dicembre 2019. All’interno di questo ampio campione sono state selezionate 1.200 persone - tutte nate a Bergamo e provincia - divise in tre gruppi omogenei per caratteristiche e fattori di rischio: 400 che hanno avuto una forma grave della malattia, 400 che hanno contratto il virus in forma lieve e 400 che non l’hanno contratto.

Le persone che avevano avuto Covid-19 severo avevano più frequentemente parenti di primo grado morti a causa del virus rispetto ai partecipanti con Covid-19 lieve o che non si erano infettati. Questo dato evidenzia un contributo della genetica alla gravità della malattia. 

I ricercatori del Mario Negri

 I campioni di DNA sono stati analizzati mediante un DNA microarray, una tecnologia in grado di leggere centinaia di migliaia di variazioni (polimorfismi) su tutto il genoma, che ha permesso di analizzare per ogni partecipante circa 9 milioni di varianti genetiche e di rilevare la regione del DNA responsabile delle diverse manifestazioni della malattia. In questa regione, alcune persone (circa il 7% della popolazione italiana) hanno una serie di variazioni dei nucleotidi (le singole componenti che costituiscono la catena del DNA) che vengono ereditati insieme e formano un aplotipo, ovvero l’insieme di queste variazioni. “I risultati dello studio ORIGIN – spiega Marina Noris, Responsabile del Centro di genomica umana dell’Istituto Mario Negri - dimostrano che chi è stato esposto al virus ed è portatore dell’aplotipo di Neanderthal aveva più del doppio del rischio di sviluppare Covid grave (polmonite), quasi tre volte in più il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e un rischio ancora maggiore di aver bisogno di ventilazione meccanica rispetto ai soggetti che non hanno questo aplotipo”. 

Questa suscettibilità è collegata in particolare alla presenza di tre dei sei geni di questa regione che si trovano sul cromosoma 3: si tratta dei geni CCR9 e CXCR6, responsabili di richiamare i globuli bianchi e causare infiammazione durante le infezioni, e del gene LZTFL1, che regola lo sviluppo e la funzione delle cellule epiteliali nelle vie respiratorie, condizionando le diverse manifestazioni della malattia. Non è chiaro quale gene giochi il ruolo più importante. Inoltre, lo studio ha identificato altre 17 nuove regioni genomiche (loci) di cui 10 potenzialmente associate a malattia severa e 7 potenzialmente associate a rischio di contrarre l’infezione. 

“È stata fondamentale la collaborazione di tutta la comunità – conclude Ariela Benigni, Segretario scientifico del Mario Negri. Un particolare ringraziamento va ai sindaci di Bergamo, Alzano Lombardo, Nembro, Albino, Ranica e di molti altri Comuni. Ma è stato indispensabile anche il contributo dei medici di base, delle farmacie, delle biblioteche, delle associazioni e di tutti i cittadini che si sono impegnati nella promozione dello studio. È grazie alla dedizione di ognuno di loro se oggi abbiamo raggiunto questo importante risultato”. 

«Siamo molto grati al professor Remuzzi e al suo staff - ha commentato Guido Bertolaso, assessore regionale al Welfare -. Ci permettono di condividere informazioni in prima battuta davvero eccezionali ed è un  privilegio avere in anteprima notizie di carattere mondiale. Mi chiedo per quale ragione questa tragedia non ha colpito l’Africa, ad esempio e per fortuna? Ho capito che faccio parte da Neanderthal, visto che ho avuto il Covid severo. Potremmo avere in futuro strumenti per proteggere categorie più a rischio, come appunto chi viene da Neanderthal. La ricerca ci permette di potere programmare. Il fascino dei nostri tempi è quello di avere, grazie alla genetica, risposte che mai nessuno è riuscito a raggiungere».

«Lo studio - ha aggiunto il presidente della Regione Attilio Fontana - apre una via interessante per meglio conoscere il Covid, anche se non dà risposte definitive. Con Remuzzi mi sono confrontato tante volte, mi disse che stava conducendo studi e ricerche che evidenziava la presenza di undici malati già nel 2019 e la componente genetica. Ho aderito alle sue proposte con entusiasmo, e lo studio ora ci dice cose importanti. È un passo importante per capire cos'è accaduto e interpretare ciò che potrà succedere in futuro».

Estratto dell'articolo di Giuseppe Remuzzi per corriere.it venerdì 15 settembre 2023. 

«The Lost Days That Made Bergamo a Coronavirus Tragedy». Insomma, i giorni persi che hanno fatto di Bergamo una tragedia del Coronavirus, un titolo del New York Times che non riuscirò a dimenticare. Bergamo – o meglio Nembro, Alzano, Albino – da dove parte la valle del Serio, diventa il centro del dramma del Coronavirus, più che qualunque altra parte del nostro mondo. 

Medici e infermieri che vanno e vengono, giorno e notte, senza sapere bene cosa fare, genitori separati dai bambini, anziani lasciati soli; per necessità, si capisce. Il New York Times racconta di un camionista, febbre alta, fiato corto. Arriva in ospedale. «Il tampone? Lei è stato in Cina?» (I protocolli dell’Oms lo prevedevano solo per chi veniva da là). Per lui risponde la moglie: «Giovanni la Cina non sa nemmeno dov’è». Solo a Nembro e solo a marzo i morti aumentano dell’850 per cento , fra il frastuono delle ambulanze e il silenzio delle campane.

La ricerca

I ricercatori del Mario Negri fanno quello che possono, fra ricerca di anticorpi, cicli di amplificazione dell’Rna — serve per capire se un tampone positivo, è positivo davvero — e poi collaboriamo con i medici di famiglia e con quelli dell’Ospedale. Si fa quello che si può, per provare a arginare qualcuna di quelle falle che se ne chiudi una se ne apre un’altra. 

Poi, le cose pian piano migliorano e allora si comincia a ragionare: «Perché la maggior parte delle persone infettate da Coronavirus ha soltanto sintomi lievi, può starsene a casa con un po’ di Aulin o qualcosa del genere e dopo qualche giorno guarisce, e perché altri hanno disturbi più importanti tanto da finire in ospedale, qualcuno in rianimazione e qualcuno muore?». 

Per cominciare ci si accorge che chi aveva un Covid severo, polmonite interstiziale e necessità di ricovero in rianimazione, aveva più spesso genitori o fratelli morti di Covid. Così si fa strada l’idea che ci potrebbe essere qualcosa di genetico.

Niente di nuovo, si capisce, a questo ci avevano pensato in tanti; sono state trovate, solo per fare un esempio, due regioni nel genoma umano che aumenterebbero il rischio di ammalarsi di Covid, una ha a che fare con i gruppi sanguigni: quelli di gruppo 0 avrebbero meno rischi rispetto al gruppo A e AB, forse gli anticorpi naturali li proteggono. 

Mettendo insieme tutti i dati viene fuori che il gruppo sanguigno potrebbe avere un certo ruolo, ma se c’è è marginale. […] 

L’intera comunità

Con lo Studio Origin si vorrebbe fare un passo avanti e provare a capire se quello che è successo a Bergamo ha per avventura qualche base genetica. Si coinvolge l’intera comunità — dai sindaci, alle scuole, alle associazioni di volontariato, ai medici, ai farmacisti, alla diocesi, e poi fondazioni e privati cittadini — e ancor prima la Regione Lombardia.

Si arriva a raccogliere dati clinici e storia famigliare di quasi 10 mila persone, da qui se ne possono selezionare 1.200 per tre gruppi assolutamente identici per caratteristiche cliniche e fattori di rischio: 400 avevano avuto una forma grave di malattia, 400 una forma lieve e 400 non si erano infettati. 

 Il Dna di tutte queste persone ci consente di studiare centinaia di migliaia di polimorfismi (sono siti di variazioni genetiche) e ci concentriamo sui 130 mila che governano l’ingresso del virus nelle cellule, i 24 mila della risposta immune e i 16 mila che hanno a che vedere con la severità della malattia e le sue complicanze. In tutto si studiano quasi 9 milioni di variazioni per ciascun individuo.

Il risultato di tutto questo, che iScience pubblica in questi giorni, colpisce anche noi: una sola regione genomica risulta essere più importante di tutte le altre per capire perché ci si ammala gravemente. È un «aplotipo di rischio», dicono i medici: «aplotipo» definisce un certo numero di variazioni di geni vicini l’uno all’altro che si ereditano tutti insieme. Questo aplotipo si trova sul cromosoma 3, comprende geni che contribuiscono alla sintesi di mediatori della risposta immune e altri che presiedono alla funzione di certe cellule degli alveoli polmonari. 

Fin qui niente di speciale, se non fosse che questo aplotipo arriva a Nembro, Alzano e Albino direttamente dai... Neanderthal, dopo essere passato attraverso duemila generazioni almeno. Com’è possibile? È perché tra 70 mila e 50 mila anni fa l’Homo Sapiens lascia l’Africa, arriva in Europa, si incrocia con i Neanderthal che abitavano quelle aree, e altre dell’Asia già da molto tempo, ed è proprio grazie a quell’incontro che una piccola parte di quei geni arriva fino a noi. Proprio così, ciascuno di noi ha nel suo Dna dall’1 al 4 per cento dei geni di Neanderthal.

[...] 

I risultati

Lo studio dei ricercatori del Mario Negri ha stabilito che chi è portatore dei geni di Neanderthal aveva un rischio più del doppio di sviluppare Covid grave, e più di tre volte di avere bisogno di terapia intensiva e di ventilazione meccanica rispetto a chi non ha questo aplotipo. 

C’è dell’altro in questo studio: sono state identificate 17 nuove regioni genomiche (loci), di cui 10 potenzialmente associate a malattia severa e sette al rischio di contrarre infezione, questo non è mai stato visto in precedenza, in particolare il locus 2q14.3 è di un certo interesse perché comprende un gene associato a una proteina che aumenta soltanto nei casi di Covid severo; questo potrebbe diventare lo spunto per trovare nuove terapie.

Ma che ci facevano quelle variazioni genetiche nei Neanderthal? Una volta forse li proteggevano dalle infezioni ma adesso che ci troviamo di fronte a un virus forse nuovo (o forse no) l’eccesso di risposta immune non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. 

Qualcuno di voi a questo punto si chiederà quante saranno state presumibilmente le vittime dell’aplotipo di Neanderthal in tutto il mondo. Svante Pääbo in un primo momento aveva calcolato che potessero essere 100 mila, ma poi ha rifatto i conti e ha annunciato in un congresso di pochi giorni fa che l’aplotipo di Neanderthal ha fatto probabilmente un milione di vittime. Forse sono quei morti per cui non si trova una giustificazione: non veramente anziani, senza malattie associate, senza compromissione del sistema immune.

Di tutto questo c’è una cosa che fa una certa impressione: i nostri antenati fanno all’amore con i Neanderthal 50 mila anni fa e questo può far morire noi adesso.

Strage Covid "colpa" di Neanderthal. La diffusione del virus in Val Seriana legata alla presenza del Dna di 50mila anni fa. Serena Coppetti il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.

In estrema sintesi, se 50mila anni fa l'Uomo di Neanderthal e la Donna Sapiens non si fossero incontrati in qualche sperduto luogo tra la Persia e la Croazia per quel fortuito gioco dell'evoluzione umana che tutti conosciamo, oggi, duemila generazioni dopo, il Covid non avrebbe potuto fare gravi danni. Senza forse. Non è fantamedicina, ma il risultato rigoroso di uno studio durato ventiquattro mesi, realizzato dall'Istituto Mario Negri di Milano, che sarà pubblicato a giorni sulla rivista scientifica iScience e anticipato ieri in Regione Lombardia. Con il titolo che è già un destino, «Origin», gli scienziati sono andati a cercare se e quale relazione ci fosse tra fattori genetici e gravità della malattia. Perché alcuni si sono ammalati di più e altri di meno, se il dna in qualche modo poteva fornire una risposta scientifica a quello che è parso un beffardo gioco della sorte nel distribuire sintomi lievi e morti inspiegabili nell'anno '20 di una nuova era. Sotto la lente di ingrandimento per due anni è finito così un campione di 1200 persone nella provincia di Bergamo, epicentro della pandemia, selezionate tra quasi diecimila volontari. 9.733 per l'esattezza, ognuno con la sua storia clinica e familiare, finita diligentemente dentro un questionario. Ma sotto quella lente è finito soprattutto il loro dna, analizzato per ciascuno dei 1200 selezionati nelle sue 9 milioni di varianti. E lì, dentro quell'incrocio di ataviche indelebili informazioni, è spuntato lui, l'Uomo di Neanderthal, già responsabile secondo gli esperti di parecchi acciacchi più o meno gravi di noi discendenti.

«Chi è stato esposto al virus ed è portatore dell'aplotipo di Neanderthal - ha spiegato Marina Noris, responsabile del Centro di genetica umana del Mario Negri - aveva più del doppio del rischio di sviluppare Covid grave (polmonite), quasi tre volte in più il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e un rischio ancora maggiore di aver bisogno di ventilazione meccanica rispetto ai soggetti che non hanno questo aplotipo». C'è insomma chi è più neanthedarliano e chi meno. E di questo il sospetto forse qualcuno lo aveva già avuto... Ma qui la preistoria diventa scienza, dà risposte al presente ma soprattutto proietta verso prevenzioni future. Chi ha una percentuale maggiore di quel «pacchetto» di geni derivanti dall'Uomo di Neanderthal ha corso il rischio di contrarre il Covid in modo più severo. «La cosa sensazionale» per Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto Mario Negri che ieri ha illustrato la ricerca «è che 3 dei 6 geni che si associano a questo rischio sono arrivati alla popolazione moderna dai Neanderthal, in particolare dal genoma di Vindija che risale a 50 mila anni fa ed è stato trovato in Croazia. Una volta forse proteggeva i Neanderthal dalle infezioni, adesso però causa un eccesso di risposta immune che non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. Le vittime del cromosoma di Neanderthal nel mondo sono forse un milione e potrebbero essere proprio quelle che, in assenza di altre cause, muoiono per una predisposizione genetica». E questo spiegherebbe anche perché ad esempio il Covid non ha toccato la popolazione dell'Africa, ma si è concentrato solo in alcune zone del mondo.

Per entrare nel merito, questa suscettibilità è collegata in particolare alla presenza di tre dei sei geni di questa regione che si trovano sul cromosoma 3: si tratta dei geni CCR9 e CXCR6, responsabili di richiamare i globuli bianchi e causare infiammazione durante le infezioni, e del gene LZTFL1, che regola lo sviluppo e la funzione delle cellule epiteliali nelle vie respiratorie, condizionando le diverse manifestazioni della malattia. È provato quindi che nel prototipo Neanderthal le cellule infiammatorie sono più reattive mentre quelle «cigliate» delle vie respiratorie avevano minore capacità di liberarsi dal virus. Non è chiaro quale gene giochi il ruolo più importante. Tutto molto complicato, ma quando si parla di Covid come ha sottolineato Remuzzi se c'è una cosa che ci ha insegnato è a «non avere certezze». A parte una, ora: che l'Uomo di Neanderthal continua a far danni in mezzo mondo.

Il Covid «scappato» da un laboratorio. Accuse alla Cia: «Ha pagato per insabbiare le ricerche». Il Corriere della Sera il 14 settembre 2023.

Rivelazione del Ny Post: secondo la Cia americana era una ipotesi questa più che probabile tant’è che «ha pagato diversi analisti per insabbiare le loro scoperte». 

Il virus del Covid è davvero fuoriuscito da un laboratorio cinese e invaso il mondo intero? Secondo la Cia americana era una ipotesi questa più che probabile tant’è che «ha pagato diversi analisti per insabbiare le loro scoperte». Ovvero che il Covid-19 era il frutto di un esperimento umano. Un mistero, trama di un film fantascientifico, che vengono alimentati da una notizia rimbalzata sui siti americani e che riprendere una notizia pubblicata dal Ny Post.

Secondo una lettera inviata martedì al direttore della Cia William Burns un funzionario di alto livello della Cia ha riferito ai leader della commissione che la sua agenzia avrebbe tentato di pagare sei analisti: il pagamento sarebbe avvenuto se avessero cambiato la loro posizione e avessero, cioè, affermato che il virus era passato dagli animali all’uomo e non fuoriuscito da un laboratorio. A denunciare la vicenda è stato un whistleblower, un funzionario protetto da anonimato. Il fantasma che il Covid possa essere stato generato in laboratorio era stato anche rilanciato alcuni mesi fa dall’Fbi «che da tempo ha valutato che la pandemia sia scoppiata per un incidente di laboratorio a Wuhan», dice Christopher Wray, direttore dell’FBI. Gli analisti del Federal Bureau of Investigation nel loro rapporto considerano «il potenziale incidente» la spiegazione «più probabile». La dichiarazione del direttore Wray arriva pochi giorni dopo che il Wall Street Journal aveva pubblicato l’esito di un dossier del Dipartimento per l’Energia di Washington che pure puntava verso il laboratorio di Wuhan. Quel rapporto avvertiva che il grado di certezza resta peraltro «basso». Wray parla invece di probabilità alta. E non sarebbe la prima volta che un virus scappi da un laboratorio.

Una notizia, quella che il Covid fosse «scappato» da un laboratorio che il presidente dell’Aifa, in una intervista rilasciato al Corriere aveva ipotizzato come più che possibile. ««È suggestivo un dato, che andrà comunque confermato da ulteriori verifiche di altri ricercatori. Il ceppo prototipo di Wuhan, quello che ha cominciato a manifestarsi in Cina con forme gravi di polmonite, e tutte le varianti che ne sono derivate, anche quelle considerate non interessanti nella classificazione internazionale, presentano una caratteristica affatto peculiare. Nel gene che produce la proteina Spike (quella che il virus utilizza per agganciare la cellula da infettare), appare inserita una sequenza di 19 lettere appartenente ad un gene umano e assente da tutti i genomi dei virus umani, animali, batterici, vegetali, sinora sequenziati. La probabilità che si tratti di un evento casuale è pari a circa una su un trilione. Una sequenza essenziale perché conferisce al virus la capacità di fondersi con le cellule umane e di determinare la malattia».

(ANSA il 19 luglio 2023) - L'amministrazione Biden ha sospeso i finanziamenti al laboratorio di Wuhan dopo una revisione durata mesi dalla quale è emerso che l'istituto cinese non è conforme alle regole federali. 

Lo riporta il New York Times sottolineando che il Dipartimento della Salute ha proposto un divieto di finanziamento del laboratorio di dieci anni. La sospensione dei fondi al Wuhan Institute of Virology, che non ha ricevuto finanziamenti americani dal 2020, è necessaria per "mitigare potenziali rischi alla salute pubblica". Il laboratorio ha ora 30 giorni per rispondere alle rilevazioni delle autorità americane.

Covid: i “pazienti zero” erano scienziati dell’Istituto di Virologia di Wuhan. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 21 Giugno 2023

Ben Hu, Ping Yu e Yan Zhu. Sono questi i nomi dei tre scienziati che conducevano ricerche nel campo del guadagno di funzione sui nuovi coronavirus presso l’Istituto di Virologia di Wuhan e che sarebbero anche i “pazienti zero”, ossia i primi esseri umani ad aver contratto la Covid-19 a novembre 2019. 

È quanto emerge da alcuni documenti del FOIA ottenuti nel 2021 dal progetto White Coat Waste Project (WCW) e da una recente inchiesta dei giornalisti Michael Shellenberger, Matt Taibbi e Alex Gutentag, pubblicata sulla newsletter Substack Public. «Dopo anni di dichiarazioni ufficiali contrarie, sono emerse nuove prove significative che rafforzano la tesi secondo cui il virus SARS-CoV-2 è sfuggito accidentalmente dal Wuhan Institute of Virology (WIV)», scrivono gli autori dell’indagine. 

I nuovi dettagli sono stati rivelati circa quattro mesi dopo che il direttore dell’FBI Christopher Wray ha ammesso in una intervista a Fox News che il Bureau ritiene che la Covid-19 «molto probabilmente» abbia avuto origine in un «laboratorio controllato dal governo cinese».

Trovare il “paziente zero” rimane, infatti, la chiave per determinare definitivamente chi e cosa abbia provocato la pandemia. L’esistenza dei tre scienziati era nota grazie a uno scoop del Wall Street Journal su un report dell’intelligence USA. La notizia aveva rinvigorito il dibattito sull’ipotesi della “fuga dal laboratorio”, inizialmente liquidata come fake news e derubricata a “teoria del complotto”, ma l’identità del personale malato era stata tenuta segreta dalle autorità degli Stati Uniti e della Cina, fino a ora. Un nuovo rapporto basato su una fonte del governo degli Stati Uniti ha confermato le loro identità con certezza del “100%”.

Secondo Public, i tre scienziati stavano effettuando esperimenti nel campo del guadagno di funzione, quando si sono ammalati nell’autunno del 2019 e sono stati ricoverati in ospedale. I registri contabili federali ottenuti dal WCW attraverso una causa del Freedom of Information Act (FOIA) del 2021 contro il National Institutes of Health (NIH) confermano che Ben Hu era a capo dei pericolosi esperimenti sui virus finanziati dai contribuenti tramite il National Institutes of Allergy and Infectious Diseases del dr. Anthony Fauci (NIAID) e l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID). 

La testata di inchiesta The Intercept aveva pubblicato – nel settembre 2021 – 900 pagine di documenti riservati sulla cooperazione tra USA e Cina in merito alle ricerche sui coronavirus nei pipistrelli all’interno del laboratorio di Wuhan. I documenti (qui e qui) rilasciati attraverso il ricorso al FOIA di The Intercept contro il NIH, svelarono che l’Ong americana EcoHealth Alliance, finanziata da Fauci e guidata da Peter Daszak, aveva fornito 3,1 milioni di dollari utilizzati anche per identificare e alterare i coronavirus in merito agli studi sul guadagno di funzione. 

[I documenti emersi dall’inchiesta di Public in cui emergono i finanziamenti di NIAID e USAID al laboratorio di Wuhan in cui il paziente zero, Ben Hu, guidava i pericolosi esperimenti sul guadagno di funzione.]Ora si scopre che NIAID e USAID avrebbero inviato oltre 41 milioni di dollari in sovvenzioni finanziate dai contribuenti americani al laboratorio di Wuhan in cui il paziente zero, ora identificato come Ben Hu, guidava i pericolosi esperimenti sul guadagno di funzione. Hu ha collaborato con la virologa Shi Zheng-Li, che ha scoperto l’origine della SARS e da anni studia i coronavirus dei pipistrelli per creare ibridi ricombinanti e per questo è stata soprannominata “Bat Woman”. 

La nota biologa molecolare presso il Broad Institute del MIT e Harvard, Alina Chan, ha spiegato che Ben Hu era “l’allievo migliore” di Shi Zheng-Li. Un video del 2017 della TV statale cinese mostra Hu, Zheng-Li e altri scienziati che maneggiano pipistrelli e campioni di laboratorio senza un adeguato equipaggiamento protettivo. Secondo Chan, coautrice del libro Viral: The Search for the Origin of Covid-19, gli scienziati dell’Istituto di Virologia di Wuhan hanno condotto le loro ricerche a un livello di sicurezza di rischio biologico inferiore rispetto a BSL-2 «quando ora sappiamo che il virus pandemico è persino in grado di fuoriuscire da un laboratorio BSL-3 e infettare giovani lavoratori di laboratorio completamente vaccinati».

Per quanto manchi ancora la cosiddetta “pistola fumante”, queste recenti rivelazioni hanno portato alla luce nuove prove che rafforzano la tesi dell’origine artificiale del virus, sollevando interrogativi cruciali sull’origine della pandemia. 

Per due anni, parlare della possibilità che il virus potesse essere sfuggito da un laboratorio era considerato un vero e proprio tabù. Le voci critiche rispetto alla narrazione ufficiale sono state denigrate (Open, Repubblica, Corriere della sera, FanPage, ecc.), criminalizzate e censurate (come confermato dai Twitter Files e dai Facebook Files). Solo con l’apertura dell’amministrazione Biden a una inchiesta sulla nascita della pandemia, gli algoritmi sui social sono stati modificati, revocando il veto sui post disallineati.  

Eppure, sebbene questo tabù sia stato spezzato, incentivando un’analisi più obiettiva e approfondita dell’origine del virus, gran parte dei media – soprattutto italiani – per non sconfessare se stessa, preferisce continuare a ignorare o etichettare le inchieste divergenti come “cospirazionismo”. E, infatti, l’inchiesta di Public, nel nostro Paese, è passata sotto silenzio. [di Enrica Perucchietti]

Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera per repubblica.it il 12 giugno 2023.

La “pistola fumante”, almeno per ora, non c’è. Ma il Sunday Times ha pubblicato ieri un dettagliato e lunghissimo articolo sulle origini del Covid-19 secondo cui è sempre più probabile che il Coronavirus che ha scatenato la recente pandemia mondiale sia stato originato da un incidente di laboratorio nell’Istituto di virologia di Wuhan. Ovvero la città cinese dove, secondo la narrativa ufficiale, il virus avrebbe invece per la prima volta contagiato un gruppo di umani dal famigerato mercato del pesce.

Ma le cose non starebbero così, almeno secondo l’inchiesta del settimanale britannico. Che ha consultato centinaia di documenti, alcuni dei quali diventati di pubblico dominio grazie al “Freedom of Information Act”, e comunicazioni top secret, parlato con diversi esperti e soprattutto con fonti dell’intelligence americana che sta indagando sulle origini del Coronavirus che ha afflitto il mondo fino all’anno scorso e ucciso 7 milioni di persone. 

Alla fine, secondo l’inchiesta, è probabile che la pandemia da Covid sia nata da una fuga dal laboratorio di Wuhan, che “la Cina stesse conducendo esperimenti proprio su Coronavirus modificati in laboratorio coordinati dal Ministero della Difesa cinese in vista di una possibile guerra batteriologica” e che “Pechino abbia nascosto molti dati ed esperimenti negli ultimi anni alle autorità straniere".

La storia raccontata dal Sunday Times parte da lontano. Ossia dalla fondazione dell’Istituto di Virologia di Wuhan nel 2003, per comprendere le origini del virus respiratorio Sars. Il laboratorio negli anni riesce ad accumulare fondi per decine di milioni di dollari anche da scienziati e istituzioni americane, per la ricerca sui vaccini anti Sars e altri simili virus letali della famiglia del Coronavirus. Un’iniezione di denaro che aumenta soprattutto dopo l’11 Settembre e i timori negli Stati Uniti e Occidente di una guerra batteriologica. La ricerca viene guidata a Wuhan dalla misteriosa e controversa capo-scienziata 39enne Shi Zhengli, che verrà soprannominata “BatWoman” per il suo lavoro sui pipistrelli in caverne e miniere e che ancora oggi lavora in quell’istituto.

[…] 

Negli anni, nonostante una moratoria di Obama nel 2014 sulla sperimentazione di agenti patogeni potenziati, gli scienziati cinesi iniziano ad incrociare e a sviluppare sempre di più “cocktail di virus”, o incroci di pestilenze recuperate soprattutto da resti e feci dei pipistrelli. L’obiettivo, secondo gli investigatori americani, è quello di creare virus sempre più infettivi per gli umani. Secondo il Sunday Times, il laboratorio di Wuhan insiste nelle sue sperimentazioni e a un certo punto, “mescolando” il coronavirus W1Y1 con il SHC014 e un altro patogeno simile alla Sars, crea un virus più letale del 300%, almeno a vedere i risultati sui topi geneticamente modificati con polmoni simili agli umani: il 75% infettato da questo nuovo virus muore.

Ma queste informazioni non vengono condivise con i colleghi occidentali. Allora, l’agenzia statunitense Darpa (Defence Advanced Research Projects Agency) e altre si rifiutano di continuare a sovvenzionare le ricerche del laboratorio di Wuhan. 

Secondo i documenti e le fonti occidentali consultate dal Sunday Times, le cose cambiano davvero dal 2016. Quando gli scienziati cinesi ammettono di aver scoperto, 4 anni prima, un nuovo tipo di Coronavirus in una miniera di Mojiang, sempre nella provincia di Yunnan, insieme ad altri otto. Alcuni studiosi che hanno raccolto campioni ed escrementi di pipistrello muoiono dopo aver sofferto di sintomi simili alla Sars, anche se Pechino questo non lo comunicherà nella circostanza. La variante viene chiamata “RaTG13”, e la sequenza del genoma è quella più simile al Covid che abbiamo conosciuto nel 2020.

Le autorità cinesi non informano quelle internazionali delle vittime né di questi e altri avvenimenti. O almeno, lo fanno solo parzialmente. “In questo momento, le comunicazioni e la condivisione di informazioni con i cinesi si interrompe improvvisamente”, dicono fonti di intelligence americane […] 

Secondo i documenti e le fonti del Sunday Times, in questi anni il laboratorio di Wuhan avrebbe iniziato a sperimentare e incrociare il RaTG13 insieme agli altri virus rivenuti a Mojiang. Inoltre, secondo l’intelligence americana, negli ultimi anni Pechino si sarebbe già preparata a un vaccino contro il Covid, tanto che ha destato sospetto la tempestiva presentazione di un brevetto già nel febbraio 2020.

[…] Studi recuperati dal settimanale e confermati in un report del Senato Usa, inoltre, dimostrano come i primi veri focolai siano avvenuti proprio intorno all’istituto di Virologia di Wuhan e non al mercato del pesce e altri animali lontano alcuni chilometri in città.

Quindi davvero il Covid19 è scappato dal laboratorio di Wuhan? È molto probabile, secondo il Sunday Times e le sue fonti, sebbene la prova certa non ci sia. […]

Estratto dell'articolo di Matteo Legnani per “Libero quotidiano” il 31 maggio 2023.

A più di tre anni dall’esplosione della pandemia di Covid, uno scienziato cinese ha dichiarato per la prima volta pubblicamente, oltretutto a un organo di informazione non cinese, che l’ipotesi secondo cui il contagio partì dai laboratori dell’Istituto di virologia di Wuhan «non può essere scartata. Nessuna ipotesi può essere eliminata, bisogna sempre sospettare di tutto, questo è la scienza» ha dichiarato a BBC Radio 4 il professor George Gao. 

Capo del Centro cinese per il controllo delle malattie prima e durante la pandemia, il dottor Gao è considerato uno dei più rispettati virologi e immunologi al mondo.

Il governo di Pechino ha sempre risolutamente escluso che il virus possa essere scaturito da quel laboratorio, ma Gao ha spiegato alla BBC che una qualche forma di investigazione ufficiale, in realtà, era stata condotta presso l’istituto di Wuhan, in una fase successiva al picco di pandemia. 

Leggendo quanto da lui ammesso alla BBC, si può ragionevolmente dire che Gao (il quale ha lasciato il Centro cinese per il controllo delle malattie un anno fa) abbia fatto, nell'intervista all’emittente britannica, un mezzo passo avanti e un mezzo passo indietro, dicendo prima che nessuna ipotesi possa essere scartata e riferendo poi che i controlli ai laboratori di Wuhan avrebbero dato esito negativo. 

[…]

Nessuno è riuscito, in questi tre anni, a dimostrare che le cose siano andate diversamente, anche se due diverse agenzie federali americane hanno nei mesi scorsi affermato che l’ipotesi di una fuga del virus dall’Istituto di virologia di Wuhan sia di gran lunga la più credibile. A dirlo, sulla base di informazioni di intelligence, era stato nel febbraio scorso il Dipartimento per l'Energia USA, seguito un mese più tardi del Federal bureau of investigation. 

«Abbiamo solide basi per affermarlo» aveva dichiarato il direttore dell’Fbi, Christopher Wray, facendo scattare con le sue parole l'ennesima crisi diplomatica tra Washington e Pechino.

Da tre anni, infatti, le due diverse teorie, quella del laboratorio e quella del mercato come luogo d'origine del contagio, sono al centro di uno scontro geo-politico tra Cina e occidente, di una enormità di teorie complottiste e di uno dei dibattiti scientifici più politicizzati e avvelenati di tutti i tempi. Pechino ha sempre accusato i sostenitori della fuga dal laboratorio di cospirare contro i suoi interessi globali. 

[…] Anche se, in una interessante lettura delle parole del dottor Gao, la stessa BBC non esclude che possano andare proprio nella direzione del governo cinese.

Che, fin dall'inizio della pandemia, non ha mai escluso una terza alternativa, meno nota rispetto alle due che sono sempre andate per la maggiore: quella secondo cui il virus possa essere arrivato a Wuhan, e in particolare proprio al mercato di Huanan, viaggiando sugli imballaggi di cibo congelato. E proprio perché il dottor Gao ha detto che «nessuna ipotesi può essere scartata in assenza di evidenza», potrebbe con le sue parole aver dato credibilità persino a questa versione dei fatti.

Un fungo delle piante ha infettato un uomo: primo caso al mondo in India. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2023

Il fungo responsabile della «malattia della foglia d’argento» ha contagiato un uomo . Tra i sintomi un ascesso sulla trachea, tosse, voce rauca. Il paziente è guarito dopo due mesi di antimicotici

Il salto di specie questa volta arriva dal mondo vegetale, con un fungo che in genere infetta le piante e che invece ha contagiato un uomo. Per la prima volta nella storia della letteratura scientifica infatti, un particolare fungo, il Chondrostereum purpureum, responsabile della «malattia della foglia d’argento», detta anche «mal di piombo» fatale per le piante se non trattato rapidamente, ha infettato un essere umano.

I sintomi e l’ascesso sulla trachea

Il caso è stato raccontato sulla rivista scientifica specializzata Medical Mycology Case Reports e riguarda un uomo di 61 anni, un micologo indiano che tuttavia ha dichiarato di non aver mai avuto contatto con questo specifico fungo prima dell’infezione, nonostante per il suo lavoro sia invece entrato in contatto con materiale in decomposizione e altri funghi in decomposizione. L’uomoi si è presentato in uno studio medico di Calcutta accusando sintomi come difficoltà di deglutizione, tosse, malessere generale, stanchezza, voce rauca. Una tomografia computerizzata all’altezza del collo ha rilevato la presenza di un ascesso pieno di pus all’altezza della trachea. Il paziente prima di questo episodio era in perfetta salute, con un sistema immunitario sano e senza malattie croniche. I test di laboratorio non hanno identificato batteri ma sono invece state identificate strutture filamentose provocate dai funghi, le ife fungine ma solo con il sequenziamento del Dna, grazie all’interessamento di un centro di ricerca sui funghi dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è stato possibile risalire al responsabile dell’infezione, ovvero al Chondrostereum purpureum che come detto, nelle piante provoca il «mal di piombo», nome che deriva dal fatto che le piante infettate diventano di un caratteristico color argento.Grazie a un trattamento con un antimicotico e al drenaggio dell’ascesso la malattia è stata debellata dopo due mesi e non si è più ripresentata nei due anni successivi.

Le malattie funginee rare nell’uomo

In genere il Chondrostereum purpureum colpisce in particolare gli alberi da frutta, anche se occasionalmente può infettare rose, rododendri e altre specie ornamentali. La patologia provoca una colorazione metallica delle foglie che assumono appunto un color piombo-argentato. Negli esseri umani le malattie funginee sono estremamente rare perché difficilmente riescono ad attecchire nell’organismo umano a causa della risposta immunitaria, della temperatura e altri fattori. Tuttavia su milioni di specie conosciute solo alcune possono causare problemi all’uomo come il piede dell’atleta, la tigna, il mughetto sono infatti infezioni piuttosto comuni. Ci sono però che comunemente di nutrono di vegetazione in decomposizione, come le specie di Aspergillus , possono infettare le parti più profonde dell’organismo umano. Di recente ha destato preoccupazione la candida auris, un tipo di fungo che causa la candidosi nell’uomo e talvolta infezioni che in un caso du tre risultano mortali perché il fungo è resistente ai farmaci antimicotici.

Quel virus "zombie" che dopo 50mila anni torna dai ghiacci dell’Artico. Storia di Alessandro Ferro su Il Giornale il 14 marzo 2023.

Non c'è alcuna minaccia immediata ma è bene prepararsi agli scenari del futuro per evitare un nuovo Covid-19: è questo il senso che ha mosso alcuni scienziati nell'andare a cercare sul permafrost, ossia i ghiacci perenni del Circolo Polare Artico, alcuni virus congelati da migliaia di anni per farli "rivivere" in laboratorio e studiarne le caratteristiche. Uno di questi, addirittura, avrebbe ben 48.500 anni e non

Cosa succede sui ghiacci artici

Il trend verso l'alto delle temperature sta facendo lentamente sciogliere il ghiaccio in alcune aree artiche con agenti virali che, dopo essere rimasti in "letargo" per decine di migliaia di anni potrebbero tornare a circolare tra uomini e animali. I ghiacci perenni ricoprono una vasta area che va dalla tundra artica dell'Alaska al Canada ma anche in gran parte della Russia: per capire meglio i rischi dei virus congelati, Jean-Michel Claverie, professore emerito di medicina e genomica presso la Scuola di Medicina dell'Università di Aix-Marseille a Marsiglia, in Francia, ha testato alcuni campioni prelevati dal permafrost siberiano per scoprire se eventuali particelle virali siano ancora in grado di infettare.

Li chiama "virus zombie" e ne ha trovati alcuni: in uno dei ceppi prelevati il più "giovane" ha 27mila anni ed è stato rinvenuto nello stomaco e nel mantello dei resti di un mammut, il più anziano di quasi 50mila anni è stato scoperto all'interno di un lago sotterraneo posto a 16 metri al di sotto della superficie.

"Vediamo questi virus che infettano l'ameba come surrogati di tutti gli altri possibili virus che potrebbero trovarsi nel permafrost", ha dichiarato Claverie alla Cnn. Ma, come detto, gli scienziati hanno trovato tracce di molti altri virus. "Quindi sappiamo che sono lì. Non sappiamo per certo che siano ancora vivi. Ma il nostro ragionamento è che se i virus dell'ameba sono ancora vivi, non c'è motivo per cui gli altri virus non siano ancora vivi e in grado di infettare i propri ospiti".

La protezione delle difese immunitarie

Nessun allarme, dunque, ma soltanto attenzione e una nuova consapevolezza di quanto può accadere ai giorni nostri della globalizzazione con agenti virali e batteri. La professoressa emerita Birgitta Evengård, del Dipartimento di microbiologia clinica dell'Università di Umea in Svezia, ha affermato che dovrebbe essere potenziata la sorveglianza sul potenziale rischio di nuovi (ma in realtà vecchi) agenti patogeni che possono riemergere con lo scioglimento dei ghiacci ma allo stesso tempo ha subito troncato qualsiasi approccio allarmistico. "Dobbiamo ricordare che la nostra difesa immunitaria è stata sviluppata a stretto contatto con l'ambiente microbiologico", ha affermato la docente. E poi, non tutti i virus che esisono nel mondo sono dannosi per l'uomo, anzi, alcuni sono benigni o addirittura benefici per i loro ospiti.

Si fa presto a dire peste. Per secoli i rimedi hanno ucciso più delle malattie che dovevano curare. Arnaldo D’Amico su L’Inkiesta il 18 marzo 2023.

L’approccio alle patologie, come al loro trattamento, è rimasto a lungo nella sfera del miracolo, interpretato come un dono o un castigo divino. Un volume edito dal Saggiatore racconta la più grande battaglia mai combattuta dall’umanità: quella che ha portato alla scoperta della «memoria del nemico»

I «senza paura» hanno capito che l’epidemia li sta risparmiando. La morte gli scava il vuoto intorno, colpisce l’amico salutato il giorno prima, arriva addirittura in casa sua portandosi via i figli, eppure lui è vivo. Il perché si scoprirà tre secoli dopo: questi individui hanno già incontrato e sconfitto il nemico di cui il loro organismo serba memoria, le difese vittoriose ancora schierate distruggono il microbo della peste appena rimette piede nel corpo.

A volte la vittoria è arrivata senza neanche ammalarsi in modo evidente. Da una pulce o con un respiro gli sono arrivati pochi batteri, eliminati subito, prima che potessero moltiplicarsi in un numero sufficiente per rendere vincente l’invasione. Hanno avuto solo un po’ di febbre o qualche gonfiore passati inosservati. Quanto è bastato però ad attivare la memoria del nemico, come un vaccino. Se invece si sono accorti di aver avuto la peste perché la battaglia immunitaria e i sintomi sono stati intensi, sanno di essere dei sopravvissuti.

Ma, preceduta da una guarigione o meno, l’immunità non è un mistero, non vi è nulla da indagare, neanche per la medicina. La malattia, ma anche la salvezza, vengono da Dio, dagli astri o da uno squilibrio degli umori che di volta in volta decidono il destino dell’uomo. Non a caso, il termine immunitas, che darà il nome al sistema di difesa del corpo, sin dalla sua comparsa, indirizza l’attenzione sul soprannaturale, impedendo la ricerca della sua origine nel corpo.

Nel I secolo d.C. Marco Anneo Lucano usa il termine immunitas per indicare non solo l’esenzione da obblighi giudiziari, fiscali o militari ma anche chi sopravvive al veleno dei serpenti o altre malattie. L’estensione del significato si ritrova subito in altri scritti medici riferita anche alle epidemie. Ma, invece di una funzione naturale del corpo, viene interpretata come un carattere raro e particolare del soggetto. Un dono prezioso, che, come tale non può che essere di origine celeste. Gli immuni si avviano a diventare dei segnati da Dio, nel bene e nel male. […]

Dal 430 a.C., anno in cui si può fissare la data in cui è stato colto il primo e principale sospetto dell’esistenza del sistema immunitario, al 1883, quando lo si scopre, dando il via alla conquista della medicina che più benefici ha portato e porterà all’umanità, passano oltre due millenni. Per essere precisi 2313 anni, in cui non è stato determinante il progresso delle tecnologie per le indagini, come per esempio il microscopio, nel permettere il taglio del traguardo.

Atene perde la guerra contro Sparta perché la peste falcia cittadini, soldati, marinai, generali e lo stesso Pericle. Il termine «peste» per secoli ha indicato una epidemia qualsiasi, infatti quella del 430 a.C. di sicuro non è da Yersinia pestis. […]

La prima testimonianza scritta del ricorso al soprannaturale coincide con quella della medicina ed è in cuneiforme. Seimila i demoni che nella Mesopotamia del ii millennio a.C. deve conoscere un medico. Uno di questi è la causa dello shertu – che vuol dire sia malattia sia peccato –, del suo paziente. Poi prescrive la cura a base di preghiere ed esorcismi specifici. Il demone giusto lo «diagnostica» con la posizione degli astri, lo studio del volo degli uccelli e del fegato degli animali sacrificali. […]

Peste bubbonica è l’epidemia del 541, detta anche «peste di Giustiniano», dal nome dell’imperatore romano d’Oriente sotto il cui regno si scatenò. A differenza di tutti i precedenti, sul tipo di flagello non ci sono dubbi. […] Da Costantinopoli in due anni la peste raggiunge tutto il mondo allora conosciuto, come farà dal 1347. Verso oriente arriva all’Azerbaigian, a occidente all’Africa del Nord, i Balcani, l’Italia, la Spagna, la Gallia e la Britannia.

Secondo le stime attuali muoiono tra i 50 e i 100 milioni di persone, la metà della popolazione dell’impero, al ritmo anche di 5000 al giorno. Si vuotano città, campagne ed eserciti. Ne approfittano arabi, berberi, germani, ostrogoti e poi longobardi. Giustiniano li ricaccia oltre i confini dell’impero ma quei territori spopolati e con presidi militari insufficienti vengono presto rioccupati, sancendo la fine del tentativo di Giustiniano di ricostruire l’Impero romano. L’epidemia sembra esaurirsi nel 544, Giustiniano appena guarito dalla peste la dichiara finita. Invece il flagello si ripresenta ciclicamente per altri due secoli circa almeno.

Rispetto alla peste di Atene ora si hanno notizie più abbondanti e precise sui sintomi, sulla modalità e velocità del contagio e si distinguono forma bubbonica e polmonare. Si osserva, come scrisse Tucidide, che non colpisce due volte. Stavolta inoltre si descrive anche la ciclicità: l’epidemia ritorna, mai prima di sei anni, in genere tra i quindici e i vent’anni dopo. E si osserva che i guariti nel ciclo precedente continuano a essere risparmiati. Infine Evagrio Scolastico osserva anche: «Alcuni, scappati dalle città, si salvarono. Ma comunicarono il morbo a quelli che non ce l’avevano». È la prima descrizione del portatore sano. […]

I medici del tempo, però, sono attenti a ciò che è intorno al malato, ancora di più a ciò che sta sopra, nel cielo, ma poco o per niente a ciò che gli succede dentro. Quando non basta chiamare in causa Dio, per cercare un filo conduttore delle varie manifestazioni della malattia si studia il movimento degli astri o si elaborano complesse ed eleganti teorie, combinando elementi e forze della natura. Il sistema ippocratico e poi galenico per la medicina, come quello tolemaico per l’astronomia, sono tanto affascinanti quanto fasulli. E le cure che ne derivano, come le teorie da cui discendono, non vengono mai sottoposte a verifica.

Questo approccio dominerà la medicina per secoli. […] I medici e i farmaci schierati in prima linea contro la peste oggi appaiono tragici nella loro inutilità, se andava bene, e grotteschi per la complessa articolazione mai sottoposta a verifica. I medici, prima di uscire durante le epidemie, in genere indossavano una palandrana di tela di lino impermeabilizzata da pasta di cera e sostanze aromatiche.

Sul volto una maschera con un lungo naso dove spezie e profumi annullavano i cattivi odori e quindi i miasmi mortiferi. In bocca il medico teneva anche aglio e ruta, inseriva incenso nel naso e nelle orecchie; gli occhi erano protetti da occhiali. I farmaci erano ispirati sia al principio dei simili sia a quello degli opposti, «figli» della dottrina degli umori e dei loro riequilibri. Il veleno della peste si elimina con il veleno della vipera o dello scorpione, componenti base del teriaco. […]

L’efficacia di questi trattamenti farmacologici e chirurgici è certificata dalla loro coerenza con le teorie, in genere umorali. Qualcuno osservava che farmacisti, barbieri e medici muoiono come gli altri quando arrivano le pestilenze. Ma, come per i vermi del gesuita o il «non ritorno» del male, non gli bada nessuno. Né ci si mette a controllare l’efficacia, misurare i benefici di cure estrapolate dalle convincenti teorie in voga. Se lo si facesse, si scoprirebbe che queste «cure» uccidono più delle malattie che dovrebbero curare.

Da “La memoria del nemico” di Arnaldo D’Amico, Il Saggiatore, 324 pagine, 24 euro.

«Nel 2003, la miccia ci esplodeva fra le mani», 20 anni fa la prima vera emergenza pandemica in Italia: la Sars. Stefano Landi su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2023

La pandemia nei ricordi di Gori e Vigevani nelle corsie del Sacco di Milano dopo lo sbarco del primo caso. Storia di una catastrofe scampata: «La sfida vinta a mani nude»

Per molti di loro è stata la prima volta che toccavano con mano quello che avevano studiato sui libri. Perché se scegli di specializzarti in Malattie infettive hai deciso di rincorrere i virus. Di convivere con l’ingombrante fascino di un film di cui non conosci il finale.

Per la prima volta non serviva spostarsi in America Latina o in Africa: il nemico stava bussando alle porte di casa.

Altro brutto scherzo della globalizzazione: non viaggiano le persone, ma anche le malattie.

Il 17 marzo del 2003 si materializza la prima minaccia globale del XXI secolo. Era un lunedì. Il primo caso sospetto di Sars sbarcò a Milano dalla Cina. Passò da casa. Poi dopo essersi sentito male fu ricoverato in ospedale. In apnea. Polmonite. Insufficienza respiratoria. All’ospedale Sacco di Milano hanno appena assistito alla conferenza stampa dell’Oms, che per la prima volta nella sua storia, ha lanciato un allarme mondiale, raccomandando di rimandare i viaggi provenienti da e per le aree affette.

Andrea Gori (oggi primario di Malattie infettive) è un giovane assistente nei corridoi dell’ospedale Sacco a Milano. Lavorava sulla tubercolosi e sui disastri che l’Hiv stava facendo da una ventina d’anni. Quella notte è stata la prima volta che indossava una tuta ad alto contenimento. Con i percorsi separati. Ora che il Covid è una brutta cartolina arrivata ovunque, conosciamo il senso di certe parole.

È quasi mezzanotte nella sala riunioni, sono tutti lì. Si fanno le prove di come indossare una tuta. Chi aveva fatto corsi spiegava la tecnica. Esercitazioni, mentre fuori bussa la catastrofe. I dati sulla mortalità causata da Sars li sanno a memoria.

C’è chi teme un disastro come quello generato dalla Spagnola. Il 10%, o poco meno, dei contagiati muore. «È stata la prima volta che ci siamo misurati davvero con un’emergenza pandemica. La prima volta che abbiamo aperto uno scambio diretto con gli altri ospedali d’Italia».

Ecco, la prima volta. La Sars è stato questo: un ciclone non annunciato che poteva portarsi via tutto. Ma è stato fermato in tempo. Significa che tutto quello su cui litiga oggi sulle colpe e mancanze della gestione della pandemia Covid lì non c’era nemmeno.

«Quello che ha fatto crollare il castello è stato il volume. Ma avevamo l’impronta, sapevamo cosa fare. Nel 2003, la miccia ci esplodeva fra le mani e non esistevano strumenti diagnostici», spiega Gori. I tamponi che hanno fatto litigare la scienza e costretto fiumi di gente a eterne code fuori dalla farmacie non c’erano proprio. Si lavorava con gli aeroporti. Dal Sacco e dagli altri ospedali si partiva con la valigetta. «L’unico strumento era il termometro. Misuravamo la febbre a chi sbarcava. Poi organizzavamo il tracciamento delle persone».

In quella stanza riunioni si discute soprattutto su chi doveva entrare in contatto con il malato. Significa essere esposti, quarantenati. Si offrivano i medici più anziani. Accettavano la convivenza con le prime bolle. Gian Marco Vigevani, oggi 82 anni, era il capo di quel reparto. «C’era da convivere anche con la psicosi: decisi di instituire un centralino per rispondere alle paure della gente. Era un cellulare a cui rispondevo a turno con i miei medici». Quelli erano anche i giorni della guerra in Iraq. I giornali avevano di che scrivere. «Ricordo che quando finì la guerra l’attenzione anche mediatica si spostò sulla Sars. Non rispondevo a centinaia di chiamate ogni giorno dai giornalisti. Mi dicevano che volevo nascondere qualcosa: semplicemente non avevo tempo».

Vigevani si commuove. Ancora piange a ripensare agli sforzi di quei giorni: «Non esistevano più turni: chiunque voleva essere in corsia. Era lo slancio di sfidare l’ignoto». Il pensiero fisso dei sanitari era anche a Carlo Urbani, il medico che ha scoperto Sars. Che l’ha combattuta a mani nude. Che ha convinto l’Oms a lanciare l’allarme. A imporre quarantene. Ed è morto dimostrando, dopo essere stato contagiato su un volo per Bangkok, che questo virus era una bestia che non accettava compromessi e andava fermato prima che buttasse giù tutto. Il virus lo uccise il 29 marzo del 2003. Offrì il suo tessuto polmonare alla ricerca. Quel giorno è iniziato un percorso lungo che arriva fino a Wuhan. Poi a Codogno. Alla Val Seriana. Al mondo. «La Sars è stato il virus che ha cambiato la percezione collettiva dettando le regole future», conclude Gori. Che poi sarebbero quelle regole su cui, quasi 7 milioni di morti dopo, ancora oggi si dividono, litigando, politici e virologi. Vista 20 anni dopo, quel 17 marzo del 2003, è stata la lunga notte prima di una tempesta solo rimandata nel tempo.

New York Times: la lotta alle Fake sul Covid ha creato disinformazione. Piccole Note il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il Covid aveva appena raggiunto le coste americane il 9 febbraio 2020, quando Newt Gingrich invitò Anthony Fauci, capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, e lo zoologo britannico Peter Daszak nel suo podcast, Newt ‘s World“ . Inizia così un articolo del New York Times a firma di Megan Stack che ripercorre la storia della censura globale sulle origini del Covid-19.

Amnesie virali

Nel corso del podcast, ricorda il cronista, Gingrich domandò a Fauci lumi sulla “leggenda metropolitana” secondo la quale il nuovo virus sarebbe stato sviluppato in laboratorio. Ovviamente, Fauci ebbe a liquidarla come “teoria del complotto”, rigetto confermato da Daszak.

Da qui il commento di Stack. I due “avrebbero potuto dire che al laboratorio di Wuhan stavano effettivamente studiando i virus dei pipistrelli, compresi i coronavirus. Nel laboratorio venivano tenuti pipistrelli vivi e occasionalmente gli scienziati hanno condotto controverse forme di ricerca manipolando i ceppi virali in forme che avrebbero potuto risultare più pericolose per l’uomo”.

Entrambi hanno lavorato per organizzazioni che hanno inviato fondi dei contribuenti statunitensi agli scienziati di Wuhan: il dottor Daszak è stato coinvolto per anni nella ricerca sui pipistrelli di Wuhan. Le e-mail del dottor Fauci dimostrano che il suo staff gli ha recentemente ricordato i finanziamenti del NIH per lo studio sui coronavirus supportato dall’organizzazione del dottor Daszak”.

Avrebbero potuto ammettere che, sebbene credessero che il virus avesse raggiunto l’uomo tramite uno spillover zoonotico, esiste il rischio di fughe accidentali dai laboratori e non si può escludere tale possibilità (anche se l’idea di usare i coronavirus come arma biologica era ridicolmente improbabile)”.

Fauci, pubblico e privato

Invece hanno dissimulato. La certezza con cui il dottor Fauci ha parlato di crossover zoonotico in ambito pubblico è alquanto incongrua con le sue comunicazioni private di quel tempo […]. In pubblico insisteva sul crossover animale; dietro le quinte scriveva ‘non so come si sia evoluto’, avvertendo di essere preoccupato per le ‘distorsioni sui social media sulle origini del Covid”.

Quando Fauci ha registrato il podcast di Gingrich, stava partecipando a un discussione privata su come il virus avesse infettato gli uomini, dibattito che vedeva coinvolti alcuni dei più famosi biologi e virologi del mondo. Fauci ha recentemente riconosciuto che metà dei partecipanti a una ormai famigerata teleconferenza sulle origini di Covid ‘riteneva che potesse provenire da un laboratorio’ – ma all’epoca ha fatto pochi cenni pubblici sulla serietà di tale dibattito”, in realtà nessuno.

[…] Fauci era parte di quell’ambito di autorevoli scienziati che hanno incoraggiato i loro colleghi a scrivere un documento nel quale si dichiarava che il nuovo coronavirus aveva un’origine naturale. The Proximal Origin of SARS-CoV-2 , pubblicato da Nature Medicine nel marzo 2020, concludeva: “Non crediamo che sia plausibile la teoria basata sulla fuga da un laboratorio”.

Il nostro lavoro principale nelle ultime due settimane si è concentrato sul tentativo di confutare qualsiasi tipo di teoria di fuga da un laboratorio”, scriveva uno degli autori, un ricercatore di nome Kristian Andersen, in un’e-mail redatta il giorno precedente la pubblicazione del podcast” .

La missione riuscita di Daszak a Wuhan

[…] Per quanto riguarda Daszak, egli sarebbe presto arrivato in Cina come membro del team dell’Organizzazione mondiale della sanità inviato per indagare sulle origini del virus. Ma non era certo un osservatore disinteressato: Daszak, infatti, collaborava da più di un decennio con virologi cinesi che studiavano i coronavirus dei pipistrelli presso l’Istituto di virologia di Wuhan e faceva confluire i fondi del National Institutes of Health verso tale ricerca attraverso la sua organizzazione no profit, EcoHealth Alliance“.

È noto che quell’indagine iniziale dell’OMS fu ostacolata dall’intransigenza cinese, ma resta che il panel escluse categoricamente la possibilità di un’origine da laboratorio”. In seguito l’Oms ammise che la conclusione “era stata prematura”.

Stack ripercorre poi la storia della narrazione pandemica, di come giornalisti e scienziati che reputavano plausibile la creazione del virus in laboratorio siano stati censurati nei modi più brutali, di come i media mainstream derubricassero domande e osservazioni scomode a “teoria del complotto”, e poi la censoria dei social media e altro.

Una delle forme più sofisticate di censura, va ricordato perché istruttivo, fu quella delle agenzie mediatiche che si auto-definiscono di Fact checking, che durante la pandemia sono diventate virali e ancora oggi vigilano sulle narrazioni più varie.

Stak, ovviamente, si interpella sulla censura attuata sulla genesi del Covid-19, concludendo che la lotta alla disinformazione ha prodotto disinformazione. Ma non va oltre.

La genesi del virus e il “contrordine compagni”

In note pregresse abbiamo spiegato come il nuovo orientamento sulla genesi del Covid, che ha permesso a Stack di pubblicare il suo articolo sul New York Times, lungi dal rappresentare una svolta in senso libertario dell’informazione, obbedisce alla stessa logica che aveva prodotto la censura pregressa.

In passato era interesse degli Stati Uniti censurare domande su questo tema, dal momento che avrebbe fatto crollare la credibilità del dream team di Fauci che (insieme ad altri) ha gestito la risposta alla pandemia – cosa che ha permesso a tale potere di fornire la loro risposta al virus, cioè i vaccini made in Usa e tanto altro. Ma è arrivato il momento del “contrordine compagni”.

Additare la Cina come untore globale si confà alla lotta all’ultimo sangue che certo potere americano vuole intraprendere contro Pechino. Ai Fauci, ai Daszak e agli altri gestori della pandemia verrà trovata una qualche via di fuga, come peraltro si intravede anche nell’articolo di Stack, così che possano uscire indenni dal crimine commesso.

Resta che sulle origini del virus si dovrebbe indagare un po’ meglio, magari cercando risposte anche altrove, in siti che al solo nominarli si continua a essere annoverati tra i “complottisti” (vedi Fort Dietrik e i 46 biolab ucraini), e magari anche sulle dinamiche non ancora chiare degli albori del Covid (ad esempio le stranezze registrate alle Olimpiadi militari di Wuhan e tanto altro).

Ma la storia evidenziata da Stack resta comunque istruttiva per tante altre narrative imposte dal potere e dal mainstream, uso a creare “verità” e a bollare come “falsità”, con conseguente censura, ciò che non è in sintonia con i loro assiomi.

Com’è nato il Covid? Fauci sotto tiro: Wuhan, i complottisti e la commissione del Congresso. Samuele Finetti su Il Corriere della Sera il 26 marzo 2023.

L’ex superconsulente di Joe Biden, ora in pensione, bersaglio degli attacchi di repubblicani e avversari. E il suo lavoro viene «rivisitato»

Archiviate le mascherine, non le polemiche. Specie dall’altra parte dell’Atlantico, dove la pandemia ha aperto nuove crepe tra i cittadini statunitensi e ulteriormente deteriorato le già malmesse relazioni con Pechino.

La domanda che continua a dividere è sempre la stessa: dove e come è nato il Covid-19? E come si è trasmesso all’essere umano? Giusto un mese fa, lo scontro tra posizioni è stato rinfocolato da un rapporto del dipartimento dell’Energia di Washington che rilanciava la teoria del virus fuoriuscito dall’ormai famigerato laboratorio di Wuhan. Qualche giorno più tardi, il direttore dell’Fbi Cristopher Wray aveva confermato che pure al Bureau sono convinti che si sia trattato «con alta probabilità» di un incidente.

Mentre la Casa Bianca — che si è impegnata a desecretare il materiale che riguarda le origini della pandemia — si mantiene su una linea più prudente («Non abbiamo una risposta definitiva», aveva affermato il consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan), l’8 marzo sono iniziate alla Camera le udienze pubbliche della Commissione speciale sulla pandemia, dove la maggioranza è in mano repubblicana dopo le elezioni di midterm di novembre. Tra i primi a rispondere alle domande dei deputati il virologo Robert R. Redfield, che nel 2018 venne nominato direttore del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie da Donald Trump. Nelle sue risposte, ha mischiato la scienza al rancore verso la figura che più ha diviso l’America nei mesi più duri della pandemia ed è diventato il bersaglio preferito dei complottisti: Anthony Fauci.

Redfield si è detto convinto di due cose: che il virus sia effettivamente nato in laboratorio, e che questa posizione gli sia costata una precoce esclusione dai dibattiti tra i più importanti scienziati del Paese.

L’1 febbraio 2020, Fauci parlò in videoconferenza con altri esperti delle possibili origini di quella che ancora non era stata dichiarata una pandemia. Redfield, nonostante il suo ruolo, non fu invitato. Ora sostiene che in quella chiamata, di cui è venuto a conoscenza solo nel giugno del 2021, fu volutamente ignorato: «Mi dissero che volevano una sola linea narrativa e che io avevo un punto di vista differente».

Una ricostruzione che secondo Fauci non sta in piedi. Anzitutto, non fu lui ad organizzare quella telefonata: fu invitato, come gli altri, da un ricercatore britannico. «Quello che ha raccontato Redfield non ha fondamento nella realtà», ha replicato il giorno dopo su Fox l’ex super-consigliere di Joe Biden, «anche perché ricordo che metà dei biologi che parteciparono a quella discussione erano convinti che il virus fosse stato prodotto in laboratorio». Tra l’altro, ha aggiunto, poche settimane più tardi quegli stessi biologi pubblicarono su Nature uno studio che escludeva origini artificiali.

Ormai in pensione, lo storico direttore del Centro per il controllo delle malattie infettive ha garantito che sarebbe «più che felice» di rispondere alle domande della commissione. Nel frattempo, ha risposto a quelle di Mark Mannucci, il regista del documentario Dr. Tony Fauci , trasmesso dalla Pbs lo scorso lunedì. Ammettendo: «Sì, su alcune cose ho sbagliato. Avrei potuto chiedere che mascherine e quarantene fossero imposte prima».

Covid, Biden firma la legge per la trasparenza sulle origini del virus. Declassificate anche le informazioni sul laboratorio di Wuhan. Massimo Basile su La Repubblica il 21 marzo 2023.

La normativa è stata approvata alla Camera senza voti contrari. Il testo è un atto d'accusa nei confronti della Cina

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato una legge bipartisan che autorizza il governo federale a togliere il segreto al maggior numero di report degli 007 sulle origini della pandemia da Covid. La decisione arriva a tre anni dall'inizio del contagio che ha provocato nel mondo quasi sette milioni di morti. "Abbiamo bisogno - ha commentato Biden - di andare a fondo sulle origini del Covid in modo da garantirci migliori possibilità nel prevenire future pandemie".

La legge, approvata dalla Camera senza voti contrari, spinge il direttore dell'Intelligence a rendere disponibili le informazioni raccolte sull'Istituto di virologia di Wuhan, in Cina. Il testo è un atto d'accusa nei confronti della Cina: nella dichiarazione con cui ha annunciato la firma alla legge, Biden parla di "potenziali legami" tra la ricerca fatta a Wuhan e la diffusione del Covid, diventata ufficialmente pandemia l'11 marzo 2020 con la dichiarazione dell'Organizzazione mondiale della sanità.

Gli Usa non hanno scelto la trasparenza in un momento a caso: la svolta arriva dopo l'attacco dell'Oms alla Cina, accusata di aver tenuto nascoste per tre anni informazioni sulla possibile trasmissione del virus da parte di cani procioni, venduti illegalmente al mercato di Wuhan.

Le informazioni sul ruolo di "agente intermedio" di questo tipo di volpe asiatica e sulla sequenza genetica che ha portato alla diffusione del virus sono apparse nei report dei ricercatori cinesi messi online sul database a disposizione della comunità scientifica internazionale e poi tolti dopo pochi giorni. L'Oms ha chiesto a Pechino trasparenza e di poter condividere tutti i dati ma è improbabile che possa essere accontentata. Gli 007 americani non sono arrivati a capire come si sia diffuso il virus.

L'Intelligence è divisa tra l'ipotesi della fuga dal laboratorio di Wuhan e la trasmissione dagli animali all'uomo. La seconda ipotesi, che siano pipistrelli o procioni, sembra la più probabile ed è sostenuta da tre agenzie investigative americane su quattro.

"La mia amministrazione - ha dichiarato Biden - continuerà a revisionare tutte le informazioni secretate sull'origine del Covid, inclusi i potenziali legami con il laboratorio di Wuhan". "Nel rendere effettiva questa legge - ha aggiunto - la mia amministrazione declassificherà e condividerà quante più informazioni possibile, in linea con i miei poteri dati dalla Costituzione, per proteggere la sicurezza nazionale".

Estratto dell'articolo di Maddalena Loy per “la Verità” il 10 marzo 2023.

Tre indizi fanno una prova. E sono tre gli eventi sospetti avvenuti nel laboratorio di Wuhan nel settembre 2019, pochi mesi prima che scoppiasse ufficialmente la pandemia. Tre indizi che confermano, […] che la pandemia che ha sconvolto il mondo, […] è stata molto probabilmente causata da un «incidente» avvenuto in un laboratorio in Cina, finanziato dagli Stati Uniti.

EVENTI INSOLITI

Li ha raccontati il dottor Robert Redfield, ex potentissimo direttore dei Centers for disease control americani (Cdc) ai tempi dello scoppio della pandemia, audito dalla commissione d’inchiesta del Congresso Usa istituita per indagare sull’origine del coronavirus. «[…] Innanzitutto hanno cancellato le sequenze del virus: molto strano, i ricercatori non lo fanno mai. Poi», ha continuato Redfield, «la gestione del laboratorio è passata da un comando civile a un comando militare: molto, molto insolito. Terzo indizio, estremamente eloquente, è stato consentito a un appaltatore di rifare il sistema di ventilazione del laboratorio. Ci sono prove evidenti che un evento significativo si sia verificato in quel laboratorio nel settembre 2019: ora si può dire, i documenti sono ormai declassificati».

L’«evento significativo» cui fa riferimento Redfield è, evidentemente, la fuga del virus dal laboratorio. Le sue rivelazioni consentono di stringere il cerchio intorno ai ricercatori cinesi e a chi li ha finanziati: il direttore del Nih - National institutes of health (l’Istituto superiore di sanità americano), Francis Collins e Anthony Fauci, ex consigliere scientifico di Joe Biden e di altri sei presidenti Usa, che ha rassegnato le sue dimissioni a dicembre 2022.

[…] A proposito del primo indizio menzionato da Redfield, è ormai noto che il 12 settembre 2019, dal laboratorio di Wuhan, diretto dalla ricercatrice cinese Shi Zhengli, sia stato cancellato il database con 22.257 virus[…] Shi ha lavorato a stretto contatto con gli scienziati americani Peter Daszak, […], e Ralph Baric[…]. Gli esperimenti di Daszak e Baric sono stati sovvenzionati da Fauci e Collins, il primo per quasi 14 milioni di dollari, il secondo per 122,8 milioni di dollari destinati a 168 progetti.

  Non solo: il 12 dicembre 2019, prima che la stessa Oms venisse a conoscenza delle polmoniti virali a Wuhan, Ralph Baric ha ceduto al Nih di Fauci e Moderna i suoi brevetti per i «candidati vaccini mRna contro il coronavirus, sviluppati e di proprietà congiunta di Niaid (Fauci) e di Moderna».

 Shi era di fatto la corrispondente cinese degli scienziati Usa: Wuhan chiedeva ogni anno i rimborsi spese per i suoi viaggi negli Usa. […]. La ricercatrice cinese collaborava con gli americani già dal 2015 e in quell’anno lei e Baric avevano firmato insieme un paper su Nature sui loro esperimenti sui coronavirus. […]

 Riguardo al secondo indizio menzionato da Redfield, ci sono abbondanti prove che l’intelligence americana fosse al corrente degli esperimenti a Wuhan. Convocato dai repubblicani al Senato nel luglio 2021, Anthony Fauci aveva negato con decisione che la ricerca di EcoHealth Alliance da lui sovvenzionata fosse «gain of function» (controverso metodo di ricerca scientifica che prevede la manipolazione di agenti patogeni pericolosi per l’uomo, vietata in America dal 2014 al 2017).

Ma è stato proprio un documento del Darpa (Defense advanced research projects Agency, l’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, tra cui i vaccini mRna) a smentirlo: il 13 agosto 2021, due settimane dopo l’audizione di Fauci, il Comandante della Marina Joseph Murphy ha scritto all’ispettore generale mettendo nero su bianco che «il Darpa ha deciso di rifiutare il finanziamento del progetto cinese di Peter Daszak perché la metodologia è molto vicina a essere “gain-of function”, tipo di ricerca vietata negli Usa». […]

«Fauci ha mentito intenzionalmente quando ha negato che il Nih finanziasse questo tipo di ricerche?», ha chiesto la deputata repubblicana Nicole Malliotakis. «Penso che non ci sia alcun dubbio che il Nih abbia finanziato ricerche gain of function», ha risposto senza esitazioni Redfield. «Quindi queste ricerche sono state pagate con le tasse dei contribuenti americani?», ha incalzato Malliotakis. «Non solo», ha replicato Redfield, «oltre al Nih sono state finanziate anche dal Dipartimento di Stato, dall’Usaid e dal DoD (Dipartimento della Difesa Usa, ndr)». […]

Da tgcom24.mediaset.it Il 6 marzo 2023.

In Usa la sottocommissione sulla pandemia di Covid della Camera dei rappresentanti ha dichiarato di disporre di "prove" secondo cui l'immunologo di riferimento della Casa Bianca, Anthony Fauci", "indusse" la scrittura di un articolo scientifico per confutare la teoria relativa all'origine della pandemia nel laboratorio cinese di Wuhan.

 L'accusa non è nuova: Fauci, nella veste di direttore dell'Istituto nazionale di allergologia e malattie infettive Usa, avrebbe fatto leva sulla concessione dei fondi pubblici per la ricerca per distogliere l'attenzione dal laboratorio cinese, dove si svolgevano ricerche sul coronavirus da lui personalmente autorizzate.

Estratto dell'articolo da lastampa.it il 26 febbraio 2023.

Un rapporto del dipartimento dell'Energia Usa ha concluso che la pandemia di Covid molto probabilmente è nata da una fuga in laboratorio. Lo riferisce il Wall Street Journal in esclusiva dopo aver preso visione della ricerca. In precedenza il dipartimento aveva dichiarato di non avere certezze su come si fosse sviluppato il virus. Anche l'Fbi ha sempre sostenuto che il Covid fosse il frutto di un incidente nel laboratorio di Wuhan, in Cina.

[…] la posizione del dipartimento è cambiata dopo che sono emerse "nuove informazioni di intelligence, studi di ricercatori e consultazioni con esperti non governativi».

La casa Bianca: “Non abbiamo risposta definitiva”

Non abbiamo «una risposta definitiva» sulla possibilità che l'epidemia di Covid sia stata provocata da una fuga di laboratorio. E' quanto ha detto il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, intervistato dalla Cnn sullo scoop del Wall Street Journal riguardo ad un rapporto del dipartimento dell'Energia che invece avrebbe concluso che molto probabilmente è questa l'origine del Covid.

 «Quello che posso dirvi è che il presidente Biden ha ordinato, ripetutamente, ad ogni elemento della intelligence community di riservare ogni sforzo e risorsa per andare a fondo alla questione», ha detto ancora Sullivan.

ANTI FAKENEWS. Studio su Nature smonta la bufala del Covid diffuso dai procioni di Wuhan. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 7 Aprile 2023

Dopo aver ingiustamente incriminato pipistrelli, pangolini, visoni e additato come potenziali colpevoli, tassi, conigli e furetti, l’ombra del sospetto è ricaduta, nelle ultime settimane, sui tanuki. Se è vero che i cani procione erano presenti nel mercato cinese di Wuhan, non ci sono prove del fatto che fossero infetti e che possano aver favorito addirittura un doppio salto di specie del virus verso l’uomo, con buona pace di riviste come Focus o quotidiani come la Repubblica che hanno avallato presunte «evidenze che confermano la tesi del collegamento tra Covid-19 e il commercio di animali selvatici». Le evidenze, infatti, non ci sono. A discolpare i cani procione sono ora le analisi dei campioni ambientali e animali raccolti dentro e nei dintorni del mercato di Wuhan, all’inizio del 2020, dal team del virologo George Gao dell’Accademia Cinese delle Scienze. I risultati dello studio, di cui erano trapelate alcune anticipazioni nei giorni scorsi, sono stati pubblicati su Nature.

All’indomani della chiusura del mercato, tra il primo gennaio e il 30 marzo 2020, i ricercatori hanno raccolto 1.380 campioni, di cui 923 di origine ambientale e 457 di origine animale, prelevati per esempio da acquari, animali randagi e merci invendute trovate in frigoriferi e congelatori. Ciò che emerge è che «Utilizzando RT-qPCR, il sars-CoV-2 è stato rilevato in 73 campioni ambientali, ma in nessuno dei campioni animali». Sebbene questi dati dimostrino che il sars-CoV-2 era diffuso nel mercato di Wuhan nelle prime fasi della pandemia, non forniscono le prove dell’eventuale salto di specie del virus in questo ambiente. 

Laddove la scienza, dopo tre anni, brancola ancora nel buio, i media si sono invece mossi in maniera disinvolta, inizialmente con l’obiettivo primario di insabbiare qualunque pista conducesse alla possibilità di una fuoriuscita del virus dall’Istituto di virologia di Wuhan. Mentre gli inquisitori digitali perseguitavano chiunque manifestasse un’opinione difforme rispetto alla narrazione del pensiero unico, lo storytelling mainstream ha rassicurato l’opinione pubblica specificando che i biolaboratori «sono presidi di sicurezza e non di offesa, sono strumenti di protezione perché permettono di fare una diagnosi su patogeni nuovi». 

La possibilità che il virus possa essere “scappato” dal laboratorio – portata avanti da Trump – è stata boicottata e censurata con l’accusa di “complottismo”, ed è emersa solo recentemente in chiave geopolitica anticinese, quando il capo dell’FBI Christopher Wray, in un’intervista a Fox News ha dichiarato che è «molto probabile» che il Covid-19 sia il risultato di un errore in un laboratorio a Wuhan. 

È bene ricordare quando, nell’aprile 2020, Luc Montagnier, intervenuto durante una diretta televisiva francese ai microfoni di Pourquoi Docteur, aveva dichiarato che parte del genoma del sars-CoV-2 sarebbe stato manipolato in laboratorio. Il virus – spiegò l’ex Premio Nobel per la Medicina – sarebbe il risultato di un lavoro di biologi molecolari, realizzato con una precisione e una minuziosità «da orologiai». Apriti cielo. Montagnier venne attaccato con ferocia e zittito, trattato alla stregua di un paranoico e di un «rincoglionito con demenza senile» (per queste dichiarazioni Matteo Bassetti è stato condannato al pagamento di 6 mila euro agli eredi di Montagnier). I media scrissero che la “comunità scientifica” smentiva il Premio Nobel e che le sue dichiarazioni erano “fantasiose”. Ancora la Repubblica titolava: “Coronavirus, perché la teoria del complotto (complice il Nobel Montagnier) a volte ritorna”, il Post parlava di “teorie infondate”, i fact-checkers di Open lo accusavano di disinformazione, mentre Il Riformista lo faceva diventare un’icona dei No Vax e dei cospirazionisti.

Per mesi, chiunque si sia permesso di sollevare un’ipotesi alternativa a quella mainstream sull’origine “naturale” del sars-coV-2 è stato denigrato, perseguitato e ridicolizzato dai media. Meglio deviare l’attenzione e incolpare il pangolino o il cane procione. Eppure, dall’inizio della pandemia sono circolate testi alternative a quella “ortodossa”, via via sempre più accreditate. Neppure l’indagine dell’OMS, condotta in Cina, era riuscita infatti a mettere la parola fine sull’eterno dibattito sull’origine del virus. In una lettera su Science 18 scienziati di fama mondiale avevano riaperto all’ipotesi di una fuoriuscita accidentale da un laboratorio: «Non si può ancora escludere. Servono nuove indagini», sollecitando “un’indagine adeguata”.

Neppure oggi, che la Casa Bianca ha deciso di sposare in chiave anticinese la possibilità dell’origine artificiale del virus, sembra però sia possibile fare quello che si sarebbe dovuto fare tre anni fa: indagare in maniera obiettiva e trasparente le origini del sars-CoV-2.  [di Enrica Perucchietti]

Covid, nuova teoria sulla pandemia: il cane procione nel mercato di Wuhan. Il Tempo il 17 marzo 2023

Per mesi, quando nel 2020 il coronavirus Sars-COV-2 cominciava a correre sempre più veloce nell’uomo, gli scienziati si sono messi alla ricerca del cosiddetto ‘ospite intermedio’, un animale dal quale il virus avrebbe fatto il suo salto nella specie umana. Oggi a distanza di 3 anni quella domanda resta senza risposta. E in questo arco temporale nel dibattito fra gli esperti la teoria di un’origine naturale del virus si è alternata con l’ipotesi di una fuga dal laboratorio. Secondo l’ultima ipotesi il coronavirus Sars-CoV-2 avrebbe un legame con i cani procione in vendita al mercato di Wuhan, con nuove evidenze alla teoria secondo cui la pandemia potrebbe essere stata innescata da un animale infetto, trattato attraverso il commercio illegale di animali selvatici. 

I dati genetici, riportano i media internazionali su cui è rimbalzata la notizia, sono stati estratti da tamponi prelevati all’interno e nei dintorni del mercato all’ingrosso di prodotti ittici di Huanan, a partire da gennaio 2020, poco dopo che le autorità cinesi avevano chiuso il mercato sospettando fosse collegato allo scoppio di un nuovo virus. In quel momento gli animali erano stati eliminati dalla struttura, ma i ricercatori hanno tamponato pareti, pavimenti, gabbie metalliche e carrelli utilizzati per il trasporto di gabbie, trovando il virus. Nei campioni risultati positivi al coronavirus, il team di ricerca internazionale ha trovato materiale genetico appartenente ad animali, tra cui grandi quantità che corrispondevano al cane procione, hanno spiegato gli scienziati coinvolti nell’analisi. Quello che può stabilire l’analisi è che c’è la firma genetica dei cani procione nello stesso luogo in cui è stato lasciato materiale genetico del virus, ma questa mescolanza di materiale genetico non può provare con certezza che il cane procione fosse lui stesso infetto. 

Un altro animale potrebbe aver trasmesso il virus alle persone o qualche contagiato potrebbe aver trasmesso il virus a un cane procione. Le possibilità sono varie. Ma la prova raccolta da quei dati - poi rimossi dal database cinese - è coerente con un scenario che vedrebbe il virus arrivare a diffondersi nell’uomo da un animale selvatico. I contenuti dell’analisi sono stati riportati da alcuni scienziati che vi hanno lavorato ma, si legge sul New York Times online, non è stato ancora pubblicato un report con tutti i dettagli dei risultati del team di ricerca internazionale. Un campione in particolare ha attirato la loro attenzione: era stato prelevato a inizio 2020 da un carrello di una specifica bancarella che conteneva cani procioni in una gabbia sopra un’altra contenente uccelli, il tipo di ambiente favorevole alla trasmissione di nuovi virus. «Almeno in uno di questi campioni c’era molto acido nucleico di cane procione, insieme all’acido nucleico del virus», ha riportato Stephen Goldstein, virologo dell’Università dello Utah che ha lavorato all’analisi. Il mistero sul virus arrivato dalla Cina è ancora vivo.

Il rapporto Usa sul Covid: “Nato da una fuga di laboratorio”. Il Wall Street Journal cita un documento del dipartimento dell’Energia. Ma la Casa Bianca frena: “Non abbiamo ancora una risposta definitiva”. su Il Dubbio il 26 febbraio 2023.

Il dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti ha concluso che la pandemia di Covid è stata “molto probabilmente” provocata da una fuga di laboratorio. Lo riporta il Wall Street Journal che cita un rapporto segreto dell'intelligence recentemente fornito alla Casa Bianca.

La posizione del dipartimento dell'Energia, che in precedenza era indeciso sull'origine della pandemia, è annotata in un aggiornamento a un documento del 2021 dell'ufficio del direttore dell'intelligence nazionale Avril Haines. Il Wsj scrive che altri quattro dipartimenti statunitensi continuano a sostenere che l'epidemia di coronavirus sia stata probabilmente il risultato di una trasmissione naturale del virus, mentre due altri sono indecisi.

Il quotidiano americano osserva che la conclusione del dipartimento dell'Energia è il risultato della lettura di nuovi dati di intelligence e si tratta di una conclusione significativa perché questa agenzia sovrintende a una rete di 17 laboratori nazionali, alcuni dei quali svolgono ricerche biologiche avanzate. Tuttavia, il WSJ osserva che il dipartimento dell'Energia sostiene la nuova posizione con “scarsa fiducia”, mentre quando l'Fbi aveva raggiunto la stessa conclusione nel 2021, aveva valutato il suo livello di fiducia come “moderato”. A seconda della qualità delle informazioni e della loro provenienza, i servizi di intelligence statunitensi di solito assegnano tre livelli di fiducia alle loro conclusioni: alto, moderato e basso.

Interpellato dalla Cnn, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa Jake Sullivan ha sottolineato che “al momento non abbiamo una risposta definitiva che sia emersa dall'intelligence community sulla questione”. “Ci sono molti punti di vista nell'Intelligence - ha spiegato Sullivan - alcuni dicono che non ci sono abbastanza informazioni”, per giungere a una conclusione. “Quello che posso dire - ha aggiunto - è che il presidente Biden ha ordinato ripetutamente di fare ogni sforzo per andare in fondo alla questione”. 

Il rapporto rivelato dal Wsj. “Covid probabilmente nato da fuga in laboratorio”, il rapporto del dipartimento dell’Energia Usa (che non convince Biden). Redazione su Il Riformista il 26 Febbraio 2023

Secondo un rapporto riservato del dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, di cui dà conto il Wall Street Journal in esclusiva dopo aver preso visione della ricerca, la pandemia di Covid-19 è molto probabilmente nata da una fuga in laboratorio, tesi che sin dall’inizio è stata molto “cara” al mondo dei complottisti.

Una conclusione contenuta in un aggiornamento di un rapporto del 2021 dell”ufficio della direttrice della National Intelligence Avril Haines. Secondo fonti dei servizi americani interpellate dal Wall Street Journal, la posizione del dipartimento dell’Energia, che inizialmente era “”indeciso” sull’origine del coronavirus, è cambiata dopo che sono emerse “nuove informazioni di intelligence, studi di ricercatori e consultazioni con esperti non governativi“

In realtà come sottolinea lo stesso quotidiano finanziario, altri quattro dipartimenti statunitensi continuano a sostenere che l’epidemia di coronavirus sia stata probabilmente il risultato di una trasmissione naturale del virus, mentre due altri sono indecisi sulla questione.

Il Wall Street Journal aggiunge inoltre che il dipartimento dell’Energia sostiene la sua nuova posizione con “scarsa fiducia”. A seconda della qualità delle informazioni e della loro provenienza, i servizi di intelligence statunitensi di solito assegnano tre livelli di fiducia alle loro conclusioni: alto, moderato e basso.

Non è dunque un caso se dalla Casa Bianca la vicenda venga trattata con delicatezza. Per Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, non c’è ancora “una risposta definitiva” sull’origine della pandemia di Covid, ha detto in una intervista alla Cnn.

Ci sono molti punti di vista nell’Intelligence – ha spiegato Sullivan – alcuni dicono che non ci sono abbastanza informazioni“, per giungere a una conclusione. “Quello che posso dire – ha aggiunto – è che il presidente Biden ha ordinato ripetutamente di fare ogni sforzo per andare in fondo alla questione“.

(ANSA il 27 febbraio 2023) - La Cina ha invitato a "smettere di sollevare affermazioni su fughe di laboratorio, di diffamare la Cina e di politicizzare la questione della tracciabilità dell'origine" del Covid-19. "Una perdita di laboratorio non è stata ritenuta possibile da autorevoli conclusioni scientifiche di esperti congiunti di Cina e Organizzazione mondiale della sanità", ha detto nel briefing quotidiano la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning, sull'ultimo rapporto del dipartimento dell'Energia Usa e riportato dal Wall Street Journal, secondo cui la pandemia è nata molto probabilmente da una fuga di laboratorio riaccendendo i riflettori su Wuhan.

Mao, in particolare, ha ricordato la conclusione "autorevole e scientifica" raggiunta dopo una missione sul campo a Wuhan di inizio 2021, condotta da esperti cinesi e dell'Oms che ha stabilito che l'ipotesi della fuga di dati dal laboratorio era "altamente improbabile". In precedenza, tuttavia, il Dipartimento dell'Energia Usa aveva dichiarato di non avere certezze su come si fosse sviluppato il virus. L'Office of Intelligence and Counterintelligence dello stesso Dipartimento dell'Energia è una delle 18 agenzie governative che compongono la comunità dei servizi segreti americani, che sono sotto l'egida dell'Office of the Director of National Intelligence.

A metà febbraio, l'Organizzazione mondiale della sanità si è impegnata a fare tutto il possibile "fino a quando non avremo la risposta" sulle origini del Covid, smentendo un rapporto che suggeriva che l'agenzia avesse ormai abbandonato le sue indagini a causa di rapporti non particolarmente positivi con la Cina. La comunità scientifica ritiene ancora fondamentale determinare le origini della pandemia per combattere meglio o addirittura prevenire possibili nuovi e pericoli scenari sanitari futuri.

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” il 27 febbraio 2023.

[…]

È stato il Wall Street Journal a rivelare ieri indiscrezioni su un rapporto secondo cui il Dipartimento americano dell’Energia s’è aggiunto all’Fbi nel sostenere l’origine della pandemia per negligenze nelle misure di sicurezza dei laboratori di Wuhan. Più precisamente, il quotidiano americano ha avuto accesso a un rapporto riservato elaborato dall’ufficio della direttrice nazionale d’intelligence, quella Avril Haines che coordina tutte le agenzie spionistiche statunitensi.

Il documento è stato «inviato alla Casa Bianca e a membri chiave del Congresso». Stando al Wall Street Journal si tratta dell’aggiornamento, risalente all’inizio del 2023, di un primo rapporto già prodotto nel 2021. […]

 […]

L’Fbi non ha commentato le anticipazioni giornalistiche, mentre il consigliere alla sicurezza nazionale Jake Sullivan ha chiosato: «Il presidente Joe Biden ha sempre spronato le nostre agenzie sulla questione. Per ora non c’è una risposta definitiva ed esiste una varietà di visioni. Non abbiamo abbastanza informazioni per essere sicuri». Il rapporto non è in sé risolutivo, ma non è un caso che venga usato per rievocare un legame fra Pechino e 1 milione di morti americani per Covid proprio poche ore dopo che la Cina ha affiancato la Russia evitando di firmare il documento comune del G20 sul conflitto russo-ucraino. […]

Le Origini. Nessuna verità: l’OMS abbandona le indagini sull’origine del Covid. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 16 Febbraio 2023.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha deciso di interrompere la seconda fase della sua indagine scientifica sulle origini della pandemia di Covid-19. Secondo la rivista Nature, che ha riportato la notizia, le motivazioni dello stop sarebbero da ricercare nella difficoltà manifestata dall’OMS di portare avanti le ricerche – rimaste in effetti ferme per molto tempo – in un contesto risultato ostile e chiuso come quello cinese. Eppure, capire in che modo le prime persone abbiano contratto il virus da SARS-CoV-2 sarebbe stato estremamente importante per diversi motivi: ci avrebbe fornito prima di tutto delle risposte concrete e, soprattutto, ci avrebbe aiutato a capire come poter prevenire future epidemie. Ma «non esisterà una fase due. Il nostro piano di procedere per fasi è cambiato» ha commentato Maria Van Kerkhove, epidemiologa dell’OMS a Ginevra, in Svizzera.

Il piano di cui parla l’esperta è stato avviato nel gennaio del 2021, quando un team internazionale specializzato si è recato a Wuhan, in Cina, nel posto in cui il virus da Covid-19 è stato rilevato per la prima volta. La squadra, collaborando con i ricercatori cinesi e dopo diverse analisi, aveva pubblicato un rapporto riassuntivo – ma non esaustivo – delle possibili cause alla base della nascita del Coronavirus, delineando quattro scenari. Nel proprio rapporto il team ONU ha sempre assecondato come ipotesi più probabile quella del salto di specie dai pipistrelli agli esseri umani (tramite un ospite intermedio), sarebbe però poi toccato alla fase due approfondire ulteriormente le ricerche e arrivare ad una conclusione certa e definitiva su cosa sia successo in Cina e nel resto del mondo.

A quel punto potremmo non arrivarci mai. Per cercare di definire una sequenza temporale della diffusione del virus, i ricercatori stanno continuando ad analizzare prove e dati, ripetendo alcuni test – tra cui quelli sulle acque reflue, su campioni di sangue e sugli animali – ma, per loro stessa ammissione, è passato troppo tempo. Praticamente, alcuni elementi necessari per individuare l’origine del virus non ci sono più. Questo perché «la politica mondiale ci ha davvero ostacolato», ha ribadito l’epidemiologa dell’OMS.

In effetti, negli anni pandemici l’atteggiamento accusatorio di alcuni Paesi – tra cui gli Stati Uniti, per citare un esempio non troppo casuale – non ha agevolato la collaborazione – già di per sé delicata – con la Cina. L’allora presidente Donald Trump aveva accusato il Wuhan Institute of Virology, che in quel periodo lavorava sul Coronavirus, di essersi fatto sfuggire il virus. Uno scenario definito poi dal rapporto dell’OMS come “altamente improbabile”. Ma l’inclusione e la presa in considerazione di tale possibilità nel documento dell’Organizzazione è stato motivo di chiusura da parte dei ricercatori e funzionari cinesi.

Tanto da respingere le successive proposte dell’OMS, tra cui quella di controllare i mercati di animali selvatici di Wuhan e ispezionare i laboratori attorno all’area contaminata per prima, perché ritenute già da escludere per la loro improbabilità. Gerald Keusch, direttore associato del National Emerging Infectious Diseases Laboratory Institute presso la Boston University nel Massachusetts, ha detto che «l’indagine è stata mal gestita dalla comunità globale. È stata gestita male dalla Cina. È stata gestita male dall’OMS». Quest’ultima, a suo parere, avrebbe dovuto essere più dura con le autorità cinesi, e imporsi davanti all’eventuale rifiuto di collaborazione.

Dall’altra parte, Van Kerkhove ha difeso l’operato dell’OMS, sostenendo invece che il direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, abbia cercato sempre di stabilire un dialogo con i funzionari del governo cinese per spingere la Cina a condividere i dati.

Ora che succede? Mentre l’Organizzazione mondiale della sanità spera di arrivare ad una conclusione servendosi del lavoro dello “Scientific Advisory Group for the Origins of Novel Pathogens” (SAGO), un gruppo di ricerca fondato appositamente nel 2021 e che può contare su 26 scienziati che indagano sulle origini del Coronavirus, dall’altra, al di fuori dell’OMS, alcuni studi proposti per la fase due sono andati avanti per mano di ricercatori di Pechino e Wuhan, con qualche piccolo progresso.

Certo, le aspettative non sono molte. In un’intervista fatta da L’indipendente a Francesco Zambon, a capo dei ricercatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che scrissero un rapporto sulla gestione della prima ondata della pandemia da parte del Governo italiano, censurato dall’OMS nel giro di 24 ore, sono emerse numerose lacune, mancanze e incongruenze all’interno di un sistema che dovrebbe invece tutelare la salute pubblica. [di Gloria Ferrari]

Perché l’intelligence Usa non è preparata ad affrontare la prossima pandemia. Federico Giuliani il 6 gennaio 2023 su Inside Over.

Un rapporto declassificato della US House Intelligence Committee ha acceso i riflettori sul fallimento delle agenzie di intelligence statunitensi in relazione all’avvento del Covid-19. Il report in questione, scritto da membri dello staff della maggioranza democratica del comitato, ha inoltre spiegato perché, ad oggi, quelle stesse agenzie hanno in gran parte fallito nel correggere le loro carenze nell’intelligence sulla salute pubblica e, soprattutto, perché non sono adeguatamente preparate per affrontare la prossima pandemia. 

Andiamo con ordine. Per quanto riguarda la pandemia di Sars-CoV-2, le agenzie di intelligence Usa avevano effettivamente iniziato ad avvertire che il Covid-19 avrebbe potuto trasformarsi in un’emergenza globale poche settimane dopo che il coronavirus era stato segnalato per la prima volta in Cina. Allo stesso tempo, stando al documento, non sarebbero però riuscite a comprenderne meglio la diffusione del virus perché non avrebbero iniziato a spiare rapidamente i funzionari sanitari cinesi che stavano nascondendo informazioni preziose.

Come ha sottolineato Nbcnews, il rapporto rivendica, almeno parzialmente, il ruolo giocato dalla CIA e da altre agenzie di spionaggio statunitensi, osservando che hanno sollevato lo spettro di una pandemia ben prima che l’Organizzazione mondiale della sanità la dichiarasse l’11 marzo 2020. Gli avvertimenti dell’intelligence riassunti nel testo, inoltre, contraddirrebbero l’affermazione di Donald Trump secondo cui i funzionari dell’intelligence avrebbero inizialmente descritto il virus “in un modo molto non minaccioso”.

Fallimenti passati e futuri

Ma per quale motivo le agenzie di intelligence statunitensi non sarebbero adeguatamente preparate per “la prossima pandemia”? Perché molti ufficiali dell’intelligence non considererebbero le minacce biologiche come un problema di sicurezza nazionale di alto livello, anche dopo che più di un milione di persone sono morte a causa di Covid negli Stati Uniti. “Smuoveremmo il cielo e la terra se perdessimo un milione di persone a causa di un incidente terroristico”, ha detto in un’intervista Adam Schiff, che presiede l’Intelligence Committee.

Schiff ha sparato a zero contro la comunità dell’intelligence, affermando che questa non sarebbe riuscita a creare la cultura per riconoscere una minaccia biologica come una minaccia grave. “E quindi questo è un cambiamento culturale che necessita di essere effettuato”, ha tuonato. Lo stesso Schiff ha quindi affermato che il “mancato orientamento” della comunità dell’intelligence nella raccolta di informazioni relative a Covid dalla Cina ha reso meno probabile che vengano scoperte prove a sostegno di una fuga di notizie dal laboratorio (se è effettivamente quello che è successo).

Il ruolo dell’intelligence Usa

Non lo definirei come un fallimento dell’intelligence, ma sono stati molto lenti a ruotare e utilizzare le loro risorse uniche per raccogliere intuizioni che non erano di pubblico dominio”, ha aggiunto Schiff, parlando espressamente di occasione mancata.  

In un secondo report pubblicato dai repubblicani della House Intelligence Committee (qui il testo integrale) le agenzie di intelligence sono state accusate di omissioni “fuorvianti” nella loro valutazione pubblica delle origini del Covid, aggiungendo che i repubblicani hanno “ragione di credere che la [comunità dell’intelligence] abbia minimizzato la possibilità che la SARS -CoV2 sia stata collegata al programma cinese di armi biologiche basato in parte sul contributo di esperti esterni”.

In ogni caso, il primo documento, che è pieno di sezioni oscurate dopo una revisione della declassificazione, ha esaminato quando e come la comunità dell’intelligence ha appreso per la prima volta l’esistenza del virus, quali avvertimenti sono stati dati alla Casa Bianca di Trump e quali passi ritengono gli investigatori le agenzie dovrebbero prendere per essere meglio preparate per le future pandemie. 

L’inefficienza iniziale

Il documento afferma che il primo rapporto dell’intelligence che menziona il virus che sarebbe diventato noto come coronavirus o Covid-19 è arrivato il giorno del primo rapporto dei media al riguardo. Il 31 dicembre 2019, un analista del  National Center for Medical Intelligence, un componente della Defense Intelligence Agency, avrebbe notato un rapporto su un servizio di sanità pubblica gestito dal Programma per il monitoraggio delle malattie emergenti, noto come ProMED, su una polmonite inspiegabile che i funzionari cinesi stavano vedendo a Wuhan.

Sempre stando alla ricostruzione offerta, nei giorni e nelle settimane successivi i funzionari del Consiglio di sicurezza nazionale hanno chiesto alle agenzie di intelligence di capire cosa stesse nascondendo il governo cinese e se ci fosse, in effetti, una trasmissione del virus da uomo a uomo. Ma, come ha detto un funzionario agli investigatori, le agenzie di intelligence “non ci hanno dato nulla”. 

Eppure le agenzie di spionaggio statunitensi hanno una serie di satelliti in grado di fotografare attività insolite intorno agli ospedali e vaste capacità di intercettare telefonate ed e-mail tra funzionari del governo cinese. Possono anche utilizzare i supercomputer per raccogliere informazioni da vasti tesori di social media e altre informazioni “open source”. Ma nessuna di queste capacità sarebbe stata sfruttata in modo efficace per aiutare i funzionari statunitensi a capire cosa stava succedendo con Covid in Cina, ha concluso il rapporto.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora. FEDERICO GIULIANI

La ricerca su Nature. Perché qualcuno non ha mai preso il Covid? Lo studio che svela il mistero e il caso degli asintomatici. Redazione Web su L'Unità il 20 Luglio 2023

In più di due anni di pandemia ci sono stati momenti in cui i numeri dei contagi arrivavano alle stelle, altri un po’ meno. Ci sono state persone che si sono contagiate anche più volte ma anche chi non ha mai preso il Covid, nonostante fosse circondato letteralmente da persone infette. E questo è diventato un vero mistero. Come hanno fatto alcune persone a non contagiarsi mai nonostante tutto il contesto? A questa domanda arriva la risposta con uno studio coordinato dalla University of California San Francisco e appena pubblicato su Nature.

Si tratterebbe di una questione di geni. I ricercatori hanno scoperto infatti che le persone asintomatiche sono spesso portatrici di una variante genetica che aiuta il loro sistema immunitario a riconoscere e contrastare tempestivamente il virus. Questo, come è già successo per il vaccino, non significa che impedisce a queste persone di contrarre il covid. Semplicemente restano completamente asintomatici. Chi non ha mai ufficialmente preso il Covid potrebbe averlo avuto, dunque, in una forma asintomatica senza assolutamente essersene accorto. “Se si ha un esercito in grado di riconoscere il nemico in anticipo, questo è un enorme vantaggio – ha spiegato la coordinatrice dello studio Jill Hollenbach – . È come avere soldati preparati per la battaglia e che sanno già cosa cercare”.

I ricercatori hanno scoperto che il 20% degli asintomatici aveva una mutazione dei geni Hla (antigeni umani leucocitari) rispetto al 9% di chi mostrava i sintomi. La ricerca ha coinvolto 29.947 persone, di cui sono stati monitorati i sintomi e gli esiti del Covid attraverso uno smartphone. Repubblica riporta i risultati di questo studio: 1.428 persone non vaccinate hanno riportato un test positivo per l’infezione da SARS-CoV-2, di cui 136 hanno dichiarato di non avere sintomi. Una persona su cinque rimasta asintomatica dopo l’infezione è risultata portatrice di una variante comune dell’HLA, chiamata HLA-B*15:01. Le persone portatrici di due copie di questa variante sono risultate in grado di avere una risposta positiva, avendo più di otto volte la probabilità di rimanere asintomatiche rispetto a quelle portatrici di altre versioni di HLA.

Inoltre, in un ramo separato dello studio, i ricercatori hanno scoperto che i portatori di HLA-B*15:01, senza una precedente esposizione al SARS-CoV-2, avevano cellule T, cellule immunitarie, reattive ai frammenti proteici del SARS-CoV-2, che condividono alcune sequenze genetiche con altri tipi di coronavirus stagionali. Questo indica che le persone portatrici di HLA-B*15:01, precedentemente esposte ai virus stagionali del raffreddore, hanno un’immunità preesistente nei confronti del SARS-CoV-2 e potrebbero eliminare rapidamente il virus prima che si presentino i sintomi.

“Abbiamo proposto una strategia per identificare, reclutare e analizzare geneticamente individui che sono naturalmente resistenti all’infezione da Sars-Cov-2 – hanno spiegato gli autori dello studio – I tassi medi di attacco secondario per le infezioni da Sars-Cov-2 possono toccare il 70% in alcune famiglie e sono stati segnalati numerosi nuclei famigliari in cui tutti i membri tranne uno dei coniugi erano stati contagiati – aveva confermato la ricerca – suggerendo che alcuni individui altamente esposti possano essere resistente all’infezione con questo virus”. Perciò erano stati esaminati “alcuni esempi di suscettibilità geneticamente determinata a esiti gravi di due malattie infettive: la tubercolosi e il Covid, coprendo in modo più approfondito i tre casi noti di resistenza congenita alle infezioni”. Si era proseguito “considerando i geni candidati direttamente rilevanti per la resistenza all’infezione da Sars-Cov-2”. E si era giunti a formulare una proposta: “Una strategia per il reclutamento e l’analisi genetica di individui che sono naturalmente resistenti all’infezione del virus”. Uno stimolo per una nuova fase di ricerca.

Redazione Web 20 Luglio 2023

Covid, quando i malati soffrono di stigma. Uno studio mette in risalto come i pazienti colpiti da malattia si siano sentiti ostracizzati e rifiutati. Gioia Locati il 6 gennaio 2023 su Il Giornale.

Alla fine è uscito uno studio scientifico.

Fra le tante conseguenze che la pandemia ci ha arrecato, ora è stato riconosciuto lo stigma sociale. C’è il timore di essere visti come “appestati”, e dunque “untori” e si soffre per questo “giudizio sociale”. Così nel 2023 abbiamo, chi più, chi meno, sperimentato quel senso di vergogna e di “colpa” nei confronti della malattia che la nostra generazione ha conosciuto solo attraverso i libri. Un retaggio di Medioevo, insomma. Secondo uno studio pubblicato su PLoS ONE, la maggior parte delle persone che ha avuto il Covid o il long Covid ha sperimentato una qualche forma di stigmatizzazione legata alla malattia.

Stigma è parola greca che significa “marchio”. In questo caso indica una sofferenza interiore e, dunque, profonda.

Ci sono stati innumerevoli rapporti di problemi di stigma, licenziamento e discriminazione affrontati dalle persone che hanno avuto il Covid e vivono con il long Covid. Questo studio, tuttavia, è il primo a misurare empiricamente queste situazioni" ha spiegato Marija Pantelic, della Brighton and Sussex Medical School, nel Regno Unito, che ha guidato un gruppo di lavoro.

Lo studio

I ricercatori hanno valutato i dati di 1.100 persone che hanno partecipato a un sondaggio online sul long Covid nel 2020, e un altro sondaggio di follow-up nel 2021. A queste persone sono state chieste informazioni sullo stigma, per cui le persone sono state trattate direttamente ingiustamente a causa delle loro condizioni di salute, sullo stigma interiorizzato, in cui gli individui si sentivano imbarazzati o avevano vergogna delle proprie condizioni di salute, e sullo stigma anticipato, ovvero l'aspettativa dei partecipanti di essere trattati male a causa della loro condizione. Il lavoro ha escluso le persone che sono state ricoverate per Covid, circoscrivendo l’analisi ha chi ha avuto una malattia in forma leggera, gestibile a domicilio.

E secondo i risultati dell'analisi, il 95% delle persone ha sperimentato un tipo di stigma almeno a volte, e il 76% spesso o sempre. Quasi due terzi (63%) delle persone hanno riportato esperienze quali essere trattate con meno rispetto, oppure vedere interrotto il contatto con altri a cui tenevano a causa delle loro condizioni di salute, mentre il 91% prevedeva di subire stigma e discriminazione. L'86% degli intervistati ha provato un profondo senso di vergogna legato al fatto di avere il long Covid. Nel complesso, la prevalenza di stigma era più alta in coloro che riferivano di avere una diagnosi clinica di long Covid rispetto a quelli che non avevano sicurezza della patologia. "Lo stigma associato a long Covid sta danneggiando le persone che vivono con la malattia, ed è probabile che questo problema lascerà un segno devastante nella nostra società e nella fornitura di servizi sanitari. Sappiamo da decenni di ricerca su altre patologie a lungo termine come l'asma, la depressione e l'HIV, che lo stigma ha conseguenze disastrose per la salute pubblica. Con il questionario che abbiamo sviluppato potremo misurare i cambiamenti nel tempo e l'efficacia degli interventi anti-stigma urgenti" ha concluso Pantelic. Lo stigma anticipato e interiorizzato è stato sperimentato più frequentemente rispetto allo stigma messo in atto. Coloro che hanno riferito di avere una diagnosi clinica di Long Covid avevano una prevalenza di stigma più elevata rispetto a quelli senza.

C'è da aggiungere che lo stigma legato al Covid ha superato quello verso asma, depressione e HIV.

Solo nel Regno Unito, si stima che 1,8 milioni di persone abbiano attualmente il Long Covid da almeno 4 settimane, di queste 791.000 lo hanno avuto da almeno un anno e 235.000 da almeno 2 anni.

Gli studiosi fanno riflettere sul fatto che il sentirsi ostracizzati e squalificati porta gli individui a vivere in clandestinità e a rifiutare contatti con i sanitari.

È forse il caso di ricordare che il Covid è diventato come la varicella di una volta: prima o poi tocca a tutti...

 Commissione d’inchiesta Covid: il Senato annacqua i poteri, non si indaga sulla zona rossa. E scoppia la polemica. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 9 Novembre 2023

L’Aula del Senato ha dato il via libera al ddl per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione epidemica del Covid-19. In particolare, sulle misure adottate per prevenire e affrontare l’emergenza epidemiologica. I voti favorevoli sono stati 94, i contrari 64, nessun astenuto.

Il provvedimento era già stato approvato dalla Camera, ma tornerà a Montecitorio perché ci sono state modifiche al testo in commissione Affari sociali, mentre in Aula gli emendamenti sono stati tutti respinti.

Intanto, prendono forma le prime polemiche. A insorgere sono le opposizioni che, accusano il governo di usare la Commissione d’inchiesta per “fini politici”.

In particolare, dai banchi del Partito Democratico, è il presidente dei senatori Boccia: “Oggi la verità è che coloro che vogliono la commissione d’inchiesta sul Covid sono gli stessi che allora pensavano che novax e complottisti fossero dalla parte giusta della storia. E ora vogliono usare la commissione come una clava per meri motivi politici”.

Poi ricorda il periodo dell’emergenza: “Da quel 23 febbraio 2020 abbiamo varato 14 decreti per l’emergenza”, dice nella lunga dichiarazione di voto. “Ricordo che la destra ha votato sempre contro. Ha votato contro i ristori. Ristori e ammortizzatori sociali che sono arrivati a tutti. Le regioni? Ci chiedevano di trovare respiratori e mascherine che non c’erano e che loro non avevano. Perché la privatizzazione selvaggia della sanità aveva smontato la prevenzione territoriale e non c’erano gli strumenti di protezione individuale. Anche nella ricca Lombardia, indicata come modello. Il governo è sempre stato in contatto quotidiano con le regioni. Sempre, per tre mesi e mezzo. Ma noi abbiamo difeso il diritto alla salute, anche contro le ragioni legittime dell’economia. Noi chiedevamo di chiudere mentre la destra chiedeva di aprire tutto”.

Insieme al Pd, ad attaccare il governo c’è il Movimento 5 Stelle, al tempo al governo con il premier Conte: “Siamo diventati un modello per la comunità internazionale. Le debolezze del nostro Ssn sono apparse da subito chiarissime: definanziamento, lezione non imparata visto che si continua a tagliare in sanità, tetto all’assunzione di personale, filtro territoriale inesistente e disomogeneità nella gestione della sanità, che è un danno, ma questa maggioranza la aumenta con l’autonomia differenziata”, scrive in una nota la Vicepresidente del Senato Mariolina Castellone, Senatrice del Movimento 5 Stelle.

E prosegue attaccando la maggioranze “che è brava a speculare sulle tragedie: ricordo le piazze usate come palchi e affollate di negazionisti che gridavano alla dittatura sanitaria. O queste Aule, usate come teatri per trasfigurarsi quando inveivano contro il Presidente del Consiglio chiamandolo criminale. Oggi continuano a esercitare quest’arte teatrale con una vera e propria farsa, mettendo su un tribunale politico, come ammesso da loro stessi”.

Anche sulla pandemia l’Italia deve distinguersi dal resto del mondo e ridurre tutto a questione giudiziaria. Tiziana Maiolo su Il Dubbio l'8 novembre 2023

Prima l’inchiesta giudiziaria, poi l’inchiesta parlamentare. L’Italia vuol proprio distinguersi dal resto del mondo, che, pur interrogandosi e studiando per capire le ragioni scientifiche che stanno alla base della diffusione di una pandemia tragica come quella del Covid-19, non ne ha comunque cercato i “colpevoli”.

L’Italia no, l’Italia deve sempre ridurre tutto a questione giudiziaria e moralistica, deve sempre affannosamente chiedere “quante volte figliolo?”. Perché, se non dobbiamo essere tutti costantemente alla sbarra con i nostri reati davanti a un pm, dobbiamo per lo meno essere chiamati a rendere conto di un peccato nel confessionale.

Quel che è successo nel 2020 è stato violento e imprevedibile. Tutte le istituzioni, a partire dal governo Conte, fino agli organismi sanitari ai diversi livelli, alle Regioni e agli enti locali, sono stati chiamati dalla sorte e dalla responsabilità, a fare qualcosa, a combattere contro un nemico sconosciuto e portatore di malattia, sofferenza, morte. Indimenticabili le parole dell’assessore alla sanità della regione Lombardia, Giulio Gallera, “lavoravamo a mani nude”. Sarà uno di quelli che verranno puniti, ma poi salvati sul piano giudiziario, con il riconoscimento della bontà del lavoro svolto e dell’inesistenza del reato.

La magistratura è stata per molti, troppi mesi, prigioniera di un popolo di parenti e amici incattiviti, di una stampa orientata a mirare direttamente al corpo del nemico politico. Da una parte, il riflesso condizionato contro il premier Giuseppe Conte e il ministro della Salute Roberto Speranza, accusati di volta in volta di non aver provveduto a dotare ospedali e cittadinanza dei presidi sanitari, in particolare mascherine, oppure di non aver attuato il piano sanitario del 2006 sull’influenza. Dall’altra parte il bersaglio grosso è stato Attilio Fontana, governatore della Lombardia, che avrebbe dovuto invece essere lodato anche per esser stato il primo a indossare pubblicamente la mascherina protettiva e poi per quella proposta di fermare gli aerei in arrivo dalla Cina, che fu irrisa e sbeffeggiata. Gli si contestò invece non solo una sorta di inedito reato di “donazione di famiglia” per camici e mascherine, ma soprattutto l’infamante accusa di non aver creato tempestivamente la zona rossa a Nembro e Alzano, nella bergamasca colpita violentemente dal morbo. Non era neanche suo compito, e la magistratura glielo riconobbe. Ma non era neppure veritiero il fatto che si sarebbero potute salvare le vite. Neppure con l’iniziativa del premier o del ministro della Salute.

È molto probabile che non si potesse fare di più di quel che è stato fatto. Ed è inutile cercare capri espiatori, trasformando un’epidemia sanitaria in epidemia giudiziaria. Se al posto di Conte ci fosse stato un altro presidente del Consiglio, ci sarebbero stati meno morti, meno lutti, meno famiglie distrutte? Difficile domanda e difficile risposta. Certamente il partito più populista e forcaiolo quale è quello dei Cinque Stelle sarebbe stato in prima linea a chiedere non solo la commissione d’inchiesta ma anche il carcere per mezza Italia. Oggi l’”avvocato del popolo” si ritrova con un cappio politico al collo senza neppure rendersi conto di essere vittima solo di una piccola nemesi storica guadagnata sul campo. Del resto non è forse suo amico e sostenitore il direttore del Fatto quotidiano, Marco Travaglio, quello che, con la stucchevole abitudine a deformare i nomi, chiamava l’assessore lombardo alla sanità “Galera” con una sola elle?

Ma non si sottraggono alla vulgata del “vogliamo la verità”, “la gente deve sapere”, “vogliamo giustizia per tutti quei morti”, neppure le forze della maggioranza di centro-destra che hanno voluto e otterranno, pur dopo la necessaria terza lettura della Camera, la commissione d’inchiesta. La quale, come dice l’articolo 3 del disegno di legge numero 790, dovrà verificare se sia stata corretta la gestione dell’emergenza sanitaria durante l’epidemia e se le misure adottate dal governo e dalla dirigenza sanitaria siano state adeguate alla situazione. Se siano state efficaci e tempestive, e soprattutto se abbiano portato i risultati necessari.

Non è scandaloso chiederselo, supponiamo lo stiano facendo in tutto il mondo, se non altro per non trovarsi impreparati per eventuali emergenze sanitarie future. Ma sappiamo bene che le Commissioni parlamentari d’inchiesta hanno gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, con la sola esclusione della possibilità di privare qualcuno della libertà. E sappiamo bene altre due cose. La prima: a ben poco sono servite in questi anni le varie commissioni speciali, da quelle sul terrorismo a quelle sulle stragi, che nessun contributo, o quasi, hanno portato verso la spasmodica “ricerca della verità”, quando la verità era già sotto gli occhi di tutti, come quella sul rapimento e uccisione di Aldo Moro a opera delle Brigate Rosse. Che sono sempre restate tali.

La seconda considerazione. Per quanto anomalo rispetto al resto del mondo, l’intervento della magistratura c’è stato. Ha fatto perdere del tempo e tentato di rovinare qualche reputazione, ma c’è stato. E ha assolto. I reati non ci sono stati, nessuno degli appartenenti alle istituzioni si era fatto untore e aveva sparso i germi. Nessuno è stato responsabile, diretto o indiretto, per quelle tragiche morti. Chi voleva il colpevole a tutti i costi, a partire dagli amici di Giuseppe Conte, è rimasto deluso. Ma sono le regole della democrazia. E faranno bene a ricordarsene, quando la commissione d’inchiesta sarà varata, i quindici senatori e i quindici deputati che ne faranno parte. Seguire la piazza, di qualunque piazza si tratti, di quella reale o di quella mediatica, è sempre pericoloso. E sicuramente contrario alla cultura liberale di un Paese democratico e allo Stato di diritto.

La verità ci rende liberi. Verità sul Covid, vi prego: facciamo luce su quanto accaduto. Matteo Renzi su Il Riformista il 9 Novembre 2023

La Commissione di inchiesta sul Covid si farà. E del resto sarebbe assurdo il contrario. Il Covid è stata un’emergenza mondiale di proporzioni catastrofiche. Con qualche DPCM il Governo ha disposto la deroga alle libertà costituzionali, chiuso le scuole, deciso i ristori, impedito le cerimonie funebri e religiose, portato i soldati russi in Italia, fatto chiusure e aperture di esercizi commerciali senza coerenza. Possiamo alla luce di tutto questo chiedere che si faccia chiarezza e si faccia tesoro degli errori per evitare di sbagliare quando ci troveremo in un’altra emergenza? Sì, possiamo. Anzi, dobbiamo.

Ieri il Riformista ha titolato “Chi ha paura della verità?”. A giudicare dal dibattito di ieri in Senato, in tanti hanno ancora paura della Commissione. Permettetemi allora di portare tre piccoli esempi sulla necessità di procedere prima possibile a fare tesoro su quanto è accaduto. Il primo, le scuole. Nel marzo del 2020 sono stato il primo a chiedere che si riaprissero le scuole. Quando l’ho fatto persino tanti amici del mio partito mi hanno criticato. La destra e la sinistra mi giudicavano un pazzo. Eppure io ero convinto che anziché comprare inutili banchi a rotelle avremmo dovuto investire sulla riapertura perché i ragazzi avrebbero pagato un prezzo altissimo a quelle settimane di didattica online. I dati oggi lo confermano. Assistiamo a una spaventosa crescita di fenomeni di depressione giovanile e di disturbi alimentari, aumenti a doppia cifra tra il 2019 e il 2022. Oggi tutti a parlare di bonus psicologo e delle proposte di Fedez e per carità va bene tutto.

Ma possiamo dire che aver fatto dell’Italia il Paese in cui i giorni di scuola sono stati chiusi più del resto della media europea è stata una scelta sbagliata? Il secondo, i ristori. C’è chi ha avuto troppo, c’è chi ha avuto poco o nulla. Esempio personale: per le mie attività di conferenziere lo Stato italiano mi ha offerto nel 2021 un ristoro di oltre ventimila euro. Ovviamente ho rinunciato essendo per me inconcepibile che il fisco volesse dare dei soldi a chi come me non aveva problemi. Ma perché lo Stato italiano ha dato i ristori a me e ha lasciato sul lastrico artigiani, pizzaioli, commercianti? Facciamo finta di nulla o facciamo chiarezza su certe stranezze economiche come questa. Ma anche come le mascherine, i ventilatori cinesi mal funzionati, il vaccino italiano. Il terzo, più politico. I Cinque Stelle hanno attaccato dicendo che chi chiede la Commissione di inchiesta è ossessionato da Giuseppe Conte. Con me cascano male. Il mio rapporto con Conte l’ho risolto quando l’ho mandato a casa per portare al Governo Draghi, scelta della quale sono orgoglioso. Questa Commissione non nasce dall’ossessione verso l’ex Presidente del Consiglio, ma dal desiderio del cuore di garantire ai nostri figli una verifica puntuale di cosa ha funzionato e cosa no in uno dei periodi più difficili della storia del Paese. Un desiderio di verità. E la verità ci rende liberi.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

Giuseppe Conte prova ad impedire la verità sul Covid. Giuseppe China su Il Tempo l'08 novembre 2023

La drammatica stagione del Covid sembra non avere mai fine. A scatenare il dibattito politico è ancora una volta la polemica sull’istituzione della commissione di inchiesta parlamentare sulla gestione durante l’emergenza scatenata dal Coronavirus. Il primo esponente a riaccendere i riflettori sul tema è stato il leader di Italia Viva Matteo Renzi che su X (ex Twitter) ha scritto: «Oggi (ieri per chi legge, ndr) il Movimento 5 Stelle proverà ad affossare la Commissione Covid con la pregiudiziale al Senato. Saremo in Aula e spiegheremo perché vogliamo la verità sui soldati russi in Italia, sui ventilatori cinesi malfunzionanti, sulle maxi-provvigioni delle mascherine. Ma i grillini non erano quelli che volevano sempre la verità e la trasparenza? E allora perché Giuseppe Conte ha così paura della Commissione?». 

Intanto il provvedimento per la sua istituzione, dopo il primo passaggio alla Camera è ora all’esame dell’aula del Senato, per poi passare in terza lettura di nuovo dall’assemblea di Montecitorio, prima della definitiva conversione in legge. Come se non bastasse nel testo licenziato in prima lettura dalla Camera sono state avanzate diverse modifiche. In particolare, la commissione d’inchiesta non avrà più il compito di indagare «eventuali obblighi e restrizioni carenti di giustificazione in base ai criteri della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’efficacia, contraddittori o contrastanti con i principi costituzionali», ma si limiterà a esaminare il fondamento scientifico delle misure di contenimento. Ma non è finita qui perché non dovrà «valutare la legittimità della dichiarazione dello stato di emergenza e delle relative proroghe nonché dell’utilizzo dello strumento della decretazione d’urgenza». Stato di emergenza, Dpcm e restrizioni - utilizzati dal governo guidato dal leader grillino Giuseppe Conte- non saranno quindi più oggetto di indagine. 

Il timore della maggioranza di governo, ma anche di parte dell’opposizione con Italia Viva, è che questo iter venga ulteriormente rallentato dal Movimento 5 Stelle e dalla sinistra. Sempre ieri infatti anche Alleanza Verdi e Sinistra al Senato ha presentato una pregiudiziale di costituzionalità all’istituzione della commissione d’inchiesta Covid e sulle misure per prevenire e affrontare l’emergenza epidemiologica. A giudizio di Avs l’istituzione di questa commissione esclude di fatto alcuni dei titolari più rilevanti di quella stessa gestione di emergenza, ossia le Regioni. Evidenzierebbe pertanto solo un intento politico e non il vero accertamento dei fatti, così come prescritto dall’articolo 82 della Costituzione.

Toni e parole diametralmente opposte quelle utilizzate da Fratelli d’Italia che ha indicato la commissione d’inchiesta Covid tra gli obiettivi del governo. «Con la commissione chiediamo verità sulla gestione della pandemia. Lo dobbiamo a chi ha perso la vita», così Marco Silvestroni, senatore di FdI e segretario dell’Ufficio di presidenza. «È ora di fare luce. Troppi sono ancora gli interrogativi che aleggiano su una fase storica che ha fortemente segnato la nostra nazione a livello politico e sociale. Tra i temi di indagine rivendico l’inserimento anche dell’efficacia dei protocolli terapeutici in relazione alla loro applicazione nelle terapie domiciliari e nelle cure ai soggetti più fragili. E gli atti di Commissione Ue ed Ema (l’agenzia europea per i medicinali, ndr) sui vaccini. Chi ha paura di questa commissione ha chiaramente qualcosa da nascondere», sferza il collega Gianni Berrino (FdI), relatore in commissione Sanità al Senato, che si è pure sbilanciato sulla data di effettivo inizio dei lavori: la commissione dovrebbe essere operativa a inizio 2024.

Spese pazze, errori e troppi misteri. Commissione Covid: chi ha paura della verità? Respinte le pregiudiziali si va verso l’approvazione. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'8 Novembre 2023

Con l’approvazione del Senato, dopo quella della Camera, la Commissione di inchiesta sulla gestione Covid sarà oggi realtà. Su 150 presenti hanno votato contro 91 senatori, i favorevoli invece sono stati 58. A nulla è valsa la furbesca pregiudiziale di costituzionalità che mirava a bloccarla: un escamotage studiato negli uffici del M5S del Senato e sottoscritto da Alleanza Verdi e Sinistra. Le preoccupazioni in quella che era fino a ieri la casa politica dell’ex ministro Roberto Speranza devono essere tante. “Denunciamo l’intento politico del provvedimento, che non è di vero accertamento dei fatti”, il tono allarmato del gruppo AVS, in una nota. De Cristofaro (AVS), Mazzella (M5S) e De Giorgis (PD) hanno tenuto banco con interventi concordati: “Il testo istitutivo della commissione non contempla la competenza delle Regioni (che in virtù dell’articolo 117 della Costituzione hanno competenza esclusiva in materia sanitaria).

Lo Stato ha competenza esclusiva solo per la fase emergenziale”, hanno detto. E perché, si potrebbe obiettare, non viene chiesto di fare chiarezza proprio sulla gestione dell’emergenza? Sarebbe qui fuori luogo elencare la lunga lista dei misteriosi acquisti e curiosi errori intervenuti in quella gestione, di come si sono comprati milioni di lotti di mascherine non omologate, inutili e perfino pericolose. Di come si siano commissionati banchi a rotelle poi stipati in magazzini dal costo esorbitante. Di come si siano invitati a scorrazzare in giro per ospedali e strutture pubbliche oltre cento militari (c’è chi dice: spioni) russi mascherati chi da medico, chi da infermiere. Una prima commissione d’inchiesta interna, arrivato Mario Draghi al posto di Giuseppe Conte, era stata istruita su mandato del generale Francesco Figliuolo.

Aveva enumerato 338 milioni e 775.287 mascherine “dannose per la salute” ordinate dal precedente commissario, Domenico Arcuri e accertato che il solo costo vivo per il deposito del materiale sequestrato superava il milione di euro al mese. Oneri elevatissimi che hanno gravato sul bilancio della Sanità, togliendolo di fatto ad altri usi, come la moltiplicazione dei posti letto nei reparti Covid, la cui scarsità è risultata letale per centinaia di pazienti. Una punta dell’iceberg rispetto a quanto accaduto durante la pandemia gestita con tante, troppe incertezze dal governo Conte II. La prima forza a formalizzare in Parlamento la richiesta di mettere in piedi la commissione è stata Italia Viva. Decisione rivendicata ieri da Matteo Renzi in aula: “Se noi abbiamo fatto 97 commissioni di inchiesta e non ne facciamo una sull’evento che ha derogato a tutti i principi costituzionali, e ha prodotto la chiusura del Paese, allora su cosa vanno fatte? Che paura vi fa la verità?”. Il centrodestra vuole andare a vedere le carte, far parlare i protagonisti in una serie di audizioni e di acquisizioni documentali.

Tanto più che in sede emendativa sono stati ridefiniti meglio gli obiettivi, Le prerogative delle commissioni parlamentari dal punto di vista della più ampia analisi di tutte le fonti sono diverse e per molti aspetti maggiori di quelle della magistratura. E non indagano reati ma esperienze, pratiche e procedure con l’intento politico di valutare meglio come comportarsi per il futuro: un esercizio di democrazia al servizio di quella trasparenza che i grillini hanno sbandierato per anni, salvo poi diventare, dopo l’arroccamento nei palazzi del potere, i più rigidi custodi del segreto d’ufficio. Per il Pd è il senatore Andrea Giorgis a calciare la palla in tribuna: “Vogliamo indagare la gestione della pandemia? Dobbiamo interrogare l’Oms, l’Europa…” Vista dalla scienza, la commissione ha la sua valenza. Lo dice al Riformista la divulgatrice scientifica, Barbara Gallavotti, il volto televisivo che aveva raccontato passo passo la crisi Covid: “Bisogna poter imparare dagli errori: tutto il metodo scientifico è basato sull’esperimento, sulla sperimentazione. Si può sbagliare, e non bisogna nascondere gli errori. Al contrario: i protocolli si affinano, le buone pratiche si analizzano. Io non ho competenza per parlare di decisioni politiche, ma da scienziata dico che una commissione che indaghi cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato può solo fare bene, può prepararci meglio per il futuro. Perché una nuova pandemia, prima o poi, può sempre tornare”. Meglio farsi trovare preparati.

Aldo Torchiaro.

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Vietato indagare sulla costituzionalità dei DPCM: già azzoppata la Commissione Covid. Stefano Baudino su L'Indipendente il 22 Settembre 2023 

La Commissione di inchiesta parlamentare sulla gestione dell’emergenza Covid, che lo scorso luglio ha ottenuto il semaforo verde da parte di Montecitorio, comincia già a perdere pezzi. In occasione dell’esame in Commissione Sanità al Senato, infatti, è andata in scena una parziale inversione di marcia sul contenuto del disegno di legge attraverso cui si punta ad istituirla ufficialmente, che è stato oggetto di significative modifiche sui compiti che l’organo sarà chiamato a effettuare. Sulla base del nuovo testo, la Commissione non potrà infatti svolgere indagini sullo Stato di emergenza, sui Dpcm e sulle restrizioni, che ai tempi furono presi di mira dalle forze politiche ora al governo.

Nello specifico, è stata in parte stralciata la lettera t) dell’art.3, mentre la lettera v) del medesimo articolo è stata completamente cancellata. Nel primo caso, dunque, emerge che la Commissione non sarà più chiamata a individuare “eventuali obblighi e restrizioni carenti di giustificazione in base ai criteri della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’efficacia, contraddittori o contrastanti con i princìpi costituzionali”, ma soltanto ad esaminare “le misure di contenimento adottate dal Governo nelle fasi iniziali e successive della pandemia”, valutando se esse “fossero fornite di adeguato fondamento scientifico, anche eventualmente attraverso la valutazione comparativa con la condotta seguita da altri Stati europei e con i risultati da essi conseguiti”. Nel secondo, si evince invece che la Commissione non dovrà più “verificare e valutare la legittimità della dichiarazione dello stato di emergenza e delle relative proroghe nonché dell’utilizzo dello strumento della decretazione d’urgenza”. Essendo intervenute tali modifiche, in seguito all’ottenimento dell’ok dall’aula di Palazzo Madama, sarà necessario un ulteriore passaggio a Montecitorio ai fini della conversione in legge del testo.

Per capire che piega avrebbe potuto prendere la vicenda, erano state estremamente eloquenti le parole del presidente della Repubblica Mattarella quando, nel corso della tradizionale Cerimonia del Ventaglio dello scorso luglio, aveva espresso la sua preoccupazione per le «iniziative di inchieste con cui si intende sovrapporre attività del Parlamento ai giudizi della Magistratura». Parole istituzionalmente non ortodosse, se solo si pensa che la Commissione d’inchiesta – la cui finalità è quella di effettuare indagini e ricerche su argomenti di interesse pubblico, realizzando una relazione valutativa dei fatti – è un istituto regolamentato dalla Costituzione, a cui l’Italia ha fatto ricorso per più di 90 volte nel corso della sua storia repubblicana. A Margine dell’intervento di Mattarella, il deputato di Fdi Galeazzo Bignami, fedelissimo di Giorgia Meloni, aveva dichiarato che le parole del Presidente della Repubblica erano state «apprezzate da tutta la maggioranza» e avrebbero consentito di «procedere a precisare il punto al Senato» per «approvare il progetto di legge in maniera adeguata».

La Commissione d’inchiesta sull’emergenza Covid sarà composta da 15 senatori e 15 deputati e, tra le altre cose, sarà chiamata a indagare sulla “tempestività” e i “risultati” delle misure adottate dall’Esecutivo e dalle strutture di supporto per “contrastare, prevenire, ridurre la diffusione e l’impatto” dell’ondata pandemica, esaminando “i documenti, i verbali di organi collegiali, gli scenari di previsione e gli eventuali piani sul contagio da SARSCoV-2” elaborati dal Governo o ad esso sottoposti, accertare i motivi del mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale del 2006 e il ruolo giocato dalla task force istituita presso il Ministero della Salute e dal Comitato tecnico-scientifico, nonché analizzare “i rapporti intercorsi tra le competenti autorità dello Stato italiano e l’OMS ai fini della gestione dell’emergenza” e verificare il “rispetto delle normative nazionali, europee e internazionali in materia di emergenze epidemiologiche”, come anche le conseguenze della loro eventuale mancata osservanza. La Commissione dovrà poi esaminare gli eventuali “abusi, sprechi, irregolarità, comportamenti illeciti e fenomeni speculativi” che possano aver caratterizzato l’azione del governo e compiere accertamenti sugli “acquisti delle dosi di vaccino destinate all’Italia”, sulla “efficacia del piano vaccinale predisposto” e sul processo di revisione continua sui vaccini anti-Covid”. [di Stefano Baudino]

"Reati no? Ma errori sì. La commissione Covid usi la nostra indagine". Il procuratore capo di Bergamo Chiappani: "Da riscrivere il reato di epidemia colposa". Felice Manti il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.

Lo hanno definito «un pm che voleva fare il sociologo», l'hanno accusato di «populismo giudiziario», censurato da parte di qualche giornale per non aver provveduto a bloccare l'inchiesta sulla pandemia durata tre anni. «L'archiviazione non è un alibi per non fare niente», dice il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani dalla sua scrivania al secondo piano della Procura. Tra un mesetto appenderà la toga al chiodo («Ma resto in commissione tributaria a Brescia», assicura).

Al Giornale spiega di non voler entrare nel merito delle decisioni del Tribunale dei ministri che ha archiviato le posizioni dell'ex premier Giuseppe Conte, dell'ex ministro della Salute Roberto Speranza, di ex dirigenti e membri del Cts. Decisione che Chiappani rispetta, ma sente la necessità di fornire alcune precisazioni dopo il grande impegno profuso dalla Procura per ricostruire le risposte delle autorità sanitarie e civili alla pandemia nella Bergamasca e nelle zone limitrofe. Nell'informativa di reato di oltre 2.400 pagine, sottolinea Chiappani, venivano evidenziate le criticità, le omissioni e la sottovalutazione del rischio epidemico, con riferimento alla mancata Zona rossa: «A tre anni di distanza c'è ancora discussione su chi spettasse la decisione», che era politica, insindacabile in sede giudiziaria. «Mi chiedo: potranno essere sindacate, in altra sede, anche politica?». Alcuni rilievi contenuti nell'archiviazione di Brescia, sulla non configurabilità del reato di epidemia colposa o sulla mancanza del nesso causale con le morti sono trancianti, ma l'evidente ed accertata impreparazione e sottovalutazione delle autorità sanitarie impongono la necessità di interventi da parte del legislatore, per evitare che la debacle sanitaria si ripeta. L'amarezza che traspare dalle sue parole è tutta per i parenti delle vittime. Persone rimaste senza affetti, senza risposte e (ancora) senza risarcimenti, ora, a distanza di tre anni, abbandonate con parole di circostanza e qualche sommesso mea culpa «fino al prossima cerimonia, al prossimo Requiem al Gaetano Donizetti».

La procedura avanti il Tribunale dei ministri, osserva il procuratore, non prevedeva infatti la partecipazione delle persone offese, in contrasto con il disposto dell'articolo 111, 2° comma, della Costituzione sul contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità: «È come se i morti non esistessero più. Quando vedo la foto delle bare sui camion, penso al fatto che i morti di Bergamo al Tribunale dei ministri non hanno avuto voce». Una stortura? «Il mio non è una censura giuridica, né procedurale, ripeto, ma nessuno ha pensato a loro. Nessuno lo ha fatto notare, neanche le Camere Penali, così sensibili a questi argomenti».

Qualcuno dice che ciò che è successo era ineluttabile, la solita tragica fatalità all'italiana. Imprevedibile come le alluvioni. «Chi dice che la colpa è del buon Dio non vuole ammettere che l'Italia non era preparata ma avrebbe dovuto esserla. Per legge. Come se i disastri ambientali o sanitari non possano essere oggetto di investigazione. È populismo giudiziario cercare di ricostruire, ai fini di individuare eventuali responsabilità? È tra i compiti di una Procura o, come mi è stato contestato, non si doveva fare? Qui ribadisco che il materiale raccolto, come ho sempre sostenuto, non serviva solo a dare delle risposte giudiziarie, ma anche scientifiche, epidemiologiche, politiche. Gli italiani ed i bergamaschi in particolare avevano ed hanno il diritto di sapere come è stato affrontato l'annunciato pericolo della diffusione di una pandemia e sapere degli eventuali errori. Perché nel futuro maturi finalmente una cultura della preparedness anche al ministero».

E quali domande sono rimaste senza risposta? «È più corretto dire quali domande sarebbero rimaste senza risposta. La gente di Bergamo non avrebbe dovuto sapere perché il 5 marzo era stato inviato l'esercito in Valseriana e tre giorni è stato smobilitato... (sul ritiro dei militari c'è il segreto di Stato, ndr) Ma si sa che Speranza aveva firmato per la chiusura e Conte non ha voluto. Mi chiedo, la gente di Bergamo non doveva sapere perché la medicina territoriale era allo sbando, i medici di base non intervenivano più, gli infermieri a Bergamo non sapevano neanche come indossare le tute e la gente moriva nelle ambulanze? La gente di Bergamo non doveva forse sapere come e chi aveva deciso di non fare i tamponi agli asintomatici, quando già si sapeva che in Cina erano ritenuti grandemente coinvolti nella esponenziale diffusione del contagio? La gente di Bergamo non deve sapere perché non era stato aggiornato il piano pandemico del 2006 nonostante il successivo virus H1-N1? E che soprattutto il piano pandemico non era stato comunque attuato? Non si doveva sapere che una normativa del Parlamento Ue del 2013 imponeva le scorte di retrovirali, tute e mascherine e come organizzarsi per affrontare il rischio di una possibile pandemia?».

Sullo sfondo resta la commissione d'inchiesta. «Ritengo - commenta il Procuratore capo di Bergamo - che valutazione giudiziaria e valutazione politica o scientifica non siano sovrapponibili, ma il materiale raccolto nella nostra inchiesta ritengo possa essere preso in considerazione. Del resto, anche se mi si contesta che non era nostro compito, siamo stati gli unici a ricostruire esattamente cos'è successo e come è stata gestita la prima fase della pandemia, quella che ha cagionato migliaia di morti nel nostro territorio, quando ancora nelle altre parti del Paese il virus non era ancora diffuso».

E poi c'è la necessità di riscrivere il reato di epidemia. «Il Tribunale di Brescia ha stabilito che per il nostro ordinamento è previsto solo come reato a condotta vincolata, che si realizza solo con la volontaria o colposa diffusione degli agenti patogeni. L'omissione delle misure sanitarie e sociali previste per arginare, se non prevenire, comunque ostacolare il diffondersi di un'epidemia non costituisce un illecito. Se è così, mi preoccupa. La decisione di Brescia sul punto deve fare riflettere il legislatore se mettere mano al reato di epidemia, ancora fermo alla dicitura del 1930 per la quale sarebbe punibile solo il cagionare l'epidemia mediante diffusione di germi patogeni di cui l'agente ha il possesso».

Il non aver attuato il piano pandemico è stato decisivo? «Vi erano autorevoli rappresentanti dell'autorità sanitaria centrale che ne ignoravano l'esistenza. Non è reato? Va bene. Ma che il piano andasse aggiornato lo richiede Ranieri Guerra nel 2017 al ministro Lorenzin, e ribadito dal successore di Guerra al nuovo ministro Giulia Grillo. Tutto inutilmente. Uno dei punti cardine era quello di prevedere una precisa ed oggettiva catena decisionale, in modo che ciascuno sapesse quali fossero i suoi compiti e su quali materie ognuno dovesse intervenire. L'inchiesta ha messo a nudo la confusione, la sovrapposizione e la frammentazione delle competenze ministero della Salute, Protezione Civile, Cts, Regioni e Asl. Fu scelta politica? Bene, se sì lo valuti l'eventuale commissione d'inchiesta». Un ultimo ragionamento lo merita la mancata prova che, se aggiornato e/o attuato, il piano avrebbe evitato il diffondersi dell'epidemia e molti morti della Bergamasca, più di 4mila secondo la perizia di Andrea Crisanti. «C'è un problema di valutazione in ambito penale della prova scientifica. Se le proiezioni epidemiologiche e le valutazioni con metodo statistico siano sufficienti a correlare causalmente omissioni sul contagio e morti di soggetti nominativamente determinati, ed è stato escluso. Posso dire anche altri esperti, peraltro del Cnr, come ho avuto modo di leggere su fonti aperte, avrebbero valutato statisticamente in 4.500 i morti direttamente legati alla mancata Zona rossa nella Bergamasca: in pratica gli stessi dati ricavabili dalla proiezioni del cosiddetto piano Merler (il piano secretato) di cui il governo e Cts erano a conoscenza. Lo stesso governo si è mosso dunque tenendo conto delle proiezioni epidemiologiche (peraltro drammaticamente verificatesi) e questo ha fatto anche la Procura. Non mere supposizioni, come è stato detto».

Estratto da “il Foglio” sabato 5 agosto 2023.

Il presidente della Campania Vincenzo De Luca è indagato dalla Corte dei conti della sua regione per danno erariale. Si tratta della decisione, assunta all’emergere della pandemia, di ordinare smart card per certificare la storia sanitaria degli infettati. 

La decisione, più o meno contemporanea, del governo di mettere in campo il sistema delle green card a livello nazionale aveva superato la decisione campana, ma ormai la stampa delle smart card era già stata effettuata e il loro costo, sopportato dalle casse regionali, secondo la Corte dei conti ha provocato un danno erariale. 

L’eventuale errore di De Luca è stato quello di essere più rapido del governo […]. Insomma De Luca ha fatto qualcosa di utile, ed è indagato, mentre altri presidenti di regione, che ad esempio non hanno deciso di applicare in anticipo forme di contrasto allo sconfinamento, sono stati indagati (e poi assolti).

[…] Quello che risulta davvero poco comprensibile è l’atteggiamento di una magistratura […] che crede di avere il diritto, anzi il dovere, di intervenire sulle scelte politiche e amministrative, negando di fatto il ruolo di chi è stato eletto proprio per esercitare un diritto di scelta e di decisione. 

[…] Questo atteggiamento, soprattutto se messo in atto in relazione ad avvenienti straordinari come la pandemia […] risulta particolarmente assurdo. Per il presidente della Campania oggi come per quello della Lombardia ieri.

Estratto dell'articolo da ilfattoquotidiano.it il 24 luglio 2023.

Archiviate – come richiesto dalla procura di Brescia – le accuse di epidemia e omicidio colposi per la gestione della pandemia Covid a carico del governatore lombardo Attilio Fontana e altri indagati. 

Lo ha deciso il Tribunale dei Ministri di Brescia che ha ‘mantenuto in vita’ rimandando gli atti alla Procura solo un’accusa di rifiuto d’atti d’ufficio per non aver applicato il piano antinfluenzale del 2006 a carico di Silvio Brusaferro, Angelo Borrelli, Claudio D’Amario, come tecnici, e dell’ex assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera e dell’ex dg Luigi Cajazzo. 

Per tutti gli indagati sono cadute le accuse principali, dopo l’archiviazione anche di Conte e Speranza. Secondo i pm bresciani l’epidemia colposa non si configura in quanto, anche sulla scorta della recente giurisprudenza, è un reato commissivo mentre nel caso di specie sono state contestate omissioni. 

[…]

Il Tribunale dei Ministri lo scorso 7 giugno ha già archiviato le posizioni dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza. Per i giudici manca la prova che l’istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro avrebbe potuto evitare oltre 4 mila morti. E il nesso di causalità tra decessi e l’assenza di una misura per isolare i due comuni è stata “una mera ipotesi teorica sfornita del ben che minimo riscontro” […]

Covid, prosciolto Fontana: un'altra vittima della malagiustizia. Gianni Di Capua su Il Tempo l'11 luglio 2023

Un’altra vittima della magistratura ha visto mettere fine al suo calvario giudiziario. Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia è stato prosciolto anche in appello sul cosiddetto caso camici durante il periodo della pandemia Covid. Un’inchiesta che gli era piovuta tra capo e collo con l’accusa di frode in pubbliche forniture e inadempimento contrattuale per l’affidamento da parte della Regione Lombardia di una fornitura da 75mila camici e 7mila Dpi a Dama Spa società del cognato con un 10% delle quote in mano alla moglie di Fontana, Roberta Dini, per 513mila euro. Commessa poi trasformata in una donazione di 50mila camici. Ma i giudici della seconda sezione penale d’Appello del Tribunale di Milano hanno respinto il ricorso presentato dal sostituto procurato generale Massimo Gaballo che non era stato certo tenero nei confronti del governatore della Lombardia: aveva parlato di «ragionevole previsione di condanna» e «interesse pubblico» posposto a «interessi privati convergenti», sposando la linea dei pm Carlo Scalas e Paolo Filippini, contro il proscioglimento sancito già in primo grado il 13 maggio 2022 dal Gup di Milano Chiara Valori con la formula «perché il fatto non sussiste».

Oltre che per il governatore e il cognato, proscioglimento anche per i coimputati Filippo Bongiovanni, ex direttore generale di Aria, la dirigente a capo dell’ufficio acquisti di Aria, Carmen Schweigl e Pier Attilio Superti, vice segretario generale di Regione Lombardia. «È finita come doveva finire. Tanta soddisfazione però quanto tempo e che spreco di risorse, quando ormai si era capito che un reato non c’era», commentano i legali di Fontana, Jacopo Pensa e Federico Papa, parlando di tre anni passati sulla «graticola». «Sono contento e mi aspettavo questa conferma ha scritto sui suoi profili social il governatore - perché ho sempre agito nell’interesse dei lombardi che ho l’onore di rappresentare». Per il governatore lombardo era questo il penultimo appuntamento con la «stagione giudiziaria» di inchieste nate durante la pandemia Covid. Domani è atteso a Brescia davanti al collegio del Tribunale dei Ministri nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Bergamo che vede 19 indagati per la mancata estensione della «zona rossa» in Val Seriana e ad Alzano Lombardo e Nembro a fine febbraio-inizio marzo 2020 e la non attuazione del piano pandemico (non aggiornato) del 2006. Secondo gli inquirenti e il consulente dei pm, Andrea Crisanti, tutto questo avrebbe risparmiato la vita a oltre 4.148 persone, di cui 55 ad Alzano e 108 a Nembro, evitando «la diffusione incontrollata» del virus. Fontana ha chiesto di essere sentito dai giudici che hanno già archiviato le posizioni dell’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e dell’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, accusati di omicidio colposo, epidemia colposa per omissione e rifiuti d’atti d’ufficio.

Il capo d’imputazione del presidente lombardo è identico a quello dell’ex leader del Movimento Cinque Stelle (non risponde invece per la mancata attuazione del piano pandemico). Assieme a lui si presenteranno a Brescia l’ex capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, e l’allora coordinatore del Cts, Agostino Miozzo. Fontana ribadirà la sua posizione facendo alcune precisazioni sui tempi di e-mail e decisioni prese: non poteva istituire la zona rossa senza il via libera del Governo e informava costantemente Roma dell’andamento epidemiologico, tanto che la decisione di mettere l’Italia in lockdown matura dopo la visita di Speranza in Lombardia il 4-5 marzo 2020. A suo favore c’è l’ordinanza del Tribunale sul caso Conte-Speranza in cui in 29 pagine si parla di nessun «nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte di persone». L’incognita, per il governatore lombardo e gli altri, è legata alla competenza dei giudici.

"Spinoza" per "il Fatto quotidiano" l'11 luglio 2023. 

Fontana prosciolto anche in appello per i camici del cognato. Non sapeva nulla, per quella maledetta mascherina sugli occhi

Estratto dell’articolo di Enrico Paoli per “Libero quotidiano” l'11 luglio 2023.

E ora, per favore, tirate giù la cler sulla storia dei camici e i suoi derivati. Che sarebbe pure l’ora. Perché qui, in Lombardia, c’è tanto da fare. Tanto. Eppure ci sono voluti più di tre anni per azzerare- per giunta con la formula «perché il fatto non sussiste»- l’accanimento giudiziario nei confronti del governatore della Lombardia, Attilio Fontana, e di altri quattro indagati, tra cui il cognato Andrea Dini. 

La vicenda in questione […] era incentrata sulla fornitura di camici e altri dispositivi di protezione al personale sanitario, all’epoca della prima ondata Covid, poi trasformata in donazione. Per i magistrati della Procura di Milano, in quella storia, c’era qualcosa di strano. Solo che lo hanno visto solo loro. La seconda sezione penale della Corte d'Appello milanese ha spazzato via quell’accusa di frode in pubbliche forniture, contestata dalla Procura, e poi sostenuta in Aula anche dalla Procura generale, stabilendo che su questo caso non è necessario alcun processo. Game over, dunque.

Già a maggio dello scorso anno il gup, Chiara Valori, in fase di udienza preliminare, aveva emesso una sentenza chiara, pronunciando un «non luogo a procedere» nei confronti del governatore lombardo, per il cognato e titolare di Dama spa, per Filippo Bongiovanni e Carmen Schweigl, ex dg e dirigente di Aria, centrale acquisti regionale, e per il vicesegretario generale di Regione Lombardia, Pier Attilio Superti. 

E già quello poteva bastare. Invece le toghe hanno preferito insistere. Sino all’epilogo di ieri, quando il collegio di secondo grado (giudici Manzi-Banci Buonamici-Siclari) ha confermato quel verdetto, riservandosi di depositare le motivazioni tra 90 giorni. Giustizia è fatta. «Sono molto contento, me lo aspettavo, ma è sempre una grande gioia vedere che la propria linearità di comportamento sia stata riconosciuta», afferma Fontana, «non ho mai avuto dubbi su questo fatto e spero che se ne accorgano in tante persone».

[…] Non ci fu, quindi, alcun «inganno». Nel «caso camici», spiega il giudice, «pare difettare in toto la dissimulazione del supposto inadempimento contrattuale». E non conta, dal punto di vista giuridico e penale, aveva precisato il gup, il motivo, ossia che si volesse «indubbiamente» mettere «al riparo» il presidente della Lombardia dalle «attenzioni della stampa e dal giudizio dell’opinione pubblica» su quella fornitura assegnata alla società del cognato. 

Un inadempimento contrattuale che era contestato, invece, dall’aggiunto dell’epoca, Maurizio Romanelli, e dai pm, Paolo Filippini e Carlo Scalas, perché, questa la tesi, quando quella fornitura dell’aprile 2020 affidata a Dama (da 75mila camici e altri 7mila dpi per 513mila euro) si era trasformata in donazione, dopo la consegna di circa 50mila camici, non erano stati più consegnati i rimanenti 25mila.  Da qui l’accusa di frode.

La Procura aveva presentato ricorso e il sostituto pg, Massimo Gaballo, in udienza aveva insistito perché gli imputati andassero a processo. Processo ritenuto non necessario dal gup e dalla Corte d’Appello con una decisione definitiva, non più appellabile. [...] 

[...]

«Felici per il presidente Fontana e per tutti i cittadini lombardi, il tempo è sempre galantuomo», afferma il segretario della Lega, Matteo Salvini, in un post sui social, «Adesso aspettiamo le scuse di Pd, 5Stelle e sinistri vari che hanno offeso e insultato per mesi». «Bene l’assoluzione da tutte le accuse al governatore», gli fa eco, il presidente della Liguria, Giovanni Toti, «l’iter giudiziario si è concluso positivamente e mette fine ad anni di attacchi e strumentalizzazioni». 

«Sono contento che sia stato definitivamente cancellato ogni dubbio sull’operato del Presidente Fontana», sottolinea il ministro della Difesa, Guido Crosetto, «io non ne ho mai avuti perché lo conoscevo e ne conoscevo il valore e la serietà. Oggi per chiunque, anche i peggiori detrattori, “il fatto non sussiste”». Sulla stessa lunghezza d’onda i commenti di tanti altri esponenti del Centrodestra. E quelli del centrosinistra, tanti, non resta che leccarsi le ferite...

Il Bestiario, lo Smemorigno. Lo Smemorigno è un essere leggendario che di fronte alla Commissione d’Inchiesta sul Covid finge di dimenticare il proprio operato. Giovanni Zola il 13 Luglio 2023 su Il Giornale.

Lo Smemorigno è un animale mitologico che sentendosi un tantino coinvolto nell’”ineccepibile” gestione dell'emergenza pandemica, critica la commissione col compito di indagare sulla risposta governativa, definendola un "plotone d'esecuzione politica" e un "tribunale politico". Lo Smemorigno, pur dichiarando di essersi mosso nel migliore dei modi possibili, reagisce in modo nervosetto e scomposto di fronte al lungo elenco che tocca tutte le decisioni dell'Esecutivo nel periodo della pandemia: dallo stato di emergenza, alla nomina del commissario straordinario, dalle vaccinazioni ai divieti.

La commissione dovrà svolgere indagini e valutare l’efficacia, la tempestività e i risultati delle misure adottate dal Governo; lo Smemorigno non ricorda quando ironizzava sul fatto che il Covid potesse arrivare in Italia, lanciando slogan del tipo “Milano non si ferma” e invitava a prendere un aperitivo in compagnia.

La commissione dovrà accertare le ragioni del mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale redatto nel 2006; effettivamente lo Smemorigno, in quanto smemorato, si dimenticò di aggiornare il piano pandemico, troppo impegnato a finire di scrivere un libro dal titolo “Perché guariremo” (2020), subito ritirato senza vergogna mentre la gente veniva ancora intubata.

La commissione dovrà valutare la tempestività e l’adeguatezza delle indicazioni e degli strumenti che il governo e le sue strutture di supporto hanno fornito alle Regioni; lo Smemorigno, a cui consigliamo un integratore per la memoria dopo i pasti, ha scordato l’immagine dei camion dell’esercito a Bergamo che trasportavano le vittime di una zona rossa trascurata e, naturalmente, dimenticata.

La commissione dovrà indagare su eventuali abusi, sprechi, irregolarità, comportamenti illeciti che abbiano interessato la gestione delle risorse destinate al contenimento della diffusione e alla cura della malattia da parte del governo, delle sue strutture di supporto e del Commissario straordinario; lo Smemorigno evidentemente ha rimosso, per propria sanità mentale, la gestione delle mascherine e dei “mitici” banchi a rotelle mandati al macero insieme a diversi milioni di euro.

La commissione dovrà verificare le misure di contenimento adottate dal Governo nelle fasi iniziali e successive della pandemia, individuando eventuali obblighi e restrizioni carenti di giustificazione in base ai criteri della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’efficacia, contraddittori o contrastanti con i princìpi costituzionali; lo Smemorigno soffre di gravi buchi di memoria per quanto riguarda il Green Pass, l'esclusione dal mondo del lavoro, il divieto dell'utilizzo dei mezzi pubblici e di bere un caffè all’aperto.

La commissione dovrà verificare l’efficacia e la corrispondenza dei protocolli terapeutici alle linee guida contenute nel piano pandemico, soprattutto in relazione alla loro applicazione nelle terapie domiciliari; in una famosa conferenza stampa della task force degli esperti, il giornalista chiese perché non venisse aggiornato il protocollo “tachipirina vigile attesa”. Gli fu risposto che non era una priorità. Ma lo Smemorigno non lo ricorda.

Chi ha paura della commissione di inchiesta sul Covid ha paura della verità. Votare la Comissione Covid è un dovere. L’editoriale di Matteo Renzi. Se c’è un argomento di cui una commissione parlamentare DEVE occuparsi è proprio la pandemia. Se non si fa una commissione parlamentare sull’evento più straordinario degli ultimi cinquant’anni significa che non si crede non solo nel ruolo della commissione ma soprattutto non si crede nel ruolo del Parlamento. Matteo Renzi su Il Riformista il 29 Luglio 2023

“Non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della magistratura”, afferma il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella stigmatizzando l’eccessivo ricorso alle commissioni di inchiesta parlamentari.

Sagge parole, del tutto condivisibili. Che senso ha – ad esempio – fare una commissione di inchiesta del Parlamento italiano per attribuire a Papa Giovanni Paolo II responsabilità nella terribile vicenda Orlandi? Certo, potrebbe obiettare qualcuno: sul caso David Rossi meno male che è stata fatta una commissione di inchiesta parlamentare.

I giudici di Genova, infatti, avevano già salvato più volte i colleghi (incapaci, se va bene incapaci) di Siena che avevano indagato sulla morte del manager MPS. La commissione di inchiesta su David Rossi ha permesso di scoprire tante cose che i magistrati inspiegabilmente avevano ignorato.

Ma questo riguarda il funzionamento della giustizia in Italia tema che il Presidente della Repubblica più di chiunque sa essere uno dei problemi più gravi del nostro Paese.

Sorprende invece che qualcuno metta in relazione il monito di Mattarella con la commissione di inchiesta sul Covid. Se c’è un argomento di cui una commissione parlamentare DEVE occuparsi è proprio la pandemia.

Qui non si tratta di replicare una indagine penale. Anzi. Fare una indagine penale partendo dalle analisi dello zanzarologo Crisanti è forse la vera assurdità. La questione è un’altra: se hai una pandemia che è un evento storico con migliaia di morti, dubbi fondati sulle modalità di gestione del lockdown, degli approvvigionamenti sanitari, della gestione educativa nelle scuole, dei piani di emergenza, del ruolo della protezione civile, dell’eccesso di potere in capo a un solo commissario quando la pandemia è finita vuoi verificare quello che non ha funzionato o pensi che si debba dire che è andato tutto bene?

Se vuoi trarre tesoro dagli errori e capire ciò che non ha funzionato fai una commissione di inchiesta nel solco di ciò che scrive la Costituzione e che dispongono i regolamenti parlamentari. Se pensi che sia stato tutto perfetto, che sia andato tutto bene, che siamo stati i più bravi del mondo significa che ti chiami Giuseppe Conte. E allora il problema sei tu.

Voterò con grande convinzione la commissione di inchiesta sul Covid non solo perché lo dico da tre anni, non solo perché l’ho detto in campagna elettorale, non solo perché è una proposta che il mio partito ha fatto fin da quando eravamo gli unici a chiedere di riaprire le scuole per non distruggere la generazione dei più giovani.

Lo faccio perché se non fai una commissione parlamentare sull’evento più straordinario degli ultimi cinquant’anni – evento che ha fisicamente chiuso in casa sessanta milioni di abitanti – significa che non credi nel ruolo della commissione ma soprattutto non credi nel ruolo del Parlamento.

Se davanti a ciò che è successo il Parlamento non può fare una verifica su ciò che si poteva fare diversamente e meglio significa dire che la politica non serve. Le aule giudiziarie servono a dire chi è colpevole. Colpevole di determinati reati. Le aule parlamentari servono a dire chi è capace. Capace di fare politica. E di governare in tempi di crisi facendo le scelte giuste. Chi ha paura della commissione di inchiesta sul Covid ha paura della verità. Noi vogliamo la verità. Solo quella. Matteo Renzi 

La riflessione dell'ex Ministra. Commissione Covid, Bellanova: “Sulla gestione della pandemia va acceso un faro non giudiziario ma politico”. Nel dibattito sulla necessità di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, entra Teresa Bellanova, portando una testimonianza in virtù del ruolo ricoperto all’epoca. Redazione su Il Riformista il 29 Luglio 2023 

“Io ricordo quelle giornate impiegate in estenuanti riunioni: vertici di maggioranza, consigli dei ministri, punti bilaterali. Riunioni infinite, perché infinita era la preoccupazione e infinita era anche la nostra impreparazione di fronte a un evento che nessuno si sarebbe immaginato di dover affrontare. Ricordo un ministero deserto, in una città deserta, con l’angoscia che saliva quando arrivavi ed entravi, sapendo che avresti dovuto concorrere a prendere decisioni molto complesse”: sono le parole di Teresa Bellanova, che via social offre uno spunto di riflessione sulla necessità di istituire una commissione d’inchiesta parlamentare sulla gestione della pandemia. Bellanova lo fa ricordando le giornate di allora, quando ricopriva un incarico di governo.

“Ricordo però anche la rabbia. Tantissima rabbia. Perché c’erano tante, tantissime cose che non tornavano. Tanti muri di gomma che avevi di fronte. Non era solo questione di impreparazione – naturale che fosse così, chi era preparato? -, ma anche di una attitudine fortissima a non rischiare mai, a preferire la soluzione più semplice – chiudere tutto – a quella un po’ più complessa.

Ricordo vicende che allora non potevamo comprendere appieno e che posi nelle sedi opportune: la missione russa di cui come capo delegazione fui informata dalla stampa, i ristori dati a pioggia, la gestione eccessivamente prudente della scuola, la politica degli acquisti legati all’emergenza. Ricordo che spesso misi a verbale cose che non condividevo e ricordo benissimo che non ero sola, ma che il partito cui appartengo ed i componenti del governo di Italia Viva erano preoccupati quanto me, in alcuni casi più di me, di come l’emergenza era gestita”, prosegue Bellanova.

“Tant’è che quando lanciammo la petizione per la commissione di inchiesta sul Covid tutti eravamo d’accordo: d’altronde perché non esserlo, visto che tra i motivi che ci indussero a firmare le dimissioni ci fu un inesistente piano vaccinale, che ci avrebbe permesso di uscire da quell’emergenza da cui forse qualcuno non voleva veramente uscire?”, chiede Bellanova.

“Io capisco i dubbi  – scrive Bellanova – su una commissione di inchiesta che qualcuno in maggioranza vorrà usare per mettere in dubbio la scelta di spingere su una vaccinazione quasi obbligatoria, che è stata finalmente l’elemento di svolta nella pandemia. Capisco i dubbi, li condivido pure, ma in politica ci si sta con le proprie di idee, non con quelle degli altri: se la gestione della commissione andrà troppo in quella malaugurata direzione o se il testo finale metterà in dubbio le scelte legate alla campagna vaccinale, avremo tempo e modo per esprimere tutto il nostro dissenso”.

“Però è evidente  – prosegue – che un faro sulla gestione della pandemia vada acceso ed è evidente che, come il Presidente Mattarella ha richiamato, non è un faro giudiziario ma politico: le scelte che sono state fatte sono state tutte corrette? Le scuole potevano essere gestite diversamente, evitando di danneggiare una intera generazione di studenti? I ristori a pioggia sono stati tutti utili? Gli acquisti fatti in fretta – come era normale che fosse – hanno lasciato spazio a comportamenti magari non penalmente rilevanti ma forse in futuro evitabili? E infine, quei militari russi che cosa erano davvero venuti a fare in Italia?”.

“Ecco, rispondere a queste domande sarà necessario. Ed il fatto che io fossi un attore di quelle scelte – più di altri, essendo capo delegazione – non vuol dire che le abbia condivise tutte e che in tutti i casi sia stata messa in condizione dal Presidente del Consiglio di avere tutti gli elementi per esprimere la mia decisione con scienza e coscienza”, sostiene Bellanova.

“Quindi bene la commissione di inchiesta, evitiamo di tirare in ballo il Presidente Mattarella quando abbiamo applaudito la commissione per il caso di David Rossi o chiesto quella per la morte di Emanuela Orlandi, cerchiamo tutti di mantenere una coerenza con le nostre idee ed i nostri pensieri di allora. Sennò è davvero tutto strumentale: ed una politica strumentale, tutta di tattica quotidiana, porta davvero poco lontanto“, conclude Bellanova. Redazione

Non c’è futuro senza verità. Le verità politiche della gestione Covid: soldati russi, mascherine, tutte le domande che meritano una risposta. Annarita Digiorgio su Il Riformista l'11 Luglio 2023

Tutta la gestione Covid, sanitaria, organizzativa, legislativa, economica, scolastica, lavorativa, e politica, è stata portata avanti dal 2020 al 2022 in stato d’emergenza. Cioè con una particolare deroga alle leggi ordinarie che, in forza della necessità, ha consentito di bypassare tutte le leggi, norme, iter, bandi, appalti, verifiche, a garanzia della concorrenza. Per farlo fu infatti istituito il commissariamento.

E come se non bastasse al commissario fu riservata per legge una immunità speciale. In quel momento non c’era tempo e le scelte andavano prese in fretta. Ma quando questo accade fondamentale è poter contare nella trasparenza, incorruttibilità e totale fiducia delle persone che vengono chiamate a ricoprire tali ruoli e occuparsi di tali responsabilità. Ma all’epoca a guidare il governo c’era Giuseppe Conte e alla sanità Roberto Speranza, che al ministero si era portato tutta “la ditta”. Oggi ad esempio leggiamo delle chat che Bersani, che nessun titolo aveva in quel momento, comunicava con il capo di gabinetto del Ministero, con cui decidevano come gestire l’emergenza.

E di quelle tra i membri del comitato tecnico scientifico che, a quanto pare, privatamente ammettevano che nessuno aveva consigliato di chiudere le scuole e mettere i bambini (i più immuni) in isolamento. In tutto questo non ci sono responsabilità penali, ma scelte politiche che in quel momento nessuno aveva la volontà di sindacare. Ma sin dal primo momento, cioè dall’arrivo dei soldati russi al primo focolaio di covid scoppiato in Italia, c’è stato chi ha provato a speculare sull’emergenza. Da quando, come disse il commissario Arcuri nella sua prima apparizione televisiva da Lucia Annunziata, «Conte è riuscito a far arrivare in Italia gli aerei dell’Unione Sovietica». Come ci riuscì? Conte parlò con Putin? Che vennero a fare? Chiunque il quel momento provava a fare queste domande veniva accusato di sciacallaggio. Ma oggi, a distanza di tre anni, superata l’epidemia, è giusto cercare le verità politiche di quella gestione. E solo la commissione parlamentare, senza scudi né manette, può riuscirci. Ad esempio ci sono delle domande da rivolgere a Conte che ancora restano senza risposta.

Le illusioni di Conte, del Movimento che fu: l’ex premier oggi si diverte a giocare al gatto con il topo con Elly Schlein

Perché ha acconsentito all’ingresso dei soldati russi in Italia? Perché scelse di nominare commissario covid l’amministratore delegato di Invitalia, che in tanti anni alla guida del carrozzone pubblico non aveva mai brillato per risultati? Nelle sue mani aveva avuto la gestione della bonifica di Bagnoli, dei villaggi turistici dell’ex italia navigando, di Ilva, dei Cis, delle aree di crisi complessa, tutti dossier che con lui non hanno mai visto un rilancio ma solo continue proroghe di finanziamenti e cassa integrazione. Ci sono stati ritardi o errori nella sua campagna?

Perché D’Alema trattava per l’Italia la vendita di ventilatori con la Cina? Centoquaranta ventilatori polmonari non certificati furono acquistati dalla Protezione civile due giorni prima del lockdown e successivamente ritirati dalla Regione Lazio perché non conformi ai requisiti di sicurezza. La partita era stata intermediata dalla Silk Road Global Information limited, una società cinese nel cui board figurava Massimo D’Alema, che non ha negato di aver fatto da intermediario, ma, come per le armi di Leonardo in Colombia, «ho provato a dare una mano al Paese». Quanto abbiamo speso in totale per materiali sanitari e non, sono stati tutti utilizzati, erano idonei, qualcuno ci ha fatto la cresta? Perché voleva il vaccino di stato?

Come sono stati scelti i membri del comitato tecnico scientifico, e perché sono stati secretati i loro atti? Chiusure e riaperture sono state gestite con criteri esclusivamente scientifiche o sulla base di valutazioni elettorali? Perché le decisioni comunicate nelle conferenze stampa guidate da Rocco Casalino dopo slide e bozze, venivano costantemente modificate a suon di like? Le politiche scolastiche, dalle chiusure, alla dad, ai banchi a rotelle, sono state frutto di una strategia sanitarie ed educativa, o di una valutazione populista? Perché nessuno ha impugnato le continue ordinanze regionali dei governatori che continuavano a imporre dad e chiusure a furor di popolo? A questo serve una commissione Covid, che per definizione non può essere giustizialista non avendo poteri giudiziari, ma politica per porre a Conte domande su cui in pandemia non ha mai risposto. Annarita Digiorgio

Semaforo verde della Camera dei Deputati per la Commissione inchiesta sull’emergenza Covid. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Luglio 2023  

Pd, M5S e Avs non hanno partecipato al voto. La maggioranza ha salutato il via libera al testo con il coro "verità, verità !!!" Il provvedimento passa ora all'esame del Senato.

Dopo oltre un mese dal suo approdo in aula è arrivato oggi il via libera alla proposta di legge che punta alla istituzione di una commissione di inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid. Via libera della Camera alla proposta di legge per l’istituzione della commissione parlamentare di inchiesta sul Covid e le misure adottate dal governo guidato all’epoca da Giuseppe Conte. I voti a favore sono stati 172, 4 gli astenuti. Pd, M5S e Avs non hanno partecipato al voto. Il provvedimento passa ora all’esame del Senato. La maggioranza ha salutato il via libera al testo con il coro “verità, verità !!!”. Il testo passa ora al Senato. 

Poco prima del voto, l’intervento dell’ex premier Giuseppe Conte e dopo dell’allora ministro della Salute Roberto Speranza poi – entrambi in prima linea all’epoca della pandemia – hanno scaldato l’emiciclo, tanto che, al termine dell’intervento di Speranza che rivendica quanto fatto da responsabile della sanità, si è levato dai banchi dell’opposizione un coro di ‘vergogna’ rivolto alla maggioranza e all’attuale governo.

La posizione di Fratelli d’Italia sulla questione è stata espressa dalla deputata Alice Buonguerrieri: “La commissione d’inchiesta sul Covid verificherà ogni aspetto della pandemia, perché la verità è un bene prezioso per tutti. Verificheremo i motivi per cui il piano pandemico del 2006 non è stato aggiornato e i motivi per cui, sebbene aggiornato, non è stato attivato. Verificheremo i rapporti tra l’Italia e l’Oms e i motivi per cui è stato ritirato il rapporto in cui si diceva che l’Italia non era pronta. Verificheremo anche gli eventuali effetti avversi da vaccino che qualcuno vorrebbe restassero dei tabù. Lo dobbiamo a tutte quelle famiglie che hanno perso un loro caro”. 

Il testo si compone di 7 articoli.

L’articolo 1 prevede l’istituzione, per la durata della XIX legislatura, di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus Sars-CoV-2 e sul mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale, con il compito di accertare le misure adottate per la prevenzione ed il contrasto della diffusione del virus e di valutarne la prontezza e l’efficacia, anche al fine di fronteggiare una possibile e futura nuova pandemia di questa portata e gravità (tale inciso è stato aggiunto nel corso dell’esame referente).

Nel termine indicato la Commissione è tenuta a presentare alle Camere una relazione sulle attività di indagine svolte e sui risultati dell’inchiesta: sono ammesse relazioni di minoranza.

Ai sensi dell’articolo 2, che disciplina la composizione della Commissione, si prevede che ne facciano parte quindici senatori e quindici deputati, nominati rispettivamente dal Presidente del Senato e dal Presidente della Camera, in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari, assicurando comunque la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno un ramo del Parlamento.

I componenti sono nominati tenendo conto anche dei compiti assegnati alla Commissione. La convocazione per la costituzione dell’Ufficio di Presidenza della Commissione è disposta dai Presidenti di Camera e Senato, entro dieci giorni dalla nomina dei commissari. L’Ufficio di Presidenza, composto dal presidente, da due vicepresidenti e da due segretari, è eletto a scrutinio segreto dalla Commissione tra i suoi componenti. Per l’elezione del Presidente è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti della Commissione. Se nessuno riporta tale maggioranza si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. In caso di parità di voti è proclamato eletto o entra in ballottaggio il più anziano di età. Per l’elezione dei due vicepresidenti, come per quella dei due segretari, ciascun commissario ha a disposizione un solo voto; risulteranno eletti coloro che avranno ricevuto il maggior numero di voti.

I compiti della Commissione sono definiti dall’articolo 3

Riguardano la valutazione dell’efficacia ,della tempestività e dei risultati delle misure adottate dal Governo e dalle sue strutture di supporto al fine di prevenzione, contrasto e riduzione della diffusione e l’impatto del Sars-CoV-2, e l’esame dei documenti, dei verbali, degli scenari di previsione e dei piani da esso eventualmente elaborati o sottoposti alla sua attenzione (lettere a e b);

– l’accertamento delle vicende relative al piano pandemico nazionale, del mancato aggiornamento del piano redatto nel 2006, della mancata attivazione di quello allora vigente dopo la dichiarazione dello stato di emergenza il 3 gennaio 2020, e delle ragioni della sua mancata considerazione da parte degli organismi istituiti dal Governo e al suo mancato aggiornamento, nonché l’accertamento dell’eventuale esistenza di un piano sanitario nazionale per il contrasto al Virus Sars-CoV-2; (lettere c, d, e, f);

– la verifica dei compiti (così modificato in sede referente) e la valutazione dell’efficacia e dei risultati delle attività della task-force istituita presso il Ministero della salute il 22 gennaio 2020 incaricata di coordinare le iniziative in tema di Covid-19 e del Comitato tecnico-scientifico di cui all’ordinanza del Capo del dipartimento della Protezione civile n. 630 del 3 febbraio 2020 (lettera g);

– la verifica del rispetto da parte dello Stato italiano delle normative nazionali, europee ed internazionali in tema di emergenze epidemiologiche, compreso il regolamento sanitario internazionale adottato dalla 58° Assemblea mondiale della sanità il 23 maggio 2005 ed entrato in vigore il 15 giugno 2007, e delle conseguenze dell’eventuale mancata osservanza di essi nonché l’esame dei rapporti intercorsi tra le competenti autorità dello Stato italiano e l’Organizzazione mondiale della sanità ai fini della gestione dell’emergenza epidemiologica a partire dal periodo pre-pandemico (lettere h ed i);

– l’indagine sulle vicende relative al ritiro del rapporto sulla risposta dell’Italia al Covid-19 dopo la sua pubblicazione nel sito internet dell’ufficio regionale per l’Europa dell’Oms (lettera l);

– la valutazione della tempestività ed adeguatezza delle indicazioni e degli strumenti forniti dal Governo e dalle sue strutture di supporto alle Regioni e agli enti locali in ciascuna fase dell’emergenza pandemica (lettera m);

– la valutazione della tempestività e adeguatezza delle misure adottate sotto il profilo del potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale e delle dotazioni di esso, anche per quanto attiene alla quantità, qualità e prezzo dei dispositivi di protezione individuale, dei dispositivi medici e degli altri beni sanitari presenti immediatamente prima dell’emergenza pandemica e poi acquistati dal Governo e distribuiti alle regioni nel corso dell’emergenza (lettere n ed o);

– la verifica sull’esistenza di eventuali carenze o ritardi nell’approvvigionamento dei beni citati al punto precedente, individuandone cause e responsabilità (lettera p);

– l’indagine su eventuali donazioni ed esportazioni di quantità di dispositivi di protezione individuale e altri beni utili per la protezione dai contagi, autorizzate o comunque verificatesi nella fase iniziale ella pandemia (lettera q);

– l’indagine su eventuali abusi, sprechi, irregolarità od illeciti sulle procedure di acquisto e la gestione delle risorse destinate al contenimento ed alla cura del Covid-19 da parte del Governo, delle sue strutture di supporto e del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 (lettera r);

– l’accertamento e la valutazione di alcuni specifici aspetti relativi alla gestione dell’emergenza Covid-19 da parte del Commissario straordinario, tra i quali, l’acquisto di dispositivi di protezione individuale prodotti in Cina per la spesa complessiva di 1,25 miliardi di euro e la corrispondenza di essi ai requisiti prescritti, la realizzazione dell’applicazione “Immuni“, la gestione della fase iniziale della campagna di vaccinazione, l’acquisto di banchi a rotelle da parte delle istituzioni scolastiche per assicurare il distanziamento tra gli alunni (lettera s);

– la valutazione delle misure di contenimento adottate dal Governo nelle fasi iniziali e successive della pandemia sotto il profilo della ragionevolezza, proporzionalità ed efficacia, del fondamento scientifico delle stesse anche attraverso la valutazione comparativa con la condotta ed i risultati ottenuti da altri Stati europei, e del rispetto dei diritti umani e delle libertà costituzionalmente garantite nell’applicazione delle stesse (lettere t ed u);

– la valutazione della legittimità della dichiarazione dello stato di emergenza e delle sue proroghe nonché dello strumento della decretazione d’urgenza (lettera v);

– la valutazione dell’adeguatezza e proporzionalità delle misure adottate dal Governo per la prevenzione e gestione dei contagi in ambito scolastico (lettera z);

– la valutazione della tempestività ed efficacia delle informazioni fornite allo Stato italiano dall’Organizzazione mondiale della sanità e da altri organismi internazionali (lettera aa);

– la verifica dell’efficacia, adeguatezza e congruità della comunicazione istituzionale e delle informazioni diffuse alla popolazione durante la pandemia e nel periodo immediatamente precedente e successivo (lettera bb, così modificata in sede referente);

– la verifica dell’eventuale conflitto di interesse tra i componenti degli organi tecnici governativi, associazioni di categoria, case farmaceutiche (lettera cc);

– la verificare dell’efficacia e della corrispondenza dei protocolli terapeutici alle linee guida contenute nel piano pandemico, soprattutto in relazione alla loro applicazione nelle terapie domiciliari e nelle cure ai soggetti più fragili (lettera dd);

– l’indagine relativa agli acquisti delle dosi di vaccino destinate all’Italia nonché all’efficacia del piano vaccinale predisposto (lettera ee);

– la verifica degli atti del processo di revisione continua (rolling review) sui vaccini anti Sars-CoV-2 e le decisioni in merito della Commissione Europea e dell’Ema precedenti alla autorizzazione all’uso del vaccino anti Sars-CoV-2 (lettera ff);

– la stima e la valutazione dell’incidenza, anche eventualmente attraverso la collaborazione con soggetti esterni (così modificato in sede referente), che i fatti e i comportamenti emersi nel corso dell’inchiesta possono avere avuto sulla diffusione dei contagi, sui tassi di ricovero e di mortalità per

Covid-19 nonché sugli eventi avversi e sindromi post vacciniche denunciate (lettera gg).

L’articolo 4 disciplina i poteri e i limiti della Commissione. In primo luogo, la Commissione procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria. La Commissione non può adottare provvedimenti restrittivi della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione nonché della libertà personale, fatto salvo l’accompagnamento coattivo di cui all’articolo 133 del codice di procedura penale.

Ferme restando le competenze dell’autorità giudiziaria, per le audizioni a testimonianza davanti alla Commissione si applicano gli articoli 366 (Rifiuto di uffici legalmente dovuti) e 372 (Falsa testimonianza) del codice penale.

Limitatamente all’oggetto delle indagini di sua competenza alla Commissione non può essere opposto il segreto d’ufficio, né il segreto professionale o quello bancario. È sempre opponibile il segreto tra difensore e parte processuale nell’ambito del mandato. Per il segreto di Stato si applicano le previsioni della L. n. 124/2007 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto).

L’articolo 5 disciplina l’acquisizione di atti e documenti da parte della Commissione, prevedendo la possibilità per la Commissione, nelle materie attinenti alle finalità della legge, di ottenere copie di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l’autorità giudiziaria o altri organi inquirenti ovvero di atti e documenti relativi a inchieste e indagini parlamentari anche se coperti dal segreto, nonché di atti e documenti custoditi da organi e uffici delle pubbliche amministrazioni. Viene contestualmente previsto il mantenimento del regime di segretezza fino a quando gli atti e documenti trasmessi in copia siano coperti da segreto.

Qualora gli atti e documenti di inchieste parlamentari attinenti al tema in esame siano stati assoggettati al vincolo del segreto da parte delle competenti commissioni parlamentari di inchiesta tale segreto non può essere opposto alla Commissione. Viene poi rimesso alla Commissione l’individuazione di atti e documenti per i quali deve essere mantenuto il segreto.

L’articolo 6 prevede che i componenti della Commissione, il personale addetto alla stessa e ogni altra persona che collabora con la Commissione o compie o concorre a compiere atti di inchiesta, oppure ne viene a conoscenza per ragioni d’ufficio o di servizio, siano tenuti all’obbligo del segreto. La violazione di tale obbligo e la diffusione, in tutto o in parte, anche per riassunto o informazione, di atti o documenti del procedimento di inchiesta dei quali è stata vietata la divulgazione sono punite ai sensi dell’articolo 326 del codice penale, salvo che il fatto non integri un più grave reato.

Infine, l’articolo 7 demanda l’organizzazione delle attività e il funzionamento della Commissione a un regolamento interno, da approvare prima dell’avvio delle attività di inchiesta. La Commissione può organizzare i propri lavori anche mediante uno o più comitati. Essa si riunisce normalmente in seduta pubblica, ma ha la facoltà di riunirsi in seduta segreta qualora lo ritenga opportuno. Può avvalersi dell’opera di agenti e ufficiali della polizia giudiziaria nonché di magistrati collocati fuori ruolo e di tutte le collaborazioni che ritenga necessarie, di soggetti interni ed esterni all’amministrazione dello Stato. Per lo svolgimento delle proprie funzioni la Commissione fruisce del personale, dei locali e degli strumenti operativi messi a disposizione dai Presidenti delle Camere, d’intesa tra loro.

Per il funzionamento della Commissione, è stabilito un limite di spesa pari a 100.000 euro per l’anno 2023 e di 300.000 euro per ciascuno degli anni successivi, a carico, in egual misura, dei bilanci interni del Senato e della Camera. I Presidenti di Senato e Camera, con determinazione adottata d’intesa tra loro, possono autorizzare annualmente un incremento di spesa non superiore al 20 per cento di quella prevista, a seguito di richiesta del Presidente della Commissione per motivate esigenze connesse allo svolgimento dell’inchiesta. Viene infine previsto (con una disposizione aggiunta in sede referente) che la Commissione curi l’informatizzazione dei documenti acquisiti e prodotti nel corso della propria attività. Redazione CdG 1947

Covid. Barricate a 5 Stelle contro la Commissione. Bassetti: “Ma chi ha fatto bene non può aver paura”. Giovanni Vasso su L'Identità il 7 Luglio 2023

“Chi è sicuro delle scelte compiute, non può avere paura. La commissione d’inchiesta sul Covid lavorerà bene se, invece di cercare colpevoli da gettare alle forche caudine si impegnerà a cercare gli errori per evitare di commetterne di nuovi in futuro”. Matteo Bassetti, primario del reparto di malattie infettive all’ospedale San Martino di Genova, crede che l’istituzione della commissione possa essere un’occasione da non perdere, per la politica. “Ma non sia occasione per il revanscismo no vax”.

Dottor Bassetti, il parlamento ha dato il via libera alla Commissione d’inchiesta sul Covid…

Era stata ampiamente annunciata e non poteva non arrivare. Qualcuno, critico, dice che è tardi. In realtà, credo che, per quello che è stato il periodo orribile della pandemia, che è ancora nella mente di molti di noi, far passare un pochino più di tempo potrebbe consentire di giudicare gli eventi con più lucidità e, forse, con maggiore compostezza. In altri Paesi ci si è mossi prima, con l’istituzione di commissioni, formate da medici, ricercatori e politici, che hanno valutato l’opportunità delle decisioni che, a causa dell’emergenza, sono state prese abbastanza al buio. In Italia si è scelto di percorrere una strada diversa, quella della politica. Che però, a mio parere, deve fermarsi a valutare e a giudicare su quelle che erano le opzioni e le scelte, politiche, assunte durante la pandemia.

In che senso?

Se la commissione parlamentare giudicherà se è stato giusto imporre lockdown e coprifuoco, se le mascherine che abbiamo comprato erano adeguate, se l’obbligo di indossarle andava tolto prima, sulla composizione del Cts, sulla chiusura delle scuole, insomma, se si incarica di valutare le decisioni più politiche che scientifiche, bene. Se invece deciderà di spingersi sul terreno della medicina e della scienza, come purtroppo sembrerebbe essere, e cioè vorrà prendere posizione sulle vaccinazioni, allora consentitemi di dire che credo che ci sia un’invasione di campo. Non spetta al parlamento italiano dichiarare se i vaccini funzionino. Questo, semmai, lo decidono le società scientifiche, i medici e i ricercatori. Ciò detto credo che la politica abbia commesso degli errori, in buona fede. Ed è giusto che siano sottolineati. Non vorrei, però, che l’istituzione della commissione Covid si trasformi in un’occasione per il revanscismo no vax.

La decisione del Parlamento ha comportato molta agitazione tra le forze politiche.

Non sono un politico. Se ci sarà una commissione composta in maniera appropriata riguardo alla sua composizione, che sappia essere imparziale e che andrà a valutare i fatti, non vedo perché si debba averne paura se valuterà le decisioni politiche, dicendo quali sono state quelle rivelatesi esatte e quelle errate. Evidentemente ha paura chi sa già di aver commesso qualche errore. Se domani mattina decidessero di fare un’inchiesta parlamentare sul mio operato, non avrei nessuna paura perché so di avere sempre agito secondo scienza e coscienza, seguendo quelli che sono i dettami della mia professione.

Qualcun altro, invece, ne parla già di un’occasione di “riconciliazione” nazionale.

Non si può contrapporre alla scienza, l’anti-scienza. La riconciliazione può essere solo una. Che chi si è scagliato contro le vaccinazioni dica che è stato grazie ai vaccini se noi oggi siamo tornati ad avere la vita che avevamo. E questo non lo dico io, non lo dice Fauci. Ma i numeri. La conditio sine qua non è che si parta dal presupposto che i vaccini hanno messo un punto e a capo al Covid e che, nella storia moderna, hanno cambiato la nostra vita in meglio. Ma non si può immaginare di mettere allo stesso tavolo chi ha “curato” il Covid con le “pozioni magiche”. Altrimenti non c’è possibilità.

Perché?

Mi sentirei in imbarazzo se la commissione, dunque il Parlamento, dicesse che i vaccini non andavano fatti e hanno effetti collaterali. Dire che saremmo arrivati alla soluzione alla pandemia anche senza i vaccini, sarebbe affermare una stupidaggine talmente grande che il mondo intero si ribellerebbe all’Italia. E non credo che il nostro Paese voglia ritrovarsi isolato dal punto di vista scientifico nel mondo.

Quali decisioni andrebbero approfondite dal lavoro della commissione?

Sono stato tra i più critici rispetto alle scelte dell’ex ministro Roberto Speranza. È giusto sottolineare due cose: la politica dovrebbe dire, con certezza, che il Cts non può essere composto con gli stessi criteri politici coi quali ci si spartisce il Cda della Rai. Deve assumere i migliori ricercato a livello nazionale. E purtroppo quel Cts non era rappresentativo delle migliori menti del nostro Paese. Ricordo che nella prima fase, in quel comitato tecnico scientifico non c’era neanche un medico che si fosse trovato a dover combattere il Covid in una delle cinque Regioni in cui s’è inizialmente registrata la pandemia. Seconda critica: ho attaccato la chiusura delle scuole, oggi ne vediamo i risultati. Tutti se lo sono dimenticati ma a maggio 2020, mentre i ragazzi francesi rientravano in classe, noi chiudemmo le scuole per riaprirle nel 2021. Vogliamo parlare poi dei lockdown alle dieci di sera, degli aperitivi in spiaggia alle sei con la mascherina? Diciamo che alcune decisioni sono state quantomeno bizzarre.

Cosa c’è di buono, invece, da salvare?

Vorrei che la parte sui vaccini non fosse accomunata a tutto il resto. Confido che anche la parte politica che sostiene l’attuale governo abbia apprezzato il lavoro del generale Figliuolo, o non lo avrebbero messo a fare il commissario della ricostruzione in Emilia Romagna. La nostra campagna vaccinale è stata fatta bene, meglio di tanti altri Paesi. Abbiamo avuto percentuali di vaccinazioni che da medico inorgogliscono. Mi auguro che la commissione non sia un modo di gratificare una parte, spero minoritaria, che è ancestralmente contro le vaccinazioni perché sarebbe un peccato. Se la commissione fosse animata da sentimento anti-vaccinista, non farebbe bene. Farebbe benissimo, invece, se non cercasse di dare in pasto eventuali errori e “colpevoli” a chissà quali forche caudine ma se andasse a ricercare gli errori, per imparare la lezione della pandemia e non farne in più se dovesse, e speriamo mai, ricapitarci di affrontarne un’altra.

Parte la commissione Covid, sotto la lente tutti gli sprechi della pandemia. Linda Di Benedetto su Panorama il 10 Luglio 2023

Mascherine, l'app Immuni, banchi a rotelle e le primule vaccinali sono solo alcuni dei temi al vaglio della commissione parlamentare approvata alla camera che a tre anni dalla pandemia dovrà fare chiarezza sulla gestione dell'emergenza

La proposta di legge per istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione del Covid-19 è stata approvata alla Camera. Dopo tre anni dallo scoppio della pandemia verrà fatta chiarezza su alcuni degli aspetti della gestione dell’emergenza che hanno sollevato non poche perplessità. Tra gli argomenti che verranno messi sotto la lente della commissione d’inchiesta che sarà composta da 15 deputati e da 15 senatori scelti dai presidenti di Camera e Senato, ci saranno diversi punti d’ombra di cui in questi anni abbiamo più volte scritto. Infatti la commissione cercherà di capire se quanto è stato fatto era realmente necessario indagando su eventuali abusi, sprechi, irregolarità, comportamenti illeciti e fenomeni speculativi che abbiano interessato le procedure di acquisto e la gestione delle risorse destinate al contenimento della diffusione e alla cura della malattia da SarsCoV-2 da parte del Governo e del Commissario straordinario. Spese contraddistinte per tutto il mandato di Domenico Arcuri da una scarsa trasparenza. Tra le altre cose la commissione dovrà valutare anche l’efficacia delle misure adottate dal governo e dal comitato di esperti per la gestione della pandemia, istituito a febbraio 2020 dal secondo governo Conte e la legittimità dello stato di emergenza e l’aggiornamento del Piano Pandemico.

Tutti temi di interesse pubblico che però al di là delle valutazioni politiche lasciano fuori l’operato delle regioni nonostante abbiano avuto un peso non da poco nella gestione della pandemia come affermato anche da Conte e Speranza: “non ci saranno indagini specifiche sulle misure adottate dalle autorità regionali”. Gli argomenti trattati da Panorama e che saranno oggetto di valutazione in commissione Reithera Come abbiamo piu volte scritto il vaccino Made In Italy Reithera non è mai stato realizzato ed ha comportato solo un costo per il Paese. Era il 30 agosto 2020 quando il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti annunciava l'avvio della sperimentazione per il vaccino Italiano insieme all’ex assessore alla sanità Alessio D’Amato. Ma la società di Castel Romano nonostante gli annunci della politica regionale del Lazio e del Governo stesso non ha ricevuto i 60 milioni di euro necessari per terminare la fase 3 della sperimentazione che prevedeva l'impiego di circa 10mila volontari. Cosi il vaccino made in Italy che sarebbe dovuto arrivare a settembre di due anni fa si è trasformato nell'ennesimo flop nazionale portato a casa durante la pandemia e costato circa 5 milioni di euro insieme ad un anno di false promesse. App Immuni L’app Immuni ideata per effettuare il tracciamento dei contatti potenzialmente esposti al virus Sars-Cov-2 è stata tale solo sulla carta. Così dopo due anni dal suo lancio, a giugno del 2020, l'app si è eclissata insieme alla Piattaforma unica nazionale per la gestione del Sistema di allerta 19, il 31 dicembre 2022. L'annuncio arrivato dal Ministero della Salute ha previsto anche l'interruzione di ogni trattamento di dati personali effettuato in precedenza. L'app di cui ha usufruito un 20% scarso della popolazione è costata 100 milioni di euro. Le siringhe Altri dubbi sugli acquisti del super commissario Domenico Arcuri sono stati sollevati riguardo i 157 milioni di siringhe di precisione «luer lock» per i vaccini anti-Covid costate 10 milioni di euro di 157 milioni. Un acquisto poi finito al vaglio della Corte dei Conti Le Primule per la campagna vaccinale Le 21 Primule (una per ogni capoluogo di Regione) per la campagna vaccinale di massa decise dal commissario Arcuri (estendibili fino a 1200) hanno previsto una spesa di 400.000 euro l’una e sono state per lo più inutilizzate. Banchi a rotelle Sono 400mila i banchi che ricordiamo furono acquistati prima dell’inizio dell’anno scolastico 2020-2021, per garantire il distanziamento in classe. Un acquisto non esente da polemiche per i ritardi nella consegna e per la scelta da subito contestata. Tant’è vero che pochi mesi dopo dall’inizio dell’anno scolastico, con lo scoppio di seconda e terza ondata, per molti studenti ci fu il ritorno alla didattica a distanza. I banchi sono costati 324 milioni di euro e non sono stati quasi mai utilizzati. Mascherine Nella commissione verranno accertate anche eventuali responsabilità del commissario straordinario in particolare per l’acquisto dei dispositivi di protezione individuale prodotti in Cina, insieme ai contratti di appalto e concessione. Le 800mila mascherine acquistate dall’allora commissario all’emergenza Domenico Arcuri per un miliardo e 250mila euro, ritenute pericolose per la salute, sono state pagate dalla struttura commissariale un miliardo e 250 milioni di euro con i fondi speciali della presidenza del Consiglio. Donazioni Covid istituto Lazzaro Spallanzani Un argomento trattato da Panorama che non finirà a quanto sembra nella commissione d’inchiesta sono le donazioni fatte dai cittadini all’istituto Lazzaro Spallanzani nel 2020 che ammontano a 30 milioni di euro di cui più della metà sarebbero stati impiegati per dei progetti su cui non si conosce lo stato dei lavori nonostante le numerose mail inviate da Panorama all’istituto Spallanzani e agli organi di dirigenza. Un tesoretto che ha visto donare oltre 400mila euro all’elemosiniere del Papa che sarebbero serviti per i vaccini dei “poveri” ma di cui non si hanno riscontri precisi. Lo scontro delle opposizioni sulla commissione Altro tema al centro dello scontro con le opposizioni è stato quello riguardante la volontà di indagare anche gli stessi vaccini contro il Covid. Nel testo si chiede infatti di svolgere indagini relative agli acquisti delle dosi di vaccino destinate all’Italia nonché all’efficacia del piano vaccinale predisposto; verificare gli atti della rolling review sui vaccini anti Sars-CoV-2 le decisioni in merito della Commissione Europea e dell’Ema precedenti alla autorizzazione al loro utilizzo. Costi della commissione In base al testo approvato, la commissione di inchiesta che deve ancora essere approvata in Senato, alla prima riunione eleggerà un presidente tra i suoi membri. I lavori della commissione dureranno fino a fine legislatura, ossia fino al 2027, salvo scioglimento anticipato delle camere. Per i lavori dell’organo la spesa prevista è di 100 mila euro per quest’anno e di 300 mila euro per ognuno degli anni successivi. La spesa complessiva potrebbe dunque arrivare fino a 1,3 milioni di euro: una metà sarà a carico della Camera e l’altra del Senato.

Sotto la lente di ingrandimento finiranno anche gli acquisti di materiale sanitario. Russi, mascherine e ritardi: perché Conte ha paura. La commissione di inchiesta farà luce sui dubbi sulla gestione della pandemia in Italia. Luca Sablone su Il Riformista l'8 Luglio 2023 

Il via libera della Camera alla proposta di legge che mira a istituire una commissione di inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid-19 in Italia non va intesa come una mossa giustizialista: si tratta di una decisione doverosa che – nel rispetto delle vittime, dei relativi parenti e di chi ha subito gli effetti negativi di quel periodo – è imprescindibile per fare chiarezza su quei momenti. Nessun intento forcaiolo, nessun pregiudizio, nessun processo alla sbarra, nessun tribunale politico: non è altro che un passaggio per porre i riflettori sulle modalità con cui il governo dell’epoca ha affrontato la pandemia da Coronavirus.

A Montecitorio è andato in scena il caloroso abbraccio tra Giuseppe Conte e Roberto Speranza. L’attuale presidente del Movimento 5 Stelle ha messo nel mirino quello che a suo giudizio è un «plotone di esecuzione politica»; l’ex ministro della Salute ha parlato di un obiettivo «diabolico». L’irritazione e la reazione scomposta del fu presidente del Consiglio non sono passate inosservate e inevitabilmente hanno innescato una domanda: a cosa è dovuta tanta agitazione? È bene ribadirlo: prodigarsi nel provare a trovare chissà quale intento macabro sarebbe un esercizio scorretto e fuori luogo, visto che la commissione di inchiesta ha come unica finalità la ricerca della nitidezza. E se si è positivamente coscienti del proprio operato si adotta un approccio collaborativo e di assoluta tranquillità.

Gli italiani ricordano molto bene le conferenze stampa fiume, le decisioni prese allo scadere della giornata, le incertezze che hanno lasciato le famiglie sul lastrico di un buio totale a poche ore dall’entrata in vigore di determinate misure, le ambiguità, la regia comunicativa di Rocco Casalino. Ma questo è solo il contorno di un periodo storico che ha avuto un impatto inequivocabile sull’Italia e che merita di finire sotto la lente di ingrandimento per spazzare via dal campo dubbi, punti interrogativi, perplessità, sospetti.

La commissione di inchiesta non parte mettendo al gabbio ma poggia le proprie basi su domande a cui sarà necessario fornire repliche puntuali, convincenti. Ma soprattutto vere. È questo il punto dirimente. Da chi è nata l’iniziativa che poi ha visto sfilare i militari russi a Bergamo? L’operazione virus aveva solamente intenti benèfici per garantire supporto al nostro Paese in forte difficoltà o nell’ombra si rifugiavano altri scopi maligni? Sono arrivati per sanificare o per esaminare tamponi nel loro laboratorio?

Non ci si potrà tirare indietro dalla verità sugli acquisti di materiale sanitario, a partire dalle mascherine. A proposito, quelle dell’epoca risalente all’ex commissario straordinario Domenico Arcuri erano tutte sicure, efficienti e funzionanti? Quelle cinesi acquistate a inizio pandemia erano state consegnate nella consapevolezza che non fossero a norma o si era all’oscuro? I ventilatori dalla Cina erano difettosi o sono stati utilizzati facendo affidamento sul loro perfetto svolgimento?

Con quali criteri sono state prese le decisioni sulle chiusure? Bisognerà valutare – tra le altre cose – l’efficacia e la tempestività delle norme adottate dell’esecutivo e dalle sue strutture di supporto per contrastare, prevenire, ridurre la diffusione e l’impatto del Coronavirus. Al di là del lockdown nei primi mesi, perché è stato adottato un pugno così rigido sulla socialità piuttosto che accelerare per entrare nel vivo della Fase 2?

Tra fine marzo e inizio aprile era forte il pressing per un piano di riaperture delle scuole e delle fabbriche. Una buona parte della scienza aveva preferito frenare, paventando scenari drastici in caso di un alleggerimento delle misure restrittive e numeri che avrebbero mandato in tilt il nostro Sistema sanitario nazionale. Per quale ragione si è preferito continuare sulla strada delle chiusure costringendo gli alunni a svolgere le proprie attività didattiche a distanza? Non si poteva predisporre un piano dettagliato per il ritorno in sicurezza sui banchi subito dopo la fase più acuta dei contagi e dei decessi?

È un tema di grande spicco perché sono sotto gli occhi di tutti i negativi riflessi psicologici – derivanti dal lockdown e dall’eccessivo isolamento – con cui i ragazzi continuano a farei conti. Simona Barbera, responsabile del CPS Giovani dell’ospedale Niguarda, a giugno 2021 era stata chiara: «La verità, purtroppo, è che i giovani sono stati dimenticati come categoria. Credo che questo abbia influito molto sullo sviluppo di alcuni sintomi». La DAD di certo non ha aiutato, come dimostrano alcune ricerche da cui è emerso come l’insegnamento online abbia determinato una perdita dell’apprendimento.

È lecito pretendere trasparenza su eventuali abusi, sulla commessa relativa ai banchi a rotelle per le scuole, su eventuali sprechi, irregolarità e fenomeni speculativi. Senza dimenticare il grande alveo dei rimborsi statali. Cosa c’è di vero e cosa invece è sbagliato nella storia di SEIF (Società Editoriale Il Fatto) relativa al contratto di finanziamento con Unicredit per un ammontare complessivo pari a 2.500.000 euro? Si trattava di finanziamento pubblico o di normale finanziamento bancario?

Avete potuto constatare che non si rivolgono accuse, non si individuano colpevoli già processati a priori, non si ricorre alla clava. Domande, domande, domande. Certo, un’enorme pila di quesiti. Ma è questa l’essenza della democrazia. Per poter vantare credibilità e autorevolezza politica non si può venire meno ai princìpi di onestà e limpidezza.

Luca Sablone

Commissione Covid, Conte furioso: "Una farsa, vi accuso davanti al popolo italiano". Libero Quotidiano il 06 luglio 2023

"Io vi accuso davanti al popolo italiano perché questa commissione è una farsa, non un atto di coraggio politico ma di vigliaccheria": furioso Giuseppe Conte durante la dichiarazione di voto alla Camera sulla commissione di inchiesta sul Covid. Il suo attacco era ovviamente rivolto al governo e alla maggioranza, favorevoli all'istituzione della commissione.

"Come l'avete confezionata questa commissione di inchiesta sul Covid è un plotone di esecuzione politica che ha due nomi: Conte e Speranza - ha poi aggiunto il leader del M5s -. Pensavamo di aver toccato il fondo e invece lo tocchiamo oggi con l'istituzione della commissione Covid: noi siamo stati i primi a volerla perché io per primo mi vorrei interrogare sul perché mi sono trovato con un sistema sanitario pubblico incapace di affrontare una pandemia. Ma come l'avete confezionata voi tiene fuori tutto il cuore pulsante, le Regioni, e tutte le filiere di comando".

Nel mirino dell'ex premier ci è finita anche Giorgia Meloni: "Che dire di Meloni all'opposizione che tuonava contro il governo accusandoci di essere criminali, trasfigurata quando si scagliava contro lo stato di emergenza? Stenteremmo ad accostare quella immagine alla premier attuale che in Cdm in un decreto alla chetichella ha dichiarato lo stato di emergenza perché non riesce a gestire lo sbarco dei migranti dopo aver constatato il fallimento della sua ricetta di blocco navale irrealizzabile". 

Per Conte la commissione è “una farsa, uno schiaffo agli italiani”. Ti conosco mascherina: sul Covid finalmente la commissione che rende Conte nervoso. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Luglio 2023.

Cosa è davvero successo durante l’emergenza Covid? Gli acquisti fatti per somma urgenza, i fornitori cinesi, i soccorritori russi erano davvero necessari? E quegli strappi al protocollo, tutte quelle iniziative estemporanee erano motivate? Non si sarebbe potuto – e forse dovuto – agire diversamente? Interrogativi che è ragionevole porsi e che sono alla base della richiesta di istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sull’emergenza Covid.

Ieri dopo lunghi mesi di esame in commissione, l’Aula della Camera ha dato il primo via libera alla bicamerale di inchiesta. Il testo passa ora all’esame del Senato per l’ok definitivo. L’esito del voto è stato preceduto da diversi momenti di tensione tra maggioranza e opposizione, con un duro scontro finale quando sono intervenuti l’ex premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza. Che ne fanno quasi una questione personale. E con il leader del 5 Stelle che grida all’inquisizione, allarmato oltremisura.

Ad eccezione di Italia Viva, che ne ha sostenuto per prima la necessità e dunque ieri ha votato a favore, il resto delle forze di opposizione non hanno partecipato al voto (i 5 stelle hanno abbandonato l’Aula ). Per loro, che chiedono di indagare su tutto e tutti, Conte deve rimanere intoccabile e la gestione Covid un tabù. Per Conte la commissione è “una farsa, uno schiaffo agli italiani”. Per l’ex Ministro della Salute, Roberto Speranza la bicamerale voluta dalla maggioranza è “indegna per un grande Paese come l’Italia. Voi ha detto rivolto al centrodestra- volete un tribunale politico”. E il soccorso rosso si estende agli alleati: “Il comportamento tenuto sulla commissione Covid trasformata in una commissione politica con lo scopo di attaccare e fare un processo mediatico a chi governò il Paese in quei terribili mesi”, dice per il Pd la senatrice Simona Malpezzi. E anche Fratoianni si straccia le vesti: “Sarà usata come una clava contro i governi precedenti”.

Quanta paura per una Commissione – che non è certo un tribunale – chiamata a portare nelle istituzioni un po’ di luce su vicende oggettivamente opache. È avvolto nel mistero il caso del via libera – che sarebbe partito da Palazzo Chigi, senza passare per gli uffici di Speranza – rivolto a quegli aerei di militari russi che planarono sull’Italia impaurita e disorientata dei primi giorni del grande contagio. Centoquattro militari travisati in camice bianco – insieme a due epidemiologi di Mosca – percorsero l’Italia da Roma a Milano, soffermandosi nelle zone più colpite a prelevare campioni del virus. E informazioni. Quelle di cui si sarebbero occupati, stando alla ricostruzione di Jacopo Iacoboni su La Stampa, che aveva sentito il colonnello inglese Hamish Stephen de Bretton-Gordon, “Ufficiali del GRU incaricati di una grande raccolta di intelligence”. Materia per un romanzo di Emmanuel Carrère o John Le Carré, di cui farebbe bene ad approfondire le informazioni la nascitura Commissione parlamentare di inchiesta, con un lavoro che durerà per l’intera legislatura.

Oltre che sulla gestione dell’emergenza sanitaria, l’organismo bicamerale dovrà ‘indagare’ anche sul mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale, con il compito di accertare le misure adottate per la prevenzione ed il contrasto della diffusione del virus e di valutarne la prontezza e l’efficacia, anche al fine di fronteggiare una possibile e futura nuova pandemia di questa portata e gravità. Tra i punti su cui si concentrerà l’inchiesta parlamentare, anche la dotazione di mascherine, la chiusura delle scuole e l’efficacia delle misure restrittive, come il lockdown nazionale.

Chi farà parte della Commissione? Si prevede che ne facciano parte quindici senatori e quindici deputati, nominati rispettivamente dal presidente del Senato e dal presidente della Camera, in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari, assicurando comunque la presenza di un rappresentante per ciascun gruppo esistente in almeno un ramo del Parlamento.

I componenti sono nominati tenendo conto anche dei compiti assegnati alla Commissione. “Più tempo passa e più si può essere lucidi e imparziali nella valutazione di quei tragici eventi. Quindi non credo sia tardi per una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid. Ci sono stari errori ma anche cose fatte bene”, ha detto all’Adnkronos Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive Policlinico San Martino di Genova che in quel periodo era tra gli infettati. Aldo Torchiaro

Il messaggio è chiaro: ‘Qui comando io’, tanto poi Elly si piega. Conte, Speranza e l’abbraccio di chi teme la commissione d’inchiesta sul Covid: e al PD di Schlein non rimane che applaudire. Phil su Il Riformista il 6 Luglio 2023 

E no, anche l’abbraccio no, passi che siete a Montecitorio e non a Palazzo Chigi, davanti ad una piazza deserta, in una città spettrale, in un Paese altrettanto spettrale. Quell’abbraccio tra Giuseppe Conte e Roberto Speranza, tra il Presidente del Consiglio ed il suo ministro della salute, ci riporta a quei tempi cupi. A quelle notti passate in pena, con la conferenza stampa del capo del governo, che veniva rinviata ogni mezz’ora, e tutte le volte finiva che Conte e Casalino, comparivano non prima di mezzanotte, tra le madonne dei giornalisti ed i collassi emotivi di noi che aspettavamo sul divano di casa, anche sia detto, perché non avevamo altro da fare.

E francamente a distanza di anni non si capisce il perché di quelle incredibili convocazioni notturne? Volevano provocarci un crepacuore? Che poi Speranza, parliamone, visto con uno sguardo di insieme, le giacche, l’incarnato bianco, il muso smunto, ci trasmetteva subitaneamente una irrefrenabile agitazione. Lo vedevi in televisione ed automaticamente pensavi che fosse successo qualcosa di grave, di ancora più grave, anzi per l’esattezza di gravissimo. Comunque si, da un altro punto di vista si, era l’interprete perfetto di un Paese malato.

Oggi i due si sono ritrovati, come una scampagnata tra vecchi amici che rievocano i bei tempi andati, si sono ritrovati per dire a muso duro che la futura commissione di indagine sul Covid è armata contro loro due.

Perché? Il perché non si riesce mica tanto a capire, se tutto è andato bene, se non ci sono state stranezze, figuriamoci irregolarità o illeciti, cosa hanno da temere l’ex presidente del consiglio e l’ex ministro della salute?

Che mica è detto che le mascherine cinesi siano state per forza ‘radioattive’, che D’Alema magari si è mosso probono, che i russi che stettero oltre un mese in Italia erano semplicemente innocui pensionati di Mosca.

Cosa ha da temere Giuseppe Conte?

E visto che siamo sul versante delle domande antipatiche, perché il Pd si scaglia contro un’innocua commissione parlamentare con tanta veemenza? La gestione del Covid è stato o non è stato un problema, e se indubbiamente lo è stato, perché non costituire una commissione parlamentare per verificare?

Sia chiaro, chi scrive apprezza la lealtà, c’è davvero tanta lealtà da parte del partito di Elly Schlein verso gli amici del M5S. In pratica se tocchi lui, tocchi anche loro. Una lealtà a senso unico, perché anche ieri, durante l’informativa del ministro Daniela Santanchè, Giuseppe Conte se ne è fregato degli amici dem, ha organizzato la conferenza stampa con i dipendenti, ha presentato la mozione di sfiducia, senza avvertire nessuno.

Il messaggio è chiaro: ‘Qui comando io’, tanto poi Elly si piega.

Ed in effetti è andata così, sia ieri, che oggi, la segretaria del Pd ha ormai l’unica possibile funzione di accodarsi e di battere le mani. Clap clap clap a Giuseppi, vero ed unico condottiero della fu maggioranza giallorossa, e non dite che Nicola Zingaretti non fu il primo a capirlo, anticipando i tempi.

Phil. Vive a Roma ma è cresciuto a Firenze, è un antico frequentatore di corridoi, ha la passione per Philip Roth e per le melanzane alla parmigiana, predilige il paesaggio della Versilia

È andato tutto bene?” Inchiesta finale sulla gestione Covid (Monthly Report). L'Indipendente il 19 Giugno 2023

È andato tutto bene? Questo l’interrogativo intorno al quale ruotano le diverse inchieste contenute nel ventitreesimo numero del Monthly Report, la rivista de L’Indipendente che ogni mese fa luce su un tema che riteniamo di particolare rilevanza e non sufficientemente trattato nella comunicazione mainstream. Un interrogativo al quale ci è parso imperativo cercare di rispondere, dopo che l’OMS ha dichiarato ufficialmente la fine della pandemia da Covid-19 lo scorso 5 maggio. Dallo sdoganamento delle nuove politiche sanitarie agli effetti della DAD sui più giovani, dallo smantellamento del Sistema Sanitario Nazionale all’informazione trasformatasi in propaganda governativa, abbiamo cercato di sviscerare le questioni più controverse che hanno caratterizzato questa pandemia, trasformando profondamente il nostro modo di vivere – presente e, verosimilmente, futuro.

Il numero è disponibile in formato digitale e cartaceo per gli abbonati (qui tutte le info su come riceverlo) ed ora anche per i non abbonati (a questo link).

L’editoriale del nuovo numero: Credevate fosse scienza, invece era Speranza 

«Se vogliamo mantenere misure restrittive conviene non dare troppe aspettative positive», scriveva il 6 aprile 2020 via messaggio il ministro della Salute italiano Roberto Speranza al portavoce del Comitato Tecnico Scientifico (CTS), Silvio Brusaferro, invitandolo a sminuire i dati in miglioramento su ricoveri e decessi a causa del Covid in conferenza stampa. In un’altra chat, invece, Brusaferro scriveva a Speranza che il CTS era fortemente critico sulla chiusura delle scuole, spiegando che «non ci sono evidenze sul fatto che la chiusura delle scuole sia di beneficio nel contrasto alla diffusione del virus». Il ministro rispondeva perentorio: «Così ci mandate a sbattere. Paese col fiato sospeso. Non si può dare segnale incertezza altrimenti si perde credibilità». Il CTS poi, ubbidendo a Speranza, consigliò la chiusura delle scuole. Le intercettazioni sono state rese note dalla Guardia di Finanza alla Procura di Bergamo a inizio marzo 2023. Al di là del profilo giudiziario, dal punto di vista politico e mediatico avrebbero dovuto provocare un terremoto. Hanno dimostrato che il rapporto tra scienza e politica in Italia è stato completamente ribaltato durante la pandemia. Ci hanno raccontato per mesi che il governo prendeva le proprie decisioni dopo aver ascoltato “la scienza”, ovvero il CTS, teoricamente composto da ricercatori indipendenti che leggevano i dati e stabilivano le misure da intraprendere. Ma era vero il contrario. La politica diceva alla “scienza” ciò che doveva proporre per dare copertura a misure arbitrarie. I lockdown che hanno chiuso in casa gli italiani sono durati molto più a lungo di quanto “la scienza” suggerisse, mentre milioni di bambini e ragazzi sono stati obbligati alla didattica a distanza nonostante “la scienza” fosse contraria alla misura.

Sarebbe dovuto succedere un terremoto, invece sui principali media italiani ci sono stati poco più che stanchi trafiletti, mentre a livello politico non una richiesta di chiarire la sua posizione è stata posta nei confronti dell’ex ministro della Salute. La politica italiana è in buona compagnia, anche a livello internazionale. Oggi sappiamo che “la scienza” è stata tradita innumerevoli volte da poteri pubblici che giuravano di riferirsi solo ad essa, al punto da tacciare di negazionismo chiunque ne contestasse le decisioni. Sappiamo che i vaccini non fermavano le trasmissioni e che la promessa protezione di oltre il 90%, certificata dalle multinazionali che li hanno prodotti, era un dato farlocco. Sappiamo che la vaccinazione dei bambini era talmente priva di dati positivi a supporto che ora anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità è diventata complottista e ha raccomandato di fermarla. Sappiamo che l’utilizzo delle mascherine all’aperto era del tutto inutile e anche che la chiusura delle scuole è stata una misura che ha prodotto conseguenze devastanti sui più giovani senza alcuna base scientifica. Sappiamo, infine, che quella del green pass non è stata una misura eccezionale da utilizzare solo per la pandemia, ma che presto verrà introdotto su base sovranazionale e permanente, come annunciato dall’OMS e dalla Commissione Europea.

Chi legge L’Indipendente, in realtà, tutte queste cose le sapeva da tempo. Di ognuno di questi fatti avevamo dato notizia diversi mesi prima che diventassero di dominio pubblico. Nessun trucco e nemmeno fonti segrete nei palazzi che contano: semplicemente, ci sforziamo di fare giornalismo seguendo il metodo scientifico. Che, per chi fa informazione, significa porsi sempre dubbi, verificare le fonti, cercare le prove, unire i puntini e scrivere solo quando si è certi di quanto si va ad affermare. Lo stesso metodo scientifico che è la prima vittima della pandemia, piegato per interessi di bottega dalle multinazionali del farmaco e dalle istituzioni politiche, e dimenticato dalla gran parte dei colleghi dei giornali dominanti, ancora una volta – e più di ogni altra volta – dimostratisi non cani da guardia dell’interesse pubblico come deontologia prevede, ma docili cagnolini da passeggio del potere.

Covid, a Brescia archiviata inchiesta su Conte e Speranza. L’ira dei familiari delle vittime. Redazione su L'Identità il 7 Giugno 2023

Molto rumore per nulla. Il tribunale dei ministri a Brescia ha archiviato le posizioni dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza indagati nell’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione della prima fase della pandemia in Val Seriana. Lo confermano fonti giudiziarie.

I giudici del Tribunale dei ministri – tutti civilisti, con la presidente Maria Rosa Pipponzi presidente della sezione Lavoro – hanno accolto la richiesta di archiviazione per l’ex premier Conte e l’ex ministro Speranza “perché il fatto non sussiste”, sposando la linea della Procura di Brescia che aveva sollevato una serie di ragioni e di fatto che hanno smontato l’ipotesi accusatoria dei colleghi di Bergamo. Secondo i giudici, “non è configurabile il reato di epidemia colposa in forma omissiva in quanto la norma in questione abbraccia la sola condotta di chi per dolo o per colpa diffonde germi patogeni e quindi la responsabilità per omesso impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire risulta incompatibile con la natura giuridica del reato di epidemia”. E inoltre, si legge nel provvedimento di archiviazione, “va innanzitutto detto che agli atti manca del tutto la prova che le 57 persone indicate nell’imputazione, che sarebbero decedute per la mancata estensione della zona rossa” ai comuni di Alzano Lombardo e Nembro, nella Bergamasca, “rientrino tra le 4.148 morti in eccesso che non ci sarebbero state se fosse stata attivata la zona rossa”.

All’ex premier veniva contestata dalla Procura di Bergamo la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca ad Alzano e Nembro. Ma visto che “non risulta che il Presidente del Consiglio Conte, prima del 2 marzo 2020, fosse stato informato della situazione dei comuni di Nembro e Alzano Lombardo, stando all’imputazione” lui “avrebbe dovuto decidere, circa l’istituzione della zona rossa” il giorno stesso. E secondo il tribunale dei Ministri “si tratta, evidentemente, di ipotesi irragionevole”.

L’archiviazione di Conte e Speranza nell’inchiesta sul Covid  “è uno schiaffo in faccia a noi e all’Italia intera che si merita un sistema politico e di giustizia più trasparente. Siamo intransigenti con quanto fatto dalla Procura di Brescia e dal Tribunale dei Ministri: l’archiviazione è un vilipendio alla memoria dei nostri familiari, un bavaglio, l’ennesimo in un’Italia corrosa dall’omertà contro cui ci siamo sempre battuti e continueremo a farlo nelle sedi che ci restano, come quella civile”, scrivono i familiari della vittime del Covid dell’Associazione #Sereniesempreuniti che sono “delusi e amareggiati”.

La caccia all'untore. Commissione d’inchiesta sul Covid, perché può avere risvolti pericolosi. L’ufficio del pubblico ministero di Brescia guidato da Francesco Prete ha chiesto il proscioglimento dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex ministro della salute Roberto Speranza per i reati di epidemia colposa e omicidio plurimo colposo. Tiziana Maiolo su L'Unità il 31 Maggio 2023

Con molta saggezza l’ufficio del pubblico ministero di Brescia guidato da Francesco Prete ha chiesto il proscioglimento dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex ministro della salute Roberto Speranza per i reati di epidemia colposa e omicidio plurimo colposo, in relazione ai morti da contagio di coronavirus.

Con minor saggezza il Parlamento si accinge a istituire una commissione speciale d’inchiesta sullo stesso tema la quale, se pur non diventerà, speriamo, una sorta di tribunale del popolo, corre il rischio di essere speculare all’inchiesta della magistratura e magari di arrivare a conclusioni opposte. E’ il ruolo politico che questa commissione potrebbe assumere a essere, paradossalmente, l’aspetto più pericoloso. E rischia di andare a saldarsi, alla fine, con le richieste più demagogiche di quei famosi Comitati di parenti che vedono anche nel più imprevedibile incidente una “strage” e nelle persone decedute sempre “vittime”, rispetto alle cui morti pare obbligatorio che la magistratura individui i “responsabili”.

Denunce per arrivare a processi il cui compito non sarebbe quello di accertare l’esistenza di reati e gli eventuali responsabili, ma solo di emettere sentenze di condanna. Anche quando il delitto individuato, come per esempio l’epidemia colposa, sia un reato “impossibile”, dal momento che, come stabilito più volte dalla cassazione a sezioni riunite su alcuni reati contro la salute pubblica come quello di epidemia, perché si realizzino occorre un comportamento attivo. E’ un po’ il concetto dell’untore dei Promessi Sposi, cioè di una persona che (si immaginava) spargeva il virus per contagiare gli altri. Ovvio che nessuno nel 2020 abbia svolto il ruolo di “untore”. Infatti in nessun Paese del mondo si stanno svolgendo processi al riguardo.

Solo in Italia se ne sta occupando la magistratura, con il proprio percorso. Con un’anomalia, dal punto di partenza, perché, fin dal 2020, quando l’epidemia ha avuto inizio, sono fioccate le denunce penali, i ricorsi, le richieste di risarcimento in sede civile. In modo confuso e massiccio, e non senza esplicite strumentalità. E, nel corso di tre anni, si è avuta la sensazione, un po’ sottopelle, che la procura di Bergamo, investita subito della competenza, in quanto la zona più colpita dal contagio, non si sia sottratta al dato emozionale di tante persone che soffrivano per la perdita improvvisa di familiari. Parenti visti uscire di casa a bordo di un’ambulanza e mai più tornati, senza che nessuno, a causa del pericolosissimo rischio contagio, avesse più potuto rivederli e salutarli.

Così si è arrivati agli avvisi di chiusura indagini nei confronti di 19 persone, tecnici, politici, amministratori e vertici di governo, senza il coraggio di una doverosa archiviazione dei reati impossibili. E il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani denunciato per un eccesso di interviste su quotidiani e tv, per una possibile violazione della legge Cartabia sulla presunzione di innocenza. In seguito l’inchiesta intera è stata trasferita per attrazione a Brescia, il distretto del tribunale dei ministri che dovranno giudicare l’ex premier e colui che fu ministro della salute. Ora, sulla richiesta di proscioglimento da parte dell’accusa, sia relativamente alla mancata chiusura dei comuni di Membro e Alzano Lombardo, nella bergamasca, sia per la mancata applicazione del piano anti-epidemico del 2006, paiono essere tutti d’accordo.

Nessuno, né a destra né a sinistra, se la sente di indossare i panni del forcaiolo. Solo il Comitato dei parenti di chi è deceduto (non chiamiamole “vittime”, per favore, l’epidemia è stata una disgrazia, non una strage terroristica), guidato dalla combattiva avvocata Consuelo Locati, protesta. Ma non ha molte speranze per il rinvio a giudizio dei due ex uomini di governo, ma neppure per il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, nel frattempo rieletto a furor di popolo lombardo, né dei tecnici indagati. E neanche pare aver turbato il sonno dei pm bresciani la relazione del consulente dell’accusa e oggi senatore del Pd Andrea Crisanti, che ha usato un algoritmo per stabilire quanti morti secondo i suoi calcoli si sarebbero potuti evitare.

Nella sua perizia sostiene che un lockdown dal 27 febbraio 2020 in Val Seriana avrebbe evitato 4.148 decessi, ovvero 2.659 se la stretta fosse stata introdotta il 3 marzo. Va detto però che il suo credo di microbiologo non pare aver avuto un grande seguito. Rimane all’ordine del giorno l’istituzione della commissione d’inchiesta parlamentare, una di quelle previste dall’articolo 82 della Costituzione che hanno poteri requirenti simili a quelli della magistratura. Inutile, come è ormai da tempo la gemella antimafia, o pericolosa, come qualcuno teme? E’ qui che si scatena il conflitto politico. Il deputato Gian Antonio Girelli, rappresentante del Pd nella commissione Affari sociali della Camera, quella competente per settore, non si fa mancare l’occasione.

Naturalmente c’è sempre da chiedersi se il suo comportamento sarebbe lo stesso a parti invertite tra maggioranza e minoranze parlamentari. Ma è un discorso che vale per tutti i partiti. “La richiesta di archiviazione nei confronti di Conte e Speranza -dice- è la riprova che ciò che chiediamo in merito alla commissione d’inchiesta trova conforto anche nella richiesta avanzata dalla magistratura. Crediamo infatti che qualsiasi tentativo di esasperare i toni e portare avanti un’indagine inquisitoria sia ciò che più lontano possa esserci dalla ricerca di giustizia per un dramma quale è stato la pandemia.  Forme di giustizialismo ‘variabile’ non possono e non devono mai trovare giustificazioni politiche su eventi drammatici”.

Sottoscriviamo al cento per cento. Ma aspettiamo identica dichiarazione qualora in futuro i partiti della sinistra decidessero per esempio di istituire una commissione d’inchiesta che dovesse esaminare il comportamento della premier Giorgia Meloni e del ministro Matteo Salvini nei giorni dell’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna. E qualora ci fosse la denuncia di un Comitato di parenti delle “vittime” a denunciarli. Che cosa direbbe l’onorevole Girelli? Tiziana Maiolo

(ANSA il 29 maggio 2023) - La procura di Brescia ha chiesto al Tribunale dei Ministri di archiviare l'indagine nei confronti dell'ex premier Giuseppe Conte e dell'ex ministro della Sanità Roberto Speranza finiti indagati per la gestione della prima ondata di covid nella bergamasca. Lo si apprende da fonti legali.

(ANSA il 29 maggio 2023) - "Questa non è giustizia. Con questa richiesta è stata tradita per l'ennesima volta la memoria dei nostri cari e il loro sacrificio". Commentano così i familiari delle vittime del Covid19 dell'Associazione #Sereniesempreuniti la recente notizia, appresa dalla stampa, della richiesta avanzata dalla procura di Brescia al Tribunale dei Ministri di archiviare l'indagine nei confronti dell'ex premier Giuseppe Conte e dell'ex ministro della Sanità Roberto Speranza indagati per la gestione della prima ondata di Covid nella bergamasca.

"Ricordiamo che la Procura di Bergamo, - si legge in una nota - partendo anche dai nostri esposti, ha lavorato 3 anni a questa maxi indagine che coinvolge politici e funzionari a tutti i livelli. Le responsabilità accertate che hanno causato le morti dei nostri cari sono inconfutabili". "Anche noi, con i nostri legali - proseguono i familiari delle vittime -, da 3 anni ci battiamo per fare memoria e per ottenere la verità. 

Ora toccherà al Tribunale dei Ministri esprimersi: la questione non è chiusa, confidiamo nella presa di coscienza di quanto accaduto, perché il Covid19 non è stato uno tsunami come ci vogliono far credere: molte morti si sarebbero dovute evitare e qualcuno è responsabile di ciò". Il team dei legali (avvocati Consuelo Locati, Giovanni Benedetto, Luca Berni, Piero Pasini, Alessandro Pedone) ha aggiunto: "Attendiamo la decisione del Tribunale dei Ministri e di capire le motivazioni della richiesta avanzata dalla Procura di Brescia soprattutto a fronte delle evidenze documentali contestualizzate in un'indagine di tre anni espletata in modo approfondito e coraggioso dalla Procura di Bergamo".

"Come figlia di una vittima - conclude l'avvocata Locati - personalmente sento questa richiesta poco rispettosa, sotto il profilo squisitamente umano, della memoria delle vittime e dei familiari sopravvissuti che chiedono che la verità emerga all'esito di un procedimento in contraddittorio, come prevede peraltro un ordinamento democratico".

Inchiesta Covid, la procura di Brescia chiede l'archiviazione per Conte e Speranza. I due dominus dell'emergenza sanitaria accusati di omicidio colposo plurimo ed epidemia colposa per la gestione delle prime fasi della pandemia. Ora la parola al Tribunale dei ministri. Manuela Messina il 29 Maggio 2023 su Il Giornale.

La procura di Brescia ha chiesto l'archiviazione per l'ex premier Giuseppe Conte e l'ex ministro della Salute Roberto Speranza nell'inchiesta sulla mancata zona rossa in Val Seriana e sulla mancata attuazione del piano pandemico. Lo si apprende da fonti legali. L'avvocato Caterina Malavenda, che difende il leader pentastellato, ha fatto sapere a ilGiornale.it di avere "depositato una memoria lo scorso 22 maggio e di avere appreso che la procura ha depositato un atto sulla vicenda lo scorso 24 maggio". Ora la parola passa al Tribunale dei ministri che dovrà decidere se archiviare l'inchiesta (provvedimento non impugnabile) o se inviare gli atti al procuratore di Brescia, il quale potrà procedere solo previa autorizzazione delle Camere d'appartenenza.

A Conte torna la memoria, Speranza scarica su Crisanti: gli interrogatori davanti ai giudici

Lo scorso 10 maggio Giuseppe Conte ha colmato il "vuoto di memoria" che aveva avuto durante il suo primo esame davanti al tribunale dei ministri di Roma. “Oggi ha commentato la nota informale del pomeriggio del 2 marzo che all'epoca, cioè durante la sit del 12 giugno, non aveva e che non avevano anche i magistrati", aveva riassunto l'avvocato Malavenda, dopo l'interrogatorio a Brescia. Si parla dell'accusa chiave dei pm all'ex presidente del Consiglio, nata da un appunto dell'ex membro del Cts Agostino Miozzo, anche lui indagato nell'inchiesta e agli atti di questa indagine. È il 2 marzo 2020 ed è passata più di una settimana dall'istituzione della zona rossa a Codogno e negli altri comuni del lodigiano. Miozzo riferisce ai pm che quella sera l'ex premier incontra, in una riunione informale, il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro. I contagi stanno aumentando vertiginosamente in Val Seriana, da più parti si invocano chiusure rigide come quelle già applicate nei giorni precedenti in altre zone della Lombardia. Ma Conte decide di aspettare. Oggi la procura per lui e per Speranza ha chiesto l'archiviazione.

"Conte e Speranza in galera". Rabbia al presidio di fronte al tribunale di Brescia

La procura ha chiesto per Speranza, oggi esponente di Articolo 1, l'archiviazione dall'accusa di rifiuto d'atti d'ufficio per non avere firmato il piano pandemico del 2006, che conteneva misure per contenere l'influenza. Certamente un piano inadeguato, che però aveva già in sé alcune indicazioni importanti (tamponi e organizzazione dei posti letto negli ospedali) per attuare una prima linea difensiva anche contro l'emergenza Covid. "Quel piano era totalmente ininfluente per combattere la pandemia da coronavirus", ha sottolineato il legale. Speranza a questo punto scarica la colpa su Crisanti, che nella sua consulenza di parte ha messo in luce le mancanze del governo dopo gli allarmi dell'Oms rispetto a una nuova emergenza sanitaria. 

"Questa non è giustizia, con questa richiesta è stata tradita per l'ennesima volta la memoria dei nostri cari e il loro sacrificio": commentano così i familiari delle vittime del Covid19 dell'Associazione #Sereniesempreuniti. "Ricordiamo che la Procura di Bergamo, partendo anche dai nostri esposti, ha lavorato 3 anni a questa maxi indagine che coinvolge politici e funzionari a tutti i livelli. Le responsabilità accertate che hanno causato le morti dei nostri cari sono inconfutabili. Anche noi, con i nostri legali, da 3 anni ci battiamo per fare memoria e per ottenere la verità. Ora toccherà al Tribunale dei Ministri esprimersi: la questione non è chiusa, confidiamo nella presa di coscienza di quanto accaduto, perché il Covid19 non è stato uno tsunami come ci vogliono far credere: molte morti si sarebbero dovute evitare e qualcuno è responsabile di ciò". Aggiungono dal team dei legali (avvocati Consuelo Locati, Giovanni Benedetto, Luca Berni, Piero Pasini, Alessandro Pedone): "Attendiamo la decisione del Tribunale dei Ministri e di capire le motivazioni della richiesta avanzata dalla Procura di Brescia soprattutto a fronte delle evidenze documentali contestualizzate in un'indagine di tre anni espletata in modo approfondito e coraggioso dalla Procura di Bergamo".

La maggioranza è ancora in tempo prima di causare una enorme rottura istituzionale. Commissione inchiesta Covid inutile, con l’emergenza pandemia si è fatto il possibile e in buonafede. Nico Stumpo (deputato Pd) su Il Riformista il 27 Maggio 2023 

La commissione d’inchiesta parlamentare sul Covid al centro del “Si&No” del Riformista. Due opinioni differenti: favorevole la deputata di Fratelli d’Italia Alice Buonguerrieri, che sottolinea nel suo articolo come l’iniziativa “non è solo un atto utile ma doveroso per restituire la verità agli italiani“. Contrario invece il deputato dem Nico Stumpo, secondo cui durante “l’emergenza Coronavirus si è fatto il possibile e in buonafede“.

Qui l’opinione del deputato dem Nico Stumpo:

Sostengo le ragioni del “No” alla proposta di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’operato del Governo e sulle misure da esso adottate per prevenire e affrontare l’emergenza epidemiologica del COVID-19. Potrei cavarmela dicendo che basterebbe leggere il titolo per capire che più che una commissione si vuole istituire un plotone di esecuzione con finalità politiche contro l’allora governo, che si è trovato a gestire la fase più difficile dal dopoguerra a oggi, che coincide più o meno con l’attuale opposizione. Naturalmente argomenterò, dando anche conto di tutti i passaggi avvenuti, e anche di quelli non avvenuti, per spiegare le ragioni di questo mio convincimento.

All’inizio della legislatura nel presentare alle Camere il programma del suo Governo la Presidente del Consiglio diceva testualmente “Occorrerà fare chiarezza su quanto avvenuto durante la gestione della crisi pandemica: lo si deve a chi ha perso la vita e a chi non si è risparmiato nelle corsie degli ospedali, mentre altri facevano affari milionari con la compravendita di mascherine e respiratori.

”Il buongiorno si vede dal mattino. Mai in un programma di governo si è prefigurata l’istituzione di una commissione d’inchiesta contro un governo precedente. Le commissioni hanno sempre avuto un carattere unitario nelle intenzioni e nelle finalità e sono nate nel confronto e nel dibattito politico di tutte le forze non contro qualcuno. In tutti i casi meno che in uno. Ma di questo dirò dopo. Successivamente alle dichiarazioni programmatiche della (del) Presidente del Consiglio vengono depositate tre proposte di legge una di Fratelli d’Italia, una della Lega è una di Italia Viva. Mesi di travaglio, di liti e divisioni nella maggioranza per trovare un testo condiviso che non prevede di indagare anche sulle regioni, per i veti dei Presidenti di regione a partire dalla Lombardia e dal Veneto.

Era il cuore della proposta di Italia Viva, ma che comunque firma il testo. In tutta questa fase di preparazione mai, e dico mai, né la maggioranza né Italia Viva hanno chiesto alle opposizioni di confrontarsi sul testo e sulle sue finalità. Sono andati avanti come se si trattasse di una normale proposta di legge, anche con la gelosia di chi non volesse farne sapere in anticipo il contenuto. Naturalmente alla lettura del testo il giudizio ne è uscito peggiorato. Evidenti cedimenti alla cultura No-vax sui vaccini (art.3 comma ff, gg, ee) e sulla limitazione delle libertà personali, (art. 3 comma u, v) nonostante le autorevoli spiegazioni portate nelle audizioni e la sentenza 127/2022 della Corte Costituzionale.

Poi chicche esilaranti che danno il senso di cosa si vuole fare di questa commissione. Indagare sui banchi a rotelle o sulle primule o sulla app Immuni. Con quello che è successo il compito della politica è questo? Quanta miseria! Dicevo prima delle commissioni d’inchiesta e del loro ruolo. Il Parlamento del nostro Paese ha istituito la commissione sul caso Moro, sulla P2, sulle stragi sempre con proposte avanzate dalla maggioranza e dall’opposizione. Commissioni difficili che hanno scavato nella profondità dei problemi del paese. Grandi personalità, una su tutti: Tina Anselmi, hanno portato a termine un lavoro unitario di cui andare fieri e che ancora oggi, almeno io, sento il dovere di ringraziare.

Ma ha anche istituito la Commissione Mitrokhin (Telekom-Serbia) utilizzata come una clava contro l’allora opposizione. Igor Marini, Mario Scaramella, consulenti della commissione, furono condannati per aver accusato falsamente la classe dirigente del centrosinistra da Romano Prodi a Piero Fassino. A quale dei due casi somiglia questa proposta? La destra, se solo lo volesse, sarebbe ancora in tempo a fermarsi e a riscrivere le finalità della commissione. Finalità utili al paese. Partendo da una seria analisi sullo stato della sanità pre-covid per ragionare su quale sanità costruire per tutelare i nostri cittadini nel futuro. Il Covid è arrivato. Alla politica tocca il compito di guardare al futuro, non negli specchietti retrovisori. La maggioranza è ancora in tempo prima di causare una enorme rottura istituzionale. Nico Stumpo (deputato Pd)

Giusto fare luce sulla gestione. Commissione inchiesta Covid non solo è un atto utile ma doveroso per restituire la verità agli italiani. Alice Buonguerrieri (deputata Fdi) su Il Riformista il 27 Maggio 2023

Foto Claudio Furlan – LaPresse 30 Ottobre 2020 Varese (Italia) CronacaNuovi casi in terapia intensiva in Lombardia: Varese si prepara alla seconda ondataNella foto: reparto di terapia intensiva dell’Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi di Varese Photo Claudio Furlan – LaPresse October 30, 2020 Varese (Italy) News Intensive care unit of the Circolo Hospital and Macchi Foundation of Varese

La commissione d’inchiesta parlamentare sul Covid al centro del “Si&No” del Riformista. Due opinioni differenti: favorevole la deputata di Fratelli d’Italia Alice Buonguerrieri, che sottolinea nel suo articolo come l’iniziativa “non è solo un atto utile ma doveroso per restituire la verità agli italiani“. Contrario invece il deputato dem Nico Stumpo, secondo cui  durante “l’emergenza Coronavirus si è fatto il possibile e in buonafede“.

Qui l’opinione della deputata di Fdi Alice Buonguerrieri:

Avevamo preso un impegno con gli italiani e quell’impegno lo abbiamo mantenuto. Abbiamo portato in Aula il provvedimento di istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia nei tempi stabiliti, nonostante l’opposizione strumentale di qualche forza politica. La Commissione ha lo scopo di accertare i fatti per come si sono svolti durante la pandemia nel periodo del Covid – uno dei più tristi della storia recente della nostra Nazione – e fare chiarezza sulle tante zone d’ombra. Lo dobbiamo alle migliaia di vittime di quel periodo e alle loro famiglie, lo dobbiamo a tutti gli italiani.

La Commissione è dunque non solo un atto utile, ma decisamente doveroso per accertare i fatti relativi alla gestione pandemica e per verificare la verità dei fatti e restituirla agli italiani. Fratelli d’Italia ha lavorato fuori e dentro il Parlamento per arrivare all’istituzione della Commissione d’inchiesta: crediamo in questo strumento e siamo convinti che sia fondamentale approfondire e non dimenticare. Perché se vi sono stati errori è essenziale prenderne contezza, capire la loro genesi, le motivazioni e soprattutto intervenire per non ricommetterli in una possibile futura tragedia di analoga portata.

Il punto di partenza è quindi la ricerca della verità, senza posizioni precostituite e nel solo interesse degli italiani. Il 31 gennaio 2020 resterà una giornata che passerà dolorosamente alla storia per tutto ciò che ha rappresentato e che ne è conseguito: è la data in cui il Governo italiano ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale di salute pubblica per il coronavirus.

Le iniziali certezze di chi allora sedeva al Governo si sono scontrate con la dura realtà della pandemia: giorno dopo giorno il bollettino dei morti ha raggiunto cifre impressionanti, con tanti italiani deceduti senza poter nemmeno avere accanto un loro caro, senza il conforto di una persona amata, senza un briciolo di umanità. Sappiamo bene poi che la pandemia ha avuto contraccolpi economici rilevanti mettendo a dura prova anche la tenuta sociale della Nazione: i danni sono davvero incalcolabili e probabilmente ci stiamo ancora portando appresso una pesante eredità.

Tutto questo nonostante l’Italia sia lo Stato che ha applicato le misure più restrittive di tutte le altre Nazioni. Questo dovrebbe far sorgere degli interrogativi che tutti dovrebbero porsi senza aver paura della verità. Ecco perché Fratelli d’Italia ha sempre fortemente sostenuto la necessità di istituire la Commissione d’inchiesta, un luogo dove gli interrogativi verranno sciolti, gli eventuali errori verranno verificati e con essi le eventuali responsabilità. C’è un punto fermo che abbiamo sempre posto: il piano pandemico. Perché gli attribuiamo tanta importanza?

Per il semplice fatto che poteva essere determinante nell’affrontare le fasi iniziali della pandemia. Purtroppo, però, il piano del 2006 non era aggiornato e comunque non è stato attivato. Come mai? Una domanda legittima e gli italiani si aspettano una risposta chiara. La Commissione d’inchiesta lavorerà per fornirla. Questo è solo un esempio degli aspetti che saranno messi finalmente sotto la lente d’ingrandimento, ovviamente la gestione della pandemia ha altri punti su cui è necessario far luce. Per esempio i rapporti tra l’Italia e l’Oms, i provvedimenti assunti per evitare o contenere la diffusione del virus, oppure la questione delle mascherine o ancora i costi legati ai contratti di appalto, all’acquisto dei vaccini.

Sul fronte delle risorse pubbliche utilizzate nel periodo pandemico è oltremodo necessario far chiarezza, pensiamo solo agli ormai tristemente famosi banchi con le rotelle per le scuole: prima acquistati e poi buttati. Sprechi e inefficienze che non possono finire nel dimenticatoio o essere scusati dall’emergenza che era in atto. La Commissione si occuperà anche di un tema che ha diviso l’Italia: i vaccini e gli effetti avversi. Nulla dovrà essere tralasciato: dalle scelte che più hanno impattato sulla vita degli italiani, come il green pass e i lockdown, alla destinazione delle risorse pubbliche, fino alla gestione politica e amministrativa della pandemia. Sarà una grande operazione trasparenza, Fratelli d’Italia vuole solo arrivare alla verità per tutti gli italiani.

Alice Buonguerrieri (deputata Fdi)

Pandemia finita, ma ora spiegatelo agli "orfani" del virus. Più che Oms dovrebbero chiamarla Omb: Organizzazione mondiale della banalità. Francesco Maria Del Vigo il 7 Maggio 2023 su Il Giornale.

Più che Oms dovrebbero chiamarla Omb: Organizzazione mondiale della banalità. Capiamo tutti i dubbi, i protocolli, le metodologie e le tempistiche della scienza, ma la sopraccitata agenzia ha qualche problema con il calendario e, soprattutto, con il mondo reale. Dopo aver dichiarato lo stato di emergenza da pandemia da Covid-19 quando il virus stava già correndo, ora ne decreta la fine. Ora che, diciamolo, non serviva esattamente un dottorato in virologia o in epidemiologia per capire che, dopo quasi tre anni da incubo, il Coronavirus ormai è derubricabile tra i malanni stagionali. Bastava guardarsi intorno, fare un giro per strada, entrare in un ristorante o salire su un treno. Basta mascherine, stop ossessione da disinfettanti e starnuti nel gomito. Ma, soprattutto, l'unica cosa che conta: basta morti e terapie intensive.

Non dimenticheremo mai le bare di Bergamo, gli amici e i parenti persi o ricoverati. Però, la decisione tardiva e pleonastica dell'Oms, ha un portato che tracima i limiti della decisione scientifica e medica ed entra nel campo politico e sociologico. È la fine della guerra civile sanitaria, della contrapposizione violenta e fuori luogo tra i No vax e chi, in mezzo a una tempesta, ha deciso di scegliere il salvagente della scienza.

Ecco, terminata l'emergenza ora vorremmo archiviare anche gli orfani del Covid, gli ultimi giapponesi della lotta a Big Pharma, i complottisti estremi e chi su una tragedia ha creato una speculazione politica. Chiudiamo nell'armadio le tifoserie e apriamo la strada a una pacificazione che possa sollevare la pandemia dal dibattito politico e consegnarla alle pagine più brutte della nostra storia. Non se ne può più di un Paese che vive in una perenne sindrome bipolare, sempre pronto a spaccarsi in due in un match corpo a corpo che, in mezzo a una pandemia, è sembrata una lotta nel fango. Da questo punto di vista la decisione naïve dell'Oms può essere finalmente il fischio finale, perché più tardivo dell'Organizzazione mondiale della sanità c'è solo chi continua fuori tempo massimo a fare polemica politica sulla pandemia, come il fanatico che ieri ha preso a schiaffi l'ex premier Giuseppe Conte per rimproverargli le leggi liberticide. Anacronismi idioti, in un senso o nell'altro. Perché a tenere l'occhio fisso sullo specchietto retrovisore si rischia di andare fuori strada.

Covid: l’ora della verità. Adolfo Spezzaferro su L'Identità il 7 Maggio 2023

È finita! L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato conclusa l’emergenza internazionale legata alla pandemia da Covid-19. È ufficiale: d’ora in poi dunque il Covid va trattato come una malattia come le altre. La decisione è stata presa su consiglio di un comitato di esperti indipendenti, il cosiddetto comitato per l’emergenza Covid-19, che si è riunito ieri per la quindicesima volta dall’inizio dell’emergenza mondiale. “È con grande speranza che dichiaro che Covid-19 è finita come emergenza sanitaria global”, ha detto il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus durante una conferenza stampa da Ginevra, accogliendo le conclusioni del comitato di emergenza.

Il numero uno dell’Oms ha avvertito, tuttavia, che la minaccia causata dal virus rimane. “Non esiterò a proclamare una nuova emergenza, se la situazione dovesse cambiare”, ha chiarito Tedros. “L’Oms non dichiara l’inizio di una pandemia e non ne dichiarerà nemmeno la fine. Tuttavia, un mondo stanco di Covid probabilmente interpreterà questo annuncio in questo modo”, hanno fatto presente i funzionari dell’Oms. “Resta il rischio di nuove varianti emergenti che possono causare nuove ondate di casi e morti – ha voluto sottolineare Tedros – e la cosa peggiore che i Paesi possano fare ora è usare questa notizia per abbassare la guardia, per smantellare il sistema che hanno costruito e per lanciare alla gente il messaggio che il Covid non è più qualcosa di cui preoccuparsi”. Insomma, tutto il repertorio Oms che conosciamo da anni.

Certo, ora che è finita – l’emergenza sanitaria pubblica Covid-19 di rilevanza internazionale è in vigore dal 30 gennaio 2020 – e si possono fare i bilanci, i numeri della pandemia sono impressionanti. L’Oms stima che almeno 20 milioni di persone nel mondo siano morte a causa della nuova malattia. Tuttavia, i numeri ufficiali (ossia malattia Covid diagnosticata con tampone) parlano di sette milioni di vittime. La dichiarazione dell’Oms arriva pochi giorni prima della scadenza dell’emergenza sanitaria pubblica statunitense, l’11 maggio.

“L’Oms ha finalmente certificato quello che ripeto ormai da tempo: la pandemia è finita. Questa dichiarazione ha anche un risvolto fortemente simbolico ed emozionante per tutti, soprattutto per chi, come noi, lo ha vissuto in prima fila”. Così Francesco Vaia, direttore generale dell`Inmi Spallanzani, simbolo italiano della lotta al Covid-19, dopo il pronunciamento dell`Oms. “E’ stata una lotta durissima che però abbiamo vinto. Lo abbiamo fatto rimanendo uniti. Lo abbiamo fatto grazie ai sacrifici di medici e sanitari, all’incessante e determinante lavoro dei ricercatori, alla forza e al coraggio di milioni di italiani. Adesso è tempo di riprendere in mano le nostre vite senza dimenticare quello che la pandemia ci ha insegnato: la necessità di un piano di prevenzione efficace, un potenziamento del nostro Servizio Sanitario Nazionale non più rinviabile, l’esigenza di una forte integrazione ospedale-territorio e della valorizzazione del capitale umano, la centralità degli stili di vita salutari. Così facendo, usciremo dalla pandemia ancora più forti. Le istituzioni, ciascuna con le proprie responsabilità e in una visione sindemica, si adoperino affinché non accada più”, conclude.

Un monito, sì. Ma un messaggio di puro ottimismo, quello di Vaia. Le parole che servono per chiudere un capitolo lunghissimo e terribile. E per aprirne un altro: quello dell’indagine per risalire alle responsabilità, fare giustizia. Affinché chi chiede la verità, soprattutto per i parenti morti, possa finalmente farsi una ragione di quello che è successo in Italia.

Ora tocca

alla commissione d’inchiesta

I nostri numeri fanno davvero paura, anche perché ancora non è chiaro quante vite si sarebbero potute risparmiare intervenendo prontamente dove sono scoppiati i primi focolai. Il bilancio, ora che la pandemia è ufficialmente finita è di quasi 26 milioni di italiani contagiati, e di altrettanti guariti. E di 187mila morti. Un numero pesantissimo, che chiede giustizia. Ecco perché ora più che mai la commissione parlamentare che sta per nascere dovrà indagare su tutte le misure adottate dal governo durante la pandemia: dal piano vaccinale a restrizioni e chiusure (a partire da quelle delle scuole), dagli acquisti di mascherine ai famosi banchi a rotelle mai impiegati. Si dovranno fare i conti con quanto è costato in termini non solo sanitari ma soprattutto economici la serie di lockdown, chiusure e restrizioni che hanno bloccato il Paese per tanto, troppo tempo. 

Estratto dell’articolo di Filippo Femia per “la Stampa” il 12 maggio 2023.

«Se mi dovessi difendere direi anch'io che il perito ha sbagliato». Non è sorpreso Andrea Crisanti, professore di Microbiologia e senatore Pd, per l'attacco dei legali di Roberto Speranza. L'ex ministro della Salute è, insieme all'ex premier Giuseppe Conte, fra i 19 indagati nell'inchiesta sulle prime fasi della pandemia. La perizia di parte, un documento chiave per la Procura di Bergamo, è firmata da Andrea Crisanti. 

Gli avvocati di Roberto Speranza puntano il dito contro di lei: «Ha commesso gravi errori che hanno tratto in inganno la Procura». Cosa risponde?

«Non mi meraviglio. È compito della difesa sfidare le conclusioni del perito di parte.

Adotterei la stessa strategia, se fossi al posto loro. Nei prossimi mesi cercheranno sistematicamente di smontare la mia perizia, ma è una cosa legittima. Vogliamo tutti che emerga, nel confronto, una verità processuale». 

La difesa dell'ex ministro della Salute sostiene che la comunicazione dell'Oms agli Stati risalente al 5 gennaio 2020 era una raccomandazione non vincolante.

«Quel documento era tecnicamente un allarme. Va contestualizzato con gli automatismi previsti dal piano pandemico, incardinato nella legge italiana».

[…] Giuseppe Conte è accusato per la mancata zona rossa ad Alzano e Nembro. Nella sua perizia sostiene che un lockdown dal 27 febbraio 2020 in Val Seriana avrebbe evitato 4.148 decessi, 2.659 se la stretta fosse stata introdotta il 3 marzo. […] Lei parte dal presupposto che nella gestione della pandemia ci sono stati errori e omissioni?

«Nel comportamento umano ci sono sempre, è inevitabile. Nella mia perizia ho cercato di ricostruire i fatti, il mio non è un atto d'accusa: è un contributo per ricostruire la verità storica di quel periodo. Capire cosa non ha funzionato è fondamentale per evitare di commettere gli stessi errori in futuro». 

L'Italia ha fronteggiato male la pandemia?

«Difficile dirlo, non c'è una controprova. Senza dubbio ci sono Paesi che hanno fatto peggio. Ma molti, come l'Australia o la Sud Corea, hanno fatto meglio: hanno adottato misure rigidissime fino al vaccino, poi liberi tutti. 

Ma si tratta di Stati preparati perché ogni anno affrontano allarmi epidemiologici, hanno infrastrutture adeguate e una popolazione consapevole. Nel mondo occidentale questi elementi non ci sono, semplicemente perché le epidemie erano un ricordo del passato». 

Nei giorni scorsi Giuseppe Conte è stato aggredito da un No Vax e una cinquantina di negazionisti hanno manifestato fuori dal tribunale di Brescia. Cosa ne pensa?

«È il risultato dell'ideologizzazione della pandemia, che negli ultimi tre anni ha creato solo danni. Ma credo che si tratti di manifestazioni isolate. […] Detto questo, l'ex premier ha reagito con grande stile e senso della democrazia».

Inchiesta Covid, Zaia: «Non ci furono irresponsabili. Sbagliato giudicare ora chi decise in quel contesto»

di Cesare Zapperi il 5 Maggio 2023 su Il Correre della Sera. Il governatore leghista del Veneto parla dell’indagine della Procura di Bergamo sulla mancata zona rossa all’inizio della pandemia: «Così nessuno si prenderà più la responsabilità nelle emergenze» 

«La verità è un diritto. Ma celebrare processi sulla pubblica via è disdicevole. È facile fare le analisi e dare giudizi con il senno di poi. In questo Paese ogni volta dopo un fatto eclatante si apre un’inchiesta. È una china pericolosa».

Perché?

«Perché finisce che chi ha delle responsabilità fa il suo compitino e pensa solo a proteggersi».

Il presidente leghista del Veneto Luca Zaia nei giorni finiti al centro dell’inchiesta della Procura di Bergamo prese decisioni coraggiose, non previste nei documenti ufficiali. «L’ho fatto d’istinto, per testardaggine, rischiando — spiega —. Ma non esiste la decisione giusta. Tutti, in quei giorni, abbiamo fatto scelte più o meno azzeccate».

Lei insiste sulla contestualizzazione.

«Sì, perché non si possono giudicare decisioni e comportamenti con gli occhi di oggi. Tutto va cristallizzato in quel momento. Anche pensando a quel che è successo a me».

A cosa si riferisce?

«In quei primi giorni di diffusione della pandemia il mood corrente era quello di riaprire, di continuare a fare la vita di sempre perché si pensava di avere a che fare con qualcosa di simile ad un’influenza».

Un errore commesso da molti, a sinistra (Zingaretti) come a destra (Salvini).

«Per dieci giorni mi hanno lapidato per aver preso decisioni drastiche. Ma se quella fosse stata davvero un’influenza, oggi sarei io il pirla che finisce rinviato a giudizio, accusato anche di danno erariale».

Vogliamo ricordare quali provvedimenti prese?

«Il 21 febbraio decisi di chiudere l’ospedale di Schiavonia (500 pazienti), feci montare tende riscaldate all’esterno di tutti gli ospedali veneti per accogliere i positivi, istituii la zona rossa a Vo’ e feci sottoporre a tampone tutti gli abitanti di Vo’ (e trovammo 80 positivi, anche asintomatici). In più disposi la chiusura di cinema, teatri, chiese, scuole e sospesi il Carnevale di Venezia».

Misure drastiche che si sono rivelate lungimiranti.

«Con il senno di poi, certo. Ma aver fatto scelte diverse non può essere una colpa. Ripeto, se questo è il principio nessuno si assumerà più la responsabilità di affrontare le emergenze».

I magistrati sbagliano?

«Non rivendico immunità o impunità. In una fase emergenziale le decisioni sono emergenziali. E ricordo che rischiano di finire a processo alcuni dei migliori scienziati del nostro Paese. Dove andremo a finire? Così perdiamo riferimenti, vengono meno le certezze».

Ma i parenti delle vittime chiedono di conoscere la verità.

«Capisco il loro stato d’animo. Hanno diritto di sapere cosa è successo. Ma ogni ragionamento deve partire dalla contestualizzazione dei fatti al momento in cui avvennero. Faccio un esempio…».

Dica.

«All’ospedale di Padova si utilizzavano in media 950 camici al mese. In quelle settimane se ne consumarono 4.500 al giorno. Come si poteva prevedere? E prima di allora, quando mai i medici portavano le mascherine? Vogliamo fare il processo su questo?».

Saranno pur stati commessi degli errori.

«Guardi, non conosco le carte e non mi permetto di giudicare. Ma se non si valutano i fatti con gli elementi che si conoscevano al momento in cui sono avvenuti si rischia di commettere un grande errore. E può passare all’opinione pubblica un messaggio sbagliato».

Quale?

«Che questo Paese sia in mano a degli irresponsabili. Ma non è così. Anzi, in Italia sono state prese misure poi copiate da altri».

Alla fine, cosa è stato il Covid?

«Ha avuto comportamenti ancora oggi inspiegabili. A Venezia, pur durante il Carnevale, è entrato e uscito senza conseguenze. In altre realtà ha fatto danni enormi. E non sappiamo ancora perché».

Presidente, il progetto dell’Autonomia differenziata ha fatto un passo avanti, ma quattro Regioni (Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Puglia) si sono dissociate.

«Io penso che si debba lavorare per coinvolgere tutti, ma non può passare l’idea che il Sud è contrario, visto che il ddl di Calderoli è stato approvato da Calabria, Sicilia, Basilicata e Molise. Diciamo che si sono opposti i governatori di centrosinistra per una scelta politica, non di merito. Ma la maggioranza è schiacciante».

Il treno rallenterà?

«Non credo, anche se ribadisco che è importante fare in modo che tutti partecipino convintamente al processo».

A fine anno il via libera definitivo?

«Sì, o per scelta o per necessità, ma non c’è alternativa».

Serve una commissione bipartisan per capire gli errori sulla pandemia”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 6 Maggio 2023

“Si faccia presto chiarezza su quanto non ha funzionato. È un dovere nei confronti di chi è morto. Allo stesso modo, però, non bisogna mettere in discussione quella medicina che ha evitato il peggio”. A dirlo il noto virologo Matteo Bassetti.

L’Oms dichiara finita l’emergenza Covid…

È una decisione scontata, seppur tardiva. Dopo diverse dichiarazioni sibilline, un colpo al cerchio e uno alla botte, finalmente è stata decretata la fine della pandemia. Ciò vuol dire anche fine delle restrizioni, degli obblighi e di tutti questi termini utilizzati negli ultimi anni. Allo stesso modo, però, è il momento dei bilanci. L’Oms ci dice che ci sono stati venti milioni di morti, di cui 180mila solo in Italia. È una sberla bella forte.

Come superarla?

Mi auguro che, per rispetto di chi ha perso la vita e soprattutto per onorarne la memoria, non ci dimentichiamo degli errori commessi a livello globale. La pandemia certamente ha colto di sorpresa chiunque. Nessuno era pronto. Se abbiamo vinto, però, è solo grazie alla scienza, alla medicina, al lavoro dei sanitari, di cui troppo frequentemente nel Paese ci si dimentica. Quando è arrivata la pandemia eravamo eroi, mentre nel momento in cui il quadro è migliorato siamo quasi diventati carnefici.

Questa giornata, quindi, quale significato assume?

Celebra il successo del progresso, dei sieri e dei nuovi farmaci. Hanno vinto conoscenza e lavoro.

Chi, invece, ha sbagliato?

Bisogna fare una netta distinzione. Dal punto di vista tecnico scientifico-sanitario, mi riferisco al lavoro di medici, infermieri e ricercatori, in Italia è stato fatto un qualcosa di eccezionale. Non a caso siamo i primi in Europa per produzione di lavori scientifici sul Covid tra il 2020 e il 2021, i quarti nel pianeta. Quando parliamo di politica, al contrario, dobbiamo dire che c’è più di qualcosa che non ha funzionato. Una visione catastrofista e oscurantista, purtroppo, ha preso il sopravvento. Lockdown troppo lunghi, scuole esageratamente chiuse, mascherine con obblighi portati oltre ogni comprensibile termine.

A cosa si riferisce?

Penso, ad esempio, quando qualcuno diceva che si poteva giocare a tennis e non a padel, che si poteva mangiare sull’autogrill e non al ristorante. Sono solo alcune delle tante contraddizioni. Dobbiamo imparare tutti, che se dovesse esserci una nuova pandemia, mi auguro che ciò non accada mai, sarebbe un dramma ricadere negli stessi errori. La gente perderebbe fiducia nelle istituzioni.

Allo stesso tempo, però, occorre fare delle distinzioni ben precise…

Sono d’accordo! Sbagliato fare di tutta l’erba un fascio. Occorre un indispensabile distinguo. Volendo dare delle pagelle, possiamo dire che la medicina e la scienza meritano un bel otto, mentre la politica un cinque.

Cosa ne pensa del ceffone in faccia a Conte?

È abbastanza scandaloso. La colpa è sempre di una frangia violenta di no vax, che non si rassegna al fatto che la pandemia è stata vinta grazie ai vaccini. Questa gente, al posto di ringraziare la ricerca, va a tirare pugni all’ex premier e minacciare i virologi come il sottoscritto. Non ci siamo proprio. C’è una parte di persone contrarie ai sieri che purtroppo si distingue per ignoranza e violenza. Non so se Conte abbia fatto bene o male, ma usare le mani è sbagliato. Si tratta di un qualcosa che dovrebbe essere condannato a prescindere. Stiamo parlando di un gruppo di persone pericoloso, che a mio parere, non viene combattuto a sufficienza. Si può essere contro vaccinazioni e medici, siamo in un Paese libero e democratico, ma è certamente sbagliato usare le mani

La commissione d’inchiesta parlamentare sul Covid, intanto, deve fare il suo lavoro?

Mi auguro che faccia luce su quegli aspetti ancora opachi. Siamo tutti d’accordo. Allo stesso modo, comunque, mi auguro che non intervenga sui vaccini. Rischierebbe di fare una bruttissima figura. Non possono essere certamente dei parlamentari a dire se sono stati utili o meno. Saremo solo di fronte alla classica invasione di campo. Mettere in discussione le zone gialle, bianche, rosse o le scuole chiuse è qualcosa di certamente positivo, altro è dubitare sulla ricerca, sui sacrifici di chi ha rischiato la vita per salvarne delle altre. La politica non può e mettere in discussione la scienza. Non ne ha le competenze. Sull’approvazione e l’efficacia di un vaccino bastano Ema e Aifa.

La politica, però, può aiutare a far luce rispetto a quanto non ha funzionato…

Assolutamente! Fragilità ce ne sono state tante. Il nostro sistema sanitario, purtroppo, si è dimostrato debole. È un dato di fatto. Solo grazie a medici, infermieri e scienziati, non siamo andati al tappeto.

A Manduria l'autrice di "Canale terminale", il libro sulle vittime del Covid. La Redazione su La Voce di Manduria il 24 maggio 2023

«Orfana e vedova di malasanità» e di quella specificatamente tarantina. Così si definisce Eleonora Coletta, autrice del libro “Canale Terminale” che verrà presentato domenica 28 maggio, dalle 18.30, nella sala degustazioni Cantine Erario, a Manduria, nella cornice dei “Pro Liber, i Caffè Letterari” promossi dalla Pro Loco messapica. Moderati dal direttore de La Voce di Manduria, Nazareno Dinoi, e dalla giornalista Marzia Baldari, l’incontro farà luce sulle ombre di due perdite: quella del marito e del padre di Eleonora, e di altre vittime, non di Covid ma di probabili cattive gestioni sanitarie avvenute durante la pandemia.

Avvocato, professore di diritto del lavoro all’Università di Bari e vicepresidente del “Comitato Verità e Giustizia vittime Covid Moscati di Taranto - per non dimenticare”, Coletta scrive un libro-denuncia sulla gestione dell’emergenza sanitaria. Un viaggio all’inferno ambientato nell’ospedale Moscati di Taranto, luogo di non ritorno per Dario, 56 anni, e per Francesco 74 anni: marito e padre di Eleonora che hanno perso la vita durante la pandemia. Entrati come ammalati di Covid-19, «loro non sono morti per colpa di questo virus, ma per non aver ricevuto le giuste cure», ha spiegato in più interviste la donna che non riesce a darsi pace dopo aver appurato delle incongruenze sulle cartelle cliniche dei suoi cari.

Troppi errori e sciatterie raccontate da Coletta nel suo libro che è un pugno nello stomaco per il lettore, necessario per sollevare domande ma anche per ottenere giustizia e verità. Si poteva fare di più? Il personale medico del Moscati poteva fare meglio? Perché tanti morti da Covid-19? Queste alcune domande sollevate da Coletta che racconta come l’emergenza sanitaria fosse diventata quasi un facile alibi per giustificare degrado e malasanità e di come i pazienti fossero talvolta derubricati come “malati Covid”, fossero diventati solo numeri e non più persone. Un libro che vuole risposte e, soprattutto, una presa di coscienza di chi ha sbagliato e dovrebbe chiedere scusa. Marzia Baldari

Il libro-inchiesta di un'avvocatessa travolta dalla tragedia del Moscati di Taranto. “Canale terminale”, il libro sui morti per Covid che chiedono giustizia. La Redazione su La Voce di Manduria mercoledì 19 aprile 2023

«Canale terminale» è il libro sulle morti per Covid dell'ospedale Moscati di Taranto. È la storia di quei decessi di cui non si è saputo niente, nemmeno il numero esatto, noto solo a chi è rimasto in vita lacerato dal dolore e dai troppi perché. L'autrice è una di questi. Si chiama Eleonora Coletta, avvocato pubblico, prima alle dipendenze della Asl di Taranto, ora dell'Inail. A spingerla a scrivere per l'editore Cantagalli il libro-inchiesta è stato il dolore per aver perso in pochi giorni, in quel girone infernale, suo marito e suo padre. Il solo dolore non sarebbe forse bastato a esporsi tanto, perché a torturarle l'anima è anche il rimorso per essere stata lei a contagiarli entrambi. Lei che era stata tra i primi a vaccinarsi contro il virus quando presentava già i sintomi dell'infezione.

Prima tappa di quell'incredibile e interminabile serie di leggerezze di un sistema sanitario di cui lei stessa faceva parte. E dalla quale ha avuto morti e sofferenze e finanche denunce per diffamazione. L'opera è il racconto di quello che non è mai stato scritto di quei giorni quando le ambulanze formavano le code all'ingresso dei reparti Covid ricavati in ambienti destinati ad altro.

Niente di romanzato, tutta verità con riscontri oggettivi, documenti inediti, cartelle cliniche, consulenze e testimonianze drammatiche di altre famiglie di tanti uomini, donne, mariti, mogli, papà, mamme, figli, finiti in quel «Canale terminale» che ha dato il titolo al libro di Coletta, termine usato dall'allora direttore generale della Asl per definire la Rianimazione Covid del Moscati da dove nessuno tornava indietro. «Per due anni abbiamo chiesto la verità su quello che è realmente accaduto, perché il dolore merita rispetto, ed invece abbiamo ricevuto cartelle cliniche scarne, prive di documenti, denunce per diffamazione», si sfoga l'autrice che con altri familiari ha costituito il comitato "Verità e giustizia vittime Covid Moscati".

Leggere quelle pagine fa male ma è un dolore necessario perché raccontano quello che nella sanità a volte si preferisce nascondere creando lacerazioni insanabili in chi per tutta la vita si chiederà se si poteva fare diversamente, ricevendo silenzi. «Canale terminale» non lascerà indifferenti i magistrati, inquirenti e giudicanti, che devono ancora dare risposte a quei lutti. Nazareno Dinoi su Quotidiano

Covid, zona rossa e bugie. Conte e Speranza dai pm. Felice Manti il 28 Aprile 2023 su Il Giornale.

Interrogati il 10 maggio per omicidio ed epidemia colposa. Quei 4mila morti evitabili in Val Seriana 

Se son reati, fioriranno. Il redde rationem sulla pandemia si avvicina per Giuseppe Conte e Roberto Speranza. L'ex premier e l'ex titolare alla Salute saranno interrogati dal Tribunale dei ministri di Brescia il prossimo 10 maggio nell'inchiesta in cui sono indagati per omicidio colposo ed epidemia colposa sulla gestione del Covid in Val Seriana.

Secondo fonti giudiziarie, l'accelerazione sarebbe stata richiesta dalla stessa Procura, che ha ereditato dai pm di Bergamo i 24 faldoni relativi alle loro posizioni e frutto di due anni di indagini, di cui il Giornale ha dato notizia già nell'aprile 2021. I pm guidati dal procuratore Francesco Prete avevano peraltro già proposto «approfondimenti istruttori» al Tribunale dei ministri, un collegio formato da tre giudici civili e presieduto da Mariarosa Pipponzi, che da allora aveva 60 giorni per accogliere la proposta dei pubblici ministeri bresciani.

A quanto si apprende, l'interrogatorio potrebbe preludere a un sostanziale via libera e alla ritrasmissione degli atti a Prete. In questo caso servirà l'autorizzazione delle Camere di appartenenza dei due esponenti di M5s e Pd, che potrebbe essere richiesta al Parlamento dallo stesso Prete già dopo gli interrogatori. La questione ruota intorno alle dichiarazioni di Conte e Speranza che secondo i pm di Bergamo avrebbero mentito loro sulla zona rossa in Valseriana, la cui chiusura ritardata avrebbe causato la morte evitabile di almeno 4mila bergamaschi (così dice la relazione ai pm del virologo Andrea Crisanti, oggi senatore Pd) e avrebbero detto balle sul piano pandemico, colpevolmente non aggiornato eppure teoricamente applicabile né preso in considerazione dalla task force anti-Covid; avrebbero mentito a Oms e Ue sulla reale preparedness dell'Italia ad affrontare la pandemia, tanto da aver pianificato la sparizione di un report Oms indipendente che li smascherava; avrebbero sottovalutato le criticità sulle misure (in molti casi tardive) messe in campo per fronteggiare l'emergenza, come chiedeva invano l'allora viceministro Pierpaolo Sileri, che per tutta risposta avrebbe ricevuto pesanti minacce di dossieraggio da Goffredo Zaccardi, allora capo di gabinetto di Speranza, documentate dagli scambi di sms e whatsapp in mano ai pm.

Ecco perché nel filone d'indagine bresciano potrebbero confluire altre posizioni. Nei giorni scorsi infatti la Procura Generale bresciana ha spostato nella stessa città, su richiesta della difesa, la posizione dell'ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo, imputato in concorso con Conte e Speranza degli stessi reati. Lo stesso destino dovrebbe toccare, o per decisione spontanea del pool guidato da Antonio Chiappani o su richiesta delle difese, a un'altra decina di indagati presunti concorrenti nel reato con l'ex premier e l'ex ministro, che a loro volta potrebbero depositare entro tre mesi memorie difensive o chiedere di essere interrogati. Come il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro o il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli. D'altronde, è questo il cuore della questione da dirimere, dall'efficacia alla tempestività delle misure, vedi i lockdown, fino all'incauto acquisto di mascherine farlocche dalla Cina, su cui indagano almeno altre tre Procure. Chi ha consigliato cosa a Conte e Speranza? Chi ha deciso di non fare la Zona rossa? E perché? È evidente che le loro posizioni sono in conflitto, bisognerà capire se alla Procura di Brescia basteranno gli interrogatori o se chiederanno un rinvio a giudizio.

A quanto si apprende va avanti anche l'indagine degli 007 del ministero di Giustizia sulla Procura di Bergamo per le interviste di Chiappani alla Stampa, a Repubblica e alla Rai come anche quella interna sulla diffusione incontrollata di notizie «sensibili» che hanno anticipato la chiusura delle indagini, assegnate da Chiappani alla Guardia di Finanza.

Il pandemonio: Report Rai. PUNTATA DEL 06-04-2023 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini

Collaborazione di Alessia Pelagaggi e Ilaria Proietti

Ad aprile di tre anni fa eravamo in pieno lockdown.

File di centinaia di persone per entrare nei supermercati, bare sui camion, terapie intensive stipate, il Papa in preghiera solitaria a piazza San Pietro, le serenate sui balconi alle 6 di sera, i bambini davanti a uno schermo mentre le scuole erano chiuse. Un ricordo drammatico, che però porta con sé una domanda: è stata una catastrofe imprevedibile oppure abbiamo agevolato il Covid-19 nella sua avanzata? La stessa domanda ha portato la procura di Bergamo a indagare sui primi mesi di gestione pandemica. Dalle carte dell’inchiesta emerge una classe dirigente della nostra sanità disattenta, che in qualche caso dubita che il Covid sia poi così pericoloso, che non maneggia l’inglese e quando arrivano documenti-guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità se li fa tradurre da un’agenzia, perdendo giorni preziosi. Altri giorni preziosi furono persi senza chiudere la Val Seriana che poi diventò la Wuhan d’Italia, perché imprenditori e politici pressavano per tenere aperto. Report racconterà retroscena inediti ed esclusivi, da cui capiremo come molte vite si sarebbero potute salvare.

La Commissione parlamentare d’inchiesta sul Covid si farà: ecco i dettagli. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 13 aprile 2023.

Dopo che alcune parti politiche e molte delle cosiddette “virostar” hanno tentato in tutti i modi di boicottarne l’istituzione con i più svariati pretesti, ieri la Commissione Affari sociali della Camera ha adottato il testo base per la costituzione della Commissione bilaterale d’inchiesta sul Covid grazie ai voti del centrodestra e di Azione-Italia viva. Contrari alla Commissione sono, invece, PD e M5S che vedono nel nascente organismo uno strumento politico della maggioranza contro le opposizioni, che durante la pandemia erano parte del governo che si trovò a gestire l’emergenza. La Lega, dal canto suo, ha fatto pressioni affinché dal testo iniziale fosse stralciato ogni passaggio relativo alle responsabilità delle Regioni durante la fase emergenziale per evitare accuse e coinvolgimenti dei suoi governatori, tra cui in particolare quello della regione Lombardia, Attilio Fontana. Anche per questo, durante il voto, il M5S ha abbandonato l’aula: non solo per protestare contro il mancato coinvolgimento delle istituzioni locali nell’indagine, ma anche per via della volontà di indagare anche sugli stessi vaccini anti-Covid. Ora, dunque, i principali protagonisti della gestione pandemica saranno costretti a rispondere a quelle domande a cui fino ad ora non hanno voluto dare risposta. Il lavoro dell’organismo appena costituito – composto da 15 senatori e 15 deputati, nominati dai presidenti di Camera e Senato – sarà comunque lungo in quanto richiederà la lettura di tutti i documenti e dei verbali degli enti che si sono occupati della prevenzione e gestione della pandemia.

La durata della Commissione si estenderà all’intera legislatura e, nello specifico, avrà il compito di far luce su diversi aspetti essenziali che hanno caratterizzato la gestione pandemica, tra cui valutare l’efficacia, la tempestività e i risultati delle misure adottate dal Governo al fine di contrastare, prevenire, ridurre la diffusione e l’impatto del Sars-CoV-2; accertare le ragioni del mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale redatto nel 2006; accertare l’eventuale esistenza di un piano sanitario nazionale per il contrasto del virus Sars-CoV-2 e le ragioni della sua mancata pubblicazione e divulgazione; valutare la tempestività e l’adeguatezza delle indicazioni e degli strumenti che il Governo e le sue strutture di supporto hanno fornito alle Regioni e agli enti locali nel corso di ciascuna fase dell’emergenza pandemica. Si indagherà, inoltre, su eventuali abusi, sprechi, irregolarità, comportamenti illeciti e fenomeni speculativi che abbiano interessato gli acquisti dei dispositivi di protezione individuale prodotti in Cina, i contratti di appalto e di concessione, la progettazione e realizzazione di strutture e unità sanitarie destinate ai pazienti affetti da Covid e degli hub vaccinali. Ma a spaventare maggiormente soprattutto una parte dell’opposizione è l’indagine sui vaccini. Nel testo, infatti, si richiede, tra le altre cose, di svolgere indagini relative agli acquisti delle dosi di vaccino destinate all’Italia nonché all’efficacia del piano vaccinale predisposto. Quest’ultimo punto ha fatto alterare PD e M5S che hanno parlato di «ammiccamento ai “no-vax”»: «nel testo si mette in dubbio l’utilità dei vaccini, ammiccando ai no-vax, e non sono menzionate le Regioni, cioè l’istituzione che ha la competenza principale sulla sanità. Siamo usciti dall’aula e abbiamo deciso di non votare la proposta perché è ridicolo fare una Commissione d’inchiesta sul Covid escludendo le Regioni», ha commentato Marco Furfaro, capogruppo del PD in Commissione Affari sociali della Camera.

Tra gli altri punti presenti nel testo d’istituzione della Commissione di particolare importanza sono quelli in cui si chiede di « verificare e valutare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali costituzionalmente garantite nella adozione e applicazione delle misure di contenimento adottate dal Governo nelle fasi iniziali e successive della pandemia», di «verificare e valutare la legittimità della dichiarazione dello stato di emergenza e relative proroghe nonché dello strumento della decretazione d’urgenza», e soprattutto «di verificare l’eventuale conflitto di interesse tra i componenti degli organi tecnici governativi, associazioni di categoria, case farmaceutiche». Le indagini, inoltre, si estenderanno anche alla fase successiva rispetto all’inizio della pandemia, comprendendo anche il periodo del governo Draghi durante il quale sono stati presi diversi provvedimenti controversi dal punto di vista delle libertà costituzionali non sempre supportati da dati scientifici, come ad esempio il divieto di accesso ai locali pubblici ai non vaccinati e l’adozione del “green pass”. Al punto “t” del testo, infatti, si richiede di «verificare e valutare le misure di contenimento adottate dal Governo nelle fasi iniziali e successive della pandemia individuando eventuali obblighi e restrizioni carenti di giustificazione in base ai criteri della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’efficacia, contraddittori, contrastanti con i principi costituzionali o valutando se forniti di adeguato fondamento scientifico, anche eventualmente attraverso la valutazione comparativa con la condotta seguita da altri Stati europei e con i risultati da essi conseguiti».

Si tratterà, dunque, di un’inchiesta di vasta portata che potrebbe contribuire a fare luce sui tanti punti controversi della gestione pandemica in Italia. Una Commissione d’Inchiesta Parlamentare ha infatti poteri d’indagine molto ampi, parificati a quelli della magistratura. Tuttavia la storia repubblicana è costellata di Commissioni d’Inchiesta che sono terminate su binari morti senza portare risultati tangibili. Per valutare l’effettiva efficacia di quella che verrà istituita sul Covid occorrerà quindi aspettare. [di Giorgia Audiello]

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” l’11 aprile 2023.

[…] La verità è che dietro alle notizie sinora emerse sulla sòla presa dalla giunta presieduta dall’ex governatore Nicola Zingaretti ci sono retroscena per cui non basterebbe un libro. Un racconto costellato di […] finti avvocati, oscuri imprenditori russi e persino presunti mafiosi kosovari.

 […] La trama si svolge tra Roma, Castelfranco veneto (Treviso) e Praga. Anche se, come vedremo, l’epicentro di tutto è in Toscana.

 [...] nel marzo 2020, in piena pandemia, la Regione Lazio per l’approvvigionamento di mascherine, si affida alla Ecotech Srl, una società che opera nel settore delle lampadine e che non ha esperienza nel campo dei dispositivi medici.

A guidarla è il bellunese Sergio Mondin, il quale assicura a Zingaretti & C. di essere in grado di recuperare milioni di protezioni facciali e per questo ottiene, unico in Italia a livello regionale, un acconto da 14,68 milioni di euro per una fornitura «fantasma» da 9,5 milioni di dpi.

 A oggi ne sono stati consegnati solo 2 milioni di tipo chirurgico e mancano all’appello quasi 11,8 milioni di euro.

 […] Mondin garantisce di essere in grado di portare le mascherine a Roma nel giro di pochi giorni […] e per questo si rivolge alla cinquantasettenne padovana Stefania Cazzaro, una designer all’epoca coinvolta in un procedimento penale per bancarotta, e invia 4,7 milioni di euro alla Giosar, ditta inglese della donna.

Quest’ultima e un suo collaboratore sono adesso accusati dalla Procura della Capitale di aver riciclato gran parte di quei soldi, 3,7 milioni di euro. Noi abbiamo incontrato la signora Cazzaro a Castelfranco […].

 La signora, look da creativa, ha giurato di essere stata ingannata a sua volta e di non conoscere nemmeno la vera identità delle persone che avrebbero dovuto aiutarla nella missione e a cui ha inviato i bonifici contestati dai magistrati. «Mondin è arrivato a me tramite una persona che collabora con una nota banca e che era stato cercato da un advisor…» ci spiega la donna.

 La quale, a questo punto, si sarebbe rivolta a una broker di Varese, F.Z., che la avrebbe messa in contatto con un presunto avvocato, Ennio D’Andrea, e questi, a sua volta, avrebbe fatto da «intermediario» con un imprenditore originario di Prato di stanza a Praga, un certo Antonio Ferrante, la persona che, a detta del legale, avrebbe avuto la disponibilità dei dispositivi di protezione.

Una catena di Sant’Antonio che ha fallito miseramente la missione. Infatti, la Cazzaro ha inviato quasi subito 1,545 milioni di euro di anticipo alla Noleggio car Sro di Ferrante, ma dalla Repubblica ceca non è arrivata neppure una mascherina.

 [...]

 Dopo alcuni giorni di febbrili ricerche ci convinciamo che l’avvocato D’Andrea e l’imprenditore Ferrante non esistano. La Cazzaro ribadisce di non aver mai conosciuto Ferrante di persona, mentre D’Andrea le avrebbe raccontato di avere origini napoletane e di essere figlio di un console.

 L’unica garanzia […] è un elenco di 79 auto che farebbero parte del parco macchine della Noleggio car. [...]

La Cazzaro ci mostra i messaggi scambiati con D’Andrea e con Ferrante. Nelle lunghissime chat il signor Antonio annuncia in più occasioni svolte che non arrivano. Prima per la consegna della merce, poi per la restituzione degli anticipi.

 «Buongiorno Stefania, la guerra tra Russia e Ucraina ha messo in seria difficoltà Vladimir» si legge in una comunicazione. «Le banche ucraine non autorizzano nessuna transazione. […] Speriamo che intervenga la Nato così la crisi finirà presto».

 Vladimir è il fornitore russo che avrebbe dovuto procurare le mascherine, Svetlana la sua segretaria. Ferrante nomina anche un presunto mafioso, Faton o Fatim, a cui si sarebbe rivolto per ottenere un prestito e completare l’acquisto. «Intanto Vladimir ha restituito a Fatim» scrive Ferrante a un certo punto. Ma i soldi della Ecotech, quelli restano all’estero.

 D’Andrea dà ulteriori dettagli sulle difficoltà incontrate dal suo «principale» e invia l’immagine di un uomo di mezza età in due diversi momenti, in una è circondato da uomini armati: «La persona che gli ha dato i soldi (a Ferrante, ndr) si chiama Faton Gashi. Quello con gli occhiali nella foto. Sono delle persone molto pericolose che hanno in mano tutta Praga e parte di Bratislava. Sono kosovari. [...] È un intoccabile. Operano anche in Italia, questo è il problema e bisogna pagarli, cascasse il cielo».

Il senso del messaggio è chiaro: il denaro va consegnato in fretta per evitare ritorsioni su Antonio.

 Ma le foto inviate da D’Andrea non raffigurano un bandito kosovaro: una, risalente al 2005, immortala «il quarantaseienne croato Faton Gaši, considerato uno dei massimi boss della narcomafia europea», arrestato in Repubblica ceca, l’altra ritrae un uomo molto somigliante al primo, questa volta un attore di teatro praghese, Zleva Pavel Hromádka.

 Nella chat D’Andrea si fa prendere la mano paventando un possibile «scontro con i kosovari».

 […] L’unico elemento che abbiamo in mano che ancora non è stato polverizzato dalle verifiche è l’origine pratese di Ferrante. Ma la Cazzaro sul suo conto non sa molto di più. […]

Noi abbiamo assistito a una telefonata fa tra la Cazzaro e D’Andrea […]. A quasi tre anni dalla richiesta delle mascherine, D’Andrea ricorda alla Cazzaro che a Londra sono disponibili intere scorte di Ffp3: «Non possiamo mandare quelle e far finta che siano dell’altra posizione?» chiede.

 La Cazzaro inorridisce [...]  e ripete di volere il denaro indietro. D’Andrea insiste, definendo i dispositivi «certificatissimi»: «Ma perché no, Stefania? Ma tu hai visto che stanno aumentando i contagi di Covid?» azzarda, «andresti anche a risparmiare… [...]».

 La Cazzaro ricorda all’interlocutore che c’è un procedimento penale in corso e che non c’è da scherzare. Ennio non si arrende: «Metti caso che noi ce le prendiamo e tu dici “guardate che sono ancora là…”». La donna sbotta: «Dopo tutto quello che è successo io non dico mica una cosa del genere… non posso dirlo… Antonio deve uscire allo scoperto. Abbiamo bisogno che venga e parli».

D’Andrea assicura che «è ancora a Praga al 100 per cento» e prova a giustificare la mancata restituzione dei soldi: «Secondo me Antonio per sistemare le cose con quegli altri zingari, a Praga, qualcosa gli ha dovuto dare a questi. Io aspettavo che pagasse il debito, poi è successa la guerra…». […]

[…] La nebbia avvolge ogni cosa e i protagonisti, a parte la Cazzaro e Mondin, sono tutti fantasmi. Ad aiutarci a trovare il bandolo della matassa è il decreto di perquisizione eseguito dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Roma nell’ottobre scorso. […]

 Nell’atto giudiziario sono indicate le direzioni prese dai soldi della Regione. Appuriamo che la pista campana regge dal momento che 67.000 euro sono finiti in Italia sul conto del ventisettenne Giuseppe Rendina, originario di Pompei, uno dei due amministratori di fatto (sono entrambi indagati per riciclaggio) delegati a operare sui conti della Noleggio car.

 Ma troviamo un’informazione ancora più importante ed è quella che porta all’altro amministratore di fatto, il cinquantaduenne Donato Ferrara. È originario di Nocera inferiore e con una carta a lui intestata sono stati effettuati prelievi per 8.000 euro a Prato, due località, una in Campania e una in Toscana, che ci riportano ad Antonio Ferrante.

Nel decreto si fa riferimento anche a un certo Arsenio Ippolito, quarantenne nativo di Polla, paesino in provincia di Salerno, e residente nella vicina Teggiano, in un’anonima casetta persa tra i vicoli. Sotto l’abitazione è parcheggiata una Audi con targa bulgara. Facendo un po’ di ricerche su di lui abbiamo scoperto che è amministratore e intestatario di una «micro company» londinese, la Giadastar, con zero dipendenti, ma un giro di affari dichiarato di circa 334.000 sterline al 28 febbraio 2022.

 […] L’uomo ha diverse segnalazioni di polizia, non particolarmente significative, per reati che vanno dalle lesioni personali alla truffa (per una vendita su Ebay) alla guida di auto priva di assicurazione o con targa contraffatta.

 Abbiamo trovato una sua foto su Facebook e la abbiamo mostrata alla Cazzaro. E lei ha esclamato: «Ma questo è l’avvocato D’Andrea!». Abbiamo così capito di essere sulla strada giusta. Allora abbiamo telefonato al finto professionista (che aveva creato anche un indirizzo mail in cui si fregiava del titolo di «avv»), ma D’Andrea-Ippolito non si è scomposto e ha continuato a recitare la parte businessman affermato: «Vuole il nome della mia società di Dubai? Di quella a Londra? Vuole copia del mio documento britannico? Secondo me la stanno mal informando sul mio conto».

Poi ha estratto il tariffario per un’intervista: «Diecimila euro con fattura ovviamente. Purtroppo il mio tempo è valorizzato minuto per minuto. Il paese dove abito anche questi tre minuti che le sto dedicando si pagano». Testo e sintassi sono quelli del messaggio originale. Ma quando la Cazzaro lo ha contattato sul cellulare ha smesso gli abiti del professionista in carriera: «Non posso più stare a Milano perché c’è un costo molto elevato e io non ho tutti questi soldi da poter spendere qua».

[…] Quando abbiamo chiamato l’amministratore legale della Noleggio car, il quarantaseienne Giovanni Franzese (indagato e pratese, pure lui), questi ci ha risposto: «Antonio? Non lo conosco. Se vuole informazioni, cerchi Donato Ferrara, anche se non so che cosa faccia esattamente nella Noleggio car». […] Facendo una veloce ricerca su Internet scopriamo che un omonimo del nostro Ferrara era citato in un articolo della Stampa del 2010 in cui si parlava di un truffatore di stanza a Prato: «Aveva due identità. Ricercato con quella falsa» si leggeva nel titolo.

 […] I precedenti penali dell’uomo sono moltissimi: negli anni ‘90 è stato arrestato per furto d’auto, poi è stato indagato per associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, truffa, uso e emissione di fatture per operazioni inesistenti, sostituzione di persona e attestazione di false generalità, appropriazione indebita, contraffazione di sigilli, distruzione di documenti, applicazione di targhe false su auto rubate, falso ideologico, tentata estorsione.

 Nel 2010 è stato nuovamente arrestato, scarcerato dopo un anno e sottoposto all’obbligo di dimora. Nel 2016 è passata in giudicato una condanna per bancarotta. E, successivamente, ha ricevuto due ordini di carcerazione per ricettazione, l’ultimo nel 2019.

Di fronte a un simile cv decidiamo di metterci sulle tracce di Donato Ferrara, «dichiarato irreperibile dal Comune di Prato nel 2020», come si legge nel decreto. In realtà non si è mai spostato e noi lo abbiamo scovato proprio lì. […] Di fronte alla visita a sorpresa del cronista, mostra un certo savoir faire. Ha il fisico asciutto, capelli rasati, un filo di barba e indossa una camicia azzurra a pois. Ammette subito di essere lui il quasi inafferrabile Antonio Ferrante.

 «Lei fa il suo e non le dico nulla finché c’è il rispetto reciproco» ci avverte. «C’è un avvocato, c’è un’indagine in corso. Parli con il mio legale». Poi passa al contrattacco: «La Giosar non ha saldato il conto. La Cazzaro ha nascosto i soldi…». Di più non dice. Salvo contattarci telefonicamente più tardi: «Le volevo chiedere una cortesia: di non divulgare il mio indirizzo perché ho avuto delle minacce da parte della Stefania che ha soci calabresi appartenenti alla ‘ndrangheta e in più mi ha mandato a cercare da uno slavo a Praga e questo mi ha cercato tante volte e mi ha minacciato… il nome glielo faccio avere… non ho mai denunciato e non intendo denunciare, ma la Finanza le minacce le troverà sul mio cellulare. Io sono una persona molto tranquilla».

Perché Ferrara e Ippolito hanno usato nom de plume ce lo spiega lo stesso «Antonio»: «Ennio mi chiama Totò come io chiamo lui “prof”. Quando lui mi ha chiesto di parlare con la Cazzaro era già venuto fuori il discorso di questi calabresi per cui dissi a Ennio: “Siccome la signora non conosce il mio vero nome e cognome continuiamo così, visto che io non voglio avere a che fare con le persone da lei nominate, con gente di quella categoria…”. E allora sono rimasto “Antonio”».

 […] La Cazzaro, che più che della malavitosa ha il phisique du role della zia specializzata nelle torte di mele, sotterra le accuse di Ferrante sotto una risata: «La verità è che io, come risulta dalle carte con gli ‘ndranghetisti calabresi non ho nulla a che vedere e quanto allo slavo, si tratta di un professionista croato, C.J., che si occupa di finanza e non di recupero crediti che ho mandato a Praga per capire che cosa ci fosse dietro a questa storia. Io volevo solo avere indietro i soldi della Ecotech, ma abbiamo verificato che all’indirizzo di Praga, indicato da Ferrante, erano domiciliate molte altre società».

Parrebbe di capire che il quartiere generale della Noleggio car fosse uno di quegli uffici che fungono da domicilio per aziende senza una vera struttura. E la lista di auto che la Cazzaro a un certo punto ha ricevuto come garanzia? «Il documento con tutti i timbri me l’ha inviato il sedicente avvocato D’Andrea, ma visto quello che avete scoperto non mi fido più di nulla, neanche di quella carta, su cui farò fare le dovute verifiche».

 Ricerche che oggi potrebbero essere fuori tempo massimo e che in Lazio nessuno ha ritenuto di dover fare prima di gettare nel bidone dell’immondizia quasi 15 milioni di euro di denari pubblici. Uno spreco per cui la Corte dei conti ha contestato a Zingaretti un danno erariale da circa 11,7 milioni di euro. […]

Gli accertamenti di via Arenula. Inchiesta Covid, Nordio indaga sulle interviste del pm di Bergamo a televisioni e giornali. Angela Stella su Il Riformista il 6 Aprile 2023

Via Arenula sta conducendo accertamenti ispettivi sulla Procura di Bergamo per verificare se ci sia stata qualche violazione da parte del Procuratore capo Antonio Angelo Chiappani nella sua gestione mediatica sull’inchiesta Covid. È quanto emerso ieri durante il question time in commissione giustizia della Camera: al momento si stanno acquisendo le carte per poi valutare l’invio degli ispettori a Bergamo. A sollevare la questione l’onorevole di Azione Enrico Costa con un atto di sindacato ispettivo dove ha riassunto i termini della vicenda: Chiappani “ha rilasciato numerose interviste” e “si segnalano tra le altre quelle su La Stampa e Repubblica, nonché il collegamento con la trasmissione televisiva Agorà e con Radio 24”.

Inoltre il consulente dell’accusa “il microbiologo e senatore Andrea Crisanti ha rilasciato numerose interviste e partecipato a trasmissioni come Piazza Pulita nella sua qualità di consulente tecnico nell’inchiesta ed estensore di un atto inserito nel fascicolo d’indagine”. Il parlamentare ha ricordato che “ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 106 del 2006, come modificato dal decreto legislativo n. 188 del 2021, il procuratore della Repubblica mantiene i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa; la determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano; non sono consentite altre e diverse forme di comunicazione giudiziaria. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico; è inoltre fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio”.

Pertanto ha chiesto al Governo se ritenesse “che quanto avvenuto sia consentito dalle disposizioni di legge che disciplinano la comunicazione giudiziaria e tutelano la presunzione d’innocenza e se intenda svolgere gli opportuni approfondimenti in merito”. Per il dicastero ha risposto il sottosegretario Andrea Ostellari: “Il Ministero sta effettuando, tramite l’acquisizione degli atti, gli opportuni approfondimenti istruttori, anche di natura ispettiva, al fine di verificare se sia configurabile nei confronti del Procuratore l’illecito disciplinare di cui all’articolo 2 comma 2) lettera v) del decreto legislativo n. 109 del 2006 che sanzione, tra le altre condotte, ‘…la violazione del divieto di cui all’articolo 5 comma 2 del decreto legislativo 106 del 2006’”. Infine dice Ostellari “come ripetutamente affermato dal Ministro della Giustizia, costituisce impegno di questo Governo avviare una stagione di riforme (talune della quali già inserite nel cronoprogramma normativo) volte a riaffermare nel modo più efficace il garantismo del diritto penale, realizzando la tutela della presunzione di non colpevolezza della persona, assicurandone la dignità e l’onore durante le indagini e il processo”.

Angela Stella

Inchiesta Covid, il procuratore di Bergamo rischia il procedimento disciplinare. Via Arenula sta conducendo accertamenti dopo le interviste rilasciate alla stampa dal procuratore capo Antonio Angelo Chiappani a seguito della chiusura delle indagini sulla pandemia. A sollevare la questione, in base alle nuove regole sulla presunzione d’innocenza, il deputato di azione Costa. Valentina Stella su Il Dubbio il 4 aprile, 2023

Via Arenula sta conducendo accertamenti ispettivi sulla procura di Bergamo per verificare se ci sia stata qualche violazione da parte del procuratore capo Antonio Angelo Chiappani nella sua gestione mediatica sull’inchiesta Covid. È quanto emerso durante il question time in commissione giustizia della Camera. Al momento si stanno acquisendo le carte per poi valutare l'invio vero e proprio degli ispettori a Bergamo.

A sollevare la questione è stato il deputato e responsabile giustizia di Azione Enrico Costa con un atto di sindacato ispettivo, nel quale ha riassunto i termini della vicenda: Chiappani «ha rilasciato numerose interviste» e «si segnalano tra le altre quelle su La Stampa e Repubblica, nonché il collegamento con la trasmissione televisiva Agorà e con Radio 24». Inoltre il consulente dell’accusa, «il microbiologo e senatore Andrea Crisanti, ha rilasciato numerose interviste e partecipato a trasmissioni come Piazza Pulita nella sua qualità di consulente tecnico nell'inchiesta ed estensore di un atto inserito nel fascicolo d'indagine».

Il parlamentare ha ricordato che «ai sensi dell'articolo 5 del decreto legislativo n. 106 del 2006, come modificato dal decreto legislativo n. 188 del 2021, il procuratore della Repubblica mantiene i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa; la determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano; non sono consentite altre e diverse forme di comunicazione giudiziaria». Pertanto ha chiesto al governo se ritenesse «che quanto avvenuto sia consentito dalle disposizioni di legge che disciplinano la comunicazione giudiziaria e tutelano la presunzione d'innocenza e se intenda svolgere gli opportuni approfondimenti in merito».

Per il dicastero ha risposto il sottosegretario Andrea Ostellari. Nella prima parte della risposta ha sottolineato come la riforma sulla presunzione di innocenza «legittima la divulgazione soltanto qualora sussista almeno uno dei seguenti presupposti: la stretta necessità ai fini della prosecuzione delle indagini; la presenza di specifiche ragioni di interesse pubblico». In relazione alla prima ipotesi, «la stessa sembrerebbe sussistere qualora vi sia l’esigenza di stimolare la collaborazione della cittadinanza per l’effettivo perseguimento di un reato. Maggiormente complessa risulta la delimitazione del secondo requisito, in particolare come debba essere interpretata l’espressione specifiche ragioni di interesse pubblico, ossia se si debba fare leva su di un criterio modulato sul tipo di provvedimento ovvero su di una valutazione in concreto e caso per caso. Ne consegue che, in mancanza di parametri normativamente predefiniti, l’individuazione delle specifiche ragioni di interesse pubblico rientra nella discrezionalità del capo dell’Ufficio del pubblico ministero».

Nella seconda parte della risposta ha invece comunicato: «Il ministero sta effettuando, tramite l’acquisizione degli atti, gli opportuni approfondimenti istruttori, anche di natura ispettiva, al fine di verificare se sia configurabile nei confronti del procuratore l’illecito disciplinare di cui all’articolo 2 comma 2) lettera v) del decreto legislativo n. 109 del 2006 che sanzione, tra le altre condotte, “la violazione del divieto di cui all’articolo 5 comma 2 del decreto legislativo 106 del 2006”». Infine, dice Ostellari, «come ripetutamente affermato dal ministro della Giustizia, costituisce impegno di questo governo avviare una stagione di riforme (talune della quali già inserite nel cronoprogramma normativo) volte a riaffermare nel modo più efficace il garantismo del diritto penale, realizzando la tutela della presunzione di non colpevolezza della persona, assicurandone la dignità e l’onore durante le indagini e il processo».

Abbiamo chiesto al procuratore Chiappani di commentare ma ci ha scritto di non voler dire nulla. Costa si è detto soddisfatto per l’iniziativa ispettiva; tuttavia non ha condiviso il passaggio in cui il governo ha sostenuto che l’interesse pubblico appartiene alla discrezionalità del procuratore capo. «Significa – per il parlamentare – che il magistrato può scrivere sempre quello che vuole per giustificare interesse pubblico. Bisognerà fare un lavoro per delimitarlo». Una volta terminata l’indagine ispettiva, il ministro della Giustizia Carlo Nordio potrebbe promuovere l’azione disciplinare mediante richiesta di indagini al procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Sarebbe forse il primo caso di un procedimento per il mancato rispetto della direttiva sulla presunzione di innocenza.

La richiesta per il "caso camici". “Processate Fontana”, che importa se era stato già prosciolto…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Aprile 2023

Sei minuti sono bastati a un procuratore generale di nome Massimo Gaballo per allinearsi ai colleghi di primo grado e chiedere di mandare a processo il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, già prosciolto da un gup “perché il fatto non sussiste”. “Il pg non ha fatto altro che richiamarsi ai motivi di appello del pm. Eppure un magistrato dovrebbe sapere quando un processo è chiuso”, commenta uno sconcertato Jacopo Pensa, legale del Presidente.

Lo stupore è dovuto al fatto che le archiviazioni in udienza preliminare sono rare, quando ci sono vuol proprio dire che un processo non finirebbe mai con la condanna. Ma ancor più rari in quel caso sono i ricorsi in appello del pm. Pure a Attilio Fontana sono capitate tutte e due le singolari situazioni. Sottoposto per due anni a gogna mediatica per il reato di “frode in pubblica fornitura” per una donazione di 50.000 camici alla Regione da parte della società Dama di proprietà del cognato Andrea Dini, aveva poi visto svanire come neve al sole l’accusa dopo che la giudice Chiara Valori aveva dichiarato il proscioglimento “perché il fatto non sussiste”. Del resto gli stessi uomini della Procura, con l’aggiunto Romanelli e i sostituti Scalas e Filippini, prima ancora della decisione della gup, parevano orientati a chiedere il proscioglimento di tutti gli indagati, Fontana, Dini e tre dirigenti regionali, Filippo Bongiovanni, Carmen Schweigi e Pier Attilio Superti. Tanto era singolare la vicenda.

Ricordiamola sinteticamente. La cornice era quella tragica del 2020, con lo sconosciuto e maledetto virus arrivato nelle nostre case e la fame disperata di ospedali e privati cittadini di ogni presidio sanitario, mascherine e camici in particolare. L’azienda Dama, come altre riconvertite all’uopo in quel periodo, fa la propria offerta alla Regione Lombardia per 75.000 camici al prezzo di 513.000 euro. La trattativa è regolare, dal momento che il Governo, vista la situazione di emergenza, ha sollevato le Regioni dall’obbligo di indire gare. Ma l’odore del sangue, si sa, è una tentazione troppo forte tra coloro che scambiano la voluttà della gogna per giornalismo d’inchiesta. Così tra un’intervista ai citofoni e uno strillo degli “onesti” che si spingono fino a presentare una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione Lombardia, nasce il reato di “frode in donazione”, perché a un certo punto Andrea Dini decide di fare omaggio alla Regione di 50.000 camici.

Probabilmente, se fosse stato il cognato di un Presidente meno rigoroso, si sarebbe limitato a rivendicare il diritto di essere considerato come un qualunque fornitore e di non essere penalizzato in quanto parente. Ma c’erano anche le interviste ai citofoni e le sbirciate dal buco della serratura, a montare il caso. Quale è dunque il succo del processo? Una generosità incompleta, un po’ di tirchieria, insomma. Perché sono stati donati alla Regione 50.000 camici e non 75.000? Che importa del fatto che la Lombardia non abbia avuto danni ma se mai solo un vantaggio? E quali sarebbero gli “interessi privati convergenti degli imputati”? Lo sapremo forse il 23 giugno con la decisione della corte d’appello.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto dell’articolo di Davide Milosa per “il Fatto quotidiano” il 3 aprile 2023.

Mattina del 2 ottobre 2020. Milano è entrata nella seconda ondata di Covid-19. […] Al Westin Palace, hotel di lusso, c’è una stanza prenotata per qualche ora. Chi ha prenotato ha pagato 100 euro. La ragazza marocchina ha già compiuto 18 anni. Giorni prima è stata contattata per una prestazione sessuale da pagarle con 500 euro. Quando arriva, il portiere la guida verso l’ascensore e le schiaccia il piano. Poco dopo arriva un uomo di mezza età ben vestito. È lui il cliente. Si chiama Renato Cerioli e in passato è stato sposato con l’attuale senatrice di FI Licia Ronzulli […]

Cerioli […] oltre a essere presente nella Fondazione Cariplo, risulta amministratore delegato della clinica privata Madonnina e degli Istituti clinici Zucchi, entrambi del gruppo San Donato della famiglia Rotelli, nonché già presidente di Confindustria per la provincia di Monza e Brianza.

 L’episodio è narrato negli atti a corredo dell’ordinanza con cui ieri il Tribunale ha disposto sei misure cautelari per diversi reati di bancarotta, in cui alcuni protagonisti sono collegati agli interessi della ’ndrangheta lombarda. […] Cerioli non risulta minimamente indagato, mentre il suo nome compare negli atti del pm perché altri, collegati in parte agli emissari dei clan, intendono trarre vantaggi dalla sua posizione.

I protagonisti sono Gianluca Borelli, già coinvolto nel crac di SuisseGas, definito “l’uomo cerniera” con persone vicine ai clan, e il medico Cristiano Fusi, già all’interno dello staff del Monza calcio e vicino alla sfera milanista. Il capo d’imputazione è favoreggiamento della prostituzione, accusa non accolta dal gip che per questo non ha disposto misure cautelari. I due restano comunque indagati.

 Secondo il pm “l’utilità” ipotizzata dal duo Borelli-Fusi “consisteva nell’avvio delle trattative con gli Istituti clinici Zucchi (attraverso Cerioli) finalizzate alla stipula di contratti a oggetto la forniture di materiale per Covid-19 (mascherine e camici monouso)”. A contattare la ragazza sarà Josef Kardavani Amini il quale il 2 ottobre stesso, presumibilmente dopo che si è tenuto l’incontro tra Cerioli e la ragazza, è al telefono con Fusi.

Dice il medico: “Lui è il principino, ma da oggi il principino è sotto scacco”. Amini risponde: “Eh speriamo, dobbiamo chiudere l’operazione”. Fusi il 22 ottobre successivo: “Mi ha detto di far sapere bene il prezzo, di dirglielo e di far chiamare, di farlo inserire nella gara del gruppo perché compra il gruppo e non la singola clinica Zucchi”.

 Scrive il pm in relazione all’incontro in hotel che gli organizzatori “detenevano documentazione fotografica” non però dell’incontro, ma della sola ragazza. Il 30 settembre pochi giorni prima dell’incontro, Borelli scrive a proposito di Cerioli: “Tranquillo esce con le ossa rotte”. Fusi chiede: “Hai foto?”.

 L’altro conferma: “Ora mi faccio mandare”. Rispetto a questa vicenda, come già detto, Cerioli non è indagato e risulta casomai come vittima del gruppetto. Di più: gli obiettivi di utilità non sono stati perseguiti. Almeno questo emerge dai riscontri degli inquirenti.

Di certo c’è che tra ottobre e novembre 2020, Borelli indosserà i panni del medico operando lui stesso, e senza averne la minima specificità sanitaria, decine di tamponi sia all’interno del Monza calcio sia soprattutto all’interno della Madonnina, dove lo stesso Fusi lavora. Questa vicenda, stando agli atti della Procura, non è collegata all’incontro del Westin Palace. Lo è invece al ruolo di Fusi e al suo circuito relazionale. Sarà Fusi a dare indicazioni a Borelli: “Uno alla volta li fai entrare, inizia a fare tranquillamente tu”. Borelli, indagato per esercizio abusivo della professione (capo per cui non sono state disposte misure cautelari) chiede: “Ma tu vieni?”. Fusi: “Alfonso (addetto alla reception della clinica) ti dà lo studio in fondo, dai meno nell’occhio, ti prego”.

I tamponi Covid e la escort: spunta il medico del Milan dall’inchiesta sui clan tra Monza e Varese. Federico Berni e Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera l’1 aprile 2023

Il fisiatra Cristiano Fusi intercettato. La trappola hard in un hotel milanese di lusso fu tesa a un manager ospedaliero per poi tenerlo «sotto scacco» per le forniture di materiale anti-Covid 

La trappola scatta nella splendida cornice di un hotel milanese di lusso. È la fine del 2020, e l’Italia è prigioniera dell’ondata pandemica. La vittima del ricatto è un manager di un istituto del gruppo ospedaliero San Donato. Ad aspettarlo, in stanza, c’è una escort già pagata. «Lui è il principino ma da oggi pomeriggio il principino è sotto scacco, eh?». «Esce con le ossa rotte». L’incontro hot — che sarebbe stato documentato con delle fotografie — doveva infatti essere un’assicurazione per la buona riuscita dell’operazione. E cioè quella d’inserirsi nella ricca macchina delle forniture di materiale anti-Covid (mascherine e camici monouso) per l’istituto ospedaliero. È questo l’obiettivo di Gianluca Borelli, già pregiudicato per bancarotta, e di Cristiano Fusi, medico delle giovanili del Milan, con uno studio alla clinica milanese Madonnina, entrambi indagati.

L’episodio spunta fuori dall’inchiesta della Dda milanese su una serie di personaggi ritenuti vicino ai clan di ‘ndrangheta di Legnano, Lonate Pozzolo (Varese) e Vibo Valentia. Ma l’indagine dei nuclei di polizia economico finanziaria della Gdf di Varese e Milano insieme ai Nas, coordinati dai pm Alessandra Cerreti e Silvia Bonardi, già due anni fa aveva incrociato la figura del fisiatra Fusi. E sempre per questioni legate alla pandemia. All’epoca la procura s’era attivata per capire l’attendibilità dei risultati «anomali» dei tamponi fatti da Fusi sui calciatori della società Monza Calcio (estranea ad ogni ipotesi d’accusa). Il sospetto di una possibile gestione «opaca» dei controlli da parte del team medico di Fusi non ha però trovato poi riscontri.

Nella sua attività lavorativa il fisiatra in alcune occasioni si sarebbe affidato a Gianluca Borelli — ritenuto dai pm «uomo cerniera» con ambienti del crimine organizzato — per eseguire i tamponi, pur non essendo Borelli un medico. «Uno alla volta li fai entrare», spiegava Fusi a Borelli, che talvolta veniva presentato come collega o collaboratore del medico, «prepara e inizia a fare tranquillamente tu (...). Fatti dare il locale (...) dai meno nell’occhio ti prego». Fusi e Borelli dovranno rispondere di questi episodi di sfruttamento della prostituzione e di esercizio abusivo della professione. «Per quanto riguarda la posizione del dottor Fusi, nulla è cambiato rispetto al 2020, quando è iniziata l’indagine, e la conferma è data dal fatto che, ad oggi, il mio assistito non è stato destinatario di alcun provvedimento», fa sapere l’avvocato Ivan Colciago, che difende il medico insieme al collega Raffaele Della Valle. Il gip di Milano ha infatti negato il suo arresto chiesto dalla procura.

Nella stessa inchiesta sono finite in manette sei persone accusate di svuotare società in crisi con distrazioni milionarie, girando parte dei soldi alle famiglie di boss e affiliati detenuti. Lo schema prevedeva di usare come bancomat le aziende acquistate prima di dichiararne il fallimento, svuotandole attraverso l’emissione di false fatture, con danni ai creditori, tra cui l’Erario. Un meccanismo che aveva permesso di distrarre oltre 4 milioni di euro dai conti correnti di tre società poi dichiarate fallite dai Tribunali di Milano, Bergamo e Monza. Le somme venivano destinate, sotto forma di pagamenti di fatture per operazioni inesistenti, ad altre imprese del gruppo e poi prelevate e restituite in contanti.

«Tanto la ditta è scoppiata già», si sente dire al telefono il 54enne Enrico Barone, finito in carcere e considerato figura «con ruolo di assoluto rilievo nel sodalizio criminale — scrive nell’ordinanza il gip Tiziana Gueli — dedito alla commissione di reati di natura tributaria e fallimentare». In un’altra intercettazione, sempre Barone sembra prevedere il suo stesso arresto: «Adesso verranno un giorno qua con l’elicottero a prenderci». 

Estratto dell'articolo di Andrea Camurani per milano.corriere.it il 31 marzo 2023.

Prendevano di mira società in difficoltà, le acquistavano, e le svuotavano del patrimonio. Ma non si trattava di semplici bancarottieri secondo la direzione distrettuale antimafia di Milano, dal momento che le sei persone finite in manette sono accusate di un’attività criminale vicina ai «locali» di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo e Legnano, attive fra Varesotto e Milanese, e di Vibo Valentia, in Calabria.

 […] 

Grazie ai software in uso alla Finanza sono state ricostruite operazioni distrattive di denaro per oltre 4 milioni di euro, dai conti correnti di tre società dichiarate fallite dai tribunali di Milano, Bergamo e Monza, somme che risultano drenate a favore di altre imprese del gruppo, anche localizzate in territorio estero, sotto forma di pagamenti di fatture per operazioni inesistenti.

 Secondo le accuse, inoltre, il gruppo criminale aveva anche interessi ramificati nel settore della sanità lombarda, in relazione alle attività connesse all’emergenza sanitaria da Covid 19, con particolare riferimento a forniture di materiale sanitario ed esecuzione di tamponi da parte di soggetti non autorizzati.

 […]

Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati circa 200 mila euro in contanti rinvenuti grazie ad un cash dog, ossia ad un cane addestrato, ed è stata trovata anche una lettera di sostegno a uomini del clan dei Mancuso.

 Nell'inchiesta spunta anche un'imputazione di sfruttamento della prostituzione nell'inchiesta. Uno degli indagati, Gianluca Borelli, presunto «uomo cerniera» tra i clan e il medico Cristiano Fusi, avrebbe organizzato «un incontro» tra una prostituta e un dirigente d'azienda, non indagato, in un hotel di Milano per far partire trattative per forniture di «materiale per Covid».

L'inchiesta dei pm Cerreti e Bonardi è nata da un primo capitolo noto del dicembre 2020 sulla gestione, ritenuta «opaca», dei tamponi ai giocatori del Monza Calcio, che erano anche stati sequestrati. E che vedeva già al centro proprio Borelli (indagato), pregiudicato per bancarotta, e Cristiano Fusi (indagato), primario della clinica monzese Zucchi e anche ex medico del settore giovanile del Milan, oltre che del Monza.

[…] Tra i quasi 60 capi di imputazione contenuti nell'ordinanza, firmata dal gip Tiziana Gueli […] c'è anche quell'incontro «organizzato» da Borelli e Fusi tra il manager di un istituto del Gruppo San Donato e una giovanissima prostituta, pagata 500 euro, in un albergo di lusso di Milano. E ciò in cambio, scrivono i pm, della «utilità consistente nell'avvio di trattative» con l'istituto clinico «finalizzate alla stipulazione di contratti aventi ad oggetto la fornitura di materiale per Covid 19», tra cui mascherine e camici.

In una telefonata del settembre 2020 Fusi, parlando con Borelli e riferendosi al manager, diceva: «Lui è il principino ma ... da oggi pomeriggio il principino è sotto scacco, eh?». E una terza persona, che aveva contattato la ragazza e prenotato la camera d'albergo, diceva: «Speriamo! Dobbiamo chiudere l'operazione». Tra l'altro, si legge ancora, questa terza persona, ossia Josef Amini, avrebbe anche avuto «documentazione fotografica dell'incontro da utilizzare per il conseguimento dell'utilità». E scriveva in una chat: «Tranquillo esce con le ossa rotte». E Fusi rispondeva: «Hai foto?».

Le corsie oscure del Covid. Panorama (Di giovedì 23 marzo 2023) Pazienti anziani lasciati da soli nei reparti, legati ai letti perché non c’era sufficiente personale per poterli assistere, «accompagnati» a morire nei casi più disperati. È quanto rivelano a Panorama alcune infermiere che, in pandemia, lavoravano negli ospedali o nei centri vaccinali. Dove, affermano, si somministravano anche sieri scaduti. Gli anziani venivano legati al letto. L’ordine era entrare nelle stanze Covid il meno possibile. In tanti sono morti così. Senza il conforto di una persona cara. In solitudine». Marina non fa più l’infermiera. Ha smesso. Le era diventato insopportabile eseguire ordini che lei ritiene «disumani». «Ero come una carceriera. Mi sentivo impotente». La sua testimonianza non rientra nelle oltre duemila pagine, depositate le scorse settimane dalla Procura di Bergamo sulla gestione dei primi giorni di pandemia in Val Seriana. Arriva dopo ...

Estratto dell'articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – Roma” il 27 marzo 2023.

 Un’azienda importa milioni di mascherine di qualità in piena pandemia e viene penalizzata dalla struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri. Un’altra società, nello stesso periodo, importa prodotti di pessima qualità - come segnalato in fase di sdoganamento - e la struttura commissariale gli costruisce ponti d’oro per distribuire le mascherine nel Paese. Un doppiopesismo sospetto che ha portato la procura di Roma ad indagare Arcuri per abuso d’ufficio, salvo poi chiedere l’archiviazione per mancanza di “dolo intenzionale”.

[...] anche se la vicenda probabilmente non approderà a processo, tanti sono i punti interrogativi di questa storia che merita di essere raccontata. Anche perché la stessa società ingiustamente danneggiata, la Jc Electronics, si prepara a chiedere un risarcimento miliardario allo Stato.

 [...] Una bocciatura avvenuta a causa di una svista da parte della stessa struttura commissariale che si era dimenticata di inoltrare al Cts i documenti che la Jc gli aveva inviato e che testimoniavano che le Ffp2 e le Kn95 importate avevano superato con successo tutti i test.

Cosa accade quindi? Il Cts formula un parere di diniego di validazione: le mascherine non vanno bene. Arcuri, che ha in mano la risposta del Cts, impugna il contratto e annulla la commessa. Tuttavia Jc aveva già importato le mascherine e aveva anticipato le spese milionarie. Ma soprattutto, quel maledetto luglio del 2020, Jc viene estromessa dalla struttura commissariale senza che le venga chiarito il motivo dell’esclusione, cosa che le avrebbe permesso di far notare che la documentazione che attestava la qualità dei prodotti era stata mandata via pec. [...] 

 A compiere l’errore era stato Antonio Fabbrocini, responsabile unico del procedimento per la struttura commissariale che non aveva inoltrato la mail della Jc al Cts condannando la società a perdere la commessa milionaria e il Paese, in quel momento affamato di mascherine, ad avere prodotti di qualità.

Tuttavia nello stesso periodo accade qualcosa di singolare. A spiegarlo è il nucleo di polizia valutaria della guardia di finanza nell’informativa finale: « La scrupolosità seguita dalla struttura commissariale per le mascherine della Jc non sembrerebbe essersi registrata con gli acquisti in Cina delle mascherine fatte dalla stessa struttura con la mediazione del giornalista Rai Mario Benotti. In particolare, le mascherine importate da Benotti presentavano delle criticità sia in fase di sdoganamento che in relazione all’autenticità delle certificazioni».

 [...] La commessa gestita da Benotti, 1 miliardo e 200 milioni di euro per ottocento milioni di mascherine quasi tutte farlocche, ha portato la procura a chiudere un’indagine con accuse a vario titolo di abuso d’ufficio, frode in pubbliche forniture e traffico di influenze nei confronti di Arcuri, il suo braccio destro Fabbroncini e per il mediatore Benotti. [...] 

Le spese folli dell’ospedale Covid di Bari: «Emiliano era sempre in cantiere, decise tutto lui». A Report parla l’ingegnere arrestato: l’inchiesta sugli appalti della Protezione civile pugliese. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 9 aprile 2023.

Come è stato possibile che l’appalto da 9,8 milioni di euro per l’ospedale Covid della Fiera del Levante sia arrivato a costare 25 milioni? Domani sera su «Rai3» (21,25) Report mette le mani nello scandalo degli appalti della Protezione civile pugliese gestiti dall’ex dirigente Mario Lerario, provando a rispondere alla stessa domanda intorno a cui ruota anche l’indagine della Procura di Bari: come sono stati spesi i soldi dell’emergenza? A dare la sua versione è Antonio Mercurio, responsabile dell’appalto dell’ospedale, secondo cui i tecnici erano meri esecutori e le scelte sull’appalto provenivano da altri: «Emiliano era sempre lì, quindi era come se era lui il direttore dei lavori. Chiunque mastichi di amministrazione pubblica non può immaginare che lo decida un dirigente o un funzionario. È un indirizzo politico che viene dato. Emiliano già da allora voleva un ospedale più duraturo. Quello di Milano erano due pareti messe nei padiglioni, non erano climatizzati, non erano...».

L’inchiesta di Report, firmata da Walter Molino, si intitola «La Manzetta». E passa non a caso da una macelleria di Noci, quella dove è stata tagliata la carne in cui l’imprenditore Donato Mottola nascose i 20mila euro di tangente destinate a Lerario...

Tangenti Protezione Civile, Lerario ora rischia sei anni: «Ho sbagliato, ero stressato». Le richieste di condanna della Procura per l’ex capo della protezione civile pugliese. Sentenza il 23 marzo. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 marzo 2023.

«Ero solo in tutta la Regione a fronteggiare il covid. Ero stressato da un carico di lavoro enorme. Non mi sono reso conto della gravità di quello che ho fatto». L’ex capo della Protezione civile, Mario Lerario, ha affidato a un memoriale la sua difesa davanti al gup di Bari, Alfredo Ferraro, per rispondere dell’accusa di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio: due tangenti da 10 e 20mila euro prese da altrettanti imprenditori, a fronte delle quali la Procura ha chiesto, per il 50enne ex dirigente della Regione, la condanna a sei anni di carcere. La sentenza è prevista per il 23 marzo.

Lerario ieri era in aula insieme all’imprenditore Luca Leccese, che come lui ha scelto il rito abbreviato (la Procura ne ha chiesto la condanna a 4 anni), mentre l’altro imprenditore Mottola è a giudizio con il rito ordinario. L’ex dirigente di Acquaviva delle Fonti, arrestato in flagranza il 23 dicembre 2021 e tuttora ai domiciliari, è apparso estremamente provato, molto dimagrito, con i capelli totalmente bianchi. «Sono riuscito a gestire l’emergenza covid nonostante l’enorme lavoro di quei mesi. Ammetto di essere stato superficiale, ma alla base di quello che ho fatto non c’era nessun accordo corruttivo», è il succo della dichiarazione depositata in udienza da Lerario, che già in precedenza aveva ammesso le dazioni. Il suo avvocato, Michele Laforgia, ha sollevato una questione di nullità del procedimento (il «no» alla richiesta di integrazione documentale costituirebbe una violazione al diritto della difesa), e ha poi sostenuto che non ci sarebbe correlazione tra le tangenti e gli affidamenti contestati, chiedendo dunque la riqualificazione dell’accusa nella più lieve corruzione impropria.

«Dalle indagini emerge una storia totalmente opposta rispetto a quanto ha scritto Lerario – ha detto però il procuratore aggiunto Alessio Coccioli, intervenuto insieme al procuratore Roberto Rossi con cui sta conducendo le indagini sugli appalti della Protezione civile -. Lerario non sembrava affatto stressato, anzi era molto attento alle intercettazioni. E in ogni caso le sue giustificazioni non valgono ad escludere il comportamento illecito che è stato tenuto». L’accusa ritiene che a fronte delle due tangenti (quella da 20mila euro inserita da Mottola in un pacco di carne, quella da 10mila consegnata in auto da Leccese e che gli è costata l’arresto in flagranza), Lerario avrebbe truccato almeno cinque appalti per 2,8 milioni a favore di Leccese (difeso dall’avvocato Gianluca Ursitti) e altrettanti per 2,5 milioni a favore di Mottola, affidando loro lavori che non avrebbero potuto avere. La Regione, parte civile con l’avvocato Rita Biancofiore, vuole dai tre imprenditori un risarcimento complessivo da 7,5 milioni di euro in cui è incluso anche il danno di immagine: ieri ha chiesto una provvisionale da un milione. A Lerario la Procura di Bari contesta anche una ulteriore mazzetta da 35mila euro, per la quale due settimane fa sono finiti ai domiciliari l’ex funzionario regionale Antonio Mercurio e l’imprenditore Antonio Illuzzi.

Tangenti Protezione Civile Puglia, ex dirigente Mario Lerario condannato a 5 anni e 4 mesi. È accusato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio: due tangenti da 10 e 20mila euro prese da altrettanti imprenditori. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 marzo 2023.

L’ex capo della Protezione civile pugliese, Mario Lerario, è stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione dal gup di Bari, Alfredo Ferraro. È accusato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio: due tangenti da 10 e 20mila euro prese da altrettanti imprenditori, accuse a fronte delle quali la Procura (con il procuratore Roberto Rossi e l'aggiunto Alessio Coccioli) aveva chiesto la condanna a sei anni. Quattro anni è la condanna per l'imprenditore Luca Ciro Giovanni Leccese, che come Lerario aveva scelto il rito abbreviato.

Lerario e Leccese (che restano ai domiciliari) sono stati condannati all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e al divieto permanente di contrarre con la pubblica amministrazione, oltre che la confisca dei beni sequestrati. Per Lerario è stata disposta anche la cessazione del rapporto di lavoro con la Regione (già avvenuta). Entrambi gli imputati sono stati poi condannati a risarcire la Regione (costituita con l'avvocato Rita Biancofiore), con il pagamento delle spese legali. 

Lerario si era difeso attraverso un lungo memoriale, in cui ha parlato anche di "pressioni" per effettuare rapidamente determinati appalti.

IL COMMENTO DELLA DIFESA

«Vedremo le motivazioni della sentenza, che saranno depositate in tre mesi. Il giudice ha ridimensionato sia pure di poco la richiesta della Procura». E' il commento dell’avvocato Michele Laforgia, difensore di Mario Lerario, l’ex dirigente della Protezione civile della Regione Puglia condannato oggi a 5 anni e 4 mesi di reclusione dal Tribunale di Bari per di corruzione.

«E' una sentenza che mi sembra abbastanza equilibrata - ha aggiunto - anche se ci sarebbe da discutere di alcune questioni di diritto».

«Il mio assistito è detenuto agli arresti domiciliari da più di un anno - ha spiegato Laforgia - è una persona provata da una situazione non semplice, ma ha preso la condanna con dignità, come ha sempre preso questa sfortunata vicenda da quando si è verificata». Ai giornalisti che gli hanno chiesto se sia in programma una istanza di revoca dei domiciliari, Laforgia ha risposto che «non abbiamo ancora deciso se presenteremo istanza di revoca della misura, dobbiamo vedere bene il dispositivo, poi faremo un ragionamento dal momento che c'è un lungo periodo di detenzione già sofferto che si computa sulla pena finale».

Covid: quello che i politici sapevano e che oggi negano. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2023.

Nella decisione di archiviare le accuse di ritardo nelle misure per arginare il Covid contro l’allora premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il Tribunale dei ministri scrive: «Non è neppure astrattamente ipotizzabile che il Governo, in un determinato giorno e sulla base di determinate informazioni, fosse tenuto ad assumere determinate misure restrittive, trattandosi di una valutazione che al più può essere fatta a posteriori (…)». Questo passaggio della sentenza, che risale al maggio 2021 ma che è diventata pubblica in concomitanza della recente chiusura delle indagini per epidemia colposa della procura di Bergamo, è destinata ad alimentare un’obiezione che, come sottolinea Paolo Giordano sul Corriere della Sera del 13 marzo, viene ripetuta ovunque: «Non ha alcun senso cercare delle responsabilità per un momento in cui non si sapeva nulla, in cui la situazione era assolutamente nuova e comunque nessuno aveva capito».

Questo è ciò che sostengono i politici direttamente coinvolti. Ma è davvero così? No

Per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio basta leggere i documenti relativi a quei drammatici giorni e in possesso di chi deve decidere, oltre alle e-mail che ricostruiscono le ore a ridosso della diagnosi a Codogno del Paziente 1. Quel 20 febbraio cosa si sa? Rispondere a questa domanda è un modo per circoscrivere un punto fermo sull’evento che più di ogni altro dalla Seconda guerra mondiale ha segnato la nostra collettività. Abbiamo già svelato i contenuti del Piano segreto che il ministro Speranza voleva tenere riservato, chiamato tecnicamente «Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19» (qui): sono indicati degli scenari che definiscono, in base alla velocità di diffusione del virus, le conseguenze in termini di contagi, malati e occupazione dei posti letto in ospedale. Adesso facciamo un passo in più: esaminiamo quali sono gli strumenti indicati per contenere il contagio e cerchiamo di capire se, già quel 20 febbraio c’erano elementi per valutare la loro efficacia.

Il focolaio del distretto di Jiangxi

Il 18 febbraio 2020 c’è la prima versione del Piano. Al suo interno la fotografia di quel che succede in Cina tra il 5 gennaio e il 7 febbraio 2020 nel distretto di Jiangxi. La scatta il matematico-epidemiologo Stefano Merler della Fbk, che sta studiando i dati cinesi da Natale. Vediamola. Il 5 gennaio c’è il primo caso di Covid di una persona di ritorno da Wuhan, l’epicentro della pandemia; l’8 un altro. La velocità di diffusione del virus, che si misura in quante persone un infetto potenzialmente contagia (Rt), supera la soglia di allarme di «1» l’11 gennaio. Al 12 gennaio i casi accertati di cittadini contagiati ma mai stati a Wuhan e, dunque, che si sono infettati nello Jiangxi sono 6 e 8 in totale. Il 19 gennaio l’Rt è tra «2 e 3» e i casi si moltiplicano: il 20 gennaio complessivamente sono 18, il 23 gennaio 37. Il 25 gennaio scattano le chiusure. Il 26 gennaio l’ultimo dato in crescita: 44 casi. Poi la curva si inverte. Da quando l’Rt va sopra 1 a quando torna sotto l’1 in seguito al lockdown passano 18 giorni. Teniamo a mente questo numero che poi capiremo perché è importante. L’esempio, viene sottolineato nel Piano, serve per «contestualizzare il possibile scenario epidemiologico di tipo 1» ossia l’arrivo del virus in Italia con la presenza di un focolaio locale.

Le misure straordinarie indicate per l’Italia

Il 20 febbraio, durante il Cts alla presenza del ministro Speranza, viene illustrato il Piano dove c’è scritto: «Potrebbe essere necessario prendere in considerazione misure di intervento straordinarie (…), come la chiusura delle scuole (reattiva, su base geografica) (…); la quarantena applicata ai nuclei familiari dei casi notificati; la quarantena di aree geografiche in cui la trasmissione di COVID-19 sia fuori controllo; misure di restrizione sulla mobilità».

È l’indicazione da seguire sulla base del modello cinese. Ed è quello che viene fatto per Codogno, come dimostrano le chat del 21 febbraio raccolte dalla procura di Bergamo.

Le chat

Alle 7.09 Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di Sanità, chatta con un gruppo di funzionari: «Oggi sarà una giornata impegnativa. C’è un focolaio in Lombardia. Ma fortunatamente c’è un piano di azione». Alle 7.39 l’allora direttore generale della Sanità della Lombardia Luigi Cajazzo scrive ad Alberto Zoli, membro del Cts nonché alla guida dell’Emergenza-Urgenza lombarda: «Positivi 42 enne con polmonite e moglie del primo malato, donna gravida alla 32 esima settimana». Alle 7.43 la risposta di Zoli: «Ok. Quindi c’è focolaio locale. Si dovrebbe dichiarare il livello 1, ma questo dipende dalla Presidenza del Consiglio». Alle 12.51 Zoli scrive a Brusaferro: «Sta tutto nell’isolamento preventivo OBBLIGATORIO. Quindi scuole chiuse, esercizi pubblici chiusi e tutte le altre disposizioni che hanno adottato i cinesi. Dobbiamo far partire quanto previsto con ORDINANZA al livello 1 del piano illustrato ieri». Alle 12.54 l’annuncio di Brusaferro: «Ministro già firmato ordinanza». A Codogno scatta la Zona Rossa. Commenta Zoli «Molto bene, BRAVI». Il piano, dunque, viene eseguito nei dettagli, e a Codogno si verifica esattamente quel che è successo a Jiangxi.

Il caso Codogno

Lo studio «The impact of non-pharmaceutical interventions on the COVID-19 outbreak in Codogno, Italy» dimostra – questo sì a posteriori – che aver seguito il modello cinese è stata un’ottima decisione. L’11 febbraio l’Rt va sopra «1». Il 14 febbraio 9 casi, il 17 salgono a 20. Tra il 17 e il 20 l’Rt raggiunge il picco massimo a quasi «3». Venerdì 21 viene decisa la Zona Rossa che scatta formalmente il 23. Il 22 febbraio ultimo giorno di casi in crescita: 36. La curva si inverte. Il 2 marzo sono 16, il 6 marzo 9 e il 12 marzo 3. Anche qui a 18 giorni esatti da quando l’Rt supera l’«1» ritorna sotto l’«1».

Cosa non succede dopo

Il 28 febbraio alle 20.46 Merler comunica a Regione Lombardia «le prime stime su Bergamo, praticamente identico a quello di Codogno, prima della Zona Rossa. Il riferimento è al focolaio di Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana dove non scatta invece alcuna chiusura. La non-decisione che porterà all’inchiesta della Procura di Bergamo.

Il resto è ormai Storia. Solo i giudici stabiliranno se le scelte politiche, che giocoforza tengono conto anche degli interessi economici come fa presente il Tribunale dei ministri, possono costituire reato. È invece appurato che le informazioni per agire diversamente ci sono tutte, e senza attendere valutazioni ex post: semplicemente per la Val Seriana non vengono applicati i modelli di Jiangxi e Codogno.

«Che errore affrontare la pandemia di Covid con il diritto punitivo». Angela Della Bella, professoressa di diritto penale alla Statale di Milano, affronta gli eccessi dei Governi nel suo ultimo saggio. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 23 marzo 2023

Angela Della Bella, professoressa associata di diritto penale nell’Università di Milano “La Statale”, è l’autrice di un interessante libro intitolato “Il legislatore penale di fronte all’emergenza sanitaria. Principi penalistici alla prova del Covid- 19” (Giappichelli, pp. 288, euro 39).

Si tratta del primo studio che affronta, in maniera sistematica, con lo sguardo acuto del giurista, il periodo della pandemia, le sue conseguenze nella vita di tutti noi, senza trascurare la presenza di alcuni vuoti normativi.

Della Bella evidenzia come nell’emergenza sanitaria il diritto penale sia entrato in campo nel momento in cui gli Stati hanno deciso di impiegarlo, «più o meno ampiamente, per garantire l’osservanza delle misure di contenimento del contagio, nella consapevolezza che tale osservanza è essenziale per tutelare i soggetti più fragili, la cui vita sarebbe esposta a grave rischio laddove il contagio si diffondesse liberamente».

Professoressa Della Bella, lei parla nel suo libro di “diritto punitivo pandemico”. Di cosa si tratta?

Con l’arrivo della pandemia, la maggior parte degli Stati, compreso il nostro, hanno utilizzato in maniera più o meno ampia sanzioni punitive per i casi di inosservanza delle misure di contenimento del contagio. Nel libro cerco perciò di interrogarmi su quali siano le condizioni e i limiti che si impongono al legislatore nel momento in cui ritenga di utilizzare il diritto penale, o più in generale il diritto punitivo, a tutela della vita e della salute della collettività in un contesto di emergenza sanitaria. Si pensi ai vincoli che derivano al legislatore penale dal principio di legalità, messo in grave torsione nelle situazioni di emergenza. Ma si pensi anche al principio di proporzionalità, in ossequio al quale il legislatore nel realizzare gli obiettivi che si propone deve assicurare il minor sacrificio possibile della sfera individuale dei cittadini: un principio con il quale le scelte punitive in questa materia devono evidentemente misurarsi, posto che l’obiettivo del contenimento del contagio a tutela della vita e della salute della collettività si realizza “a costo” di gravi limitazioni dei diritti e delle libertà del singolo.

Nel nostro ordinamento manca una definizione normativa di “emergenza sanitaria”?

Si, in effetti manca. Diciamo che la definizione può ricavarsi dalla Delibera del Consiglio dei ministri del 30 gennaio 2020, con cui si è dato inizio allo stato di emergenza nazionale nel nostro Paese. In sostanza ciò che caratterizza una “emergenza sanitaria” è la presenza di un “rischio sanitario”, così come definito dal regolamento dell’OMS, ossia un rischio per la vita e la salute della collettività, determinato dalla diffusione di una malattia che si caratterizza per la sua spiccata capacità di propagazione e per la gravità delle patologie che può trasmettere. Una situazione, dunque, nella quale lo Stato è chiamato ad intervenire attraverso misure di contenimento del contagio a tutela della vita e della salute dei cittadini.

Quale “lezione” ha dato la pandemia al legislatore?

La pandemia ci ha colto totalmente impreparati. Direi, dunque, che, volendo fare tesoro dell’esperienza, la principale lezione riguarda la necessità di attrezzare l’ordinamento in vista di nuove e, purtroppo, non improbabili, evenienze epidemiche. Su questo fronte la sfida principale che attende il legislatore è certamente rappresentata da un serio sforzo di riorganizzazione del sistema sanitario e, nello specifico, da una regolamentazione organica del sistema di prevenzione e gestione degli eventi pandemici che sia in linea con le indicazioni provenienti dalle normative sovranazionali. Ritengo, però, e questo sostengo nel mio libro, che all’interno di questo ampio progetto di riforma, debba trovare posto anche la costruzione di un sistema razionale di illeciti amministrativi e penali a tutela della salute pubblica ed in particolare a tutela della funzionalità del sistema sanitario, che, come abbiamo tutti potuto constatare, viene sottoposto a grandissimo stress durante le crisi pandemiche. Si tratterebbe cioè di un sistema di illeciti che sia “pronto all’uso”, nel momento in cui venga in essere una situazione di emergenza sanitaria.

Che caratteristiche dovrebbe avere il sistema al quale lei fa riferimento?

Nel libro cerco di delineare la fisionomia che potrebbe assumere tale sistema. In estrema sintesi, mi immagino un sistema scalare, caratterizzato cioè da una progressione sanzionatoria corrispondente ai crescenti livelli di offensività delle condotte.

Un sistema in cui al primo livello siano collocati gli illeciti derivanti dalla violazione delle misure di contenimento. Ad esempio, gli illeciti per chi viola gli obblighi di isolamento domiciliare nel periodo di lockdown, piuttosto che l’obbligo di indossare la mascherina. Illeciti che dovrebbero essere concepiti come illeciti amministrativi e non penali e ciò anche alla luce delle criticità del ricorso alla sanzione penale, che erano emerse all’inizio della pandemia quando il legislatore pandemico aveva optato per questa soluzione.

L’inchiesta della procura di Bergamo porterà, secondo lei, alla condanna di chi ha gestito l’emergenza sanitaria e viene accusato di epidemia colposa e omicidio colposo?

Non ho evidentemente gli elementi per esprimermi con cognizione di causa, però a pelle concordo con chi ha espresso l’opinione che molto difficilmente sarà un processo che si concluderà con delle condanne. Sia circa la difficoltà di accertare nel processo che, se si fossero adottate determinate condotte, si sarebbe evitata la diffusione del contagio e conseguentemente il surplus di decessi, sia per i dubbi sulla reale configurabilità di un rimprovero colposo in quel drammatico contesto.

Giovanni Fiandaca ha parlato, a proposito dell’inchiesta di Bergamo, di una “metamorfosi giudiziaria” con il prendere corpo del “processo riparatorio, dove il dolore conta più dei reati e dove il potere dei pm non ha limiti”. Cosa ne pensa?

Certamente il bisogno delle vittime di sapere come sono andate le cose, di avere una forma di riconoscimento, non necessariamente monetaria, delle loro perdite è legittimo e merita una risposta. Ma, come dice il professor Fiandaca, occorre poi chiedersi se sia il processo penale il luogo giusto nel quale rispondere a tali aspettative.

Covid: quello che i politici sapevano e che oggi negano. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2023

Nella decisione di archiviare le accuse di ritardo nelle misure per arginare il Covid contro l’allora premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il Tribunale dei ministri scrive: «Non è neppure astrattamente ipotizzabile che il Governo, in un determinato giorno e sulla base di determinate informazioni, fosse tenuto ad assumere determinate misure restrittive, trattandosi di una valutazione che al più può essere fatta a posteriori (…)». Questo passaggio della sentenza, che risale al maggio 2021 ma che è diventata pubblica in concomitanza della recente chiusura delle indagini per epidemia colposa della procura di Bergamo, è destinata ad alimentare un’obiezione che, come sottolinea Paolo Giordano sul Corriere della Sera del 13 marzo, viene ripetuta ovunque: «Non ha alcun senso cercare delle responsabilità per un momento in cui non si sapeva nulla, in cui la situazione era assolutamente nuova e comunque nessuno aveva capito».

Questo è ciò che sostengono i politici direttamente coinvolti. Ma è davvero così? No

Per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio basta leggere i documenti relativi a quei drammatici giorni e in possesso di chi deve decidere, oltre alle e-mail che ricostruiscono le ore a ridosso della diagnosi a Codogno del Paziente 1. Quel 20 febbraio cosa si sa? Rispondere a questa domanda è un modo per circoscrivere un punto fermo sull’evento che più di ogni altro dalla Seconda guerra mondiale ha segnato la nostra collettività. Abbiamo già svelato i contenuti del Piano segreto che il ministro Speranza voleva tenere riservato, chiamato tecnicamente «Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19» (qui): sono indicati degli scenari che definiscono, in base alla velocità di diffusione del virus, le conseguenze in termini di contagi, malati e occupazione dei posti letto in ospedale. Adesso facciamo un passo in più: esaminiamo quali sono gli strumenti indicati per contenere il contagio e cerchiamo di capire se, già quel 20 febbraio c’erano elementi per valutare la loro efficacia.

Il focolaio del distretto di Jiangxi

Il 18 febbraio 2020 c’è la prima versione del Piano. Al suo interno la fotografia di quel che succede in Cina tra il 5 gennaio e il 7 febbraio 2020 nel distretto di Jiangxi. La scatta il matematico-epidemiologo Stefano Merler della Fbk, che sta studiando i dati cinesi da Natale. Vediamola. Il 5 gennaio c’è il primo caso di Covid di una persona di ritorno da Wuhan, l’epicentro della pandemia; l’8 un altro. La velocità di diffusione del virus, che si misura in quante persone un infetto potenzialmente contagia (Rt), supera la soglia di allarme di «1» l’11 gennaio. Al 12 gennaio i casi accertati di cittadini contagiati ma mai stati a Wuhan e, dunque, che si sono infettati nello Jiangxi sono 6 e 8 in totale. Il 19 gennaio l’Rt è tra «2 e 3» e i casi si moltiplicano: il 20 gennaio complessivamente sono 18, il 23 gennaio 37. Il 25 gennaio scattano le chiusure. Il 26 gennaio l’ultimo dato in crescita: 44 casi. Poi la curva si inverte. Da quando l’Rt va sopra 1 a quando torna sotto l’1 in seguito al lockdown passano 18 giorni. Teniamo a mente questo numero che poi capiremo perché è importante. L’esempio, viene sottolineato nel Piano, serve per «contestualizzare il possibile scenario epidemiologico di tipo 1» ossia l’arrivo del virus in Italia con la presenza di un focolaio locale.

Le misure straordinarie indicate per l’Italia

Il 20 febbraio, durante il Cts alla presenza del ministro Speranza, viene illustrato il Piano dove c’è scritto: «Potrebbe essere necessario prendere in considerazione misure di intervento straordinarie (…), come la chiusura delle scuole (reattiva, su base geografica) (…); la quarantena applicata ai nuclei familiari dei casi notificati; la quarantena di aree geografiche in cui la trasmissione di COVID-19 sia fuori controllo; misure di restrizione sulla mobilità».

È l’indicazione da seguire sulla base del modello cinese. Ed è quello che viene fatto per Codogno, come dimostrano le chat del 21 febbraio raccolte dalla procura di Bergamo.

Le chat

Alle 7.09 Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di Sanità, chatta con un gruppo di funzionari: «Oggi sarà una giornata impegnativa. C’è un focolaio in Lombardia. Ma fortunatamente c’è un piano di azione». Alle 7.39 l’allora direttore generale della Sanità della Lombardia Luigi Cajazzo scrive ad Alberto Zoli, membro del Cts nonché alla guida dell’Emergenza-Urgenza lombarda: «Positivi 42 enne con polmonite e moglie del primo malato, donna gravida alla 32 esima settimana». Alle 7.43 la risposta di Zoli: «Ok. Quindi c’è focolaio locale. Si dovrebbe dichiarare il livello 1, ma questo dipende dalla Presidenza del Consiglio». Alle 12.51 Zoli scrive a Brusaferro: «Sta tutto nell’isolamento preventivo OBBLIGATORIO. Quindi scuole chiuse, esercizi pubblici chiusi e tutte le altre disposizioni che hanno adottato i cinesi. Dobbiamo far partire quanto previsto con ORDINANZA al livello 1 del piano illustrato ieri». Alle 12.54 l’annuncio di Brusaferro: «Ministro già firmato ordinanza». A Codogno scatta la Zona Rossa. Commenta Zoli «Molto bene, BRAVI». Il piano, dunque, viene eseguito nei dettagli, e a Codogno si verifica esattamente quel che è successo a Jiangxi.

Il caso Codogno

Lo studio «The impact of non-pharmaceutical interventions on the COVID-19 outbreak in Codogno, Italy» dimostra – questo sì a posteriori – che aver seguito il modello cinese è stata un’ottima decisione. L’11 febbraio l’Rt va sopra «1». Il 14 febbraio 9 casi, il 17 salgono a 20. Tra il 17 e il 20 l’Rt raggiunge il picco massimo a quasi «3». Venerdì 21 viene decisa la Zona Rossa che scatta formalmente il 23. Il 22 febbraio ultimo giorno di casi in crescita: 36. La curva si inverte. Il 2 marzo sono 16, il 6 marzo 9 e il 12 marzo 3. Anche qui a 18 giorni esatti da quando l’Rt supera l’«1» ritorna sotto l’«1».

Cosa non succede dopo

Il 28 febbraio alle 20.46 Merler comunica a Regione Lombardia «le prime stime su Bergamo, praticamente identico a quello di Codogno, prima della Zona Rossa. Il riferimento è al focolaio di Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana dove non scatta invece alcuna chiusura. La non-decisione che porterà all’inchiesta della Procura di Bergamo.

Il resto è ormai Storia. Solo i giudici stabiliranno se le scelte politiche, che giocoforza tengono conto anche degli interessi economici come fa presente il Tribunale dei ministri, possono costituire reato. È invece appurato che le informazioni per agire diversamente ci sono tutte, e senza attendere valutazioni ex post: semplicemente per la Val Seriana non vengono applicati i modelli di Jiangxi e Codogno.

Modena scende in piazza per chiedere verità sulle morti in carcere. Monica Cillerai su L'Indipendente il 14 Marzo 2023

Modena – Centinaia di persone hanno manifestato domenica per ricordare le nove morti avvenute nel carcere di Santa Maria, l’8 marzo 2020. Quella che fu, per la piazza, una “strage di Stato”, e che in effetti – proprio come molte stragi della storia repubblicana – ha visto l’indagine giudiziaria che avrebbe dovuto fare luce sui fatti prematuramente archiviata. Un corteo che è stato anche contro le condizioni carcerarie e in favore della lotta contro il 41-bis portata avanti da Alfredo Cospito, detenuto anarchico al carcere duro in sciopero della fame da più di 4 mesi. Tanti gli interventi, gli slogan, le canzoni, la musica; tanta la rabbia di chi chiede giustizia per morti che rischiano di venire dimenticate. 

Nonostante l’ingente schieramento delle forze dell’ordine, più di 400 persone hanno attraversato le strade della città fermandosi a fare un lungo saluto ai detenuti del carcere modenese, con interventi e musica. Fuori dal carcere è stata anche installata una cella delle dimensioni previste per i sottoposti al regime del 41-bis, dove poter entrare per capire sulla propria pelle cosa significhi vivere il carcere duro. Pochissimi metri quadri per camminare, assenza quasi totale di luce. «Questa è tortura di Stato», dicono i manifestanti. «Siamo scesi in piazza per pretendere verità e giustizia sulle morti in carcere, per denunciare le condizioni delle carceri, per l’abolizione dell’ergastolo e del 41-bis e per fermare la repressione nei confronti del dissenso e delle lotte sociali». Molte le istanze del corteo dove erano presenti anche associazioni antifasciste modenesi, collettivi anarchici, sindacati di base (SI Cobas).

Notte tra il 7 e l’8 marzo 2020, nel pieno della prima ondata pandemica. Giuseppe Conte firma il decreto che chiude tutto, in Lombardia così come in 14 province del centro-nord, compresa Modena. Obbligo di evitare ogni spostamento, invito a non uscire di casa e al distanziamento sociale: inizia il lockdown. Dentro le celle, così come gli italiani a casa, i detenuti assistono al flusso televisivo che invita perentoriamente a mantenere le distanze e indossare le mascherine. Il terrore del contagio è alle stelle. 

Fuori la direttiva è stare a metri di distanza fisica. Nelle carceri italiane, dove il sovraffollamento è la normalità da anni, le misure preventive alla diffusione del virus non esistono. Anzi, aumenta la repressione contro i detenuti. Bloccano anche i colloqui, una dei pochi spazi di socialità possibili, proprio l’8 marzo 2020. Nelle carceri si diffonde il terrore del contagio e la paura per i cari che si trovano fuori, amplificata dall’impossibilità di vederli.

Negli istituti penitenziari di tutta Italia scoppiano le proteste più forti degli ultimi decenni. Tra il 7 e il 10 marzo, in moltissime carceri italiane si alzano voci di dissenso che finiscono in rivolta. Tre detenuti muoiono a Rieti, e uno a Bologna. Poi, il caso più grave: Modena. 

A Modena i detenuti erano 546, i posti ufficiali 369. Il 7 marzo il primo contagio. Esplode la rabbia. Il carcere è messo sottosopra, una grande parte viene resa inagibile. E lì, i primi morti. Gli altri decessi, i giorni successivi. Alla fine dei quattro giorni di sommossa il conto totale è di 13 cadaveri. Per la giustizia è stata tutta colpa del metadone. Per associazioni, detenuti e famigliari, la dinamica sarebbe ancora da indagare. Si chiede risposta sulle omissioni di soccorso, sulle violenze, sulle mancate cautele.

Su vari dei corpi dei morti infatti ci sono escoriazioni, ecchimosi, ematomi. Mancano denti. Costole incrinate, fratture. Due giorni dopo muore anche Salvatore Piscitelli, trasferito nel carcere di Ascoli Piceno in seguito alle rivolte. Tutti, secondo la procura, morti per overdose, per aver ingerito troppi farmaci rubati dall’infermeria. 

A giugno del 2021 viene diffuso in video dei pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Poi si parla delle spedizioni punitive testimoniate da molti dei detenuti trasferiti. Botte, vessazioni, minacce. Abusi di vario tipo usati come metodo repressivo diffuso. Una vendetta dello stato, e un invito a tacere su ciò che era successo. Si riapre il dibattito, ma solo per poco. Il 16 giugno 2021 l’indagine sulle morti di Modena viene archiviata.

In due pagine e mezzo il giudice sancisce l’assenza di responsabilità del personale penitenziario e medico della struttura. Resta l’indagine contro i detenuti, indagati per devastazione e saccheggio. Per i morti, cala il silenzio. I loro parenti domenica erano a Modena per chiedere verità e giustizia, la verità ufficiale non può accontentarli. Non ci crede Najet Ben Salah che suo marito sia morto di overdose nel carcere di Modena. È sicura che lo abbiano ucciso durante la rivolta. «Qualunque cosa sia successa a mio figlio, la considero responsabilità dello stato italiano». dice la madre di un altro dei ragazzi morti al Sant’Anna. In Tunisia la procura ha avviato un’indagine per sospetto omicidio, per la morte di alcuni suoi concittadini durante le rivolte. Ma in Italia, per i morti di Modena, l’indagine è chiusa.

Nel 2022 sono 84 le persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane, il numero più alto da quando vengono registrati questi dati, nel 2000. Un suicidio ogni 5 giorni. Il sovraffollamento è alle stelle, la mancanza di speranza che porta alla disperazione altissima. Sempre più numerosi i processi aperti per tortura e lesioni a carico di agenti della polizia penitenziaria, accusati di sevizie contro i detenuti a Ferrara, San Gimignano, Torino, Palermo, Milano, Melfi, Santa Maria Capua Vetere, Pavia, Monza, Ivrea. Un sistema di violenze diffuso, di fronte al quale la retorica delle poche mele marce non regge più.

«Fuori Alfredo dal 41 bis! Fuori tutti dal 41 bis!». Presente a Modena questa domenica anche la questione di Alfredo Cospito e la lotta che porta avanti il detenuto contro il 41-bis e l’ergastolo ostativo. Cospito è in sciopero della fame contro la sua detenzione al carcere duro dal 20 ottobre scorso. Il regime duro del 41-bis prevede regole durissime, finite nel mirino anche di istituzioni internazionali. La Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU) ha stabilito che è in contrasto con tre articoli della Convenzione. Nel 2003 Amnesty International ha stabilito che il 41-bis equivale a un trattamento del prigioniero “crudele, inumano e degradante”. Celle minuscole, censura della posta, impossibilità di leggere e scrivere ciò che si desidera; ore di socialità ridotte al minimo, colloqui coi famigliari praticamente inesistenti. Le condizioni fisiche di Cospito sono sempre più critiche, e il rifiuto prima della classe dirigente e poi della Cassazione di declassarlo dal 41-bis ne ha di fatto sancito la condanna a morte. Cospito continua nel suo sciopero della fame, e continuano le iniziative in tutta Italia in sua solidarietà.

«Quando sentimmo dei morti di Modena, nessuno credette alla storia delle overdosi. Perché intorno a noi vedevamo cos’era la repressione», dice Nicoletta Dosio alla manifestazione di domenica. Lei era in carcere nei mesi successivi per la lotta No Tav. Alfredo Cospito è condannato per strage, e rischia l’ergastolo in 41-bis per degli ordigni che esplosero di notte non uccidendo né ferendo nessuno. Mentre delle 13 morti nelle carceri italiane del 2020, di quelle morti di stato, così come delle continue morti nel Mediterraneo, non se ne parla già più. [di Monica Cillerai]

Covid, perché abbiamo diritto alla verità (anche parziale). Paolo Giordano su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2023.

Paolo Giordano e le inchieste sul Covid: “Tutti noi possiamo pretendere un resoconto condiviso e il più possibile coerente: ci è necessario per non ricadere, in futuro, nelle stesse scelte, in errori analoghi”

 Soffriamo di una forma di incredulità retroattiva. Ripensando alle prime settimane di Covid nel 2020 e agli oltre due mesi di lockdown successivi, la nostra memoria sembra restringersi attorno a pochi eventi ripetuti. Le ragioni sono svariate, ma nell’evocare l’inizio della pandemia la mente si trova a fronteggiare almeno due ostacoli simultanei: ridare forma a qualcosa di così fuori dall’ordinario, e scandire un tempo che non era affatto scandito, un tempo privato di stimoli e uguale a sé stesso, giorno dopo giorno dopo giorno.

Il risultato è un impoverimento del ricordo, unito a questo senso di incredulità. Chi ha attraversato la primavera del 2020 senza subire conseguenze personali drammatiche, senza lutti, può arrivare perfino a parlarne oggi come di un periodo abbastanza felice (non lo è stato).

È per via di questa predisposizione psichica che l’annuncio dell’inchiesta sul primo periodo epidemico è stata accompagnata da uno scetticismo diffuso. Scetticismo, e forse perfino disinteresse, insofferenza. L’inchiesta arriva in controtempo rispetto alle nostre emozioni, ormai così distanti dal covid, fin dall’inizio si è sentito che non andrà a parare da nessuna parte e l’archiviazione da parte del tribunale dei ministri non ha fatto che confermare questo sospetto. Quanto alla commissione parlamentare, promessa dalla presidente del consiglio nel suo discorso d’insediamento e incoraggiata anche da altri schieramenti, ha un sapore decisamente troppo politico, opportunistico.

Eppure, al di là di questa ritrosia istintiva, un elemento del dibattito dei giorni scorsi mi ha stranito: l’obiezione comune, ovunque ripetuta, che non abbia alcun senso cercare delle responsabilità per un momento in cui «non si sapeva nulla», in cui la situazione era «assolutamente nuova» e comunque «nessuno aveva capito». Tutte affermazioni che incoraggiano un condono frettoloso, universale e acritico: se non si sapeva nulla, era impossibile commettere errori; se nessuno capiva, nessuno fu responsabile. Peccato che non sia andata così. I giorni del 2020 fra la fine di febbraio e la chiusura nazionale del 9 marzo sono stati senza dubbio frenetici e confusi, ma la gravità delle circostanze era chiara a molti, soprattutto alle persone competenti in materia. Tornare con onestà al livello di conoscenza di quel momento, come molti invitano a fare per guardare l’inchiesta dal verso giusto, significa anche tornare al livello di tutto ciò che non si poteva ragionevolmente escludere, perché la conoscenza è fatta tanto di pieni quanto di vuoti, e una gestione assennata dovrebbe tenere conto di entrambi.

In più, che l’epidemia in Italia fosse in fase espansiva ed esponenziale, era chiaro almeno dalla fine di febbraio. Questo unico dato, insieme al fatto che il virus, quello sì, fosse «assolutamente nuovo» per la specie umana, e mortale, erano indicazioni sufficienti per l’adozione delle misure più stringenti in assoluto contro il diffondersi del contagio, ovunque. Che queste misure stringenti non siano state adottate in fretta quanto si poteva, che ciò sia successo con disomogeneità irragionevoli anche fra territori contigui, e seguendo procedure contorte, non fu conseguenza del fatto che «non si sapeva nulla». Fu conseguenza, semmai, di un rifiuto dell’enormità degli eventi, quando quegli eventi erano ancora invisibili o appena visibili (una reazione difensiva, comprensibile almeno a livello psicologico, che avremmo visto ripetersi ancora a due anni di distanza). Fu conseguenza delle competenze pregresse molto scarse dei decisori politici in tema di salute pubblica, della loro ridotta abitudine all’ascolto dei pareri scientifici (chi doveva, dopo aver guardato, decidere, ha impiegato del tempo solo per capire dove guardare). Fu dovuto all’assenza di un metodo a cui affidarsi nella raccolta e nella trasmissione delle informazioni rilevanti, e più in generale alla mancanza di una cultura della preparazione. Ma non solo. Quanto è accaduto è stato anche l’effetto – questo non dovrebbe smettere di interrogarci – di una contrapposizione esplicita, evidente già allora: pesare il rischio sanitario rispetto ad altri, distress economico in testa.

Ci sono dettagli di quei giorni che fatico a ricordare, ma ricordo molto bene le conversazioni, i «non si può» e gli «è impensabile che». La ratio iniziale nella gestione della pandemia è stata quella di preservare la normalità socioeconomica al di sopra del resto, e quella ratio è stata mantenuta fino a quando è stato inevitabile rovesciarla, all’improvviso, per mettere in primo piano la tenuta del sistema sanitario. Un approccio che avrà prodotto dei benefici almeno momentanei in determinate aree ma anche un aggravamento decisivo in altre.

Un elemento ulteriore va corretto nel dibattito: i giorni che vanno dal 25 febbraio al 9 marzo 2020 sono pochi numericamente, ma furono giorni molto densi, nei quali anche la consapevolezza del pericolo cresceva in fretta. Trattarli ora come un unico periodo informe di smarrimento è un’altra mistificazione. Se le ipotesi controfattuali, come la stima dei morti evitati nel caso si fosse agito diversamente, sono difficili da sostenere e ci provocano una diffidenza istintiva (soprattutto se si spingono a fornire dei numeri precisi all’unità), ciò non significa che non si possa procedere a una disamina più accurata di quel segmento temporale.

Per molti, la maggior parte di noi per fortuna, il covid rimarrà un trauma senza evento specifico. Ma esiste un sottogruppo di persone, concentrato soprattutto nel nord e ovviamente negli ospedali e nelle strutture di degenza di tutto il paese, per le quali quell’esperienza è stata altro. Ha portato alla scomparsa improvvisa e scioccante di affetti prossimi, letteralmente da un giorno all’altro, e all’impossibilità di elaborarne il lutto. Non esiste e non esisterà mai un punto di vista davvero legittimo dal quale considerare la pandemia che non sia il loro. Per una democrazia moderna e sana dovrebbe essere un automatismo, quello di privilegiare la prospettiva dei più coinvolti, dei più sofferenti. Se ci sono, quindi, delle famiglie a Bergamo, a Nembro e ad Alzano, in tutta la val Seriana, che non si ritengono appagate dal livello di chiarezza fornito fino a qui dalle istituzioni, la loro richiesta non può in alcun modo essere liquidata con la formula dogmatica «nessuno ci aveva capito niente». Ci sono quanto meno una serie di accadimenti da mettere in ordine, ed è doveroso farlo, con spirito equanime e scientifico, non solo per ragioni etiche, né soltanto per rispondere al loro bisogno, ma anche perché ci sono una serie di informazioni rilevanti, in quella narrazione, sui pregi e i difetti del nostro funzionamento come stato.

In un editoriale del 5 marzo, Luigi Ferrarella ha indicato una terza via rispetto a quella penale, probabilmente inadeguata, e a quella dell’oblio, palesemente ingiusta: un processo di «giustizia riparativa, di transizione, post bellica». Mi permetto di aggiungere che un’analisi condotta da esperti imparziali, non solo su quei primi giorni ma anche sull’autunno successivo, possono fornire la base comune per arrivarci. Forse si tratta di una suggestione personale, ma mi sembra che esista, nel nostro paese, una tendenza naturale a lasciare che i drammi collettivi scivolino, per così dire, «verso Ustica». Verso un vuoto di senso, laddove qualcuno avrebbe diritto a una verità, anche incompleta. Tutti noi, in effetti, ne abbiamo diritto: un resoconto condiviso e il più possibile coerente ci è necessario per non ricadere, in futuro, nelle stesse scelte, in errori analoghi. Nessuno sarà così sconsiderato da additare delle singole persone, e nemmeno delle singole forze politiche come colpevoli dell’epidemia in Italia. La responsabilità delle prime morti di covid si perde nel lungo tempo precedente il covid, e in ogni caso è talmente distribuita da polverizzarsi. Ciò non significa, però, che non esista, e che non si debba almeno tentare di raccogliere per bene la polvere. Se l’emotività di molti di noi nel frattempo si è spostata altrove, se siamo stanchi, molto stanchi, questo non è affatto un buon motivo per rinunciare.

Dagospia l’1 marzo 2023. Dalla pagina Facebook di Sigfrido Ranucci

 Covid-19, avvisi di garanzia per Giuseppe Conte, Roberto Speranza, Attilio Fontana e Giulio Gallera. La Procura di Bergamo : “Il disastro si poteva evitare”.

 Secondo i magistrati di Bergamo, guidati dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota, molte vite umane si sarebbero potute salvare se si fossero messe in campo misure di prevenzione e di contenimento tra gennaio e febbraio 2020.

 Tra i destinatari degli atti ci sono l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana e l’ex ministro della salute, Roberto Speranza. Insieme a loro funzionari  e dirigenti chiamati a gestire l’emergenza della pandemia nel nostro paese, come il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, l’ex coordinatore del Cts Agostino Miozzo, l’allora capo della protezione civile  Angelo Borrelli e il presidente del consiglio Superiore di sanità Franco Locatelli, e l’allora direttore dello Spallanzani Giuseppe Ippolito. Per Conte e Speranza gli atti sono stati inviati per competenza al tribunale dei ministri di Brescia.

Due i rilievi dei pm: la mancata istituzione della zona rossa in Lombardia e il mancato aggiornamento e attuazione del Piano Pandemico che si sarebbe dovuto applicare anche a livello regionale come raccontato da Report in numerose inchieste sin dal marzo 2020.

 In oltre due anni di indagini, la procura orobica ha raccolto una mole impressionante di documenti che indicano negligenze e omissioni e dunque una errata gestione dei primi due mesi di Covid, quando dirigenti del Ministero della Salute e della Regione Lombardia avrebbero sottovalutato il rischio. 

In particolare, per la mancata zona rossa di Alzano e Nembro devono rispondere di epidemia colposa aggravata oltre a Giuseppe Conte, e al governatore lombardo Attilio Fontana, anche parecchi membri del Cts come Agostino Miozzo, Silvio Brusaferro, l’ex capo della prevenzione del Ministero della salute Claudio D’amario e l’ex segretario generale Giuseppe Ruocco e l’attuale responsabile delle malattie infettive Francesco Maraglino. Secondo la procura, sulla scorta dei dati di Stefano Merler dell’Istituto Kessler di Trento, si sarebbero dovute attivare misure di contenimento nella bergamasca almeno a partire dal 26 febbraio.

Sul piano pandemico l’inchiesta si sdoppia. A Bergamo si vuole procedere per la sua mancata attuazione nei confronti di Claudio D’Amario, Silvio Brusaferro, Angelo Borrelli e l’ex assessore al welfare della Lombardia Giulio Gallera.

A Roma è invece destinato il filone per il mancato aggiornamento – il piano risaliva al 2006 come scoperto da Report - e vede tra gli indagati per omissione di atti di ufficio oltre ai dirigenti ministeriali Ruocco e Maraglino anche l’ex Oms Ranieri Guerra che a Bergamo è anche indagato per false informazioni ai pm. Gli ex ministri della salute Roberto Speranza, Giulia Grillo e Beatrice Lorenzin sono indagati per l’omessa istituzione o rinnovo del comitato nazionale per la pandemia.

 L'Associazione Familiari Vittime del Covid di Bergamo per mesi ha atteso con apprensione i risultati dell'indagine della magistratura. Report ha svelato prima di tutti la vera data e le carenze del piano pandemico e del ministero della salute in una serie di inchieste di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.

(ANSA il 2 marzo 2023) - Il Governatore lombardo Attilio Fontana avrebbe causato "la diffusione dell'epidemia" in Val Seriana con un "incremento stimato non inferiore al contagio di 4.148 persone, pari al numero di decessi in meno che si sarebbero verificati" se fosse stata "estesa la zona rossa a partire dal 27 febbraio 2020". Lo scrive la Procura di Bergamo in un'imputazione per epidemia colposa di cui risponde anche l'ex premier Giuseppe Conte, la cui posizione è stata trasmessa, però, al Tribunale dei ministri.

L'ex premier Giuseppe Conte, assieme ai componenti del Cts, nelle riunioni del 29 febbraio e 1 marzo 2020, si sarebbe "limitato a proporre (...) misure meramente integrative, senza ancora una volta, prospettare di estendere la (...) zona rossa ai comuni della Val Seriana, inclusi (...) Alzano Lombardo e Nembro nonostante l'ulteriore incremento del contagio", in Lombardia e "l'accertamento delle condizioni che (...) corrispondevano allo scenario più catastrofico". Lo si legge nell'avviso di chiusura dell'inchiesta di Bergamo sulla gestione del Covid in cui Conte è tra gli indagati. (ANSA)-

(ANSA il 2 marzo 2023) - "La motivazione principale mia e della procura è stata restituire agli italiani la verità su quelli che sono stati i processi decisionali che hanno portato a determinate scelte. Con la consulenza è stata fornita una mappa logica su quello che è successo". E' il commendo di Andrea Crisanti, microbiologo all'Università di Padova e ora senatore del Pd, che ha firmato la maxi consulenza depositata ai pm di Bergamo nell'indagine sulla gestione del Covid nella Bergamasca che vede tra gli indagati l'ex premier Giuseppe Conte, l'ex misitro Roberto Speranza e il governatore della Lombardia Attilio Fontana. 

(ANSA il 2 marzo 2023) - "Noi non siamo qui per cercare vendetta: quella che vogliamo è soltanto la verità". In piazza Dante, davanti alla Procura di Bergamo, si sono dati appuntamento stamani i familiari delle vittime bergamasche del Covid-19. "Tra le persone indagate ci sono anche nomi eccellenti - ricordano -, ma a noi questo non interessa: daranno le loro spiegazioni nelle sedi più opportune.

Ognuno si difenderà, ma per noi oggi è importante parlarne. Il perché è semplice: non vogliamo che quello che è successo qui a Bergamo tre anni fa accada ancora". Alcuni familiari - una decina in tutto quelli presenti, visto che la convocazione è avvenuta ieri in serata, in tutta fretta, appena si è diffusa la notizia della chiusura delle indagini da parte della Procura di Bergamo - stringono fra le mani le foto dei familiari scomparsi per il Covid. "Con questa decisione della Procura di Bergamo - aggiungono - si è riconosciuta la dignità nostra come familiari delle vittime e soprattutto delle vittime stesse". (ANSA).

 (ANSA il 2 marzo 2023) - Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità e altri, tra cui componenti del Cts e dirigenti ministeriali, indagati per epidemia colposa assieme anche ad Attilio Fontana e Giuseppe Conte, avevano "a disposizione", almeno dal 28 febbraio 2020, "tutti i dati" per "tempestivamente estendere" la zona rossa anche alla Val Seriana. Erano contenuti nel "Piano Covid elaborato da alcuni componenti del Cts coordinati dal prof. Stefano Merler". Documento che "già prospettava" lo "scenario più catastrofico per l'impatto sul sistema sanitario". Lo scrive la Procura di Bergamo nell'avviso di chiusura indagini

(ANSA il 2 marzo 2023) - Non avrebbe adottato "le azioni per garantire trattamento e assistenza", tra cui "censire e monitorare i posti letto" di "malattie infettive", "non aggiornandoli mensilmente in violazione di quanto previsto dal Piano Pandemico regionale". E' la contestazione di epidemia colposa per l'ex assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera, che compare nell'avviso di conclusione indagini dei pm di Bergamo. Gallera è anche accusato di rifiuto d'atti d'ufficio per la mancata attuazione di quel piano regionale. Lo stesso Gallera non avrebbe verificato "tempestivamente la dotazione di Dpi", tra cui mascherine, tute e guanti, né garantito "l'adeguata formazione del personale sanitario", come previsto anche dal Piano pandemico nazionale, seppur datato al 2006. Condotte che avrebbero, come quelle degli altri indagati per l'epidemia, causato, secondo la Procura, una "diffusione incontrollata" del virus Covid19. Tutte contestazioni, quelle di epidemia colposa ricostruite negli atti, che la Procura fa partire dal 5 gennaio 2020, ossia dal primo allarme lanciato dall'Oms.

(ANSA il 2 marzo 2023) - Il direttore dell'Iss Silvio Brusaferro, nonostante le raccomandazioni e gli alert lanciati dall'Oms a partire dal 5 gennaio 2020 avrebbe proposto "di non dare attuazione al Piano pandemico, prospettando azioni alternative, così impedendo l'adozione tempestiva delle misure in esso previste". Lo scrivono i pm di Bergamo nell'avviso di chiusura dell'indagine sulla gestione del Covid in cui Brusaferro è indagato per epidemia colposa e rifiuto di atti d'ufficio con, tra gli altri, l'ex ministro della Salute Roberto Speranza, Claudio D'Amario ex dg della prevenzione del ministero, e con Angelo Borrelli, ex capo della Protezione Civile.

(ANSA il 2 marzo 2023) - Attilio Fontana con due "distinte mail del 27.2.20 e 28.2.20" chiese "al Presidente del Consiglio dei Ministri" Giuseppe Conte "il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in Regione Lombardia, non segnalando alcuna criticità relativa alla diffusione del contagio nei comuni della Val Seriana", in particolare Alzano Lombardo e Nembro.

Lo scrive la Procura di Bergamo nell'imputazione per epidemia colposa, per la mancata attuazione della 'zona rossa', a carico del presidente lombardo. Non richiese, dunque, "ulteriori e più stringenti misure di contenimento" nonostante, scrivono i pm, "avesse piena consapevolezza della circostanza che l'indicatore 'r0' avesse raggiunto valore pari a 2, e che nelle zone ad alta incidenza del contagio gli ospedali erano già in grave difficoltà per il numero dei casi registrati e per il numero dei contagi tra il personale sanitario". La contestazione per Fontana va "dal 26.2.2020 sino al 3.3.2020", data in cui "nel corso della riunione del CTS Regione Lombardia per il tramite dell'Assessore al Welfare esprimeva parere favorevole all'istituzione della zona rossa".

Estratto da open.online il 2 marzo 2023.

A tre anni di distanza dall’inizio della pandemia da Covid-19, la Procura di Bergamo ha chiuso l’indagine sulla gestione della prima ondata. E ad essere indagati sono molti nomi eccellenti protagonisti di quella drammatica e conclusa fase della vita pubblica italiana – sia a livello nazionale che regionale.

 La Guardia di Finanza ha avviato le notifiche degli avvisi di garanzia per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio a carico di 19 indagati. Tra questi ci sono anche l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente appena riconfermato della Lombardia Attilio Fontana e il suo ex assessore al Welfare, Giulio Gallera. Ma anche i consulenti scientifici principali del governo: il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro; il coordinatore del primo Comitato tecnico scientifico, Agostino Miozzo; l’allora capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli. E poi ancora diversi dirigenti chiave del ministero della Salute, alcuni dei quali tuttora nel pieno delle loro funzioni.

I reati contestati

Per Conte e Speranza, in particolare, i pm contestano i reati di epidemia colposa aggravata e omicidio colposo plurimo. Per l’ex ministro Speranza, anche quello di rifiuto di atti di ufficio. La procura di Bergamo si prepara per loro a trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri. L’inchiesta, condotta da un pool di magistrati guidati dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota e dagli investigatori della Guardia di finanza, riguarda tra l’altro il mancato aggiornamento e la mancata attuazione dei piani pandemici a livello nazionale e regionale, ma anche la rinuncia a istituire alla fine di febbraio 2020 la zona rossa nei Comuni di Alzano lombardo e Nembro.

Estratto dall’articolo di Armando Di Landro per corriere.it il 2 marzo 2023.

Al di là dell’inchiesta della Procura di Bergamo che da mercoledì coinvolge anche l’ex premier Giuseppe Conte e il governatore lombardo Attilio Fontana, ci sono fatti e numeri che raccontano in modo chiaro quanto fu devastante l’epidemia da Covid a Bergamo e in Val Seriana. E come fu gestita. 

 (...)

 La mail alla Regione

Il 28 febbraio il consulente dell’Iss Stefano Merler (ricostruiscono le carte dell’inchiesta) scrive in una mail alla Regione Lombardia che il focolaio di Bergamo sta per superare, quanto a gravità, quello lodigiano. I numeri preoccupano e, per di più, Alzano ha anche un ospedale, dove i primi contagiati sono già spuntati il 22 e il 23 febbraio e dove ci sono molti pazienti con sintomi della polmonite bilaterale interstiziale, pur senza tampone.

 (...)

 Il confronto su una possibile chiusura in realtà non decolla mai. Non ne sono convinti i sindaci dei due Comuni, dove la concentrazione di aziende note anche a livello internazionale è alta. Regione e governo restano alla finestra, ancora in quei giorni Confindustria Bergamo lancia il video #Bergamoisrunning, «messaggio ai nostri partner». Poi si scuserà. La svolta sembra arrivare il 3 marzo, quando a intervenire è il Comitato tecnico scientifico che presenta al governo una nota sui due paesi della Val Seriana: «In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue».

La riunione

Ma non arriva nessuna decisione, nonostante il 4 marzo, durante un incontro in Regione Lombardia, il ministro Roberto Speranza e il governatore Attilio Fontana vengano informati con chiarezza della situazione, come rivela un audio pubblicato dal Corriere nel 2020: è Danilo Cereda, tecnico e matematico ingaggiato da Palazzo Lombardia, a spiegare che quello di Bergamo è ormai il focolaio più grave. Il governo chiede ulteriori chiarimenti, il Cts tenta di insistere. E la zona rossa sembra ormai una partita sbloccata quando da Roma partono i radiomessaggi per un concentramento di forze destinato alla Val Seriana, alle chiusure. Ma non sarà così, nella notte tra il 7 e l’8 marzo il premier Conte punterà su un decreto più generalizzato per la Lombardia e, in Italia, per università, scuole, teatri, cinema.

La bozza e i numeri

Le indagini hanno consentito ai pm di Bergamo di acquisire migliaia di pagine di documentazione. Secondo alcuni atti Conte era stato informato della gravità della situazione a Nembro e Alzano già il 2 marzo. E proprio in quei giorni Speranza aveva firmato una bozza di decreto per imporre la zona rossa. Senza avere grandi riscontri dal resto del governo. Ben presto non era mancata la polemica tra Regione ed esecutivo su chi avrebbe dovuto chiudere la Val Seriana. Responsabilità politiche? O anche penali? Lo dirà l’inchiesta. I numeri, però, restano un fatto: in tutta la provincia di Bergamo 5 mila e 100 morti in più a marzo, mille in più ad aprile, contro medie mensili che solitamente si fermavano a 800.

Inchiesta Covid a Bergamo: Conte, Speranza e Fontana indagati per la mancata «zona rossa». Maddalena Berbenni e Giuliana Ubbiali su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2023.

Chiusa l’inchiesta sulla mancata zona rossa nel 2020: si potevano evitare oltre 4 mila morti. Una ventina sotto accusa

A Bergamo, i morti di Covid venivano portati verso i forni crematori di altre città con i mezzi militari, tanti erano. Quelli certificati, dopo un tampone positivo, furono 3.100, tra fine febbraio e la fine di aprile 2020, ma nello stesso periodo i decessi complessivi in tutta la provincia furono 6.200, di cui più di 5.100 a marzo, contro le precedenti medie mensili che solitamente si fermavano a 800 circa.

La foto dei camion è la più rappresentativa. La pandemia era così imprevista e imprevedibile, senza che si potessero risparmiare vite? Non secondo la Procura di Bergamo, che ha chiuso l’inchiesta per 17 indagati (ma ce ne sono altri, stralciati) con la principale ipotesi di epidemia colposa. Per l’allora premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza gli atti sono diretti a Brescia, al tribunale dei ministri. Per altri, qualcosa andrà a Roma. Ma il centro dell’inchiesta rimarrà a Bergamo.

Tra gli indagati ci sono il presidente della Regione Lombardia appena confermato Attilio Fontana e l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera. Lo sono anche il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro, il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli, l’allora coordinatore del primo Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo, l’allora capo della Protezione civile Angelo Borrelli e l’allora direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito. Anche l’ex capo della Prevenzione del ministero della Salute Claudio D’Amario, l’ex segretario generale Giuseppe Ruocco, il responsabile delle Malattie infettive Francesco Maraglino. Si è perso tempo e si è sottovalutato il rischio, sono convinti i pm.

Secondo il loro consulente, Andrea Crisanti (oggi senatore del Pd), si sarebbero risparmiati 4.148 morti con una chiusura della Val Seriana dal 27 febbraio, 2.659 dal 3 marzo. Il punto è chi avesse a disposizione i dati. Governo, Regione e tecnici dell’emergenza, ritiene la Procura. Con le proiezioni, Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler di Trento tracciò gli scenari: il peggiore ipotizzava mille casi dopo 38 giorni dal primo positivo ufficiale, ma quel livello di contagio venne superato già il 29 febbraio.

Il 25 febbraio Merler invia a Brusaferro una nota: il tempo di raddoppio dell’epidemia è stimato tra i 3,5 e i 6,1 giorni. Nella riunione del 26 febbraio del Cts, però, non si ritiene di estendere le restrizioni del Lodigiano a nuove zone. In quella del 28, vengono proposte misure secondo un principio di proporzionalità ed adeguatezza. Merler scrive anche alla Regione, una mail «confidenziale» il 28 febbraio. Indica l’R0, l’indice di trasmissione del virus: a Bergamo è 1.80, a Codogno 1.84, in Lombardia 2.1. Solo sotto l’1 era gestibile. Quello stesso giorno, due ore prima, Fontana scrive una mail con cui chiede al ministero e alla Protezione civile «il sostanziale mantenimento» delle misure in corso per la settimana dal 2 all’8 marzo. Eppure, negli allegati, la stessa nota riporta l’R0 di 2. Ogni paziente infetto trasmetteva il virus ad altre due persone. Di chiudere la Val Seriana o un’area più estesa si parlò il 3 marzo in un verbale del Cts, secondo gli appunti di Miozzo già il giorno prima. Brusaferro riferì di numeri «preoccupanti» e suggerì che erano necessarie misure di limitazione in ingresso e in uscita.

Conte disse che la zona rossa andava usata con la massima parsimonia . Il 5 marzo, Speranza firmò un decreto per chiudere la Val Seriana, ma non il premier (firma che non fu necessaria per blindare Codogno). Il 6 marzo, negli hotel della Bassa Bergamasca arrivarono rinforzi di polizia e carabinieri. Erano pronti, tornarono indietro. Non c’è solo la mancata zona rossa, nell’inchiesta. Pesano anche il mancato aggiornamento e la mancata applicazione del piano pandemico del 2006. Questo, nonostante le raccomandazioni dell’Oms. Sull’ospedale di Alzano, per cui è indagato il direttore generale dell’Asst Bergamo Est Francesco Locati, è stata ridimensionata la portata della riapertura del Pronto soccorso, poche ore dopo la scoperta del primo caso.

Tra degenti e personale, erano già 96 gli infetti: la lente è sull’ospedale e la misure non adottate da lì in poi. Tra gli indagati, anche il direttore generale dell’Ats Bergamo, Massimo Giupponi: il discorso, nel suo caso, riguarda la sorveglianza attiva e il contagio sul territorio.

Covid a Bergamo: «È il focolaio più grave». Quei giorni terribili e le discussioni tra Milano e Roma. Armando Di Landro su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

L’escalation del contagio, la più grave ecatombe d’Europa e forse del mondo occidentale durante la pandemia. La nota del Comitato tecnico scientifico al governo

Le bombole distribuite casa per casa

Al di là dell’inchiesta della Procura di Bergamo che da mercoledì coinvolge anche l’ex premier Giuseppe Conte e il governatore lombardo Attilio Fontana, ci sono fatti e numeri che raccontano in modo chiaro quanto fu devastante l’epidemia da Covid a Bergamo e in Val Seriana. E come fu gestita. Date che impressionano se messe in fila e confrontate con il Lodigiano, distante una cinquantina di chilometri, dove il paziente 1 fu intercettato il 20 febbraio 2020 e la zona rossa, in 11 Comuni, scattò il 22, solo due giorni dopo. A Nembro e Alzano, invece, non arrivò mai. Sei giorni di rinvii, che non portarono ad alcuna misura specifica per la Bergamasca, come ha ricostruito un’inchiesta del Corriere della Sera.

Chiusa l’inchiesta Covid a Bergamo: indagati Conte, Speranza, Fontana e Gallera

La mail alla Regione

Il 28 febbraio il consulente dell’Iss Stefano Merler (ricostruiscono le carte dell’inchiesta) scrive in una mail alla Regione Lombardia che il focolaio di Bergamo sta per superare, quanto a gravità, quello lodigiano. I numeri preoccupano e, per di più, Alzano ha anche un ospedale, dove i primi contagiati sono già spuntati il 22 e il 23 febbraio e dove ci sono molti pazienti con sintomi della polmonite bilaterale interstiziale, pur senza tampone. L’ospedale era stato anche chiuso, dopo il primo tampone positivo. Ma riaperto dopo sole 3 ore. Francesco Zambonelli, di Villa di Serio, racconterà, dopo poche settimane, la strage della sua famiglia: la madre morta dopo il ricovero ad Alzano, il padre deceduto pure lui, la zia che le faceva visita anche. E nessuno era stato tracciato, il «sistema» era in ritardo, chi aveva partecipato ai funerali si ritrovava contagiato, in terapia intensiva. Il 29 febbraio il bollettino quotidiano fa segnare un ulteriore balzo dei contagi a Nembro e Alzano e nei due Comuni i decessi sono ormai più di cinque ogni giorno. Con picchi che arriveranno fino a 10 su base quotidiana.

Il confronto su una possibile chiusura in realtà non decolla mai. Non ne sono convinti i sindaci dei due Comuni, dove la concentrazione di aziende note anche a livello internazionale è alta. Regione e governo restano alla finestra, ancora in quei giorni Confindustria Bergamo lancia il video #Bergamoisrunning, «messaggio ai nostri partner». Poi si scuserà. La svolta sembra arrivare il 3 marzo, quando a intervenire è il Comitato tecnico scientifico che presenta al governo una nota sui due paesi della Val Seriana: «In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue».

La riunione

Ma non arriva nessuna decisione, nonostante il 4 marzo, durante un incontro in Regione Lombardia, il ministro Roberto Speranza e il governatore Attilio Fontana vengano informati con chiarezza della situazione, come rivela un audio pubblicato dal Corriere nel 2020: è Danilo Cereda, tecnico e matematico ingaggiato da Palazzo Lombardia, a spiegare che quello di Bergamo è ormai il focolaio più grave. Il governo chiede ulteriori chiarimenti, il Cts tenta di insistere. E la zona rossa sembra ormai una partita sbloccata quando da Roma partono i radiomessaggi per un concentramento di forze destinato alla Val Seriana, alle chiusure. Ma non sarà così, nella notte tra il 7 e l’8 marzo il premier Conte punterà su un decreto più generalizzato per la Lombardia e, in Italia, per università, scuole, teatri, cinema.

La bozza e i numeri

Le indagini hanno consentito ai pm di Bergamo di acquisire migliaia di pagine di documentazione. Secondo alcuni atti Conte era stato informato della gravità della situazione a Nembro e Alzano già il 2 marzo. E proprio in quei giorni Speranza aveva firmato una bozza di decreto per imporre la zona rossa. Senza avere grandi riscontri dal resto del governo. Ben presto non era mancata la polemica tra Regione ed esecutivo su chi avrebbe dovuto chiudere la Val Seriana. Responsabilità politiche? O anche penali? Lo dirà l’inchiesta. I numeri, però, restano un fatto: in tutta la provincia di Bergamo 5 mila e 100 morti in più a marzo, mille in più ad aprile, contro medie mensili che solitamente si fermavano a 800.

Inchiesta Covid, il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani: «Ci fu un'inadeguata valutazione del rischio». Redazione Bergamo online su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

I 17 indagati e le ipotesi degli inquirenti, il capo della Procura: «Andava data una risposta ai cittadini di fronte alle migliaia di morti, abbiamo contribuito a ricostruire cosa accadde»

Si era capito dalle parole contenute nella relazione dell'ultimo anno giudiziario che, a Bergamo, l'indagine sulla pandemia avrebbe avuto uno sbocco. E ora che la notizia degli almeno 17 indagati, con in testa l'ex premier Giuseppe Conte, rimbalza di testata in testata, il procuratore Antonio Chiappani spiega come dalle indagini siano «emerse criticità nella gestione della prima fase della propagazione della pandemia e di fronte a queste evidenze investigative, ad una inadeguata valutazione del rischio pandemico di contro alle migliaia di morti che ci sono state nel nostro territorio, abbiamo ritenuto che tutto il materiale investigativo sia sottoposto anche ad altri occhi e non solo quelli della Procura, da un lato al contraddittorio con tutti i soggetti interessati e dall’altro al vaglio di un giudice».

«Per la legge sulla presunzione di innocenza - precisa il procuratore - non posso fornire informazioni sulle indagini, sugli addebiti e sulle persone oggetto di indagini. Voglio solo sottolineare, però, il grande impegno profuso da questo ufficio per fornire ai cittadini di Bergamo una ricostruzione della risposta data dalle autorità sanitarie e civili contro la propagazione della pandemia nel nostro territorio». Una risposta caratterizzata, per gli inquirenti, da una generale sottovalutazione dei rischi, almeno nella prima ondata che travolse Nembro, Alzano e il resto della provincia. «Il materiale raccolto - prosegue Chiappani - servirà non solo per le valutazioni di carattere giudiziario, ma anche per valutazioni scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche e amministrative. Credo che abbiamo dato un contributo alla comprensione di cosa sia successo nei primi drammatici mesi della pandemia nel nostro territorio».

L’inchiesta sul Covid a Bergamo e la bozza di decreto per la zona rossa: Speranza firmò, Conte no. Armando Di Landro su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023

Le acquisizioni di documenti al ministero presentarono una sorpresa agli investigatori. Da quel momento cambiò la linea dei pm, che decisero di contestare ai politici la mancata decisione su Nembro e Alzano

Il provvedimento che i bergamaschi (e gli italiani) aspettavano era già stato scritto. Ma restò chiuso in un cassetto. A trovarlo furono gli investigatori della Procura di Bergamo, il 14 gennaio del 2021, durante un’operazione di acquisizioni e perquisizioni al Ministero della Salute e all’Iss nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione della pandemia. Al Ministero c’era una bozza di decreto, dentro una cartellina che rimandava al 4 marzo 2020, in cui si indicava che i comuni di Alzano Lombardo e Nembro dovevano essere aggiunti all’elenco degli 11 paesi (10 nel Lodigiano più Vo’ Euganeo) dove c’era già la zona rossa.

Quella bozza era un’ulteriore prova di una situazione già nota: per tutta la settimana tra lunedì 2 marzo 2020 e sabato 6 il governo era stato a un passo dall’istituzione della zona rossa anche nei due Comuni della Val Seriana, l’area dove si stava manifestando il focolaio Covid più grave. Si era già tergiversato troppo, forse, considerando che nel Lodigiano il provvedimento di chiusura era scattato due giorni dopo il primo tampone positivo.

Ma finalmente, quella sembrava la settimana decisiva. Mancava però qualcosa, che in quella visita a Roma del gennaio del 2021 colpì subito gli investigatori: in fondo alla bozza di provvedimento c’era la firma del ministro della Salute Roberto Speranza, non quella del premier Giuseppe Conte.

Un campo vuoto, il sunto di cosa accadde in quei giorni: il governo era spaccato sul tema, il ministro aveva deciso di seguire senza se e senza ma le indicazioni del Comitato tecnico scientifico del 3 marzo, che suggerivano di chiudere i due paesi. Il presidente del Consiglio, invece, prendeva tempo e l’avrebbe fatto fino alla decisione della notte tra il 6 e il 7 marzo: niente zona rossa specifica per Nembro e Alzano ma divieti allargati alla Lombardia.

Attorno alla linea Conte si sono inseguite indiscrezioni fin da quei giorni, a partire da presunte pressioni ricevute dal mondo industriale e produttivo, anche tramite parlamentari della maggioranza. Alcuni noti imprenditori sono stati anche ascoltati da chi indaga. Ma nulla è mai emerso in modo netto. Ci sono ora, però, le conclusioni della Procura sui politici: Conte risulta indagato per la mancata zona rossa, Speranza no. Al ministro viene addebitata la mancata applicazione del Piano pandemico, il protocollo che ogni Paese dovrebbe attivare su richiesta dell’Oms.

Di certo le acquisizioni di documenti a Roma a gennaio 2021 furono uno spartiacque dell’inchiesta. Fino a quel momento la contestazione sulla zona rossa sembrava in bilico. A giugno dell’anno prima, quindi circa tre mesi dopo il periodo più difficile, il procuratore aggiunto e allora reggente di Bergamo Maria Cristina Rota, con altri sostituti e il suo staff, era entrata a Palazzo Chigi proprio per ascoltare la versione di Conte sui divieti che non scattarono mai a Nembro e Alzano.

L’idea dei pm, dopo quel colloquio, è che la scelta politica di non fare la zona rossa, comunque discrezionale per il governo, non fosse contestabile in sede penale. Il materiale trovato a Roma, e tutta una serie di chat acquisite dai telefonini dei dirigenti dell’Iss e del Cts, hanno cambiato, in parte, quelle convinzioni: la zona rossa era apparsa a molti, Speranza incluso, l’unica via da percorrere.

La zona rossa andava fatta ma è facile giudicare ora. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023

Caro Aldo, e se, una volta tanto, l’essere umano prendesse atto che la natura gli è infinitamente superiore e che di fronte all’irruzione mastodontica del Covid nel 2020 i politici italiani (ma anche gli scienziati e il personale sanitario) fecero molto più dell’umanamente possibile e che l’eventuale piano pandemico super-aggiornato si sarebbe comunque rivelato una «catasta di carta» piena di teoria che a nulla sarebbe servito per fronteggiare quella situazione horror e che, in quel pandemonio, andavano bene gli aiuti di tutti (russi compresi)? Non riconoscere ciò è un affronto verso la realtà e nei confronti di coloro che dovettero gestire un qualcosa di abnorme e devastante. Stefano Casadei

Caro Stefano, In effetti forse abbiamo dimenticato l’atmosfera che si respirava in Italia tre anni fa, in questi stessi giorni. Per poter pubblicare la sua lettera gentile signor Casadei abbiamo dovuto asciugarla, ma lei stesso ricorda come le prime misure restrittive furono contestate da molti baristi, ristoratori, albergatori, commercianti legittimamente sconvolti da provvedimenti che mettevano a rischio la sopravvivenza dei loro lavori. Non è stato facile decidere il lockdown. Precedenti in Europa non ce n’erano: l’Italia fu il primo Paese occidentale investito dalla pandemia di Covid. Ho sempre avuto un giudizio critico su Conte, però due cose gli vanno riconosciute: il lockdown lo decise il suo governo, anche su indicazione del Comitato tecnicoscientifico; e i soldi del Pnrr li ottenne lui. Certo, bisognava fare prima la zona rossa ad Alzano. L’ospedale, chiuso alle prime avvisaglie, non andava riaperto, perché era diventato un focolaio. Ci furono errori, probabilmente anche da parte della Regione. Armando Di Landro ha ricostruito bene sul Corriere il rimpallo di responsabilità di quei giorni, con i Comuni e gli industriali contrari alla chiusura. Giudicare oggi è più facile. Ma ho qualche dubbio che un’indagine penale possa chiarire le responsabilità ed eventualmente arrivare a una condanna e a una pena. Un uomo di governo può certo commettere reati. Fatico ad accettare l’idea che possa aver commesso reati come epidemia colposa aggravata e omicidio colposo plurimo.

Chiusa l’inchiesta sulla mancata zona rossa Covid nel bergamasco: indagati Conte, Speranza, Fontana e Gallera. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’1 marzo 2023.

Indagati l'allora premier Giuseppe Conte e il ministro della Salute Roberto Speranza, il governatore della Lombardia Attilio Fontana e l'allora assessore al Welfare Giulio Gallera. Silvio Brusaferro presidente dell’Istituto Superiore della Sanità , l’allora capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, il presidente dell’Istituto Superiore della Sanità Franco Locatelli e Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico nella prima fase dell’emergenza

La Procura di Bergamo con una nota ha reso noto di avere chiuso le indagini sulla gestione del Covid sottolineando che “la conclusione delle indagini, com’è noto, non è un atto d’accusa”. I magistrati sottolineano che l’attività svolta, è stata “oltremodo complessa sotto molteplici aspetti e ha comportato altresì valutazioni delicate in tema di configurabilità dei reati ipotizzati, di competenza territoriiale, di sussistenza del nesso di causalità ai fini dell’attribuzione delle singole responsabilità e ha consentito di ricostruire i fatti così come si sono svolti a partire dal 5 gennaio 2020″.

Il procuratore aggiunto di Bergamo Cristina Rota con i pm Silvia Marchina e Paolo Mandurino, sotto la super visione del procuratore Antonio Chiappani ha chiuso le indagini dell’inchiesta per epidemia colposa e l’atto sarà notificato alle parti indagate nelle prossime ore. Sono tre i tronconi dell’indagine: la repentina chiusura e riapertura dell’ospedale di Alzano, la mancata ‘zona rossa’ in Val Seriana e l’assenza di piano pandemico aggiornato per contrastare il rischio pandemia lanciato dall’Oms.

Secondo l’ipotesi dei pm di Bergamo, sulla base della consulenza affidata al microbiologo Andrea Crisanti, che gestì l’emergenza a Vo’ Euganeo, in Veneto, la zona rossa a Nembro e Alzano avrebbe potuto risparmiare migliaia di morti: se fosse stata istituita il 27 febbraio, le vittime in meno sarebbero state 4.148; al 3 marzo, 2.659. Gli investigatori hanno lavorato su una mole rilevante di documenti acquisiti e sequestrati, su “migliaia di mail e di chat telefoniche” e sull’audizione di “centinaia di persone informate sui fatti“.

Indagati l’allora premier Giuseppe Conte e il ministro della Salute Roberto Speranza, il governatore della Lombardia Attilio Fontana e l’allora assessore al Welfare Giulio Gallera. Sono i primi nomi che filtrano dalla imminente chiusura indagini che arrivano a conclusione dopo tre anni e una pandemia che nella primavera del 2020 ha riempito più di 3mila bare in provincia di Bergamo. Il primo commento sull’inchiesta della magistratura arriva dall’ex premier e presidente di M5S Giuseppe Conte: “Apprendo dalle agenzie di stampa notizie riguardanti l’inchiesta di Bergamo. Anticipo subito la mia massima disponibilità e collaborazione con la magistratura. Sono tranquillo di fronte al Paese e ai cittadini italiani per aver operato con il massimo impegno e con pieno senso di responsabilità durante uno dei momenti più duri vissuti dalla nostra Repubblica“.

L’ex ministro Roberto Speranza spiega: “Apprendo dalle agenzie di stampa notizie riguardanti l’inchiesta di Bergamo. Ho sempre pensato che chiunque abbia avuto responsabilità nella gestione della pandemia debba essere pronto a renderne conto. Io sono molto sereno e sicuro di aver sempre agito con disciplina ed onore nell’esclusivo interesse del Paese. Ho piena fiducia come sempre nella magistratura“.

Non avevamo il minimo segnale di partecipare al “banchetto” degli indagati. Fontana era stato sentito come persona informata sui fatti e da allora silenzio assoluto” È il commento dell’avvocato Jacopo Pensa, che assiste il governatore lombardo. Oggi, aggiunge il legale, “apprendiamo prima dai media e senza alcuna notifica formale di essere tra gli indagati”. Ed ancora: “Prendiamo atto che la Procura di Bergamo ha sottolineato che la conclusione delle indagini non è un atto di accusa. Vedremo, vedremo. Non è neanche un atto di difesa”.

Nell’atto di chiusura delle indagini compaiono una ventina di persone fra le quali Silvio Brusaferro presidente dell’Istituto Superiore della Sanità , l’allora capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, il presidente dell’Istituto Superiore della Sanità Franco Locatelli e Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico nella prima fase dell’emergenza. Oltre ad alcuni ex dirigenti del Cts risulta indagato anche Francesco Maraglino, ex direttore Ufficio 5 – Prevenzione delle Malattie trasmissibili e Profilassi internazionale.

La Guardia di finanza ha avviato le notifiche per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio per venti indagati. Le posizioni di Conte e Speranza verranno trasmesse al Tribunale dei ministri, che dovrà valutare gli atti a loro carico e le loro posizioni che quindi al momento non figurano nell’avviso di conclusione indagini, che non è stato non ancora notificato agli altri 17 indagati. Come prevede la legge sono già stati estratti tre magistrati titolari e i due supplenti che fanno parte del Tribunale dei Ministri a Brescia, sede di Corte d’appello, chiamati a valutare l’eventuale richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Conte e Speranza, che riceveranno nei prossimi giorni gli atti di inchiesta relativi alle posizioni dell’ex premier e l’ex ministro della Sanità . Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa” il 2 marzo 2023.

C'è un'immagine simbolo di che cosa è stata la pandemia nella provincia di Bergamo, che l'Italia intera non può dimenticare. Quella dei furgoni militari incolonnati, uno dietro l'altro, che portavano via le bare delle vittime del Covid […] Era il 28 marzo del 2020. Quando ci si rese conto di che cosa stava accadendo era già troppo tardi. Nove giorni dopo, il 6 aprile, l'aggiunta Maria Cristina Rota, all'epoca reggente della procura […] decise di aprire d'ufficio il fascicolo d'inchiesta che ha riscritto la storia di quei giorni. Lo definì, senza girare attorno alle parole, «un atto dovuto». […]

[…] 150 esposti presentati tra il giugno e l'ottobre del 2020 alla stessa procura. Il filo conduttore […] era quello della «inerzia assoluta che ha provocato un incendio di proporzioni devastanti in Valle Seriana» da parte di governo e Regione Lombardia rispetto alla decisione di chiudere Nembro e Alzano, i due comuni dove il virus già imperversava. Come a Codogno e negli altri paesi del Lodigiano, dove però i confini erano già stati sigillati, mentre in provincia di Bergamo alla decisione si arrivò solo l'8 marzo, con il resto del Paese.

La difficoltà maggiore di un'inchiesta, che portò presto i magistrati a Roma, per gli ascolti eccellenti dell'allora premier Giuseppe Conte e dell'ex ministro della Salute, Roberto Speranza, era l'ipotesi di reato: epidemia colposa. Un'accusa nell'ambito della quale, anche a causa di una precedente pronuncia della Cassazione, è difficile dimostrare l'esistenza del nesso causale tra i decessi e la diffusione della pandemia. […]

Tre i piani su cui, nei tre anni di accertamenti serrati che hanno portato al provvedimento di ieri, si sono mossi i magistrati. Quello locale, sulla gestione dell'ospedale di Alzano nel febbraio del 2020; quello nazionale, sulla mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca; quello mondiale, che è arrivato a lambire l'Oms.

 Centrale nelle indagini è stato anche il mancato aggiornamento e la mancata applicazione del piano pandemico, fermo al 2006, sia a livello nazionale che regionale […] probabilmente non sarebbero riusciti ad arginare del tutta la diffusione del contagio, ma avrebbero previsto misure di contenimento almeno in grado di frenare il virus: mascherine, percorsi sicuri, tamponi. In quei giorni difficili mancava ogni cosa a Bergamo, in Lombardia, in Italia.

C'era poi la vicenda dell'ospedale di Alzano, stretto tra Bergamo e Nembro, primo epicentro del contagio. Gli accertamenti non si sono concentrati tanto sulla chiusura e poi riapertura del pronto soccorso, nel giro di poche ore domenica 23 febbraio del 2020, dopo la scoperta del primo caso di Covid. Ma, soprattutto, sul fatto che da quel momento in avanti, nonostante nei reparti si contassero un centinaio di persone infette tra pazienti e personale sanitario, non fu adottato alcun provvedimento.

E ancora, sulla mancata istituzione della zona rossa, sentito direttamente a Palazzo Chigi, a giugno del 2020, Giuseppe Conte dichiarò di essere stato informato solo il 5 marzo della situazione di Bergamo. Ma le indagini avrebbero dimostrato che l'allora premier, nel corso di una riunione blindata, di cui non fu redatto alcun verbale, era già stato messo al corrente di tutto almeno due giorni prima. La superconsulenza affidata dalla procura di Bergamo al professore Andrea Crisanti, oggi senatore del Pd, mette nero su bianco il numero delle vite che si sarebbero potute salvare. Se la zona rossa fosse stata istituita il 27 febbraio, ci sarebbero state 4. 148 vittime in meno. Il 3 marzo, invece, 2. 659. In una provincia in cui, solo tra la fine di febbraio e l'aprile del 2020, venne registrato un eccesso di mortalità di 6. 200 persone rispetto agli anni precedenti.

Gestione della pandemia: indagati Conte, Speranza, Fontana, Gallera e altri dirigenti. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani l’01 marzo 2023

L’inchiesta, guidata dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota e dagli inquirenti della Guardia di finanza, si concentra sulla gestione della pandemia nelle prime settimane tra febbraio e marzo 2020. Conte si dice disponibile a collaborare con la magistratura

A tre anni di distanza dall’inizio della pandemia da Covid-19, la guardia di Finanza ha avviato le notifiche degli avvisi conclusivi delle indagini per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio nei confronti di venti persone. Tra queste ci sono: l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana e il suo ex assessore al Welfare, Giulio Gallera.

Sono indagati anche diversi dirigenti del ministero della Salute: il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro; il coordinatore del primo Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo; l’allora capo della Protezione civile Angelo Borrelli e il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli. Per l’ex premier Conte e l’ex ministro della Salute Speranza si prepara la trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri.

L’INDAGINE

L’inchiesta, guidata dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota e dagli inquirenti della Guardia di finanza, si concentra sulla gestione delle prime settimane della pandemia. Nello specifico gli inquirenti cercano di far luce sul mancato aggiornamento e la mancata attuazione dei piani pandemici a livello nazionale e regionale, ma anche sulla decisione di non istituire la zona rossa nei comuni di Alzano lombardo e Nembro a fine febbraio 2020. Nella Bergamasca l’eccesso di mortalità fu di 6.200 persone rispetto alla media dello stesso periodo degli anni precedenti.

Domani aveva già anticipato alcuni documenti al vaglio dell’inchiesta, tra questi c’è una mail inviata il 26 febbraio del 2020 da Bergamo e diretta ai vertici della sanità regionale che dava conto della preoccupante diffusione dei contagi nell’area della Val Seriana. A quella mail, però, non è seguita alcuna decisione da parte dell’allora giunta guidata dal presidente leghista Attilio Fontana. Un ritardo che potrebbe aver contribuito alla rapida diffusione dei contagi nella zona.

LE PAROLE DI CONTE

«Apprendo dalle agenzie di stampa notizie riguardanti l'inchiesta di Bergamo. Anticipo subito la mia massima disponibilità e collaborazione con la magistratura. Sono tranquillo di fronte al paese e ai cittadini italiani per aver operato con il massimo impegno e con pieno senso di responsabilità durante uno dei momenti più duri vissuti dalla nostra Repubblica», ha detto il presidente del Movimento Cinque stelle Giuseppe Conte.

I LEGALI DEI FAMIGLIARI DELLE VITTIME

«Io personalmente, come figlia di una vittima del Covid, sono grata alla Procura di Bergamo per il lavoro immane e puntiglioso che ha fatto in questi tre anni. Insieme al mio team legale e all'associazione dei famigliari delle vittime che noi rappresentiamo, 'Sereni e sempre uniti' non possiamo che esprimere una soddisfazione interiore perché la Procura di Bergamo con questo risultato ha dato onore a tutti nostri cari che non ci sono più e ne ha rispettato i famigliari, ascoltando la loro voce e dando le risposte alle domande che avevano posto già tre anni fa», ha detto a LaPresse, Consuelo Locati, coordinatrice del team legale associazione familiari vittime Covid-19.

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Il virologo Crisanti (Pd) dice sì alla commissione di inchiesta parlamentare sul Covid. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 03 marzo 2023

Sua la consulenza che ha permesso alla procura di Bergamo di stabilire che il ritardo della zona rossa in Val Seriana ha portato a oltre 4mila vittime in più. Dopo la chiusura delle indagini, per il partito portare il tema in parlamento potrebbe essere una clava politica

La chiusura delle indagini della procura di Bergamo ha portato di nuovo all’attenzione di deputati e senatori la commissione di Inchiesta parlamentare sul Covid-19. A sorpresa è arrivato il sì del virologo Andrea Crisanti, il senatore del Pd tra i consulenti del periodo pandemico e autore della perizia che ha portato gli investigatori a stabilire che se si fosse agito prima si sarebbero potuti evitare oltre 4mila morti in Val Seriana.

Il testo di legge per l’istituzione lo ha presentato come primo firmatario il viceministro dei Trasporti Galeazzo Bignami, di Fratelli d’Italia, ma oltre alla maggioranza che firma, c’è già l’approvazione del Terzo polo, visto che il leader di Italia viva Matteo Renzi caldeggia lo strumento sin dall’avvio della legislatura pensando un domani di voler aver addirittura la presidenza.

«La perizia è stata una mappa logica per orientarsi in quello che è successo», ha detto giovedì sera a Piazza Pulita. «La gente si aspetta che adesso qualcuno dica sì, abbiamo sbagliato». In Italia non c’era cultura dell’emergenza pandemica. Sulla commissione «sono estremamente favorevole, può essere un’opportunità unica per pacificare tutti quanti se questa commissione di inchiesta ha l’obiettivo di indagare sul governo, sulla conferenza delle regioni, sulle regioni stesse, sull’ente commissariale, su tutti quanti, senza usarla come una clava politica. Cerchiamo la verità, perché altrimenti la verità sarà la prima vittima».

I RITARDI

I ritardi, che hanno portato la procura di Bergamo a indagare l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza e il presidente della Lombardia Attilio Fontana per epidemia colposa e omicidio colposo plurimo, sono al centro del disegno di legge. «Ad avviso dei proponenti, i ritardi accumulati e l’inefficienza nella gestione delle prime settimane di diffusione dell’epidemia hanno, infatti, segnato in maniera tragica il destino dell’intera nazione, causando la per- dita di decine di migliaia di vite umane e contribuendo a determinare, in ultima istanza, quel drammatico impatto sul settore economico e produttivo che ha portato a un calo del prodotto interno lordo nell’anno 2020 pari a circa il 9 per cento e a perdite di fatturato di miliardi di euro a carico di moltissimi settori».

La Commissione parlamentare di inchiesta perciò si dovrebbe concentrare sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione pandemica del virus «e sul mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale». L’esame è partito lo scorso 15 febbraio.

Nicola Stumpo, anche lui parte del gruppo del Pd e in commissione Afari sociali, dove si sta discutendo il disegno di legge, ha detto chiaramente di no nella seduta del 21. Fratelli d’Italia, ricorda, è «l'unica forza a essersi espressa sistematicamente in senso contrario a tutte le misure adottate in quella delicata fase, salvo poi, recentemente, trovarsi costretta a contraddirsi su ogni cosa, non appena assunte responsabilità di governo». Per lui è «inaccettabile che le istituzioni rappresentative vengano utilizzate a fini propagandistici, rivendicativi, come una clava da abbattere contro l'avversario politico di turno».

L’allora sottosegretaria Sandra Zampa, oggi senatrice del Pd, a Mezz’Ora in più, giovedì ha detto la stessa cosa: «La commissione parlamentare d'inchiesta di cui si sta parlando avrà una maggioranza politica che ha già condannato l'ex governo». Per lei «rischia di diventare un tribunale politico in cui una maggioranza politica potrà avere sopravvento su tutto e decidere quello che vorrà». Il virologo dem che ha avuto un ruolo nelle indagini della procura però, in parte non è d’accordo.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

ESCLUSIVO: IL DOCUMENTO SULLA PRIMA ONDATA. Ecco la mail segreta sul Covid-19 firmata Fontana per evitare la zona rossa in Lombardia. FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani l’01 dicembre 2022

Il messaggio di posta elettronica inviato alla protezione civile e alla presidenza del consiglio è del 28 febbraio 2020. 

Il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, chiedeva il mantenimento delle misure blande della settimana precedente, nonostante la situazione fosse già oltre la soglia critica. 

Fontana sapeva di questa situazione: alla e-mail allega uno studio in cui si cita espressamente l’indice di contagio già a livello R:2, perciò fuori controllo. Il messaggio è peraltro allegato alla super consulenza commissionata dalla procura di Bergamo (i pm indagano sulla gestione della pandemia e stanno per chiudere l’inchiesta) a un pool di esperti, tra cui il microbiologo Andrea Crisanti, che documenta con decine di atti quante vite si sarebbero potute salvare se fin dalla fine di febbraio fossero state applicate misure restrittive radicali. 

FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN

Le accuse a Fontana e Conte della procura di Bergamo: ecco i verbali sulla zona rossa. FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 02 marzo 2023

La procura di Bergamo ha chiuso l’indagine sulla gestione della prima fase della pandemia da Covid-19. Diciannove gli indagati. Da Giuseppe Conte all’ex ministro Speranza all’attuale presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana

Dopo tre anni la procura di Bergamo ha chiuso l’inchiesta sulla gestione della prima fase della pandemia in Lombardia e non ha risparmiato nessuno. La lista va da Giuseppe Conte, a Roberto Speranza, da Attilio Fontana a Giulio Gallera.

Nomi che spiccano più di altri nell’elenco dei 19 indagati, che chiama in causa anche i vertici istituzionali della sanità regionale e nazionale.

Nel comunicare la chiusura delle indagini la procura precisa che non si tratta di «un atto di accusa», seppure poche settimane fa il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani durante l’apertura dell’anno giudiziario avesse detto che «le indagini hanno accertato gravi omissioni nella valutazione dei rischi pandemici e nella gestione della prima fase della pandemia».

GLI INDAGATI

La guardia di Finanza ha così avviato le notifiche degli avvisi di conclusione delle indagini per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo, rifiuto di atti di ufficio. Oltre all’ex presidente del Consiglio, Conte, all’ex ministro della Salute, Speranza, al presidente leghista della regione Lombardia, Fontana, troviamo pure l’ex assessore al Welfare, Gallera che con Fontana ha gestito quella stagione. Con Gallera è indagato il suo ex direttore generale Luigi Cajazzo con l’ipotesi di epidemia colposa per la mancata applicazione del piano pandemico regionale.

Poi c’è Ranieri Guerra, ex direttore generale dell’ufficio di prevenzione del ministero della Salute. Sono indagati anche diversi dirigenti del ministero della Salute che hanno gestito quella fase, come Claudio D’Amario, Francesco Maraglino e Giuseppe Ruocco.

E il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro; il coordinatore del primo Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo; l’allora capo della Protezione civile Angelo Borrelli e il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli e l’allora direttore dell’istituto Spallanzani, Giuseppe Ippolito.

Inoltre nell’elenco ci sono anche i direttori generale e sanitario (Francesco Locati e Roberto Cosentina, quest’ultimo ora in pensione) dell’Azienda socio sanitaria territoriale Bergamo Est, e Giuseppe Marzulli, ex direttore medico dell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo.

A loro i pm contestano di non aver eseguito le tac, in mancanza di tamponi, su almeno una ventina di pazienti ricoverati per diagnosticare il Covid-19.

Su Marzulli la scelta della procura ha sorpreso molti: fu il primo a rendersi conto della situazione fuori controllo nel nosocomio, a opporsi alla riapertura del pronto soccorso e a portare personalmente la sera del 23 febbraio una dozzina di tamponi di cui la struttura era completamente sprovvista. 

«Tutto ciò non ci restituisce i nostri cari e non cancella le lacrime che abbiamo versato, ma onora la memoria di chi ha pagato in prima persona. A noi che restiamo dà la forza per continuare a combattere con ancora più determinazione le nostre battaglie», hanno dichiarato dal comitato “Sereni e sempre uniti” dell’associazione familiari vittime Covid-19.

CONTE E FONTANA, STESSI REATI

Conte e Fontana sono accusati del «delitto» di epidemia colposa aggravata, come emerge dall’atto di conclusione indagine della procura, del medesimo reato.

Fontana «in cooperazione con gli indagati e con Giuseppe Conte e in qualità di presidente della regione Lombardia ha omesso di adottare misure di contenimento e gestione adeguate e proporzionate all’evolversi della situazione e in particolare le misure corrispondenti all’istituzione di una zona rossa nei comuni della Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro nonostante avesse piena consapevolezza della circostanza che l’indice di contagio avesse raggiunto valore pari a 2, e che nelle zone ad alta incidenza del contagio gli ospedali erano già in gravi difficoltà per il numero di casi registrati e per il numero di contagi tra il personale sanitario».

Una condotta che, secondo gli inquirenti, «cagionava così la diffusione dell’epidemia da Sars-Cov-19 in Val Seriana mediante un incremento stimato non inferiore al contagio di 4.148 persone, pari al numero dei decessi in meno che si sarebbero verificati in provincia di Bergamo, di cui 55 nel comune di Alzano Lombardo e a 108 a Nembro, rispetto all’eccesso di mortalità registrato in quel periodo, ove fosse stata estesa la zona rossa a partire dal 27 febbraio 2020». 

Conte e Fontana dovranno difendersi inoltre da un’altra accusa: omicidio colposo, per «aver cagionato la morte» di un lungo elenco di vittime uccise dal virus. I pm contestano lo stesso reato all’ex ministro Speranza, ad alcuni membri del Cts e ad altri dirigenti sanitari e del ministero della Salute. 

LA PARSIMONIA DI CONTE

Per l’ex presidente Conte, oggi capo dei Cinque Stelle, e l’ex ministro Speranza è scontata la trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri di Brescia. Nei mesi scorsi Domani aveva rivelato alcuni documenti esclusivi finiti nel fascicolo dell’inchiesta.

Tra questi rientra il verbale del Comitato tecnico scientifico datato 2 marzo 2020 nel quale all’allora presidente del consiglio Conte veniva illustrata da Brusaferro la drammatica situazione epidemiologica della Val Seriana.

In quella riunione, che doveva rimanere riservata, veniva avanzata dai tecnici la richiesta al governo di chiudere urgentemente in una zona rossa i comuni di Alzano Lombardo e di Nembro. La risposta di Conte in quel verbale redatto dall’allora coordinatore del Cts, Miozzo, fu che «la zona rossa va usata con massima parsimonia perché ha costo sociale, politico, non solo economico, molto alto. Occorre indicare misure che siano anche sostenibili, fattibili sul piano operativo. Decide di rifletterci».

L’inchiesta durata quasi tre anni è stata coordinata dalla procuratrice aggiunta Maria Cristina Rota e dai detective della Guardia di finanza. L’attività dei finanzieri si è concentrata sulla gestione delle prime settimane della pandemia.

Nello specifico i pm hanno raccolto documenti, chat, verbali e ascoltato centinaia di testimoni con l’obiettivo di far luce sul mancato aggiornamento e la mancata attuazione dei piani pandemici a livello nazionale e regionale, ma anche sulla decisione di non istituire la zona rossa nei comuni di Alzano lombardo e Nembro a fine febbraio 2020, focolai mortali.

Nella Bergamasca l’eccesso di mortalità fu di 6.200 persone rispetto alla media dello stesso periodo degli anni precedenti.

Il nostro giornale aveva pubblicato altri documenti finiti nel fascicolo dell’inchiesta. Come la mail del 26 febbraio 2020 inviata da Carlo Alberto Tersalvi, all’epoca direttore sanitario dell’Agenzia di tutela della salute (Ats) di Bergamo, e diretta ai vertici della sanità regionale che dava conto della preoccupante diffusione dei contagi nell’area della Val Seriana.

A quella mail, però, non è seguita alcuna decisione da parte dell’allora giunta guidata dal presidente leghista Fontana.

Anzi, il 28 febbraio il presidente scriveva una mail alla protezione civile per chiedere il mantenimento delle misure blande in vigore fino a quel momento, non chiedendo dunque la zona rossa ma la proroga di una zona gialla. Un ritardo che potrebbe aver contribuito alla rapida diffusione dei contagi nella zona.

LE CONTRADDIZIONI DI FONTANA

Sul ruolo di Fontana e delle resistenze a chiudere l’area della provincia di Bergamo epicentro della pandemia non ci sono solo le mail pubblicate da Domani e agli atti dell’indagine.

C’è anche il verbale di sommarie informazioni del 29 maggio 2020 in cui Fontana, ascoltato dai pm titolari del caso, ripercorre quei giorni di fine febbraio e le settimane successive di marzo.

Un documento, ottenuto dal nostro giornale, in cui il presidente (rieletto alle ultime regionali) risponde alle domande dei magistrati e sulla zona rossa per Alzano e Nembro dice: «Noi credevamo nella realizzazione della zona rossa, che poi sarebbe stata utile non so dire, però a Codogno (dove si è verificato il primo contagio, provincia di Lodi, ndr), aveva funzionato. La nostra proposta è stata quella di istituire la zona rossa, il 3 marzo abbiamo fatto presente al Cts (comitato tecnico scientifico) quali erano le nostre indicazioni».

Fontana, dunque, riferisce ai pm che la regione aveva chiesto la zona rossa il 3 marzo, ma agli atti non c’è alcuna istanza formale.

Curioso, però, che appena 4 giorni prima Fontana avesse scritto una mail con indicazioni opposte a quanto dichiarato davanti ai pm: si tratta della mail del 28 febbraio 2020, in cui chiede di mantenere le misure blande della settimana precedente, consapevole che i contagi tra Nembro e Alzano Lombardo stessero crescendo in maniera esponenziale.

La mail del 28 è citata espressamente dai magistrati nel loro atto di conclusione delle indagini. Al presidente Fontana contestano il reato di epidemia colposa aggravata con la cooperazione dell’ex presidente del Consiglio Conte e tra le motivazioni indicano la scelta di non aver chiesto la zona rossa in quel messaggio di posta elettronica.

La colpa del leghista è consistita, quindi, «nell’aver richiesto con due distinte mail del 27 e del 28 febbraio il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in regione, non segnalando alcuna criticità relativa alla diffusione del contagio nei comuni della Val Seriana, nonostante avesse piena consapevolezza della circostanza che l’indicatore di diffusione (R0) avesse raggiunto valore pari a 2», ossia il virus era fuori controllo.

Il racconto ai pm di Bergamo del presidente Fontana prosegue così: «La nostra indicazione al Cts era di ricomprendere nella zona rossa anche il comune di Albino (vicino a Nembro e Alzano, ndr). La nostra non era una scelta politica, ma tecnica. Ricordo che fu Demicheli che ci disse che nella zona di Alzano stava nascendo un focolaio».

Demicheli è Vittorio Demicheli, a capo della task force di regione Lombardia e direttore sanitario dall'Agenzia per la Tutela della Salute per l'Area Metropolitana milanese (Ats).

Anche lui è stato ascoltato dai magistrati bergamaschi: nel verbale Demicheli ha spiegato che «nella prima settimana noi tecnici spingevano per creare le zone rosse…per Bergamo noi abbiamo segnalato il focolaio», e poi aggiunge, «non ricordo per quali motivi non fu istituita la zona rossa in Val Seriana…l’impressione che ho avuto è che ci fossero interlocuzioni a noi precluse tra la regione e le autorità centrali».  

«Ritornando alla zona rossa di Alzano, quando avete iniziato a parlarne?», chiedono i pm a Fontana.

«Credo il 2 marzo, su indicazione del dott. Demicheli», ha risposto Fontana in procura. «Quindi il 3 marzo avete chiesto l’istituzione della zona rossa?», chiedono i pm.

«No, abbiamo detto di valutare se alla luce degli elementi forniti vi erano le condizioni per istituirla», ribatte il presidente, che così prova a scaricare le responsabilità su altri.

Un’altra incongruenza nella versione di Fontana emerge dalla risposta alla domanda se regione fosse in possesso di informazioni sui contatti ad Alzano tra gli ultimi giorni di febbraio e i primi di marzo. «Non lo so, non è un aspetto che abbiamo approfondito».

In realtà regione Lombardia aveva sia le proiezioni dei contagi sia i dati reali sulla crescita notevole di nuovi infetti già il 28 febbraio, il giorno in cui Fontana invia una mail a Roma nella quale non chiede la zona rossa ma solo il mantenimento delle misure in vigore.

Quello stesso giorno regione Lombardia aveva ricevuto i grafici di Stefano Merler, matematico della fondazione Bruno Kessler di Trento, membro sia della task force lombarda sia del Comitato tecnico scientifico istituito a Roma.

In quei grafici veniva indicato un R0 (indice di trasmissione di una malattia infettiva non controllata) superiore a 2, ovvero oltre la soglia di allerta.

In provincia di Bergamo, secondo Merler, l’R0 aveva un potenziale fino a 3,17, soglia ampiamente superata nel mese di marzo 2020 quando l’indice di trasmissione a Bergamo dopo le chiusure tardive toccherà quota 4.5.

Quindi la regione era a conoscenza degli scenari catastrofici in caso di assenza di misure di contenimento. Eppure nulla ha fatto.

Fontana si difende e contrattacca: «È veramente vergognoso che una persona sentita all’inizio dell’indagine come testimone, scopra dai giornali di essere stata trasformata in indagato».

E sulle accuse ha replicato: «Se io avessi anche emesso l’ordinanza, con chi l’avrei fatta eseguire? Io non ho a disposizione né l’esercito, né i Carabinieri, né la Guardia di Finanza».

LE PRESSIONI DEGLI INDUSTRIALI

I magistrati, infine, hanno chiesto a Fontana se avesse mai avuto interlocuzioni con il mondo confindustriale sulla possibile istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro. «Sì, ci sono anche i verbali del tavolo dello sviluppo», è stata la risposta del presidente.

I pm, tuttavia, fanno notare a Fontana che Marco Bonometti, all’epoca presidente degli industriali lombardi, aveva dichiarato che «sia lui che la regione Lombardia erano contrari alla zona rossa» e che avevano avuto un confronto e condiviso la decisione.

Il presidente tiene il punto: «Sulla zona rossa di Alzano e Nembro non ho mai parlato con nessun rappresentante di Confindustria e non mi sono state rappresentate loro esigenze».

C’è però un verbale agli atti con le dichiarazioni di Bonometti (non indagato) che in parte smentisce Fontana.

«Ha mai chiesto al presidente della regione Lombardia di farsi parte attiva a non istituire zone rosse ma solo di limitare le chiusure delle attività non essenziali?», gli hanno chiesto gli inquirenti.

«Sì, gliel’ho chiesto, Regione Lombardia era d’accordo con noi nel non istituire zone rosse ma nel limitare le chiusure alle sole aziende non essenziali», ha risposto il capo degli industriali, che nella stessa audizione davanti ai pm ha aggiunto: «La mia posizione è stata quella che la zona rossa nella bergamasca non risolveva il problema, perché a mio parere andava chiusa l’intera Lombardia. Ero contrario all’istituzione della zona rossa nella bergamasca. Ho detto di salvaguardare le filiere per le aziende essenziali».

Tra Fontana e Bonometti c’è stata anche una telefonata l’8 marzo. Lo conferma Bonometti e lo racconta un altro testimone. Hanno parlato della zona rossa di Alzano e Nembro? «Non mi pare di aver parlato di questo», ha detto Bonometti.

LE MOSSE DI CONFINDUSTRIA

A rivelare alla procura ulteriori dettagli di quei giorni convulsi in cui chi governava doveva decidere se chiudere tutto o lasciare così com’era, è Pierino Persico (non indagato), potente industriale del settore metallurgico e nautico a Nembro, una delle sue aziende produce gli scafi della barca a vela Luna Rossa.

«Bonometti mi disse che come Confindustria si stava adoperando per assicurare, pur nel contesto zona rossa, comunque il regolare svolgimento delle attività produttive delle aziende con sede a Nembro e Alzano», ha detto Persico, che ha aggiunto: «Non ho mai fatto pressioni per non far istituire la zona rossa. Ai miei interlocutori ho chiesto se era possibile lasciare la zona industriale fuori dalla zona rossa».

A tal proposito il capo degli industriali lombardi, Bonometti, ha ricordato agli inquirenti: «Rammento che Persico mi ha parlato delle sue preoccupazioni circa la produzione di qualcosa per la Jaguar».

Così mentre gli industriali manifestavano preoccupazioni per le ripercussioni negative sulla produzione e la politica nicchiava sulla zona rossa in Val Seriana, le persone continuavano ad ammalarsi.

In poche settimane avverrà un’ecatombe, che si sarebbe potuta evitare, come accertato dalla consulenza tecnica del professore Andrea Crisanti, microbiologo, oggi senatore Pd, ingaggiato dalla procura per capire quante vite avrebbe salvato la zona rossa in provincia nella bergamasca: 4.148 vittime in meno se istituita il 27 febbraio, 2.659 se fosse stata applicata il 3 marzo.

Questa la drammatica risposta contenuta nel documento che inchioda la politica alle sue responsabilità.  

FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN

Covid, tutte le accuse della Procura di Bergamo. Linda Di Benedetto su Panorama il 03 Marzo 2023

Cosa è successo nei giorni drammatici dello scoppio della pandemia e cosa si sarebbe potuto fare per evitare migliaia di morti. L'inchiesta mette in fila accuse durissime verso Conte, Speranza, Fontana, Gallera e i tecnici che decisero le misure d'emergenza

Epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio sono le accuse con cui la Procura di Bergamo ha chiuso l'inchiesta sulla gestione del Covid. A tre anni di distanza dallo scoppio della pandemia che tra febbraio e aprile 2020, ha fatto registrare oltre 6 mila morti in più rispetto alla media dell'anno precedente, per la Procura c’erano tutti gli elementi per evitare la diffusione incontrollata del Covid che ha fatto strage nel bergamasco. La notifica dell'avviso di chiusura è stata consegnata a 19 indagati. Tra questi figurano l'ex premier Giuseppe Conte, l'ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e l'ex assessore al Welfare Giulio Gallera. Nell'atto ci sono anche il presidente dell'Istituto Superiore della Sanità, Silvio Brusaferro, l'allora capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, e il presidente dell'Istituto Superiore della Sanità, Franco Locatelli, Claudio D'Amario ex dg della prevenzione del ministero, Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico scientifico nella prima fase dell'emergenza. Sono diversi i filoni dell'indagine: la repentina chiusura e riapertura dell'ospedale di Alzano, la mancata “zona rossa” in Val Seriana, l'assenza di un piano pandemico e la sottovalutazione della situazione da parte del Comitato tecnico scientifico. La diffusione del Covid per la Procura fu sottovalutata nonostante i dati a disposizione indicassero che la situazione a Bergamo stava precipitando, in particolare in Val Seriana.

Mancata adozione piano pandemico La mancata adozione e il mancato aggiornamento dei protocolli già utilizzati nel 2002 e nel 2012 per contrastare prima la Sars e poi la Mers insieme al piano pandemico nazionale antinfluenzale avrebbero permesso la diffusione del virus . Protocolli viaggiatori L’ex capo della Protezione civile e il presidente dell’Istituto superiore di sanità, tra gli altri, sono accusati della mancata attuazione di protocolli di sorveglianza per i viaggiatori provenienti da aree affette con riguardo ai voli indiretti, limitando la sorveglianza solo ai voli diretti per l’Italia. Nessuna censimento dei Dpi La mancata verifica sulla dotazione di mascherine, guanti, sovrascarpe e tute per tutti gli operatori sanitari. «Inoltrando solo il 4 febbraio 2020 specifica richiesta alle Regioni, non provvedendo tempestivamente all’approvvigionamento alla luce dell’insufficienza delle scorte», nonostante il Piano Nazionale di Preparazione e risposta per una pandemia influenzale del 9 febbraio del 2006 raccomandasse già nella fase interpandemica «l’approvvigionamento di DPI per il personale sanitario, e il censimento di una riserva nazionale di antivirali, antibiotici, kit diagnostici altri supporti tecnici per un rapido impiego nella prima fase emergenziale». Errate disposizioni Le accuse continuano con le disposizioni ministeriali che avrebbero fatto perdere tempo e ridotto l’incisività nel contrasto alla pandemia, come l’iniziale indicazione a non eseguire i tamponi agli asintomatici, la mancata predisposizione di un modello informatico per consentire alle Regioni di inviare i dati sui positivi; i ritardi e i disservizi del numero verde centralizzato 1500, i ritardi nell’attivare una piattaforma per il caricamento dei dati finalizzati alla sorveglianza epidemiologica, utile a comprendere la crescita esponenziale del contagio. Infine il Comitato Tecnico Scientifico non avrebbe tenuto conto delle proiezioni dell’Istituto Kessler di Trento, secondo il quale in Bergamasca il contagio era fuori controllo e si sarebbero dovute attivare misure di contenimento almeno a partire dal 26 febbraio con particolare riferimento è anche alla mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana, per la quale dovranno rispondere non solo Conte e il presidente Fontana ma anche diversi membri del Comitato tecnico scientifico come Agostino Mozzo, lo stesso Brusaferro, l’ex capo della prevenzione del Ministero della salute D’amario, l’ex segretario generale Ruocco e l’attuale responsabile delle malattie infettive Maraglino. Secondo l’ipotesi dei pm di Bergamo la zona rossa a Nembro e Alzano avrebbe potuto risparmiare migliaia di morti: se fosse stata istituita il 27 febbraio, le vittime in meno sarebbero state 4.148; al 3 marzo 2.659. Nella riunione del 26 febbraio il Comitato tecnico scientifico secondo gli atti ha ritenuto «non sussistenti le condizioni per l’estensione a ulteriori aree della Regione, nella zona della Val Seriana, tra i quali i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, della zona di contenimento già istituita in Lombardia dal DPCM DEL 23 febbraio».

Covid, l'ora della verità. Federico Novella su Panorama il 03 Marzo 2023

L'inchiesta di Bergamo costringe a cercare risposte alle domande rimaste inevase nei mesi drammatici della pandemia

Un primo passo verso la verità. La procura di Bergamo, dopo tre anni di indagini, ha chiuso l’inchiesta sulla gestione dei primi devastanti giorni di pandemia. L’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro Speranza, il governatore della Lombardia Fontana sono indagati per epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio. Ovviamente tutti vanno considerati innocenti fino a sentenza definitiva di colpevolezza, ma è un fatto che per la prima volta – e purtroppo per via giudiziaria e non politica – si cerca ufficialmente di far luce nel buco nero di quei giorni emergenziali. Su quei passaggi della storia patria, qualcuno ha costruito le sue fortune politiche, magari stendendo un corposo strato di retorica sulle domande rimaste inevase. Bene, questa è l’occasione giusta per restituire trasparenza su certe scelte che hanno pesato sulla vita di milioni di persone. Secondo i pm “la diffusione del virus fu sottovalutata, nonostante i dati a disposizione da settimane indicassero che la situazione stava precipitando, in particolare in Val Seriana”. I filoni su cui sarà doveroso fare chiarezza, se non altro per rispetto alle 39 mila vittime lombarde del Covid, sono in sostanza quattro: la mancata chiusura dei focolai di Alzano Lombardo e Nembro; i morti nelle Rsa della Val Seriana; la chiusura e riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo, mentre la curva epidemica cresceva; e infine i ritardi e le omissioni nel famoso piano pandemico di Roberto Speranza, mai aggiornato nonostante le pressioni ripetute da parte dell’Oms. Assieme agli indagati eccellenti, tra i 19 personaggi raggiunti da avviso di garanzia figurano alcune tra le più grandi celebrità del jet-set virologico: dal capo del consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, a Silvio Brusaferro, fino al coordinatore del Cts Agostino Miozzo e al capo della protezione civile Angelo Borrelli, che fino a qualche tempo fa snocciolava quotidianamente in tv il bollettino dei contagiati. Per tutti questi nomi non si chiede, per carità, una giustizia sommaria: semmai ci si aspetta che su questa storia fatta di pasticci, retromarce e indecisioni, venga effettuata finalmente una ricostruzione serena e completa. Perché certi errori fatali non restino senza colpevoli.

"Conte e Speranza hanno causato la morte di persone". Ecco le carte dell'inchiesta. Il procuratore capo Antonio Chiappani ha esposto le difficoltà dell'inchiesta: "Non potevamo archiviare". Francesca Galici il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

Da quanto emerge dalle indagini, Giuseppe Conte e Roberto Speranza "cagionarono per colpa" la morte di un alcune decine di persone "in cooperazione colposa" e assieme ad altri indagati. Si legge così nell'atto di chiusura delle indagini della procura di Bergamo, nel quale sono anche indicati i nomi di decine di persone purtroppo decedute. I reati si riferiscono al periodo tra il 26 febbraio e il 5 maggio del 2020. Sempre nell'atto, si legge che Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità e altri, tra cui componenti del Cts e dirigenti ministeriali avevano "a disposizione", almeno dal 28 febbraio 2020, "tutti i dati" per "tempestivamente estendere" la zona rossa anche alla Val Seriana. Erano contenuti nel "Piano Covid elaborato da alcuni componenti del Cts coordinati dal prof. Stefano Merler". Documento che "già prospettava" lo "scenario più catastrofico per l'impatto sul sistema sanitario".

La mancata zona rossa

Nell'avviso si fa poi riferimento alla mancata zona rossa in Val Seriana. Non averla istituita, "nonostante l'ulteriore incremento del contagio in Regione Lombardia registrato" il 29 febbraio e il 1 marzo 2020 e nonostante "l'avvenuto accertamento delle condizioni che, secondo il cosiddetto 'piano Covid', corrispondevano allo scenario più catastrofico", ha causato "la diffusione dell'epidemia da Sars-Cov-19 in Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro". La procura bergamasca a questo punto stima "un incremento non inferiore al contagio di 4.148 persone, pari al numero dei decessi in meno che si sarebbero verificati in provincia di Bergamo, di cui 55 nel comune di Alzano e 108 nel comune di Nembro, rispetto all'eccesso di mortalità registrato in quel periodo, ove fosse stata estesa la zona rossa a partire dal 27 febbraio 2020".

"Brusaferro propose di non attuare il piano pandemico"

I pm bergamaschi lanciano un atto di accusa anche contro il direttore dell'Iss Silvio Brusaferro, che nonostante le raccomandazioni e gli alert lanciati dall'Oms a partire dal 5 gennaio 2020 avrebbe proposto "di non dare attuazione al Piano pandemico, prospettando azioni alternative, così impedendo l'adozione tempestiva delle misure in esso previste". Nell'avviso si legge già dal 28 febbraio 2020 il primo Comitato tecnico scientifico era a conoscenza dello "scenario più catastrofico per l'impatto sul sistema sanitario e sull'occupazione delle terapie intensive" in Lombardia dovuto alla diffusione del Coronavirus. E ciononostante - contestano i pm - i componenti, tra cui Silvio Brusaferro, Franco Locatelli e Agostino Miozzo, non proposero "l'estensione delle misure previste per la c.d. "zona rossa" ai comuni della Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro". In serata è arrivata una nota di commento dell'Iss che sottolinea: "Non è nei poteri del Presidente dell'Istituto adottare piani pandemici o dar seguito alla loro esecuzione". E anche: "La linea seguita dall'Istituto, su indicazione del suo Presidente, durante tutto il periodo della pandemia e sin dagli inizi, è stata improntata alla massima precauzione e al massimo rigore scientifico".

"Comanda lo Stato". Così il governo Conte bloccò Fontana sul Covid

La Procura: "Insufficiente valutazione del rischio pandemico"

Dopo la notifica della chiusura delle indagini per l'inchiesta sulla pandemia Covid, il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, è intervenuto ai microfoni di Radio24. "Di fronte a queste criticità, a queste, secondo noi, insufficienze nelle valutazioni del rischio pandemico, perché stiamo parlando della prima fase della pandemia, del gennaio, febbraio e marzo del 2020, e di fronte alle migliaia di morti e a consulenze che ci dicono che questi potevano essere anche eventualmente evitati, noi non potevamo chiudere con un'archiviazione dell'inchiesta", ha affermato il procuratore.

"Inchiesta complessa"

Ma Chiappani è tornato anche sulla zona rossa della bergamasca, spiegando che col "decreto del 23 febbraio 2020 era stata richiamata la legislazione sanitaria precedente, per cui nel caso di urgenza c'era la possibilità sia a livello regionale sia anche a livello locale di fare atti contingibili e urgenti in termine tecnico, cioè di chiudere determinate zone, c'era questa possibilità e poteva essere fatto proprio in virtù di questo diretto richiamo". E qui spiega: "Dal punto di vista giuridico è così, mentre dal punto del fatto è la consapevolezza che poteva avere un sindaco che si era in una situazione di emergenza. Quindi si rimanda al problema della ricostruzione dei dati che erano in possesso di un sindaco o un presidente di regione o un ministro. Questo era il problema della nostra indagine, capire il grado di conoscenza al fine di poter fare un intervento d’urgenza".

Chiappani ha ribadito che si è trattato di una "inchiesta complessa", di "ricostruzione di vite spezzate", chiarendo che si dovranno "dimostrare anche i nessi di causalità tra le morti e gli ipotizzati errori o mancanze".

Covid, come è nata l'inchiesta: cosa è successo in quei giorni di tre anni fa. La procura di Bergamo invia gli avvisi di garanzia: indagati Conte, Speranza, Fontana e i vertici del ministero della Sanità. Giuseppe De Lorenzo il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

È un’unica grande inchiesta, ma sembra quasi avere più anime. Non solo, o non tanto, perché le posizioni penalmente rilevanti dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex ministro Roberto Speranza sono state affidate, come richiede Costituzione, al Tribunale dei ministri di Brescia. Ma perché tocca tanti, forse troppi, aspetti di quei tragici mesi di inizio 2020 quando i decessi mensili nella Bergamasca passarono da una media di 800 a oltre 6mila. Muovendo tanti tentacoli come una piovra, i magistrati bergamaschi hanno cercato di stabilire cause ed effetti, responsabilità ed omissioni, ipotizzando i reati di “epidemia colposa” e "omicidio colposo" causati da una “insufficiente valutazione del rischio” pandemico. “Il lavoro fatto è mastodontico”, assicura il procuratore capo Antonio Chiappani. Se l’impianto accusatorio reggerà in aula è tutto da vedere, i diretti interessati restano innocenti fino a prova contraria, ma i magistrati rivendicano di aver avuto un altro scopo, oltre quelle squisitamente penale: ricostruire i fatti e "dare una risposta alla popolazione” colpita dal Covid. Ecco: cosa è successo davvero in quei giorni di tre anni fa?

Da dove è nata l’inchiesta

Tutto nasce dall’ospedale di Alzano Lombardo, teatro della prima forte propagazione del virus come ricostruito nel “Libro nero del coronavirus”. In principio i magistrati Cristina Rota, Silvia Marchina e Paolo Mandurinosi si sono chiesti se vi fossero anomalie nella gestione del nosocomio, soprattutto in merito alla riapertura del pronto soccorso dopo i primi casi. Non a caso, i primi indagati furono proprio i vertici della sanità lombarda e solo in un secondo momento le attenzioni si sono allargate a macchia d’olio toccando i decisori politici al Pirellone (Fontana e Gallera) e quelli delle istituzioni romane (Conte e Speranza). Il primo atto risale al giugno 2020 con l’iscrizione nel registro degli indagati dell'ex dg del Welfare lombardo Luigi Cajazzo, dell'allora suo vice Marco Salmoiraghi e di altri dirigenti. Poi poco dopo i pm sentirono a Roma l’ex premier Conte e il ministro Speranza, oltre a decine di altri testimoni tra dirigenti del ministero, dell'Iss e del Cts. L’indagine mese dopo mese si è arricchita di tre consulenze scientifiche, tra cui quella del senatore Pd Andrea Crisanti. E soprattutto di un altro faldone scottante, quello sul report scomparso dal sito dell'Oms, che nell'aprile 2021 portò ad una richiesta di informazioni indirizzata all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Piccole tessere di un enorme puzzle che oggi, con il definitivo avviso di garanzia, iniziano ad assumere una forma più logica.

Il piano pandemico

Ad essere indagati per epidemia colposa risultano Roberto Speranza, Claudio D’Amario (ex dg prevenzione sanitaria), Angelo Borrelli (ex capo della Protezione Civile), Silvio Brusaferro (Iss), Luigi Cajazzo (dg Sanità lombarda) e Giulio Gallera (ex assessore Welfare). La loro colpa? Non aver applicato i vari piani pandemici influenzali, sia a livello nazionale che regionale. E questo nonostante, sostengono i pm, vi fossero tutti i segnali per farlo. L’Oms il 5 gennaio aveva diramato una raccomandazione ad attuare tutte le “misure di sanità pubblica” sulla sorveglianza epidemiologica, da cui sarebbe dovuto determinare “l’ingresso dell’Italia nella Fase 3” del piano pandemico. Non solo. L’Oms e la Paho il 20 gennaio avevano già confermato “la trasmissione del virus da persona a persona” e invitavano ad applicare le misure di controllo già attuate per la Sars e la Mers. Senza dimenticare che il 31 gennaio l’Oms aveva dichiarato “emergenza internazionale”, che il successivo 4 febbraio aveva incitato ad “affrontare l’emergenza pandemica anche con i vigenti piani influenzali” e che già dal 2014 le malattie da coronavirus venivano “equiparate a quelle dell’influenza”.

In sostanza: i magistrati ritengono che vi fossero tutti i presupposti per applicare quel famoso piano pandemico del 2006 che invece, nei fatti, venne tenuto nel cassetto. Perché? E soprattutto: per quale motivo si decise di impegnare le energie per riscrivere da zero un nuovo piano anti-covid, mai reso pubblico se non dopo battaglie giudiziarie di Fratelli d’Italia, e noto al pubblico come “piano segreto”?

Per la precisione, a Brusaferro viene contestato di aver proposto in sede di riunioni governative “di non dare attuazione al piano pandemico prospettando azioni alternative”, proposta che avrebbe impedito l’adozione tempestiva delle misure necessarie. D’Amario e Borrelli, invece, dovranno difendersi anche dall’accusa di non aver adottato alcune azioni di sorveglianza, assistenza e sanità pubblica. I due malcapitati sono accusati di non aver messo a punto né attuato protocolli di sorveglianza per i viaggiatori cinesi approdati mediante “voli indiretti” (è ormai acclarata l'inutilità dell'idea di bloccare solo i voli dalla Cina); di aver iniziato la sorveglianza epidemiologica solo a partire dal 26 febbraio e non, come previsto dal Piano, sin dall’inizio della Fase 3; di aver acquistato dispositivi medici per la terapia intensiva solo dal 6 marzo, a strage già in corso; di non aver censito tempestivamente i reparti di malattia infettiva sul territorio né i ventilatori polmonari disponibili; di non aver verificato la formazione del personale sanitario né di aver provveduto a organizzare corsi specifici nel pieno dell’allerta; e di non aver verificato “tempestivamente” la dotazione di Dpi per il personale sanitario, benché il Piano prevedesse di dotarsene già nelle pandemiche di relativa calma piatta. Più o meno le stesse accuse rivolte anche a Cajazzo e Gallera, ovviamente a livello regionale.

Si tratta di azioni, o meglio omissioni, già ampiamente contestate in diverse inchieste giornalistiche sul campo. E che secondo i magistati avrebbero “cagionato la diffusione” del Covid “così determinandone la diffusione incontrollata” e cagionando “la morte di più persone”.

La zona rossa

Altro tema riguarda invece la mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana. Qui gli indagati, oltre a Giuseppe Conte e Attilio Fontana, sono una lunga sfilza di dirigenti del ministero della Sanità. Parliamo di Brusaferro, D’Amario e tutto il Cts dell’epoca: Maurio Dioniso, Giuseppe Ippolito, Franco Locatelli, Francesco Maraglino, Giuseppe Ruocco, Andrea Urbani e Agostino Miozzo. I fatti sono noti. E bisogna tornare tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2020. Alla notizia del "paziente zero" di Codogno e del primo focolaio a Vo' Euganeo,ik governo reagisce chiudendo i comuni in quarantena: nessuno entra e nessuno esce. La speranza era quella di contenere la diffusione del contagio, che però inizia a propagarsi. I numeri salgono anche al di fuori dei cordoni sanitari imposti dalle autorità, soprattutto in Val Seriana. Cosa fare, allora? Ed è qui i decisori politici tentennano: chiudere anche la Bergamasca oppure no? Ad Alzano e Nembro vengono inviati i militari pronti a chiudere tutto, poi l’ordine di procedere non arriverà mai. Perché? E chi decise il contrario? Ma soprattutto: c’è un nesso eziologico tra la mancata zona rossa e il surplus di decessi in valle? Secondo Andrea Crisanti, e secondo i pm, la risposta è affermativa: si sarebbero potuti evitare 4.148 decessi in tutta la provincia di Bergamo.

Per i magistrati, i menbri del Cts avrebbero dovuto suggerire ai politici di istituire la zona rossa in valle sin dalla riunione del Cts 26 febbraio: invece per giorni, e fino al 2 marzo, si limitarono solo a proporre alcune “misure integrative”. Mai la chiusura drastica, nonostante “il Cts fosse a conoscenza del numero di contagi” e avesse “a disposizione tutti i dati” per stabilire che “bisognasse tempestivamente estendere anche ad altre zone” il lockdown duro. Uno studio di Stefano Merler, in fondo, “già prospettava” lo “scenario più catastrofico per l'impatto sul sistema sanitario e sull’occupazione delle terapie intensive”.

Il discorso si complica per quanto riguarda Attilio Fontana. Secondo i magistrati, infatti, la Regione avrebbe avuto l’autorità per disporre in autonomia la zona rossa una volta constatato che l’r0 era oltre 2, che gli ospedali erano in affanno e che il numero dei casi cresceva a dismisura. I pm contestano al governatore di aver chiesto in due mail, datate 27 e il 28 febbraio, a Giuseppe Conte “il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento” già in vigore, dunque senza segnalare "alcuna criticità in Val Seriana" né chiedendo a gran voce "ulteriori e più stringenti misure di contenimento".. Una ricostruzione contestata da Fontana: “Quando si tratta di una emergenza pandemica - ha detto il governatore - la competenza è esclusiva dello Stato secondo la Costituzione, non secondo me”. Senza dimenticare che “la stessa ministra Lamorgese aveva mandato una direttiva dicendo 'guai a voi se volete sovrapporvi con iniziative relative alle chiusure delle cosiddette zone rosse perché questa è una competenza esclusiva dello Stato’”.

Nell’avviso di conclusione indagini, va detto, mancano le accuse specifiche rivolte a Conte e Speranza, per cui occorre procedere tramite il tribunale dei ministri. Ma sula Val Seriana sarà interessante leggere le valutazioni fatte dai pm in merito a quanto successo dal 3 marzo in poi. A Fontana infatti viene contestato il reato solo fino a quel giorno, data in cui - nel corso di una riunione del Cts lombardo - esprime parere favorevole all’istituzione della zona rossa. Cosa successe da lì all’8 marzo, data in cui viene emenato il decreto più generale per l’intera Lombardia e l’Italia? Il governo chiese ulteriori chiarimenti, nonostante sin dal 2 marzo la bozza di decreto fosse pronta con la firma di Speranza. E nonostante, scrivono i pm, quello stesso giorno Conte fosse stato messo al corrente della necessità di “misure di limitazione all’ingresso e all’uscita” da Alzano Lombardo e Nembro. Perché non firmò il decreto? E perché gli oltre 400 militari inviati sul posto il 5 marzo rimasero inerti per tre giorni?

Il report dell’Oms

L’ultimo petalo di questa maxi inchiesta tocca ancora da vicino il piano pandemico. Per la precisione il suo mancato aggiornamento dal 2006, come scoperto dal ricercatore dell’Oms Francesco Zambon e rivelato in un ormai famoso report scomparso misteriosamente dal sito dell’Organizzazione. Come già riportato ad aprile del 2021 dall’Agi, anche l'ex direttore aggiunto dell'Oms, Ranieri Guerra, risulta tra gli indagati ma per “false informazioni rese ai pm” in relazione alle presunte dichiarazioni non veritiere fatte ai magistrati quando venne convocato come persona informata sui fatti il 5 novembre del 2020. Al centro della sua deposizione, la questione del mancato aggiornamento del piano pandemico del 2006 che, secondo Zambon, Guerra avrebbe fatto retrodatare per farlo sembrare aggiornato al 2017.

Solo un altro tassello, di un puzzle complesso. E ancora tutto da comporre.

"Comanda lo Stato". Così il governo Conte bloccò Fontana sul Covid. Il presidente della regione Lombardia denuncia il solito iter giustizialista: "Vergonoso scoprire dai giornali di essere indagato". William Zanellato il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

Esattamente tre anni dopo l’inizio della pandemia, ieri sera è arrivata la notizia della chiusura della fasi delle indagini dell’inchiesta per epidemia colposa. A finire nel mirino dei procuratori come indagati ci sono, tra gli altri, l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza e il governatore della Lombardia Attilio Fontana. Quest’ultimo, raggiunto dai microfoni di Radio Anch’io, denuncia il solito metodo giustizialista e perverso che aleggia nel nostro Paese: “È vergognoso che una persona scopra dai giornali di essere indagato”. Il solito e annoso iter che abbatte il garantismo e lede l’onore delle persone coinvolte nelle indagini.

La denuncia di Fontana

Il procuratore aggiunto di Bergamo, Cristina Rota, con i pm Silvia Marchina e Paolo Mandurino, hanno concluso un’indagine sul periodo che scosse il nostro Paese tre anni fa. Il ritardo nell'istituzione della zona rossa è sicuramente il nodo centrale dell’inchiesta ma, allo stesso tempo, non sono da sottovalutare il mancato aggiornamento e la mancata applicazione del piano pandemico. Le ipotesi di reato sono omicidio colposo, epidemia colposa e rifiuto di atti d’ufficio. Ma ciò non cancella il grave errore procedurale denunciato dal presidente Attilio Fontana: il presidente della regione e il suo assessore alla Salute dell’epoca, Giulio Gallera, ieri sera non avevano ancora ricevuto alcun atto riguardante la chiusura dell’inchiesta portata avanti dalla Procura di Bergamo.

A denunciarlo è lo stesso Fontana, intervenendo in mattinata al programma radiofonico Radio Anch’io: “Non ho visto le carte – esordisce il governatore appena rieletto – è vergognoso che una persona che è stata sentita all’inizio dell’indagine come persona a conoscenza dei fatti, perché io ero stato sentito come testimone, scopra dai giornali di essere trasformato in indagato”. Un iter procedurale che, inutile girarci intorno, non ha nulla a che fare con lo stato di diritto. “È una vergona – aggiunge Fontana –sulla quale mi chiedo se qualche magistrato ritenga di fare qualche indagine o meno. È una vergogna che dovrebbe essere valutata in questo Paese”. “Quanto accaduto – chiosa il governatore – è la dimostrazione della curiosità e della stranezza della giustizia italiana”.

Il ruolo dell'ex ministro Lamorgese

In merito all’inchiesta condotta dalla procura di Bergamo, il presidente Attilio Fontana, ha voluto far luce su alcuni punti focali. “Io ricordo solo due considerazioni: la prima che quando si tratta di una emergenza pandemica, la competenza è esclusiva dello Stato”. “La seconda – sottolinea Fontana – è che la stessa ministra Lamorgese aveva emesso un provvedimento dicendo ‘Guai a voi se volete sovrapporvi con iniziative sulle chiusure, sulle zone rosse”. Tra i nominati dal presidente lombardo c’è anche l’ex ministro dem per gli Affari regionali, Francesco Boccia: “In quei giorni il ministro Boccia mi disse una frase famosa: ‘In questi casi è lo Stato che comanda”.

"Ingerenza esagerata". Bassetti critico sull'inchiesta Covid. L'infettivologo critico sull'impianto accusatorio: "Rimango perplesso, invasione di campo che non condivido". E domani verrà ascoltato alla Camera per la possibile commissione parlamentare sulla gestione pandemica. Marco Leardi il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

L'inchiesta Covid per i morti nella bergamasca convince poco Matteo Bassetti. Le accuse sono gravose e tra gli indagati (ben 19) ci sono anche nomi illustri, tra cui l'ex premier Giuseppe Conte e l'allora ministro Roberto Speranza. "Cagionarono per colpa" la morte di un alcune decine di persone, si legge nell'atto di chiusura delle indagini. Ma su quelle circostanze il direttore Malattie infettive dell'Ospedale San Martino di Genova è assai più cauto della procura. "Rimango perplesso", ha affermato all'Adnkronos il professore, che nelle prossime ore sarà ascoltato in audizione formale alla Camera sulla proposta di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla gestione dell'emergenza pandemica.

"Si potevano chiudere prima le zone rosse o evitare la partita dell'Atalanta. Ma eravamo di fronte ad un virus tutto nuovo che nessuno conosceva. Più che le decisioni prese a febbraio-marzo 2020, che in qualche modo erano come tirare una moneta, sarei andato di più ad indagare quello fatto dopo, come si farà con la Commissione parlamentare d'inchiesta", ha dichiarato Bassetti. All'attenzione degli inquirenti erano finite la mancata zona rossa in Val Seriana ai primi di marzo e l'assenza di un piano pandemico aggiornato. Fatti sui quali dovranno essere accertate eventuali responsabilità, in quella che fu una complessa e concitata catena decisionale.

"Comanda lo Stato". Così il governo Conte bloccò Fontana sul Covid

Al riguardo, il presidente lombardo Attilio Fontana (che pure risulta tra gli indagati) nelle scorse ore aveva precisato: "Quando si tratta di una emergenza pandemica, la competenza è esclusiva dello Stato", lasciando intendere di non aver avuto margine di azione in quelle scelte. Ora si capirà se a esprimersi dovranno essere o meno i giudici. Su quella delicata fase si registra intanto la posizione garantista di Matteo Bassetti. "Io credo alla buona fede di chi ha preso le prime decisioni e ora ritrovarsi indagati per disastro colposo, per un'infezione che sappiamo bene che ha canali di diffusione e modalità che vanno scoperte, è un'ingerenza esagerata", ha affermato il professore, che proprio in quei mesi ebbe una particolare esposizione mediatica per il proprio ruolo professionale di infettivologo.

"Io ho criticato molto le decisioni prese dopo, ma per i fatti del febbraio-marzo 2020 vedo una invasione di campo che non condivido", ha aggiunto ancora Bassetti, critico dunque rispetto all'impianto accusatorio.

Da Pregliasco a Galli gli scienziati sul Covid: "No caccia alle streghe". Medici e virologi difendono la Regione. Fontana ricorda: "Comandava lo Stato". Cristina Bassi il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il giorno dopo la notizia dell'inchiesta bergamasca sull'emergenza Covid, che li coinvolge insieme a esponenti dell'ex governo Conte, Attilio Fontana e Giulio Gallera ribadiscono la convinzione di aver fatto il possibile per arginare il disastro del 2020. «Vergognoso - denuncia il governatore - che una persona che è stata sentita all'inizio dell'indagine come persona a conoscenza dei fatti, come testimone, scopra dai giornali di essere invece trasformato in indagato». L'ex assessore regionale al Welfare si dice «sereno» e aggiunge: «Garantirò, come ho sempre fatto, la massima collaborazione alla magistratura».

L'attacco politico arriva dall'eurodeputato del Pd Pierfrancesco Majorino: «Fontana non si autoassolva. Al di là del merito dell'inchiesta di cui seguiremo gli sviluppi la sua gestione del Covid è stata continuamente e pericolosamente pasticciata». E Letizia Moratti, che subentrò a Gallera: «Al di là degli aspetti giudiziari, tutti gli osservatori concordano nel giudicare carente il livello di preparazione che ha mostrato nel 2020 il sistema sanitario regionale nel contrasto al Covid». Luigi Cajazzo, all'epoca dg del Welfare, anche lui destinatario dell'avviso di chiusura delle indagini, conferma all'Adnkronos Salute di aver detto ai pm che lui la zona rossa per Alzano e Nembro la voleva. Ancora Gallera: «Abbiamo affrontato il Covid a mani nude e sulla base delle pochissime informazioni delle quali potevamo disporre abbiamo messo in campo le decisioni più opportune». Fontana ribadisce a Radio Anch'io: «Quando si tratta di un'emergenza pandemica la competenza è esclusiva dello Stato secondo la Costituzione, non secondo me. La stessa ministra Lamorgese aveva mandato una direttiva dicendo guai a voi se vorrete sovrapporvi con iniziative relative alle cosiddette chiusure delle zone rosse perché questa è una competenza esclusiva dello Stato». E «il ministro Boccia in quei giorni disse una frase famosa, in questi casi addirittura non interviene lo Stato, lo Stato comanda».

Anche gli scienziati intervengono sulla questione. Per Fabrizio Pregliasco le novità giudiziarie rischiano di «accendere di nuovo tifoserie» e di diventare «una rincorsa a puntare il dito contro chi eventualmente ha sbagliato». Spiega: «La situazione in cui ci siamo trovati» in Lombardia, nelle prime settimane del Covid, «era veramente oltre misura». Poi ricorda: «Nel mio piccolo sono stato parte di questa attività, della difficoltà di prendere delle decisioni in quei momenti. Perché chi fa sbaglia e, come sempre, a posteriori è facile dire che si sarebbe potuto o dovuto agire altrimenti». Così Massimo Galli: «L'Italia si è trovata davanti a difficoltà strutturali che il nostro Paese ha dovuto affrontare con un evento eccezionale come la pandemia. È molto evidente che non fosse definito chi dovesse e potesse fare e cosa fare, ci sono stati contrasti dal punto di vista della gestione diretta dei problemi che sono emersi in continuazione». E Maria Rita Gismondo: in Lombardia «siamo stati gestiti dal ministero della Salute, come è giusto che sia, che a sua volta si è appoggiato a dei tecnici, all'Istituto superiore di sanità». Quindi: «Dal punto di vista locale e regionale, per quello che ho vissuto in quei giorni, ritengo che le decisioni prese siano state una conseguenza delle decisioni e dei pareri centrali. Sarei molto cauta nell'attribuire responsabilità al presidente Fontana e all'allora assessore» Gallera.

Estratto dell’articolo di Silvia Turin per “il Corriere della Sera” l’8 marzo 2023.

Ci sono un «prima» e un «dopo» nella valutazione delle decisioni prese dagli attori in campo che si occuparono di gestire l’emergenza Covid nelle prime fasi della pandemia. Ne è convinto Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive presso il Policlinico San Martino di Genova.

 Qual è la sua valutazione sull’opportunità di fare un’inchiesta giudiziaria sulla gestione del Covid a tre anni di distanza?

«Eravamo tutti al buio nelle prime due settimane: è chiaro che oggi, con le conoscenze acquisite, la vediamo in maniera diversa, ma andare a sindacare sulle decisioni prese allora è un esercizio profondamente sbagliato. […]».

L’inchiesta vuole dare una risposta anche ai famigliari delle vittime e indicare delle responsabilità…

«Piango le vittime, ma mi chiedo: ci sono state solo a Bergamo, perché è dove abbiamo visto le bare sfilare per strada? Ci sono morti di serie A e di serie B? Abbiamo contato i morti non perché qualcuno ha sbagliato, ma perché è arrivato un virus sconosciuto. Mettere qualcuno sulla graticola è sbagliato e rischioso».

 In che senso?

«Secondo me si sta buttando benzina sul fuoco dei negazionisti e dei no vax, perché oggi prendono l’indagine (della Procura di Bergamo, ndr) come una vittoria. Questa indagine temo che incentiverà anche la “medicina di difesa”: nessuno si prenderà la responsabilità di decidere in mancanza di certezze. Non conosco il virus, allora non darò alcun trattamento e non prenderò decisioni se non ci sono evidenze, per il timore di essere inquisito. È un pericoloso precedente sanitario / medico. In medicina, però, le intuizioni hanno cambiato la storia». […]

Politici, tecnici del CTS, amministratori: la catena di comando è stata poco chiara?

«Quel primo Comitato Tecnico Scientifico (CTS) era espressione degli organi tecnico consultivi del Ministero. Non poteva che essere che così, all’inizio, ma esprimo riserve sulla sua “dinamicità”: dopo il primo mese, i membri del CTS andavano sostituiti, magari inserendo i medici che avevano visto la malattia. […]».

 A che punto siamo con la prevenzione per la prossima pandemia?

«Credo che si sia ancora al punto zero, anche se so che il ministro Schillaci sta lavorando su questo, ma anche con il governo precedente si è fatto poco. […]».

Il piano pandemico aggiornato sarebbe servito?

«Quello del 2006 comunque recita alcune norme che, se fossero state applicate, sarebbero servite.[…]».

 L’istituzione anticipata al 27 febbraio della Zona rossa in Val Seriana avrebbe risparmiato la vita a 4.000 persone, come sostiene la procura di Bergamo?

«Immagino che la valutazione (fatta dal consulente Andrea Crisanti, ndr) sia basata su modelli matematici che partono dalla capacità di diffusione del virus che in quel momento era molto alta. Nessuno ha uno studio scientifico, però, che può dare una riprova del contrario: è evidente che la zona rossa avrebbe aiutato a ridurre (come ha fatto dove si è fatta) la diffusione del contagio, ma gli elementi che avevano in mano i decisori politici e tecnici in quel momento erano sufficienti per prendere quella decisione?

Non scordiamo che la zona rossa a Codogno era stata istituita una settimana prima e non si erano ancora visti i risultati positivi sul numero dei morti. Credo anche che ci fosse una diversa percezione dello stato delle cose allora: forse a Roma o nel Sud Italia c’era una sottovalutazione dell’entità del problema». […]

Bassetti: “Inchiesta politica. Ogni scelta era un’incognita”. Rita Cavallaro su L’Identità il 3 Marzo 2023

L’inchiesta di Bergamo puzza di processo politico. È un errore clamoroso voler andare ad analizzare solo il febbraio 2020, perché qualunque decisione è stata presa allora era un po’ come tirare una moneta. Se fosse stata analizzata tutta la gestione della pandemia, sarebbe un altro discorso, perché di errori ne sono stati commessi, ma non quelli di Bergamo, perché brancolavamo così tanto nel buio che ogni tipo di scelta era un’incognita”. Parla Matteo Bassetti, primario di Infettivologia al San Martino di Genova.

Professore, lei non ravvisa le responsabilità che i pm contestano agli indagati?

Ogni scelta fatta dalla politica era basata sulle indicazioni del Cts, ma in quel momento la scienza brancolava nel buio. Bisogna trovare per forza una colpa? L’unica colpa ce l’ha il virus. Processiamo il virus. O chi non ci ha detto la verità, i cinesi. Ma tornare a quello che è successo in quel periodo con gli occhi di oggi, con tre anni di conoscenza, credo sia un gravissimo errore. Le dico di più: avendo vissuto da medico, sulla mia pelle, le decisioni che prendevamo, se in quel momento avessi dovuto pensare che sarebbe arrivato un giorno in cui ci avrebbero processati per quello che abbiamo fatto, allora questo è un paese ingrato. Il tribunale non è il luogo dove fare questo processo ma se vogliamo farlo, che sia scientifico.

In che senso?

Che non è possibile che le conclusioni si basino su un consulente unico, Crisanti. Lo trovo anche antidemocratico, che decide uno che non è neanche il più meritevole di tutto il movimento scientifico italiano. Crisanti è una persona che stimo, ma si dimentica una cosa fondamentale: in quel momento non avevamo i tamponi. Cosa si poteva fare? Sull’istituzione della zona rossa si può essere d’accordo, ma sulle Rsa, quando ce ne siamo accorti, il virus era già là dentro. Quindi le conclusioni a cui è arrivata questa inchiesta non le condivido per la semplice ragione che quando si affronta un nemico come il Covid-19, bisogna sempre porsi dove si era, cioè nel febbraio 2020. Oggi, col senno del poi, è chiaro che avremmo fatto scelte diverse, ma sono tre anni di conoscenze, di studio.

Lei propende per un collegio di periti?

Certo, perché io che faccio queste perizie le dico che consulenti scientifici di rilievo arrivano spesso a conclusioni diametralmente opposte. Trovo sbagliata quest’ingerenza della magistratura, ma è evidente che questo è un paese governato dai processi. E pure sul Covid devono dire la loro. Non ho mai avuto una simpatia nei confronti di Speranza e di Conte, ma non è così che si analizzano le cose. A questo punto l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta Covid, sulla quale ho avuto qualche dubbio e per la quale sono stato audito oggi (ieri, ndr) in Commissione Affari Sociali della Camera, dopo la mossa della procura di Bergamo credo sia utilissima, perché è un organismo terzo, sceglierà dei consulenti, si guarderanno le singole decisioni sulla base di un gruppo di esperti. Può essere un contraltare, anche se nessuno vuole fare il contraltare alla magistratura. E valuterà questioni oggettive per migliorare, se dovesse succedere qualcosa di simile in futuro.

Lei ha già portato l’attenzione su una possibile pandemia di aviaria?

Sì. Non dobbiamo fare l’errore che siccome la gente dopo tre anni è stufa di sentir parlare di virus allora noi ne parliamo più, come abbiamo fatto con la Sars del 2003. L’aviaria c’è, ci sono stati alcuni casi che non devono allarmarci, ma ci devono mettere nella condizione di organizzarci. Il Covid ci ha preso alle spalle, dobbiamo accelerare sulla ricerca dei vaccini per l’aviaria, per renderli disponibili per chi lavora con i polli e gli allevamenti.

E chi lo dice ai no vax che aspettiamo un altro vaccino?

Alla gente bisogna dire che i vaccini salvano la vita. Sull’aviaria è necessario lavorare velocemente a un vaccino a livello internazionale per avere farmaci attivi, cosicché se arriva un paziente possiamo curarlo. Evitiamo la censura, perché non parlare di un problema vuol dire minimizzarlo.

Fare il processo alla pandemia: l’ultima frontiera del panpenalismo. La procura di Bergamo chiude l’inchiesta sul Covid:  «Il nostro dovere è soddisfare la sete di verità della popolazione». Ma è sensato indagare Conte e Speranza per “omicidio plurimo” colposo? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 2 marzo 2023

«Il nostro dovere è soddisfare la sete di verità della popolazione», così, testuali parole, il capo della procura di Bergamo Antonio Chiappani presenta ai lettori della Repubblica l’inchiesta sulla presunta malagestione dell’emergenza Covid che vede indagate 19 persone tra cui l’ex premier Giuseppe Conte, l’ex ministro della sanità Roberto Speranza e il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana.

Sono accusati di reati che, solo a pronunciarli, evocano atti di inaudita gravità: epidemia colposa aggravata e omicidio colposo plurimo, oltre al più ordinario rifiuto di atti di ufficio, reato di omissione. La posizione dei deputati Conte e Speranza è stata comunque stralciata e trasmessa al tribunale dei ministri, l’unico organismo competente per giudicarli. «Le vite nel bergamasco cadevano come birilli, c’è stata una catena di errori. Senza quegli errori, non avremmo avuto tutti questi morti», sostiene il procuratore.

Tre i filoni dell’indagine condotta dalla procuratrice aggiunta di Bergamo Cristina Rota assieme alla Guardia di finanza: le anomalie nella gestione dell'ospedale di Alzano, il mancato allestimento della zona rossa in Val Seriana e l'assenza di un piano pandemico aggiornato per contrastare la pandemia come raccomandato dall’Oms. Ci sono voluti tre lunghi anni, migliaia di documenti ufficiali, chat telefoniche, mail e cartelle cliniche passate al setaccio, per formulare le accuse: «È un tempo lungo, lo ammetto, ma sempre meno della politica», graffia Chiappani che con la “politica” sembra avere il dente avvelenato. Già lo scorso anno, a indagini ancora in corso, rilasciò un’intervista al quotidiano Domani dando del bugiardo al ministro speranza: «Non ha raccontato cose veritiere, anche questo è un aspetto che dovremo valutare».

Al di là delle uscite inconsuete sui giornali, è l’impianto stesso dell’inchiesta bergamasca che lascia perplessi. L’idea di processare una pandemia che ha colto di sorpresa il mondo intero, mettendo in ginocchio governi e sistemi sanitari, dividendo e stressando la stessa comunità scientifica, sembra andare contro il semplice buon senso. Qualcuno ricorda il caos che regnava in Italia e poi in Europa e nell’intero pianeta all’inizio del 2020?

Proveniente dalla Cina, il Covid 19 sembrava un morbo inarrestabile e il nostro paese è stato il primo a dover fronteggiare il virus, a vivere la situazione apocalittica negli ospedali con i reparti di terapia intensiva giunti allo stremo, con il macabro bollettino dei morti, le code davanti i supermercati, il confinamento e il coprifuoco che non si vedevano dai tempi della Seconda guerra mondiale. Mentre in tv virologi ed epidemiologi diventavano i nuovi sacerdoti, lanciandosi in ipotesi e scenari spesso contraddittori, a volte litigando tra di loro. Il governo Conte ha in tal senso preso le misure più dure e tempestive di tutti i paesi europei, a volte con effetti grotteschi come gli elicotteri che inseguivano i bagnanti nelle spiagge o i poliziotti a caccia nei parchi pubblici di appassionati di jogging.

Ad esempio in Francia, Germania, Spagna, Olanda, Inghilterra e altre nazioni le autorità hanno avuto complessivamente un approccio più blando, limitando i lockdown e le varie restrizioni, specialmente i paesi protestanti, per i quali il rispetto della libertà individuale prevale persino sul diritto alla salute pubblica. E alla fine il bilancio delle vittime è stato più o meno simile per tutti perché ben poco si poteva fare per arrestare le primi terribili ondate.

Sono stati commessi degli errori da parte del governo e dei dirigenti sanitari locali? Senz’altro ma sarebbe assurdo pretendere una reazione infallibile di fronte a un’emergenza così oscura e inedita. Il Covid 19 era un malattia sconosciuta contro la quale non esistevano difese e inizialmente fu sottovalutata da tutti. Questo lo sa anche il procuratore di Bergamo, cosciente dei limiti della sua inchiesta e sui tratti sfuggenti del reato di epidemia colposa: «Stando alla Cassazione, c'è un problema di configurabilità, ne siamo consapevoli, magari qualcuno sarà prosciolto, qualche posizione sarà archiviata, o i giudici riterranno che non si debba procedere». 

Bergamo, inchiesta sul Covid: indagati Conte e Speranza per omicidio colposo plurimo. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 2 Marzo 2023.

A tre anni dall’inizio della pandemia la Procura di Bergamo ha chiuso l’inchiesta sulla gestione della prima ondata, facendo tremare coloro che all’epoca rivestivano ruoli di spicco a livello istituzionale: sono 19, infatti, gli indagati a vario titolo per i reati di epidemia colposa aggravata, omicidio colposo plurimo e rifiuto di atti di ufficio, e tra questi troviamo l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza. I nomi noti coinvolti nell’inchiesta, però, non si fermano di certo a quelli appena menzionati, visto che tra gli indagati vi sono anche il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, il coordinatore dell’allora Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo, l’ex capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli. Gli avvisi di conclusione dell’indagine sono in via di notifica per tutti ad eccezione di Conte e Speranza, per i quali si prepara la trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri, che dovrà valutare le loro posizioni.

Sono queste, dunque, le conseguenze della chiusura dell’indagine, con cui si è cercato di individuare e chiarire le eventuali responsabilità dei tanti morti verificatisi nella provincia di Bergamo. Per farlo, nel mirino degli inquirenti sono finiti non solo la repentina chiusura e riapertura dell’ospedale di Alzano e la mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana (precisamente nei Comuni di Alzano lombardo e Nembro), ma anche la mancata applicazione e il mancato aggiornamento del piano pandemico atto a contrastare il rischio pandemia lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), risultando lo stesso fermo al 2006.

La conclusione delle indagini, com’è noto, non è un atto d’accusa“, ha tenuto a precisare la Procura di Bergamo stante l’estrema rilevanza del caso, che ha subito generato un certo clamore. Eppure – seppur quelle menzionate in precedenza siano appunto semplici ipotesi di reato – non si può non sottolineare come sia alquanto comprensibile lo scalpore che la notizia ha suscitato, non solo poiché l’attività svolta dalla Procura ha consentito di ricostruire i fatti così come si sono svolti a partire dal 5 gennaio 2020, ma anche in virtù del fatto che l’inchiesta coinvolge le già citate personalità di spicco a livello politico e scientifico-istituzionale, che ovviamente hanno subito preso posizione a riguardo. «Anticipo subito la mia massima disponibilità e collaborazione con la magistratura», ha fatto sapere l’ex premier Conte, che ha sottolineato di sentirsi «tranquillo di fronte al Paese e ai cittadini italiani» avendo «operato con il massimo impegno e con pieno senso di responsabilità durante uno dei momenti più duri vissuti dalla nostra Repubblica». Sereno si è detto anche l’ex ministro della Salute Speranza, precisando di essere «sicuro di aver sempre agito con disciplina ed onore nell’esclusivo interesse del Paese», mentre su una linea più polemica sembra porsi il presidente della Lombardia Attilio Fontana, il cui legale – l’avvocato Jacopo Pensa – non solo ha affermato di non aver avuto «il minimo segnale di partecipare al banchetto degli indagati», ma ha anche aggiunto: «Prendiamo atto che la Procura di Bergamo ha sottolineato che la conclusione delle indagini non è un atto di accusa. Vedremo, vedremo. Non è neanche un atto di difesa».

Ad accogliere positivamente la notizia, invece, l’associazione dei familiari delle vittime Covid19 denominata #Sereniesempreuniti, il cui direttivo commentando la chiusura delle indagini ha affermato: “Da oggi si riscrive la storia della strage bergamasca e Lombarda, la storia delle nostre famiglie, delle responsabilità che hanno portato alle nostre perdite. La storia di un’Italia che ha dimenticato quanto accaduto nella primavera 2020, non a causa del Covid19, ma per delle precise decisioni o mancate decisioni”. “Da sempre ci siamo battuti per la verità per i nostri cari nonostante l’omertà che ha sempre contraddistinto questa storia”, ha inoltre aggiunto il direttivo dell’associazione, precisando che la decisione conferisce ai familiari la forza per continuare a combattere con ancora più determinazione le battaglie “della memoria e della difesa della dignità della vita e della morte”, cosicché il sacrificio dei loro cari non sia vano e “mai più una pandemia o una qualsivoglia emergenza ci trovi così impreparati”. [di Raffaele De Luca]

Epidemia colposa, la Procura spinge ma c'è il rischio flop. Le esitazioni di Conte. L’ex premier non firmò il decreto sulla zona rossa ad Alzano e Nembro, Speranza si. Felice Manti il 4 marzo 2023 su Il Giornale.

La chiave dell'inchiesta è il piano pandemico e alcune scelte del Cts, il problema della catena di comando che si ripercuote sulle eventuali zone rosse, le postille alle circolari con la scritta «no tamponi agli asintomatici» che hanno fatto sballare il tracciamento, la scelta della Protezione civile. Tutti «errori marchiani» che andavano sottoposti a un giudice, spiega il procuratore capo Antonio Chiappani pronuncia nelle (ultime?) interviste di ieri. Senza piano si è inseguito il virus anziché precederne le mosse. Questo malgrado già nel 2005 Michael Osterholm, esperto in malattie infettive, scriveva su Foreign Affairs: «Una pandemia è attesa a breve (...) non si possono prevederne gli effetti, ma prepararsi è indispensabile». E noi non lo eravamo.

Sarà compito del Tribunale dei ministri di Brescia decidere se serve un processo. Gli atti relativi alle sole posizioni dell'ex premier Giuseppe Conte e dell'ex ministro della Salute Roberto Speranza, indagati per epidemia colposa per la gestione del Covid in Val Seriana, sono stati trasmessi dalla Procura di Bergamo a quella di Brescia. I pm bresciani hanno tempo 15 giorni per esaminarli, dopo di che li invieranno al Tribunale dei ministri, un collegio di tre giudici bresciani già composto, con eventuali richieste istruttorie. Le due posizioni potrebbero diversificarsi per la circostanza, dimostrata ieri dalla pubblicazione della bozza di un decreto del 4 marzo in cui si inserivano Alzano e Nembro nella zona rossa. Un documento che Speranza aveva firmato e Conte no.

Certo, il reato di epidemia colposa è complesso da configurare, anche nell'ipotesi di una «condotta omissiva» che pure sembrava essere la strada scelta dalla Procura. Sulla genuina interpretazione dell'articolo 438 («Chiunque cagiona un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l'ergastolo») in alcuni processi sulla diffusione del Covid nelle Rsa la Cassazione ha già messo dei paletti. La Procura lo sa ma spera nella mole di documenti prodotta a testimoniare come alcune decisioni avrebbero messo a rischio l'incolumità e la salute pubblica. Ma se ci sarà un proscioglimento, un non luogo a procedere o un'archiviazione per la Procura per Conte e Speranza non sarebbe una sconfitta «ma un contributo alla verità».

Quel che appare certo anche ai pm è che se al governo e al Pirellone ci fosse stata la stessa maggioranza politica, la pasticciata gestione del Covid non sarebbe stata così disastrosa. Diversamente non si spiega perché fino al 2 marzo Conte è pervicacemente convinto che la zona rossa ad Alzano e Nembro non vada fatta. Sappiamo dai verbali del Cts che il 2 marzo fu Conte a dire all'allora coordinatore del Cts Agostino Miozzo: «La zona rossa va usata con massima parsimonia perché ha costo sociale, politico, non solo economico, molto alto. Occorre indicare misure che siano anche sostenibili, fattibili sul piano operativo».

Non sappiamo cosa si sono detti esattamente governo e Regione nelle vorticose riunioni di quei convulsi giorni. Ma certo la «politicizzazione» della gestione della pandemia non aiutava i rapporti tra Palazzo Chigi e Milano. Se già il 26 febbraio sembravano fuori controllo i dati sui contagi (basati sugli studi di Stefano Merler, matematico della fondazione Bruno Kessler di Trento, membro sia della task force lombarda sia del Comitato tecnico scientifico istituito a Roma), perché non agire? Forse perché in quegli stessi giorni la Lega chiedeva misure più stringenti mentre il Pd e il Corriere della Sera chiedevano di allentare la morsa? E se è vero che la Regione avrebbe potuto chiudere la Bergamasca, perché proprio il 2 marzo una circolare del Viminale firmata da Matteo Piantedosi invita gli enti locali a concordare eventuali zone rosse? «Misure di carattere contingibile e urgente», i cui effetti potrebbero «incidere su diritti costituzionalmente garantiti non devono essere in contrasto con le misure statali in atto».

Aperto un fascicolo sulla fuga di notizie. I sospetti del pm sul virologo Crisanti. Chiappani: "Ho un’idea su chi potrebbe essere stato". E il senatore democratico si difende. Felice Manti il 3 marzo 2023 su Il Giornale.

C'è un fascicolo per fuga di notizie aperto in Procura a Bergamo. Al momento è contro ignoti. Ma a quanto parte il procuratore capo Antonio Chiappani ha un identikit ben preciso che si tiene per sé, sebbene qualche dettaglio è sfuggito nelle due interviste rilasciate ieri dal magistrato che ha messo alla sbarra governo, Regione Lombardia, ministero della Salute e Cts. «Un'idea sul chi e perché lo ha fatto ce l'ho ma non la dico», dice il procuratore alla Stampa. Anche il Giornale da giorni insegue Chiappani, che però alla richiesta di un commento declina l'invito: «Ritengo che sia giusto il mio silenzio, soprattutto per correttezza istituzionale nei confronti dei giudici che dovranno approfondire i fatti in base al contraddittorio tra le parti. Un mio continuo intervento non sarebbe corretto», scrive in un messaggino. «Dovrebbe indagare una procura diversa da quella di Bergamo», sibila Enrico Costa, deputato di Azione-Italia Viva e presidente della Giunta per le Autorizzazioni, furioso per il «marketing giudiziario» di atti secretati che finiscono sui quotidiani e per le intemerate mediatiche di Chiappani.

Alcuni indagati come il governatore Attilio Fontana («È una vergogna, non ho visto le carte»), lamentano di aver appreso dell'indagine per epidemia colposa aggravata dai giornali senza aver ancora ricevuto la notifica dell'avviso di chiusura. Neanche ieri. Un «danno d'immagine» pesante, anche perché dopo tre anni di riserbo questo scivolone mina la credibilità della Procura, finita nel mirino incrociato di giornali e partiti di sinistra che sminuiscono la portata della ricostruzione giudiziaria e ridicolizzano lo stesso Chiappani per qualche parola detta in tv. Su un punto però il procuratore ci tiene a fare una precisazione: «È assurdo e ridicolo» contestargli di aver chiuso tutto dopo le Regionali per salvare Fontana, tanto al Giornale risulta che a Venezia c'è già un'indagine aperta per chi invece ha sostenuto pubblicamente e sui social il contrario.

Ma il suo cruccio principale resta la fuga di notizie: «In fase di trasmissione dell'atto agli indagati c'è stata qualche vocina che ha parlato troppo, se a Roma o altrove questo stiamo cercando di capirlo. Se la vocina sia stata di qualche politico, non mi è dato sapere», sussurra il procuratore capo. A Roma? Un politico? Qualcuno maligna che nel mirino ci sia finito Andrea Crisanti, virostar eletta all'estero nella Circoscrizione Europa al Senato per il Pd. La stragrande maggioranza delle rivelazioni uscite sui quotidiani, social e tv ieri riguardano la perizia sulla mancata Zona rossa, decisiva per stabilire il «nesso eziologico» tra la mancata chiusura tempestiva di Alzano e Nembro e la diffusione del virus mortale nella Bergamasca alla base dell'inchiesta e ai 4mila morti in più causati. Nel mirino delle anticipazioni sono finiti lo stesso Fontana e l'ex assessore alla Sanità Giulio Gallera. Entrambi non parlano (ordine dei legali, pare) anche se il fuoco di fila dei giornali di sinistra li ha già condannati in contumacia.

Il Domani ha pubblicato stralci dell'interrogatorio dell'allora ministro dell'Interno Luciana Lamorgese che, audita dai magistrati di Bergamo, avrebbe smentito clamorosamente Fontana, affermando che era competenza della Regione chiudere Alzano e Nembro se il governatore l'avesse ritenuto necessario, alla luce del numero di contagi in pericoloso rialzo. Ipotesi confermata dalle dichiarazioni che l'ex numero uno di Confindustria Lombardia Marco Bonometti avrebbe fatto in Procura: «La Regione era d'accordo con noi nel non istituire zone rosse ma nel limitare le chiusure alle aziende non essenziali». Al Giornale invece risulta che alla fine dell'interrogatorio di Fontana come persona informata dei fatti, senza dunque la «facoltà» di mentire, il pm Maria Cristina Rota si fosse decisame0nte convinta che a chiudere la Bergamasca dovesse essere il governo, di sua sponte.

Estratto dell’articolo di Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 3 marzo 2023. «Le Regioni, compresa la Lombardia, potevano intervenire con le chiusure indipendentemente dal governo». È questo uno degli elementi chiave della perizia per la Procura di Bergamo sulla zona rossa a firma di Andrea Crisanti […] sono arrivati i rinvii a giudizio per epidemia colposa sulla base anche del suo studio.

 […] Non ha firmato lei la perizia?

«Sì, per la parte epidemiologica. […] È la Procura poi ad aver tratto le sue conclusioni sulla base delle indagini. […]».

 Cos'ha scritto nelle oltre 10 mila pagine della perizia?

[…] «[…] Non si può dire però. Quello che la Procura mi ha autorizzato a raccontare è che sono emerse delle criticità di rilevanza minore rispetto al ruolo del pronto soccorso di Alzano Lombardo come amplificatore dell'epidemia. Problemi invece più consistenti ci sono stati sull'attivazione del piano pandemico e sulla tempistica dell'implementazione della zona rossa».

 Archiviamo l'ospedale e parliamo dal piano pandemico allora?

«L'Italia aveva un piano pandemico con forza di legge che prevedeva determinate decisioni in caso di emergenza. La Procura evidentemente ha deciso che non è stato eseguito. Io ho dimostrato che un piano esisteva e che c'erano una modalità di attuazione e degli organi preposti a questo».

Quali?

«Il comitato per il controllo delle infezioni del ministero della Salute».

 E il piano pandemico non era aggiornato?

«Sì, ma questo è risultato ininfluente perché c'era comunque quello precedente di cui tenere conto».

 Ma l'Oms non ne richiese l'aggiornamento?

«Sì, ma anche se fosse stato ascoltato non sarebbe cambiato molto per quel tipo di situazione. Anzi, la revisione avrebbe trasferito più responsabilità ai singoli Stati».

[…] Veniamo dunque alla zona rossa?

«La questione è se fosse stata attivata tempestivamente o meno. I criteri erano il Dpcm del 23 febbraio 2020 e la cornice legislativa attorno a quel decreto, che stabilivano che poteva essere attivata dal governo o dalle Regioni».

 Le Regioni in seconda battuta?

«Indipendentemente. Le Regioni, compresa la Lombardia, potevano agire in alternativa al governo».

[…] Perché la Procura si affidò a lei per la perizia?

«Forse si fece l'idea che sarei stato in grado di ricostruire la verità resistendo alle pressioni. È stato un duro lavoro di 18 mesi. Ho dovuto studiare, incrociare i dati e ricostruire gli eventi giorno per giorno con dei modelli matematici».

 E ora la vecchia vita da epidemiologo la rincorre mentre fa politica col Pd?

«[…] Sono stato imparziale, e questo non dipende da quel che penso ma da se agisco in modo integro. La fuga di notizie su questo caso dimostra che la mia perizia non ha guardato in faccia a nessuno». […]

Sanità sotto accusa, la rivolta dei medici "Incredibile, allora siamo tutti colpevoli". La Fadoi: "Solo in Italia c'è un'iniziativa giudiziaria del genere". Enza Cusmai il 4 marzo 2023 su Il Giornale.

Internisti, cattedratici, ospedalieri bocciano le conclusioni della Procura di Bergamo che ha accusato di reati gravi non solo politici ma anche i vertici della sanità italiana e professionisti di altissimo livello che hanno contato morti, si sono spesi per capire, combattere e poi sconfiggere la bestia nera. Dopo quasi tre anni da incubo c'è amarezza tra i camici bianchi. Sono state scaricate pesanti responsabilità sui membri del Comitato tecnico scientifico o sui politici che magari non sono stati tempestivi, hanno tentennato, rinviato, sbagliato, ma nell'intento di fare la cosa giusta.

«Solo in Italia dichiarano in una nota il presidente della Fadoi, la società scientifica della Medicina Interna, Francesco Dentali e il presidente della Fondazione Fadoi, Dario Manfellotto - c'è un'iniziativa giudiziaria di questo tipo. Siamo allora noi più intelligenti, più puri, più corretti? La magistratura italiana è la migliore al mondo perché è l'unica che ha scoperto degli errori? Ma ci siamo dimenticati che la pandemia ha colpito tutto il mondo e che l'Italia è stato il primo Paese a essere travolto? Se è così allora è inutile nascondersi dietro a un dito: siamo tutti colpevoli, incapaci e negligenti perché noi tutti, non solo i decisori, abbiamo agito in base a quel che scienza, coscienza e conoscenza fornivano in quei momenti drammatici».

I due esponenti degli internisti ospedalieri, che nei loro reparti hanno preso in carico il 70 per cento dei pazienti Covid nel corso della pandemia, bollano come «incredibili» le accuse mosse a 20 indagati di omicidio colposo, epidemia colposa tra cui i massimi esperti e clinici della sanità italiana la cui professionalità è riconosciuta e apprezzata in tutto mondo ora additati quasi come dei criminali. «In tre anni e ancora di più nel 2020, in quelle prime settimane in cui scoppiò la pandemia in Italia ricordano Dentali e Manfellotto - navigando al buio di fronte a un'emergenza sconosciuta abbiamo dedicato tutta la nostra attività senza limiti d'orario, con un impegno totalizzante e con centinaia di morti tra medici e operatori sanitari».

Critico sulle conclusioni giudiziarie anche un medico che ha praticamente traslocato in ospedale durante l'era Covid. «Abbiamo avuto l'ignoto che è arrivato che ci ha preso alle spalle. Cosa si sarebbe dovuto fare in quel periodo? - si domanda Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive dell'ospedale San Martino di Genova -. Non c'erano i tamponi, non c'era conoscenza del virus, dei farmaci, di nulla. È chiaro, c'era un problema, non esisteva un piano pandemico nazionale, ma perché si deve andare a indagare il presidente della Regione Lombardia o il presidente del Consiglio? Quando si vanno a colpire tante persone insieme si finisce per non colpire nessuno e non si avrà una verità finale».

Anche Massimo Andreoni, professore di Malattie infettive all'Università Tor Vergata di Roma pensa che finirà tutto nel dimenticatoio: «Gli scienziati indagati sono un fatto già visto dopo i terremoti quando vengono accusati gli uffici tecnici delle amministrazioni spiega -. Qualche errore è stato commesso, ma non si può criticare oggi con il senno del poi».

Processo Covid, la toga Chiappani star in tv: cosa non torna. Libero Quotidiano il 03 marzo 2023

Però c’è qualcosa che non torna. Ché mercoledì sera la procura di Bergamo ha annunciato urbi et orbi la chiusura sull’inchiesta della gestione pandemica nel 2020, ma gli avvisi di garanzia ai diretti interessati non sono ancora arrivati (lo dicono loro stessi: qualcuno se l’è pure presa, come il governatore lombardo della Lega Attilio Fontana). Nel frattempo, tuttavia, il procuratore bergamasco Antonio Chiappani ha fatto il giro delle tivù e delle radio e dei giornali di mezzo Paese. D’accordo la rilevanza mediatica della notizia, d’accordo l’interesse collettivo (ché quei mesi di emergenza ce li ricordiamo tutti e tutti vogliamo sapere come è andata), ma non è un tantinello troppo?

 Tra l’altro di sostanza ce n’è ancora pochina, il registro degli indagati mica è stato scritto, quegli avvisi di garanzia servono (appunto) solo a tutelare le posizioni di chi è coinvolto: e, infatti, Chiappani, lo ripete a ogni microfono che «siamo davanti a una mera ipotesi dell’accusa che dovrà essere confrontata con quanto ricostruiranno le difese e i loro consulenti e con quanto valuterò il giudice» (questo, nello specifico, l’ha dichiarato a SkyTg, però la lista delle comparsate e dei virgolettati è lunga e articolata e il concetto, alla fine, è sempre lo stesso).

«Se la zona rossa fosse stata estesa da subito si sarebbero evitate oltre 4mila morti». «Mancava l’aggiornamento del piano pandemico». «Mancava anche l’attuazione degli accorgimenti preventivo previsti dal piano anti -influenzale». Girano sempre queste dichiarazioni. Girano, però, praticamente ovunque. Agenzie di stampa, quotidiani, trasmissioni. Che, tra l’altro, fanno pure imbestialire la controparte, cioè gli avvocati di quei diciannove nomi tirati nel faldone. Come Jacopo Pensa, che è il legale di Fontana: «A seguito di alcune dichiarazioni del procuratore di Bergamo Chiappani», dice Pensa, «il primo commento che viene in mente è che, ancora una volta, esse manifestano la vocazione dei magistrati alla supplenza nei diversi campi del vivere civile: fin dai banchi dell’università ci hanno insegnato che il ruolo della magistratura è quello di accertare la commissione dei reati e di giudicare le condotte degli uomini, non quello di farci riflettere sui fenomeni e sugli eventi che accadono nel mondo, né quello di collaborare con la scienza offrendole un contributo qualificato».

L'indagine di Bergamo. Il compito dei PM non è dare voti ai politici. Roberto Cota su Il Riformista il 3 Marzo 2023

La Procura di Bergamo ha chiuso l’indagine sulla gestione del covid. Risultano 17 indagati eccellenti. Tra questi l’ex Premier Conte, l’ex Ministro Speranza, il Presidente della Regione Fontana, l’ex assessore Gallera , il Presidente dell’ Istituto Superiore di Sanità Brusaferro, l’allora capo della Protezione Civile Borrelli e il Presidente del Consiglio Superiore di sanità Locatelli. Per l’ex Ministro Speranza e per l’ex Premier Conte , gli atti dovranno essere inviati al Tribunale dei ministri, per gli altri, la prospettiva è quella di una richiesta di rinvio a giudizio in quanto la chiusura indagini presuppone che, allo stato, la procura non intende richiedere l’ archiviazione.

Il ritornello che si sente è sempre lo stesso: la procura fa il suo lavoro. Che si sia trattato di un lavoro lungo ed articolato non c’ è dubbio, visti anche i tempi di durata dell’indagine. Ci si chiede però se tra i compiti della procura rientri anche una funzione di sindacato sull’operato della politica tipo: “hai fatto bene, hai fatto male, avresti potuto fare questo invece che quello”. Il giudizio importante non viene affidato agli elettori, ma ad un soggetto esterno che spesso si muove secondo parametri disomogenei e difficili da comprendere. Indipendentemente dall’appartenenza politica, in tutta sincerità, qualcuno può ipotizzare che tra gli indagati vi sia qualcuno che durante l’emergenza covid non abbia cercato di fare del suo meglio?

Non stiamo parlando di episodi corruttivi, ma di andare a sindacare nel merito decisioni prese in momenti delicatissimi a fronte di un emergenza del tutto nuova. Se si dovesse, parlo in generale, usare lo stesso approccio nel valutare l’operato dei magistrati… La magistratura non dovrebbe fare questo tipo di lavoro. Non è compito dei pm o dei giudici quello di fare i super periti rispetto ai politici. Prima di tutto, non hanno le competenze tecniche in quanto non hanno alcuna dimestichezza con l’attività politico/istituzionale. Inoltre, è troppo comodo fare le valutazioni con il senno del poi.

Nel nostro sistema, però, può capitare che le valutazioni dei magistrati entrino in un campo talmente discrezionale che le decisioni poi possano essere contrapposte ed imprevedibili. Insomma, la giustizia dei dadi.  L’ indagine di Bergamo non rende giustizia a nessuno. Poco importa che gli indagati siano di destra o di sinistra. Il tema dell’ “invasione di campo” dovrebbe essere affrontato in modo deciso dalla politica. La verità è che a certi politici giocare “alla giustizia dei dadi” fa comodo, sperano di avere una fortuna speciale, di sopravvivere e di far fuori anche gli avversari. Roberto Cota

L'inchiesta della procura lombarda. Perché Conte, Speranza e Fontana sono responsabili della diffusione del covid secondo i PM di Bergamo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Marzo 2023

Riscrivere la storia. Ci risiamo, non più solo in Calabria e in Sicilia, anche nella lombarda Bergamo la procura della repubblica che indaga sull’epidemia da Covid del 2020, assume la veste dello storico, del sociologo e soprattutto del politico. Quasi in veste religiosa. Così, in controtendenza con quanto accaduto in tutta Italia e nel mondo, decide di non archiviare le centinaia di esposti presentati da parenti mal consigliati di persone decedute a causa del virus e chiede il rinvio a giudizio di mezzo mondo.

L’ex premier Giuseppe Conte e l’ex ministro Roberto Speranza, prima di tutto. E al riguardo non è chiaro dal punto di vista procedurale (occorre sempre ricordare che la forma è sostanza) per quale motivo i pm abbiano interrogato a Roma gli esponenti del governo come persone informate sui fatti. Sono accaduti fatti nuovi da quel giorno? Diversamente avrebbero dovuto spogliarsi immediatamente di quella parte dell’inchiesta e inviare gli atti al tribunale dei ministri di Brescia. Ci sono poi i governanti regionali, il presidente lombardo Attilio Fontana e l’ex assessore Giulio Gallera. E anche i dirigenti dell’Istituto superiore di sanità e della Protezione civile.

Diciannove persone in tutto, l’intera cabina di regia che si trovò d’improvviso sotto le macerie di un terremoto repentino, tremendo e sconosciuto per natura e virulenza. Aveva questa cabina di regia le conoscenze sanitarie e gli strumenti per reagire immediatamente e in modo proficuo per evitare i contagi e le morti? La risposta è una sola: no. Eravamo a mani nude, ha detto e ripetuto Giulio Gallera, che ha anche pagato sul piano elettorale la gogna costante giocata fino all’ultimo giorno dal cinismo petulante dei travaglini. Ora però, se non crediamo di abitare in luoghi dove l’unica legge è quella religiosa della sharia, ma crediamo nella laicità dello Stato, dobbiamo porci alcune questioni semplici di diritto.

Il nodo centrale è: quando un comportamento umano ha la forza di rompere il patto con lo Stato fino a diventare reato? E ancora: certe decisioni politiche, come quella di dichiarare zona rossa un certo quartiere o aggregato di paesi, piuttosto che programmare un lockdown è compito di chi ci governa o della magistratura? Se ne facciano una ragione anche i cittadini riuniti in molto rumorosi comitati, ma le decisioni politiche non sono compito neppure delle aggregazioni di parenti e amici. Se ne faccia una ragione anche l’onorevole senatore Andrea Crisanti, che, come dice oggi anche nella sua nuova veste politica, avrebbe avuto il compito, come consulente della procura di Bergamo, di “restituire la verità” sul quel che è accaduto nel bergamasco all’inizio del 2020.

No, onorevole senatore, lei sarà sicuramente il migliore scienziato del mondo, il migliore esperto in parassitologia, ma sulla giustizia penale le mancano i principi fondamentali. Il rappresentante dell’accusa non è un sacerdote. Deve semplicemente, di fronte a una notizia di reato, accertare se vi siano responsabilità e di chi. Ma occorre prima di tutto che ci sia il reato. E questo, se permette, non lo decide lei. Così arriviamo al punto giuridico centrale, il reato di epidemia colposa, che viene contestato dalla procura di Bergamo, unica al mondo, ripetiamo, a tutti i soggetti, politici e sanitari, che composero la famosa cabina di regia che, “a mani nude”, dovette affrontare qualcosa di grave e conosciuto, al momento, solo in un luogo del mondo, la Cina, i cui responsabili furono come sempre per abitudini e cultura, reticenti più che riservati.

Sicuramente il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani e il suo pool di investigatori conoscono la giurisprudenza di legittimità sull’articolo 452 del codice penale, quello che riguarda i “delitti colposi contro la salute pubblica” e punisce chiunque commetta per colpa il reato di cui all’articolo 438 cp, cioè il reato di epidemia “mediante la diffusione di germi patogeni”. La cassazione a sezioni riunite si è espressa più volte e in modo inequivocabile: perché esista il reato occorre un comportamento attivo. Ora, qualcuno può sostenere che Conte, Speranza e tutti gli altri indagati abbiano in qualche modo, sia pure involontariamente, diffuso “germi patogeni”? Chi sta illudendo tutte queste persone che sono state trascinate in comitati vari, del fatto che avranno “verità” e “giustizia” per via giudiziaria sulla morte dei propri parenti, sta giocando col fuoco. E anche con le vite degli indagati.

È bene sappia anche chi non conosce i codici, che il reato di epidemia colposa prevede la reclusione da uno a cinque anni e, se dal fatto deriva la morte di qualcuno, da tre a dodici anni. Ma qualcuno crede davvero che ci sarà mai un tribunale ad assumersi la responsabilità di considerare come “untori” quegli uomini, sia sanitari che politici di opposti schieramenti, che davanti a un fenomeno grave e sconosciuto fecero l’umanamente possibile per affrontarlo nel modo migliore? Bisogna considerare anche il fatto che, come ci ricordano le ripetute sentenze della cassazione a sezioni riunite (per esempio la sentenza n. 756 dell’11 gennaio 2008), il concetto di epidemia rilevante dal punto di vista penale non coincide con la qualificazione in ambito sanitario, ma è più ristretto.

Va infatti rilevato quanto il fenomeno sia dimensionato dal punto di vista quantitativo e anche quanto sia rilevante l’intervallo di tempo entro il quale si verifica il contagio. Non sono questioni di lana caprina. E non è un caso se le inchieste aperte in tutta Italia siano ormai archiviate, mentre nel resto del mondo probabilmente ci si domanda perché l’Italia sia diventata, più che un Paese di poeti e navigatori, ormai la patria dei pubblici ministeri, che aprono fascicoli su tutto. Per completare il ragionamento, occorre esaminare anche i casi di “condotte omissive”, cioè i comportamenti per esempio del medico o del dirigente di un ospedale o casa di riposo, fino ai soggetti politici, locali o regionali e nazionali, che trascurano di compiere il proprio dovere con la diligenza del buon padre di famiglia.

Anche in questo caso la cassazione è tassativa, proprio perché l’articolo 438 del codice penale, con l’espressione “mediante la diffusione di germi patogeni” indica esplicitamente che occorra un comportamento attivo, “commissivo” perché esista il reato (per esempio, sentenza n. 9133 del 2018). Occorre inoltre anche il nesso di causalità tra le eventuali imprudenze e omissioni e le morti. E qui siamo alle famose prove diaboliche. Perché sarà necessario, per dimostrare che un determinato comportamento ha determinato la morte del malato, ricostruire ogni singolo caso, studiare ogni cartella sanitaria e valutare la situazione preesistente di ogni soggetto e ogni altra patologia, a prescindere dal contagio per covid.

Come se esistesse la possibilità di monitorare giorno per giorno lo stato di salute di tutti i cittadini. Un girone infernale, ecco che cosa è questa inchiesta. Che dovrebbe servire, secondo il procuratore di Bergamo, “non solo a valutazioni di carattere giudiziario, ma anche per valutazioni scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubbliche, sociologiche e amministrative”. Ecco la sharia che prevale sullo Stato di diritto. Laico.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 3 marzo 2023.

Diceva Karl Kraus che i giornalisti sono quelli che dopo sapevano tutto prima, ma nemmeno i magistrati scherzano. Anzi, non c'è gara.

 Quelli di Bergamo, nel chiedere il rinvio a giudizio per l'ex premier Giuseppe Conte, l'ex ministro Roberto Speranza e il governatore Attilio Fontana, più un'altra decina abbondante di untori colposi, sono giunti alla quantificazione di morti che ci saremmo risparmiati con una tempestiva zona rossa in Val Seriana: fosse stata istituita il 27 febbraio 2020, 4 mila 148. [...]

Ognuno ha sbagliato e in buonissima fede, nel disperato tentativo di tenere a galla la barca su cui tutti eravamo (metafora calzante di questi tempi). E intanto il procuratore [...] ha detto che il processo sarà effettivamente un po' vaporoso, ma l'obiettivo era di "soddisfare la sete di verità".

 Non so quale costituzione o codice – perlomeno non di ispirazione iraniana – abbia incaricato il procuratore di "soddisfare la sete di verità": io sapevo che la pubblica accusa non agisce su onde emotive per esibire la verità al popolo ma su ipotesi di reato per sottoporle al vaglio del giudice. Visti i presupposti, preferisco essere uno che dopo ne sapeva quanto prima.

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa” il 3 marzo 2023.

La decisione «necessaria», che nella Bergamasca avrebbe salvato più di quattromila vite, non arrivò mai. Non la presero i sindaci di Alzano e Nembro, i comuni più colpiti della val Seriana. Non la prese il governatore di Regione Lombardia, Attilio Fontana. Non la prese l'allora premier Giuseppe Conte.

 Sotto le pressioni innanzitutto del mondo imprenditoriale – non si può scordare la campagna #Bergamoisrunning di Confindustria – nessuno si assunse la responsabilità di una scelta tanto impopolare quanto indispensabile. Anche perché, per usare le parole di Conte, «la zona rossa ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato».

Ma i sindaci di Alzano e Nembro, che pure avrebbero potuto decidere, in quei giorni difficili non avevano a disposizione dati e proiezioni che annunciavano già «lo scenario più catastrofico».

 Per questo non compaiono tra i 19 indagati a vario titolo per epidemia e omicidio colposi, rifiuto di atti d'ufficio e falso nella maxi inchiesta appena conclusa dalla procura di Bergamo. Conte e Fontana, invece, per i magistrati avevano tutti gli elementi per comprendere le dimensioni della bomba che stava esplodendo a Bergamo. E con loro anche i membri del Comitato tecnico scientifico, a partire dal professore Silvio Brusaferro.

Di certo - ha ricostruito la Gdf - lo sapevano a partire dal 26 febbraio del 2020 quando, per la prima volta durante una delle riunioni del Cts, si prese atto del fatto che i «casi positivi di coronavirus in Italia provengono da aree della Lombardia diverse dalla zona rossa» del Lodigiano, istituita a 48 ore dalla scoperta del «paziente 1».

 […] In quegli stessi giorni, il 27 e il 28 febbraio, pur consapevole che nella val Seriana l'indicatore «R0» avesse ormai raggiunto valore pari a 2 e che gli ospedali fossero in ginocchio, Fontana inviò due mail a Conte per chiedere «il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in Regione Lombardia». Cagionando così, con Conte e gli esperti del Cts, «il contagio» e «il decesso» di 4.148 persone.

Nel frattempo, a Roma, l'istituzione della zona rossa non fu presa in considerazione neanche il 29 febbraio (con 615 casi) né il primo marzo (con 984 casi). Solo il 2 marzo se ne iniziò a parlare nel corso di una riunione riservata con Conte, di cui non è mai stato redatto il verbale. Interrogato a palazzo Chigi dai pm, l'ex premier dirà di averlo saputo il 5, tre giorni più tardi.

In ogni caso, non darà mai il via libera all'istituzione della zona rossa nella Bergamasca, nonostante i 300 uomini dell'esercito già inviati in val Seriana dal ministero. Né il 3 marzo, quando il parere positivo arrivò anche da Regione Lombardia. E neanche il 5 marzo, quando il ministro della Salute, Roberto Speranza, in partenza per Bruxelles, firmò una delibera mai controfirmata dal premier. […]

Estratto dell’articolo di Armando Di Landro per il “Corriere della Sera” il 3 marzo 2023.

Il provvedimento che i bergamaschi (e gli italiani) aspettavano era già stato scritto. Ma restò chiuso in un cassetto. A trovarlo furono gli investigatori della Procura di Bergamo, il 14 gennaio del 2021, durante un’operazione di acquisizioni e perquisizioni al Ministero della Salute e all’Iss nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione della pandemia. Al Ministero c’era una bozza di decreto, dentro una cartellina che rimandava al 4 marzo 2020, in cui si indicava che i comuni di Alzano Lombardo e Nembro dovevano essere aggiunti all’elenco degli 11 paesi (10 nel Lodigiano più Vo’ Euganeo) dove c’era già la zona rossa.

Quella bozza era un’ulteriore prova di una situazione già nota: per tutta la settimana tra lunedì 2 marzo 2020 e sabato 6 il governo era stato a un passo dall’istituzione della zona rossa anche nei due Comuni della Val Seriana, l’area dove si stava manifestando il focolaio Covid più grave. Si era già tergiversato troppo, forse, considerando che nel Lodigiano il provvedimento di chiusura era scattato due giorni dopo il primo tampone positivo. Ma finalmente, quella sembrava la settimana decisiva.

 […] in fondo alla bozza di provvedimento c’era la firma del ministro della Salute Roberto Speranza, non quella del premier Giuseppe Conte. […] il governo era spaccato sul tema, il ministro aveva deciso di seguire senza se e senza ma le indicazioni del Comitato tecnico scientifico del 3 marzo, che suggerivano di chiudere i due paesi. Il presidente del Consiglio […] prendeva tempo e l’avrebbe fatto fino alla decisione della notte tra il 6 e il 7 marzo: niente zona rossa specifica per Nembro e Alzano ma divieti allargati alla Lombardia.

Attorno alla linea Conte si sono inseguite indiscrezioni fin da quei giorni, a partire da presunte pressioni ricevute dal mondo industriale e produttivo, anche tramite parlamentari della maggioranza. Alcuni noti imprenditori sono stati anche ascoltati da chi indaga. Ma nulla è mai emerso in modo netto.

 Ci sono ora, però, le conclusioni della Procura sui politici: Conte risulta indagato per la mancata zona rossa, Speranza no. Al ministro viene addebitata la mancata applicazione del Piano pandemico, il protocollo che ogni Paese dovrebbe attivare su richiesta dell’Oms. […]

Estratto dell’articolo di Marcello Sorgi per “la Stampa” il 3 marzo 2023.

Abbiamo ancora negli occhi le immagini terribili dei camion militari carichi di bare di morti di Covid che lasciano Bergamo […] è da vedere che la strada per fare giustizia possa essere un’inchiesta che mette sotto accusa, sullo stesso piano, un governo, un presidente del Consiglio, un ministro della Sanità insieme ai tecnici che lo assistevano […] oltre al presidente della Regione Lombardia e all’assessore dimissionario alla Sanità.

Ne vien fuori un modo «populista» di amministrare la giustizia: dato che la gente è convinta che più in alto si va, più si trovano le vere responsabilità, diamogli in pasto tutto quel che si può. […] È abbastanza chiaro che […] difficilmente il processo che nascerà da questa inchiesta potrà approdare a un risultato concreto. Si disperderà tra vari rivoli, parte in stralci, parte approdando al Tribunale dei ministri e sollevando ulteriori dubbi di un’opinione pubblica esacerbata dai lutti.

E si concluderà, chissà quando, ci si può scommettere, senza individuare le responsabilità dirette della scarsa o sbagliata o impossibile, data la mancanza di mezzi, prima assistenza, e senza riuscire a prendersela con i politici, vista la genericità delle accuse. Finirà come per Rigopiano. O come - basterà aspettare - per gli annegati di Crotone. Stragi senza colpevoli, processi fatti male, i parenti delle vittime che alla lettura della sentenza urlano: «Vergogna!».

Bignami: “Le nostre denunce inascoltate per due anni”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 3 Marzo 2023

Dal 2020 provo a fare chiarezza sul Covid. Nessuno, però, ha mai aperto neanche un fascicolo”. A dirlo Galeazzo Bignami, viceministro alle Infrastrutture e primo firmatario della proposta di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’emergenza sanitaria causata dal Covid.

 Quale la correlazione tra l’indagine della magistratura e il lavoro iniziato ieri in Parlamento?

Sono cose ben distinte. La prima ha delle finalità, mentre la seconda ne ha altre, ovvero verificare cosa è accaduto in ossequio alla regolamentazione sanitaria internazionale, che ai sensi della decisione numero 1082 del 2013 del Parlamento europeo, impone di condurre una revisione delle criticità di sistema. Mi riferisco, ad esempio, alla trasparenza.

 In che senso?

Non deve essere opzione, ma obbligo. La popolazione deve essere il primo partner per contrastare la diffusione di un virus. Le nostre audizioni non servono ad accertare fatti, ma a verificare, se in una fase prodromica, ci sia l’esigenza di istituire una commissione, come richiesto da alcuni commissari.

 Possiamo dire che i nomi grossi indagati hanno velocizzato le cose?

Potremmo fare la domanda opposta, pure se sono partiti ieri i nostri lavori, mentre mercoledì si è saputo della notifica dei provvedimenti.

 Da quanto tempo denuncia le irregolarità?

Sono anni. Il primo accesso agli atti, da cui poi hanno origine i vari ricorsi al Tar, risale al 20 aprile del 2020, quando tutta l’Italia era chiusa in casa. L’11 aprile 2021 consegno un esposto di 19 pagine incentrato sul piano pandemico. Apprendo che la Procura di Bergamo manderà le carte a Roma. Sono due anni che nella capitale vengono custodite le mie denunce, senza aprire neanche un fascicolo.

 Secondo quanto ha analizzato negli anni, dove si arriverà?

Non lo so. La magistratura ha i suoi tempi. Ci sono una serie di elementi, che devono essere verificati, non sul piano penale, ma su quello della conformità per verificare che la condotta assunta dal governo sia stata conforme alle prescrizioni dell’Rsi. Sono dubbi che ho avanzato durante il lockdown e non oggi, col senno del poi.

 Ci faccia qualche esempio…

Se tu sai che c’è un virus mortale in giro, se sei di buon senso non vai a vederti Atalanta-Valencia o a farti l’aperitivo sui Navigli, mentre se non lo sei non ci pensi due volte. La domanda, quindi, è perché non è stato attivato il piano pandemico del 2006 per cui in presenza di eventi di questo tipo, debbano essere limitate manifestazioni ed eventi pubblici. Così si poteva arginare il virus. Non condivido quando Speranza dice che nessuno gli dava retta sui pericoli. Se non avverti la popolazione, come rivela Urbani al Corsera per non creare panico, perchè poi prendertela con chi non rinuncia a nulla.

L’unico errore?

Altro scempio il green pass. Basta ricordarsi di Burioni che prima predicava che col vaccino saremmo stati salvi e poi che lo stesso non bloccava la diffusione del Covid. Altri aspetti da chiarire, le cure domiciliari, i protocolli, le reazioni avverse e Arcuri.

Sulle mascherine quali le irregolarità?

Il 12 febbraio 2020, Speranza dichiara che non ci sono dispositivi. Dopo tre giorni, invece, il suo collega Di Maio si vanta per aver inviato 15 tonnellate di mascherine a Pechino. C’è qualcosa che non va?

Tutta quest’esperienza è servita a qualcosa?

Certo! Dopo il Capodanno Cinese, quando hanno riaperto le partenze , sono andato a Fiumicino e ho preteso che facessero dei tamponi a chiunque arrivasse, anche con isolamento. All’inizio ci hanno preso in giro, poi l’Europa ci ha copiati. Lo stesso governo mandarino è stato costretto a controllare i suoi cittadini prima di fargli lasciare il paese.

Dell’inchiesta Covid non sappiamo nulla: è l’effetto della legge Cartabia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 3 Marzo 2023.

L’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza e il governatore della Lombardia Attilio Fontana risultano indagati a Bergamo, insieme ad altre 16 persone, nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione della prima ondata Covid. Una notizia forte, di grande rilevanza, che però cittadini e testate giornalistiche non hanno potuto apprendere direttamente dall’autorità giudiziaria, ma solo dall’abilità dei cronisti che hanno sfruttato una fuga di notizie. E di cui, soprattutto, mancano tutti i dettagli necessari per un approfondimento. La causa è solo una: il “bavaglio” imposto ai magistrati dalla riforma Cartabia, varata dal governo Draghi, quando si rapportano con l’universo dell’informazione.

La Procura della città lombarda, infatti, ha diramato soltanto un brevissimo comunicato (21 righe) in cui non c’è letteralmente scritto nulla: mancano i nomi degli indagati, così come le fattispecie dei reati di cui sono accusati. “Questo ufficio di Procura – si legge nella nota del Procuratore Antonio Cappani – in data 20 febbraio ha concluso le indagini nei confronti di 17 persone che, a vario titolo, hanno gestito la risposta alla pandemia da Covid 19. Le indagini, condotte dalla Guardia di Finanza di Bergamo, sono state articolate, complesse e consistite nell’analisi di una rilevante mole di documenti acquisiti e/o sequestrati, sia in forma cartacea che informatica, presso il Ministero della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità, il Dipartimento della Protezione civile, Regione Lombardia, Ats, Asst, l’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo, nonché di migliaia di mail e di chat telefoniche in uso ai soggetti interessati dall’attività investigativa, oltre che nell’audizione di centinaia di persone informate sui fatti, attività questa alla quale hanno partecipato anche in prima persona i Pm delegati”. Il Procuratore afferma che l’inchiesta, che ribadisce essere stata “oltremodo complessa sotto molteplici aspetti”, ha comportato “valutazioni delicate” rispetto alla “configurabilità dei reati ipotizzati”, nonché alla “competenza territoriale” e alla “sussistenza del nesso di causalità ai fini dell’attribuzione delle singole responsabilità”, consentendo di “ricostruire i fatti così come si sono svolti dal 5 gennaio 2020”. Nelle ultime due righe, sul più bello, Cappani comunica che la Procura “ha redatto l’avviso di conclusione delle indagini“. Che, “com’è noto, non è un atto d’accusa”. Fine del comunicato.

Questo dell’inchiesta Covid è l’esempio più emblematico degli effetti nocivi della riforma Cartabia, lascito dell’Esecutivo del “quasi tutti dentro” guidato dall’ex Presidente della Bce, in merito alla libertà dei giornalisti a informare e dei cittadini a essere informati. La norma, che recepisce la Direttiva UE 2016/343 sulla “presunzione di innocenza”, stabilisce infatti che la diffusione di notizie sugli atti di indagine compete soltanto al Procuratore della Repubblica (che a tal fine può eventualmente “autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria”) e che possa avvenire “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa“, a cui si può procedere solo “con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse” che possano giustificarle. La legge statuisce poi che “è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Insomma, un dettato dal significato assai indefinito, che porta fisiologicamente i Procuratori a prevenire eventuali sanzioni disciplinari diffondendo comunicati striminziti e poveri di contenuto. Arrivando, in questo caso, addirittura ad omettere i nomi degli indagati e le ipotesi di reato loro ascritte in un’inchiesta per pandemia colposa che riguarda insigni personaggi dell’universo politico italiano, che ai tempi dei fatti occupavano i più alti scranni di governo.

Le organizzazioni che rappresentano i giornalisti escono allo scoperto, chiedendo a gran voce al Legislatore di intervenire sui tanti punti di non ritorno di questo impianto. “A fronte di una indagine sul Covid che coinvolge autorevoli esponenti della politica italiana, la Procura di Bergamo ha emesso uno scarno comunicato in cui non vi è alcuna informazione sostanziale per descrivere fatti di grande interesse pubblico – hanno scritto in una nota congiunta il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, la segretaria generale Fnsi Alessandra Costante e il presidente Fnsi Vittorio di Trapani -. Sarebbe stato molto meglio indire una conferenza stampa alla luce del sole dove i giornalisti avrebbero potuto porre domande e ricevere risposte, nel rispetto delle persone e del lavoro degli inquirenti così come nel rispetto del diritto dei cittadini ad essere informati”. E poi, la sacrosanta considerazione finale: “La vicenda di Bergamo dimostra le criticità delle norme sulla presunzione di innocenza, che vanno corrette al fine di garantire il corretto equilibrio fra il dovere di informare e le garanzie per tutti i cittadini quando vengono indagati”.

Il guanto di sfida alla politica sul tema del “bavaglio” della legge Cartabia era già stato teatralmente lanciato dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri lo scorso settembre, in occasione di una conferenza stampa convocata a margine di una maxi-operazione antimafia sul territorio di Cosenza di cui il Procuratore non aveva potuto svelare i dettagli. Interloquendo con i giornalisti che gli domandavano informazioni più precise sugli arresti, Gratteri li aveva provocatoriamente invitati a chiedere ai loro editori “di dire ai referenti politici di cambiare la legge”. Infatti, aveva concluso, “fin quando non cambierà la legge io non intendo essere né indagato né essere sottoposto a procedimento disciplinare”. [di Stefano Baudino]

Epidemia per omissione. L’inchiesta di Bergamo, la storia (ri)scritta dai pm e la giustizia che diventa parte del problema. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 4 Marzo 2023.

La procura ha chiesto di mandare sotto processo un ex premier, un ministro e il fior fiore dei virologi italiani, eppure non li ha nemmeno voluti interrogare. Le accuse nei loro confronti non solo sono formulate male, sono fatte per cercare un reato anziché limitarsi a stabilire se ce n’è uno

Qualche anno fa Giovanni Fiandaca, giurista sommo, scriveva un memorabile e profetico saggio dedicato all’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia. Lo spirito profetico fu notevole perché il processo in questione sembra destinato a finire male (Cassazione permettendo).

Forse anche l’inchiesta di Bergamo si guadagnerà un giorno le meritate attenzioni di un grande giurista, qui assai più modestamente ci si limiterà a qualche “prima nota” basata su una copia dell’avviso di fine indagini reperita facilmente su internet, ancorché nessuno dei diretti interessati ne abbia avuto formale notizia, come da buone abitudini giudiziarie.

Prima di tutto, non se ne sono accorti formidabili commentatori come Lilli Gruber ed Enrico Mentana, questa non è un’indagine agli albori bensì un’inchiesta chiusa in cui i pm hanno ritenuto di raccogliere sufficienti elementi di prova a carico degli indagati, addirittura per sostenerne la richiesta di condanna.

Intendiamoci, soltanto quando, con tutta calma, i diretti interessati riceveranno le formali imputazioni a loro carico – di cui in compenso è informata l’Italia intera – avranno, almeno sulla carta, l’opportunità di essere sentiti finalmente dal procuratore Antonio Chiappani, che ha indagato su di loro per tre anni, senza trovare mai il tempo di sentirli.

Sì, avete capito bene: oggi la procura di Bergamo chiede che vadano sotto processo un ex premier, un ministro e il fior fiore dei virologi italiani senza avvertire la benché minima curiosità di ascoltare le loro ragioni per avere qualche altro spunto.

Gli è bastato il parere del professor Andrea Crisanti, lui solo a quanto pare, nemmeno di un collegio di esperti. Per carità, bravissimo, ma tutti ricordiamo che il simpatico professore non vantava splendidi rapporti col comitato dei suoi colleghi che affrontava l’emergenza.

Ci fidiamo sulla parola ma restiamo nel nostro seminato e leggiamo dunque le contestazioni. Purtroppo con un certo sconcertato stupore.

Come ormai tutti sanno, tranne gli indagati, le accuse sono varie ma quella su cui ruota l’accusa è il reato di epidemia colposa.

Un reato grave, figuratevi che nella sua ipotesi dolosa, di contagio diffuso volontariamente come i vecchi untori manzoniani, era addirittura punito ai tempi del fascismo con la pena di morte.

Oggi assai più modestamente è punito fino a dodici anni, ma il punto cruciale è che è difficile capire come possa provarsi un’accusa del genere.

Minuziosamente i pm di Bergamo contestano una serie di omissioni, ritardi, disposizioni, mancati interventi delle pubbliche autorità con le quali, leggiamo «cagionavano la diffusione del virus, così determinandone la diffusione incontrollata».

Qualcuno potrebbe chiedersi se non si esageri un po’ a contestare due volte, esagerando la stessa cosa, di aver diffuso l’epidemia, in pratica diffondendola, come dire che uno uccide un altro, causandone la morte, basta meno.

Il pleonasmo denota quasi il bisogno di rassicurarsi, e infatti la tendenza ad abbondare continua.

Così gli stessi imputati che rispondono del reato di epidemia colposa aggravata dalle morti di contagiati sono accusati anche di omicidio, il che sembra difficile perché si muore una volta sola e se è già contestata l’aggravante della morte nell’ipotesi di epidemia non si può raddoppiare. Come dicono i giuristi, si versa in un’ipotesi di «concorso apparente di norme» per cui si deve scegliere quale reato perseguire, di norma è quello che incorpora entrambe le ipotesi di reato e dunque l’epidemia colposa, ma l’omicidio colposo è punito con una pena più alta: perché privarsene? Poi metti caso che l’accusa di epidemia non regga, almeno ci resta l’omicidio, meglio essere previdenti. Trattasi di doppia e alternativa contestazione sullo stesso fatto, un espediente che cela l’incertezza sull’esistenza stessa di un reato.

Forse sarebbe meglio limitarsi all’omicidio ma «epidemia colposa» in fin dei conti suona bene, si abbina meglio con un’inchiesta che vuol spiegare agli italiani cosa è successo, come dice il procuratore Chiappani. Qualcuno pensa che sarebbe meglio solo stabilire se ci sono reati. Così, semplicemente, senza necessariamente cercarne uno.

Non finisce qui: si contesta agli imputati di aver diffuso l’epidemia, va da sé diffondendola, ma non distribuendo attivamente il virus come fanno i contagiati e come sembra prevedere la norma letteralmente – che sembra pensare al contagio prodotto volontariamente o colposamente dai malati – bensì omettendo di adottare le dovute cautele da parte dei controllori.

Purtroppo e lo ammette lo stessa procura, la Cassazione, nell’unica sentenza che tratta di epidemia, esclude che si passa configurare un’epidemia per omissione. La pensa diversamente solo un pregevole articolo scritto, guarda caso, da un pm. Appunto.

La storia (ri)scritta dai pm è un vecchio classico, ma quasi mai regge alla prova del tempo: al massimo solletica quanto di peggio gorgoglia nelle viscere del Paese.

Si deve «spiegare cosa è successo» ma poi chi lo spiega a un giudice onesto che fa a pezzi inchieste pretestuose perché mai debba beccarsi gli insulti della folla inferocita che alle spiegazioni aveva creduto? È successo al gip di Pescara per aver condannato solo cinque imputati per una valanga di neve originata da un terremoto.

Il fatto è che i suoi colleghi pm avevano chiesto pene decennali. Ci credevano davvero o era un omaggio alla folla inferocita? Non sarebbe il caso di riflettere meglio prima di scaricare il peso su un giudice?

E chi spiegherà che quegli sventurati a Crotone magari sono affogati non perché lasciati morire cinicamente dalla guardia costiera ma per un errore degli scafisti? Intanto c’è la prosa ubriacante di un gip che ha già individuato un colpevole.

Si dice che la giustizia deve riparare un tessuto lacerato e ristabilire un equilibrio: talvolta è difficile crederci. Talvolta la giustizia è parte del problema grave di un Paese.

Inchiesta Covid, Alzano Lombardo e Nembro: discussioni e contrasti. Il Cts propose la zona rossa all’unanimità. Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

L’ordinanza non fu mai firmata dal premier. Lo stupore degli esperti «inascoltati»

È il 3 marzo 2020 e nonostante la discussione a tratti accesa, il Comitato tecnico-scientifico mette nero su bianco che la zona rossa, già prevista per dieci Comuni del Lodigiano e per Vo’ Euganeo, deve essere estesa ad Alzano Lombardo e a Nembro. «L’Rt è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. Il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive previste nei Comuni della zona rossa, anche ad Alzano Lombardo e a Nembro, al fine di limitare la diffusione dell’infezione. Questo criterio oggettivo potrà in futuro essere applicato in contesti analoghi», si legge nel verbale approvato all’unanimità.

I dati dell’Istituto superiore di sanità relativi ai due Comuni, e il successivo colloquio telefonico con l’assessore e con il dirigente regionale alla Sanità lombarda, Giulio Gallera e Luigi Cajazzo, non lasciano spazio a dubbi. Così il Cts muove quel passo, dà un parere. Parere che però non si traduce in un decreto del governo: il provvedimento di estensione della zona rossa viene predisposto, ma resta una bozza. È, quella, una delle pochissime volte in cui le indicazioni degli esperti non vengono recepite dal governo. «Non ce l’aspettavamo. Tuttavia forse oggi non si ricorda più quanto fossero forti in quei giorni le pressioni contro la zona rossa di una parte della politica e dell’impresa», ripercorre con la memoria uno dei componenti di quel Cts.

I primi mesi del 2020 sono quelli di massimo caos: le notizie e gli allarmi si susseguono e vengono immediatamente sorpassati dall’input successivo. Medici e vertici delle istituzioni si trovano di fronte a un’emergenza di proporzioni planetarie, che nessuno è pronto ad affrontare. Il 14 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità annuncia che il virus non si trasmette da uomo a uomo e che non ci sono le condizioni per l’attuazione di un piano pandemico. Il 21 gennaio sempre l’Oms documenta che i dati raccolti suggeriscono una trasmissione da uomo a uomo e dà il via all’allerta pandemica. Il 31 gennaio viene dichiarata l’emergenza nazionale.

Pur dovendo rincorrere le informazioni sul virus, gli organismi che governano la sanità in Italia tentano di individuare le contromisure in tempo reale. Tra queste, il 5 febbraio, l’istituzione del Cts. La sua funzione, è scritto nel decreto di nomina, è di «consulenza e supporto alle attività per il superamento dell’emergenza epidemiologica». Consulenza e supporto, appunto, come ribadiscono adesso i componenti: «Le nostre erano indicazioni, a decidere era la politica, che anche sulla riapertura delle scuole non ci seguì». Il riferimento è ad aprile del 2021: il Cts emetteva un parere con il quale sconsigliava la riapertura delle scuole nelle zone gialle e arancioni, ma il governo, allora guidato da Draghi, disponeva il ritorno tra i banchi.

A marzo 2020, mentre il Covid manifesta tutta la sua virulenza in Lombardia e la politica si divide sulle contromisure — sono i giorni della campagna «Bergamo non si ferma» — il Cts valuta le contromosse con riunioni quasi quotidiane. Il 3 marzo esamina l’estensione della zona rossa. Nel comitato, geriatri e pediatri manifestano dei dubbi: chiudere tutto e isolare i cittadini poteva esporre i più fragili, anziani, bambini, malati cronici, ad altri rischi. Al termine della riunione, però, prevale la posizione di infettivologi e rappresentanti dei dirigenti ospedalieri, delle terapie intensive. Tuttavia quel parere non si trasformerà mai in un provvedimento. E una settimana dopo per l’intero Paese sarà lockdown.

Inchiesta Covid, Lamorgese smentisce Fontana: «Poteva creare la zona rossa a Bergamo». FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 03 marzo 2023

Luciana Lamorgese da ministro dell’Interno, sentita dai magistrati di Bergamo titolari dell’inchiesta sulla gestione della prima fase della pandemia, ha smentito clamorosamente Attilio Fontana, il presidente della regione Lombardia indagato insieme ad altre 18 persone dalla procura bergamasca. È un fatto inedito che Domani è in grado di rivelare grazie ai verbali delle testimonianze agli atti dell’indagine.

Il presidente rieletto alle ultime regionali ha continuato a ripetere anche dopo la notizia dell’indagine a suo carico che l’istituzione della zona rossa era competenza esclusiva dello stato centrale. Cioè solo il governo, secondo Fontana, poteva imporre la blindatura dell’area della Val Seriana, trasformato in focolaio mortale dalla lentezza delle decisioni politiche. «Non penso di poter prendere dei provvedimenti in contrasto contro il Governo e contro l’Istituto superiore di sanità, e se avessi emesso un’ordinanza, da chi l’avrei fatta eseguire? Non ho a disposizione né esercito, né Carabinieri, né la Guardia di Finanza: deve essere il Governo a dare ordine di intervenire», ha detto poche ore dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini. 

Scopriamo che non è così e la sua versione è messa in discussione da chi all’epoca ricopriva nel governo un incarico primario. A smontare la narrazione leghista davanti ai magistrati di Bergamo è, infatti, l’ex ministra Lamorgese, sentita dai pm il 12 giugno 2020. Il verbale ottenuto da Domani è agli atti dell’inchiesta. Ecco il verbale di Lamorgese messo a confronto con quello di Fontana.

FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN

Crisanti e la mappa logica che (non) spiega il virus. Storia di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 4 marzo 2023.

Andrea Crisanti ci restituirà la Verità. Impresa non facile, ma lui ne è convinto. La sua perizia è alla base dell’ inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione della prima ondata di Covid. Reato ipotizzato? Epidemia colposa. Crisanti dice che la sua è una mappa logica: «I giudici mi hanno chiesto se era possibile in qualche modo quantificare quelle che potevano essere le conseguenze di determinate scelte. E questo ho fatto». La pandemia ci ha sorpreso alle spalle: popolazione, governanti, sanitari. Era un morbo sconosciuto, inarrestabile, terrorizzante. Era un evento mondiale di inattesa brutalità. Difficile trovare qualcosa di logico ripensando a quei giorni spaventosi, alle immagini degli ospedali allo stremo, alle bare sui camion. Basta una perizia «sperimentale» di un microbiologo per cancellare l’imponderabile, l’imprevedibile, quella dimensione che per i Greci si giocava tra il fare umano e la «mente di Zeus» e si chiama fato? Qualcuno avrà fatto errori, certo, comprese alcune dichiarazioni in tv dei virologi. Per dire, a proposito di fatalità, senza il Covid Crisanti non sarebbe mai stato eletto . C’è chi ha passato una vita intera a studiare il nesso fra destino e scienza e a ricordarci che non disponiamo di un sapere incontrovertibile. Che la Verità esista solo nella perizia bergamasca?

Inchiesta Covid, il pm e l’esperto come due amici al bar: Crisanti svela la ‘verità’, Chiappani se la beve. Tiziana Maiolo su L’Inchiesta il 4 Marzo 2023

Bisognerebbe fare lo sforzo di mettersi nei panni di”, afferma il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica malattie infettive del San Martino di Genova. E si capisce subito la sua presa di distanza dal quasi-collega microbiologo parassitologo Andrea Crisanti, quello che con la sua consulenza al lavoro della procura di Bergamo avrebbe disvelato la “Verità” su quel che è successo in Italia e in particolare in alcune zone della Lombardia nei primi mesi del 2020, quando apparve all’orizzonte il virus ormai battezzato “amichevolmente” come covid.

Una ”verità” bevuta d’un sorso dal procuratore Chiappani che l’ha trasferita nelle conclusioni di fine indagine, prima di presentare al gip le scontate richieste di rinvio a giudizio per una ventina di persone, dopo tre anni. Vien da chiedersi: e se il consulente della magistratura fosse stato un altro? Non lo diciamo per indurre sospetti di schieramento politico, dal momento che il dottor Crisanti pur essendo nel frattempo diventato il senatore Crisanti del Pd, non ha risparmiato nessuno nella sua relazione. Ma perché tutti ricorderanno l’over booking di esperti in ogni tv e giornale nei giorni dell’epidemia e le loro opinioni spesso contrapposte. A partire proprio dall’uso di presidi sanitari come la mascherina e tutte le forme di prevenzione previste dal famoso piano pandemico del 2006, il cui mancato aggiornamento è diventato oggetto di incriminazione per il reato di diffusione di epidemia e contagio.

Se fosse stato chiamato per esempio Matteo Bassetti alla procura di Bergamo? Avrebbe avuto il coraggio di affermare, senza che il rossore imporporasse le sue guance, che, qualora fosse stata attuata la zona rossa di Membro e Alzano, nella bergamasca, il 27 febbraio del 2020 si sarebbero salvate 4.148 vite e 2.659 con la chiusura il 3 marzo? Crediamo di no, soprattutto dopo avergli sentito dire in questi giorni che non sarebbe giusto il silenzio, cioè non parlare più della tragedia che si è consumata, ma che secondo lui la commissione d’inchiesta che sta per essere varata dal Parlamento sia il luogo più opportuno per analizzare la realtà di quei giorni, e non un’inchiesta giudiziaria.

Forse ha ragione. Anche perché, se dovessimo ricordare le tante vicende di quei giorni con la lente del codice penale, dovremmo dare un risarcimento al presidente Attilio Fontana, che per primo indossò in pubblico la mascherina e fu anche irriso come se avesse compiuto un gesto trasgressivo. E qualche procuratore dovrebbe chiedere il rinvio a giudizio per epidemia colposa nei confronti dei sindaci Beppe Sala e Giorgio Gori e per la campagna “Milano non si ferma” mentre il virus già correva anche nei luoghi della movida e degli aperitivi sui Navigli. Errori e disattenzioni da valutare in sede politica, se mai. Invece siamo ancora una volta con il codice penale tra le mani. Oltre a tutto malamente maneggiato, come nella giornata di ieri hanno osservato commentatori di un po’ tutto le parti politiche. Persino il direttore del Fatto quotidiano, a tutela del suo cocchino Conte.

Più che il procuratore e il suo consulente, in certi momenti Antonio Chiappani e Andrea Crisanti sembrano due amici al bar che “volevano cambiare il mondo”. Soddisfare la sete di verità da una parte, sparare le quattromila morti evitabili dall’altro. Sopra le righe e fuori dai binari, tutti e due. Tanto che il deputato di Italia Viva Enrico Costa ha annunciato un’interrogazione al ministro Nordio per sapere se sia regolare, soprattutto dopo l’approvazione della riforma Cartabia, che i magistrati si dedichino al “marketing giudiziario” e invocano un bel “basta interviste a destra e sinistra su un procedimento pendente da parte del procuratore di Bergamo e del suo consulente oggi senatore”.

L’attenzione è ora concentrata sull’istituzione della commissione d’inchiesta, su cui è già iniziata la discussione in commissione. Altro punto delicato, perché l’articolo 82 della Costituzione che ne consente la nascita ad hoc su materie di grande rilevanza e interesse pubblico attribuisce anche a questi organismi gli stessi poteri e limitazioni dell’autorità giudiziaria. Occorreranno grande equilibrio saggezza ed esperienza, soprattutto del presidente, perché questa commissione non si trasformi in un altro tribunale del popolo, deputato, più che a cercar di capire e suggerire strumenti per il futuro, a dare riposte al popolo. Come pare stia facendo l’inchiesta penale.

P.S. Il direttore Sansonetti sostiene che l’editoriale di ieri di Marco Travaglio sembra scritto da Tiziana Maiolo. Non ti permettere, Piero. Marcolino potrebbe querelarti, se gli dai del garantista. Ma non sai che cosa ti farei io, se insisti nel paragone.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 4 marzo 2023.

Poi parleremo della perizia cimiteriale che ha consegnato alla Procura di Bergamo.

Subito, però, un passaggio sulla felicità. La sua.

Perché Andrea Crisanti è un uomo felice. Di nuovo. Inaspettatamente. Porca miseria, se la vita sa essere pazzesca. Pensava di essere ormai costretto alla routine di un qualsiasi senatore del Pd, per ora senza mezza prospettiva di fomentare una crisi di governo e condannato perciò alla noia di Palazzo Madama, sedute ovattate e solitarie passeggiate dentro corridoi con le pareti di velluto e puttini a forma di applique, le luci sempre accese.

 Ma non quelle che piacciono a lui.

 Lui adora le lucine delle telecamere, il tecnico che ti applica il microfono sul reverse della giacca, il sottile brivido della diretta: e poi, quando parte la pubblicità, noi dei giornali che lo cerchiamo, che abbiamo ricominciato a cercarlo sul cellulare, adesso solo incerti se chiamarlo ancora prof o senatore, ma tanto lui è sempre una vera dolcezza (a 15 mila euro netti al mese, essere dolci è il minimo).

Così — ormai a 68 anni suonati — eccolo di nuovo in pista, Crisanti. Personaggio centrale. L’ultimo mohicano di quel mischione furibondo di epidemiologi, virologi, anestesisti, entomologi, tutti diventati famosi dentro il lungo incubo della pandemia, tutti docenti e primari e luminari fino ad allora sconosciuti e di botto diventati oracoli indispensabili: noi con il rosario dei morti, dei contagiati, con lo spavento di uno starnuto, il puro terrore anche solo di sfiorarci e loro collegati da luoghi spesso imprecisati, nella penombra di sagrestie ospedaliere, a indicarci strade incerte e, talvolta, sconosciute persino a loro. Per dire di Crisanti. Il 20 novembre del 2020, con la sua aria un po’ rassegnata e un po’ pedagogica, tipo che io vi avverto, ma poi fate un po’ come vi pare, dice: «Per produrre un vaccino, normalmente, ci vogliono dai 5 agli 8 anni. Per questo, senza dati certi, io non farei il primo vaccino a disposizione».

 (...)

Adesso, sembra proprio che Crisanti abbia comunque ricostruito tutto. È così?

 Il senatore è felice, e un filo agitato. «Preferirei non parlare». Allora interviene la sua portavoce, lo convince, hai straparlato con chiunque nelle ultime ore, evita di fare un casino proprio con il Corriere e allora lui si tuffa, senza indugi, nel suo brodo preferito: il colloquio con un giornalista.

 Venti minuti di gentili chiacchiere al cellulare (alla fine si scopre che risponde da un ristorante, ma a lungo è stato divertente immaginare che rispondesse dalla villa palladiana comprata l’anno scorso a San Germano dei Berici, nel vicentino). Sensazioni: è convinto d’aver fatto un ottimo lavoro. «La mia perizia non ha precedenti: mai ne era stata realizzata una che avesse, per oggetto, una pandemia». Precisa: «Non è un atto di accusa: è una ricostruzione tridimensionale di ciò che accadde. Ho fornito ai giudici una mappa con cui orientarsi. Per esempio: ho ricostruito l’intera catena di comando del ministero della Sanità. E averla chiara, può aiutare i giudici a capire chi doveva e poteva fare qualcosa, e chi no».

Zero imbarazzi con il ministro dell’epoca, Roberto Speranza, ormai quasi collega di partito. «Più che imbarazzo, è dispiacere» (la tocca piano, eh). «Imbarazzo se fossi in debito con la coscienza. Invece sono stato spinto dal dovere morale che abbiamo con le vittime che potevano essere salvate». Sulla Lombardia, durissimo già da mesi: «Arrivò impreparata al disastro».

 Nient’altro. Ora l’inchiesta che ruota sulla sua perizia. Servirà?

 Nell’incertezza, un pensiero, e chi ci crede una preghiera, per chi — in quei mesi — morì.

Da open.online il 4 marzo 2023.

Un piano nazionale per affrontare un’emergenza pandemica esisteva, per quanto fermo al 2006, un «manuale di istruzione» che comunque aveva le indicazioni necessarie per affrontare una malattia a diffusione respiratoria come il Covid. Quel piano però, scrive il microbiologo Andrea Crisanti nella relazione di 83 pagine al centro dell’inchiesta per epidemia colposa della procura di Bergamo, fu secretato per «non allarmare» e «scartato a priori senza essere valutato dai principali organi tecnici del ministero, ai quali l’ex ministro Speranza fa riferimento quando afferma che il piano era datato e non costruito specificamente su un coronavirus ma su un virus influenzale».

 Una giustificazione secondo Crisanti «confezionata e coordinata a posteriori», perché emerge «dai documenti acquisiti e dalle dichiarazioni spontanee rese alla Procura di Bergamo è emerso che né Brusaferro, né Miozzo, né Urbani avessero letto il piano prima di maggio-giugno 2020 nonostante ne avessero ricevuto co- pia a febbraio 2020». Sono 17 gli indagati a vario titolo dalla procura bergamasca, tra loro l’ex premier Giuseppe Conte, l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e l’ex assessore regionale al Welfare Giulio Gallera.

 Il freno di Conte sulla zona rossa

Nella sua relazione, Crisanti attribuisce la responsabilità della mancata attuazione del piano a cinque persone: Claudio D’Amario, direttore della Prevenzione del ministero della Salute; Silvio Brusaferro, direttore dell’Istituto superiore di sanità; Agostino Miozzo come coordinatore del Cts; Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero e Luigi Cajazzo, direttore generale della Sanità di Regione Lombardia. Citati anche l’ex premier Conte e il presidente del Consiglio superiore della sanità Franco Locatelli.

 Crisanti scrive come l’allora ministro Speranza «il prof Brusaferro, il dott. Miozzo, il dott. D’Amario erano a conoscenza del Piano Covid, degli scenari di previsione e della gravità della situazione e presero la decisione di segretare il piano per non allarmare l’opinione pubblica». Circostanza di cui erano «a conoscenza anche i vertici di Regione Lombardia». Proprio a proposito della mancata zona rossa in Val Seriana, Crisanti spiega che nelle decisioni in quei giorni tra febbraio e marzo 2020 «non ha prevalso l’esigenza di proteggere gli operatori del sistema sanitario nazionale e i cittadini dalla diffusione del contagio». E sul perché non sia stato deciso prima di chiudere quelle zone, Crisanti aggiunge: «la ragione per la quale azioni più tempestive e più restrittive non sono state prese la fornisce il presidente Conte quando, nella riunione del 2 marzo 2020, afferma che la zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale politico ed economico molto elevato».

(…)

I primi giorni del Covid-19, come andò davvero: nessuno voleva la zona rossa. Marco Imarisio, Simona Ravizza, Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2023.

L’audio segreto e i documenti, i giorni terribili tra febbraio e marzo 2020, quando fu imposto il lockdown nazionale. Su Alzano e Nembro non si decise mai

«La crescita di questa epidemia è rapidissima. Non abbiamo più letti. I 17 posti in terapia intensiva sono occupati. I cento destinati ai malati Covid-19 sono tutti occupati». È il 29 febbraio 2020. Marco Rizzi, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, lancia il suo appello disperato. L’epidemia sta già andando fuori controllo, medici e infermieri implorano chiusure. Ma nessuno li ascolta.

Politici e imprenditori sono scatenati. La sera precedente il sindaco Beppe Sala e il governatore del Lazio Nicola Zingaretti sono stati promotori dell’aperitivo sui Navigli perché #Milanononsiferma, Giorgio Gori è andato a cena da Mimmo spinto dall’iniziativa «Bergamo is running» della Confindustria locale che spiega di temere «per il destino di 376 aziende con un fatturato complessivo di 850 milioni di euro annui». Non si può chiudere, niente «zone rosse». Intanto il virus corre. I verbali, le relazioni di servizio, le circolari relative a quanto accadde dal 27 febbraio al 7 marzo quando si decise il lockdown in tutta Italia ricostruiscono in maniera dettagliata la catena di errori, sottovalutazioni, omissioni che trasformarono quell’area del Paese in un focolaio capace di provocare migliaia di morti. Mostrano lo scontro — a tratti durissimo — tra gli scienziati che invocavano chiusure e i politici determinati a non cedere alle pressioni per l’istituzione della «zona rossa». Ma basta questo per portarli in un’aula di giustizia? I comportamenti di chi doveva gestire l’emergenza e adottare misure adeguate sono materia da processo penale? Sarà un giudice a dover stabilire se il castello di accuse costruito dalla Procura di Bergamo regge. E dovrà farlo partendo da un documento che il Corriere aveva già rivelato e che adesso — allegato agli atti di indagine — svela anche il nome di tutti i protagonisti.

L’audio segreto

È il pomeriggio del 3 marzo 2020: intorno a un tavolo ai piani alti di Regione Lombardia si svolge una riunione tra il ministro Roberto Speranza volato a Milano, il governatore Attilio Fontana, l’assessore Giulio Gallera, il direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo e gli epidemiologi Vittorio De Micheli e Danilo Cereda. Durante l’incontro si parla di Alzano e di Nembro. Un audio — già pubblicato dal Corriere e adesso allegato agli atti con i nomi di tutti i protagonisti — dà conto della conversazione sull’impennata dei contagi e la necessità di istituire una «zona rossa».

Speranza: Diciamo, tutto quello che abbiamo fatto finora non porta nessun segnale minimo di contenimento, ancora zero…

Gallera: È presto, poi il dato è un po’ grezzo...

Speranza: Queste persone si potrebbero essere ammalate prima dell’inizio delle nostre misure, perché le misure le abbiamo messe in campo da una settimana…

Fontana: Dieci giorni.

Speranza: Ancora non vediamo…

Gallera: Esatto, esatto… Non vediamo, c’è solo la diffusione…

De Micheli: Però sentiamo la necessità che il clima di preoccupazione cresca un po’ più di quello che è stato, perché c’è molta sottovalutazione.

Gallera: Alzano e Nembro… Voi volevate fare… secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che sia perfettamente lì… però là abbiamo il secondo focolaio… sta crescendo e là non c’è la percezione perché chi abita lì… questi continuano a uscire, vanno in giro…

Speranza: Più si annuncia, più si scappa.

Gallera: Quindi bisognerebbe proprio… che ha fatto la proposta…

Speranza: Sì, sì, ci stanno ragionando… Appena rientro, provo…

Cereda: Al limite potrebbe arrivare anche oltre provincia di Lodi che ne ha 500. Quindi il focolaio è nato secondario, ma potrebbe diventare il peggiore della Lombardia. Mentre con la zona rossa… qualcosina…

Gallera: Non la città, la città ancora è abbastanza… è a 40, 50… Sono i due Comuni sopra…

«Servono approfondimenti»

Mentre il ministro Speranza torna a Roma, in provincia di Bergamo i malati e i morti si moltiplicano. Ma serviranno ancora sei giorni di rimpallo tra governo, Regione e Comitato scientifico per quella soluzione che in realtà manda in «zona rossa» tutta Italia. Proprio la sera del 3 marzo il Cts evidenzia come Alzano e Nembro «hanno fatto registrare ciascuno oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio». Per questo «propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della “zona rossa” (di Codogno, ndr) al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue». Il 4 marzo, quando le vittime in Italia superano quota cento, il premier Giuseppe Conte firma un decreto per chiudere fino al 15 marzo università, scuole, teatri, cinema. Ma «sulla proposta relativa ai due Comuni della Provincia di Bergamo», chiede agli esperti «di acquisire ulteriori elementi per decidere se estendere la “zona rossa” a questi due soli comuni oppure, in presenza di un contagio ormai diffuso, estendere il regime all’intera Regione Lombardia e alle altre aree interessate».

La riunione con Conte

Il coordinatore del Cts Silvio Brusaferro risponde il 5 marzo: «Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa ». Il ministro della Salute Speranza ha predisposto una bozza di decreto, ma Conte non è convinto, vuole attendere ancora. Anche per questo il giorno dopo il premier va alla Protezione civile e incontra i componenti del Cts. Ma la fumata è ancora nera. Gli scienziati non convincono la politica, la linea è «superare la distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa». Se ne discute ancora 12 ore e la situazione si sblocca alle 2 di notte del 7 marzo quando il premier annuncia la chiusura dell’Italia. Il decreto entrerà in vigore il 9, quindi dopo altre 48 ore. Alzano conta 55 contagiati, Nembro 107, la provincia di Bergamo 1.245, per tacere dei morti. Palazzo Chigi precisa che «le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti». Un modo per dire che se la Lombardia pensava davvero che la zona rossa di Alzano e Nembro andasse creata prima, avrebbe potuto farlo in piena autonomia, così avevano già fatto Lazio, Basilicata, Emilia-Romagna, con ordinanze limitate al territorio di specifici comuni.

Errori che si ripetono

L’atteggiamento dei politici durante tutta la pandemia è sempre stato orientato verso le riaperture con Salvini e Meloni che volevano far ripartire l’Italia, Franceschini i musei, Boccia le scuole, Calenda e Renzi che puntavano all’economia e Di Battista sottolineava come il cancro faccia più morti del Covid. Si sarebbe potuto fare molto di più per arginare il virus in quei giorni e anche nei mesi successivi: ma ogni misura di contenimento ha sempre sollevato scontri e proteste, con il risultato di rimandare le decisioni il più possibile. Alessandro Vespignani, fra i massimi esperti mondiali di modelli epidemiologici, la sintetizza così: «Dei leader politici hanno barattato le loro fortune elettorali con la salute pubblica dei cittadini». Allora, e purtroppo anche dopo.

Inchiesta Covid, Zaia: «Non ci furono irresponsabili. Sbagliato giudicare ora chi decise in quel contesto». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2023.

Il governatore leghista del Veneto parla dell’indagine della Procura di Bergamo sulla mancata zona rossa all’inizio della pandemia: «Così nessuno si prenderà più la responsabilità nelle emergenze»

«La verità è un diritto. Ma celebrare processi sulla pubblica via è disdicevole. È facile fare le analisi e dare giudizi con il senno di poi. In questo Paese ogni volta dopo un fatto eclatante si apre un’inchiesta. È una china pericolosa».

Perché?

«Perché finisce che chi ha delle responsabilità fa il suo compitino e pensa solo a proteggersi».

Il presidente leghista del Veneto Luca Zaia nei giorni finiti al centro dell’inchiesta della Procura di Bergamo prese decisioni coraggiose, non previste nei documenti ufficiali. «L’ho fatto d’istinto, per testardaggine, rischiando — spiega —. Ma non esiste la decisione giusta. Tutti, in quei giorni, abbiamo fatto scelte più o meno azzeccate».

Lei insiste sulla contestualizzazione.

«Sì, perché non si possono giudicare decisioni e comportamenti con gli occhi di oggi. Tutto va cristallizzato in quel momento. Anche pensando a quel che è successo a me».

A cosa si riferisce?

«In quei primi giorni di diffusione della pandemia il mood corrente era quello di riaprire, di continuare a fare la vita di sempre perché si pensava di avere a che fare con qualcosa di simile ad un’influenza».

Un errore commesso da molti, a sinistra (Zingaretti) come a destra (Salvini).

«Per dieci giorni mi hanno lapidato per aver preso decisioni drastiche. Ma se quella fosse stata davvero un’influenza, oggi sarei io il pirla che finisce rinviato a giudizio, accusato anche di danno erariale».

Vogliamo ricordare quali provvedimenti prese?

«Il 21 febbraio decisi di chiudere l’ospedale di Schiavonia (500 pazienti), feci montare tende riscaldate all’esterno di tutti gli ospedali veneti per accogliere i positivi, istituii la zona rossa a Vo’ e feci sottoporre a tampone tutti gli abitanti di Vo’ (e trovammo 80 positivi, anche asintomatici). In più disposi la chiusura di cinema, teatri, chiese, scuole e sospesi il Carnevale di Venezia».

Misure drastiche che si sono rivelate lungimiranti.

«Con il senno di poi, certo. Ma aver fatto scelte diverse non può essere una colpa. Ripeto, se questo è il principio nessuno si assumerà più la responsabilità di affrontare le emergenze».

I magistrati sbagliano?

«Non rivendico immunità o impunità. In una fase emergenziale le decisioni sono emergenziali. E ricordo che rischiano di finire a processo alcuni dei migliori scienziati del nostro Paese. Dove andremo a finire? Così perdiamo riferimenti, vengono meno le certezze».

Ma i parenti delle vittime chiedono di conoscere la verità.

«Capisco il loro stato d’animo. Hanno diritto di sapere cosa è successo. Ma ogni ragionamento deve partire dalla contestualizzazione dei fatti al momento in cui avvennero. Faccio un esempio…».

Dica.

«All’ospedale di Padova si utilizzavano in media 950 camici al mese. In quelle settimane se ne consumarono 4.500 al giorno. Come si poteva prevedere? E prima di allora, quando mai i medici portavano le mascherine? Vogliamo fare il processo su questo?».

Saranno pur stati commessi degli errori.

«Guardi, non conosco le carte e non mi permetto di giudicare. Ma se non si valutano i fatti con gli elementi che si conoscevano al momento in cui sono avvenuti si rischia di commettere un grande errore. E può passare all’opinione pubblica un messaggio sbagliato».

Quale?

«Che questo Paese sia in mano a degli irresponsabili. Ma non è così. Anzi, in Italia sono state prese misure poi copiate da altri».

Alla fine, cosa è stato il Covid?

«Ha avuto comportamenti ancora oggi inspiegabili. A Venezia, pur durante il Carnevale, è entrato e uscito senza conseguenze. In altre realtà ha fatto danni enormi. E non sappiamo ancora perché».

Presidente, il progetto dell’Autonomia differenziata ha fatto un passo avanti, ma quattro Regioni (Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Puglia) si sono dissociate.

«Io penso che si debba lavorare per coinvolgere tutti, ma non può passare l’idea che il Sud è contrario, visto che il ddl di Calderoli è stato approvato da Calabria, Sicilia, Basilicata e Molise. Diciamo che si sono opposti i governatori di centrosinistra per una scelta politica, non di merito. Ma la maggioranza è schiacciante».

Il treno rallenterà?

«Non credo, anche se ribadisco che è importante fare in modo che tutti partecipino convintamente al processo».

A fine anno il via libera definitivo?

«Sì, o per scelta o per necessità, ma non c’è alternativa».

Antonio Giangrande: Un popolo di coglioni…

Parafrasi ed Assioma con intercalare. Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Hanno prima istituito le zone rosse contagiate dal Virus Padano con limiti invalicabili e poi hanno permesso agli infettati di quelle zone di varcare i limiti e di contagiare il Sud.

Hanno prima chiuso gli stadi del nord per timore del contagio del Virus Padano e poi hanno permesso la trasferta a Lecce degli infettati atalantini.

Oggi hanno unificato l’Italia. Se prima si erano dati al lassismo, oggi, nell’onda lunga giustizialista, hanno ristretto l’Italia ai domiciliari con misure draconiane.

Tutti contagiati. Ergo: niente vizi privati; niente servizi pubblici.

Tra queste misure si è previsto la chiusura delle scuole in tutta Italia. Come se le scuole fossero veicolo di contagio in territori dove il virus non c’è.

Come dire: gli ulivi del Salento sono infettati dalla Xylella? Tagliamo le piante in Liguria.

Vada per gli stadi ed ogni manifestazione sportiva, per non avvantaggiare nessuno. Ma cosa centrano le scuole.

Se uno Stato non riesce a garantire la sicurezza dalla violenza e dall’illegalità.

Se uno Stato non riesce a garantire la salubrità degli edifici pubblici da contaminazioni e contagi.

Se uno Stato non riesce a fare ciò: è uno Stato che non merita rispetto.

Vincenzo Magistà : Tgnorba 4 marzo 2020. «A tutto c’è rimedio, anche al Coronavirus. Ma, a quanto sembra, nulla, nulla può guarire dalla idiozia. L’idiozia sta facendo danni irreparabili. Hanno cominciato i social a diffondere il terrore. Stanno continuando gli idioti. Gli idioti sono quei soggetti che, sempre sui social, stanno prendendo di mira le persone risultate positive ai controlli. I contagiati, così come vengono definiti, con la stessa terminologia che si usava ai tempi della peste. E loro da appestati vengono trattati. Un esempio della più cieca ed assurda inciviltà. Queste persone andrebbero sostenute, difese, rispettate. E, invece, ricevono insulti, offese, emarginazione. Loro, i figli , le famiglie. C’è da vergognarsi. Anche in questi casi, però, c’è da indentificare i responsabili delle denigrazioni e denunciarli. Così come una denuncia la merita questo giornale che adesso vedrete. Che anziché Libero (Quotidiano, nda), è stupido e idiota. Una vera miscela esplosiva, fra l’altro. “Il Virus va alla conquista del Sud” leggete questo titolo. Così titola con entusiasmo questo giornale milanese e leghista: “trenta infetti in Campania, undici nel Lazio, cinque in Sicilia e sei in Puglia. Ora sì che siamo tutti fratelli”. Verrebbe da lanciargli qualcosa contro, se ne avessimo la possibilità. Potremmo rispondergli che, invece di fare gli stupidi, dovrebbero piangere per le loro sventure., perché poi gli untori sono proprio loro: i lombardi, che da soli contano 1500 infetti. Noi ne abbiamo in tutto il Sud, insieme, meno dei loro morti, che sono 55. Adesso si rallegrano per averci contagiato. Come se ci fosse da guadagnare qualcosa in questo. La supesanità lombarda è allo stremo: denuncia tutti i propri limiti. Gli ospedali, la Regione Lombardia chiedono aiuto a noi. E un giornale che “Libero” non è per niente si permette di ironizzare sull’Unità d’Italia realizzata attraverso il Coronavirus. Adesso siamo tutti uguali: Coronavirus al Nord; Coronavirus al Sud. No, no, no signori. L’Italia resta ancora divisa: spaccata in due. Da una parte il Nord: il Nord degli untori. Quello che infetta. Dall’altra, purtroppo, il Sud infettato. Però, una volta tanto, stiamo meglio noi».

Inchiesta Covid, nei verbali rimpalli e dissidi dell'"armata Brancaleone" che guidava il paese durante la pandemia. Sandro De Riccardis, Rosario Di Raimondo su La Repubblica il 5 marzo 2023.

Lo scarico delle responsabilità, l'inadeguatezza della burocrazia, le tensioni tra politici e tecnici. La radiografia che emerge dagli atti di quella che fu la caotica gestione della pandemia dal febbraio del 2020

"Un'armata Brancaleone!", si sfoga una dirigente della Regione Lombardia. Sono le quattro del pomeriggio del 29 gennaio 2020, ha appena ricevuto alcune linee guida dal ministero della Salute. Il giudizio sembra un po' pesante. Ma da queste poche parole, agli atti dell'inchiesta della procura di Bergamo sul Covid, si comprende il clima che si respira prima, durante e dopo la più grande emergenza sanitaria del Paese tra chi doveva prevenirla, gestirla, governarla.

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis, Rosario Di Raimondo per repubblica.it il 5 marzo 2023.

"Un'armata Brancaleone!", si sfoga una dirigente della Regione Lombardia. Sono le quattro del pomeriggio del 29 gennaio 2020, ha appena ricevuto alcune linee guida dal ministero della Salute. Il giudizio sembra un po' pesante. Ma da queste poche parole, agli atti dell'inchiesta della procura di Bergamo sul Covid, si comprende il clima che si respira prima, durante e dopo la più grande emergenza sanitaria del Paese tra chi doveva prevenirla, gestirla, governarla.

 La zona rossa nel Bergamasco in ginocchio per i contagi: chi doveva decidere? Per Andrea Crisanti, consulente dei pm, non venne istituita perché i costi sociali, economici e politici "hanno prevalso sull'esigenza di proteggere operatori del sistema sanitario e cittadini". Davanti ai pm inizia il rimpallo. Conte dice che la bozza per la zona rossa non l'ha avuta: "Il documento firmato non è mai stato nelle mie mani". E nemmeno il governatore della Lombardia Fontana gli avrebbe chiesto di decretarla.

"Ne parlai con Conte", ribatte invece l'ex ministro Speranza. "La nostra proposta è stata quella di istituire la zona rossa", le parole di Fontana. Tutti contro tutti. Tra quelli che sembrano avere le idee chiare da subito c'è Giorgio Parisi, allora presidente dell'Accademia dei Lincei, un anno dopo premio Nobel. "Ho letto che hai detto: "Stiamo valutando l'opportunità di estendere la zona rossa" - scrive in una mail al presidente dell'Iss Silvio Brusaferro - . Sono assolutamente d'accordo. Ti mando una piccola nota". Giovanni Rezza, dal ministero, risponde che gli sembrano "considerazioni occhiometriche, resta però la necessità di allargare la zona rossa".

Quando gli indagati nell'inchiesta di Bergamo dicevano: "Nel governo è guerra mondiale"

Nei giorni dell'emergenza non c'è un buon clima al ministero. La Finanza annota come persino Sandra Zampa, all'epoca sottosegretaria alla Salute, dica: "Questi giorni drammatici ci hanno mostrato l'inadeguatezza enorme dei nostri burocrati. Alcuni dei nostri al ministero sono tragicomici".

 (…)

 Nelle chat agli atti dell’inchiesta Speranza diceva "andiamo a sbattere"

Nel marzo 2020 c'è un altro tema scottante: la chiusura delle scuole. "Il Cts è critico", scrive Brusaferro a Speranza. Risposta secca: "Così ci mandate a sbattere. Non abbiamo tempo. Paese col fiato sospeso. Non si può dare segnale incertezza altrimenti si perde ogni credibilità". Il 4 marzo la funzionaria dell'Oms Benedetta Allegranzi scrive a Brusaferro di avere "notizie da colleghi in Lombardia su centinaia di operatori esposti. Bisogna concentrarci urgentemente su di loro se no si continua ad alimentare l'epidemia e diventerà uno scandalo".

 Per la Finanza, già dal 29 febbraio si è davanti a una "cruda e grave realtà". Da quel momento il Cts avrebbe dovuto proporre, e il ministero adottare, "provvedimenti restrittivi ben più incisivi". Intanto arrivano le richieste d'aiuto. Dall'Abruzzo chiedono ventilatori: "Abbiamo urgenza di assistere malati da intubare". "Rissa con Conte per le mascherine. Perché il governo non ha fatto niente", le parole in chat di Luigi Cajazzo, direttore della sanità lombarda. Il 5 giugno arriva un messaggio a Speranza. Una persona gli racconta il "gioco dell'oca" che sta affrontando e che riguarda i termometri. Un'odissea fatta di "parla con questo e scrivi a quello". I giorni passano "e i depositi doganali scoppiano di termometri che nei negozi scarseggiano. Se non ci fosse un'emergenza, sarebbe da ridere". Nemmeno gli alleati aiutano. "Brescia sta scoppiando - scrive Luigi Cajazzo - . Abbiamo chiesto aiuto al Veneto. Il presidente ha chiamato Zaia, ma ci ha detto di no".

(...)

Ecco la super consulenza di Crisanti per i pm di Bergamo: tutti responsabili, da Conte a Fontana. FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 04 marzo 2023

Nell’inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione della prima ondata della pandemia da Covid-19 in Lombardia c’è un documento più di altri sul quale i pm fondano le accuse di epidemia colposa e omicidio colposo. Si tratta della consulenza tecnica affidata al pool di scienziati guidato da Andrea Crisanti, microbiologo di fama internazionale e oggi senatore del Pd.

La relazione di Crisanti sintetizza errori, false dichiarazioni e superficialità regionali e nazionali. In particolare sulla mancata zona rossa in Val Seriana, provincia di Bergamo, ipotizza che non averla adottata a fine febbraio ha prodotto migliaia di vittime in più. 

«L’adozione di misure più tempestive e restrittive in Val Seriana e nei comuni di Alzano e Nembro avrebbe permesso di contenere la diffusione del contagio e limitato in modo significato il numero di decessi con effetti tanto più marcati tanto più tempestiva l’implementazione», è scritto nella consulenza. Ma un capitolo è dedicato anche alla mancata applicazione del piano pandemico, vicenda che coinvolge Brusaferro e l’ex ministro Speranza. 

FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN

Inchiesta Covid, Fontana sapeva degli scenari catastrofici sui contagi. Il verbale che smonta la sua versione. FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 04 marzo 2023

I magistrati della procura di Bergamo hanno sentito centinaia di testimoni oltreché raccolto una mole impressionante di documenti, chat, messaggi e mail. Tra i verbali utili a ricostruire la gestione della prima fase della pandemia in Lombardia c’è quello di Alberto Zoli, direttore Generale dell'Azienda Regionale Emergenza Urgenza (AREU).

Il dirigente, infatti, è stato membro del Comitato tecnico scientifico (Cts) costituito dal governo di Giuseppe Conte sia parte attiva nella task force istituita da regione Lombardia. Testimone diretto, dunque, delle scelte regionali e nazionali fatte a partire dalla fine di febbraio 2020, un periodo centrale, in cui il virus sconosciuto ha potuto circolare liberamente, senza trovare particolari restrizioni.

La testimonianza di Zoli raccolta dai magistrati di Bergamo rivela che gli scenari catastrofici erano stati resi noti dopo il 21 febbraio 2020 ai vertici regionali nell’ambito dell’unità di crisi. Una dichiarazione agli atti che smentisce la narrazione di Attilio Fontana, presidente della regione Lombardia, il quale ha sempre sostenuto di non aver mai ricevuto informazioni in merito a questi dati. Scenari che avrebbero dovuto far scattare cautele maggiore, invece il 28 febbraio Fontana scriverà a Roma chiedendo di mantenere le misure già in atto, più blande rispetto a una possibile zona rossa. Il virus ha così circolato liberamente ancora per una settimana. 

FRANCESCA NAVA E GIOVANNI TIZIAN

"Speranza controllava le decisioni del Cts". L'ultima svolta sul Covid. Francesca Galici il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Emergono nuovi dettagli sull'indagine condotta dalla procura di Bergamo sull'epidemia di Covid del 2020

Giuseppe Ruocco è uno dei 19 indagati dalla procura di Bergamo di Covid e nel 2020 era un componente del Cts. In un messaggio finito agli atti dell'indagine ed è stato inserito dalla Gdf in un'informativa e in particolare nel capitolo intitolato "Commistione tra Organo tecnico e Organo politico". Nel suo messaggio, Ruocco scrive: "Vogliono che anche noi siamo allineati (...) insomma i politici non dovrebbero dialogare con noi (...) dovrebbero ricevere i nostri suggerimenti e poi decidere (...) Commistione pericolosa".

Il Cts, si legge nel messaggio, era nato "come ausilio e supporto tecnico scientifico per il Capo del Dipartimento della Protezione Civile, anche se poi è diventato non solo un organo consultivo del potere politico". Poi, Ruocco aggiunge che, in più occasioni, l'allora ministro Speranza "ha concordato con Brusaferro (direttore dell'Iss e componente del Cts, ndr) quale sarebbe poi stata l'indicazione del Cts sui vari quesiti che gli venivano posti". E ancora, si legge negli atti, "come si evince dai verbali, alle riunioni del Cts vi ha partecipato lo stesso ministro, il viceministro Sileri, la sottosegretaria Zampa e, in talune circostanze, il presidente Conte, circostanze, queste, che, unitamente al fatto che lo stesso Cts era composto da diversi dirigenti ministeriali, potrebbero aver inciso sulla piena autonomia di questo organo".

Dall'informativa della Guardia di finanza emergono anche altri dettagli di quel periodo, come il fatto che "direzione prevenzione del ministero della Salute non disponeva di personale in grado di tradurre correttamente dall'inglese all'italiano". Per questo motivo i documenti "da tradurre venivano inviati" ad una società a Cagliari. Questa "circostanza potrebbe spiegare il perché alcuni provvedimenti ministeriali sono stati adottati diversi giorni dopo la pubblicazione da parte di Oms".

Questa è solo una delle tante "carenze nella gestione dell'emergenza da parte del Ministero della salute" messe in luce in una informativa della Gdf di Bergamo agli atti dell'inchiesta sulla gestione della pandemia nei primi mesi del 2020. Solo dopo il 20 febbraio, si legge, "è iniziato un frenetico e caotico tentativo di organizzare il sistema di risposta". Prima di quella data, "poco o nulla è stato fatto, ad ogni livello, anche in ragione della frammentazione delle responsabilità e della poca chiarezza della linea di comando".

"Carenze, ritardi, inefficienze". La scure dei pm sul governo. Nelle carte Miozzo (Cts): "Dal premier parsimonia sulla zona rossa". Il "terrore" di Speranza per le mascherine. Cristina Bassi il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Milano. «Presidente (riferito all'ex premier Giuseppe Conte, ndr) evidenzia che zona rossa va usata con massima parsimonia perché ha costo sociale, politico, non solo economico, molto alto. Occorre indicare misure che siano anche sostenibili, fattibili sul piano operativo. Decide di rifletterci». È l'appunto prodotto dall'ex coordinatore del Cts Agostino Miozzo, sentito dagli inquirenti di Bergamo. L'inchiesta intorno alla mancata zona rossa nella Bergamasca mette nel mirino, tra gli altri, gli esponenti del governo di allora.

L'appunto di Miozzo, riportato dall'Agi, riassume una riunione del 2 marzo 2020. Nella relazione finale agli atti dell'inchiesta di Bergamo gli inquirenti scrivono che «si ritiene che l'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente Fontana, l'assessore Gallera e i componenti del Cts conoscendo le gravissime previsioni sull'andamento del contagio abbiano deciso di non adottare immediatamente i conseguenti provvedimenti di propria competenza con ogni relativa conseguenza in ordine alla configurabilità dei reati di epidemia colposa e delitti colposi contro la salute pubblica». Si aggiunge che «la macchina organizzativa del ministero della Salute ha mostrato carenze, ritardi e inefficienze». Il 5 marzo 2020 Speranza scrisse al direttore dell'Iss Silvio Brusaferro: «Conte senza una relazione strutturata non chiude i due comuni. Pensa che se non c'è una differenza con altri comuni ha un costo enorme senza beneficio». Il riferimento è a Nembro e Alzano. Sentito dai pm, l'ex ministro ha ribadito che l'allora premier sapeva della sua firma sulla bozza per la zona rossa in Valseriana. D'altra parte Speranza scriveva in quei giorni a Brusaferro: «Sono terrorizzato da questa cosa delle mascherine».

Nella relazione del professore Andrea Crisanti, agli atti dell'inchiesta citati dall'Ansa, si dà conto delle «riserve del primo ministro Conte ad adottare provvedimenti di zona rossa». Ancora: Miozzo «nel pomeriggio del 2 marzo apparentemente senza la consapevolezza dei presenti stendeva il verbale di un riunione» alla presenza di Conte e Speranza, dove Brusaferro «illustrava la situazione» della Val Seriana e «sottolineava l'urgenza» di adottare la zona rossa. Conte, si legge, evidenziò che andava usata «con parsimonia perché ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato». E «decide di rifletterci». Doveva capire se «questa misura avesse un effetto reale». Cts, Conte e Speranza, conclude Crisanti, erano «consapevoli delle criticità» ad Alzano e a Nembro fin dal «2 marzo».

Già il 27 e 28 febbraio 2020, continua la consulenza, «il Cts e il ministro Speranza hanno tutte le informazioni sulla progressione del contagio che dimostravano come lo scenario sul campo» fosse «di gran lunga peggiore di quello ritenuto catastrofico». Inoltre «la documentazione acquisita dimostra oltre ogni ragionevole dubbio di come il Cts, il ministro Speranza e il presidente Conte avessero a disposizione tutte le informazioni e gli strumenti per valutare la progressione del contagio e comprendere le conseguenze in termini di decessi». E sulla base «delle previsioni dello scenario con Rt=2 il Cts stesso e il ministro Speranza condivisero la decisione di secretare il Piano Covid», elaborato dall'epidemiologo Stefano Merler, «per non allarmare l'opinione pubblica». Per Crisanti, la zona rossa in Val Seriana «al giorno 27 febbraio 2020 e al giorno 3 marzo 2020 avrebbe permesso di evitare, con una probabilità del 95 per cento, rispettivamente 4.148 e 2.659 decessi». Il 27 febbraio, secondo la consulenza, è la data in cui «il Cts e Regione Lombardia erano diventati consapevoli della gravità della situazione».

La direttiva ai sindaci: "Non prendete iniziative". L'analisi delle chat. Secretato il piano di Merler che chiedeva "misure rigide subito". Patricia Tagliaferri il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.

I contagi fuori controllo, gli ospedali sempre più in affanno, i primi morti e un'emergenza che nessuno sapeva come affrontare. Con la Lombardia, travolta prima di altre regioni dall'epidemia, dove la mancanza di preparazione nel primo periodo si è sentita più che altrove. «Sono mancati dei protocolli collaudati, quello non era il momento di decidere le strategie ma di applicarle», dice Silvano Donadoni, sindaco di Ambivere, nella bergamasca, che ha vissuto giorno per giorno il dramma della pandemia anche come medico di base. E che ricorda bene la prima riunione convocata d'urgenza con tutti i sindaci della provincia, il 23 febbraio 2020, quando si ritrovarono in 250 in un centro congressi, tutti stipati, lui solo con la mascherina. «Mi stupii. Ho pensato se qui uno è contagiato, buona parte di noi porta a casa il Covid. Io ero l'unico con la protezione e un dirigente dell'Ats mi prese in giro, cosa ci fai con la mascherina?».

All'iniziale sottostima del rischio è dedicata buona parte della relazione di Andrea Crisanti, oggi al centro dell'inchiesta per epidemia colposa della Procura di Bergamo, dalla quale emerge che i sindaci della Val Seriana - che avrebbe potuto istituire tempestivamente la zona rossa ad Alzano e Nembro - avessero ricevuto istruzioni di non prendere iniziative personali. I primi cittadini avrebbero preferito allinearsi alle indicazioni delle autorità sanitarie e politiche della Regione Lombardia, rassicurando le proprie comunità invece di prendere decisioni che avrebbero bloccato il contagio. In Val Seriana non fu come per la zona rossa di Codogno, dove ci fu unità di intenti tra l'autorità di governo regionale e nazionale. Dall'inchiesta di Bergamo emerge come verso la fine di febbraio i dati del contagio nella bergamasca erano tali che avrebbero richiesto ulteriori misure contenitive. Mentre la Regione, per la Procura, non ha mai formalmente richiesto o sollecitato al governo alcun provvedimento per Alzano e Nembro. Stando alle chat, l'assessore Gallera era contrario all'istituzione della zona rossa e avrebbe inoltre dato ordine alle Ats di non comunicare i dati dei positivi ai sindaci, impedendo di fatto loro di prendere provvedimenti. La relazione di Crisanti non salva nulla della gestione dell'emergenza nel nostro Paese. Anche se lo scienziato, oggi senatore Pd, ritiene che la sua perizia non sia un atto di accusa ma un «tentativo di restituire la verità agli italiani». E minaccia di querelare chi insinua che ci sia lui dietro alla fuga di notizie sull'inchiesta. Già il 12 febbraio, otto giorni prima della scoperta del primo caso a Codogno e con il virus che circolava da una settimana all'ospedale di Alzano, l'epidemiologo Stefano Merler, chiamato come consulente, spiegò in una riunione a cui partecipò Speranza che l'impatto sul sistema sanitario sarebbe stato devastante e che dovevano essere applicate «rigide misure». Fu lui, il 20 febbraio, a presentare il piano Covid poi ignorato. Tra l'altro già allora erano tutti consapevoli della difficoltà di reperire i Dpi e dunque della situazione di vulnerabilità in cui si trovava l'Italia e del rischio a cui avrebbero esposto la popolazione e gli operatori sanitari non prendendo iniziative idonee. Tanto che nei giorni successivi al 23 febbraio il personale sanitario dell'ospedale di Alzano fu autorizzato ad utilizzare le mascherine dei kit antincendio. Di quanto fosse grave la situazione nei due comuni si parlò in una riunione del Cts del 2 marzo che non venne verbalizzata. C'erano anche Speranza e l'allora premier Conte che ai pm hanno invece raccontato di esserne venuti a conoscenza il 4 e il 5 marzo.

Scaricabarile sulla zona rossa. Conte: "Fontana non la chiese". L'ex premier ai pm: "Non sapevo della bozza firmata da Speranza, né del presidio di militari in Val Seriana". Andrea Cuomo il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

È il 12 giugno 2020. L'Italia sta appena riprendendo a respirare dopo la lunga apnea del Covid, lo shock, il dolore, il lockdown. I pm di Bergamo arrivano a Roma per interrogare l'allora presidente del consiglio del governo giallorosso Giuseppe Conte, come persona informata dei fatti, non ancora indagato, come è oggi assieme all'allora ministro della Salute Roberto Speranza, al governatore della Lombardia Attilio Fontana e di altre autorità. I magistrati gli chiedono perché non fosse stata disposta la zona rossa nel territorio dei comuni di Alzano e Nembro, ciò che potrebbe essere costata la vita a qualche migliaio di cittadini. E lui appare incerto, ricorda che alla fine del consiglio dei ministri del 5 marzo gli viene riferito dell'arrivo di una mail «con allegata la bozza di Dpcm, una proposta di istituzione di zona rossa nei comuni di Alzano e Nembro». Quella bozza in realtà reca già la firma del ministro della Salute, ma Conte sembra non lo sa: «Il fatto che il 5 marzo 2020 la bozza fosse già sottoscritta dal ministro Speranza mi è stato riferito successivamente, il documento firmato non è mai stato nelle mie mani». Conte del resto ammette di non sapere nemmeno del dispiegamento delle forze dell'ordine di quei giorni in Val Seriana: «L'ho saputo dopo, dalla stampa».

Certo, «erano momenti concitati». Fatto sta che «abbiamo convenuto con il ministro Speranza di chiedere agli esperti un approfondimento (...) alla luce del quadro epidemiologico di quei giorni che evidenziava un contagio ormai diffuso, in varie aree della Lombardia». E la sera stessa ecco arrivare sul telefonino del premier, via whatsapp, «un approfondimento del prof. Brusaferro» girato dallo stesso Speranza. Che nel frattempo aveva firmato la bozza perché «il giorno dopo avrebbe partecipato a Bruxelles a un incontro istituzionale». Ma il 6 quella bozza sarebbe stata carta straccia, dopo un vertice alla protezione civile nel quale si sarebbe parlato di «una soluzione ancora più rigorosa e complessiva, non limitata solo ai due comuni della Val Seriana». L'Italia si avviava alla chiusura ma Alzano e Nembro fino all'ultimo furono trattate esattamente come il resto dell'Italia, a parte la provincia di Lodi e Vo' Euganeo, già zone rosse, a causa di «focolai erano ben circoscritti». Un cambio di strategia confermato dallo stesso Speranza, a sua volta ascoltato dai pm bergamaschi nella loro visita romana: «C'era invece bisogno di misure rigorose che però avrebbero dovuto riguardare un'area molto più vasta»

Secondo Conte la regione Lombardia non chiese l'istituzione della zona rossa nei due comuni. «Le mie interlocuzioni - dice Conte - sono state solo con il presidente Fontana ed escludo che mi sia stata chiesta l'istituzione di una zona rossa per Nembro e Alzano. Conte ricorda una mail datata 28 febbraio nella quale il governatore gli chiedeva «il mantenimento delle misure già adottate». Anche in questo caso Speranza controfirma: «Non vi fu alcuna richiesta formale da parte della regione Lombardia». Fontana però, ascoltato dai pm qualche giorno prima, il 29 maggio, dà un'altra versione: «Noi credevamo nella realizzazione della zona rossa; che poi sarebbe stata utile non so dire, però a Codogno aveva funzionato. La nostra proposta è stata quella di istituire la zona rossa». Dubbi, incertezze, versioni differenti. Nel frattempo in Val Seriana morivano a migliaia e mancava perfino il legno per le bare.

 Estratto da open.online il 5 marzo 2023.

«Il fatto che il 5 marzo 2020 la bozza fosse già sottoscritta dal ministro Speranza mi è stato riferito successivamente, credo dai miei collaboratori. Il documento firmato non è mai stato nelle mie mani». 

Lo ha detto il 12 giugno 2020 l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sentito dai pm di Bergamo come persona informata sui fatti nell’indagine sulla gestione della prima ondata di Covid in Val Seriana. L’ex premier, oggi indagato per epidemia colposa aggravata, come si evince dagli atti di indagine in possesso dell’Ansa, ha risposto a una domanda sul decreto per istituire la zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo di cui Speranza lo aveva informato.

Il provvedimento fu firmato solo dall’allora ministro della Salute e non entrò in vigore perché, secondo i tecnici, era troppo tardi. […]

 Le dichiarazioni di Conte sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle rilasciate ai tempi anche da Speranza: «Allorquando ho firmato la proposta di DPCM, ne avevo già parlato con il presidente Conte. Ricordo anche che della questione dei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, sollevata nel verbale del Cts del 3.3.2020, ne avevo già parlato con il Presidente Conte il giorno dopo».

Lo ha messo a verbale l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, sentito nella stessa audizione del 12 giugno 2020 come teste dai pm di Bergamo nell’ambito dell’indagine sulla gestione del Covid in Val Seriana. Speranza, ora tra gli indagati, ha aggiunto che «in quei giorni peraltro, il confronto con Conte su tali questioni era chiaramente costante […] L’opportunità di firmare, sin da quel momento, la proposta del DPCM, proprio per non ritardare l’iter e ancor prima di ricevere i chiarimenti richiesti a Brusaferro, fu condivisa anche dal Presidente Conte».

 Inoltre alla domanda, posta in riferimento al verbale della riunione del Cts del 26 febbraio 2020, se fosse a conoscenza quali altre aree della Regione Lombardia fosse opportuno «delimitare, ai fini della quarantena» l’ex ministro ha risposto «no, non so a quali ulteriori aree si faccia riferimento in quel verbale; io di regola non assisto alle riunioni del Cts e non ho partecipato, quindi, nemmeno a quella del 26.2.2020».

E poi: «Nessuno del Cts mi ha riferito di quali fossero le ulteriori aree della Regione Lombardia cui si fa riferimento in quel verbale – ha aggiunto -. Né chiesi informazioni sul punto posto che comunque il Cts, in quel verbale del 26.2.2020, aveva unanimemente valutato come non necessarie ulteriori zone rosse». Anche Speranza precisò, inoltre, che «non risulta al mio Ufficio alcuna richiesta formale da parte di Regione Lombardia relativa alla zona rossa di Alzano/Nembro».

«Non si riteneva più possibile contenere la diffusione del virus in aree circoscritte. C’era invece bisogno di misure rigorose che però avrebbero dovuto riguardare un’area molto più vasta». Così l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, sentito dai pm di Bergamo nel giugno 2020, ha parlato anche del cambio di linea che maturò in una riunione tra il Cts e Giuseppe Conte il 6 marzo, quando si andava verso il lockdown nazionale.

Estratto da open.online il 5 marzo 2023.

Stima e rispetto, ma visioni ben diverse, talora agli antipodi. Sono due modi di vedere opposti quelli che si sono scontrati oggi su Rai3 sulla gestione della prima ondata di pandemia e, dunque, sull’inchiesta della procura di Bergamo. Da un lato Andrea Crisanti, microbiologo e senatore Pd, fautore da sempre delle zone rosse per circoscrivere il virus e autore della consulenza sulla gestione del contagio al cuore dell’inchiesta.

 Dall’altra l’infettivologo del San Martino di Genova Matteo Bassetti, decisamente più prudente sulle chiusure ad oltranza e più perplesso nei confronti di eventuali responsabilità, specie se accertate per via giudiziaria. Ospiti di Lucia Annunziata a Mezz’ora in più, i due esperti hanno duellato, con rispetto ma senza negare divergenze e qualche puntura di spillo.

«Mai come ora mi sono reso conto che il prezzo dell’integrità è la solitudine», esordisce Crisanti, che confessa che da quando si è avuta la notizia della conclusione delle indagini con al centro la sua perizia nessuno, neppure nel Pd nelle cui liste è stato eletto, lo ha contattato. Nessuna interlocuzione neppure con l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, indagato insieme ad altre 18 persone, tra cui l’ex premier Giuseppe Conte, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e l’ex assessore regionale al Welfare Giulio Gallera.

Non sembra avere problemi di solitudine Matteo Bassetti, che non nasconde il suo scetticismo per l’inchiesta della procura di Bergamo: «A fine febbraio-inizio marzo 2020 eravamo tutti impegnati a fare del nostro meglio, in quel momento qualsiasi scelta era presa al buio. Se si deve pensare a un processo per quei giorni non può che essere fatto al virus. Qualsiasi scelta fu presa in buona fede nell’interesse della popolazione», sostiene Bassetti, che ricorda come all’epoca «si navigava al buio in un mare in tempesta. O siamo tutti innocenti o siamo tutti colpevoli. Non si può giudicare quanto successe con gli occhi di adesso».

Un approccio che non convince Crisanti. «Dire ‘siamo tutti assolti, va tutto bene’ secondo me significa aprire la strada a una situazione di impreparazione la prossima volta. Chiudere gli occhi davanti a un disastro significa aprire la strada a un altro disastro», è il suo giudizio severo.  […]

 Non è L'Arena, Zambon umilia tecnici e politici: "Pandemia? La più annunciata della storia". Il Tempo il 06 marzo 2023

Fare finalmente chiarezza con l'inchiesta di Bergamo sul Covid. Francesco Zambon era a capo dei ricercatori dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che scrissero un rapporto sulla gestione della prima ondata della pandemia da parte del governo italiano. Zambon si è dimesso da pochi giorni a causa del clima insostenibile, creatosi attorno a lui sul luogo di lavoro in seguito alla pubblicazione del rapporto. Massimo Giletti lo ospita in collegamento a "Non è L'Arena", domenica 5 marzo, per parlare proprio dell'inchiesta dei magistrati su quello che accadde ad Alzano e Nembro dove, secondo i pm, nella zona più colpita dal virus con la zona rossa si sarebbero potute salvare oltre 4 mila vite. "La pandemia più annunciata della storia, tutti sapevano che sarebbe arrivata. Basta dire il contrario" denuncia Zambon che aveva raccontato di aver subito pressioni dai vertici dell’OMS per modificare alcune date e possibili errori nel rapporto e che la rimozione dello stesso rapporto avrebbe messo ancora più in pericolo la salute pubblica dei cittadini italiani. Il caso di Francesco Zambon è poi emblematico, perché avviene proprio nell’organizzazione internazionale, principale punto di riferimento in questa pandemia.

"I tecnici dovevano fare i tecnici, i politici i politici" afferma Zambon. "Sui quotidiani ho trovato delle cose che non voglio più leggere e spero che non vengano più scritte: abbiamo avuto a che fare con qualcosa di imprevedibile? Questa è stata la pandemia più annunciata degli ultimi 100 anni. Il coronavirus non è un virus sconosciuto" tuona. "Chi lo dice si informi prima: abbiamo avuto la Sars e abbiamo ancora la Mers che sono due infezioni causate dal coronavirus. Si sapeva che questa pandemia sarebbe successa: possiamo dire che eravamo impreparati ma questa impreparazione ha delle responsabilità: i tecnici dovevano fare i tecnici e i politici dovevano fare i politici". Applausi in studio (e da casa).

Paolo Colonnello per lastampa.it il 5 marzo 2023.

«Alla luce di quanto sopra si evidenzia che: Regione Lombardia, benché avesse contezza diretta dell’espansione esponenziale del contagio nel suo territorio... non ha mai formalmente richiesto, concordato o sollecitato al governo alcun provvedimento contingibile per i territori di Alzano e Nembro, né lo ha fatto per altre aree regionali». Così scrivono gli inquirenti negli atti dell’inchiesta. E d’altronde, spiega bene l’alta funzionaria regionale Andreassi in un messaggio al consigliere regionale di Italia Viva Nicolò Carretta: «Il senatore Matteo Salvini non vuole che la Regione prenda posizione. Vuole mettere in difficoltà il governo... Purtroppo il presidente è ostacolato da Confindustria e immagino da Salvini».

Dunque, la gente iniziava a morire a grappoli, e qualcuno cercava «di mettere in difficoltà il governo», fino a negare di poter decidere le zone rosse. Mentre l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera racconta come, nei primi giorni dell’emergenza, «nessun presidio ci ha mai detto che mancavano tamponi, nessuna segnalazione in tal senso è provenuta da Alzano».

 Se non ci fossero di mezzo oltre 4.000 morti «inutili», verrebbe quasi da sorridere. Ma per gli inquirenti Fontana e Gallera vengono smentiti dai fatti e dai verbali. Sebbene non tutte le testimonianze che compaiono in questa inchiesta siano coerenti e univoche. Una cosa è sicura: i loro stessi dirigenti avrebbero voluto che si chiudesse tutto subito.

 Drammatica la chat che l’allora direttore generale del Welfare Luigi Cajazzo, finito a sua volta indagato, scrive alla moglie il 2 marzo: «Gli ospedali sono al limite, secondo me bisogna fare altre zone rosse per salvare Milano». Cajazzo scrive anche ad Angelo Borrelli, capo della protezione civile: «Angelo perdonami, ho visto le tue dichiarazioni sulla mancanza di criticità. Purtroppo non posso essere d’accordo!». Ma sono grida nel deserto.

Estratto dell’articolo di Luigi Grassia per “la Stampa” Il 6 marzo 2023.

Nel marzo di tre anni fa, mentre l'epidemia del Covid esplodeva, gli imprenditori in Lombardia e in Veneto (le zone dei primi contagi in Italia) riconoscevano l'inevitabilità delle misure di sicurezza anti-coronavirus, ma provavano a mettere sull'altro piatto della bilancia le ragioni della produzione e del commercio e a chiedere ai politici qualcosa di alternativo alla chiusura totale dei posti di lavoro: distribuzione di mascherine, guanti e altri dispositivi sanitari, distanziamento sociale, turnazioni sui posti di lavoro eccetera.

Sull'istituzione della Zona Rossa Marco Bonometti, allora presidente di Confindustria Lombardia (e tuttora proprietario dell'azienda Officine Meccaniche Rezzatesi), dichiarava così: «C'è un problema sanitario grave e difficile, inutile minimizzare, ma bisogna sedersi a un tavolo e discutere insieme, tra istituzioni, parti sociali e industria. Le fabbriche non si possono chiudere, perché la loro chiusura equivale alla resa della nostra società al coronavirus. La nostra manifattura produce ricchezza, risorse economiche e lavoro».

 Che fare, allora? «Bisogna contrastare la diffusione del virus, ma non chiudendo le fabbriche e gli esercizi commerciali. Chiudere tutto non farà altro che deprimere queste aree economiche».

 Va anche tenuto presente che al lockdown nazionale si arrivò gradualmente, con tempi differenziati a seconda delle zone d'Italia, e ancora più differenziati rispetto al resto d'Europa, e anche per questo Bonometti lamentava: «In queste due settimane (precedenti il 7 marzo, ndr) siamo stati subissati di telefonate e email di clienti stranieri che non credono più nelle imprese lombarde. Ci domandano se potremo fare fronte alle forniture, alle consegne. E la conseguenza è che poi andranno altrove a cercare i prodotti».

Poco meno esposto della Lombardia, nelle fasi iniziali del Covid, fu il Veneto. Il 22 marzo Enrico Carraro, presidente (allora come adesso) di Confindustria Veneto (oltre che titolare dell'azienda di famiglia), si diceva «estremamente arrabbiato» per il decreto del giorno prima che chiudeva tutti i centri produttivi, pur lasciando aperti (con limitazioni) i supermercati. […] La proposta del presidente degli industriali veneti, alternativa a quella del governo, era «chiudere le aziende incapaci di garantire la sicurezza e lasciare aperte le altre». […]

Estratto dell'articolo di Paolo Berizzi per "la Repubblica" Il 6 marzo 2023.

 [...] Nelle settimane del “caos” o “disastro” lombardo succedono cose che emergono ora grazie alle centinaia di messaggi acquisiti dai pm di Bergamo dai telefonini dei 19 indagati. “Povera Italia”, scrive Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro della Salute Roberto Speranza, alla sottosegretaria Sandra Zampa.

 L’epicentro della “povera Italia”, e dell’epidemia, è la Lombardia. La regione dove le industrie e le merci, è emerso, “non potevano fermarsi”. Il 7 marzo 2020 Marco Bonometti, allora presidente di Confindustria Lombardia, scrive a Gallera. “Bravo, sei stato chiaro e determinato ma è veramente di difficile interpretazione” (decreto contenimento virus).

E ancora: “Ci siamo già mossi con Conte per modificare la mobilità delle merci”. Gallera: “Adesso specifichiamo la libera circolazione delle merci e speriamo siano accolte”. Bonometti è infuriato — “parlato con Attilio cose da pazzi… Questi sono matti” —, ma rilancia: “Quando avete definito le modifiche o le interpretazioni informatemi che così facciamo anche noi le stesse considerazioni”.

Oltre al pressing anti zona rossa di Confindustria, il 18 marzo 2020 Bonometti chiede a Gallera un farmaco per un familiare ricoverato e contagiato: “Caro Giulio, mi servirebbe avere il farmaco della Roche che so vi hanno consegnato…”. Risposta di Gallera: “Certo adesso mi attivo...verifico subito!”.

Estratto dell'articolo di AnCu. per “il Giornale” Il 6 marzo 2023.

 L’ex sindaco di Nembro avrebbe chiuso tutti i locali nei primi giorni di marzo, quando il comune della Val Seriana, assieme alla vicina Alzano Lombardo, era pesantemente colpito dalla prima fase del Covid. Ma «le varie lobby li hanno lasciati aperti», scrisse in una chat su whatsapp agli atti della procura di Bergamo Claudio Cancelli, allora primo cittadino.

[...] «Anch’io sarei stato drastico su ristoranti, bar, centri sportivi eccetera. E invece le varie lobby li hanno lasciati aperti. Sbagliato. Se devi intervenire, intervieni in modo rigido, altrimenti non serve», scriveva il sindaco Cancelli la sera del 3 marzo 2020, commentando su whatsapp con un imprenditore della zona la possibilità, che in quel momento sembrava molto concreta, che venisse istituita la zona rossa in Val Seriana. La chat è agli atti dell’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione della prima ondata di Covid.

 La frase di Cancelli arriva in risposta alla richiesta dell’imprenditore circa la chiusura del territorio («ho sentito le novità che pare non siano buone. Diventiamo zona rossa?»), con Cancelli però ancora piuttosto scettico: «Adesso è più di una voce. Però aspettiamo, non sono convinto che la adottino subito».

Il giorno dopo, il 4 marzo, nuova chat con l’imprenditore che prega il sindaco di fargli sapere il rpima possibile dell’istituzione della zona rossa e il primo cittadino risponde: «Non sappiamo ancora nulla. Spero ci avvisino un po’ prima. C’è ancora qualcuno che ha speranza che non venga dichiarata. Vediamo».

 Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per “la Repubblica” Il 6 marzo 2023.

[…] Le tensioni sono, di fatto, una prosecuzione di ciò che va avanti a intermittenza dai giorni a cavallo tra febbraio e marzo 2020, quando l’epidemia coronavirus inizia a travolgere la Lombardia, in particolare il lodigiano, prima, e la bergamasca, dopo.

 “Fanno schifo”. “Vogliono prendersi la Regione”. “Povera Italia”.“Ci mancava solo la milf esibizionista”.

 Mentre al nord il Covid falciava vite e gli ospedali collassavano, la politica — tra Milano e Roma — offriva (anche) il peggio di sé: rivalse, accuse trasversali. “Fanno schifo”, scrive l’ex assessore regionale lombardo alla Sanità, Giulio Gallera, in una chat con Paolo Sensale, portavoce di Fontana. Il riferimento è all’Ordine dei Medici di Milano, colpevoli di avere protestato (“inaccettabile coinvolgerci per giustificarsi da accuse ritardi”). È il 19 aprile 2020. Gallera va giù pesante: “Fanno schifo. Vogliono riuscire a prendersi il governo della Regione (…) Non ce l’hanno fatta con la lapidazione di Formigoni e ci provano con il coronavirus (…) Vergognosi sciacalli…”.

I toni sono tirati, ma capita che si ammorbidiscano, diciamo così. La Gdf annota un’altra conversazione digitale con Sensale. “Ci mancava la milf esibizionista”, scrive Gallera riferito a tale “Patrizia”. Negli scambi tra i due fa capolino un grido d’aiuto lanciato dai carabinieri: il 15 aprile scrivono a Fontana per chiedere dei tamponi, ma lamentano pubblicamente di non avere ricevuto “nessuna risposta”. Quella di Gallera “arriva” nella chat. “Perché dobbiamo tamponarli? Ci sono linee guida precise, se tamponiamo loro dobbiamo tamponare tutti quelli che fanno servizi di pubblica utilità”. [...]

Inchiesta Covid a Bergamo, le chat di Gallera: «Un bimbo di un anno in terapia intensiva? Dare questa notizia è devastante». Armando Di Landro e Giuliana Ubbiali su Il Corriere della Sera il 7 Marzo 2023

Le chat contenute negli atti dell’inchiesta. L’assessore si infuriò con la direttrice generale dell’ospedale Papa Giovanni XXIII. Svelati anche i retroscena sull’affaire mascherine

Uno dei timori principali era quello di creare paura. Le istituzioni che si occupavano delle prime fasi dell’emergenza Covid, tra febbraio e marzo 2020, soprattutto in Lombardia, erano terrorizzate da un’eventualità: il panico collettivo. Si capisce bene dalle chat acquisite nell’ambito delle indagini della Procura di Bergamo.

Il 3 marzo 2020, per esempio, alle 16.26, l’assessore al Welfare della Regione, Giulio Gallera, è furioso con la direttrice generale dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo, Maria Beatrice Stasi. «Un bimbo di un anno in terapia intensiva??? Dare questa notizia è devastante», le scrive. C’era stata una conferenza stampa, per fare il punto sull’epidemia. «Chi l’ha data??? Vi abbiamo detto allo sfinimento di non dare numeri!!!».

La direttrice si dispiace: «Purtroppo la grande pressione che i numeri hanno evidenziato su Bergamo ha comportato anche un notevole stress dei media su di noi». Il bimbo è in terapia neonatale, non è grave ma la notizia colpisce. L’assessore pensa all’impatto mediatico: «Un bambino in terapia neonatale domani è l’apertura dei giornali nazionali. Notizia devastante. Licenzia l’addetta stampa!!!», dice alla dg Stasi. Il giorno dopo, 4 marzo, la direzione generale dell’assessorato di Gallera, vietò alla direzioni ospedaliere di organizzare conferenze stampa. La responsabile comunicazione a Bergamo era Vanna Toninelli, che ha seguito la fase più complessa legata alla pandemia. Da agosto 2020 non lavora più al Papa Giovanni: si è dimessa per un altro incarico.

I video dalla Cina

Il dg della Prevenzione del ministero della Salute Giovanni Rezza, allora all’Iss, sembra capire l’imminente pericolo il 22 gennaio 2020, dai video di uno studente cinese di Roma, la cui famiglia vive nella zona di Wuhan: «I video, se veri, sono impressionanti. (...) Se questa è la situazione forse bisogna preoccuparsi», scrive a Silvio Brusaferro il giorno dopo. Sentito a Roma dai pm Rezza racconta del paziente 1. «La dottoressa Gramegna, di Regione Lombardia, mi ha chiamato la notte tra il 20 e il 21 febbraio 2020, dicendo di avere un caso positivo a Codogno». Tre giorni dopo, non ci fu alcuna chiamata immediata, invece, dopo i primi due casi di Alzano. «I colleghi che rientrarono dalla Lombardia la sera del 23 febbraio non avevano rilevato l’esistenza di casi positivi in quell’area».

Le protezioni contestate

Nelle chat anche l’evoluzione di tutto l’affaire mascherine: il 28 e 29 febbraio, l’1 e il 2 marzo i giorni caldi. Le ffp2 e ffp3 sono esaurite ma le linee guida ministeriali le ritengono necessarie per i medici. La Lombardia chiede di sdoganare le mascherine chirurgiche. A insistere con Roma è in particolare Luigi Cajazzo, direttore del Welfare, ma la modifica delle linee guida non arriva: «Nell’ultima ora ho parlato con Brusaferro, Borrelli, Ruocco… — scrive Cajazzo a Gallera l’1 marzo —. Secondo Ruocco c’è norma pronta. Ma Borrelli mi dà versione diversa e Brusaferro pontifica. Io mi sono incazzato e ho detto che da oggi comincio a chiudere ospedali». La mattina del 2 si arriva a una soluzione. Le mascherine chirurgiche furono sdoganate per gli ospedali per una questione di necessità, contrariamente alle indicazioni ministeriali, sfruttando un parere dell’Oms.

Nembro e Luna Rossa

Ma il mondo produttivo si oppose davvero alla zona rossa a Nembro e Alzano? A Nembro c’è la Persico, 600 dipendenti: entro ottobre 2020 doveva consegnare il nuovo scafo di Luna Rossa. Il 3 giugno il patron Pierino Persico dice ai pm: «Non ho esercitato alcuna pressione per non fare istituire la zona rossa» ma «ho semplicemente espresso le mie preoccupazioni, atteso che se non consegnavo i materiali sarei stato soggetto a danni milionari e a conseguenze occupazionali».

Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori , sentito dai pm, ha raccontato di aver raccolto un duro sfogo di Persico secondo il quale «in questo modo (con le chiusure, ndr) sarebbe andato in sostanza “in fumo” il lavoro di un’azienda presente sul mercato da 50 anni». Una preoccupazione manifestata anche a Marco Bonometti, il presidente di Confindustria Lombardia, che però ha sostenuto di aver parlato con l’imprenditore di Nembro solo di una zona rossa allargata a tutta la Lombardia. E a domanda, se avesse chiesto al governatore Attilio Fontana di attivarsi per evitare certe scelte: «Sì, gliel’ho chiesto. Regione Lombardia era d’accordo con noi nel non istituire le zone rosse ma nel limitare le chiusure alle sole aziende non essenziali».

«Niente ventilatori»

Il 4 marzo 2020, il ministero fa una stima dei costi per l’acquisto di apparecchiature di ventilazione assistita per le terapie intensive. «In ritardo», annota la Gdf, perché in Lombardia ci sono già 1.820 contagiati e 73 morti. L’Abruzzo non era l’area più devastata, ma il 10 marzo il presidente del Consiglio regionale Giovanni Legnini lancia l’allarme per i ventilatori. Si ripete anche 11 giorni dopo e a rispondergli è il capo di gabinetto del ministero della Salute, Goffredo Zaccardi: «Ventilatori non ci sono. Lunedì sera forse atterra un carico dalla Cina e vediamo che cosa c’è dentro». La dura realtà la spiega Andrea Urbani, che guida la Programmazione al ministero: «Stiamo privilegiando le regioni più colpite».

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 7 marzo 2023.

 Ma questo avvocato Conte è stato veramente un gran figo. Più leggiamo le chat da cui si evince che virologi, politici, funzionari, accademici, zanzarologi, amministratori, sanitari a vario titolo a fine febbraio del 2020 non ci stavano a capire un tubo, [...] più si rivaluta il fatto certo che il presidente del Consiglio chiuse l’Italia per decreto la notte del 7 marzo del 2020, oggi dovrebbe essere festa nazionale.

[…] In tanti si fecero un sacco di scrupoli, poi hanno capito, [...] e hanno chiesto ai cittadini investiti da una crisi pandemica lo stesso atto di sottomissione alla dea della Necessità che lo stato italiano aveva primo al mondo rilevato come necessario, urgente, a decorrenza immediata dall’alba dell’8 marzo.

   […] L’inchiesta giudiziaria di quei presuntuosi storiografi, gli Erodoti in toga della bergamasca, i sociologi della polenta taragna, con i loro vivaci esperti e periti che ne hanno dette di cotte e di crude, […] ora chiede il processo e la condanna di Giuseppi e del suo alfiere triste, lo Speranza con la faccia della Dolorosa Consapevolezza.

Da quando in qua si processano i miracoli, i decisionismi fortunati sostenuti dal carisma di un santo della chiesa universale come Padre Pio [...]?

 Non stupitevi se un intellettuale raffinatissimo come me […] loda di tanto in tanto il professionista dalla voce chioccia, lo stupor peninsulae che ci ha chiusi in casa al momento giusto e per il nostro bene, gratuitamente non direi, ma tant’è.

In lui e nella sua decisione fatale, [...] va riconosciuto l’impasto di virtù e fortuna che fe’ il combatter meno cruento e disciplinò l’italico valor, la strafottenza informale del sistema, poi giustamente affidatosi al Draghi dell’articolo sul debito buono del Ft del 20 marzo, altra ricorrenza da Superbonus da festeggiare, conformando l’italiano, per una volta, a un’idea forte di sottomissione e di salvaguardia. Processarlo? Mi stupisco che non lo abbiano ancora fatto senatore a vita.

Covid, i tre ministri della salute hanno dormito? Non sono dei geni...Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 07 marzo 2023

Qui, cioè nell’incartamento della procura di Bergamo sulla gestione della prima fase della pandemia, l’unica cosa che forse sta in piedi è la faccenda del piano pandemico. Al netto del balletto zona rossa sì zona rossa no,  al netto di quella settimana di tentennamenti a febbraio del 2020 (che è stata anche una settimana di confusione totale: ma l’abbiamo spiegato bene nei giorni scorsi e chi lo nega, oggi, oltre ad avere la memoria corta, ha corta pure la buonafede), al netto dei numeri che lasciano il tempo che trovano e al netto anche del fatto che gli errori della politica, se errori ci sono stati, non si portano in tribunale, si portano in parlamento: il solo aspetto che, carte alla mano, può non finire in un nulla di fatto è quello legato al «documento di preparazione e di risposta a una pandemia». Il quale, però, nello specifico, ossia proprio sulle cartelle in esame, viene definita «influenzale»: già questo rischia di scombussolare il quadro perché l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, colto di sorpresa dal Sars-cov2 come tutti noi, tre anni fa, pare abbia preso quelle 75 paginette e le abbia messe da parte dato che non erano costruite «specificatamente su un coronavirus, ma su un virus influenzale».

L’ULTIMO DOCUMENTO

Lo scrive il microbiologo Andrea Crisanti nella sua relazione agli atti dell’inchiesta bergamasca. Non ci stiamo inventando niente. Ci stiamo domandando, semmai, come si è arrivati a tanto. Perché la filiera oramai è nota: l’ultimo piano pandemico, in Italia, è stato fatto nel 2006. Quando è apparso il Covid era il 2020. Significa che sono passati almeno quattordici anni senza che nessuno, ma proprio nessuno, abbia mosso un dito. Tra l’altro, il 22 ottobre del 2013, l’affare è diventato comunitario: nel senso che il Parlamento europeo, in quell’occasione, ha cominciato a tirarci le orecchie. A dirci, cioè, che dovevamo darci una mossa, che le minacce alla salute oramai s’erano fatte transfontraliere (leggi: le malattie mica si fermano alla dogana di turno) e che bisognava aggiornare l’aggiornabile. Ci ha pure dato un termine, l’Ue: il 2014. Epperò zero. Ancora.

VARIANTI

E zero anche quando le successive varianti del piano pandemico sarebbero dovute esserci nel 2017 e (guarda le coincidenze) nel 2020. Un po’ come quell’amministratore di condomino che deve cambiare gli estintori, dice “domani lo faccio, ma tanto non succede nulla, aspetto ancora un giorno” e alla fine va a fuoco tutto il quartiere. Probabilmente non ci fai niente, con un singolo estintore, se ne frattempo brucia mezza città: però, almeno, hai qualcosa da con cui partire per difenderti. Ora, tuttavia il problema è che la lista degli “amministratori di condomino di via Ribotta” (per essere chiari: la lista dei ministri della Salute dal 2006 al 2020) è lunga e articolata. Si inizia con Livia Turco (Democratici di sinistra, governo Prodi II), si passa a Maurizio Sacconi e a Ferruccio Fazio (per il Popolo della libertà, governo Berlusconi IV), poi all’indipendente Renato Balduzzi (governo Monti), a Beatrice Lorenzin (balzata dal Nuovo centrodestra ad Alternativa popolare, governi: Letta, Renzi e Gentiloni), poi a Giulia Grillo (M5S, governo Conte I) e solo a questo punto si approda a Roberto Speranza (Articolo 1) in quel maledetto 2020 che vorremmo tutti dimenticarci. Allora di chi è la responsabilità? Di tutti o di nessuno? Non può essere solo di Speranza, verso il quale noi, qui a Libero, non siamo mai stati teneri, però dobbiamo anche avere l’onestà intellettuale di dirci che sì, se ha avuto delle colpe è giusto tirarle fuori, ma senza scordare tutto il resto. Ché un esecutivo, sempre, eredita una situazione pregressa: e se quella situazione ha un buco enorme, come sul piano pandemico (che a onor di cronaca, nel 2006, l’ha fatto Francesco Storace col Berlusconi III perché è stato pubblicato, si trova ancora sul sito del ministero, il 10 febbraio quando in carica c’era lui) vale l’insieme, non solo l’ultimo.

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per corriere.it l’8 marzo 2023.

Mentre a Bergamo esplode l'inchiesta contro l'esecutivo sulla gestione del Covid, il Tribunale dei ministri archivia la denuncia dei familiari delle vittime e delle rappresentanze sindacali di base che avevano chiesto di indagare sui vertici dell’esecutivo per la  diffusione del Covid-19. In nessun modo «l’epidemia può dirsi provocata dai rappresentanti del governo» si legge nel provvedimento di archiviazione per Giuseppe Conte, Roberto Speranza, Luciana Lamorgese, Lorenzo Guerini, Luigi Di Maio, Roberto Gualtieri e Alfonso Bonafede, titolari di una serie di provvedimenti nel corso dell’emergenza pandemica.

Impossibile imputare alcunché ai rappresentanti del governo, dice il Tribunale: «Deve ribadirsi che, soprattutto in una situazione di incertezza come quella sopra descritta non era esigibile da parte degli organi di governo l’adozione tout court di provvedimenti in grado di impedire ogni diffusione dei contagi che non tenessero conto della necessità di contemperare interessi diversi e in particolare la tutela della salute e la tenuta del tessuto socio economico della collettività». I giudici non ravvisano l’ipotesi di omicidio colposo plurimo ipotizzata dai denuncianti: «Per verificare la colpevolezza si dovrebbe conoscere la genesi del contagio delle singole vittime e stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio che misure di contenimento che non siano state adottate dal Governo o disposte in ritardo avrebbero evitato il contagio o l’esito leale».

 In altre parole mancherebbero i presupposti stessi (sotto il profilo giuridico) per contestare alcun reato, vista l’incertezza complessiva: «Gli strumenti scientifici non sono in grado di accertare tali circostanze e non è possibile escludere responsabilità dei terzi considerato che la diffusione del virus dipende in buona parte da comportamenti virtuosi della collettività» Impossibile accertare una responsabilità penale anche sotto il profilo omissivo: non è dimostrato infatti che l’adozione di ulteriori misure di contenimento «avrebbero evitato il contagio».  […]

Da repubblica.it l’8 marzo 2023.

Il ministro della Salute Roberto Speranza e i suoi predecessori Giulia Grillo e Beatrice Lorenzin sono indagati per omissione in atti d'ufficio in uno stralcio romano dell'inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione del Covid nella provincia più colpita dal virus. In particolare, sono indicati come "responsabili dell"omessa istituzione, rinnovo del Comitato Nazionale per la pandemia". Il trasferimento a Roma è motivato dalla competenza territoriale

Inchiesta Covid a Bergamo, oltre a Speranza, sono indagate le ex ministre Grillo e Lorenzin. VANESSA RICCIARDI su Il Domani l’08 marzo 2023

L’indagine è per omissione di atti d'ufficio in relazione al mancato aggiornamento piano pandemico. Nel fascicolo viene indicato come responsabile di false comunicazioni all'Oms anche l'ex numero due dell'Organizzazione mondiale della sanità, Ranieri Guerra

La procura di Bergamo ha trasmesso a Roma uno stralcio della sua inchiesta sul Covid e la mancata zona rossa in Val Seriana nella quale sono indagati gli ex ministri della Salute Roberto Speranza, e le ministre precedenti Giulia Grillo e Beatrice Lorenzin, oltre a 7 funzionari di vertice del ministero della Salute per omissione di atti d'ufficio in relazione al mancato aggiornamento piano pandemico, risalente al 2006 e aggiornato per l’ultima volta nel 2010.

Oltre agli ex ministri Speranza, Grillo e Lorenzin, per l’ipotesi di reato di omissione in atti d’ufficio perché non avrebbero aggiornato il piano pandemico e omesso di definire i piani nel dettaglio sono indagati: Giuseppe Ruocco, in qualità di direttore generale della Direzione Prevenzione Sanitaria dal 2012 al 2014 e dal 2017 al 2021 come segretario generale del ministero della Salute; Ranieri Guerra, ex vice direttore dell’Oms, come direttore generale della Direzione Prevenzione Sanitaria del ministero della Salute dal 2014 al 2017; Maria Grazia Pompa, direttrice dell'Ufficio 5 fino al 2016; Francesco Paolo Maraglino, direttore dell'Ufficio 5 della Direzione Prevenzione Sanitaria.

Per “falsità ideologica” in relazione ai «dati falsi comunicati all'Oms e alla Commissione Europea attraverso appositi questionari» sono indagati oltre a Ranieri Guerra, i dirigenti Claudio D'Amario; Francesco Paolo Maraglino; Loredana Vellucci; Mauro Dionisio.

Guerra ha risposto all’AdnKronos che «comunque i questionari dell'Oms sono stati compilati dai capiufficio».

LA POSIZIONE DI GRILLO E LORENZIN

Speranza a Bergamo risponde anche della mancata attuazione del piano pandemico e per questo la posizione di Lorenzin e Grillo appare più attenuata.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

L’epidemia giudiziaria non si ferma: a Roma indagati Speranza, Lorenzin e Grillo. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Marzo 2023

Gli ultimi tre ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, Giulia Grillo, Roberto Speranza, sono accusati dalla Procura di Bergamo di aver omesso di rinnovare il Comitato nazionale pandemico. Essendo il luogo delle eventuali commissioni del reato il Ministero, gli atti sono stati inviati per competenza territoriale alla Procura di Roma che dovrà ora decidere sulle loro posizioni. Lo stralcio è stato effettuato dai pm bergamaschi a metà novembre dello scorso anno ma la notizia si è saputa solo ieri.

Non sono stata informata. Non so nulla, dunque non posso rilasciare dichiarazioni”, è stato il commento all’Adnkronos della ex ministra Grillo (M5s). Oltre ai tre ministri, nello stralcio inviato nella Capitale è finito anche il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, per l’ipotesi di truffa in pubbliche forniture circa i tamponi. Nella nota inviata nella Capitale, in qualità di “responsabili per i dati falsi comunicati a Oms e Commissione europea attraverso appositi questionari”, compaiono anche i nomi dell’ex numero due dell’Organizzazione mondiale della Sanità Ranieri Guerra e di quattro tecnici del Ministero della Salute: Claudio D’Amario, Francesco Maraglino, Loredana Vellucci e Mauro Dionisio. Guerra, come i tre ex ministri, deve rispondere anche del “mancato aggiornamento del piano pandemico e dell’omessa definizione dei piani di dettaglio”.

Fra gli indagati, infine, l’ex numero uno del Ministero della salute, il segretario generale Giuseppe Ruocco e i due direttori generali della direzione Prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale: Maria Grazia Pompa e Francesco Maraglino. Ad ‘accusare’ i tre ex ministri e i vari dirigenti ministeriali, quanto riportato nella consulenza tecnica di Andrea Crisanti, attuale parlamentare del Pd, incaricato dalla Procura di Bergamo nel 2021 far luce su cosa avvenne dal 5 gennaio 2020 al 30 giugno successivo all’ospedale di Alzano Lombardo e nei comuni della Val Seriana. Fu Crisanti a scoprire che l’ultimo aggiornamento del Piano pandemico nazionale risaliva al 2006. Speranza, si legge nella relazione di Crisanti, sottovalutò quanto stava accadendo, decidendo di ‘cestinare’, senza neppure averlo letto, il Piano pandemico nazionale.

Eppure, scrive ancora Crisanti, il 5 gennaio 2020 l’Oms aveva diffuso un messaggio di allerta, segnalando casi di polmoniti gravi di origine sconosciuta, invitando gli Stati a procedere con la prevenzione e formazione del personale sanitario, a fare scorte di Dpi e di respiratori, ad attivare i laboratori diagnostici. Brusaferro propose allora a Speranza una “soluzione alternativa”, fatta “dopo un’ attenta valutazione tecnico scientifica” anche se aveva letto “per prima volta il Piano pandemico nel maggio 2020”. L’ex ministro del governo Conte 2 e tutti i membri della task force e del Cts, così come tutti i direttori generali del Ministero della Salute sarebbero stati, aggiunge Crisanti, “consapevoli del fatto che il Piano pandemico doveva essere aggiornato almeno dal 2017”.

Il tribunale dei Ministri di Roma ha, invece, archiviato questa settimana la posizione dell’ex premier Giuseppe Conte e degli ex ministri Roberto Speranza, Luciana Lamorgese, Lorenzo Guerini, Luigi Di Maio, Roberto Gualtieri e Alfonso Bonafede, finiti indagati in seguito alle denunce da parte di associazioni dei familiari delle vittime, di consumatori e di alcuni sindacati relativamente alla gestione della pandemia. Nei loro confronti i magistrati avevano proceduto per epidemia colposa e omicidio colposo in seguito a diverse denunce, presentate a partire già dal marzo 2020, in cui si ipotizzavano “le inefficienze e i ritardi del governo nell’adozione delle misure organizzative e restrittive necessarie a fronteggiare l’emergenza Covid”.

Paolo Comi

Inchiesta covid di Bergamo: l’autotutela di Conte e Speranza non li ha resi immuni dal processo di piazza. Alessandro Butticé su Il Riformista il 6 Marzo 2023

Il 12 marzo del 2020, prima che l’epidemia covid venisse dichiarata pandemia, su Il Riformista, ho cercato di spiegare e spiegarmi perché le misure anti-covid italiane sembrassero già allora così drastiche, anti-economiche ed invasive per le libertà individuali, rispetto a quanto accadeva negli altri Paesi.

E mi chiedevo, retoricamente, lo ammetto: “se il non ingiustificato timore dei nostri governanti e amministratori per il rischio di ricadute giudiziarie-mediatiche, dovute in gran parte ad un sistema mediatico-giudiziario molto diverso da quello della maggior parte degli altri paesi europei, e che non risparmia nessuno dalle sue bizzarrie, non abbia portato al più alto livello della loro autotutela nella gestione. Autotutela che non necessariamente coincide sempre con la tutela generale del cittadino che, assieme al bene primario della salute, si aspetta dalle pubbliche autorità di essere tutelato anche sotto altri profili. Compreso quello della sopravvivenza economica. Mi chiedo cioè se, di fronte al rischio di un qualunque sostituto Procuratore della Repubblica che potrebbe promuovere un’indagine nei confronti del Presidente del Consiglio, di un ministro, o di tutto il governo per il reato di epidemia colposa, ovvero di diffusione cagionata per colpa di agenti patogeni (combinato disposto degli articoli 438 e 452 del codice penale), dovuta a una qualche omissione, i nostri governanti non abbiano soprattutto cercato di proteggersi a catena da ogni possibile addebito personale.”

La risposta a questa domanda – per me, come ricordato, retorica – gli italiani l’hanno avuta con le gravissime sofferenze – anche economiche – e maggiori privazioni di libertà personali, rispetto agli altri Paesi Ue, durante tutta la pandemia.

Ed in questi giorni, hanno anche avuto la conferma che nessuna forma di Autotutela può garantire nessun governante dal circo “mediatico giudiziario” dei processi del popolo e di piazza che molti si ostinano a chiamare ancora “giustizia”.

Non sono mai stato un particolare estimatore né di Giuseppe Conte né di Roberto Speranza.

E penso che la teoria del contrappasso Dantesco debba essere spesso ripassata da tutti. Conte compreso.

Acquisendo la consapevolezza che chi di manettarismo ferisce, di manettarismo alla fine perisce.

Robespierre docet.

Sono però da sempre un irriducibile sostenitore della necessità di una Giustizia giusta, e dell’eliminazione dell’ingiustizia da circo mediatico e di piazza, alla quale Pulcinellopoli si è assuefatta da decenni.

Giustizia giusta che non può mai essere a senso unico. Provocando, ad esempio, nel centrodestra, l’indignazione e la protesta solo quando riguarda i propri esponenti.

Per chi, come me, crede ad una Magistratura davvero indipendente dalla politica, ma anche ad una Politica, ed un Esecutivo, indipendente dalla magistratura, questa indagine appare (da quanto letto sinora) l’ennesimo straripamento del giudiziario verso la politica.

Mi provoca molta tristezza leggere sulla stampa la trascrizione di messaggi Whatsapp – molti dei quali insignificanti – scambiati tra rappresentanti di governo ed amministratori lombardi, all’inizio dell’emergenza. Non credo che la loro pubblicazione aiuti in nulla l’affermazione della giustizia. Crea invece solo sfiducia generalizzata, e non mirata verso chi dovesse davvero aver commesso dei reati. Ma soprattutto sarà un ulteriore deterrente per la politica e la dirigenza di qualunque settore vitale nazionale ad assumersi la responsabilità di prendere delle decisioni. Decisioni che comportano sempre un margine di rischio. Soprattutto in contesti emergenziali, e senza precedenti e protocolli validati dalla scienza, a livello mondiale. Come appunto quelli relativi ai primi giorni dell’emergenza Covid. Nonostante il massimo livello di “autotutela” che era sottesa a tante misure adottate, e molto più drastiche che in altri paesi. Che molti cittadini, come noto, non hanno gradito, considerandole persino un attentato alle loro libertà individuali.

Mi chiedo quindi, perché invece della magistratura, questa inchiesta sulla gestione dell’emergenza pandemica non l’ha compiuta una Commissione Parlamentare d’inchiesta, che dispone degli stessi poteri dell’Autorità giudiziaria? Senza dare il pretesto al potere giudiziario di continuare a svolgere una funzione supplente per inazione pluridecennale della politica? In caso di accertamento di eventuali elementi di reato, commessi da singoli, la Commissione Parlamentare potrebbe sempre trasmetterli alle Procure della Repubblica competenti. 

Ma tale procedura sarebbe stata troppo simile a quanto ci si aspetterebbe da un paese normale. Dove il governo governa, il legislativo fa le leggi, e la magistratura applica le leggi al caso concreto. Occupandosi di perseguire singoli reati, indagando su precise notizie di reato. E non della “ricerca della Verità” su eventi e fenomeni. Come, ad esempio, una pandemia o l’eruzione di un vulcano. 

Alessandro Butticé

Da sempre Patriota italiano ed europeo. Padre di quattro giovani e nonno di quattro giovanissimi europei. Continuo a battermi perché possano vivere nell’Europa unita dei padri fondatori. Giornalista in età giovanile, poi Ufficiale della Guardia di Finanza e dirigente della Commissione Europea, alternando periodicamente la comunicazione istituzionale all’attività operativa, mi trovo ora nel terzo tempo della mia vita. E voglio viverlo facendo tesoro del pensiero di Mário De Andrade in “Il tempo prezioso delle persone mature”. Soprattutto facendo, dicendo e scrivendo quello che mi piace e quando mi piace. In tutta indipendenza. Giornalismo, attività associative e volontariato sono le mie uniche attività. Almeno per il momento.

Se poi si parla di reati “omissivi impropri”, preparate i pop-corn...Inchiesta Covid, reato colposo e copione avvincente: processo mediatico ma il dolore resterà “deluso”. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Marzo 2023

Quale è il copione ideale per sceneggiare un processo mediatico con i fiocchi, avvincente, appassionante, infinito quanto le annate delle migliori serie televisive? Non ci sono dubbi: un processo per reati colposi. Eppure, la logica suggerirebbe, di primo acchito, l’esatto contrario. Più intenso è il crimine -verrebbe da pensare- cioè più esplicita, spudorata, violenta è la manifestazione del male, più intenso e partecipe sarà il coinvolgimento dello spettatore. E invece, vale il contrario. Cerchiamo di capire perché, dopo aver messo in chiaro cosa siano questi “reati colposi”.

Se io uccido il mio rivale in affari, per diventare più ricco, commetto un reato doloso: voglio e programmo la morte di un uomo per i miei biechi e loschi interessi. Omicidio volontario. Se corro in macchina in città ad una velocità superiore a quella consentita, finendo per investire un pedone ed uccidendolo, è ben chiaro che non ho mai voluto uccidere quella persona, mi dispererò per il resto dei miei giorni per averlo fatto, e tuttavia sono responsabile della sua morte. Omicidio colposo. Mi hanno infatti insegnato, nel darmi la patente, le regole prudenziali che devo rispettare nella circolazione stradale, proprio per evitare simili tragedie.

Ecco la mia colpa: aver adottato un comportamento consapevolmente rischioso e violativo delle regole. Ora, questi due così diversi comportamenti illeciti avranno causato almeno lo stesso dolore nei familiari delle vittime, ed anzi maggiore nel reato colposo, giacché in questo caso l’omicidio è senza movente, il che rende inestinguibile il dolore di chi, come infatti si suole dire, “non può farsene una ragione”. Ed allora come sarà possibile far accettare ai parenti di quelle vittime, ed ai partecipi spettatori di quella tragedia, che la sanzione per il reato colposo sarà -ovviamente e giustissimamente- di entità e grado esattamente inverso al loro dolore? E già qui avete capito come il copione per il processo mediatico sia molto più intrigante e succulento che per un banale omicidio volontario: si racconta di un dolore inestinguibile, che tanto certamente quanto inevitabilmente rimarrà “deluso” nella sua umana aspettativa di punizione. Ma non basta.

Perché esiste una particolare categoria di reati colposi, che è proprio quella che più di ogni altra assurge voluttuosamente ai vari palcoscenici mediatici, affascinando e coinvolgendo protagonisti, spettatori e commentatori delle relative scene processuali. Si chiamano “reati omissivi impropri”. In poche parole, la tua condotta colposa in questi casi non consiste nell’aver imprudentemente e consapevolmente infranto una regola prudenziale (guida urbana oltre i limiti di velocità): troppo facile. La tua colpa qui consiste nell’aver causato la morte di una o più persone avendo omesso di compiere un comportamento che, secondo chi ti accusa, avevi il dovere di compiere. Qui il copione si complica, e l’intrigo toglie il fiato. Altro che la banale storia di un pazzo suprematista che entra in un supermercato con il mitra e stermina venti persone. Troppo facile, la storia quella è. Qui i copioni diventano infiniti, e sono imparagonabilmente più intriganti.

Se il medico avesse fatto per tempo una tac, mio figlio, forse, si sarebbe salvato; se i pubblici amministratori avessero avvertito i cittadini del pericolo dopo quel primo sciame sismico, le vittime del terremoto, forse, si sarebbero salvate; se i tecnici della manutenzione avessero fatto in modo più completo i controlli dovuti, l’aereo, forse, non sarebbe precipitato. Il giudice, in questi processi per reati omissivi impropri, deve esprimere il proprio giudizio sull’imputato -se colpevole o non colpevole per quelle morti- svolgendo quello che nel gergo tecnico si chiama “giudizio controfattuale”, e sentite quale succulenta trama quel giudizio rappresenta per il vorace processo mediatico. Prima, il giudice deve stabilire quali fossero esattamente i doveri dell’imputato, che egli avrebbe omesso di adempiere, e già qui è tanta roba; poi, deve compiere un doppio salto carpiato.

Deve mentalmente ricostruire cosa sarebbe invece accaduto se egli -l’imputato- avesse adempiuto al proprio compito. Se da questo esercizio di natura puramente logica ed ipotetica, cioè in partenza necessariamente privo di alcun possibile riscontro fattualmente certo, ottengo il risultato che le vittime si sarebbero salvate, condannerò l’imputato; altrimenti, anche solo in presenza di un dubbio sulla ricostruzione logica della catena causale, dovrò assolverlo. Quindi, nemmeno basterà provare con certezza (e vaglielo a spiegare alle vittime) che l’imputato non fece il proprio dovere; ma, per condannarlo, occorrerà provare altresì, come è ovvio e giusto che sia, che se invece l’avesse fatto, le vittime si sarebbero certamente salvate.

Sono questi i processi penali più difficili, più complessi, dove la conoscenza accurata dei fatti e delle problematiche tecniche e scientifiche è indispensabile per formulare giudizi; sono questi i processi dove il lavoro, l’autonomia, l’indipendenza anche emotiva del giudice meriterebbero, sempre, il più rigoroso rispetto, e nei quali il senso di responsabilità dei mezzi di informazione (ciao core, direbbe D’Agostino) dovrebbe esprimersi nelle forme più ferme ed intransigenti. E sono invece proprio questi i processi che si celebrano come se quella drammatica partita si svolgesse in uno stadio, nel quale quel dolore delle vittime -sacrosanto ed inestinguibile- viene cinicamente agitato come bandiere nelle curve. C’è una bella indagine per “reati omissivi impropri”? C’è un succulento “giudizio controfattuale” che il giudice è chiamato a svolgere? Compriamoci i popcorn, e che lo spettacolo abbia inizio.

Estratto dell’articolo di Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” Il 6 marzo 2023.

«Scrissi al capo di gabinetto Zaccardi per esprimergli la mia preoccupazione che i nostri burocrati non erano all’altezza di quella sfida», dice la senatrice Sandra Zampa, Pd, che era sottosegretario alla Salute del ministro Speranza quando il Covid entrò nelle nostre vite come una raffica di mitra.

 «Io al ministero avevo il privilegio di non dover prendere decisioni. […] Speranza ha avuto l’intelligenza di istituire il Cts, ha capito subito che sarebbe servito per rafforzare le scelte e orientare e guidare una macchina organizzativa che non aveva le risorse necessarie […]». Poi arrivò il «caso Bergamo».

«Ricordo che Speranza firmò l’atto per le chiusure di Alzano e Nembro e lo inviò alle autorità preposte. Poi la notte partì per un Consiglio dei ministri della Salute in Europa». Una notte, quale notte? «Se ben ricordo la firma è del 5 marzo». Adesso la Procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta sul ritardo di quelle chiusure che avrebbe provocato oltre 4 mila morti in più.

«Perché un’inchiesta simile soltanto in Italia? Perché non in Francia, in Germania, o in Inghilterra? Boris Johnson ordinò il lockdown solo dopo che si era ammalato lui». […] «Il ministro non dormiva più, era sempre in ufficio a controllare, si alzava alle cinque della mattina. Una volta entrai nella sua stanza, guardava fuori dalla finestra, preoccupato: “Vedi quella macchina? Vedi quel camion? Non dovrebbero essere per strada...”».

Estratto dell’articolo di Armando Di Landro,Giuliana Ubbiali per il “Corriere della Sera” Il 6 marzo 2023.

Ci sono gli sfoghi più spontanei, quelli più misurati, considerazioni delicate e quelle che lasciano solo intendere i pensieri più difficili, o compromettenti. L’informativa che la Guardia di finanza ha presentato alla Procura di Bergamo nell’ambito delle indagini sulla gestione della pandemia nella sua prima fase è caratterizzata soprattutto dalle chat di chi, al ministero della Salute, dentro il Cts, all’Istituto superiore di sanità, o in Regione Lombardia, aveva il compito di arginare il virus. E da quelle migliaia di messaggi emerge bene la confusione e — è la tesi di chi indaga — l’impreparazione delle istituzioni.

Un futuro di inchieste

«Sulle scelte non si può sindacare. Devono arrestare prima i ministri e lo staff di 190 Paesi che hanno fatto meno di noi. Gli altri non hanno isolato nessuno». Non è una chat dei giorni scorsi: il segretario generale del ministero della Salute, Giuseppe Ruocco (indagato), ne parla con una funzionaria il 28 febbraio 2020, vedendo all’orizzonte possibili guai: «Decisioni, tempi, epidemia colposa etc. Ci saranno inchieste su tutto. Come sempre».  […] Nella stessa chat, un’altra frase di Ruocco: «Morirà qualcuno, ma non sparirà l’umanità...».

 Gli scali dalla Cina

È dall’interno del ministero che arriva un forte attacco alla gestione dell’emergenza. La mattina del 23 febbraio 2020, il capo di Gabinetto del ministro Roberto Speranza, Goffredo Zaccardi, chatta con Pierluigi Bersani, che è tra i suoi riferimenti politici, dopo avergli chiesto di potergli parlare in via riservata. «Penso che sia evidente che da Ruocco in giù i nostri non sono stati all’altezza», scrive all’ex leader del Pd, facendo poi un riferimento più specifico: «Le persone che rientravano transitando da qualunque aeroporto del mondo dalla Cina andavano messe in quarantena. Questo non ci avrebbe messo al riparo dal virus totalmente ma dalle responsabilità sì. La gente non sarebbe rientrata in modo incontrollabile».

 Lo scambio di dati

Nonostante l’allerta dell’Oms già il 5 gennaio 2020, è solo dopo la scoperta del paziente 1 (il 20 febbraio a Codogno), e cioè il 23 febbraio (giorno dei primi due positivi ad Alzano), che Anna Caraglia, dal ministero, chiede alle Regioni di comunicare i casi tutti i giorni, alle 11 e alle 17. Andava compilata una tabella e si doveva individuare un responsabile della trasmissione dei dati da poter contattare in qualsiasi momento. Con questa richiesta — osserva la Gdf — «è evidente» che, fino ad allora, il ministero non aveva predisposto nessun documento per raccogliere i dati. Per altro, nella circolare allegata c’erano dei refusi e i link portavano a pagine inesistenti. Per gli inquirenti è un sintomo di «trascuratezza».

 Sui test di massa

Almeno nei primi giorni del contagio svelato in Italia, le idee non sono ancora chiare nemmeno sui tamponi. Il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, il 22 febbraio (giorno in cui nel Lodigiano scatta la zona rossa) scrive: «Il tema è che tutti pensano che il test serva a qualcosa». Il messaggio è per Francesco Curcio, direttore del Dipartimento di Medicina di laboratorio di Udine.

Un’affermazione simile arriva tempo dopo, quando i morti sono già stati molti, anche da parte del direttore vicario dell’Oms Ranieri Guerra: «Ma fare tamponi a tutti adesso è la cazz... del secolo», commenta scrivendo allo stesso Brusaferro. Che risponde: «Ognuno va per conto suo». Guerra si riferiva a Massimo Galli: «Ho parlato con lui, gli ho detto di desistere dal proporre scemenze come tamponi per tutti... ha convenuto, spero...».

 […] I timori di Conte

Il 5 marzo 2020, quando sembra imminente la chiusura almeno dei territori di Nembro e Alzano, il ministro Speranza e Silvio Brusaferro si scrivono su WhatsApp. «Conte senza una relazione strutturata non chiude i due Comuni. Pensa che se non c’è una differenza con altri Comuni ha un costo enorme senza beneficio», sono le parole del ministro.

 Brusaferro: «Vedo adesso di farti avere i dati. Avete anche il parere del Cts? O ti serve?». Il parere indicava la necessità di blindare la Val Seriana, alla luce dei contagi e dell’indice di trasmissione 2. E Speranza: «Sì. Parere (così letterale, ndr ) lo ha spaventato perché dichiara possibilità di altri interventi. Lui dice che ci sono ormai molti Comuni in questa situazione. Quindi ha dubbi che serva. Mi ha chiesto una relazione compiuta». E Brusaferro ricorda: «Sì, lo aveva espresso anche ieri».

 L’allerta ospedali

Le chat corrono anche tra Regioni e governo, evidenziando inevitabilmente l’evoluzione diversa dell’epidemia tra un territorio e l’altro. Il dg del Welfare lombardo Luigi Cajazzo (oggi tra gli indagati), il 3 marzo racconta per esempio i contenuti di una telefonata con Angelo Borrelli, allora a capo della Protezione civile. «Mi ha chiamato Borrelli poco fa… “Non te preoccupa’ — lui —. Se non ti bastano i letti te li portiamo noi i pazienti in altre regioni. Te manno gli elicotteri!”». «Hai visto? Bastano gli elicotteri» risponde commentando il fratello di Cajazzo. […]

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Marco Zonetti per Dagospia Il 6 marzo 2023.

Mentre infuria la guerra tra il presidente della Regione Lombardia Luciano Fontana e il microbiologo e ora senatore Pd Andrea Crisanti, abbiamo scoperto un dato interessante attinto dal documento riservatissimo pervenuto a Dagospia e relativo al monitoraggio Rai-Ipsos sul grado di notorietà di un migliaio di personaggi più o meno famosi.

 Ora, in materia di Covid e di misure per contrastarlo, si sarebbe pensato che nel caso di un esperto chiamato in Tv a informare i cittadini, la "notorietà" fosse l'ultima caratteristica da rilevare e che si privilegiassero le competenze o l'autorevolezza. E invece, nell'aprile 2021, quando si era da poco insediato il Governo Draghi e a Viale Mazzini regnava ancora l'assetto giallo-verde M5s-Lega con Marcello Foa presidente e Fabrizio Salini Ad, la Rai procedette a monitorare il livello di "riconoscimento" di alcuni biologi, infettivologi, epidemiologi. In una parola, le "virostar" che prima facevano il bello e il cattivo tempo su ogni canale televisivo e che adesso, all'allentarsi dell'emergenza, sono chiamate in televisione in veste di "tuttologi".

Il più riconosciuto risultò essere Matteo Bassetti, seguito da Massimo Galli e Roberto Burioni (strano trovarlo "solo" al terzo posto, visto il suo imperversare sui social da anni, ma tant'è). In quarta posizione, piuttosto distaccato, il suddetto Andrea Crisanti, mentre Antonella Viola si piazzava quinta con una percentuale del tutto inferiore.

Per qualche motivo oscuro non furono invece mai rilevati Pierluigi Lopalco, Fabrizio Pregliasco, Maria Rita Gismondo e Ilaria Capua. Forse perché, nel giugno 2021, con l'avvento del nuovo CdA Rai e la carica di amministratore delegato assegnata a Carlo Fuortes, il monitoraggio della notorietà delle "virostar" parve di fatto cessare.

Di seguito, i cinque nominativi con le relative percentuali di "riconoscimento".

 Matteo Bassetti 49

Massimo Galli 43.6

Roberto Burioni 40.7

Andrea Crisanti 25.3

Antonella Viola 10.6

Da tgcom24.mediaset.it Il 6 marzo 2023.

In Usa la sottocommissione sulla pandemia di Covid della Camera dei rappresentanti ha dichiarato di disporre di "prove" secondo cui l'immunologo di riferimento della Casa Bianca, Anthony Fauci", "indusse" la scrittura di un articolo scientifico per confutare la teoria relativa all'origine della pandemia nel laboratorio cinese di Wuhan.

 L'accusa non è nuova: Fauci, nella veste di direttore dell'Istituto nazionale di allergologia e malattie infettive Usa, avrebbe fatto leva sulla concessione dei fondi pubblici per la ricerca per distogliere l'attenzione dal laboratorio cinese, dove si svolgevano ricerche sul coronavirus da lui personalmente autorizzate.

Andrea Cuomo per ilgiornale.it Il 6 marzo 2023.

Se la gioca da eroe Andrea Crisanti, microbiologo, senatore del Pd e soprattutto autore della perizia tecnica che costituisce l'architrave dell'inchiesta della procura di Bergamo su quello che accadde (o non accadde) nei primi drammatici giorni della diffusione del Covid nella provincia di Bergamo, in particolare per quello che riguarda la mancata istituzione della zona rossa nei comuni di Alzano e Nembro, in quel momento i più colpiti.

[…] Ospite di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più il virologo non ha dubbi:«Il 26 febbraio ho fatto un'intervista al Giornale dicendo che bisogna chiudere tutta la Lombardia, ma questo non ha nulla a che vedere con la perizia».

 Crisanti sostiene di non aver fatto «nessun atto di accusa nella perizia», però non ci va certo leggero: «È incontrovertibile che Paesi come la Corea del Sud, il Giappone, l'Australia, la Nuova Zelanda e il Vietnam hanno fatto benissimo. Allora c'è da chiedersi, perché questi hanno fatto così bene e noi così male? La ragione fondamentalmente è perché questi Paesi avevano le conoscenze tecnico scientifiche perché ogni anno devono affrontare malattie epidemiche gravi».

[…] E il clima indulgente che si respira non gli piace: «Dire siamo tutti assolti, va tutto bene secondo me significa aprire la strada a una situazione di impreparazione la prossima volta. Chiudere gli occhi a un disastro significa aprire la strada a un altro disastro». Del resto «l'inchiesta è stata aperta a Bergamo perché lì ci sono stati seimila morti in più e alcuni parenti delle vittime hanno ritenuti di sporgere denuncia».

E poi c'è l'angolo dell'autocompatimento: «Mai come ora mi sono reso conto che il prezzo dell'integrità è la solitudine», dice il microbiologo. Che poi ammette di non aver parlato dell'inchiesta con nessuno, nemmeno del partito per il quale è stato eletto a Palazzo Madama: «Dal Pd non mi hanno detto niente, finora. Non ho parlato neanche con Speranza. Ma non penso sia opportuno, perché c'è in campo un'inchiesta». […]

Estratto da ansa.it Il 6 marzo 2023.

 "Le difese sono esterrefatte constatando che Crisanti consulente del pm, che si auto definisce perito, compaia quotidianamente in tv ribadendo le sue teorie accusatorie e sostenendo la doverosità dell'iniziativa giudiziaria": lo sottolinea Jacopo Pensa che assieme a Federico Papa difende il presidente della Lombardia Attilio Fontana. "L'apparente contraddittorio con il professor Bassetti era asimmetrico perchè quest'ultimo in collegamento esterno, ciò conferisce significato meno 'pesante' alla persona", precisa.

"La procura di Bergamo - conclude - ha il dovere di diffidare il proprio consulente da tali insistenti apparizioni". […]

(ANSA Il 6 marzo 2023) -Le parole del microbiologo Andrea Crisanti, senatore e consulente della procura di Bergamo per l'inchiesta Covid, "mi hanno molto indignato, più che darmi fastidio. Mi ha indignato che pretenda che teorie, frutto di sue valutazioni del tutto personali, debbano diventare oggetto addirittura di un processo". Lo ha detto il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, a margine dell'inaugurazione dell'anno accademico di Humanitas University. Per il governatore si tratta di "illazioni, assolutamente rispettabili" ma "di uno che, come l'aveva definito Palù (presidente dell'Aifa ndr), è un microbiologo esperto di insetti".

Estratto dell'articolo di Francesca Del Vecchio per “la Stampa” il 7 marzo 2023.

«Le sue sono illazioni. È un microbiologo esperto di insetti e pretende che le sue valutazioni personali diventino oggetto di un processo».

 Ieri Attilio Fontana è apparso piuttosto nervoso alla sua prima uscita pubblica dopo l'esplosione dell'inchiesta di Bergamo sulla gestione del Covid che lo ha visto iscritto nel registro degli indagati insieme all'ex premier Giuseppe Conte, all'allora ministro della Salute Roberto Speranza e all'ex assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera.

All'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Humanitas a Milano, il presidente della Lombardia ha sparato a zero: «Non sono infastidito, piuttosto direi indignato dalle parole di Andrea Crisanti».

 La sua collera, più che verso gli esiti dell'inchiesta, è contro il microbiologo ora eletto nelle file del Pd. Quasi fosse, per il governatore lombardo, più il risultato di una vendetta politica da parte delle opposizioni che il frutto di un'indagine.

 Del resto, Fontana fin dall'inizio di questa storia ha sempre mostrato irritazione: «È vergognoso che una persona sentita all'inizio dell'indagine come persona a conoscenza dei fatti scopra dai giornali di essere indagata». Dal canto suo, Crisanti – autore della maxi consulenza per la procura orobica – si trincera in un netto «No comment», annunciando «una settimana di silenzio stampa».

 L'ex professore di Microbiologia dell'Università di Padova, all'indomani delle prime indiscrezioni giudiziarie, proprio in una intervista a La Stampa aveva spiegato di non aver fatto «nessun atto di accusa nella perizia. C'è chi nell'emergenza ha fatto benissimo. Questo non vuol dire che chi ha fatto male è colpevole, perché un errore non è una colpa». Poi aveva precisato: «Le Regioni, compresa la Lombardia, potevano agire in alternativa al governo». E ancora: «Dire che siamo tutti assolti, che va tutto bene, secondo me significa aprire la strada a una situazione di impreparazione la prossima volta».

La difesa di Attilio Fontana, intanto, si è affrettata a dirsi «esterrefatta». I legali del governatore leghista, Jacopo Pensa e Federico Papa hanno sottolineato un certo fastidio nel constatare «che Crisanti, consulente del pm che si auto definisce perito, compaia quotidianamente in tv ribadendo le sue teorie accusatorie e sostenendo la doverosità dell'iniziativa giudiziaria».

(…)

Estratto dell'articolo di Patrizia Floder Reitter per “La Verità” il 7 marzo 2023.

«La situazione in Lombardia è drammatica, i medici sono ancora messi nelle condizioni di lavorare con protezioni insufficienti, secondo le notizie che ci arrivano dagli Ordini», denunciava il 12 marzo 2020 Filippo Anelli, presidente della Fnomceo.

 […] L’11 marzo, l’ex dg del Welfare lombardo, Luigi Cajazzo, aveva mandato l’ennesimo sollecito all’allora capo della Protezione civile, Angelo Borrelli. «Aiutaci, mandane più che puoi». La risposta doveva essere rassicurante: «Sì sì, stiamo lavorando e piano piano ne avremo sempre di più», è agli atti dell’inchiesta della procura di Bergamo.

Il 12 marzo, furono consegnate 97.000 mascherine chirurgiche e nella notte ne arrivarono altre 185.000, assieme a 25.000 Ffp2. Erano poche, quanto inutili, come risulta dalle chat che si scambiarono all’indomani il vice capo di gabinetto Tiziana Coccoluto e il suo responsabile, Goffredo Zaccardi.

 «Oggi hanno consegnato in Lombardia mascherine che ci hanno fatto saltare dalla sedia», scrive Coccoluto alle 22.45. Allega la foto di una di quelle vergognose pezzuole di tessuto trasparente, con tagli, e commenta: «Non è possibile che nessuno ci abbia avvertito». Il capo di gabinetto Zaccardi le risponde: «Dobbiamo parlare noi due da soli. A domani o lunedì». Poche ore prima, l’ex assessore leghista lombardo Davide Caparini aveva pubblicato lo straccio «swiffer» su Fb.

«La Protezione civile invia queste mascherine alla Regione Lombardia da destinare a medici e paramedici impegnati nella guerra al coronavirus. Il peggior materiale possibile, non nello standard previsto nei casi di pandemia. In ritardo di settimane e per di più non a norma... E intanto le persone si ammalano e muoiono», accusava, chiedendo le dimissioni di Borelli.

 L’allora assessore regionale alla sanità, Giulio Gallera, mostrerà ai giornalisti quelle strisce con i buchi per le orecchie. «A noi servono mascherine del tipo Fpp2 o Fpp3 o quelle chirurgiche e invece ci hanno mandato un fazzoletto, un foglio di carta igienica, di Scottex. Le abbiamo ricevuto per proteggere medici e infermieri. Vi pare possibile?».

[…] Eppure, il 20 marzo, l’allora ministro per le autonomie e coordinatore del tavolo Covid con le Regioni, Francesco Boccia, pensò trasformò il dramma in pagliacciata e si presentò in conferenza stampa con la mascherina swiffer appesa a un orecchio.

 […] Ma torniamo al 13 marzo 2020, quando sono molti ad accorgersi della porcheria inviata, per proteggere nelle zone più colpite dalla prima ondata. Lo stesso ex ministro della Salute, Roberto Speranza, inoltra via chat una foto di quelle vergogne. Destinatario è il presidente dell’Istituto superiore della sanità, Silvio Brusaferro, che gli gira alcuni messaggi sui controlli dei dpi. «La valutazione di sicurezza biologica ha dato esito favorevole», si legge nel primo.

 «Stiamo aspettando l’esito delle prove di efficacia filtrante», riporta il secondo. Brusaferro alla fine risponde al suo ministro che «un problema potrebbe essere la vestibilità, vista la forma». Speranza replica: «Di queste ne possiamo avere 1 milione al giorno. Senza, saremmo in grandissima difficoltà. Mi dicevano che il test fatto in California aveva dato esito positivo. Con certificato». Conviene, il capo dell’Iss, ma avverte che bisogna ancora aspettare l’esito delle «prove di efficacia filtrante».

[…]  il ministro non vuole cambiare argomento. «Sono terrorizzato da questa cosa delle mascherine» scrive alle 21.46. Non deve averlo tranquillizzato il suo interlocutore, quando prova a spiegare: «Che io sappia hanno fatto autocertificazione in attesa di certificazione definitiva che è in corso in Usa. Lo faranno in pochissimo tempo». Insiste, preoccupato, l’uomo dei lockdown: «A me avevano detto Usa ok». Era così tormentato, dalla sicurezza delle mascherine, che il giorno dopo propone addirittura di fare una norma ad hoc, pur di salvare dispositivi provenienti dalla Cina. «Mascherine alternative», le definisce Speranza, «loro sono in grado di produrne in un numero altissimo».

Alla faccia della salute degli italiani. Brusaferro è perentorio: «Sulla base dei dati consegnati non sembrano essere adatte alla componente sanitaria». Speranza non si rassegna e propone soluzioni da piazzista senza scrupoli. «Non è materiale per personale sanitario. E neanche dpi. Sarebbe per cittadini comuni quando escono a fare spesa o altro», ragiona con il capo dell’Iss.

 Poi chiede: «Non ha nessuna utilità o addirittura può essere dannoso? O comunque un po' di filtro lo fa? Dovremmo avere qualche elemento in più. Volendo potrei anche fare una norma sulla materia». Era pronto a modificare le disposizioni in materia di dispositivi di protezione, capito? Perché i cittadini, travolti dall’irruenza del Covid per la mancanza di un piano pandemico aggiornato, meritavano di proteggersi con inutili mascherine.

Estratto dell’articolo di Maddalena Berbenni e Giuliana Ubbiali per “il Corriere della Sera” l’8 marzo 2023.

«Scenari Merler», «Esercitazione teorica», oppure «Piano nazionale in risposta ad un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19». Nelle numerose chat acquisite nell’inchiesta di Bergamo per epidemia colposa, si cita un documento che a partire dal 12 febbraio 2020 era stato illustrato, aggiornato, integrato e soprattutto chiamato in diversi modi.

 Fu la base per consentire all’Istituto superiore di sanità, poche settimane dopo, di preparare un suo programma di risposta all’evoluzione della pandemia. A colpire erano i contenuti di quello studio, firmato da Stefano Merler, della Fondazione Bruno Kessler di Trento, ritenuto uno dei migliori matematici applicati all’epidemiologia in Europa, se non nel mondo: considerando alcune variabili, nello scenario peggiore l’Italia avrebbe rischiato fino a 100 mila morti. Numeri spaventosi che, con tutto il documento, finirono in un cassetto come «riservati».

Fu un segreto, lo studio, fino al 21 aprile del 2020. Quando il direttore generale della Programmazione sanitaria del Ministero della Salute, Andrea Urbani, ne parlò in un’intervista al Corriere della Sera. «Non c’è stato alcun vuoto decisione — diceva Urbani —. Già dal 20 gennaio (in realtà febbraio, ndr) avevamo pronto un piano secretato e l’abbiamo seguito. La linea è stata quella di non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio».

 Parole che svelarono l’esistenza di quel documento e di quei dati. Tanto che non mancò la sfuriata del ministro Roberto Speranza, come raccontano oggi le carte dell’inchiesta di Bergamo, con le chat di molti indagati. L’uscita di Urbani non fu gradita, spiega quel 21 aprile il segretario generale del ministero Giuseppe Ruocco nei messaggi a un’altra funzionaria:

«Mi ha detto il ministro che non ha strillato mai così forte come con Urbani e gli ha fatto una nota ufficiale di rimprovero. Per pararsi lui. Il piano segreto. Mi ha chiesto: ma come mai gli è venuta questa cosa? Io lo reputo uno dei migliori».

 Di sicuro nell’ambiente del Cts e dell’Iss, c’era l’idea che nascondere i numeri di Merler fosse un modo di non guardare in faccia la realtà. […]

 La fama di Stefano Merler è nota. Era stato proprio Rezza (oggi alla guida della Prevenzione del ministero) a proporlo al presidente dell’Iss Silvio Brusaferro. Ai pm lo definisce «quanto di meglio abbiamo non solo a livello nazionale ma anche a livello mondiale». Ricordando che «fece il documento, quello cosiddetto secretato, contenente gli scenari costruiti sulla base dei dati cinesi che aveva ottenuto».

A conferma della stima per Merler, il 26 febbraio Rezza gli scrive che il suo lavoro è «molto importante». Il matematico, soprattutto, aveva centrato in pieno i numeri: in Italia furono superate le 100 mila vittime a marzo 2021.  […]

Estratto dell’articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2023.

«Vi ricordo la “riservatezza” nell’uso del documento e in particolare dei dati in esso contenuti».

 Ecco la frase ricorrente nelle e-mail che, tra febbraio e marzo 2020 , accompagnano il «Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19» (qui il documento originale).

 Cosa c’è di tanto riservato in quel documento di 58 pagine e perché l’allora ministro Speranza voleva tenerlo segreto? […]

Nell’inchiesta della procura di Bergamo per epidemia colposa, i contenuti del Piano giocano un ruolo decisivo per valutare se chi in quel momento deve decidere ha le conoscenze e gli strumenti per farlo. Bisogna leggere le carte: l’informativa sull’attività investigativa, il Piano, le e-mail dei protagonisti di quei drammatici giorni e i verbali con l’interrogatorio di Stefano Merler, il matematico della Fondazione Bruno Kessler (FbK) fra i massimi esperti mondiali di modelli epidemiologici, che già prima di Natale 2019 inizia a studiare la diffusione del Covid in Cina. 

[…] Vediamo cosa prevede il Piano al 29 febbraio e poi spiegheremo perché la data è importante . Prendiamo lo scenario più cauto, quello con R0 = 1,15, e quello più catastrofico con R0 = 2 (il 3 bis, poi accertato nei primi giorni in Lombardia). «Nel corso del primo anno di un’eventuale epidemia il numero totale dei casi varia da 672.568 a 2.973.651, mentre i casi gravi e critici da 88.167 a 586.889.

Nello scenario 3 bis la proiezione è di 1.000 casi notificati dopo 38 giorni dal primo che ha generato l’epidemia vera e propria (i primi accertati in Lombardia risalgono a circa inizio gennaio), con un’occupazione del 75% dei posti di Terapia intensiva dopo 64 giorni e del 120% dopo 67. 

Considerando, però, che molti posti letto in Terapia intensiva sono già occupati da pazienti con altre patologie, il gap (ossia la differenza tra quelli che ci sono e quelli che servono, ndr) sarebbe di 2.397 posti in Terapia intensiva dopo 64 giorni e di 4.791 posti dopo 67. 

Il sistema sanitario sarebbe quindi andato al collasso dopo 2 mesi dal primo caso importato che ha generato l’epidemia vera e propria». Il dato di 100 mila morti non è di Merler e nemmeno è nel Piano. Tra le misure indicate ci sono quelle definite di «intervento straordinario (reattive, su base geografica)»: fuori dai tecnicismi sono le Zone rosse.

Alle 18 del 29 febbraio, come risulta dal sito internet del ministero della Salute, i casi in Italia sono 1.049. La Procura scrive: «Da questi dati ne conseguono alcune ovvie considerazioni. La prima è che il contagio aumentava esponenzialmente giorno per giorno, per cui non sarebbe stato complicato ipotizzare sin da subito quale poteva essere l’andamento dell’epidemia nei giorni immediatamente successivi.

 La seconda è che già alle 18 del 29.2.2020, ossia 9 giorni dopo il primo positivo di Codogno, si era superato il limite dei 1.000 positivi che il Piano prevedeva, nella peggiore e più grave delle ipotesi, dopo 38 giorni dal primo caso, a significare che i contagi erano ormai fuori controllo.

La terza è che il Piano prevedeva l’occupazione di 60 posti letto in Terapia intensiva al 38° giorno, mentre in realtà dopo 8 giorni i posti letto occupati in Terapia intensiva erano già 64». Conclusione: «Ne discende che il peggior scenario ipotizzato dal Piano era ben lontano dalla cruda e grave realtà, con l’ovvia conseguenza che sin da quei giorni il Cts avrebbe dovuto proporre, ed il Ministero adottare, provvedimenti restrittivi ben più incisivi».

Covid, Speranza indagato. L’Italia ora merita di sapere la verità. Edoardo Sirignano su L’Identità il 9 Marzo 2023

L’Italia merita di sapere la verità. I Pm della capitale intendono far luce su quanto avvenuto nei giorni clou del Covid. Secondo i più, determinate scelte avrebbero finito con l’aggravare il drammatico bilancio di un evento a cui nessuno era preparato. Il riferimento è alla zona rossa di Nembro, che secondo una consulenza affidata dalla Procura di Bolzano al microbiologo Andrea Crisanti, avrebbe potuto salvare la vita a tante persone. Diversi i dubbi rispetto alla strategia adottata da chi dovere, che secondo l’accusa avrebbe finito con l’aggravare il bilancio delle vittime. I dubbi non riguardano tanto la chiusura e la riapertura del nosocomio di Alzano Lombardo dopo la scoperta del primo caso, ma l’assenza di interventi nei reparti laddove il contagio cresceva giorno dopo giorno.

A finire, questa volta, sotto la lente di ingrandimento della magistratura gli ex ministri alla Salute Roberto Speranza, Beatrice Lorenzin e Giulia Grillo. Il nuovo iscritto al Partito Democratico, in particolare, dovrà effettuare i dovuti chiarimenti rispetto alla mancata attuazione del piano pandemico. Gli altri due, invece, dovranno rispondere per omissione d’atti. Stesso discorso vale per i sette funzionari di Stato coinvolti nell’inchiesta. Nel carteggio sarebbe accusato di false comunicazioni Ranieri Guerra, numero due dell’Organizzazione mondiale della sanità. Diverso, invece, il capo d’accusa per Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore della sanità, indicato come responsabile di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

 Il tribunale dei ministri salva Conte

Nel frattempo, il Tribunale dei Ministri di Roma archivia la posizione dell’ex premier Giuseppe Conte, coinvolto nell’inchiesta durata quasi tre anni. L’ex inquilino di Palazzo Chigi, insieme alla sua squadra (coinvolti anche gli ex ministri Roberto Speranza, Lorenzo Guerini, Luciana Lamorgese, Roberto Gualtieri e Alfonso Bonafede), era indagato per epidemia e omicidio colposo in seguito a segnalazioni di sindacati, consumatori e appunto parenti delle vittime. Questi ultimi, in particolare, denunciavano “le inefficienze e i ritardi del governo nell’adozione delle misure organizzative e restrittive necessarie a fronteggiare l’emergenza”. Il riferimento non è solo alla mancata attuazione della strategia per contenere la diffusione del microrganismo, ma anche ai ritardi sui vari dispositivi, ovvero alla confusione creatasi nei presidi della salute su tamponi, mascherine, guanti e via dicendo. C’è chi, intanto, vede uno scontro all’interno della magistratura, ovvero tra i Pm, che secondo alcuni vorrebbero utilizzare la giustizia per colpevolizzare una parte politica e i togati ordinari che invece vorrebbero assolverla. Lo stesso Speranza, d’altronde, per dei togati avrebbe sbagliato e per altri no. Una cosa è certa, un’intera nazione, pur essendo ormai archiviata l’emergenza e scomparso il Covid dai telegiornali, vuole che sia fatta luce rispetto a una storia, dove c’è più di qualcosa che non torna.

Speranza indagato, "dobbiamo mettere paura". Paragone travolge l'ex ministro. Giada Oricchio su Il Tempo l’08 marzo 2023

Gianluigi Paragone mette all’angolo l’ex ministro della Salute Roberto Speranza e il dottor Silvio Busaferro, membro del Cts. Dalle carte dell’inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione della pandemia sono emerse moltissime chat tra esponenti del governo Conte e tecnici. Raccontano la parte oscura dei primi mesi del 2020 quando il Covid travolse l’Italia prima del resto del mondo. In alcune conversazioni, Speranza, passato alla storia per il rigore estremo nell’applicazione dei lockdown, scrive: “Dobbiamo mettere paura per imporre le restrizioni”.

Gianluigi Paragone, fondatore di Italexit, ha sempre avversato la linea di Speranza e oggi lo puntualizza. In un reel pubblicato sul suo account Instagram, attacca l’ex ministro: “Non c’era bisogno di queste chat per capire che non c’era scienza, ma politica. Una politica che aveva convenienza a utilizzare l’emergenza per parlare da sola. E infatti non c’era un Parlamento, c’erano solo decreti. La scienza, i tecnici e perfino il Cts erano costretti a scrivere relazioni di comodo alla politica e al governo”. Paragone ha puntato il dito anche contro il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro.

In uno scambio di messaggi, Speranza ordina: “State attenti, tutto quello che direte può finire fuori alla stampa. Se vogliamo mantenere misure restrittive conviene non dare troppe aspettative positive” e il medico si piega: “Ok, allora niente modelli come quello che ti ho mandato. Glielo diciamo che prevediamo sempre la chiusura? Ok, sì,siamo tranchant”. Per questo, Paragone domanda: “Perché Brusaferro è stato riconfermato?”.  

Covid: «spaventare a morte tutti» per farli obbedire alle direttive. Piccole Note l’8 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il Telegraph ha pubblicato la messagistica interna del team sanitario che ha guidato la risposta pandemica della Gran Bretagna. E quanto emerge è inquietante. La preoccupazione principale sia del team che del ministro della Sanità Matt Hancock, infatti, piuttosto che il contrasto della malattia, era quella di trovare un modo per costringere i cittadini ad adeguarsi alle direttive del governo. E la soluzione fu alquanto semplice: terrorizzarli.

Google traduce in automatico “spaventare a morte”, ma letteralmente è più come “far cadere i pantaloni”, un modo di dire che ricorda alcune espressioni nostrane, tanto comuni  quanto volgari…

Morti di paura

Ma al di là delle sfumature linguistiche, resta il modo inaccettabile con cui il team sanitario britannico operò nella tempesta pandemica.  Così Hancock, nel momento più caldo della pandemia scrive, tramite WhatsApp, al suo consulente per i media: “Spaventiamo a morte tutti”.

Ma “l’allora ministro della Sanità non era il solo a pensare che fosse necessario spaventare la gente perché si adeguasse. I messaggi WhatsApp visionati da The Telegraph dimostrano come molti membri del team di Hancock si siano impegnati in una sorta di “Progetto Paura”, condividendo idee su come “utilizzare ‘la paura e i sensi di colpa’ per costringere la gente a obbedire ai lockdown”.

Così scopriamo che i dati di un rapporto dell’Imperial College, in linea con un altro studio dell’Office for National Statistics (ONS), che suggerivano un miglioramento della situazione sanitaria, per il team in questione, invece di risultare di conforto, rappresentarono un problema.

Ma quando i media successivamente  si concentrarono su un altro studio, reso pubblico dalla Public Health England e dell’Università di Cambridge, che mostrava un’elevata velocità di trasmissione [del virus] in alcune regioni del paese – suggerendo che ciò poteva permettere di imporre lockdown locali – Hancock commentò: ‘Non è una brutta cosa’”.

Sulla stessa linea, Damon Poole, consulente per i media di Hancock, che in una conversazione con un funzionario affermava “che la mancata pubblicazione dei dati [sulla pandemia ndr] poteva essere rivolta a loro vantaggio perché ciò ‘aiuta la narrazione che la situazione è davvero brutta’”.

Varianti e mascherine

Anche la “gestione” delle feste natalizie del 2020 fu affidata alla paura. Così sul Telegraph “Boris Johnson, allora primo ministro, aveva promesso che le famiglie si sarebbero riunite a Natale, il primo da quando la pandemia aveva colpito dall’inizio del 2020. Ma poi si rimangiò la promessa, ordinando nuovi blocchi.

Ma dietro le quinte, i suoi ministri e funzionari erano ben consapevoli che tanta gente sarebbe rimasta profondamente delusa e avrebbe incolpato il governo Johnson per la loro frustrazione”.

Da cui la conversazione via WhatsApp di Hancock con un suo collaboratore. “Piuttosto che fare tante segnalazioni […] possiamo alzare il tono con il nuovo ceppo”, suggerisce il collaboratore. “Spaventiamoli tutti con il nuovo ceppo”, risponde Hancock. Così fu enfatizzata la portata devastatrice della nuova variante Alpha.

In altre fasi della pandemia, meno tempestose, durante i quali era più arduo introdurre nuove misure costrittive, si ricorse all’uso indiscriminato e non necessario della mascherina, non più pensata come misura preventiva, ma per mantenere i cittadini sotto la cappa della paura.

Lo dimostra lo scambio di opinioni tra Hancock e Simon Case, “il segretario di gabinetto, cioè il funzionario pubblico più potente del Paese”, del 10 gennaio 2021. I due, dopo aver scartato l’idea di introdurre misure restrittive minimali che avrebbero potuto ricoprire il governo di ridicolo (ad esempio il divieto della “pesca all’amo”), convennero sul fatto che “la paura” e/o “il senso di colpa” fossero strumenti essenziali per garantire l’adeguamento della popolazione alle direttive. Così decisero di rendere obbligatorio l’uso della mascherina in “tutti gli ambienti”, perché ciò avrebbe avuto un “impatto molto visibile”.

La pandemia e il Terrore

La pubblicazione completa di questi messaggi sembra che sia solo all’inizio e potrebbe riservare altre sorprese. Ma il materiale emerso è più che sufficiente per alcuni commenti.

Anzitutto c’è da chiedersi se l’approccio alla pandemia della Sanità britannica sia un unicum o se fosse prassi prevalente. Le ondate di terrore che hanno funestato il mondo in quella temperie fanno legittimamente propendere per quest’ultima ipotesi.

Ed è forse necessario ricordare che il Terrore è uno strumento tipico delle Agenzie eversive che lo usano per destabilizzare le masse. E grande è stata la destabilizzazione durante la pandemia, durante la quale le problematiche mentali sono aumentate, specialmente nelle persone più fragili, come ad esempio i bambini. Certo, parte di tali patologie è legato alla pandemia, ma è evidente che la Paura disseminata a piene mani da autorità e mass media ha contribuito non poco.

Ma al di là, si può dire che la documentazione del Telegraph rende giustizia ai tanti che hanno sollevato dubbi sulla gestione della crisi, in particolare sul metodo della paura scelto per affrontarla. Si dice che la paura sia uno strumento tipico dei Paesi autoritari. Come si può notare è un normale strumento di potere, utilizzato ampiamente anche in Occidente quando sono in gioco interessi che il potere del momento ritiene essenziali.

Il virus prodotto in laboratorio?

Si potrebbe continuare, ma chiudiamo qua, in attesa di sviluppi, perché, avendo affrontato la questione della pandemia, va registrato il contrordine  dei compagni riguardo la nascita del virus. Se nel corso di questi anni quanti suggerivano che il virus fosse stato creato in laboratorio sono stati bollati come complottisti, terrapiattisti e quanto altro, con tanto di censura, previa e successiva delle loro opinioni, ora a dire che forse è proprio così è nientemeno che l’Fbi, per bocca del suo direttore.

Non solo, anche Anthony Fauci, che ha guidato la task force Usa nella risposta alla pandemia, e di fatto quella globale (in accordo con Big Pharma) non è più inattaccabile. Si scopre, o meglio si conferma, che egli ha scientemente lavorato nel segreto per indurre la comunità scientifica a rigettare la tesi dell’origine artificiale del virus in favore di un suo sviluppo naturale.

Come riporta Dagospia egli avrebbe usato come mezzo di pressione nei confronti dei suoi colleghi la possibilità di conferire o meno fondi pubblici a ricerche e ricercatori, dal momento che a decidere della destinazione di questi era lui. E avrebbe usato tale “leva” per “distogliere l’attenzione dal laboratorio cinese [di Wuhan], dove si svolgevano ricerche sul coronavirus che egli stesso aveva personalmente autorizzato”.

Anche in questo caso si tratta di cose note. Se adesso possono essere dette, contrariamente da allora, è solo per un motivo geopolitico. Gli Stati Uniti hanno deciso di rompere gli indugi e di avviare una guerra ibrida contro la Cina, Così ora fa gioco addossare a Pechino la responsabilità della pandemia.

Il virus cinese?

Certo, c’è il piccolo problema rappresentato dall’autorizzazione di Fauci e dal fatto che egli abbia conferito a una società americana fondi per sviluppare un coronavirus modificato, tramite un guadagno di funzione, a Wuhan. Ma nel gioco della propaganda tali particolari verranno derubricati a secondari, assurgendo come principale argomento narrativo la colpevolezza di Pechino.

Proprio per quest’ultimo motivo tutta l’attenzione viene focalizzata su Wuhan, come se fosse l’unico bio-laboratorio esistente al mondo e l’unico in cui si sono svolti studi del genere. Ciò mentre restano avvolti nell’ombra più fitta le ricerche svolte nei biolaboratori ucraini (46 biolab…) gestiti da Kiev sotto la tutela Usa.

Come anche quelle svolte nei biolab siti negli Stati Uniti, il più importante dei quali, Fort Detrick, è stato chiuso per mesi a causa di una non meglio precisata perdita di laboratorio poco prima della pandemia (vedi New York Times, 5 agosto 2019 “La ricerca sui virus mortali viene chiusa nel laboratorio dell’esercito per problemi di sicurezza”).

Ma la realtà conto poco, anzi in molti casi, come ad esempio questo, nulla. Quel che conta è la narrativa che si può costruire su una vicenda. E in queste cose gli americani sono dei veri artisti. Hanno già coniato la formula del “virus cinese“, che presto potrebbe tornare in voga…

Estratto dell’articolo di Alessandro Rico per “La Verità” l’8 marzo 2023.

[…]  D’accordo: il Covid fu una catastrofe inattesa. Ma permettete che ci faccia un po’ rabbia scoprire che quelli che ci hanno imposto le mascherine ovunque sono gli stessi che, nei primi mesi del 2020, dubitavano della loro efficacia?

 Basta scorrere le carte dell’inchiesta di Bergamo. È il 22 aprile dell’annus horribilis. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, chatta con il fidato Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. «Su mascherine fai chiarezza», gli intima. «Idea che basti fazzoletto piegato da valutare con cautela». In questa fase, i presunti esperti brancolano nel buio. «Spero di aver chiarito», replica il tecnico.

«Stiamo lavorando con Inail. Per documento. Di fatto», sospira, «non ci sono standard specifici». E adesso tenetevi forte. Sapete cosa scrive l’uomo che, fino alla nausea, ci ha ripetuto che le museruole «sono e restano un presidio importante»? «Va anche detto che uso massivo di mascherine non è garanzia di stop contagio». Sì, sono le parole di Speranza. Che soggiunge: «Non vorrei passi messaggio sbagliato». Capito? […]

 Tanto che, nello scambio con Brusaferro, l’ex ministro allude a semplici «raccomandazioni» sull’utilizzo dei Dpi nei bus e in metro: «Non stringenti». La sera stessa, il leader di Articolo uno ricontatta il capo dell’Iss: «Ho capito bene che ci sarà un documento ad hoc su mascherine?».

Brusaferro risponde dopo una mezz’oretta: «Sì l’idea era di fare una riflessione strutturata sulle mascherine in comunità. Si sta lavorando con Inail». E qui viene il bello, perché lo scienziato si lascia scappare una frase molto eloquente: «La questione è discussa a livello scientifico e le evidenze forti non sono. Ciononostante», confida il funzionario, «[le mascherine] possono presentare una barriera per la trasmissione delle droplets», cioè le goccioline di saliva con cui ci si può infettare.

 Ricapitolando: il giorno 22 aprile 2020, sui dispositivi di protezione delle vie respiratorie, burocrati e politici che gestiscono l’emergenza Covid non hanno certezze granitiche. Anzi: Speranza sottolinea che imporli a tutti «non è garanzia di stop contagio»; Brusaferro conferma non ci sono «evidenze forti» a sostegno dell’utilità delle mascherine in comunità. Eppure, cosa succede?

Quattro giorni dopo quella conversazione, il premier, Giuseppe Conte, emette un dpcm. E prescrive l’obbligo di impiegare «protezioni delle vie respiratorie nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, inclusi i mezzi di trasporto e comunque in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuativamente il mantenimento della distanza di sicurezza». Ergo, anche all’esterno, se ci sono situazioni di affollamento. Da quel momento, la mascherina diventa un totem: con un decreto del 7 ottobre, il governo esplicita che va indossata pure all’aperto. Solo a cavallo delle elezioni politiche 2022 decade ogni imposizione di bavaglio, con l’eccezione di ospedali e Rsa.

[…] D’altronde, solo un mese prima, Walter Ricciardi, su La 7, snobba la rincorsa alle mascherine: «Quelle di garza», spiega, «non servono a proteggere i sani. Devono essere date», concede, «al personale sanitario e ai malati». Per il resto, sono «una paranoia che la gente sana utilizza in maniera impropria». Nel giro di poco tempo, i paranoici diventeranno Speranza, Conte e, più in là, Mario Draghi.

 Le «evidenze», che ad aprile 2020 «forti non sono», come ammette Brusaferro, pian piano diventeranno ancora più friabili. […]  Poco più di un mese fa, l’autorevole Cochrane library aggiorna una metanalisi di 78 articoli e osserva che «fa poca o nessuna differenza» mettere una chirurgica o una Ffp2 in contesti ospedalieri o domestici. E che coprirsi naso e bocca non riduce granché i contagi. Insomma, aveva ragione Speranza. Non quello che definiva «fondamentali» le mascherine. Quello del 22 aprile 2020.

Venezia, rottamò i banchi a rotelle: la Corte dei conti chiede 38 mila euro alla preside. Matteo Riberto su Il Corriere della Sera l’8 marzo 2023.

La dirigente scolastica, a novembre 2021, aveva mandato al macero le sedute dell'era Covid. Il segretario della Lega Matteo Salvini aveva annunciato la presentazione di un esposto sulla vicenda  

Aveva mandato al macero una quarantina di banchi a rotelle e ora rischia di pagare una multa da 38 mila euro. È il risarcimento che la procura regionale della Corte dei Conti, guidata dal capo Ugo Montella, si accinge a chiedere a Stefania Nociti, l’ex preside del liceo Benedetti-Tommaseo di Venezia. 

La notifica

La pm contabile Federica Pasero, che è la titolare del fascicolo, ha notificato nelle scorse settimane alla donna, che ora è alla guida di una scuola del Trevigiano, l’atto di citazione, che è una sorta di richiesta di rinvio a giudizio: ora si attende la fissazione dell’udienza da parte del collegio giudicante della Corte e la preside, se condannata, dovrà appunto risarcire lo Stato per aver distrutto le famose sedute volute dall’allora ministro dell’istruzione Lucia Azzolina nel periodo del lockdown, legato alla pandemia da Covid. 

L'intera vicenda

La vicenda era esplosa a novembre 2021 quando sui social aveva iniziato a circolare una foto eloquente: all’interno di una chiatta, ormeggiata in un canale poco distante dalla scuola, si vedevano infatti i banchi accatastati l’uno sopra l’altro e per buona parte rotti. Pochi giorni dopo era stata appurata la destinazione delle sedute: il macero. La foto aveva sollevato un putiferio all’interno della scuola dove si erano alzate diverse voci critiche nei confronti della scelta della dirigente scolastica. Non solo, la polemica era infatti presto uscita dalle mura dell’istituto con la foto che era diventato il simbolo dello scontro politico intorno ai banchi a rotelle. Da un lato Azzolina e il ministero che rivendicavano gli acquisti fatti, dall’altro chi parlava di uno spreco senza precedenti. «Quel mucchio di banchi destinati al macero fa infuriare: sono stati spesi oltre 100 milioni di euro di denaro pubblico», aveva denunciato l’allora capogruppo regionale di Fratelli d’Italia, oggi senatore, Raffaele Speranzon puntando il dito contro Azzolina e citando l’investimento fatto. Ancora più duro era stato, su Facebook, il segretario della Lega Matteo Salvini: «Presenteremo un esposto alla Corte dei Conti». E infatti proprio da qui è partita l’inchiesta della procura contabile, che ora si è conclusa portando appunto alla quantificazione del danno erariale in 38 mila euro. 

La ricostruzione

La preside si era allora giustificata dicendo di non aver mai acquistato la dotazione di banchi a rotelle. E in effetti le sedute erano state ordinate dalla precedente preside: Concetta Franco che per assicurare il metro di distanziamento, come tutti i dirigenti, aveva dovuto segnalare al ministero il fabbisogno della sua scuola scegliendo tra tradizionali banchi monoposto più piccoli e le sedute innovative. «Avevamo ordinato una quarantina di banchi a rotelle perché più piccoli dei monoposto e perché avevamo appurato che ci consentivano di avere tutti gli alunni in aula», aveva precisato Franco, che ha lasciato l’istituto a settembre 2020 quando è subentrata Stefania Nociti, che ha deciso di sbarazzarsene in quel modo così plateale da fare il giro dei social. Dopo lo «scandalo» la preside, della quale si era interessata l’Ufficio Scolastico Regionale, era appunto finita in un istituto superiore del Trevigiano. Ma la vicenda non si era chiusa finendo invece sotto la lente della Corte dei Conti che ora ha tirato le fila, perlomeno dal punto di vista dell’accusa. Nell’udienza che verrà fissata la donna, affiancata da un avvocato, potrà dare la sua versione e difendersi. Da allora non ha però più voluto dire nulla sulla vicenda e anche dopo la notizia della chiusura indagini si è trincerata dietro un «no comment».

Inchiesta Covid Bergamo, il primo vero positivo e i dati negati ai sindaci «su ordine di Gallera». «L'ho saputo dai vicini». Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2023.

Prima del caso ufficiale all'ospedale di Alzano, il 23 febbraio 2020, il Papa Giovanni segnalava due pazienti. Uno era un infermiere di Gazzaniga, poi guarito. Il caos dei tracciamenti e i primi cittadini senza conoscenza dei casi

Tra la mole di carte dell’inchiesta Covid, l’interrogatorio del sindaco di Gazzaniga Mattia Merelli può sembrare un nulla. Invece, è significativo. La polizia giudiziaria della Guardia di finanza lo convoca per chiedergli conto di un suo compaesano. È Aldo Porcellana, 69 anni, infermiere in pensione, primo, vero positivo scoperto in provincia di Bergamo. Guarito. Passeranno alla storia i due casi che fecero scattare l’allarme il 23 febbraio 2020 all’ospedale di Alzano. Ma già il giorno precedente, alle 12.39 — è agli atti — l’ospedale Papa Giovanni XXIII segnalava alla Regione la positività di una donna, tale Gabriella Gandolfi, e in serata proprio di Porcellana, specificando che per nessuno dei due risultavano recenti viaggi all’estero.

Il paziente positivo aveva incontrato i parenti il giorno prima

 Mentre di Gandolfi non affiora la storia, di Porcellana si scopre che era stato ricoverato a Piario il 17 febbraio e il 21 era stato trasferito alle Malattie infettive di Bergamo. Cosa importante ai tempi: ha parenti residenti a Lodi, che aveva incontrato il giorno prima della comparsa dei sintomi, cioè il 16 febbraio. Il sindaco del paese viene convocato come persona informata sui fatti, rispetto al caso Porcellana, perché interessa capire come l’Ats gestì il tracciamento dei malati e come, partendo da Roma e scalando dalla Regione fino al territorio, vennero veicolati i dati sul contagio. Questo in relazione, in particolare, alle ipotesi di reato sulla mancata zona rossa (epidemia colposa e omicidio colposo per 11 indagati, fra i quali il governatore Attilio Fontana e l’ex premier Giuseppe Conte). «Quand’è che lei ha saputo della positività di Porcellana?», chiedono gli inquirenti. Risposta: «Informalmente lo avevo saputo dai vicini di casa, mentre ufficialmente l’ho saputo il 27 o 28 febbraio 2020 allorquando ho ricevuto la telefonata di Ats».

Le chat di Ats con i sindaci: non possiamo darvi i dati 

 La Gdf gli fa notare che per la legge, in qualità di sindaco, è autorità sanitaria locale. Merelli lo sa e spiega come funzionò in seguito: «Per i successivi giorni e per almeno una quindicina, mi hanno chiamato per darmi il numero complessivo dei positivi, ma non il nome. Non sapevamo quali erano le nostre competenze in materia di sorveglianza dei positivi o dei contatti dei positivi per i quali era stata disposta la quarantena». Pescando dalla chat che Ats aveva creato per avere un filo diretto coi sindaci, riferisce che il 28 febbraio, «in merito ai dati provinciali sull’evoluzione del coronavirus», veniva inoltrato il seguente messaggio: «Ats non è autorizzata a diffondere questi dati in quanto, nella filiera delle responsabilità istituzionali, sono comunicati e gestiti da Regione Lombardia e dalla protezione civile». Dall’8 marzo, «ci avvisavano che non ci avrebbero più chiamato per fornirci informazioni riguardo il numero dei positivi». 

I tre primi sospetti ma Ats non traccia i dati

Oggi Merelli rammenta bene il colloquio in Procura e precisa sulla prima ondata Covid: «Se pensiamo che fino a quel momento la quarantena la studiavamo solo sui libri di storia, col senno di poi è facile». La chat sindaci-Ats viene attivata proprio il 22 febbraio, il giorno in cui tutti sanno di Codogno mentre solo qualcuno viene informato dei primi casi al Papa Giovanni. L’Ats riceve la segnalazione su 3 «sospetti positivi», tra i quali Porcellana, ma, secondo le indagini, non traccia subito i contatti. «Il nome Porcellana che mi viene fatto non mi dice nulla. Non credo che il 22 febbraio 2020 ci siamo occupati della sorveglianza», risponde l’ex capo del dipartimento di Prevenzione Pietro Imbrogno, testimone. 

Giupponi i sindaci: non particolari criticità

Nell’informativa viene annotato il primo messaggio nella chat del direttore Massimo Giupponi (indagato per la sorveglianza attiva partita in ritardo): «La situazione della nostra provincia non presenta elementi di particolare criticità dal punto di vista sanitario», scrive Giupponi, invitando i sindaci a dare «un segnale di tranquillità, azione opportuna per contrastare la generale situazione di preoccupazione che si è generata». La realtà ha dimostrato che serviva fare il contrario, ma d’altra parte la linea di Milano era chiara: «Non parlare coi giornalisti e invitare il personale a stare zitto», è l’indicazione uscita dalla prima riunione convocata in Regione, il 21 febbraio, con i direttori delle Asst, si legge in uno scambio tra i vertici di quella di Seriate. 

Le chat: Gallera non vuole dare i dati giusti 

«Non vogliono o meglio Gallera non vuole dare i dati giusti», è una chat dell’assessore Fabrizio Sala, il 26. «Sai cosa mi ha detto il presidente? — scrive il 7 marzo la funzionaria del Welfare Aida Andreassi —. Che non si può dire la verità. Gli ho risposto che allora siamo come in Cina. Mi ha risposto che siamo peggio che in Cina, almeno lì lo sanno che c’è la dittatura». E ancora: «Ats ha avvisato i sindaci della positività dei loro concittadini?», domandano gli inquirenti a un funzionario dell’Ats. Lui: «Credo che sia stata la direzione generale a decidere di non dare i nomi dei positivi ai sindaci». 

L'ordine della Regione di non dare i numeri ai sindaci 

L’informativa conclude che Gallera «come emerge da diversi messaggi whatsapp» di Giupponi, «ha dato ordine alle Ats di non comunicare i dati dei positivi ai sindaci (...). Tale divieto ha, di fatto, comportato l’impossibilità dei sindaci di valutare la possibilità di adottare, ovvero richiedere (...) particolari provvedimenti contingibili e urgenti nei territori da loro amministrati». Si fa l’esempio delle zone rosse. «Dalle copie forensi risulta che, in più occasioni, si è cercato di contenere la diffusione dei dati sul contagio, sminuendo, nel contempo, la gravità della situazione. E in questo senso deve essere letta anche l’espressione più volte citata nei messaggi “di non creare panico” tra la popolazione, come pure il termine “fake news” utilizzato da Giupponi a chi gli chiedeva dell’imminente zona rossa in Nembro e Alzano».

Inchiesta Covid, Alessandro Sallusti: "Enorme pagliacciata su una enorme tragedia". Alessandro Sallusti Libero Quotidiano il 10 marzo 2023

C’è una parola sola per definire ciò che sta accadendo sul fronte dell’accertamento di eventuali responsabilità penali nella gestione della pandemia Covid, e quella parola è “caos”. Siamo di fronte a un impazzimento totale: richieste di rinvio giudizio come se piovesse anche se il procuratore di Bergamo, che ne ha fatte più di tutte, ammette di aver dovuto procedere ma di non essere convinto della loro fondatezza; spezzoni di intercettazioni, interrogatori ed email sequestrate che escono alla rinfusa con il chiaro intento di colpire questo o quel politico; spezzoni dell’inchiesta principale di Bergamo su cui si stanno avventando altre procure in cerca di verità ma anche divisibilità mediatica. 

Ieri, per fare un esempio, dalla procura di Roma è trapelato che anche due ex ministre della Sanità prima di Speranza, Giulia Grillo dei Cinque Stelle e Beatrice Lorenzin del Pd, sono indagate ma contemporaneamente il Tribunale dei ministri ha dichiarato non processabili sia l’allora premier Giuseppe Conte che l’allora ministro Roberto Speranza.

Cosa è tutto questo se non una enorme pagliacciata messa in scena sulla più grossa tragedia umanitaria che il paese ha vissuto dal dopoguerra? Anche perché parliamo di fatti e parole totalmente decontestualizzati dal cuore del problema. “C’è evidenza che il ministro disse, c’è evidenza che il governatore fece”, leggiamo ma l’unica evidenza di cui non si parla è che in Italia - ecco il cuore del problema - morivano dalle quattro alle seimila persone al giorno, alcune in modo atroce, per colpa di un virus misterioso in quel momento – e fino all’arrivo dei vaccini – inarrestabile qui come del resto in ogni angolo del nostro pianeta.

A oggi il conto è di 188 mila italiani morti per il Covid o con il Covid, questa è l’unica “evidenza” importante. Nel mondo sono morte 6,8 milioni di persone. Che mi risulti solo la Francia ha allestito processi per le decisioni politiche (eventuali fatti dolosi sono altra cosa). O meglio, la classe politica che si è dimostrata non all’altezza, come è successo anche in Italia con il governo Conte, è stata condannata prima dalla politica e poi dagli elettori - giudici severi e imparziali - alla pena più dura: andare a casa. Fatto, senza tanto can can.

Processi mediatici e capri espiatori: la “colonna infame” della pandemia...Gli untori manzoniani condannati a furor di popolo e l’insensata inchiesta della procura di Bergamo. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 9 marzo 2023

Guglielmo Piazza era un importante dirigente sanitario del Ducato di Milano durante la “grande peste” che colpì la città lombarda nel 1630, flagellando tutto il nord Italia con oltre un milione di vittime.

La sua tragica vicenda è raccontata da Alessandro Manzoni nello splendido Storia della colonna infame, un saggio terribilmente attuale, capace di illuminare l’intreccio diabolico tra psicosi collettive e culture autoritarie. Ecco i fatti.

Nel pieno dell’epidemia di peste Piazza fu avvistato da una cittadina, Caterina Trocazzani Rosa, mentre camminava lungo un edificio facendo strisciare la mano sul muro.

Stava compiendo una normale ispezione per prendere appunti sulle condizioni igieniche degli edifici, e marciava raso muro per proteggersi dalla pioggia, ma la donna era convinta che stesse spargendo oscure sostanze, le stesse responsabili dell’epidemia di peste: «Vide un uomo con la cappa nera e qualcosa in mano», insomma un “untore”.

Piazza viene catturato dagli agenti del capitano di giustizia spagnolo e immediatamente incriminato sulla base delle strane accuse della signora Trocazzani Rosa. Con lui viene coinvolto Gian Giacomo Mora, il barbiere che gli avrebbe consegnato la sostanza venefica. Automatica la condanna a morte tramite supplizio emessa dopo una “confessione” di Piazza estorta con la tortura e con la promessa di garantirgli l’immunità. Anche non c’era alcuna prova contro di lui; nel suo appartamento le guardie non avevano trovato nessun indizio che ne facesse un untore e nulla nella sua condotta passata ha mai giustificato simili calunnie.

La descrizione che fa Manzoni dell’agonia di Piazza e Mora è di rara crudezza: «Tanagliati con ferro rovente, tagliata loro la mano destra, spezzate le ossa con la rota e in quella intrecciati vivi e sollevati in alto; dopo sei ore scannati, bruciati i cadaveri, le ceneri gettate nel fiume, demolita la casa di Mora, reso quello spazio inedificabile per sempre e su di esso costruire una colonna d’infamia».

Scene raccapriccianti ma il popolo, stremato dalla peste e dalla carestia, aveva bisogno di un capro espiatorio, di qualcuno che placasse la sua sete di “giustizia” che mondasse la colpa collettiva attraverso l’espiazione individuale. È un meccanismo psicologico studiato a fondo dall’antropologia, dalla sociologia, dalla psicologia dei gruppi.

Questo vale per le società primitive, per i regimi dispotici e persino per le democrazie seppur limitato dai filtri e dalle garanzie del moderno stato di diritto. Sono passati più di quattrocento anni e per fortuna la Lombardia non è più governata dalle feroci autorità spagnole.

Ma l’idea di placare «la sete di giustizia e verità» dei cittadini, come ha spiegato ai giornali il procuratore capo di Bergamo titolare dell’inchiesta sulla presunta mala gestione della pandemia di Covid 19 da parte del primo governo Conte e dai vertici della regione è esattamente la stessa descritta da Manzoni: le inchieste a furor di popolo, l’idea che la macchina giudiziaria debba in qualche maniera rispondere agli umori dell’opinione pubblica facendosi condizionare da elementi estranei al diritto penale.

Additare l’ex premier Conte, l’ex ministro Speranza e i dirigenti politici e sanitari lombardi come principali responsabili delle migliaia di vittime di Covid (sono accusati di epidemia colposa e omicidio plurimo colposo) è un’inferenza degna dei tribunali del Ducato di Milano ai tempi della grande peste e dell’occupazione iberica. Hanno preso delle decisioni, forse alcune sbagliate, ma questo è accaduto un po’ ovunque nel mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Europa all’India e al Sudamerica. La cornice caotica della pandemia e di un morbo implacabile che nessun governo del pianeta riusciva a fermare rende la similitudine manzoniana ancora più disturbante.

Per non parlare degli organi di informazione che pompano l’inchiesta bergamasca con grandi titoli, accompagnando e giustificando l’insensatezza di un’azione penale che, invece di individuare reati tramite delle prove, si dà come missione la ricerca della “verità”, scritta rigorosamente con la lettera maiuscola. Il combinato disposto di procure invasate e scandalismo giornalistico alimenta il meccanismo perverso del processo mediatico, che una delle più grandi piaghe della nostra giustizia.

L'inchiesta di Bergamo. Travaglio e Bruti Liberati si fingono garantisti per difendere Conte. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Marzo 2023

La richiesta di rinvio a giudizio sulla gestione della pandemia da covid nei primi mesi del 2020 in realtà ancora non c’è. C’è solo un annuncio del procuratore Antonio Chiappani di chiusura delle indagini. Ma non c’è neanche la richiesta di archiviazione, come previsto dall’articolo 408 del codice penale “quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”.

Ce lo ricorda dalle colonne della Stampa, indovinate un po’, l’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati. Proprio colui che incaricò la pm Ilda Boccassini di fare indagini che diventeranno la bufala del “processo Ruby”, quello in cui l’imputato Silvio Berlusconi fu assolto e poi assolto e ancora assolto anche in tutte le sue ramificazioni. Mentre gli uomini della pm origliavano e sbirciavano ogni movimento di villa San Martino, quale era la “ragionevole previsione di condanna” per estorsione e prostituzione minorile che giustificava l’inchiesta e il processo? Non che il pensionato Bruti Liberati abbia torto, oggi. Anche lui si sta esercitando nel facile compito di tirare freccette sulla toga dell’ex collega bergamasco, che con le sue dissennate dichiarazioni si è offerto come vittima sacrificale, soprattutto per un grave errore politico.

Indagine troppo larga, dottor Chiappani. Se per esempio lei si fosse limitato a considerare colpevoli il Presidente della Regione Fontana e l’ex assessore Gallera, pensa che il suo ex collega Bruti le avrebbe fatto la lezioncina (impeccabile, peraltro) sulle regole del processo? E che Marco Travaglio avrebbe scoperto di possedere non solo una faccia più bronzea del solito, ma addirittura qualche regolina del diritto del tutto ignorata quando per esempio esibiva titoloni con il cognome dell’ex assessore al welfare trasformato in GALERA? Tenendo insieme personaggi di varia collocazione politica come l’ex premier grillino Giuseppe Conte e l’esponente di sinistra Roberto Speranza con gli esponenti di centrodestra e l’intero vertice sanitario che gestì la pandemia, il procuratore ha finito per inimicarsi tutto il mondo politico e quello della scienza.

E questo, è paradossale, ma è il vero primo motivo del fallimento della sua indagine. Diversamente ci sarebbe stato quasi solo qualche articolo critico sul Riformista, e poco altro. E vedremo come finirà dopo l’archiviazione del Tribunale dei ministri. Del resto dell’inapplicabilità a questo caso del reato di epidemia colposa lo avevamo scritto due anni fa. Non occorrevano le lezioncine dell’ex procuratore né i finti ribaltoni mentali di Marcolino per conoscere l’inutilità e la dannosità di questo tipo di inchieste, mirate a denunciare la “Verità” e ad asciugare le lacrime di chi ha perso le persone care (a causa del virus, non dei reati) più che ad accertare eventuali violazioni del codice penale.

Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità e indagato nell’indagine bergamasca, ha ricevuto ieri la solidarietà di tutti i suoi colleghi. Lo stesso è stato per i politici coinvolti nell’inchiesta. Occorre esaminare bene gli organi di comunicazione, e osservare che, benché ogni direttore abbia lasciato briglia sciolta nello stillare notizie ogni giorno ai cronisti assemblatori di atti giudiziari e illusi di essere giornalisti investigativi, ben altro atteggiamento hanno tenuto in editoriali e commenti. Questa inchiesta non piace a nessuno. Anche ai tecnici del diritto perché è strampalata (proprio come la era quella su “Ruby”, caro Bruti) e fuori dalla regole. Non dimostra che i comportamenti dei vari soggetti implicati, sanitari o amministrativi e di governo, avessero prodotto danni prevedibili e inevitabili.

Alla luce della scienza e della conoscenza del virus come era in quei momenti, questo lo stanno dicendo un po’ tutti. Travaglio, avvolto come sempre è dalla bolla amorosa di Giuseppe Conte, si spinge fino a dire che “l’idea di isolare il virus cinturando piccole aree si rivelò ben presto ingenua e illusoria: se il covid era ovunque, non restava che il lockdown nazionale”. Ecco sistemato ogni sospetto che non si fosse fatto abbastanza per evitare i morti di Membro e Alzano. Quanto al professor Crisanti, dovrebbe aver ormai imparato a proprie spese che è meglio non guardare troppo le pagliuzze negli occhi degli altri se si ha qualche trave nei propri.

E anche che ciascuno di noi può essere impiccato a un comportamento diverso da quelli di oggi o a una frase detta in passato. Come quando lui rifiutava di vaccinarsi senza riscontri o quando invitava i suoi concittadini ad andare al ristorante. Proprio nei giorni in cui, secondo il Crisanti di oggi, si sarebbe dovuto chiudere tutto. Come farebbe bene a chiudere con una richiesta di archiviazione, il procuratore Chiappani.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Si pensava fosse scienza, invece era Speranza: l’ultima svolta dall’inchiesta Covid. Michele Manfrin su L'Indipendente il 9 marzo 2023.

Dall’informativa della Guardia di Finanza depositata presso la Procura di Bergamo in riferimento all’indagine in corso a carico di 19 persone, tra esponenti del governo, tecnici e politici locali in carica durante la prima fase pandemica, emerge un chiaro quadro di commistione tra autorità politiche e scientifiche tale da rendere indefinibile il confine tra le due, con la seconda utilizzata come giustificazione per l’operato politico. Gli organi di governo hanno pesantemente interferito e utilizzato il Comitato Tecnico Scientifico, creato dal medesimo governo, e che avrebbe dovuto operare autonomamente per fornire dati, studi e suggerimenti col fine di concordare e legittimare l’operato del medesimo governo.

In un capitolo intitolato “Commistione tra Organo tecnico e Organo politico” dell’informativa della Guardia di Finanza – riportata da alcuni organi di stampa – si legge: «Il Cts era nato come ausilio e supporto tecnico scientifico per il Capo del Dipartimento della Protezione Civile, anche se poi è diventato non solo un organo consultivo del potere politico». Inoltre, come si evince dai verbali, alle riunioni del CTS vi hanno partecipato, oltre lo stesso Ministro Speranza, il vice-ministro Pierpaolo Sileri, la sottosegretaria Sandra Zampa e, in alcuni casi, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Dunque, il governo partecipava alle riunioni del comitato di esperti istituito in ausilio e col presupposto della sua indipendenza.

Come riportato negli stralci pubblicati negli ultimi giorni, si legge che il 6 aprile del 2020 Silvio Brusaferro, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e allora portavoce del Comitato Tecnico Scientifico instituito durante la dichiarata emergenza legata al Sars-Cov2, manda dei grafici e dei dati a Roberto Speranza, allora Ministro della Salute, circa l’andamento epidemico positivo nel Paese per concordare la linea da adottare. In quel periodo la discussione prevedeva la possibilità, sulla base dei dati scientifici in possesso al CTS, di riaprire alcune attività dopo mesi di lockdown, la cui fine sarebbe arrivata un mese dopo. Speranza risponde a Brusaferro dicendo: «Domani tieniti sulle curve all’inizio [intese quelle del contagio, ripetute con bollettino giornaliero]. Poi vediamo domande. Due avvertimenti: 1) tutto quello che direte può finire fuori alla stampa. 2) se vogliamo mantenere misure restrittive conviene non dare troppe aspettative positive». A queste parole, Brusaferro risponde:«Ok. Quindi niente modelli come quello che ti ho mandato. Ci raccordiamo domani. Buonanotte». Dopo che, il giorno dopo, il Presidente dell’ISS e membro del CTS aveva svolto il compito dettato da Speranza, l’ex Ministro della Salute scrive: «Ottimo. Tenete duro ora». Brusaferro risponde in cerca di conferma: «Sufficiente?». Speranza ribadisce: «Ottimo». Brusaferro interroga Speranza sulla linea da tenere: «Glielo diciamo? Che prevediamo sempre la chiusura?». Speranza sentenzia: «Si. Chiaramente».

Dunque, l’ex Ministro Roberto Speranza diceva al Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e membro del Comitato Tecnico Scientifico, Silvio Brusaferro, cosa egli dovesse o non dovesse dire. Addirittura, in un’altra conversazione, Brusaferro chiede a Speranza il permesso di partecipare alla trasmissione televisiva cui era stato invitato dalla giornalista Lucia Annunziata. La risposta di Speranza fu positiva, ma non senza rimarcare il dovere di tenere la linea concordata.

L’intento risulta molto chiaro ed evidente: manipolare l’opinione pubblica e giustificare così le decisioni politiche di restrizioni coercitive come il lockdown. In altre parole: niente rassicurazioni o note positive ma mantenimento della paura nella cittadinanza chiusa forzatamente in casa per mesi. Lo dice Speranza stesso nella conversazione sopracitata, all’avvertimento numero due che il Ministro della Salute volgeva allo scienziato: «se vogliamo mantenere misure restrittive conviene non dare troppe aspettative positive». Volere e convenienza politica. Niente scienza come invece sbandierato pubblicamente e ossessivamente dall’ex Ministro Roberto Speranza.

Conferma di quanto detto viene da una chat risalente al marzo del 2020, in cui Giuseppe Ruocco, componente del CTS, parla con una sua assistente e scrive: «Vogliono che anche noi siamo allineati [..] insomma i politici non dovrebbero dialogare con noi [..] dovrebbero ricevere i nostri suggerimenti e poi decidere». L’assistente risponde dando ragione a Ruocco e dice che si tratta di una «commistione pericolosa».

Sempre nel mese di marzo del 2020 avviene una discussione tra Speranza e Brusaferro, nel merito delle mascherine acquistate a milioni dalla Cina e risultate non idonee ad alcun tipo di protezione nei confronti di agenti patogeni quali i virus. Brusaferro dice a Speranza: «Sulla base dei dati consegnati non sembrano essere adatte alla componente sanitaria». Infatti, le mascherine non avevano ricevuto le certificazioni necessarie di attestazione di affidabilità e funzione. Sebbene Speranza abbia sempre ribadito l’importanza dei dispositivi di protezione come le mascherine, risponde a Brusaferro dicendo: «Non è materiale per personale sanitario. E neanche DPI. Sarebbe per cittadini comuni quando escono a fare spesa o altro». Quindi sorge la domanda: perché obbligare i «cittadini comuni» a portare mascherine per cui lo stesso Ministro della Salute in carica era a conoscenza che non avevano alcun elemento di reale protezione? Qual era quindi lo scopo di obbligare le persone a portare le mascherine se non proteggevano come invece sostenuto dallo stesso Speranza?

Sul tema della chiusura delle scuole si palesa la profonda subalternità della scienza (il CTS) nei confronti del Governo. Brusaferro dice a Speranza che il CTS è critico nei confronti di questa misura spiegando che non ci sono evidenze sul fatto che la chiusura delle scuole sia di beneficio nel contrasto alla diffusione del Sars-Cov2. Speranza è perentorio con Brusaferro: «Così ci mandate a sbattere». Alla risposta non gradita dello scienziato l’ex Ministro ribatte: «Non abbiamo tempo. Paese col fiato sospeso. Non si può dare segnale incertezza altrimenti si perde credibilità». Capito? Decidere di privare i bambini e i ragazzi di andare a scuola, apprendere e socializzare, non fu questione di scienza ma di credibilità.

La commistione è così palese ed evidente che non servono molte parole per affermare che le decisioni prese dagli organi politici sono state legittimate attraverso l’utilizzo del CTS per dare l’impressione di un operato basato esclusivamente su dati ed evidenze scientifiche, nell’interesse generale, quando invece le decisioni adottate seguivano solamente la volontà politica di chi si nascondeva dietro la cortina creata per tramite degli scienziati rispetto all’opinione pubblica e ai destinatari di misure coercitive adottate perlopiù con atti amministrativi.

[di Michele Manfrin]

Covid, il j’accuse dei penalisti: «I pm non sono sociologi». Si infiamma il dibattito sull’inchiesta di Bergamo L’infettivologo Greco: «Il Paese era impreparato». Simona Musco su Il Dubbio l’8 marzo 2023.

«Il procedimento penale è e deve rimanere il luogo di accertamento di reati e di eventuali responsabilità penali e non può trasformarsi in un luogo di dibattito scientifico». L’inchiesta della procura di Bergamo sulle responsabilità politiche nella diffusione del Covid in Lombardia continua a far discutere. Non solo i virologi, scioccati dall’idea che si possa portare a processo chi ha tentato, praticamente al buio, di fermare il virus, ma anche gli avvocati, «esterefatti» dal fatto che a finire sul banco degli imputati siano la discrezionalità politica e la scienza. E anche dal fatto che, ancora una volta, il sistema delle garanzie è uscito stravolto dalla gestione mediatica dell’inchiesta, caratterizzata dalla “consegna” a mezzo stampa degli avvisi di garanzia. A protestare è il Coordinamento distrettuale delle Camere penali della Lombardia Orientale e Occidentale, che in una nota manifesta tutto il suo disappunto. In primis perché il processo, da momento di accertamento dei fatti, sembra essersi trasformato in «momento di catarsi sociale e di riflessione collettiva». E ciò alla luce delle dichiarazioni del procuratore di Bergamo Antonio Chiappani, secondo cui scopo dell’inchiesta è «soddisfare la sete di verità della popolazione». Parole che rischiano di attribuire al magistrato un ruolo che non ha, ovvero quello di «storico, di sociologo, di pedagogo che non le appartiene». Ma non solo: l’inchiesta rischia di intromettersi nelle scelte politiche, promuovendolo o bocciandole. «Non sono le aule di giustizia il luogo ove dibattere di queste scelte - ammoniscono i penalisti -, ma i luoghi della democrazia: le Aule del Parlamento e dei Consigli regionali». Le Camere penali criticano però anche i riferimenti, da parte del procuratore, ai successivi gradi di giudizio, quasi superflui - questa la sensazione a fronte di quanto emerso dalle indagini. Quasi come se la verità fosse «stata già accertata dalla pubblica accusa», così che ai giudici non rimane che «farla propria per ristabilire la giustizia su quell’immane tragedia che è stato il Covid nelle nostre terre e che, purtroppo, per arrivare alla punizione dei responsabili, il campo dovrà essere lasciato nelle mani degli avvocati la cui funzione, passa tra le righe del messaggio subliminale mediatico, sarà quella di opacizzare la cristallina verità per ingannare i giudicanti e ricavarne l’ennesima ingiusta assoluzione. Questo è totalmente inaccettabile», tuonano. Anche perché «al momento non esiste alcuna verità», ma un’ipotesi costruita senza contraddittorio, che dovrà essere vagliata da un giudice terzo. «Per il resto ci saranno gli storici - concludono i penalisti -. Il processo

penale non è una caccia alle responsabilità per placare le disperate aspettative di giustizia delle persone e il processo penale è del tutto inadeguato rispetto a reati con vittime diffuse; non è incoraggiando le vittime a cercare pace nelle condanne esemplari, che si fa loro giustizia». Il dibattito è, dunque, infuocato. E anche la scienza partecipa alle polemiche, puntando il dito contro chi «ragiona con il senno di poi». A commentare, mentre i giornali continuano a pubblicare chat e conversazioni dei giorni in cui l’Italia scoprì il Covid19, è Alessandro Vergallo, presidente nazionale dell'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani. «Non siamo sorpresi - spiega all’Adnkronos Salute -, ma l'inchiesta di Bergamo ci lascia abbastanza perplessi: si va a ragionare con il senno di poi passando al setaccio tutto ciò che è accaduto in quei giorni, difficili e complicati, senza tenere in alcun conto il contesto in cui in cui quegli avvenimenti sono accaduti. Siamo stati il primo Paese colpito e in maniera massiccia la Lombardia. Eravamo impreparati a tutti i livelli e gli ospedali, grazie al sacrificio di tutti gli operatori, hanno fatto da argine a costo di sacrifici notevoli». Più drastico Donato Greco, infettivologo e specialista di sanità pubblica, direttore della Prevenzione al ministero della Salute fino all'agosto 2008, che in un’intervista al Corriere della Sera definisce «senza fondamento» l’accusa per la mancata applicazione del piano pandemico del 2006.

«Non parliamo di un manuale di istruzioni da tirar fuori al momento necessario - ha evidenziato -. Ma di un processo continuo di attività permanenti, anche di formazione, portato avanti di concerto con la comunità internazionale. Il gran numero di morti nella prima fase non è ancora oggi pienamente spiegabile. Non sarei in grado di dare stime.

Ricordo che l'età mediana dei deceduti era intorno agli 80 anni e avevano patologie pregresse severe. Tutti abbiamo sottovalutato il fenomeno. Purtroppo la storia delle epidemie ci dice che ciò è avvenuto per tante altre emergenze, né ci consola il fatto che nessun Paese del mondo sia stato capace di arginare le ondate del Covid. Il Paese si è trovato del tutto impreparato alla pandemia».

La nostra scienza è stata chiamata troppo spesso alla sbarra e in Tv...L’Italia ha la “capacità” di polarizzare qualsiasi argomento. E neanche la pandemia non si è salvata

Gilberto Corbellini, ordinario di Storia della medicina presso la Sapienza Università di Roma, su Il Dubbio l’8 marzo 2023.

Ogni giorno ha la sua pena, e in Italia non ce ne facciamo mancare nessuna. Anche quando sono in gioco questioni di scienza e salute, che dovrebbero indurre all’uso della razionalità nel prendere decisioni. Mentre accade l’opposto. Un filosofo confuciano del VII secolo scriveva che “schierarsi pro o contro è una malattia mentale”. Infatti, alcune democrazie occidentali sono sempre di più malate di “polarizzazioni”.

La scienza sembrava poterne restare fuori e costituire un’ancora contro la deriva relativista che da decenni ammorba il pensiero di sinistra come quello di destra. Invece no. Dopo oltre due anni di sovraesposizione mediatica di esperti e scienziati, che ragionavano in televisione sulla pandemia come fossero aruspici, e mentre finora le minacce alla razionalità scientifica venivano da integralisti settari e pseudoscienziati, abbiamo fatto un salto di qualità non da poco. Contro 19 figure istituzionali coinvolte nel complesso e incerto processo decisionale di istituire le misure antipandemiche contro Covid 19 in alcune zone del bergamasco, è stata montata un’accusa che vagamente ricorda quella rivolta al povero barbiere Gian Giacomo Mora, giustiziato durante la peste di Milano del 1630 e di cui racconta Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame.

Se valgono ancora le sentenze di Cassazione Penale che indicano i requisiti per i periti e per le perizie, è improbabile che la relazione in oggetto sarà presa sul serio da un giudice. Ma l’effetto distopico rimane. Anche un certo Cardinale Bellarmino era uomo di spiccata intelligenza ed erudizione, persino disposto ad aiutare chi doveva inquisire, ma nondimeno prima concorse a istruire il processo e a condannare al rogo Giordano Bruno nel 1600, e 16 anni dopo a scrivere l’ammonimento a Galileo Galilei di non diffondere il copernicanesimo, che presagiva al processo del 1633. I pregiudizi oggi non sono dogmatico-religiosi, ma basati sulla autorefenzialità di argomentazioni spacciate come scientifiche su basi reputazionali, ovvero su assunzioni speculative, metodologie creative e ricostruzioni aneddotiche. Comunque si crede che esista una verità assoluta che aspetta di essere colta da chi è unto, in questo caso dalla scienza invece che dal Signore.

Il principio di autorità o di investitura politico-religiosa, che le prime comunità scientifiche del Seicento cacciarono dalla porta, oggi sembra venga fatto entrare surrettiziamente dalla finestra dagli stessi scienziati. I segnali che il “populismo penale” in Italia sta infettando anche la scienza sono numerosi. Prima dell’indagine della procura di Bergamo, si è discusso per giorni della “guerra” intorno a dei test rapidi condotta tra “virologi” presso il tribunale di Padova. La scienza è stata chiamata inopportunamente alla sbarra troppo spesso in Italia negli ultimi decenni: per gli ogm, i vaccini, le staminali, Xylella, i terremoti, l’omeopatia, le diete, le manipolazioni di dati, etc. Quasi sempre, però, per separare la scienza dalla pseudoscienza. Si mette molto male se anche gli scienziati cominciano a coltivare un’idea tribale di giustizia, prendendo parte a procedimenti che sembrano più sfide personali che processi basati su procedure garantiste.

I processi potrebbero essere il naturale sbocco delle polemiche su tutto (origini del virus, evoluzione delle varianti, distanziamento, lockdown, mascherine, clorochina, vaccini, etc.) a cui abbiamo assistito durante la pandemia. Qualcuno diceva che la scienza aveva però finalmente guadagnato le pagine dei giornali e gli studi televisivi. Ma la scienza non coincide con gli scienziati. Anche sostenere che i battibecchi stessero invece danneggiando la credibilità o percezione della scienza era discutibile. Tutto cambia per rimanere sempre uguale. La scienza in Italia manca di autorevolezza culturale e gli esperti tendono a confondere i fatti scientifici con i loro interessi accademici o professionali. Naturalmente anche con le loro inclinazioni politiche.

I temi della pandemia sono stati discussi quasi esistessero fatti alternativi, in un Paese che tende a politicizzare tutto. Gli esperti/scienziati – non sempre esperti e scienziati competenti di Covid-19 – sono stati presenti nei media 24/7. Troppo spesso litigando come nei peggiori talk show. La selezione naturale/televisiva basata sul gradimento di un pubblico da circo equestre ha portato alla persistenza di quelli più efficaci a stimolare i circuiti cerebrali della ricompensa o della rabbia nei frequentatori di media.

Per consuetudine si crede che i protagonisti di discussioni intellettuali abbiano in qualche modo il controllo della loro psicologia. Qualcuno, che ha studiato il problema, sostiene che nelle dinamiche sociali e comunicative, anche in ambito scientifico, venga premiato il narcisismo. Su cui non abbiamo controllo. La scienza si svolge in contesti sociali e competitivi, per cui gli scienziati narcisisti sono abbastanza frequenti, e spesso geniali.

Nei Paesi che producono scienza di qualità, ci sono regole definite e si sanzionano i comportamenti eticamente scorretti e illeciti. Per cui i tratti di personalità manipolatori sono canalizzati spesso verso risultati utili. Purtroppo, l’etica della responsabilità manca del tutto in Italia. Chi crede di agire bene sulla base delle proprie convinzioni invece che facendo riferimento a fatti e conseguenze e allo stesso tempo si crede migliore o superiore, finirà per comportarsi in modi arroganti, presuntuosi o privi di autocritica. Cioè a mancare di senso civico e danneggiare la convivenza civile. Malgrado l’intelligenza e la bravura scientifica

L'indagine di Bergamo. Maxiprocesso sul covid: l’inchiesta che vuol mettere alla sbarra politica e scienza. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Marzo 2023

Sta diventando ormai una sorta di maxiprocesso itinerante l’inchiesta che vuol mettere alla sbarra l’intero mondo politico e scientifico che nei primi mesi del 2020 dovettero affrontare la pandemia da coronavirus. L’epicentro è la procura di Bergamo, cui è affiancata quella di Roma, cui si aggiungono il tribunale dei ministri di Roma e quello territoriale di Brescia. Quattro diversi filoni d’inchiesta. E si scopre intanto che l’ufficio orobico diretto dal procuratore Antonio Chiappani avrebbe voluto sottoporre a intercettazioni telefoniche e ambientali nel 2020 una serie di medici indagati per falso dopo che avevano deposto sulla chiusura e successiva riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo.

Nel rigettare la richiesta il giudice Vito di Vita aveva anche un po’ strigliato la procura, stabilendo che “…appaiono mere supposizioni quelle aventi ad oggetto il concorso nei falsi di rappresentanti della Direzione del Welfare di Regione Lombardia, mentre certo l’intercettazione non può essere autorizzata a meri fini esplorativi in ordine a ulteriori eventuali falsi”. Un bel colpo alla politica della cosiddetta pesca a strascico così diffusa nelle procure italiane: intercetto alla ricerca di nuovi reati o di nuovi indagandi futuri. Meno male che esistono anche certi giudici. A Brescia intanto è tutto pronto per la costituzione del tribunale dei ministri “territoriale” cui devono essere inviati da Bergamo gli atti che riguardano l’ex premier Giuseppe Conte e l’ex ministro alla salute Roberto Speranza. I loro nomi non compaiono nell’avviso di conclusione delle indagini della procura perché pur essendo i membri di governi presenti o passati sottoposti a giurisdizione ordinaria, perché si possa celebrare nei loro confronti un processo occorre l’autorizzazione preventiva del Senato o della Camera.

La Presidente del tribunale dei ministri che a Brescia dovrà valutare le posizioni di Conte e Speranza è la giudice Mariarosa Pipponzi, che nella sua attività ordinaria presiede la sezione lavoro del tribunale. Accanto a lei altri due magistrati, i cui nomi sono stati già sorteggiati. Cinquecento chilometri in giù, nel maxiprocesso itinerante che assume sempre più sembianze pandemiche, abbiamo altri due filoni che si sviluppano nelle aule di giustizia romane. Uno vive di vita autonoma rispetto alle scartoffie bergamasche, ma aveva una genesi pressoché identica. Era infatti nato da una serie di denunce alla procura della repubblica di Roma. Alcune, tra cui quella del generale Antonio Pappalardo che parlava di un piano di “sovversione dell’ordine mondiale”, erano nate nel mondo dei negazionisti, quelli che non si sono mai arresi all’evidenza del virus, anche se poi alcuni di loro purtroppo ne sono morti, come il famoso “Mauro di Mantova”, eroe della trasmissione satirica La zanzara.

Ma la parte più consistente delle denunce, presentate in gran parte da parenti di persone decedute per contagio da covid, era l’altra faccia della medaglia di quelle bergamasche. Si imputavano all’ex premier e a una serie di ministri del governo Conte due, “inefficienze e ritardi” per non aver creato per tempo le famose zone rosse. Questa inchiesta romana è stata archiviata dal tribunale dei ministri della capitale. Il decreto di archiviazione farà sicuramente giurisprudenza e si rovescerà come una doccia gelata sia a Brescia che a Bergamo. Ma anche sulla perizia del professor Crisanti. Che, a quanto scrivono quei maliziosi del Foglio, sarebbe solo e triste perché quelli del Pd non gli rispondono più al telefono (eddai, compagnucci, rispondetegli!). Ecco quel che dice il decreto: “Il presidente del consiglio, i ministri e i consulenti scientifici non hanno il possesso del virus, né lo hanno diffuso, e l’aver omesso, secondo l’assunto di una parte dei denuncianti, anticipati provvedimenti di contrasto e prevenzione, non integra la condotta illecita dell’articolo 438 del codice penale”.

Inoltre, proprio come si sta affannando a dire ogni giorno tutto il mondo scientifico, era inevitabile, scrivono i giudici, che nei primi giorni della pandemia vi fossero “dati incompleti e imprecisi” sulla cui base assumere decisioni politiche. Saranno sufficienti, queste parole di buon senso, per indurre all’archiviazione un tribunale di Brescia e al proscioglimento degli indagati un giudice di Bergamo? Ma intanto l’infaticabile procura presieduta dal dottor Antonio Chiappani ha già aperto la strada al quarto filone d’inchiesta, inviando una sorta di stralcio a Roma, ma a un altro indirizzo rispetto a quello del tribunale dei ministri. Si tratta della procura, che dovrebbe avviare indagini su tre ex ministri della salute, Beatrice Lorenzin, Giulia Grillo e Roberto Speranza per non aver rinnovato il Piano pandemico, che in realtà riguardava eventuali emergenze di tipo influenzale, a partire dal 2007 e per gli anni successivi. Sarebbe cambiato qualcosa se i ministri fossero stati più scrupolosi o se avessero riempito gli scantinati di imprevedibili mascherine e altri presidi sanitari? Intanto il maxiprocesso va.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Ranieri Guerra: «Il Piano pandemico? Fui io ad avviare l’iter per farlo aggiornare». di Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 10 marzo 2023.

L'ex direttore generale al ministero della Salute si difende: non ho mai occultato nulla

Ranieri Guerra, ex direttore generale al ministero della Salute dal 2014 al 2017, lei è indagato nello stralcio romano dell’inchiesta della Procura di Bergamo per mancato aggiornamento del piano pandemico. Non ci lavorò?

«Non ho ricevuto ancora alcuna comunicazione. Nel 2016 due uffici della mia direzione iniziarono a rivedere il piano pandemico. Stavamo uscendo da alcune pesanti crisi infettivologiche (Ebola, Chikungunya, Zika, West Nile fever) ed eravamo stati convocati dalla Protezione civile che ci aveva sottoposto un testo poi diventato il decreto legislativo numero 1 del 2 gennaio 2018. Questo prevedeva che, in caso di emergenza, la catena di comando passasse alla Protezione e il Ministero diventasse di fatto unità operativa, come è avvenuto il 31 gennaio 2020».

Nega la mancanza di un piano?

«Gli uffici lo rividero accuratamente e il piano venne ripubblicato per garantirne la visibilità. I principi di sanità pubblica in esso contenuti furono ripresi nel 2021, perché ancora validi. Previste quarantene, isolamento, gestione degli eventi di massa, trasporti, protezione dei fragili, chiusure. I miei tecnici tennero presente anche la decisione del Parlamento europeo del 22 ottobre del 2013, che prevedeva tra l’altro di avvisare Bruxelles qualora i piani fossero cambiati, non l’obbligo di aggiornamento, come molti hanno erroneamente affermato».

Respinge le accuse?

«Prima di lasciare la direzione, a settembre del 2017, inviai una nota al ministro sulla necessità di predisporre le riunioni delle amministrazioni interessate e Regioni come previsto dalle procedure di aggiornamento. A quel punto uscii di scena e non so proprio come proseguirono i lavori. Non comprendo il motivo del mio coinvolgimento, essendo stato il primo e forse l’unico a sostenere la necessità di revisione tenendo conto anche delle linea guida dell’agenzia europea Ecdc di fine novembre 2017, oltre che di molte indicazioni uscite nel 2018. Ci sarebbe stato tutto il tempo per recepirle».

È stata pubblicata una chat in cui lei afferma di aver convinto l’infettivologo Galli a recedere dalla proposta di fare tamponi a tappeto. È così?

«In una situazione in cui il virus e i contagi galoppavano incontrollati e il sistema di tracciamento era saltato, come in Lombardia di metà marzo, sarebbe stato assurdo attendere il risultato di un tampone prima di isolare una persona con sintomatologia clinica e i suoi contatti, anche se asintomatici. Ci volevano allora 24-48 ore per avere i risultati dei test e non avevamo né drive-in né una produzione e una logistica all’altezza. Si doveva andare per presunzione di infezione senza aspettare, per risparmiare molto tempo e isolare subito chi poteva contagiare, rallentando la catena di trasmissione del virus».

Le contestano anche false comunicazioni all’Oms, quando era al Ministero...

«Non ho occultato proprio niente, anzi, c’è una lunga serie di miei rapporti settimanali all’Oms che fotografa la situazione nel bene e nel male. Ho cercato di difendere il Paese con tutte le mie forze, senza tacere nulla. Non tolleravo che l’Italia venisse criminalizzata e isolata da tutta l’Europa, che aveva chiuso le frontiere in barba alle procedure di solidarietà e concertazione tra Stati membri invocate dal Parlamento europeo. L’Oms offrì collaborazione a tutto campo e io, da direttore vicario, proposi varie azioni di supporto e mitigazione».

La sua vita oggi?

«Sono molto amareggiato. Ho passato una vita di lavoro nei luoghi più pericolosi e meno ambiti del mondo tenendo sempre alta la bandiera del mio Paese. È stato montato un castello di bugie e falsità. Il danno alla mia reputazione non si cancella. Per non parlare di quello economico. Tengo però di più all’etica che allo stipendio».

Estratto dell’articolo di Armando Di Landro per corriere.it l’11 marzo 2023

Un tampone per il Covid a 750 euro. È il prezzo che l’Istituto superiore di sanità, almeno secondo le carte dell’inchiesta di Bergamo, indica per i primi 200 test fatti a Roma all’inizio della pandemia. Mentre sul mercato non si andava oltre i tre euro. Perché quella cifra? Tra le posizioni stralciate da Bergamo e inviate alla Procura di Roma c’è anche quella di Silvio Brusaferro, in qualità di presidente (e quindi di rappresentante legale) dell’Iss, per truffa aggravata ai danni dello Stato, proprio su questo caso.

Gli investigatori hanno trovato una mail del 26 febbraio del 2020 mandata dalla vice capo di gabinetto del ministero della Salute, Tiziana Coccoluto, all’allora capo della Protezione civile Angelo Borrelli. […] «Con riferimento all’esame dei campioni biologici trasmessi dai laboratori regionali, si rappresenta che dall’esecuzione dei primi 200 test da parte dell’Istituto superiore di sanità emerge che gli oneri per il predetto numero di test è pari a 150.000 euro». E cioè 750 euro per ogni tampone. […]

I primi 200 tamponi acquistati e gli 800 a seguire erano i test che, a inizio pandemia, servivano a controverificare i risultati che arrivavano dal territorio, da qui il riferimento ai «laboratori regionali». Il punto è che quei prezzi sono finiti sotto gli occhi della Guardia di finanza a Bergamo, che si è posta la domanda più banale: ma se l’Iss pagava un tampone 750 euro, qual era invece il prezzo in quel periodo? La domanda è stata posta all’Azienda ospedale di Padova, con una risposta che è finita agli atti: «Il test più utilizzato tra febbraio e marzo 2020 aveva un costo industriale unitario pari a 2,82 euro». Nella Capitale finisce così una tranche in apparenza marginale, dell’inchiesta Covid, ma che può offrire sviluppi […]

Pubblichiamo l’intervento ricevuto nella giornata di sabato 11 marzo dall’Iss:

Relativamente alle notizie stampa in cui l’Istituto Superiore di Sanità avrebbe chiesto un finanziamento alla Protezione civile nella fase iniziale della Pandemia di «750 euro a test» si precisa che le notizie circolate finora sono totalmente destituite da ogni fondamento l’Istituto Superiore di Sanità, in particolare:

- non ha mai chiesto “750 euro a test”;

- non ha mai ricevuto la somma prevista dall’articolo 6 dell’Ordinanze OCBPC n 640/2020, prevista tra l’altro anche per coprire i costi della sorveglianza epidemiologica;

- nella prima fase della Pandemia l’Istituto Superiore di Sanità, con proprie risorse ordinarie ha processato oltre 5000 campioni di cui 3000 provenienti dalla sola Regione Lombardia e non gli «800» di cui si parla nella stampa.

Inoltre si ricorda che:

- i costi effettivamente sostenuti dall’Istituto nella prima fase della pandemia comprendono materiali per l’esecuzione dei test, dispositivi di protezione individuale per il personale addetto, materiale monouso e potenziamento dei macchinari;

- in una prima fase della pandemia non esistevano test commerciali e venivano quindi realizzati con protocolli in house sviluppati in aderenza a quelli previsti dall’OMS

 Risposta del “Corriere della Sera”

Le informazioni pubblicate dal Corriere fanno riferimento a un documento agli atti dell’inchiesta della Procura di Bergamo trasmesso a quella di Roma per competenza territoriale, con l’ipotesi di truffa aggravata. In particolare, il documento e l’articolo si riferiscono a una prima partita di 200 tamponi e a una successiva di 800. Non in generale, a tutta «la prima fase della pandemia» e a tutti i tamponi analizzati dal’Iss. (A.D.L.)

«Covid, allertai Speranza come un postino solerte»: parla Vendola. «Il 10 febbraio 2020 gli girai mail di 4 medici sulle terapie intensive». MICHELE DE FEUDIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Marzo 2023.

Otto giorni prima del paziente uno a Codogno, il 12 febbraio 2020, un gruppo di medici e professori universitari (Alberto Zangrillo, Antonio Pesenti, Giacomo Grasselli e Marco Ranieri) inviò una lettera appello a Nichi Vendola per chiedere di attivare un tavolo tecnico sull’organizzazione delle terapie intensive. L’ex governatore inoltrò subito la lettera al ministro della Salute Roberto Speranza, che attivò subito i suoi dirigenti. Questa documentazione è agli atti della Procura di Bergamo nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione Covid.

I medici avevano premura di allertare i vertici della Sanità nazionale: «Caro Nichi - è scritto nella missiva - nei giorni scorsi siamo stati contattati da Haibo Qiu, presidente della società cinese di Terapia intensiva, che è a Wuhan, inviato dal governo federale...

Covid, Vendola e la mail da Wuhan: «Appena l'ho letta ho dato l'allarme. Vi spiego come è andata». Bepi Castellaneta su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2023

L'ex governatore della Puglia ha raccolto per primo l'allarme dei medici italiani su cosa stava accadendo in Cina. «Gli errori? Facile dirlo adesso» 

«Ho semplicemente fatto il postino». Nichi Vendola, ex parlamentare ed ex presidente della Regione Puglia, esponente storico della sinistra italiana, è lapidario: conferma l’indiscrezione riportata dal Corriere della Sera, è stato il primo a raccogliere l’allarme dei medici italiani rimbalzato da Wuhan ma non rivendica meriti particolari né intende in alcun modo ritagliarsi il ruolo di chi aveva capito in anticipo che cosa stesse accadendo. Resta il fatto che, dopo aver ricevuto una mail sui rischi che gravavano sull’Italia, l’ex governatore non ci ha pensato un attimo e ha avvisato l’allora ministro della Salute, Roberto Speranza, affinché in qualche modo si mobilitasse. Quella comunicazione firmata dai medici Alberto Zangrillo, Antonio Pesenti, Giacomo Grasselli e Marco Ranieri, adesso è tra gli atti acquisiti dalla Procura di Bergamo nell’inchiesta sulla gestione della pandemia di Covid.

Vendola, come si spiega la decisione dei medici di mandare una mail proprio a lei? 

«Semplice: conosco uno di loro, Marco Ranieri». 

Lo conosce da tempo? 

«Dal 1970. È di Bari, siamo entrambi pugliesi. E so che è un medico di grande valore». 

Vi siete sentiti in quel periodo? 

«Un giorno mi ha telefonato dicendo di essere intenzionato a fare una segnalazione al governo su quello che stava succedendo e sulle notizie raccolte. Poi mi è arrivata la mail». 

E lei che ha fatto? 

«Ho subito mandato un whatsapp al ministro Speranza per avvisarlo, in modo che potesse agire di conseguenza». 

Aveva già intuito la gravità della situazione e i rischi che correva l’Italia? «Non mi prendo certo il merito di aver capito prima degli altri a quale scenario andavamo incontro». 

Però ha dato subito l’allarme. 

«Conosco la serietà e il grande spessore professionale di quei medici». 

E quindi? 

«E quindi ho agito di conseguenza. Devo dire che neanche Speranza ha perso tempo». 

Lei però a differenza sua non ricopriva alcun incarico istituzionale. 

«La politica per me non è mai stata una carriera». 

Che cosa intende dire? 

«Il mio ruolo al servizio delle istituzioni e del Paese non finisce con il mio mandato». 

In concreto che cosa significa? 

«Che anche adesso sono al servizio della collettività. E quando un cittadino mi segnala un disservizio lo faccio presente. Accade spesso». 

Che cosa la preoccupava maggiormente di quella mail? 

«I rischi di un collasso del sistema sanitario. Eravamo abituati a considerare certe situazioni solo in letteratura, penso alla peste raccontata da Manzoni o da Camus, o ancora prima da Tucidide. Ci siamo trovati di fronte a un nemico sconosciuto». 

Lei è un politico di grande esperienza. Ritiene ci siano stati errori nella gestione dell’emergenza? 

«Beati coloro che sanno tutto». 

Vale dire? 

«Vedremo che cosa verrà fuori dagli accertamenti della magistratura e dalle commissioni di inchiesta. Posso dire però una cosa: da politico, ho pensato di essere fortunato a non trovarmi nei panni di chi era chiamato a decidere. Non è semplice scegliere di chiudere una regione o persino l’intero Paese. E poi non va dimenticata la lotta fatta contro la superstizione antiscientifica o le fake news». 

Però, a proposito di accertamenti, adesso la gestione della pandemia è sotto inchiesta. 

«Non entro nel merito. Ma in linea generale credo che l’invadenza del diritto penale sia un problema serio». 

In che senso? 

«Ritengo che sarebbe molto più utile una commissione di inchiesta». 

Con quale finalità? 

«Per vedere e capire tutto». 

E per evitare altri errori? 

«Ammesso che errori ci siano stati. In ogni caso quanto accaduto mostra i danni provocati dalla dismissione del sistema sanitario territoriale in alcune zone del Paese». 

In concreto a cosa si riferisce? 

«Penso alla Lombardia, ma è un discorso generale. È evidente comunque che il Covid ha avuto anche un impatto per certi versi politico». 

In che senso? 

«Ha dimostrato che di fronte a un nemico planetario non si può certo dare una risposta di tipo sovranista. Basti pensare che ogni Stato ha individuato un bene specifico da tutelare in via prioritaria». 

Comunque sia, la risposta della politica alla pandemia viene messa in discussione. A tutti i livelli. 

«Adesso è facile trarre conclusioni, prima era tutto diverso. Credo però che la giurisdizione penale non possa diventare una specie di rendiconto storico e politico. Piuttosto bisogna lavorare per non farsi cogliere impreparati in futuro». 

In che modo? 

«Sviluppando la ricerca, tutelando la sanità territoriale, formando e impiegando specialisti. È il ruolo della politica».

Bergamo, inchiesta Covid. Consulenza legale di Ats sulle responsabilità. Gallera chiese spiegazioni. Giuliana Ubbiali su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2023.

Il parere affidato ad aprile 2020. La risposta del dg Giupponi: verifiche su tutti, anche sull’Agenzia

L’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera, mandò un messaggio muto ma eloquente al direttore generale di Ats, Massimo Giupponi: «??????». Chiedeva spiegazioni dopo avergli inoltrato un’agenzia Ansa, il 4 maggio 2020, con un intervento di Francesco Falsetti, segretario lombardo della Federazione italiana sindacale medici uniti. Riguardava una notizia circolata il 25 aprile, sulla consulenza da 15.758 euro affidata dall’Ats all’avvocato Angelo Capelli per chiedergli un parere su eventuali responsabilità, per lo più civili — su più fronti, anche interno — nella gestione dell’emergenza Covid. Un fatto che colpisce, oggi che Giupponi è tra i 17 indagati dell’inchiesta chiusa con l’accusa di non aver «tempestivamente» adottato atti propri del suo ufficio, tra cui la raccolta dei dati sanitari, la sorveglianza, le informazioni e il coordinamento dei medici di base. E oggi Capelli è l’avvocato del dg. 

«È vergognoso che in meno di qualche settimana i medici da eroi siano passati a possibili untori», diceva Falsetti. Aveva scritto al ministro della Salute Roberto Speranza, agli stessi Gallera e Giupponi. «Preoccupa — commentava all’Ansa — la volontà di ricercare la responsabilità nei confronti dei medici di medicina generale convenzionati con la stessa Ats di Bergamo con la quale dovrebbero intercorrere rapporti di collaborazione, specie durante le crisi. Fare una caccia alle streghe non serve ed è inaccettabile sparare sull’intera categoria». Definiva «grottesco» il riferimento alla carenza dei dispositivi di protezione «ma non per responsabilità dei medici che sono vittime di questa situazione, come dimostra l’alto numero di contagiati e vittime tra i camici bianchi». 

Sulla consulenza, oggi l’avvocato Capelli nulla dice «su atti di rilevanza solo interna». Però la chat tra Gallera e Giuppponi è agli atti dell’inchiesta. Il dg si affrettò a scrivere all’assessore che gli avrebbe risposto a breve. E Gallera: «È importante». Così fece, precisando che «trattasi di un incarico di assistenza legale stragiudiziale» e scrivendo anche di «verifica di elementi per l’eventuale costituzione in giudizio di parte civile, nonché dell’eventuale sussistenza di singole responsabilità riferibili alla gestione dell’emergenza Covid 19, sia all’interno dell’Agenzia che nei confronti di Enti accreditati e soggetti convenzionati, nonché nei confronti dei datori di lavoro». 

Ripercorrendo la delibera 298 del 24 aprile, Giupponi ricapitolò a Gallera i cinque quesiti posti all’avvocato. Con lo stesso inizio per tutti, cioè la verifica di «eventuali responsabilità per le modalità di gestione dell’emergenza» all’ospedale di Alzano, in altre strutture pubbliche o private accreditate, nelle Rsa «con particolare riferimento alla disponibilità ed utilizzo di dispositivi di protezione individuale», da parte dei medici di medicina generale (sempre per i dpi) e «all’interno dell’Ats». Giupponi precisò che l’incarico era rivolto «all’universalità degli attori, senza volontà di colpire alcuno e senza nessun pregiudizio».

Estratto dell’articolo di Armando Di Landro per corriere.it il 16 marzo 2023.

Entrare nel proprio ufficio e trovarci dentro una persona che sembra aver appena frugato tra i cassetti. E dove siamo, al Watergate hotel? O in un banale gioco di ruolo durante una festicciola tra ragazzini? No, siamo al Ministero della Salute, a Roma, poco dopo l’inizio della più grave epidemia vissuta dall’Italia negli ultimi cento anni almeno.

 È lì, tra i tavoli di un’unità di crisi e della task force, che si condensano antipatie e ritrosie tra tecnici e politici, o tra politici stessi, ripicche fatte di mancati avvisi per le riunioni, verbali incompleti, notizie ufficiali che non circolano a dovere e finiscono prima sui giornali online e non al ministro o al vice ministro.

 E poi, anche accuse inventate, denunce. Questo è stato il ministero di Lungotevere Ripa nell’esperienza di un outsider della politica, Pierpaolo Sileri, il medico che nel 2018, all’inizio della scorsa legislatura, aveva detto «tornerò a fare il mio lavoro», e ha mantenuto la promessa, visto che in Parlamento non c’è più e oggi si occupa di interventi oncologici al San Raffaele di Milano.

L’ex vice ministro del Movimento 5 Stelle parla ai pm di Bergamo (per l’inchiesta sulla gestione della pandemia) come persona informata sui fatti. Si presenta ai magistrati l’8 febbraio del 2021. […]

 Non mancò una «mia reprimenda contro la struttura ministeriale, presenti Brusaferro, Iachino, Zaccardi, Miozzo, Borrelli, perché, in data 6 marzo 2020, non si era ancora provveduto agli acquisti dei ventilatori e di ogni dispositivo utile alla gestione della pandemia».

Sileri bacchettava, le sue parole non finivano a verbale, ma lui insisteva. Tant’è che, dice, «il 6 marzo Zaccardi (Goffredo, capo di Gabinetto di Speranza, ndr) diceva a me e Friolo che dovevamo stare tranquilli, altrimenti avrebbe usato contro di noi dei documenti che aveva nel cassetto.

 Ovviamente gli abbiamo risposto che non accettavamo questo tipo di minaccia e che avrebbe dovuto chiarire a cosa si riferisse. Scoprirò solo dopo, per quanto riguardava Friolo, che si trattava di presunte accuse di mobbing di una collaboratrice».

 E in quel clima il vice ministro riceve “alcune lettere anonime, tra le quali alcune davvero preoccupanti, riguardanti il presunto ruolo di alcuni collaboratori del ministro Speranza in un servizio televisivo (certamente negativo per Sileri stesso, ndr). Peraltro, come ho denunciato alla Procura di Roma, un collaboratore della segreteria del Ministro, Antonio Travaglino, il 7 giugno 2020 – di domenica – si introduceva nel mio ufficio, dove, forse, non immaginava di trovarmi.  […]

Uno scontro durato mesi, quello con il capo di gabinetto del ministro. Ben raccontato anche dalle chat telefoniche acquisite dai pm di Bergamo. Con un confronto duro, in particolare, il 4 marzo 2021: il viceministro invia un audio per lamentare la mancata convocazione a una riunione.

 Zaccardi gli risponde: «Sui vaccini finora non eri presente». E lui replica: «Lo so che non lo ero, perché mai nessuno mi ha detto delle riunioni». Zaccardi tenta quasi di confortarlo: «Anche tu puoi fare molto per il paese e se vuoi ti darò una mano». «Non mi sembra» scrive Sileri. «Sbagli alla grande!». […]

 Quel messaggio era dell’11 marzo del 2021, più di un anno dopo il periodo più duro della pandemia. E il vice ministro era arrabbiato, perché lui il 2 e 3 febbraio di un anno prima era andato di persona a Wuhan, a vedere la situazione e aveva in qualche modo intuito che l’onda del virus avrebbe potuto essere devastante:

«Giuseppe Ippolito (allora presidente dello Spallanzani, ndr), allorquando io sono rientrato da Wuhan il 3 febbraio 2020 e ho rappresentato la gravità della situazione e il pericolo incombente sul nostro paese, ha risposto con coloriti gesti scaramantici».

(ANSA il 17 marzo 2023) - "Serve competenza ed è giusto richiamare dalla pensione al più presto. Serve personale specialista (...) la cosa che mi fa incazz... che lo avevo detto a Ruocco (all'epoca segretario generale del Ministero della Salute, ndr) settimane fa". Così scriveva in chat, dialogando il 29 febbraio 2020 con l'allora ministro Roberto Speranza, il viceministro Pierpaolo Sileri. Messaggi, nel periodo più complesso della prima ondata Covid, contenuti in un'informativa agli atti dell'inchiesta di Bergamo. "Cerchiamo di cambiare questa Italia", diceva Sileri a Speranza. Sileri che, come già emerso, si lamentava dell'impreparazione alla pandemia.

Estratto dell'articolo di Armando Di Landro per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2023.

C’è un passaggio delle deposizioni di Pierpaolo Sileri di fronte ai pm di Bergamo che dà l’idea di quanto il sistema sanitario e istituzionale fosse spiazzato di fronte alla prima ondata di Covid: «Il 2 marzo 2020 fui invitato a partecipare a un incontro con Confindustria sui dispositivi medici, in presenza di Walter Ricciardi, consigliere di Speranza, del capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi, del neo direttore generale Iachino. Durante la riunione si parlò di trovare sul mercato mille respiratori e ricordo che nel documento che ci fu fornito i primi respiratori disponibili sarebbero stati consegnati 4 settimane dopo l’acquisto, ma la stragrande maggioranza non prima di 8, 12 o addirittura 16 settimane. Ci salutammo delusi».

[…] E le procedure ministeriali erano farraginose, agli occhi di Sileri, il viceministro 5 Stelle outsider della politica che è poi tornato a fare il medico.

 Meccanismi inceppati, come emerge dalle carte dell’inchiesta, da invidie, scontri personali, posizioni di partito. «Ricordo che l’amministratore delegato di Consip, Cristiano Cannarsa, si lamentava del fatto che non poteva neppure procedere con i bandi di acquisto perché il ministero non gli faceva avere le specifiche dei prodotti da acquistare».

[…] Ma oltre le note di colore l’ex politico evidenzia, ai pm, lo scontro interno al ministero: «Mi è stato confermato da Miozzo (Agostino, a capo della Protezione civile, ndr), che aveva ricevuto ordine perentorio dal gabinetto e dal ministro che non dovevano essere fornite risposte alle mie richieste, neppure quelle fondamentali per fronteggiare la pandemia».

 Sileri risale a «gennaio-febbraio 2020: non esisteva un’istituzione ufficiale della task force. Ho sin da subito notato un comportamento poco professionale. I rappresentanti andavano aumentando di giorno in giorno. Oltre a ciò, i verbali delle sedute sono sicuramente parziali, stante l’assenza di numerose dichiarazioni mie».

In quel clima maturò lo scontro con il capo di gabinetto del ministero, Goffredo Zaccardi: «Il 6 marzo Zaccardi diceva a me e Friolo (Francesco, segretario particolare del vice ministro, ndr) che dovevamo stare tranquilli, altrimenti avrebbe usato contro di noi dei documenti che aveva nel cassetto. Ovviamente gli abbiamo risposto che non accettavamo questo tipo di minaccia. Scoprirò solo dopo, per quanto riguardava Friolo, che si trattava di presunte accuse di mobbing di una collaboratrice».

Non mancarono «le lettere anonime, alcune davvero preoccupanti, riguardanti il presunto ruolo di alcuni collaboratori del ministro Speranza in un servizio televisivo (certamente negativo per Sileri stesso, ndr). Peraltro, come ho denunciato alla Procura di Roma, un collaboratore della segreteria del ministro, Antonio Travaglino, il 7 giugno 2020 — di domenica — si introduceva nel mio ufficio, dove, forse, non immaginava di trovarmi. La lettera di ammissione della circostanza da parte del Travaglino è allegata all’integrazione di querela»: ovvero la denuncia presentata dallo stesso Sileri contro Zaccardi e finita con tante scuse tra le parti (Zaccardi si era poi dimesso a settembre 2021). […]

È iniziato l’iter parlamentare per la Commissione d’inchiesta sul Covid in Italia. Iris Paganessi su L'Indipendente il 17 febbraio 2023.

Durante la giornata di ieri è stato avviato l’iter parlamentare per l’istituzione di una Commissione d’inchiesta che indaghi sulla gestione dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19. 

Sono state avanzate tre proposte di legge, rispettivamente da Lega, Fratelli d’Italia e Azione-Italia Viva, le quali hanno contenuto simile ma differiscono leggermente per quanto riguarda le competenze attribuite alla Commissione. Tutte e tre le proposte concordano sul fatto che questa debba essere composta da 20 senatori e 20 deputati nominati in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari dal Presidente del Senato e dal Presidente della Camera. Vi è accordo anche sul fatto che la Commissione disponga degli stessi poteri dell’autorità giudiziaria per condurre le indagini e gli esami e sul fatto che venga mantenuto il regime di segretezza fino a quando gli atti e i documenti trasmessi saranno coperti dal segreto di Stato. Inoltre, tutte e tre le proposte prevedono che la Commissione approvi una relazione al termine dei suoi lavori e altre relazioni ogniqualvolta risulti necessario. 

Leggere differenze sono poi presenti nel budget a disposizione, che oscilla tra i 100 mila e i 300 mila euro annui, e sulla durata della commissione (la proposta di legge FdI prevede una durata di 18 mesi, mentre le altre due prevedono una durata corrispondente a quella della XIX legislatura).

Come già anticipato in un articolo di qualche giorno fa, va sottolineato il fatto che la commissione non indagherà sulla gestione dell’emergenza da parte del governo italiano a causa delle modifiche al collegio organico che avrà ad oggetto esclusivamente il periodo antecedente al 30 gennaio 2020 (in pratica, sarà preso in considerazione solo l’operato della Cina, l’unico Paese in cui il Covid si è manifestato prima di tale data). La modifica temporale, non presente nel vecchio testo, è stata condannata da parte dei deputati di Fratelli d’Italia, che hanno definito la vicenda «un insabbiamento istituzionale» finalizzato ad evitare che si indaghi nei confronti del governo per questioni come la disincentivazione delle cure domiciliari o il mancato aggiornamento del piano pandemico. A tal proposito, va infatti ricordato che alle terapie domiciliari si è opposto proprio il ministero della Salute, guidato da Roberto Speranza. Interrogativi che, insieme ad altre questioni (la gestione delle RSA in Lombardia, gli obblighi vaccinali e le sospensioni dei lavoratori, ad esempio), sono destinati a rimanere senza risposta.

I compiti della Commissione, la proposta di Fratelli d’Italia

La proposta di legge di FDI assegna alla Commissione il compito di: (a, b) accertare le ragioni del mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale redatto nel 2006 e della sua mancata attivazione dopo la dichiarazione dell’emergenza sanitaria pubblica d’interesse internazionale da parte dell’Oms, avvenuta il 30 gennaio 2020, e la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale con deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020; (c) accertare le ragioni per cui il piano pandemico nazionale e la sua possibile attivazione non siano stati oggetto di considerazione da parte del Comitato tecnico-scientifico; (d) accertare l’eventuale esistenza di un piano sanitario nazionale per il contrasto al virus Sars-Cov-2 e le ragioni della sua mancata pubblicazione; (e) esaminare la natura e l’attività della task-force incaricata di coordinare ogni iniziativa relativa al fenomeno del coronavirus, costituita presso il Ministero della salute in data 22 gennaio 2020; (f) verificare il rispetto delle normative nazionali, europee e internazionali in tema di emergenze epidemiologiche, compreso il regolamento sanitario internazionale adottato dalla 58ª Assemblea mondiale della sanità il 23 maggio 2005 ed entrato in vigore il 15 giugno 2007; (g) esaminare i rapporti intercorsi tra le competenti autorità dello Stato italiano, l’Organizzazione mondiale della sanità e gli altri soggetti terzi ai fini della gestione dell’emergenza epidemiologica causata dal virus SARS-CoV-2, a partire dal periodo prepandemico. 

I compiti della Commissione, la proposta della Lega

La proposta di legge della Lega assegna alla Commissione il compito di: (a) valutare l’operato del Governo e le misure da questo adottate al fine di prevenire e contrastare la diffusione del COVID19; (b) esaminare i documenti, i verbali di organi collegiali, gli scenari di previsione e gli eventuali piani sul COVID-19 elaborati dal Governo o comunque sottoposti alla sua attenzione; (c) indagare e accertare le vicende relative al piano pandemico nazionale vigente nel tempo in cui ha iniziato a manifestarsi la diffusione del COVID-19 e al suo mancato aggiornamento nonché al ritiro del rapporto sulla risposta dell’Italia al COVID-19 dopo la sua pubblicazione nel sito internet dell’ufficio regionale per l’Europa dell’Organizzazione mondiale della sanità; (d,e) valutare la tempestività e l’adeguatezza delle indicazioni, degli strumenti e delle misure adottate sotto il profilo del potenziamento del Servizio sanitario nazionale che il Governo e le sue strutture di supporto hanno fornito alle regioni nel corso di ciascuna fase dell’emergenza pandemica; (f) verificare la quantità, la qualità e il prezzo dei dispositivi di protezione individuale, dei dispositivi medici, dei materiali per gli esami di laboratorio e degli altri beni sanitari acquistati e distribuiti alle regioni nel corso dell’emergenza pandemica; (g) verificare l’esistenza di eventuali ritardi, carenze e criticità nella catena degli approvvigionamenti dei beni, individuandone le cause e le responsabilità; (h) indagare su eventuali donazioni ed esportazioni di ingenti quantità di dispositivi di protezione individuale e altri beni utili per il contenimento dei contagi, autorizzate o comunque verificatesi nella fase iniziale della pandemia; (i) l’indagine su eventuali abusi, sprechi, irregolarità o illeciti sulla gestione delle risorse destinati al contenimento e alla cura del Covid da parte del Governo, delle sue strutture di supporto e del Commissario straordinario per l’emergenza Covid; (l) accertare e valutare alcuni specifici aspetti relativi alla gestione dell’emergenza Covid da parte del Commissario straordinario, tra i quali l’acquisto in Cina di dispositivi di protezione individuale per la spesa complessiva di 1,25 miliardi di euro e la corrispondenza di essi ai requisiti prescritti, la realizzazione dell’applicazione Immuni, la gestione della fase iniziale della campagna di vaccinazione, l’acquisto di banchi a rotelle da parte delle istituzioni scolastiche per assicurare il distanziamento tra gli alunni; (m, n, o) valutare la tempestività e l’efficacia delle misure di prevenzione e di contenimento adottate dal Governo nella prima fase della pandemia nonché di quelle adottate nelle fasi successive, anche attraverso la valutazione comparativa con la condotta e i risultati ottenuti da altri Stati europei, nonché dell’adeguatezza e proporzionalità delle misure adottate dal Governo per la prevenzione e gestione dei contagi in ambito scolastico; (p) valutare la tempestività e l’efficacia delle indicazioni fornite allo Stato italiano dall’Organizzazione mondiale della sanità e da altri organismi internazionali; (q) valutare l’efficacia e i risultati dell’attività del Comitato tecnico-scientifico e degli altri organi, commissioni e comitati operanti a supporto dei decisori politici; (r) verificare l’eventuale sussistenza di incongruenze e difetti di trasparenza nella comunicazione istituzionale e nell’informazione alla popolazione su tutti gli aspetti riguardanti la diffusione, la modalità di trasmissione e le misure di protezione dal virus; (s) valutare l’incidenza che i fatti e i comportamenti accertati nel corso dell’inchiesta possono aver avuto sulla diffusione dei contagi e sui tassi di ricovero e mortalità per Covid; (t) accertare l’entità e la valutazione dell’adeguatezza delle risorse stanziate in ciascuna fase dell’emergenza pandemica.

I compiti della Commissione, la proposta di Italia Viva e Azione

La proposta di legge di IV-AZ assegna alla Commissione il compito di: (a, b) svolgere indagini e valutare l’efficacia, la tempestività e i risultati delle misure adottate da enti e da organismi nazionali, regionali e locali al fine di contrastare, prevenire, ridurre o mitigare l’impatto dell’epidemia di COVID-19, come pure sulle scelte strategiche, sull’eventuale presenza di fenomeni speculativi, illeciti e corruttivi in tema di allocazione e gestione delle risorse da parte del Governo, delle regioni e province autonome, delle aziende ospedaliere e delle aziende sanitarie locali e sulle modalità di affidamento degli appalti pubblici e di selezione del personale medico; (c) valutare l’efficacia e i risultati delle attività dell’Istituto superiore di sanità, del Comitato tecnico-scientifico e delle altre commissioni o comitati di supporto ai decisori politici; (d) valutare l’efficacia delle indicazioni fornite al Governo dall’Oms e da altri organismi internazionali e la trasparenza della comunicazione istituzionale del Governo italiano; (e,f) verificare inadempienze, ritardi e comportamenti illeciti o illegittimi di pubbliche amministrazioni o di soggetti pubblici e privati in tutti i settori coinvolti nella gestione della pandemia, come pure i contratti di appalto, di concessione e le operazioni di acquisto riferiti alla realizzazione di strutture sanitarie destinate alla cura dei pazienti Covid; (g,h,i) svolgere indagini sulla negoziazione degli acquisti delle dosi di vaccino e sull’efficacia del piano vaccinale, nonché sulle attività profilattiche e terapeutiche e sulla loro corrispondenza ai piani nazionali e regionali contro le pandemie e sul corretto funzionamento di procedure e strumenti impiegati per la prenotazione dei tamponi e dei vaccini da parte delle strutture sanitarie; (l) valutare in forma comparativa l’approccio degli Stati esteri nei confronti della pandemia da COVID-19, analizzando le normative e le prassi adottate, con particolare riferimento agli Stati dell’Unione europea; (m) individuare eventuali incongruità e carenze della normativa vigente al fine di garantire la tempestività e la qualità degli interventi relativi all’epidemia di COVID19; (n,o) verificare lo stato di attuazione sul territorio nazionale delle politiche sanitarie e socio-sanitarie controllandone i vari parametri come pure lo stato di realizzazione delle reti di assistenza territoriale e domiciliare; (p) valutare la congruità delle misure di chiusura delle scuole rispetto ai livelli di rischio effettivamente accertati all’interno degli istituti scolastici, nonché l’adeguatezza degli approvvigionamenti ad esse garantiti nei diversi aspetti coinvolti; (q) verificare la qualificazione dell’assistenza ospedaliera anche in direzione dell’alta specialità; (r,s,t) valutare le motivazioni della mancata realizzazione di una campagna diagnostica di tutta la popolazione, come pure l’applicazione del sistema dei raggruppamenti omogenei di diagnosi e la qualità delle prestazioni socio-sanitarie nella fase acuta della patologia da parte della rete sanitaria territoriale ed ospedaliera; (u) monitorare l’attività di formazione continua in medicina al fine di verificare l’efficienza e l’uniformità applicativa del sistema della formazione continua dei professionisti sanitari nell’ambito regionale e nazionale; (v) indagare il funzionamento nel territorio nazionale del numero per l’emergenza-urgenza 118 e degli altri numeri verdi nazionali, regionali o locali per le emergenze; (z) verificare le procedure ed i criteri adottati per la classificazione dei farmaci prescritti ai pazienti affetti da Covid al di fuori delle condizioni autorizzate.

E ancora, (aa, bb) indagare sulla definizione e corretta applicazione dell’ordine di priorità tra le categorie dei soggetti destinatari della somministrazione delle dosi vaccinali nonché sulla qualità, efficacia e sugli esiti dei trattamenti sanitari; (cc) valutare l’efficacia del coordinamento tra le principali istituzioni di vertice impegnate nel contrasto dell’epidemia; (dd,ee,ff) monitorare il numero e la qualità degli eventuali errori sanitari commessi dal personale sanitario, individuare idonee soluzioni per il miglioramento dei controlli di qualità sulle strutture sanitarie pubbliche e private, verificare eventuali condizionamenti da parte della criminalità organizzate nella gestione dell’emergenza sanitaria; (gg) monitorare l’impiego delle risorse e gli interventi messi a punto in tema di edilizia sanitaria; (hh,ii) verificare le procedure amministrative per l’approvvigionamento di farmaci, dispositivi di protezione individuale e macchinari di diverso tipo e l’eventuale commissione di illeciti durante la produzione e il confezionamento degli stessi; (ll) acquisire elementi conoscitivi su una serie di aspetti: lo stato di attuazione dei distretti socio-sanitari e delle agenzie sanitarie regionali, l’efficienza dell’erogazione dei medicinali da parte dei servizi sanitari regionali e lo sviluppo dei servizi erogati dalle farmacie, nonché i meccanismi di distribuzione delle dosi di vaccino sul territorio nazionale. [di Iris Paganessi]

Morti Covid, i pm puntano su Conte. La Procura di Bergamo: indagini chiuse, eclatanti omissioni su piano pandemico e zona rossa. Felice Manti il 31 gennaio 2023 su Il Giornale.

«Epidemia colposa per reato omissivo improprio». Sarebbe questa l'ipotesi attorno a cui ruoterebbe l'inchiesta della Procura di Bergamo sulla mancata chiusura della zona rossa in Valseriana e il mancato aggiornamento del piano pandemico, «eclatante e di forte impatto». Ad anticipare la chiusura delle indagini che rischiano di inguaiare in primis l'ex premier Giuseppe Conte e l'esecutivo Pd-M5s da lui guidato è stato direttamente il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani, l'altro giorno, parlando all'inaugurazione dell'anno giudiziario di «gravi omissioni da parte delle autorità sanitarie, nella valutazione dei rischi epidemici e nella gestione della prima fase della pandemia», quando la mortalità nella Bergamasca raddoppiò (da tremila a oltre seimila), con un nesso eziologico causa-effetto suffragato dalla perizia di Andrea Crisanti - oggi senatore Pd - firmata anche da Daniele Donato ed Ernesto D'Aloja. In Procura bocce cucitissime, in ossequio alle rigide limitazioni della riforma Cartabia, ma secondo quanto trapelato gli indagati sarebbero una ventina, con responsabilità proporzionate al loro «peso» nella catena di comando.

LE PROVE

Quale sarebbe il ragionamento della Procura? Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Può reggere? Secondo la Cassazione no, perché lo ritiene un reato integrabile solo mediante «condotta attiva». «Ma è una lacuna difficilmente giustificabile e tollerabile - spiega un esperto - la diffusione di germi patogeni può avvenire non solo mediante l'azione (per esempio, il contagio da tatto) ma anche mediante un'omissione, per esempio l'aver trascurato di asportare del materiale infetto con il quale terzi hanno poi avuto contatto». Vedremo. L'ipotesi della Procura peraltro si baserebbe non solo sulla «compendiosa» informativa della polizia giudiziaria curata dalla Guardia di Finanza ma anche su una serie di documenti interni a Palazzo Chigi, ministero della Salute e Cts, alle chat e agli sms che si sono vorticosamente scambiati nella prima fase della pandemia membri dell'esecutivo e dirigenti del ministero della Sanità e soprattutto sulla relazione di Crisanti, che cristallizza l'omissione. «È come se un padre non mettesse la cintura di sicurezza al figlio che poi muore in un incidente perché il seggiolino non è assicurato al sedile», è la sintesi del ragionamento. Tanto che l'architrave delle indagini è stato il report dell'ex Oms Francesco Zambon, sparito e fatto ritrovare dall'allora consulente dei legali delle vittime della Bergamasca Robert Lingard, che assieme alle false autovalutazioni inviate all'Oms inchioderebbero Conte e Speranza, con la Ue che ci considera il cluster d'Europa.

LA MINACCIA DIMENTICATA

Va ricordato anche che secondo un recente rapporto Ue, il Covid-19 è una cosiddetta minaccia Cbrn (chimico-batteriologica-radiologica-nucleare) e che dal 2017 esiste un piano d'azione della Commissione Ue che richiede espressamente esercizi di simulazione, seminari sul regolamento sanitario internazionale e best practises sullo screening in entrata e in uscita dai confini. Che noi invece abbiamo compromesso, aprendo al raddoppio dei voli dalla Cina, cui abbiamo regalato preziose mascherine che si sarebbero servite. Eppure Speranza, lo ammette a pagina 28 del suo libro Perché guariremo (sparito dagli scaffali...), sapeva di focolai di una strana polmonite ben prima del 31 dicembre 2019. «Era tutto il mese che si rincorrevano le voci (...) il 7 novembre avevo ospitato a Roma il ministro della Salute del governo cinese, Ma Xiaowei (...) non mi era sembrato che nutrisse particolari preoccupazioni sul suo Paese». Ma per quale ragione avrebbe dovuto esserlo?

SICUREZZA TRADITA

La pandemia costituisce una minaccia per la sicurezza dello Stato? Sì. Che la responsabilità del mancato aggiornamento del piano pandemico e della mancata chiusura della Valseriana siano in capo a Palazzo Chigi lo dimostrerebbe il dietrofront sull'esercito tra Nembro e Alzano Lombardo. Il 4 marzo 2020 i militari - che agivano in qualità di «agente di pubblica sicurezza» - arrivano e se ne vanno. Chi non firmò? Conte. Perché? Sul pasticcio c'è il segreto di Stato per ragioni di «ordine pubblico, sicurezza nazionale, Difesa e questioni militari». La mancata competenza del Pirellone sul tema è confermata indirettamente dai legali di Generali e UnipolSai, secondo cui la polizza di Regione Lombardia non copre le attività svolte dal governatore «in rappresentanza del governo»

IL GIALLO DELLE COMPETENZE

In questi giorni si discute della creazione di un fantomatico Consiglio per la sicurezza nazionale, come in Francia, Germania, Gran Bretagna e Usa. Beh, esiste già dal 5 maggio 2010 grazie al decreto dal titolo O rganizzazione nazionale nella gestione delle crisi che ha istituito il «Nucleo interministeriale situazione e pianificazione», un organismo presieduto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a cui partecipano Protezione civile, Difesa civile e le agenzie di intelligence Dis, Aise e Aisi, e i rappresentanti di Esteri, Interno, Salute, Economia. Questo organismo avrebbe il potere di «indirizzo e guida strategica nazionale nelle situazioni di crisi». È mai stato convocato da Conte, che dei servizi aveva le deleghe fino quasi all'ultimo giorno? Ci sono dei verbali? Difficile pensarlo, visto che secondo il sottosegretario con delega ai servizi segreti Franco Gabrielli nel suo libro Naufragi e nuovi approdi, «il governo Conte mise in atto una sistematica marginalizzazione dell'autorità nazionale di pubblica sicurezza», dando pieni poteri alla Protezione civile (incompetente nella gestione delle pandemie) e soprattutto al commissario all'Emergenza, organismo invischiato nelle inchieste della magistratura sui respiratori fallati acquistati dalla Fondazione cinese dove siede l'ex premier Massimo D'Alema (che di Conte e Speranza è sponsor e mentore) fino all'acquisto di mascherine dalla Cina, sdoganate sebbene fossero contraffatte e di fatto inservibili come sostengono le inchieste nate grazie al coraggio di whistleblowers che per questo hanno pagato un prezzo altissimo. Per tacere degli accordi presi da Conte con la Russia, intervenuta in Valseriana, e dei misteriosi rapporti con gli Usa nel caso Trump-Russiagate, oggetto (pare) dell'attenzione del Copasir.

LE REAZIONI

«Riteniamo molto utile il fatto che gravi omissioni siano state accertate, a prescindere dagli esiti del procedimento penale. È un ulteriore fondamento probatorio per la causa civile al Tribunale civile di Roma, la cui prossima udienza è fissata al 24 maggio», commenta Consuelo Locati, legale dei familiari della Bergamasca che hanno chiesto un risarcimento allo Stato italiano e alla Lombardia. Ci sono responsabilità squisitamente politiche? Ce lo dirà la costituenda commissione d'inchiesta sulla pandemia, osteggiata da Pd e M5s e che potrebbe essere assegnata a Azione-Italia viva.

Covid, la maggioranza annuncia una Commissione d’inchiesta azzoppata. di Salvatore Toscano su L'Indipendente il 20 gennaio 2023.

È stata ufficialmente richiesta l’iscrizione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Covid all’ufficio di presidenza della XII Commissione Affari Sociali della Camera. A riportarlo è il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che ha poi aggiunto: «la calendarizzazione del disegno di legge avverrà la prossima settimana. Poi si passerà al Senato». L’obiettivo è di rendere operativa la Commissione «entro questa primavera per fare luce su cosa è accaduto tra il 2020 e il 2022». Luce accompagnata da diversi coni d’ombra. Il perimetro d’azione appare infatti circoscritto a questioni quali «l’assenza di un piano pandemico, i verbali secretati, la carenza dei dispositivi di protezione, la gestione delle mascherine e le cure domiciliari negate», come dichiarato da Bignami. Escluse, dunque, le indagini relative a obblighi e contratti vaccinali, agli effetti sociali e sanitari delle limitazioni e del green pass o alla scelta di monitorare gli eventi avversi esclusivamente attraverso la sorveglianza passiva.

Accoglienza dal doppio volto per la Commissione d’inchiesta sul Covid. Esulta il Terzo Polo, a cui probabilmente andrà la presidenza dell’organo. A settembre scorso, il co-leader Matteo Renzi aveva auspicato l’istituzione di una Commissione sulla gestione della pandemia, intorno alla quale «sono girati tanti soldi pubblici». A mettere le mani avanti è invece il Partito democratico. Secondo la deputata Ilaria Malavasi, ci sarebbe «la volontà politica di andare a colpevolizzare i governi precedenti, che hanno comunque gestito bene la pandemia». Preoccupati anche i virologi più esposti negli ultimi anni, che vedono nelle indagini il germe di un possibile “processo politico”.

Con i lavori dell’organo che dovrebbero iniziare nei prossimi mesi, Fratelli d’Italia mantiene – almeno in parte – una promessa fatta in campagna elettorale. Il partito guidato da Giorgia Meloni aveva infatti inserito all’interno del proprio programma “l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sulla gestione medica ed economica della pandemia da Covid-19 nonché sulle reazioni avverse da vaccino”. Per raccogliere informazioni su queste ultime, le autorità sanitarie italiane hanno puntato su un sistema di farmacovigilanza passiva, basato dunque sulle segnalazioni spontanee di coloro che assumono il farmaco. Da quanto si apprende, tale scelta non sarà oggetto di dibattito da parte della Commissione.

Il sistema di farmacovigilanza attiva, chiesto più volte da cittadini e associazioni, prevede invece un monitoraggio diretto e a intervalli precisi di tempo. Le persone che ricorrono al medicinale devono attenersi a una scaletta di appuntamenti e di controlli per verificare l’insorgenza di sintomi ed eventi avversi. Le visite possono giungere anche a 10 anni di distanza, per la valutazione degli effetti a lungo termine di uno specifico medicinale. [di Salvatore Toscano]

COVID E BUGIE DI STATO. Ivano Tolettini su L’Identità il 19 Gennaio 2023

Una premessa di metodo: la mia non è una polemica no vax. Mi muovo nell’ambito della conoscenza clinica. Io non ho la ragione dalla mia, ma ci sono tanti punti di domanda scientifici irrisolti su cui si deve ragionare. Molti non hanno raccontato la verità. Diciamo no a un sistema che ci vuole genuflessi e sempre pronti a obbedire a qualsiasi diktat. Nel nome dell’emergenza si è diffuso il verbo, nell’aprile 2021, che i medici e il personale sanitario dovevano essere disposti a fare di tutto. Altrimenti erano eliminati civilmente perdendo il lavoro e la dignità se dicevano no con motivazioni etico-scientifiche. Si è voluto avere una valvola di sfogo per carenze strutturali della sanità che stava collassando, indicando i colpevoli nei sanitari non vaccinato. In realtà c’erano stati tagli di posti letto, di finanziamenti, chiusure di ospedali periferici, carenza di personale con 30 mila medici andati via negli ultimi anni e altri 40 mila che se ne andranno nei prossimi”. Il medico vicentino Dario Giacomini, 46 anni, è il fondatore dell’Associazione ContiamoCi! alla quale finora si sono iscritte 5 mila persone versando 50 euro a testa, con un bacino valutato in oltre 50 mila simpatizzanti. I numeri stanno rapidamente crescendo. Egli è tra i medici che furono sospesi quando il green pass divenne obbligatorio. Da direttore della radiologia dell’Ovest Vicentino, coordinatore di un centinaio di persone fino alla primavera 2021, adesso è stato “esiliato” all’ospedale di Noventa Vicentina.

Dottore, ma eravamo in guerra contro il covid-19.

Allora l’emergenza può giustificare tutto in una democrazia? Il governo doveva dirlo con trasparenza. Io posso anche decidere di sacrificarmi per la collettività, ma poi non mi basta la pacca sulla spalla. Io credo nel dialogo, in un confronto civile con le istituzioni e la politica, ragionando sui fatti scientifici, senza pregiudizi e posizioni precostituite, senza per forza iscriversi alla dicotomia si vax- no vax cui non credo. Al di là che faccia bene o male il farmaco.

Lei parla di dialogo con le istituzioni.

La mia è una resistenza basata sul dialogo, sul confronto con le istituzioni, sul ragionamento. Al di là dell’efficacia del vaccino-farmaco e degli eventi avversi. Del resto, c’è scritto sul bugiardino che questi ci possono essere. Una volta che si somministra il farmaco a decine di milioni di persone in Italia, e miliardi in tutto il mondo, le conseguenze potenzialmente nocive per alcune fasce di persone sono inevitabili. Non c’è niente di male ad ammettere che un farmaco ha molti lati positivi, ma anche altri di negativi. Stiamo usando una terapia nuova. Nei fatti abbiamo fatto un trial clinico su miliardi di persone.

La questione, dunque, è riconoscerli questi avventi avversi.

Il problema è proprio questo, perché altrimenti molte persone perdono fiducia nel medico e nella medicina, nel sistema sanitario e nello Stato che si è accollato un rischio. Ancora adesso il cittadino vaccinato ha difficoltà a far riconoscere la correlazione dell’evento avverso dopo i primi 15 giorni . Certo, con i fenomeni avversi dobbiamo andare coi piedi di piombo. Dire che una patologia in senso assoluto è correlata al vaccino non è semplice. Non abbiamo studi. Fa sorgere sospetti il fatto che Pfizer il gruppo di controllo che aveva l’ha sciolto. Certo, pericarditi e miocarditi sono in aumento, ma sostenere che è colpa del vaccino comporta cautela.

Ma se tu consigli una terapia e non ti assumi la responsabilità di eventuali conseguenze negative…

Esatto, compresa quella dei risarcimenti. Se io cado qualcuno deve rispondere. È il tema, poi è da vedere quali sono i contratti con l’azienda farmaceutica. Li ricordiamo tutti i pastrocchi fatti. Bisognerebbe capire se qualcuno ci ha mangiato sopra o ci ha fatto delle carriere. Lo Stato non ha fatto da padre perché non si è assunto la responsabilità della decisione. In fondo eravamo di fronte a una terapia nuova..

Perché è successo?

Per i grossi interessi economici in ballo. Ma tutto è segretato. Chi ha messo in dubbio il sistema è stato perseguitato. E non solo.

Cioè?

Si è sostenuta una valenza morale. Chi si è inoculato era degno di fare il medico. Chi non lo ha fatto era un parassita egoista, antiscientista. Ma quando mai?

Coronavirus. "Speranza ha mentito sul Covid. La sinistra? Non vuole la verità". Il viceministro Galeazzo Bignami: "Piano pandemico, commesse sospette e carte secretate, la commissione d'inchiesta farà chiarezza". Andrea Indini il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

E’ ormai questione di giorni. Al massimo un paio di settimane e poi alla Camera partirà l'iter per l'istituzione della commissione di inchiesta sulla gestione della pandemia. L'obiettivo è mettere sotto la lente d'ingrandimento tutti gli errori, le omissioni e le mancanze. Niente sconti. «Bisogna andare fino in fondo», assicura il viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami, tra i primi a chiedere un'indagine sul disastroso triennio Covid. Disastri che portano soprattutto il colore giallorosso.

Viceministro Bignami, sarà una delle tante commissioni o arriveremo a qualcosa?

«Non scherziamo. L'obiettivo è fare chiarezza su tutto: dall'assenza del piano pandemico ai verbali secretati, dalla carenza dei dispositivi alle mascherine di Arcuri. Ma non dimenticheremo quel che è successo in Val Seriana, coi militari dispiegati e poi ritirati. E le cure domiciliari negate. L'azione della Commissione deve riguardare tutto, sennò non ha senso partire».

Uno dei punti da chiarire è sicuramente il piano pandemico: cosa andò storto all'inizio del 2020?

«Direi tutto. Il Piano pandemico funziona come un sistema antincendio. Non spegne il focolaio, ma ti fa guadagnare tempo per metterti in sicurezza. Il nostro era vecchio, non aggiornato. Ma nonostante ciò, se fosse stato attivato, avrebbe aiutato. Invece si è deciso di non farlo e di crearne in corsa uno nuovo. Ma ormai era troppo tardi e l'Italia ha pagato un caro prezzo».

A proposito di piano pandemico chi avrebbe dovuto tutelare e non lo ha fatto?

«Il ministero della Salute. Dal 2014 al 2020 tutti i ministri hanno mancato di aggiornare il Piano. Non solo. Dal ministero addirittura rassicuravano l'Unione europea che il nostro sistema di preparazione e risposta ad eventuali eventi pandemici era pronto ed efficace. Mentivano, sapendo di mentire».

Nei primi mesi del 2020 il governo studiò anche un piano Covid che, però, non arrivò mai alle regioni. Perché?

«Perché era troppo tardi. Il Cts decise di elaborare un nuovo piano anti virus il 13 febbraio, negando l'utilità del Piano del 2006 credo perché questo avrebbe significato per molti dei suoi componenti ammettere che avevano abbandonato negli anni uno strumento necessario. Il nuovo Piano fu presentato a inizio marzo, ma il virus ormai era dilagato e l'Italia fu messa in lockdown come misura di cieca disperazione, per usare le parole di quell'esperto di Ricciardi».

La commissione punterà anche a far luce sulle commesse firmate in quei primi mesi di pandemia. Cosa non torna?

«Vi cito un episodio. Il 12 febbraio 2020 Ruocco, segretario generale del ministero, riferisce che non c'erano dispositivi sanitari. Ma il 15 febbraio il governo Conte-Speranza dispone l'invio di 5 tonnellate di materiale sanitario in Cina. Perché se non avevamo dispositivi li mandiamo in Cina? Perché immediatamente dopo attiviamo forme di acquisto straordinarie, di fatto senza alcun controllo, spendendo miliardi? Conveniva a qualcuno?».

A proposito di 5 Stelle e Pd, perché sono contrari a far luce su quanto accaduto?

«Le sinistre hanno una idiosincrasia nei confronti della verità. In questo caso sanno bene che la gestione di Pd e M5S fu una sequela di errori continui».

Faccia almeno un esempio.

«Quando dicono che non volevano seminare panico e quindi non dissero nulla sulla gravità della situazione: questo è esattamente il contrario di quel che prevedono i Regolamenti Sanitari Internazionali che dicono che la prima cosa da fare è informare la popolazione per creare comportamenti adeguati e responsabili. Ma di esempi ne potrei fare molti, purtroppo».

Fino a che punto si spingerà a indagare la commissione?

«Fino in fondo. Per questo non intendiamo assegnare un periodo di indagine definito. La precedente proposta di commissione di inchiesta era una farsa. Diceva che bisognava indagare su quello che era successo fino al 30 gennaio 2020 ed in Cina».

E voi invece?

«Noi invece intendiamo indagare anche su quello che sta accadendo in queste ore, in cui ancora ci sono soggetti che operano nel solco degli errori compiuti, per proteggere sè stessi a danno degli italiani».

"Italia impreparata sulla pandemia. Ecco le bugie di Conte e Speranza". Parla l'esperto che ha fornito ai pm di Bergamo le prove che inguaiano l'ex premier: "Siamo senza un piano pandemico". Felice Manti l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Mentre Fratelli d'Italia lavora all'istituzione di una commissione d'inchiesta sulla gestione della pandemia in Italia («dopo le feste», assicura Giovanni Donzelli) c'è grande fermento nella Procura di Bergamo, che nei prossimi giorni dovrebbe chiudere le indagini per omicidio colposo e epidemia colposa legata alla mancata zona rossa nella Bergamasca e alla mancata applicazione del Piano pandemico da parte del governo di Giuseppe Conte, nel mirino dei pm assieme a ministero della Sanità, Cts e amministratori lombardi. Un'indagine nata grazie alle scoperte di Robert Lingard, già consulente dei familiari delle vittime della Bergamasca, forte del suo background in Analisi delle politiche pubbliche presso la London School of Economics e l'Università di Oxford. È lui la fonte aperta che ha raccontato a giornali e tv nazionali e internazionali i retroscena della mancata preparedness italiana. È lui ad aver trovato il report dell'ex Oms Francesco Zambon, testata d'angolo dell'inchiesta; è lui ad aver ritrovato le farlocche autovalutazioni all'Oms ed alla Ue, che oggi considera l'Italia il cluster d'Europa; è lui ad aver scovato i verbali Ue del gennaio 2020 che inchiodano l'ex ministro della Salute Roberto Speranza sui tamponi ai cinesi. «Questi documenti hanno dimostrato la negligenza delle istituzioni italiane e l'impatto che le loro bugie hanno avuto sulla sicurezza nazionale dei partner europei. Secondo un recente rapporto Ue, il Covid-19 è una cosiddetta minaccia Cbrn (chimico-batteriologica-radiologica-nucleare, ndr). Dal 2017 esiste un piano d'azione Ue , la Commissione Ue richiedeva espressamente esercizi di simulazione come durante una pandemia, seminari sul regolamento sanitario internazionale e best practises sullo screening in entrata e in uscita dai confini dei Paesi membri. Nel 2018 l'Italia era il peggiore Paese dopo il Belgio, i Paesi con la mortalità peggiore durante la prima ondata...».

Insomma, non eravamo preparati

«Nel Regno Unito le pandemie rientravano tra le minacce piú incombenti già nel 2010. Nei rapporti al Parlamento italiano la pandemia come minaccia non compare fino al 2020».

Abbiamo comprato tardi e male dispositivi di protezione, respiratori e mascherine, in molti casi farlocche. Si poteva fare diversamente?

«Nel rapporto Ue sulla preparazione alle minacce Cbnr venivano evidenziate come criticità dell'Italia l'inadeguato stoccaggio di dispositivi di protezione individuale, persino di quelli a tutela degli operatori di primo soccorso, e l'assenza di un modello strategico di partnership con l'industria privata per la produzione nazionale di mascherine».

Possibile che la nostra intelligence non avesse capito nulla?

«Questo dovrebbe chiederlo a Conte. Dubito che l'Aise non abbia fornito una valutazione accurata di quello che stava accadendo in Cina e che l'Aisi abbia sopravvalutato la preparedness italiana. È più probabile che qualcuno abbia preferito fare orecchie da mercante. Non a caso il Consiglio di Stato ha posto il veto militare sui documenti richiesti da Agi sulla mancata chiusura della Val Seriana».

Il Covid torna a serpeggiare in Cina, il governo ha predisposto misure stringenti. Il piano pandemico di Speranza è operativo?

«Assolutamente no. Secondo il piano pandemico 2021-2023 la deadline per l'approvvigionamento di Dpi, medicinali e dispositivi medici essenziali è fissata al 2024. Lo stesso vale per il piano di comunicazione del rischio e la realizzazione del sistema di allerta rapida per la comunicazione dei dati. Ad oggi non è ancora stato ratificato il regolamento sanitario internazionale del 2005. Se questa è l'eredità di Speranza...».

A giorni si chiuderà l'inchiesta di Bergamo...

«Per ora è servita a chi ha usato il Covid per entrare in politica. Qualcuno ci è riuscito, qualcun altro no».

La perizia del neo senatore Pd Andrea Crisanti rischia di inguaiare Conte e Speranza...

«L'improvvida candidatura di Crisanti e di tutti quelli direttamente coinvolti con l'inchiesta hanno reso strumentalizzabile il grande impegno profuso nelle indagini dalla Procura e dalla Guardia di Finanza».

Il Pd dice che è solo colpa del governatore lombardo Attilio Fontana...

«Qualcuno aspetta l'ennesima inchiesta per raccattare due voti . Dopo il Qatargate è meglio che il Pd lombardo guardi i suoi panni sporchi».

La Ricorrenza.

Milano.

Bergamo.

La Disorganizzazione.

La Ricorrenza.

Coronavirus. Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.

Bollettino del Ministero della Salute riferito al 16 marzo 2020. Infettati 27980: Positivi 23073 (in attesa di evoluzione della malattia); Deceduti 2158; Guariti 2749.

Ad occhio sembra che il Rapporto decessi-guariti è quasi alla pari. Ergo: una metà degli infettati muore, l'altra guarisce.

Antonio Giangrande: Morire di Fame o di Virus? A proposito di arresti domiciliari. L'Italia non è tutta Milano e come tale non deve essere trattata. Perchè nei privilegi siamo diversi e nella disgrazia siamo uguali? Perchè non alleviare il peso di un'emergenza con raziocinio? Siamo reclusi in casa e liberi di muoverci in quell'ambiente chiuso per difenderci dal contagio. Se la nostra casa è immune in quanto nessuno esce e nessuno entra, perchè non considerare alla stessa stregua un luogo indenne ed incontaminato la casa allargata? Casa allargata come fortino inespugnabile può essere considerato il condominio, o il borgo isolato, o il quartiere, o il paese: nessuno entra; nessuno esce. Ma all'interno si è liberi di muoverci e lavorare.

Antonio Giangrande: I pregiudizi territoriali ed economici.

Mio nonno contadino ed analfabeta diceva: “Son ricchi. Hanno rubato. Io lavoro tutto il giorno e non divento ricco”. Ergo i ricchi sono ladri. La verità è che non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali.

Mia zia emigrata al nord diceva: qua non è come "da voi", è meglio qua, tutta un'altra cosa. La verità è questa: è emigrata perchè non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali. Per rivalsa è diventata rinnegata. La verità dei rinnegati è che, appunto per invidia, rinnegano le loro origini. Non sanno che sono condannati al limbo: saranno sempre terroni per i corona polentoni e corona polentoni per i terroni.

I Settentrionali puri conosciuti al Nord hanno sempre dei pregiudizi sui Meridionali: siamo tutti pregiudicati (da pregiudizio). Ergo: pregiudicati uguale a delinquente ed essendo del Sud siamo tutti delinquenti mafiosi. La verità è che sono ignoranti, resi tali dai media prezzolati dalla Finanza del Nord, e sono in malafede perchè vogliono le risorse finanziare pubbliche tutte per loro e lo sfruttamento delle risorse umane meridionali per i loro fini. E' l'invidia di non avere il mare, il sole e di non essere gente del sud solidale e con la luce nel cuore.

Quindi se per i comunisti e per i settentrionali siamo mafiosi, noi meridionali non abbiamo diritto a gestire le nostre risorse se non dimostriamo di non essere mafiosi.

In Italia l’onere della prova è ribaltata: i ricchi ed i meridionali devono dimostrare di essere onesti, mentre gli accusatori non devono dimostrare di essere bugiardi e razzisti.

Antonio Giangrande: Il Fallimento della Sanità Lombarda. Gli altezzosi, arroganti e presuntuosi padani ed i loro media amici non possono nascondere la verità. Un sistema di sanità privata promossa e pubblicizzata come "Eccellenza" dalla padana Mediaset, ma toccato da scandali e finanziato dalle Regioni meridionali per pagare i servizi resi ai loro malati con la valigia. Quei meridionali illusi che al nord Italia vi sia un'eccellenza che al Sud manca. Ma oggi con l'emergenza della pandemia si notano tutti i limiti di una menzogna. E' un ecatombe addebitabile, sì, al Coronavirus, ma causata da inefficienze strutturali. Basti pensare che le prime vittime ed i primi carnefici sono stati proprio gli operatori sanitari.

Antonio Giangrande: Il Reato di Passeggiata. Italia criminale: stai a casa immobile o ti arrestiamo. Controlli e sanzioni penali a decine di migliaia di trasgressori. Furti, omicidi ed altri efferati delitti? Sono ormai reati di second'ordine e di cui nessun Media ne parla. Nell'Italia della mafiosità è vietata la libertà di mobilità. Come se fosse l'aria a diffondere il virus. Invece sono gli uomini ad infettare. Anzi, è la stupidità del genere umano a contagiare fisico ed intelletto. I media allarmistici ed i manettari pronti ad additare i fuorvianti. I panzoni poltronari e pantofolai pronti ad accusare gli atleti. La soluzione? Basta poco, che ci vuole. Basterebbe che lo Stato garantisse la distribuzione dei dispositivi di protezione individuale (guanti, mascherine, occhiali, tute, cuffie) dai contatti di prossimità. Ma se lo Stato non riesce a fornire tali strumenti ai sanitari ed a proteggere chi sta in prima linea, trasformandoli nei principali untori, ovvio che si metta ai domiciliari un intero popolo di pavidi.

La domanda allora è: E' necessità, giustizialismo o incapacità?

Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Galli (Sacco) contro Ascierto (Pascale): “Non avete scoperto nulla, protocollo testato prima al nord”. Delle due l’una:

o hanno nascosto la sperimentazione ufficiosa della cura non condividendo i risultati al resto d’Italia;

o sono dei bugiardi patentati, oltre che essere egoisti, invidiosi e razzisti.

Antonio Giangrande: Misure stringenti anticovid ad Avetrana. Siamo già in zona rossa e, quindi, sono state dette delle banalità. Le norme enunciate come più stringenti, sono già in vigore come regole nazionali, sempre che tali norme si conoscano, si rispettino e si facciano rispettare. Lo stesso sindaco, poi risultato positivo al Covid, aveva esortato la cittadinanza a rispettare tali norme con un video pubblicato l’11 aprile 2021. Probabilmente lassù, nello stesso municipio, tali norme non erano osservate, se è vero, come è vero, che i locali sono stati sanificati per tre giorni. Come si dice: il pesce puzza dalla testa.

Antonio Giangrande: Coronavirus: idiozia ed invidia vs capacità. Mediaset ed il sistema padano non possono nascondere i meriti mondiali dei professori meridionali Ascierto, Gambotto, Ranieri. rispettivamente: Cura, vaccino e tecnica salvavita. Il razzismo territoriale dei padani contro la competenza dei meridionali. Ci chiamano Terroni, potremmo chiamarli Corona, ma li apostrofiamo semplicemente: Coglioni.

Antonio Giangrande: Settentrionali vs Meridionali. La parafrasi di un atteggiamento razzista da una parte e coglionista dall'altra.

Ogni volta che aprono bocca i padani non parlano mai (o solo) dei cazzi loro.

Su ogni argomento stanno sempre lì a comparare loro ai meridionali.

Riguardo al tema del Coronavirus.

Il Nord untore ha prima infettato il Sud e poi l'ha rinchiuso in casa da sano, affamandolo.

Il Nord ha dato prova di inefficienza ed incompetenza. Ciononostante, stanno lì a chiedersi ed a trovare il cavillo calunnioso sul perchè il Sud non deborda di morti, stante, secondo loro, l'arretratezza della sanità e della società meridionale, restia a rispettare le norme di contenimento.

La litania dei "Corona" settentrionali con la moglie cozza: Quanta è bella mia moglie; ma quanta è brutta la loro.

La risposta dei "Terroni" meridionali con la moglie bella ed affascinante: Quanta è brutta mia moglie; è più bella la loro.

Non riesco a trovare nessun settentrionale che riveli la realtà dei fatti e parli male della Padania. Che dica: che racchia di femmina!

Si riscontra solo: quanto è bella, progredita, onesta, ricca che paga le tasse.

Non riesco a trovare alcun meridionale che metta in evidenza i difetti e le mancanze del Nord ed indichi le eccellenze del Sud e che, nel paragone dica: che bonazza di femmina!

Si riscontra solo: quanto è brutta, arretrata, mafiosa, povera ed evasora fiscale.

Non so chi mandare a fanculo: i razzisti o i coglioni!!

Antonio Giangrande: Bonus Spesa: l'umiliazione della domanda e l'umiliazione della spesa e la rinuncia per dignità ed orgoglio. Ne approfitteranno i soliti furbi, spendendoli in futilità, e chi ne chiederà conto politico. Se tutti, oggi, sono in emergenza, perché non distribuiscono i pacchi spesa casa per casa, salvo rifiuto? Consegna a domicilio del fabbisogno alimentare a carico degli esercizi commerciali convenzionati con l'amministrazione comunale.

Antonio Giangrande: In che mani stiamo. Un Governo che non è stato votato dal Popolo, si impegna a non rappresentarlo. Questo Governo non decide, ma per pararsi il culo per le stragi, si tiene buoni scienziati, pubblici ministeri e giornalisti. A loro fa decidere sulla carcerazione domiciliare dei cittadini e sulla scarcerazione dei detenuti. Ed ai giornalisti ha dato l'incarico di vigilanza sulle fake news (sic).

Antonio Giangrande: A proposito di Coronavirus.

Il parere del sociologo storico e scrittore, dr Antonio Giangrande.

Sul Coronavirus ho scritto “Coglionavirus”, un saggio in più parti di centinaia di pagine con fonti autorevoli ed attendibili.

Il saggio scritto a futura memoria e inteso a dimostrare come l’incapacità ed inaffidabilità del passato possa affrontare un problema nel presente, e l’incompetenza, poi, ritrovarcela nel futuro.

Perché in Italia nemmeno i disastri o le rivoluzioni cambiano le cose.

Il sunto del mio saggio sono verità che dai media prezzolati e politicizzati non sentirete mai.

Il Virus italiano non è cinese: nessun cinese o comunità razziale o etnica diversa da quella italiana, stanziata nel Bel paese, è stata origine di focolaio o di paziente zero.

Il Virus italiano non è tedesco, come qualcuno a ripicca del diniego degli euro aiuti vuole far credere. Nessun focolaio tedesco è stato acceso in Germania, così come in Italia.

Il Virus italiano è padano, per la precisione è lombardo: perché lì vi è stato il paziente uno. Lì vi è stato il focolaio principale che ha causato decine di migliaia di morti. Tanti contati, altri non conosciuti. Quel Focolaio ha dato vita alla pandemia in Italia ed all’estero. Perché gli italiani dove vai vai, lì ne trovi sempre qualcuno, chi per vacanza, chi per lavoro.

Il Virus italiano è simile, non uguale, a quello cinese ed ama umidità ed inquinamento. Attraverso le particelle dello smog o le goccioline della nebbia si trasporta per vari metri e per lungo tempo.

Il fattore principale di propagazione in tutta Italia è stata la partita a Milano tra l’Atalanta ed il Valencia, con quarantamila bergamaschi in trasferta, originari del focolaio principale. Così come è stato strumento di propagazione ogni partita che l’Atalanta ha giocato a porte aperte fuori casa, compresa quella col Lecce, in Puglia.

Per il resto si è permesso di infettare il Sud Italia, al momento immune, per alleggerire il carico sulla sanità padana. Qualche coglione padano, cosiddetto giornalista, si rallegrava del fatto che ora sì, siam diventati tutti “Fratelli d’Italia”!

Oltretutto, e non lo dicono, oltre alla mascherina omologata ci vuole l’occhiale che protegge gli occhi. Perchè se è vero, come è vero, che il virus viaggia nell’aria, può entrare da ogni pertugio del corpo umano.

La Sanità Lombarda, prima, e quella nazionale, poi, ha mostrato tutti i suoi limiti, essendo gli operatori sanitari i principali untori della pandemia. Si andava per cure e si usciva infettati.

Gli operatori sanitari, qualcuno vero eroe, altri meno, tra cui coloro che hanno preso decisioni scellerate o i disertori dalla malattia facile, hanno pensato bene di proporre la loro immunità penale, facendo leva sull’indignazione e cavalcando l’onda del momento a loro favore.

Il sistema lombardo centrico non ha avuto remore, in tempo di crisi, a privare la sanità meridionale dei macchinari salva vita per devolverli agli ospedali del nord, requisendo i respiratori già consegnati in Calabria ed in Puglia.

L’eccellenza riconosciuta all’estero, ma come al solito denigrata in Italia, è stata quella dell’ospedale napoletano: il Cutugno per mezzo del prof. Ascierto, che ha scoperto la cura testata su tanti pazienti già guariti.

I media prezzolati e politicizzati, poi, con i soliti ciarlatani, hanno allarmato il popolo per prepararlo al peggio, con decisioni risibili.

Il popolo italiano, inoltre, ha combattuto la guerra come è usuale farlo: fuggendo.

Chi di dovere, anziché relegare pochi migliaia di malati ed il proprio nucleo familiare in strutture protette, ha rinchiuso 60 milioni di sani, privandoli di libertà e ricchezza, senza soluzione di continuità e senza barlume di speranza. Non li ha rinchiusi tutti, però. Nel contempo hanno permesso a chi, infettato, era autorizzato a girare per le città su autobus e metrò, e così a continuare a contagiare ed a diffondere l’epidemia.

Bastava poco ad arginare l’emergenza. Tamponare o analizzare il sangue a tutti, o perlomeno, uno per nucleo familiare, considerato che dove lo è uno lo sono tutti quelli a lui vicino. Di conseguenza monitorare i suoi spostamenti, passati, presenti e futuri, con gli strumenti tecnologici.

Invece se coglioni eravamo prima del disastro, lo siamo durante o lo resteremo in futuro.

Per provare quello che dico, basta fare mente locale su quello che si è detto e fatto durante tutto questo periodo: il tutto ed il contrario di tutto. E nulla si sa del futuro.

Antonio Socci cinguetta: "Siccome non erano capaci di procurare le mascherine, ci dicevano che non servivano alla gente comune. Di questa splendida informazione sanitaria firmata dal governo chi risponde?"

Maria Giovanna Maglie punta il dito contro il secondo presunto fronte della menzogna, quello relativo ai tamponi. "E siccome non hanno tamponi ci dicono che i test agli asintomatici non servono. Quante bugie di Stato! Qualcuno pagherà?”

Qualcuno dice che tutto questo ci cambierà: sì, in peggio.

Dr Antonio Giangrande

Antonio Giangrande: La lezione degli Albanesi ai Lombardo-Veneti.

E’ atterrato all'aeroporto Valerio Catullo di Verona, riaperto in via straordinaria per l'occasione, il volo con a bordo il team, arrivato ieri a Fiumicino, composto da 10 medici e 20 infermieri provenienti dall'Albania per aiutare gli ospedali di Bergamo e Brescia, tra le zone più colpite dalla pandemia.

"È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere e anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri, ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all'Italia che gli albanesi e l'Albania non abbandonano mai l'amico in difficoltà". Ha detto il Premier Albanese.

Matteo Salvini e la coerenza, un rapporto complicato. Il leader della Lega, come tanti colleghi politici, ha ringraziato il gesto di solidarietà del premier albanese Edi Rama, che ha inviato 30 medici e infermieri in Lombardia per aiutare la sanità nostrana a fronteggiare l’epidemia di Covid-19. Bisogna andare indietro di qualche anno, è il 24 giugno del 2014, per leggere sempre sui social dell’ex ministro parole al vetriolo contro la stessa Albania. “Alla faccia della storia, dell’economia, del passato e del futuro – è il commento del leader del Carroccio, all’epoca europarlamentare – No all’Europa Supermercato”.

"Qualche giorno fa è uscita una lettera dei primari di rianimazione della Regione Lombardia, che accusavano la mancanza di solidarietà delle vicine Regioni, e credo si riferissero al Veneto, perché non avevano messo a disposizione personale medico e infermieristico fondamentale nel momento in cui qui avevamo il picco e non riuscivamo più a gestire le terapie intensive e il personale che veniva ricoverato. Mi sono chiesto, leggendo questa lettera, se esiste il Servizio sanitario nazionale, visto che ogni Regione cerca di chiudersi al proprio interno". Lo ha detto il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, ospite di "Che tempo che fa" il 29 marzo 2020.

«L'impresa veneta ha un Pil di 150 miliardi di euro: se crolla il Pil del Veneto crolla l'Italia». Lo ribadisce il governatore del Veneto, Luca Zaia, impegnato da questa mattina, 28 febbraio, nella sede della Protezione civile regionale a Marghera per fare il punto sulla situazione sanitaria in Veneto in merito alla diffusione del coronavirus. «In Veneto il turismo è letteralmente in ginocchio - dice Zaia -. Un comparto che, con 18 miliardi di fatturato, a livello nazionale rappresenta la più grande industria turistica in Italia. A questo settore si aggiunge la grande difficoltà che stanno vivendo le nostre 600mila partite Iva».

A questo punto ci vorrebbe un pernacchia. Ma mi esimo, ricordando la storia.

Il Veneto da prima dell'annessione al regno d'Italia era una terra con una forte tradizione migratoria soprattutto nelle zone pedemontane. Inizialmente il fenomeno fu di carattere perlopiù temporaneo o stagionale, diretto in particolare verso la Germania, l'Austria e l'Ungheria. Si emigrava soprattutto dalle zone montane, in particolare dalle province di Vicenza, Treviso e Belluno. Dopo l'Unità d'Italia, anche il Veneto subì una profonda crisi economica, la quale diede inizio alla grande emigrazione.

E dire che in momenti di estrema necessità, a mangiare i topi – e qualsiasi altro essere vivente commestibile – siamo stati anche noi italiani. E in particolare, proprio i veneti. Per ironia della sorte, era stato lo stesso Zaia a ricordarlo nel 2018 con un post su Facebook. «Topi messi ad essiccare a Belluno durante “l’an de la fam“, l’anno della fame. Questa straordinaria immagine è esposta, insieme a moltissime altre, nella straordinaria mostra documentaria, iconografica e multimediale su Belluno durante la Prima guerra mondiale appena inaugurata a Palazzo Crepadona».

Antonio Giangrande: Coronavirus: rinchiudono i sani per difenderli dai malati. La logica vorrebbe: relegare gli infettati in quarantena. Come? Individuarli col tampone a tappeto. Il costo sarebbe inferiore rispetto al blocco dell'economia. Ci hanno sottoposto alla cultura del sospetto. Diffidiamo, addirittura, dei nostri affetti. Ristretti ai domiciliari perdiamo gli ultimi momenti importanti con i nostri vecchi e i primi dei nostri giovani.

Perché il Coronavirus ha colpito in modo massiccio la Padania? Polveri sottili, nebbia e correnti d’aria, sono le zattere di permanenza e strumenti di proliferazione del contagio. Il virus si posa sulle goccioline e sulle polveri, galleggiando nel tempo e spostandosi nello spazio. Potrebbe non essere l’uomo il veicolo di diffusione, ma l’aria. E l’aria entra dappertutto.

L’inutile e dannosa autocertificazione. Sarà la quarta e ultima autocertificazione? Se consideriamo chi doveva entrare e uscire dalle prime zone rosse, senza contare il provvedimento dell’8 marzo scorso.

Stanno lì solo per fotterci. In una situazione di merda non poteva capitarci gente peggiore e giustizialista.

In un paese civile uno Stato avrebbe fiducia nei suoi cittadini che lo mantiene con le tasse, tributi e contributi.

Invece lo Stato che fa? Anziché aiutare il cittadino in difficoltà pensa solo a fotterlo.

Se uno ha necessità di uscire dal carcere dove è stato recluso senza condanna, gli si chiede oralmente qual è il motivo. Il cittadino si giustifica oralmente e finisce lì. Invece lo Stato burocrate considera tutti i suoi civici come incalliti spergiuri da perseguire. Senza alcuna distinzione e monca di difesa. La Sanzione da penale, poi, l’hanno resa amministrativa: per far pronta cassa.

Intanto i media asserviti creano tensione, ansia e stress parlando di assembramenti che non esistono. Si creano untori e delatori. Creano odio tra la gente. A morte il Runner! Le Istituzioni che non ringrazio per la situazione che hanno creato si vantano delle sanzioni elevate e dei controlli effettuati.

E’ corretto, è sacrosanto controllare e monitorare. Ma perché sempre a onerare chi è già soggetto ad una tensione psicologica? Perché lo Stato è forte con i deboli e debole con i forti? Perché stiamo pagando la sottovalutazione di un fenomeno? Perché non si sono svegliati prima nel chiedere di rompere il tabù dei tamponi che sono limitati e possono essere fatti solo dall’Istituto superiore di sanità e non nei laboratori disponibili? Perché gli asintomatici non sono stati considerati e non lo sono tutt’ora per il ministero un fenomeno scientificamente “pericoloso” per la diffusione del virus?

Noi ci autocertificheremo ancora, lo Stato si è già da solo autocertificato assente e deficiente (inadeguato), pesante, malato morente, e ancor di più correo.

Perché lo Stato ha permesso il propagarsi dell’infezione nelle sedi che meno te lo aspetti: gli ospedali; e resi i maggiori untori: gli operatori sanitari. Perché lo Stato rinchiude i suoi cittadini in casa, ma autorizza e consente il propagarsi dell’infezione dal Nord al Sud Italia. E se qualcuno lo rinfaccia, scatta la denuncia per vilipendio come per il sindaco Cateno De Luca.

Mi preoccupa altresì un fatto addivenire: cosa farà questo Stato nel momento in cui la gente sarà costretta ad uscire di casa per la fame? Non avendo né da mangiare, né soldi per comprare: ci fucileranno seduta stante? Subire e tacere? Ma andate affanculo. Sono anch’io Cateno De Luca.

Antonio Giangrande: L'inutile quarantena. Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

Il parere del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico, che ha scritto "Coglionavirus".

Ci dicono di usare la mascherina e di rimanere reclusi in casa. Inefficace la prima, inutile la seconda.

E’ ormai noto che la trasmissione del virus avviene da una persona all’altra attraverso le vie respiratorie. “Parlando si liberano nell’aria migliaia di micro-goccioline di saliva assieme al virus a uno-due metri di distanza, ma anche a sei metri di distanza dopo uno starnuto. Queste goccioline possono rimanere sospese in aria per più di mezz’ora, contagiando altre persone”, ricorda Claudio Azzolini, ordinario di malattie dell’apparato visivo presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi dell'Insubria. Il contagio avviene quando le goccioline infette entrano in bocca o nel naso, ma avviene anche attraverso gli occhi tramite le lacrime.

Quindi è necessario non solo l'uso delle mascherine, ma anche l'utilizzo di altri dispositivi di protezione (guanti, occhiali, tute, cuffie, camici) conformi.

L'uso di questi dispositivi di protezione e l'adozione del tamponamento a tappeto, comporta l'inutilità della quarantena e la circoscrivibilità dell'epidemia.

Antonio Giangrande: Chiudono i parchi per le passeggiate e liberano i treni degli infettati...

Antonio Giangrande: Coronavirs: altro che Immunità di Gregge. Con la falsa quarantena si è permesso di infettare il Sud Italia per salvare i padani.

L’opinione del sociologo storico e scrittore Antonio Giangrande che sul tema ha scritto il saggio “Coglionavirus”.

I media prezzolati e nordisti a criticare l’immunità di gregge, per giustificare le scelte del Governo italiano.

Perché si obbliga la quarantena della reclusione in casa con relative sanzioni penali e poi si agevola la fuoriuscita criminale dalle zone rosse del settentrione degli infettati, permettendo loro la mobilità verso il sud?

Scientemente si è diffuso il contagio dell’epidemia nel sud Italia? Perché?

Il virus si può combattere in due modi: il primo è il metodo cinese e nei fatti, anche se messo in atto con ritardo ed incertezze, anche il metodo italiano. Un metodo che si basa sull’isolamento delle aree urbane, o comunque dei territori, dove la malattia imperversa, e che determina il crollo della possibilità di avere contatti sociali, limitando in questo modo la circolazione della malattia.

Esiste poi un secondo metodo che è sicuramente meno “prudente” ma in presenza di determinate condizioni potrebbe essere più efficace delle quarantene. Il secondo metodo consiste nel far circolare liberamente il virus, far si che infetti rapidamente gran parte della popolazione ed raggiungere, dopo circa 3/4 mesi La cosiddetta immunità di gregge.

Un termine importante è la Curva appiattita. Questa è un qualcosa di non concreto, ma importante. Si tratta di spalmare il numero di contagi più in là nel tempo grazie ai vari interventi fatti. Se si lasciasse proseguire il contagio libero, quest’ultimo presenterebbe un picco molto più grande, ma in poco tempo. Il problema di lasciarlo libero è che si crea una pressione eccessiva sul sistema sanitario e altri collegati. Si diluisce il contagio per favorire il suo decorso. Moltissimi contagiati, in pochissimo tempo e, anche se la letalità fosse bassissima, le vittime potrebbero essere tantissime (su grandi numeri, anche una piccola percentuale è in ogni caso numerosa).

Questo, a prescindere dalla gravità dei sintomi della malattia, oltre a fare vittime, sovraccarica le strutture sanitarie. Migliaia di persone si riversano al pronto soccorso, centinaia di ricoverati, tanti in rianimazione. Serve personale, farmaci, posti letto, macchinari. Quando questo succede in sei mesi (come per l'influenza) si riesce a sopportare l'impatto (e supportare tutti), quando questo avviene in un mese potrebbe far crollare tutto. E poi diventa una reazione a catena.

Se i reparti di rianimazione fossero pieni di pazienti con polmonite da Coronavirus, non potrebbero ricevere persone in insufficienza renale, con un infarto, chi ha avuto un incidente, una donna che ha avuto un'emorragia post partum, un uomo che ha avuto un ictus con conseguente diminuzione dell'assistenza, delle cure e quindi un aumento senza precedenti della mortalità e delle complicanze, oltre che un peggioramento improvviso e pesante del livello delle cure.

L’Italia disponeva un tempo di molti più posti letto di terapia intensiva, sub intensiva e di degenza ordinaria. Poi vennero le “razionalizzazioni”, le cure dimagranti, i tagli alla sanità. Benvenuti nell’era dell’austerità.

Togliamocelo dalla testa: l'attenzione all'epidemia di coronavirus non è dovuta alla sua letalità quanto alla capacità di far «saltare» il nostro sistema sanitario. La spiegazione è nelle parole di Massimo Galli, primario infettivologo dell'Ospedale Sacco di Milano, in un'intervista rilasciata a Corriere della Sera il 23 febbraio 2020: «In quarantadue anni di professione non ho mai visto un’influenza capace di stravolgere l’attività dei reparti di malattie infettive e delle rianimazioni di un’intera regione tra le meglio organizzate e preparate alle emergenze d’Italia. Nessun sistema sanitario avanzato può essere predisposto per ricoverare tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento». Alle 18 di ieri infatti, dei 2052 casi confermati, circa l'8% è in terapia intensiva e il 36% è ricoverato con sintomi. Anche se il rischio di contrarre la malattia nella popolazione, soprattutto al di fuori dei focolai, rimane basso, la diffusione del virus va rallentata per evitare che questo rischio aumenti con il conseguente collasso degli ospedali. Più persone si ammalano - e nella maggior parte dei casi il decorso è benigno - e più individui necessiteranno di ricovero.

Conclusione.

Hanno infettato il Sud per spalmare su tutta l’Italia e le relative strutture sanitarie il picco del contagio e salvare, curandoli, così, quanto più Padani. Dr Antonio Giangrande

Covid, tre anni fa il primo lockdown in Italia. Il 9 marzo 2020 il nostro Paese entrò per la prima volta in lockdown, a causa del Covid. L'ex premier Giuseppe Conte annunciò l'isolamento. Chiara Nava il 10 Marzo 2023

Il 9 marzo 2020 Giuseppe Conte ha annunciato il DPCM che poneva l’Italia intera in isolamento, dando così inizio al primo lockdown dovuto al Covid. Sono passati tre anni da quel momento, ma le immagini delle città deserte e la sensazione di paura del popolo rimangono impresse nella mente.

Covid, tre anni fa il primo lockdown in Italia

Il 9 marzo 2020 l’allora premier Giuseppe Conte ha emanato il DPCM che poneva l’Italia intera in isolamento. Sono passati tre anni dal momento in cui è iniziato il primo lockdown, che rimarrà per sempre nella storia del nostro Paese. “Non ci sarà più una zona rossa, non ci saranno più zona uno e zona due, ma un’Italia zona protetta. Saranno da evitare gli spostamenti salvo tre ragioni: comprovate questioni di lavoro, casi di necessità e motivi di salute” dichiarava Giuseppe Conte, annunciando il primo lockdown per contenere la diffusione del Covid. Nella memoria degli italiani rimarranno per sempre le immagini delle strade e delle piazze vuote. Nessuno poteva uscire di casa, se non con un’autocertificazione per motivi di lavoro, di salute o per fare la spesa. I luoghi di svago e le scuole erano chiusi e le città sembravano deserte, con i luoghi simbolo del turismo completamente svuotati. Sono rimasti aperti solo i negozi alimentari, le farmacie, i negozi di prima necessità e i servizi essenziali. Era vietato anche l’uso dei mezzi pubblici, se non con l’autocertificazione. Il silenzio ha iniziato a riempire tutte le città che eravamo abituati a vedere sempre piene di persone, di turisti, rimaste completamente deserte dopo l’annuncio del lockdown. La pandemia spaventava le persone. Era una situazione nuova e tutti temevano il peggio. A distanza di tre anni è impossibile dimenticare quella sensazione di vuoto e di paura che ha riempito l’Italia, e il mondo intero, a causa del Covid. In questi anni sono morte moltissime persone, ma ad oggi il virus non fa più paura.

La storia dei DPCM dell’era Covid

Il primo DPCM dell’era Covid è arrivato il 23 febbraio 2020, dopo l’allarme del paziente 1 a Codogno, nel Lodigiano. Dieci comuni sono diventati subito zona rossa, con scuole chiuse, iniziative sospese, negozi e musei chiusi. L’epidemia ha iniziato ad avanzare e gli ospedali lombardi erano già vicini al collasso, con i decessi che aumentavano in modo esponenziale. Il primo marzo 2020 è arrivato un nuovo DPCM, che ha trasformato Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e le province di Pesaro e Urbino e di Savona in zone rosse, con le prime raccomandazioni per il lavoro da remoto. La situazione continuava a precipitare e dopo poco è arrivato un nuovo DPCM per la chiusura delle scuole in tutta Italia.

Il 9 marzo è arrivato il DPCM che ha annunciato il primo lockdown. Tutto il Paese è stato chiuso in un’unica zona rossa, dopo l’annuncio di Giuseppe Conte in diretta televisiva. Non si poteva più uscire se non con un’autocertificazione, per motivi di salute, di lavoro o per necessità. In Italia stava tornando il coprifuoco, di cui non si sentiva parlare dalla Seconda Guerra Mondiale. La chiusura delle scuole, l’esperimento della didattica a distanza, la chiusura di bar, ristoranti, negozi, palestre, piscine, cinema, teatri, musei, discoteche e stazioni sciistiche ha completamente cambiato il Paese, portando gravi conseguenze anche dal punto di vista economico. Sono stati anche annullati i matrimoni, i battesimi, i funerali, le manifestazioni sportive, gli esami per la patente. Un provvedimento destinato a concludersi, ma che è stato prolungato diverse volte, rinnovato e poi riproposto in varie forme fino al termine dell’emergenza. Un ricordo indelebile, che rimarrà impresso nella storia dell’Italia.

Milano.

Il 6 marzo l'udienza. Il covid al Pio Albergo Trivulzio: storia di una strage inesistente. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Febbraio 2023

Non esiste un “caso Pio Albergo Trivulzio”. Il reato, epidemia colposa, è “impossibile”. E l’indagato, il Direttore generale Giuseppe Calicchio, non è certo un “untore”. Eppure questa storia non è ancora finita. Il quesito sarà posto nell’udienza del prossimo 6 marzo dalla giudice Marta Pollicino a uno stuolo di periti e consulenti medici, otto dei quali sono stati nominati dallo stesso ufficio delle indagini preliminari.

Tre anni fa, quando il contagio da covid scoppiò in tutto il mondo e la Lombardia, regione pilota per sviluppo e traffico in Italia e in Europa, fu colpita con particolare violenza, la dirigenza del Pio Albergo Trivulzio, la più grande e prestigiosa Rsa europea, si impegnò veramente al massimo per contenere il contagio e ridurre i decessi? La domanda potrebbe apparire retorica, vista la giurisprudenza ormai costante di tribunali e procure che si sono pronunciati per primi, da Trento a Messina, passando per Lodi e Modena, sull’inesistenza del nesso di causalità tra eventuali comportamenti omissivi e le morti degli anziani. E del resto la stessa Procura della repubblica di Milano, che ha proposto al gup l’incidente probatorio per anticipare il contraddittorio tra le parti, aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta, nata nel 2020 in piena pandemia da alcune denunce, prima giornalistiche e poi penali da parte di comitati di parenti nati ad hoc.

I procuratori del team dell’aggiunto Tiziana Siciliano, Mauro Clerici e Francesco de Tommasi, al termine delle indagini durate un anno e mezzo, avevano concluso come fosse “da escludere” alcun collegamento tra “il singolo evento dannoso e una specifica condotta riprovevole”. Nessun nesso di causalità tra comportamenti ed eventi, nessun reato di epidemia colposa, innocenti sia l’azienda che il suo direttore generale Giuseppe Calicchio. Il Pat era stato ben governato anche durante l’epidemia. I magistrati del pubblico ministero avevano lavorato basandosi su due documenti ritenuti fondamentali. Il primo era quello che riportava le conclusioni della Commissione nominata da Regione Lombardia, che aveva posto al vertice il Direttore sanitario dell’Ats milanese Vittorio Demicheli, e dal Comune di Milano, che vi aveva inserito come garante l’ex pm Gherardo Colombo.

Quasi un simbolo, e una mossa provocatoria del sindaco Beppe Sala, nel luogo dove trent’anni prima era esploso lo scandalo di “Tangentopoli” con l’arresto di Mario Chiesa. Ma ancor più determinante per la richiesta di archiviazione era stato il secondo documento, con la conclusione dei periti nominati dal tribunale, i quali avevano consegnato un testo piuttosto corposo e molto accurato, le cui considerazioni parevano tombali. Primo punto: “La gestione dell’emergenza è stata conforme ai protocolli e alle raccomandazioni dell’Oms e dell’Istituto superiore di sanità”. Basterebbe del resto esaminare e riesaminare, come hanno fatto i periti allora e come sta rifacendo in questi giorni la stessa difesa del direttore Calicchio con l’avvocato Vinicio Nardo, le mail inviate fin dai primi giorni e ripetutamente dalla direzione ai dipartimenti socio-sanitari, ai medici competenti, alle figure apicali e anche all’architetto incaricato della sicurezza sul lavoro e al dipartimento tecnico-amministrativo perché agissero tempestivamente, così come predisposto dall’unità di coordinamento.

L’attenzione alla salute di ospiti e dipendenti è stata costante e immediata. Fin dal 23 febbraio 2020 era attiva l’ “Unità di coordinamento aziendale gestione dell’emergenza di sanità pubblica da diffusione di Sars-cov-2” che dirigeva le attività di intervento e controllo in ogni settore. Ma i periti del tribunale non si erano limitati alla verifica generale della capacità di intervento della dirigenza dell’Ente. Avevano anche spazzato via una vociferazione tanto falsa quanto radicata, soprattutto tra i parenti degli ospiti del Pat, secondo la quale il virus sarebbe entrato nella Rsa in seguito alla delibera con cui la Regione Lombardia aveva chiesto ospitalità nelle Rsa per malati ormai convalescenti. Peccato che il Trivulzio non ne avesse accolto nemmeno uno. E, a fronte di qualche sindacalista interno all’azienda che aveva un po’ soffiato sul fuoco del dolore dei parenti degli anziani deceduti, erano stati gli stessi periti del tribunale che, un po’ indignati, avevano constatato come nei giorni peggiori della pandemia ben il 65% dei dipendenti avesse “marcato visita”.

Alcuni erano malati, altri no. Non dunque la dirigenza dell’istituto aveva mancato al proprio dovere. Ma sono proprio i numeri a ridimensionare quello che giornalisti in cerca di scoop come Gad Lerner e quotidiani così scandalistici da rasentare la pornografia come Repubblica avevano definito “La strage nascosta” e “L’epidemia insabbiata”, piuttosto che, con il consueto cinismo, “Mani Pulite sul Trivulzio”. E’ passato un anno dal maledetto febbraio 2020 quando il Corriere della sera titolerà “Almeno a guardare i numeri, non è esistito e non esiste un caso Pio Albergo Trivulzio”. Il caso non esiste, proprio così. Riguardiamoli con serenità, oggi che è possibile, questi dati. I morti al Pat nel 2020 sono stati 460 su 1883 ospiti, pari al 24,42%.

La stessa percentuale dei due anni precedenti. E se esaminiamo i numeri scomposti per settore, vediamo che nella Rsa di via Trivulzio i decessi sono stati nel 2020 il 37,2%, mentre erano stati il 38,2% nel 2019 e addirittura del 46% nel 2018. E per quel che riguarda l’hospice, che è un po’ purtroppo il luogo del fine vita, le proporzioni sono più o meno simili, con l’83% di morti nel 2020, contro il 92% dell’anno precedente e il 90% del 2018. Considerando il fatto che una forte influenza aveva aggredito la popolazione anziana prima che arrivasse l’epidemia da covid, si deduce facilmente che non c’è stata nessuna “strage” e che non è mai esistito un “caso Trivulzio”. Anche la stessa contestazione del reato di epidemia colposa è discutibile, soprattutto per una serie di sentenze della cassazione, la quale ha sancito che per ritenere l’applicabilità dell’articolo 438 del codice penale, occorre una condotta attiva. E anche comunque che l’evento dannoso, per poter essere attribuito a titolo di colpa, debba essere prevedibile ed evitabile. Il nesso di causalità, infine, è stato considerato come inesistente proprio dagli stessi periti nominati dalla procura di Milano.

Se la vicenda è ancora aperta è perché un anno fa nel mese di giugno la gip Alessandra Cecchelli, dopo la richiesta di archiviazione del pm, ha voluto che la procura approfondisse ulteriormente le indagini dell’epidemia anche per i mesi di maggio e giugno, anche ascoltando di nuovo i comitati dei parenti. I quali si erano immediatamente opposti alla richiesta di archiviazione. Poi però la gip era passata ad altro incarico (succede anche questo, a complicare tempi e modi del processo) e si era arrivati al 2 settembre 2022. Data in cui la procura aveva avanzato richiesta di incidente probatorio, cui la nuova gip aveva risposto il 16 dicembre. E eccoci all’udienza del prossimo 6 marzo, con otto periti, tra medici legali, infettivologi e geriatri, selezionati fuori dalla Lombardia, già nominati dalla giudice. Cui si aggiungeranno quelli scelti dalle parti, che saranno, si pensa, altrettanto numerosi. Prestigiosi, da qualche indiscrezione, quelli scelti dal Trivulzio e dall’avvocato Vinicio Nardo.

Si fanno i nomi del professor Massimo Galli, del geriatra Marco Trabucchi e di Fabrizio Pregliasco. Sarà un’udienza tra esperti, che collaboreranno a suggerire alla gip il quesito su cui dovranno in seguito impegnarsi. I periti infine chiederanno i termini per il proprio lavoro, che in genere non è meno di sessanta giorni. Va tutto bene dunque? Non tanto, perché c’è una persona, il direttore generale del Pat Giuseppe Calicchio, che rimane indagato per un reato “impossibile”, a meno che non si dimostri che ha svolto il ruolo di “untore”. E soprattutto perché sarà molto difficile che questi medici si discosteranno molto da quel che hanno già sentenziato i loro colleghi nella perizia precedente: non esiste un “caso Pio Albergo Trivulzio”. Piaccia o non piaccia agli esperti delle gogne mediatiche.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Bergamo.

Ecco perché il Covid ha fatto una strage in Val Seriana, lo studio: «Diffusione favorita dai geni dell'uomo di Neanderthal». Federico Fumagalli e Fabio Paravisi su Il Corriere della Sera giovedì 14 settembre 2023.

Giuseppe Remuzzi ha presentato i risultati dello studio effettuato dall'Istituto Mario Negri dopo avere analizzato i dati di 9.773 abitanti della valle. Bertolaso: «Informazioni eccezionali» 

Nella diffusione del Covid in Val Seriana hanno avuto una parte importante la presenza dei geni che risalgono all'Uomo di Neanderthal. Lo dice una ricerca che l’Istituto Mario Negri ha presentato oggi nel corso di un convegno ospitato dal Presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana. Si tratta di Origin, un articolato studio di popolazione che negli ultimi due anni ha visto i ricercatori del Mario Negri impegnati nell'analisi della relazione fra i fattori genetici e la gravità della malattia COVID-19 nella provincia di Bergamo, epicentro della pandemia. Lo studio, pubblicato sulla rivista iScience, dimostra che una certa regione del genoma umano si associava in modo significativo col rischio di ammalarsi di Covid-19 e di ammalarsi in forma grave nei residenti in quelle aree più colpite dalla pandemia.

 “La cosa sensazionale – commenta Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto Mario Negri - è che 3 dei 6 geni che si associano a questo rischio sono arrivati alla popolazione moderna dai Neanderthal, in particolare dal genoma di Vindija che risale a 50 mila anni fa ed è stato trovato in Croazia. Una volta forse proteggeva i Neanderthal dalle infezioni, adesso però causa un eccesso di risposta immune che non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. Le vittime del cromosoma di Neanderthal nel mondo sono forse 1 milione e potrebbero essere proprio quelle che, in assenza di altre cause, muoiono per una predisposizione genetica”.

 Lo studio ha coinvolto l’intera comunità e hanno aderito 9.733 persone di Bergamo e provincia che hanno compilato un questionario sulla loro storia clinica e familiare riferita al Covid-19. Il 92% dei partecipanti che avevano avuto Covid-19 si era infettato prima di maggio 2020. Tra questi, 12 persone avevano avuto sintomi già a novembre-dicembre 2019. All’interno di questo ampio campione sono state selezionate 1.200 persone - tutte nate a Bergamo e provincia - divise in tre gruppi omogenei per caratteristiche e fattori di rischio: 400 che hanno avuto una forma grave della malattia, 400 che hanno contratto il virus in forma lieve e 400 che non l’hanno contratto.

Le persone che avevano avuto Covid-19 severo avevano più frequentemente parenti di primo grado morti a causa del virus rispetto ai partecipanti con Covid-19 lieve o che non si erano infettati. Questo dato evidenzia un contributo della genetica alla gravità della malattia. 

I ricercatori del Mario Negri

 I campioni di DNA sono stati analizzati mediante un DNA microarray, una tecnologia in grado di leggere centinaia di migliaia di variazioni (polimorfismi) su tutto il genoma, che ha permesso di analizzare per ogni partecipante circa 9 milioni di varianti genetiche e di rilevare la regione del DNA responsabile delle diverse manifestazioni della malattia. In questa regione, alcune persone (circa il 7% della popolazione italiana) hanno una serie di variazioni dei nucleotidi (le singole componenti che costituiscono la catena del DNA) che vengono ereditati insieme e formano un aplotipo, ovvero l’insieme di queste variazioni. “I risultati dello studio ORIGIN – spiega Marina Noris, Responsabile del Centro di genomica umana dell’Istituto Mario Negri - dimostrano che chi è stato esposto al virus ed è portatore dell’aplotipo di Neanderthal aveva più del doppio del rischio di sviluppare Covid grave (polmonite), quasi tre volte in più il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e un rischio ancora maggiore di aver bisogno di ventilazione meccanica rispetto ai soggetti che non hanno questo aplotipo”. 

Questa suscettibilità è collegata in particolare alla presenza di tre dei sei geni di questa regione che si trovano sul cromosoma 3: si tratta dei geni CCR9 e CXCR6, responsabili di richiamare i globuli bianchi e causare infiammazione durante le infezioni, e del gene LZTFL1, che regola lo sviluppo e la funzione delle cellule epiteliali nelle vie respiratorie, condizionando le diverse manifestazioni della malattia. Non è chiaro quale gene giochi il ruolo più importante. Inoltre, lo studio ha identificato altre 17 nuove regioni genomiche (loci) di cui 10 potenzialmente associate a malattia severa e 7 potenzialmente associate a rischio di contrarre l’infezione. 

“È stata fondamentale la collaborazione di tutta la comunità – conclude Ariela Benigni, Segretario scientifico del Mario Negri. Un particolare ringraziamento va ai sindaci di Bergamo, Alzano Lombardo, Nembro, Albino, Ranica e di molti altri Comuni. Ma è stato indispensabile anche il contributo dei medici di base, delle farmacie, delle biblioteche, delle associazioni e di tutti i cittadini che si sono impegnati nella promozione dello studio. È grazie alla dedizione di ognuno di loro se oggi abbiamo raggiunto questo importante risultato”. 

«Siamo molto grati al professor Remuzzi e al suo staff - ha commentato Guido Bertolaso, assessore regionale al Welfare -. Ci permettono di condividere informazioni in prima battuta davvero eccezionali ed è un  privilegio avere in anteprima notizie di carattere mondiale. Mi chiedo per quale ragione questa tragedia non ha colpito l’Africa, ad esempio e per fortuna? Ho capito che faccio parte da Neanderthal, visto che ho avuto il Covid severo. Potremmo avere in futuro strumenti per proteggere categorie più a rischio, come appunto chi viene da Neanderthal. La ricerca ci permette di potere programmare. Il fascino dei nostri tempi è quello di avere, grazie alla genetica, risposte che mai nessuno è riuscito a raggiungere».

«Lo studio - ha aggiunto il presidente della Regione Attilio Fontana - apre una via interessante per meglio conoscere il Covid, anche se non dà risposte definitive. Con Remuzzi mi sono confrontato tante volte, mi disse che stava conducendo studi e ricerche che evidenziava la presenza di undici malati già nel 2019 e la componente genetica. Ho aderito alle sue proposte con entusiasmo, e lo studio ora ci dice cose importanti. È un passo importante per capire cos'è accaduto e interpretare ciò che potrà succedere in futuro».

Estratto dell'articolo di Giuseppe Remuzzi per corriere.it venerdì 15 settembre 2023. 

«The Lost Days That Made Bergamo a Coronavirus Tragedy». Insomma, i giorni persi che hanno fatto di Bergamo una tragedia del Coronavirus, un titolo del New York Times che non riuscirò a dimenticare. Bergamo – o meglio Nembro, Alzano, Albino – da dove parte la valle del Serio, diventa il centro del dramma del Coronavirus, più che qualunque altra parte del nostro mondo. 

Medici e infermieri che vanno e vengono, giorno e notte, senza sapere bene cosa fare, genitori separati dai bambini, anziani lasciati soli; per necessità, si capisce. Il New York Times racconta di un camionista, febbre alta, fiato corto. Arriva in ospedale. «Il tampone? Lei è stato in Cina?» (I protocolli dell’Oms lo prevedevano solo per chi veniva da là). Per lui risponde la moglie: «Giovanni la Cina non sa nemmeno dov’è». Solo a Nembro e solo a marzo i morti aumentano dell’850 per cento , fra il frastuono delle ambulanze e il silenzio delle campane.

La ricerca

I ricercatori del Mario Negri fanno quello che possono, fra ricerca di anticorpi, cicli di amplificazione dell’Rna — serve per capire se un tampone positivo, è positivo davvero — e poi collaboriamo con i medici di famiglia e con quelli dell’Ospedale. Si fa quello che si può, per provare a arginare qualcuna di quelle falle che se ne chiudi una se ne apre un’altra. 

Poi, le cose pian piano migliorano e allora si comincia a ragionare: «Perché la maggior parte delle persone infettate da Coronavirus ha soltanto sintomi lievi, può starsene a casa con un po’ di Aulin o qualcosa del genere e dopo qualche giorno guarisce, e perché altri hanno disturbi più importanti tanto da finire in ospedale, qualcuno in rianimazione e qualcuno muore?». 

Per cominciare ci si accorge che chi aveva un Covid severo, polmonite interstiziale e necessità di ricovero in rianimazione, aveva più spesso genitori o fratelli morti di Covid. Così si fa strada l’idea che ci potrebbe essere qualcosa di genetico.

Niente di nuovo, si capisce, a questo ci avevano pensato in tanti; sono state trovate, solo per fare un esempio, due regioni nel genoma umano che aumenterebbero il rischio di ammalarsi di Covid, una ha a che fare con i gruppi sanguigni: quelli di gruppo 0 avrebbero meno rischi rispetto al gruppo A e AB, forse gli anticorpi naturali li proteggono. 

Mettendo insieme tutti i dati viene fuori che il gruppo sanguigno potrebbe avere un certo ruolo, ma se c’è è marginale. […] 

L’intera comunità

Con lo Studio Origin si vorrebbe fare un passo avanti e provare a capire se quello che è successo a Bergamo ha per avventura qualche base genetica. Si coinvolge l’intera comunità — dai sindaci, alle scuole, alle associazioni di volontariato, ai medici, ai farmacisti, alla diocesi, e poi fondazioni e privati cittadini — e ancor prima la Regione Lombardia.

Si arriva a raccogliere dati clinici e storia famigliare di quasi 10 mila persone, da qui se ne possono selezionare 1.200 per tre gruppi assolutamente identici per caratteristiche cliniche e fattori di rischio: 400 avevano avuto una forma grave di malattia, 400 una forma lieve e 400 non si erano infettati. 

 Il Dna di tutte queste persone ci consente di studiare centinaia di migliaia di polimorfismi (sono siti di variazioni genetiche) e ci concentriamo sui 130 mila che governano l’ingresso del virus nelle cellule, i 24 mila della risposta immune e i 16 mila che hanno a che vedere con la severità della malattia e le sue complicanze. In tutto si studiano quasi 9 milioni di variazioni per ciascun individuo.

Il risultato di tutto questo, che iScience pubblica in questi giorni, colpisce anche noi: una sola regione genomica risulta essere più importante di tutte le altre per capire perché ci si ammala gravemente. È un «aplotipo di rischio», dicono i medici: «aplotipo» definisce un certo numero di variazioni di geni vicini l’uno all’altro che si ereditano tutti insieme. Questo aplotipo si trova sul cromosoma 3, comprende geni che contribuiscono alla sintesi di mediatori della risposta immune e altri che presiedono alla funzione di certe cellule degli alveoli polmonari. 

Fin qui niente di speciale, se non fosse che questo aplotipo arriva a Nembro, Alzano e Albino direttamente dai... Neanderthal, dopo essere passato attraverso duemila generazioni almeno. Com’è possibile? È perché tra 70 mila e 50 mila anni fa l’Homo Sapiens lascia l’Africa, arriva in Europa, si incrocia con i Neanderthal che abitavano quelle aree, e altre dell’Asia già da molto tempo, ed è proprio grazie a quell’incontro che una piccola parte di quei geni arriva fino a noi. Proprio così, ciascuno di noi ha nel suo Dna dall’1 al 4 per cento dei geni di Neanderthal.

[...] 

I risultati

Lo studio dei ricercatori del Mario Negri ha stabilito che chi è portatore dei geni di Neanderthal aveva un rischio più del doppio di sviluppare Covid grave, e più di tre volte di avere bisogno di terapia intensiva e di ventilazione meccanica rispetto a chi non ha questo aplotipo. 

C’è dell’altro in questo studio: sono state identificate 17 nuove regioni genomiche (loci), di cui 10 potenzialmente associate a malattia severa e sette al rischio di contrarre infezione, questo non è mai stato visto in precedenza, in particolare il locus 2q14.3 è di un certo interesse perché comprende un gene associato a una proteina che aumenta soltanto nei casi di Covid severo; questo potrebbe diventare lo spunto per trovare nuove terapie.

Ma che ci facevano quelle variazioni genetiche nei Neanderthal? Una volta forse li proteggevano dalle infezioni ma adesso che ci troviamo di fronte a un virus forse nuovo (o forse no) l’eccesso di risposta immune non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. 

Qualcuno di voi a questo punto si chiederà quante saranno state presumibilmente le vittime dell’aplotipo di Neanderthal in tutto il mondo. Svante Pääbo in un primo momento aveva calcolato che potessero essere 100 mila, ma poi ha rifatto i conti e ha annunciato in un congresso di pochi giorni fa che l’aplotipo di Neanderthal ha fatto probabilmente un milione di vittime. Forse sono quei morti per cui non si trova una giustificazione: non veramente anziani, senza malattie associate, senza compromissione del sistema immune.

Di tutto questo c’è una cosa che fa una certa impressione: i nostri antenati fanno all’amore con i Neanderthal 50 mila anni fa e questo può far morire noi adesso.

Strage Covid "colpa" di Neanderthal. La diffusione del virus in Val Seriana legata alla presenza del Dna di 50mila anni fa. Serena Coppetti il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.

In estrema sintesi, se 50mila anni fa l'Uomo di Neanderthal e la Donna Sapiens non si fossero incontrati in qualche sperduto luogo tra la Persia e la Croazia per quel fortuito gioco dell'evoluzione umana che tutti conosciamo, oggi, duemila generazioni dopo, il Covid non avrebbe potuto fare gravi danni. Senza forse. Non è fantamedicina, ma il risultato rigoroso di uno studio durato ventiquattro mesi, realizzato dall'Istituto Mario Negri di Milano, che sarà pubblicato a giorni sulla rivista scientifica iScience e anticipato ieri in Regione Lombardia. Con il titolo che è già un destino, «Origin», gli scienziati sono andati a cercare se e quale relazione ci fosse tra fattori genetici e gravità della malattia. Perché alcuni si sono ammalati di più e altri di meno, se il dna in qualche modo poteva fornire una risposta scientifica a quello che è parso un beffardo gioco della sorte nel distribuire sintomi lievi e morti inspiegabili nell'anno '20 di una nuova era. Sotto la lente di ingrandimento per due anni è finito così un campione di 1200 persone nella provincia di Bergamo, epicentro della pandemia, selezionate tra quasi diecimila volontari. 9.733 per l'esattezza, ognuno con la sua storia clinica e familiare, finita diligentemente dentro un questionario. Ma sotto quella lente è finito soprattutto il loro dna, analizzato per ciascuno dei 1200 selezionati nelle sue 9 milioni di varianti. E lì, dentro quell'incrocio di ataviche indelebili informazioni, è spuntato lui, l'Uomo di Neanderthal, già responsabile secondo gli esperti di parecchi acciacchi più o meno gravi di noi discendenti.

«Chi è stato esposto al virus ed è portatore dell'aplotipo di Neanderthal - ha spiegato Marina Noris, responsabile del Centro di genetica umana del Mario Negri - aveva più del doppio del rischio di sviluppare Covid grave (polmonite), quasi tre volte in più il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e un rischio ancora maggiore di aver bisogno di ventilazione meccanica rispetto ai soggetti che non hanno questo aplotipo». C'è insomma chi è più neanthedarliano e chi meno. E di questo il sospetto forse qualcuno lo aveva già avuto... Ma qui la preistoria diventa scienza, dà risposte al presente ma soprattutto proietta verso prevenzioni future. Chi ha una percentuale maggiore di quel «pacchetto» di geni derivanti dall'Uomo di Neanderthal ha corso il rischio di contrarre il Covid in modo più severo. «La cosa sensazionale» per Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto Mario Negri che ieri ha illustrato la ricerca «è che 3 dei 6 geni che si associano a questo rischio sono arrivati alla popolazione moderna dai Neanderthal, in particolare dal genoma di Vindija che risale a 50 mila anni fa ed è stato trovato in Croazia. Una volta forse proteggeva i Neanderthal dalle infezioni, adesso però causa un eccesso di risposta immune che non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. Le vittime del cromosoma di Neanderthal nel mondo sono forse un milione e potrebbero essere proprio quelle che, in assenza di altre cause, muoiono per una predisposizione genetica». E questo spiegherebbe anche perché ad esempio il Covid non ha toccato la popolazione dell'Africa, ma si è concentrato solo in alcune zone del mondo.

Per entrare nel merito, questa suscettibilità è collegata in particolare alla presenza di tre dei sei geni di questa regione che si trovano sul cromosoma 3: si tratta dei geni CCR9 e CXCR6, responsabili di richiamare i globuli bianchi e causare infiammazione durante le infezioni, e del gene LZTFL1, che regola lo sviluppo e la funzione delle cellule epiteliali nelle vie respiratorie, condizionando le diverse manifestazioni della malattia. È provato quindi che nel prototipo Neanderthal le cellule infiammatorie sono più reattive mentre quelle «cigliate» delle vie respiratorie avevano minore capacità di liberarsi dal virus. Non è chiaro quale gene giochi il ruolo più importante. Tutto molto complicato, ma quando si parla di Covid come ha sottolineato Remuzzi se c'è una cosa che ci ha insegnato è a «non avere certezze». A parte una, ora: che l'Uomo di Neanderthal continua a far danni in mezzo mondo.

Bergamo tre anni dopo la pandemia: la città volta pagina ma non dimentica. Fu l’epicentro del Covid e pagò un prezzo altissimo nella battaglia contro il virus. “Non cancelliamo la memoria ma proviamo a rialzarci”. Il riconoscimento di capitale della cultura è un primo passo. Verso la conclusione l’inchiesta sulle responsabilità per i morti. Simone Baglivo su L’Espresso il 23 febbraio 2023.

Da capitale del Covid a capitale della Cultura. A distanza di tre anni dallo scoppio della pandemia che ha cambiato il mondo e devastato il Belpaese, la provincia del Nord Italia che nel 2020 ne è stata l’epicentro occidentale adesso cerca di voltare pagina. Bergamo, infatti, sta puntando sul 2023 per rinascere con tutta l’energia possibile, dopo aver pagato nel momento più buio un prezzo umano altissimo.

La prestigiosa nomina a Capitale Italiana della Cultura 2023 (che condivide con la vicina Brescia) e il quasi mezzo miliardo di fondi del Pnrr rappresentano le principali opportunità. Siamo tornati in città per raccogliere le riflessioni di una comunità in cerca della propria alba.

Monica Plazzoli, dipendente di una casa di cura e madre di tre figli, racconta a L’Espresso di essere stata segnata inevitabilmente nel profondo da questo dramma e che l’unico modo per risorgere sia «portare nei cuori il ricordo di tutte le persone che sono morte da sole». Persone come suo marito, Armando Invernizzi, ucciso dal Covid dopo un mese di agonia nella prima ondata. Il presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo, Guido Marinoni, ricorda a L’Espresso «le sensazioni di abbandono e le scene di eroismo» dei colleghi, sottolineando come il personale sanitario sia «stato lasciato senza supporto e privo di ogni mezzo di protezione individuale: i nostri medici sono morti per non essere stati protetti dalle istituzioni».

Marinone spera che la situazione continui a reggere e vorrebbe che ci fosse una maggiore coesione sociale, «perché oltre alla ripresa economica, abbiamo urgente bisogno di una ripresa morale».

Per Francesco Alleva, portavoce del sindaco Giorgio Gori, la scena più triste di quella maledetta primavera è stata la chiesa del cimitero comunale riempita di 120 bare, ciascuna con nome e cognome scritto a pennarello. «Ogni defunto è stato anche nostro, era difficile parlare con le loro famiglie. Ma abbiamo sempre saputo che la forza dei bergamaschi si esprime al massimo del suo potenziale quando c’è da rimboccarsi le maniche». Alleva aggiunge che la cultura è la cura delle ferite del covid, l’elemento decisivo per la costruzione di legami sociali più saldi.

«Quest’anno - con gli indicatori economici favorevoli - l’obiettivo non è solo favorire il turismo, ma anche incrementare la fruizione culturale dei nostri concittadini. Abbiamo uno straordinario patrimonio e vogliamo dimostrare a noi e al nostro Paese quale sia il nostro potenziale, soprattutto se lavoriamo insieme, se costruiamo alleanze e non ci chiudiamo dentro le nostre Mura».

Nel 2020, l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è stato tra i più colpiti al mondo. In prima linea, a gestire la comunicazione di una delle strutture più moderne ma anche più in crisi del pianeta, c’era Vanna Toninelli. Quando parla con L’Espresso, ripensando a quel periodo, si commuove, ha la voce spezzata e cerca di trattenere le lacrime. «Il nostro ospedale ha rappresentato grande dedizione e coraggio, abbiamo accolto un numero di malati impensabile e il nostro personale sanitario si spendeva senza sosta per tentare l’impossibile. Un mare di dolore ha fatto emergere affetto e solidarietà».

Per Toninelli, il momento più difficile era entrare nella camera mortuaria del Papa Giovanni, dove venivano custoditi gli effetti personali dei pazienti deceduti e che i parenti non avevano ancora potuto ritirare. «Una montagna infinita di sacchetti trasparenti racchiudevano le vite normali di donne e uomini: la rivista, il bastone, la maglietta, il cruciverba. Gli oggetti più personali di chi credeva di tornare a casa, ma purtroppo non ce l’ha fatta«. Toninelli descrive il rumore delle sirene come un «urlo continuo» nelle orecchie che sentiva continuamente, anche quando non c’era nessuna ambulanza. «Non dobbiamo dimenticare quello che è successo, lo dobbiamo ai pazienti che non ce l’hanno fatta e ai medici che hanno sacrificato la vita».

Da ormai tre anni, la Procura di Bergamo sta cercando di fare luce sulle responsabilità nella gestione dell’emergenza sanitaria. La maxi-inchiesta per epidemia colposa si è concentrata anche sulla mancata zona rossa e sul piano pandemico non aggiornato. Il procedimento penale aperto dal procuratore capo Antonio Chiappani non ha risparmiato nessun livello: locale, regionale e nazionale. Fonti giudiziarie descrivono all’Espresso il lavoro, «serio e preciso» in corso dal 2020 come «il più lacerante e complicato di sempre». Per poi aggiungere: «Ascoltare tutte le testimonianze dei familiari delle vittime… Beh, è stato umanamente molto difficile. Ma il nostro obiettivo primario è sempre stato quello di restituire un briciolo di dignità a chi ha perso in modo così tragico un marito, una madre, un figlio».

Le corpose indagini preliminari verranno ufficialmente concluse in questi giorni. «Bisogna ripensare tutta la sanità pubblica in Lombardia, investendo di più, per non lasciare soli i medici e gli infermieri che sono passati da eroi a dimenticati nelle grandi scelte della politica». È l’auspicio di Vanna Toninelli che, nel frattempo, dopo 12 anni a servizio dell’azienda sanitaria ha deciso di cambiare lavoro. «Prima di questa Caporetto vantavamo uno dei migliori servizi sanitari al mondo. Siamo in attesa che la politica torni a valorizzarlo».

La Disorganizzazione.

Le scorie del covid. Report Rai PUNTATA DEL 24-06-2023

di Lorenzo Vendemiale

Collaborazione Carlo Tecce

Il 30 giugno chiude i battenti quella che è stata l’ex struttura commissariale Covid: è una data simbolica, perché segna la fine di un’era. 

Ma cosa resta dell’emergenza? Migliaia e migliaia di tonnellate di materiale inutilizzato, che oltre al danno dello spreco rischiano di presentarci anche il conto della beffa: Report ha scoperto che lo Stato sta spendendo decine di milioni di euro per conservare tutte le mascherine e gli altri dispositivi avanzati. Tra questi, ci sono anche le mascherine targate Fca, che stiamo continuando a pagare ben oltre la fine della produzione.

LE SCORIE DEL COVID di Lorenzo Vendemiale Collaborazione Carlo Tecce Immagini Paolo Palermo, Giovanni De Faveri, Paco Sannino Montaggio Marcelo Lippi

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Fara Sabina, provincia di Rieti. Dopo lunga insistenza, siamo riusciti ad entrare in uno dei magazzini di Sda, società di Poste italiane a cui è affidata la logistica Covid

CLAUDIO CECCANGELI – DIVISIONE OPERATIONS SD questi sono tre lotti, per un totale di 33.000 metri quadrati LORENZO VENDEMIALE Mamma mia, è impressionante quanto è grande

CLAUDIO CECCANGELI – DIVISIONE OPERATIONS SD Queste sono mascherine

LORENZO VENDEMIALE Tutte mascherine

CLAUDIO CECCANGELI – DIVISIONE OPERATIONS SD Alcune saranno prossime alla scadenza e altre sono ancora attive, buone LORENZO VENDEMIALE Ecco a settembre queste scadono mi pare

CLAUDIO CECCANGELI – DIVISIONE OPERATIONS SD Si

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Mascherine, tute, guanti, siringhe, flaconi, detergenti: sono circa 3 miliardi i pezzi inutilizzati

CLAUDIO CECCANGELI – DIVISIONE OPERATIONS SD All'inizio della pandemia, ovviamente, la movimentazione era quotidiana e a volume altissimi. Adesso i volumi sono veramente fermi da oltre un anno.

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Come questo, ci sono una trentina di magazzini Sda nelle stesse condizioni in tutta Italia. Il problema è che oltre al danno dello spreco, c’è pure la beffa: dalle rendicontazioni dell’ex struttura commissariale, Report ha scoperto che nel 2022 l’affitto per tenere in deposito questi prodotti ci è costato ben 85 milioni di euro. E pensare che per acquistarli erano stati spesi miliardi

MATTIA FONZI – RICERCATORE FONDAZIONE OPENPOLIS Abbiamo rilevato che sono stati indetti bandi per 24,5 miliardi di euro

LORENZO VENDEMIALE Quali sono i prodotti per cui abbiamo speso di più?

MATTIA FONZI – RICERCATORE FONDAZIONE OPENPOLIS Andiamo dalla sanificazione dei locali pubblici, per esempio, al costo del trasporto delle merci compresi i vaccini. Tuttavia, la categoria che è stata acquistata di più riguarda le mascherine e dispositivi di protezione individuale, per una cifra messa a bando pari a circa 8,91 miliardi

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Sono gli acquisti dell’ex commissario Arcuri, poi sostituito dal generale Figliuolo, che a sua volta ha ceduto il posto a marzo 2022 a Petroni. Adesso l’ex struttura commissariale confluisce nel Ministero della Salute, che deve chiudere i conti e disfarsi degli avanzi

MATTIA FONZI – RICERCATORE FONDAZIONE OPENPOLIS Il governo ha pubblicato sei manifestazioni di interesse, di cui cinque per cessione onerosa. Significa per cercare di vendere il materiale che in questo momento è nei magazzini.

LORENZO VENDEMIALE Sappiamo che esito hanno avuto queste manifestazioni?

MATTIA FONZI – RICERCATORE FONDAZIONE OPENPOLIS Il fatto che si siano susseguite nel tempo richiamando sempre quella precedente, ci fa capire che non hanno avuto un esito positivo

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Insomma, si tratta di merce che non interessa al mercato. Tra i prodotti avanzati ci sono quelli targati Fca, la cui scarsa qualità all’epoca era finita al centro delle polemiche e anche di un’inchiesta della Procura, poi archiviata

GIUSEPPE MORSA – SEGRETARIO FIOM CGIL-AVELLINO Era l'autunno del 2020, lo stabilimento viveva una difficoltà importante, circa 450 lavoratori stavano in cassa integrazione. Allora è venuta l'idea che a Pratola Serra venissero prodotte delle mascherine. Lo Stato fornisce i macchinari e le materie prime e l'azienda, attraverso i lavoratori, fornisce solo l'assemblaggio

LORENZO VENDEMIALE E di quante mascherine parlavamo?

GIUSEPPE MORSA – SEGRETARIO FIOM CGIL-AVELLINO Circa 17 milioni al giorno

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Alla fine lo Stato ha acquistato circa 2 miliardi di mascherine Fca per oltre 200 milioni di euro. Ma come scoperto da Report, ha continuato a pagare anche dopo la fine della produzione…

LORENZO VENDEMIALE E i macchinari che lo Stato aveva dato che fine hanno fatto?

GIUSEPPE MORSA – SEGRETARIO FIOM CGIL-AVELLINO Come stavano dal luglio 2021, così sono adesso. Stanno lì ben custoditi

LORENZO VENDEMIALE A pagamento, immagino

GIUSEPPE MORSA – SEGRETARIO FIOM CGIL-AVELLINO I nostri delegati hanno affrontato il tema, l'azienda ha detto noi abbiamo un contratto di fitto

LORENZO VENDEMIALE Cioè lo Stato continua a pagare FCA per conservare macchine che non vengono utilizzate da un anno e mezzo?

GIUSEPPE MORSA – SEGRETARIO FIOM CGIL-AVELLINO Assolutamente sì. Il motivo per il quale rimangono qua dobbiamo chiederlo al governo

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 19 macchinari: il governo li ha “dimenticati” letteralmente negli impianti di FCA. Questi macchinari erano stati comprati dal governo, erano stati messi a disposizione di FCA per fabbricare mascherine. Che cosa è successo? A dicembre scorso il responsabile della struttura commissariale, il generale Petroni, aveva chiesto al Ministero della Salute “cosa ci facciamo con questi macchinari?” Il governo non ha risposto, quindi è scattato automaticamente il nuovo contratto di affitto, abbiamo pagato 600mila euro, per dei macchinari che sono fermi dalla fine del 2021. Bel colpo, FCA ringrazia. Ora sono stati spostati questi macchinari, in un impianto sempre FCA, ma ad un costo minore. Ben altra invece l’eredità lasciata dalla struttura commissariale. Era stata creata per gestire l’emergenza Covid, adesso il 30 giugno chiuderà i battenti, verrà assorbita dal Ministero della Salute. Ma in pancia ha un’eredità che ha scoperto Report, 3 miliardi di dispositivi di protezione individuale tra mascherine, tute, guanti, disinfettanti, che sono abbandonati nei depositi in tutta Italia di Sda. Parliamo complessivamente di un valore di 600 milioni di euro, noi paghiamo per l’affitto di questo materiale, abbiamo pagato per tutto il 2022, 85 milioni di euro. Un costo destinato a salire visto che lo pagheremo probabilmente anche nel 2023. Il governo ha cercato di smaltire un po’ di questo materiale, di venderlo, ma complessivamente ha venduto 150mila euro. Siccome bisogna fare in fretta perché è materiale in scadenza, e si rischia di buttarlo, il governo cerca anche di regalarlo. A chi? A chi non ne vuole proprio sapere. Il nostro Lorenzo Vendemiale

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Più passa il tempo, più aumentano gli oneri per lo Stato. Così, dopo non essere riuscito a vendere le scorte in eccesso, il governo ha provato a regalarle: è stato pubblicato un avviso di donazione rivolto a enti di volontariato e scuole. Che però di mascherine ne hanno fin sopra i capelli

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLIFERRINI DI ROMA Questo è il magazzino, in cui abbiamo varie decine di scatoloni di mascherine

LORENZO VENDEMIALE Queste sono tutte mascherine avanzate della pandemia

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLIFERRINI DI ROMA Sì. Queste sono le famose mascherine a mutanda. Avevano in origine un odore sgradevole, quindi gli stessi alunni non le volevano usare… Di fatto mai utilizzate

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Durante l’emergenza la struttura commissariale ha consegnato alle scuole italiane circa due miliardi di mascherine. Non sempre di qualità adeguata, anche quando non erano più necessarie

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLI-FERRINI DI ROMA Erano consegne settimanali che avvenivano di default. Quindi a quel punto noi, ma anche tutte le altre scuole, hanno cominciato a scrivere alla struttura commissariale per interrompere la fornitura di mascherine

LORENZO VENDEMIALE E quindi, ovviamente da quando è finita la obbligatorietà, tutte queste mascherine si sono accumulate.

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLIFERRINI DI ROMA Noi non possiamo smaltirle

LORENZO VENDEMIALE Perché non le potete buttare

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLIFERRINI DI ROMA perché è un rifiuto speciale, come se fosse un rifiuto ospedaliero e quindi noi dovremmo utilizzare il nostro budget.

LORENZO VENDEMIALE Cioè quello delle attività dei ragazzi.

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLIFERRINI DI ROMA L’attività dei ragazzi o del funzionamento.

LORENZO VENDEMIALE Ma qui parliamo di migliaia, se non decine di migliaia di euro, a vedere tutto questo materiale.

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLIFERRINI DI ROMA Nessuno ci ha detto né sono stati trasferiti alla scuola fondi per lo smaltimento

LORENZO VENDEMIALE Ma lo sa che il governo adesso ha fatto un avviso di donazione e come destinatario ha indicato proprio le scuole italiane?

FRANCESCO CONSALVI – DIRIGENTE SCOLASTICO ISTITUTO SINOPOLIFERRINI DI ROMA Non vogliamo altre mascherine, anzi vorremmo che ci liberassero di queste

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO L’avviso ha avuto più successo con altre amministrazioni. Ma per buona parte delle scorte l’unica soluzione potrebbe essere bruciarle. Come successo a Brescia, in uno degli impianti del gruppo A2A: qui a marzo 2022 sono state smaltite le vecchie mascherine di comunità, prodotte nella fase più acuta dell’emergenza, senza validità scientifica.

STEFANO BENINI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A RECYCLING Si trattava di più di 200 milioni di mascherine. sono state smaltite in due dei termovalorizzatori

LORENZO VENDEMIALE Quindi bruciate

STEFANO BENINI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A RECYCLING Sono state portate al recupero energetico

LORENZO VENDEMIALE FUORI CAMPO Fu uno degli ultimi atti del Generale Figliuolo, criticato per non aver rivenduto le mascherine ad aziende interessate a riciclarle. Ma tutto questo interesse da parte delle aziende non c’era se è vero che poi i tentativi di piazzarle sono andati quasi sempre a vuoto. E oggi il governo punta nuovamente sull’inceneritore

STEFANO BENINI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A RECYCLING Mi risulta che stiano sondando la disponibilità nuovamente di diversi operatori economici per fare nuovamente una campagna di smaltimento

LORENZO VENDEMIALE Di quante mascherine parliamo stavolta?

STEFANO BENINI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A RECYCLING Il numero non lo so, però in tonnellate dovrebbe essere un quantitativo superiore

LORENZO VENDEMIALE E a voi può interessare?

STEFANO BENINI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A RECYCLING Allora, per noi è oggettivamente complesso. Noi per fare l'altra campagna abbiamo dovuto tenere fuori dei rifiuti di altri clienti con cui avevamo dei contratti. Però si trattava di una situazione emergenziale. I nostri impianti sono già saturi.

LORENZO VENDEMIALE Paradossalmente anche buttarle può diventare un problema a questo punto

STEFANO BENINI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A RECYCLING Be, che in Italia sia difficile smaltire i rifiuti, è come dire è conclamato

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il Ministero ci ha scritto che dai e dai qualche mascherina è riuscita a piazzarla: sarebbero 200 i beneficiari. Però insomma c’è tanta roba ancora da smaltire, bisogna fare in fretta perché è anche in scadenza. Report ha scoperto attraverso dei documenti inediti che sarebbero 550 milioni i pezzi destinati già oggi al macero. Però abbiamo anche visto che non è neppure facile bruciarli, perché chi gestisce l’inceneritore preferisce bruciare altri tipi di rifiuti. Il governo poi dovrebbe anche dare indicazioni ai presidi, che hanno i sottoscala pieni di mascherine: sono stati consegnati due miliardi di mascherine e ora proprio in prossimità della scadenza dovrebbero anche provvedere allo smaltimento perché si tratta di rifiuti speciali. Lo devono fare a loro spese, sottrarrebbero risorse all’insegnamento

I foglietti di Conte. La troppo facile inchiesta sulla gestione del Covid, regno esclusivo dei Dpcm. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Giugno 2023

All’inizio della pandemia, in Italia si prendevano provvedimenti che sospendevano pressoché tutti i diritti costituzionali, nella forma di decreti personali dell’allora presidente del Consiglio. Ma non c’è niente da investigare

Adesso si diffonde il favore per una inchiesta sulla gestione del Covid, un’iniziativa tanto più giustificata e di più facile sbandieramento sulla scorta di qualche arresto per presunte malversazioni durante quel periodo. Sempre male. Sempre dalla parte sbagliata, per le ragioni sbagliate e per fini sbagliati. Sempre il rimedio che non rimedia a nulla.

Il dramma di quegli anni ancora così vicini stava nello sbrego allo Stato di diritto, un insulto pubblico, istituzionale, e gravissimo proprio per come manifestamente e impunitamente era perpetrato.

Per il tramite dei provvedimenti di presunto contenimento dell’epidemia erano sospesi pressoché tutti i diritti costituzionali (di circolazione, di associazione, di professione, di studio, di iniziativa economica, di culto); ed era disposto, a presidio delle violazioni, un dispositivo sanzionatorio anche di tipo penale: il tutto, nella forma di decreti personali del presidente del Consiglio che giungevano persino ad affidare ad alcuni ministri poteri di intervento in quelle materie, una specie di violazione al cubo.

Quel massacro della legalità costituzionale, che si pretendeva simultaneamente obbligato e trascurabile perché rivolto alla tutela della salute pubblica, ebbe libero corso per mesi e mesi nonostante fosse chiarissimo come quelle misure non fossero in realtà funzionali al contenimento dell’infezione e per quanto, in ogni caso, esse non potessero essere adottate in quel modo e cioè in sfrontata violazione della legge.

Fu necessaria una sentenza della Corte costituzionale, di cui per malafede o insipienza si preferì non tenere conto nel dibattito pubblico, per ritrovare finalmente dichiarate le ragioni dell’illegalità che aveva per tanto tempo governato il Paese: una decisione che faceva salvo il sistema solo da quando l’azione del governo era stata, sia pur incompiutamente, messa in riga, vale a dire con l’adozione di quelle misure per mezzo di atti normativi (il decreto legge) anziché secondo il costume precedente, cioè i foglietti con cui Sua Eccellenza Giuseppe Conte sequestrava il Paese e comminava galera e multe per gli insubordinati.

Qualche cialtrone al servizio editoriale del governo giunse a dire che la Corte costituzionale aveva in tal modo «dichiarato la legittimità dei Dpcm»: nemmeno una fesseria, ma la pura e semplice contraffazione del contenuto di quella sentenza, resa sulla rimessione di un giudice che aveva ipotizzato l’incompatibilità di quel sistema.

La Corte in realtà disse che l’incompatibilità denunciata non c’era perché il caso – riguardante un cittadino destinatario di una sanzione per la violazione dei limiti di allontanamento dal domicilio – ricadeva in un momento in cui era ormai in vigore il regime successivo: quello che, per intendersi, rattoppava le lacerazioni prodotte durante il regno esclusivo dei Dpcm e che la Corte “salvava”, diciamo così, proprio perché non si segnalava più per la somma delle violazioni pregresse. In breve, la Corte diceva che la malattia non c’era più, non che non c’era mai stata, anzi spiegava quali erano i sintomi e le cause di quella patologia sistematica: il trattamento indebito dei diritti costituzionali, organizzato da un capo del governo che ne faceva un suo maneggio personale, senza vaglio parlamentare.

Non c’è un cavolo da investigare in tutto questo, non c’è un bel niente su cui fare inchieste. C’è da riflettere sulle ragioni per cui tanti – direi tutti – sono rimasti a guardare, senza capire quanto fosse pericoloso lasciar correre quell’andazzo, a questo punto libero di riproporsi come dovuto, come necessario, come inevitabile se un’altra emergenza lo richiederà. Per durare sei mesi o qualche anno, quel che serve, sino a un’altra sentenza della Corte costituzionale che interviene a cose fatte e si limita a registrare i danni ormai arrecati.

COVID IL VIRUS DELLA DISORGANIZZAZIONE. Ivano Tolettini su L’Identità il 3 Febbraio 2023

FRANCESCO PAOLO FIGLIUOLO GENERALE

La differenza con la gestione Arcuri quando il 1° marzo 2021 venni nominato commissario straordinario per l’emergenza Covid-19? Il controllo accentrato e l’esecuzione decentrata. Poi la verticalità delle decisioni, perché sapevo sempre ciò che stava accadendo poiché ero in contatto con i presidenti di Regione, e sapevo quello che avrebbe dovuto succedere per potere informare in tempo reale il premier Mario Draghi e i ministri”. Il generale di corpo d’armata Francesco Figliuolo non lo dice esplicitamente, ma fa intendere che la situazione che affrontò due anni fa era complicata, quando venne incaricato di dare una sterzata alla macchina organizzativa che sbandava con problemi di trasparenza certificati dalle indagini della magistratura. Questo succedeva sia per la complessità obiettiva di gestire un’organizzazione mastodontica come la vaccinazione della popolazione italiana, sia per un difetto nel comando che col cambio in corsa portò benefici come gli italiani constatarono. E come da più parti nel mondo è stato dato atto all’Italia, dopo la prima fase di sbandamento quando fummo travolti dal virus. “Da subito mettemmo in campo una struttura dedicata – aggiunge – che aveva competenze nella logistica, nello stoccaggio e nella distribuzione. Nel fare anche da stazione appaltante. Mi sono appoggiato a una grande squadra di uomini e donne di tutte le forze armate, centrata sul comando logistico dell’esercito. Ricordo che una delle prime decisioni che presi fu quella di abbattere di tre volte il costo a metro cubo della merce stoccata nei magazzini. Dietro la campagna vaccinale c’è stata programmazione, gestione finanziaria e amministrativa: ho firmato in 13 mesi determine di spesa per 8 miliardi di euro”. Il generale Figliuolo, un manager della logistica, di cui si dilettava fin da ragazzo nella bottega di famiglia a Potenza, racconta la sua straordinaria esperienza, prima di tutto umana, vissuta fino alla primavera 2022, davanti a centinaia di persone di sei Lions Club dell’Alto Vicentino, coordinati per l’occasione dal presidente Lamberto Rosa di Schio. Mentre racconta e si racconta emerge la pasta umana di questo lucano di 61 anni trapiantato a Torino e tutto di un pezzo, attuale comandante operativo di vertice interforze dello stato maggiore della Difesa, temprato da esperienze anche internazionali, consapevole di che cosa vuol dire decidere nel momento del bisogno per un interesse superiore. “Ho la convinzione – spiega – che sapere decidere vuol dire avere dietro dei valori, oltre alle conoscenze e le informazioni necessarie”. E per non rimanere sul piano teorico, subito fa comprendere che cosa l’ha distinto da Arcuri. “Il mio primo provvedimento è stato bloccare la gara delle Primule per 180 milioni di euro. Sarebbero servite – sottolinea – per realizzare gli hub vaccinali. Ma l’Italia, mi sono chiesto con la mia squadra, aveva già tutto e poi queste strutture andavano manutenute e poi dismesse. Perciò cambiammo strategia”. E fu azzeccata. Non mancarono anche momenti di tensione. Come con il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, dopo che egli stipulò un pre accordo con Sputnik. “Non condividevo la scelta, per quanto comprendessi – ricorda – la necessità dei presidenti di regione di dare risposte alla propria gente. Dissi però che dovevamo fare gli acquisti centralizzati perché l’Italia è una da Bolzano a Trapani, e se la Campania avesse acquistato Sputnik avrei fatto un decreto di requisizione. Tra l’altro, quel vaccino non aveva i requisiti di sicurezza perché non era stato approvato né dall’autorità americana regolatrice dei farmaci né soprattutto da parte di Aifa ed Ema, rispettivamente di Italia ed Europa, perché mancavano i dati di farmaco-sorveglianza per i casi avversi. A volte ci si avventura in azioni per far vedere che si fanno le cose, mentre bisogna farle in maniera scientifica, seguendo i protocolli”. Non mancano tante note personali, mentre Figliuolo, presenta anche il libro scritto a quattro mani con Beppe Severgnini: “Un italiano – quello che la vita mi ha insegnato nella sfida più grande”. Come quella che pochi giorni prima di essere chiamato dal governo aveva perso la corsa per diventare Capo di stato maggiore dell’Esercito. Ed era deluso. “Pensavo che concluso il servizio di comandante della logistica mi sarei trovato un buen ritiro, invece arrivò la chiamata del governo. Una svolta nella mia vita. Ringrazio Draghi”. Da oscuro generale a star televisiva che entrava nelle case degli italiani, apprezzato anche per l’austero eloquio. E che ancor’oggi ovunque vada ha continue richieste di foto e selfie. “Quando esco di casa anche per i fatti miei – conclude sorridendo -devo essere sempre a posto, ma fa piacere: intendiamoci”.

La Testimonianza.

Il lavaggio delle mani.

Quarantena e mascherine.

L’Allarmismo.

La Testimonianza.

Antonio Giangrande: Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

L'Immunità di gregge è l'infezione totale ed immediata, tale da scongiurare la reinfezione, ove sussistesse come nel Coronavirus. La pandemia si estinguerebbe naturalmente in breve tempo.

Il Confinamento-Quarantena (Lockdown) e Coprifuoco è l'infezione graduale che, ove si manifestasse la reinfezione, sarebbe duratura e mai totale. La pandemia, negli anni, si fermerebbe, inibendo il protrarsi dell'infezione, tramite la prevenzione con i vaccini periodici, a secondo la variante del virus, che attivano gli anticorpi nei soggetti più forti, o con le cure con gli antivirali (combattono le cause) ed antinfiammatori (leniscono gli effetti). La quarantena è preferita per la speculazione effettuata su prevenzione e cura.

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No! No. Non perchè, per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia, ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

Antonio Giangrande: Il Lockdown (confinamento) visto con gli occhi di un bambino.

Bimbo: papà, perché siamo reclusi in casa come i carcerati?

Padre: per non farci ammalare…

Bimbo: ma non ci sono gli ospedali per curarci?

Padre: non ci sono posti per tutti…

Bimbo: papà, tu ti lamenti che paghi tante tasse, perché non fanno i posti per tutti?

Padre: i posti c’erano, poi li hanno tolti, perché dicevano che i soldi non bastano.

Bimbo: perché se i soldi non ci sono, tutti li vogliono senza lavorare e poi li ottengono?

Padre: perché ne vogliono di più…e tanti campano così.

Bimbo: papà, se io mi ammalo e vado in ospedale e non ci sono posti, muoio?

Padre: Non ti preoccupare, i posti disponibili li danno ai malati più giovani, mentre i malati più vecchi li fanno morire, o li mandano in quei posti dove ci sono altri vecchi.

Bimbo: ma papà, ma così fanno ammalare e morire anche quelle persone anziane che sono sane! Meno male che io sono giovane. Se vado in ospedale mi curano…

Padre: no! Se tu vai all’ospedale ti ammali. Quasi tutte le persone si sono infettate all’ospedale, dove c’erano anche i medici e gli infermieri senza mascherine.

Bimbo: papà, allora perché non chiudono gli ospedali e ci fanno uscire a noi?

Papà: non dire queste cose, perché alla tv dicono che chi lavora in ospedale sono eroi e non untori e poi sono i medici che decidono che dobbiamo essere reclusi. Per loro se andiamo in ospedale e ci ammaliamo è colpa nostra!

Antonio Giangrande: La pedanteria sanitaria. Per i medici tutto fa male. Pedante. Nell’uso moderno, e per lo più in senso spregevole, e chi, nell’insegnamento e nello studio e nella cura, si richiama continuamente alle regole, osservandole e facendole osservare con scrupolo meticoloso e scarsa intelligenza; per estensione, di chi pone una cura eccessivamente minuziosa, meticolosa, pignola in qualsiasi cosa faccia: Finalmente i medici sono riusciti a renderti la tua vita sana, ma vissuta in un inferno.

Coronavirus, non uscire di casa, non fare sesso, non mangiare le patate fritte. Arrigo D'Armiento il 10 Aprile 2020 su romadailynews.it. La sapete quella delle patate fritte? Un uomo va dal dottore per un controllo. Dopo la visita, il dottore gli dice: “Le condizioni generali sono buone, tuttavia io le raccomando vivamente di smettere di fumare”. Il paziente: “Veramente io non fumo, non ho mai fumato”.

Il medico: “Bene, ma mi raccomando, smetta di bere alcolici, al massimo mezzo bicchiere di vino ai pasti”. Il paziente: “Veramente io non bevo alcolici, sono totalmente astemio”.

Il medico: “Bene, bene. Però, non esageri con le donne, col sesso, ha una certa età, deve trattenersi”. Il paziente: “Dottore, io sono assolutamente casto, vado in chiesa tutte le mattine, ho sposato soltanto Cristo e la Madonna”.

A questo punto il medico spazientito sbotta: “Ma c’è una cosa, almeno una, che le piace?”. Il paziente: “Bè, veramente, io ho una certa predilezione per le patate fritte, le mangio spesso”. Il medico non trattiene un urlo: “Basta! Da oggi non mangi più le patate fritte!”.

Quanta saggezza nelle barzellette! Perché il medico ha proibito al malcapitato paziente di mangiare le patate fritte? Semplice, perché proibendo al paziente una cosa, qualsiasi cosa, il medico lo spinge a fare mea culpa. Se ti ammali, se hai problemi di salute, la colpa è tua, non mia che non so curarti.

È la stessa ricetta che la chiesa ci propina da millenni, vietandoci un sacco di cose a cui non sappiamo né possiamo rinunciare. La trovata più perfida e più utile, utile ai preti, è di proibirci di fare sesso se non alle condizioni stabilite da loro.

Agli adolescenti è proibito masturbarsi, ai ventenni di fornicare con le ragazze, ai mariti e alle mogli di ricorrere alle corna per rendere meno noioso il matrimonio. E hanno la faccia tosta di vietare tutte queste naturali tendenze con la trovata che sono contro natura. Contro natura le tendenze naturali? Contro natura la cosa più naturale del mondo, conseguente all’istinto di conservazione della specie?

Loro, i preti, lo sanno benissimo che contro la natura non c’è proibizione che tenga. Proprio per questo ricorrono a quei divieti, così chi non obbedisce, e non obbedisce nessuno, si sente in colpa, poi più recita il mea culpa e più si sottomette al potere dei preti.

Perché vi ho raccontato queste cose? È per ricordarvi che le autorità sanitarie e politiche ragionano alla stessa maniera: vietano al gregge di stare all’aperto, pur sapendo che il contagio di covid-19 è molto meno facile all’aperto che al chiuso. Facendo jogging o passeggiate, rimanendo a più di un metro di distanza dagli altri, non ci si infetta. Affollandoci al supermercato o sui mezzi pubblici, ci si infetta facilissimamente.

Così, se ti infetti, è colpa tua che sei uscito di casa, non colpa delle autorità che non ti hanno dato la mascherina e che hanno tagliato i fondi alla sanità non avendo l’abitudine di guardare al passato per prevenire i danni nel futuro.

Antonio Giangrande: Chi cerca trova: i misteri della coerenza della scienza.

Tasso di morbosità più alta rispetto agli altri paesi? Perché sono stati fatti più tamponi rispetto alla popolazione.

Tasso di letalità più alto rispetto altri paesi? Perché sono stati fatti meno tamponi rispetto alla popolazione.

Antonio Giangrande: La Dittatura Sanitaria.

Sono sì consulenti, ma guai a non attenersi alle loro linee guida. Gli esperti scientifici e gli enti nazionali ed internazionali di Sanità hanno dimostrato la loro inaffidabilità. Eppure a sviare dalle loro voglie si paga dazio con la magistratura, la quale alla politica deviante affibbierà le colpe di un disastro.

Antonio Giangrande: Coronavirus. I nostri esperti? Inaffidabili.

Da rivedere le misure contro il contagio.

Il virus si trasmette tramite aerosol naturale (nebbia, pulviscolo, polveri sottili) a molti metri di distanza e per parecchio tempo. Si contagiano occhi, naso, bocca. Per questo servono mascherine che coprano occhi e naso ed occhiali che proteggano gli occhi.

Antonio Giangrande, autore del saggio “IL COGLIONAVIRUS”.

Antonio Giangrande: Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.

I protocolli adottati e resi obbligatori hanno dimostrato gli errori criminali dell’OMS (Organizzazione Mondiale di Sanità) ed dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) e del Comitato Tecnico Scientifico consulente del Governo.

I tamponi non previsti per gli asintomatici ed i paucisintomatici hanno fatto sì che gli infettati contagiassero tutti coloro che, prima, erano liberi di muoversi, e, dopo, era permesso di muoversi.

L’uso non previsto delle mascherine e di ogni apparato di protezione ha permesso agli infettati di contagiare ed ai sani di essere ammorbati.

La politica ha pensato bene di prevedere uno scudo penale per la sanità e per i suoi pseudo esperti scientifici.

Ergo: di questo scempio mai nessuno renderà conto, se non a Dio.

Covid-19: lo conosco; li conosco.

Il virus: mi ha colpito pesantemente. Ho rispettato tutte le regole imposte dagli incompetenti. Regole inutili visti i risultati di morti ed infetti, nonostante si voglia dare la colpa alla gente ligia al dovere. In ospedale mi hanno somministrato 15 litri di ossigeno con la saturazione del sangue a 82. Stavo per morire e non me ne rendevo conto. In ospedale ho visto morire gente che stava meglio di me. Un attimo prima scherzavano e ridevano; un attimo dopo annaspavano come se affogassero in mare. Non avevo ossigeno, ma avevo spirito, tanto da darlo agli altri. Mi sono salvato solo grazie alle cure sperimentali assunte su mia piena responsabilità, ma negate ai malati ignoranti o inconsapevoli sedati, incapaci di decidere.

Gli esperti: tutti si elevano a professoroni in tv nel parlare di qualcosa che non si conosce e quindi che non conoscono. Sballottando di qua e di là i cittadini, in base alle loro opinioni cangianti dalla sera alla mattina.

I coglioni sani, asintomatici o pauci sintomatici che non ci credono alla pericolosità del virus: dicono che sono un miracolato, perché avevo patologie pregresse, o, comunque, non curate. Tutto falso. I morti per Covid-19 sono il frutto della malasanità, specialmente quella nordica, falsamente eccelsa tanto pubblicizzata in tv, e/o di protocolli sanitari criminali. Sono menzogne divulgate da media prezzolati dal Potere incompetente ed incapace. Protocolli sanitari internazionali, giusto per dire: tutto il mondo è paese. Protocolli imposti da chi diceva che il Coronavirus non era pandemia. Ero sanissimo, più di altri. Uno sportivo di arti marziali che a 57 anni riusciva, prima, e riesce, ancora dopo, a fare 22 chilometri di corsa in un’ora e 45 minuti e con la bici da cross in 41 minuti. Per il mio lavoro ero e sono chiuso in casa da mattina a sera. Se ha colpito me, colpisce tutti.

I NoVax: cosa mi sentirei di dire a chi osteggia il vaccino? Cazzi loro. Di Covid-19 c’è ne per tutti, anche per loro. Mi spiace solo per i loro familiari, vittime inconsapevoli. Perché questa è una malattia che si trasmette, specialmente, alle persone più vicine. E poi direi che il vaccino non è solo la panacea di tutti i mali, ma sicuramente è la speranza che si possa uscire da quest’incubo. E chi non si nutre di speranza: muore disperato.

Dr Antonio Giangrande

Il lavaggio delle mani.

Quando lavarsi le mani avrebbe potuto portare i medici a processo. Massimiano Bucchi su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.

Col senno di poi: se il dottor Semmelweis fosse finito sotto inchiesta

 Il dottor Semmelweis è il titolo della tesi di laurea in medicina dello scrittore francese Louis-Ferdinabd Céline, discussa nel 1924. Vi si racconta la storia del medico che scoprì l’origine delle infezioni causate per esempio dalla scarsa igiene dei medici e che provocavano la febbre puerperale che uccideva moltissime donne dopo il parto. Massimiano Bucchi immagina in questo dialogo un’inchiesta a carico del dottor Semmelweis.

Un’aula di tribunale, Vienna, 1852.

«Dottor Semmelweis, partiamo dall’inizio. Quando ha preso servizio alla clinica Allgemeine Krankenhaus come assistente effettivo?»

«Il primo luglio 1846».

«E a quando risale la sua prima constatazione del numero elevato di partorienti decedute per febbre puerperale?»

«Quasi subito dopo la mia presa di servizio. Mi accorsi subito che si trattava di un vero flagello, che colpiva fino a trenta donne su cento».

«E che cosa fece allora?»

«Beh, ne parlai subito con alcuni colleghi, cercando di capire quale potesse essere la causa. Ma nessuno seppe darmi una spiegazione convincente».

«E quindi lei che spiegazione si dette?»

«Feci due ipotesi. La prima che la causa delle morti fosse l’aria cattiva e inquinata che si respirava in città».

(Sogghignando all’indirizzo dell’area in cui siede il pubblico e la stampa) «L’aria cattiva eh? Dunque secondo lei queste povere donne innocenti cadevano come mosche per l’aria cattiva. Ma le pare possibile?»

«Oggi no, chiaramente, ma allora era una possibilità».

«E la seconda ipotesi?»

«Che la causa fosse di natura psicologica. Vede, nel reparto passava continuamente il cappellano a dare le estreme unzioni alle moribonde. Ad ogni scampanellamento le partorienti si agitavano e trasalivano…»

(Scuote la testa, si mette le mani nei capelli) «Dottor Semmelweis ma si rende conto di quello che sta dicendo? Centinaia di donne sarebbero morte perché suggestionate dal campanello di un prete? Ma non si vergogna? Lasciamo stare, guardi. Mi dica che cosa accadde dopo».

«La morte di un collega, il povero Kolleschka, in seguito a un taglio accidentale mentre stava conducendo un’autopsia. Questo mi portò a notare che la mortalità delle puerpere era molto più elevata nei padiglioni in cui si praticavano anche autopsie da parte degli stessi medici».

«Oh, finalmente! E quindi?»

«Proposi l’introduzione di un semplice accorgimento, il lavaggio delle mani dei colleghi con una soluzione di cloruro di calce in modo da evitare di trasportare possibili agenti patogeni dalle autopsie ai parti. Infatti, le morti diminuirono subito drasticamente».

«Che periodo era?»

«Era il maggio 1847».

«Quindi quasi un anno dopo il suo arrivo. Ebbene, signori della corte, io ho qui una perizia giurata (sventola una cartellina) dell’illustre clinico dell’Università di Tubinga, il professor Andreas Kraneberger, peraltro ben noto anche per il suo impegno civile, secondo cui introducendo questa disinfezione delle mani sette mesi prima, quando questa strage era già sotto gli occhi di tutti, si sarebbero evitate 757 morti! Anzi, 758 con quella del suo povero collega!»

«Ma che calcolo è, scusi? Non ha senso: sette mesi prima noi la causa delle febbri non era ancora stata scoperta!»

«Ah, il suo invece sì che è un bel ragionamento. Di questo passo si dovrebbe concludere che il faraone egizio Ramses II non morì, com’è ormai accertato, di tubercolosi perché all’epoca la tubercolosi non era ancora stata scoperta vero?»

«Sì, cioè, no! Ma che cosa mi fa dire…senta, perché non processate i medici del faraone allora?»

«Non faccia lo spiritoso, dottor Semmelweis. Lei sa bene che i casi di malasanità in epoca egizia sono purtroppo ormai tutti prescritti. Parliamo del presente. Le pare normale che in pieno Ottocento, nell’epoca della scienza e della ragione, i medici non si lavino le mani prima di operare?»

«Oggi certamente no, ma evidentemente fino a poco tempo fa era normale. D’altronde è così che avanza la conoscenza, per prove ed errori…»

«Non ci dia lezioni di epistemologia dottore! Qui ci sono famiglie straziate che chiedono, e ne hanno il pieno diritto, verità e giustizia. Lei è un incosciente e un mascalzone, dottor Semmelweis, e io chiedo a questa corte di condannarla. È tutto, vostro onore».

Semmelweis esce a testa bassa.

(Dialogo immaginario. Ogni riferimento a persone esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale).

Quarantena e mascherine.

Antonio Giangrande: Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

L'Immunità di gregge è l'infezione totale ed immediata, tale da scongiurare la reinfezione, ove sussistesse come nel Coronavirus. La pandemia si estinguerebbe naturalmente in breve tempo.

Il Confinamento-Quarantena (Lockdown) e Coprifuoco è l'infezione graduale che, ove si manifestasse la reinfezione, sarebbe duratura e mai totale. La pandemia, negli anni, si fermerebbe, inibendo il protrarsi dell'infezione, tramite la prevenzione con i vaccini periodici, a secondo la variante del virus, che attivano gli anticorpi nei soggetti più forti, o con le cure con gli antivirali (combattono le cause) ed antinfiammatori (leniscono gli effetti). La quarantena è preferita per la speculazione effettuata su prevenzione e cura.

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No! No. Non perchè, per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia, ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

Sandro De Riccardis e Orlando Mastrillo per "la Repubblica" il 10 ottobre 2023. 

Una vera e propria «fame di denaro», giustificata «non solo da uno spregiudicato desiderio di profitto, ai limiti della cupidigia, ma altresì dalla necessità di “tamponare” i debiti dai precedenti fallimenti imprenditoriali». 

L’affare delle mascherine, che ha portato pochi giorni fa il pm di Busto Arsizio Ciro Caramore a chiedere il processo per Irene Pivetti per frode in forniture pubbliche, riciclaggio, contrabbando, bancarotta e altri reati, ha aperto uno squarcio anche sui rapporti con soggetti considerati vicini alla Camorra. «L’unica preoccupazione della Pivetti era quella di mettere le mani sui soldi», scrive la procura. «Ne hanno fatto le spese i clienti, che si sono trovati in mano mucchi di mascherine del tutto inutilizzabili».

Pivetti non si sarebbe fatta scrupoli a distribuirle, anche dopo che lei e il genero Camil Grimaldi (indagato) si rendono conto della pessima qualità dei dispositivi: «Di fatto Pivetti ci diede il via libera a consegnare la merce dopo aver parlato con Camil», ricorda una dipendente. Il tutto, aggiunge il pm nella richiesta di arresto poi respinta dal gip (per un problema di competenza territoriale sollevata dai legali Vincenzo Lepre per l’indagato Vincenzo Mega e Filippo Cocco per Irene Pivetti), in un quadro normativo emergenziale, «disatteso quasi completamente dai funzionari della Protezione civile ». Testimoni parlano di «rapporti amicali» tra Pivetti e l’ex vertice, Angelo Borrelli (non coinvolto nell’indagine).

«Si conoscevano da tanto — dice al pm un collaboratore di Pivetti — . Intuì che il contratto con la Protezione civile era stato ottenuto in virtù dei suoi rapporti politici». Un altro ricorda che «Pivetti ci aveva raccontato che Borelli aveva urlato al suo vice: “Muoviti, devi fare il bonifico!”». 

Dall’inchiesta, oltre al fallimentare progetto di un incubatore di aziende in viale Monza a Milano, affittato anche a Lele Mora, emerge come «Pivetti era entrata in rapporto d’affari con ambienti criminali campani, quasi certamente di matrice camorristica, orbitanti nell’area di Castellammare di Stabia». Il progetto riguarda il contrabbando di idrocarburi, assieme a Giuseppe Vitaglione (già coinvolto in un’indagine sulla vendita di greggio) e Alessandro Di Somma. 

Circostanze che «ben evidenziano la caratura criminale di Pivetti: non si faceva alcuno scrupolo a entrare in rapporti di affari (illeciti) con esponenti della criminalità organizzata». «Pivetti mi disse che avrei dovuto andarmene dalla palazzina perché ero malvisto da soggetti con i quali lei voleva collaborare — dichiara Lele Mora — Questi signori mi dissero che diversamente avrei passato un brutto quarto d’ora». «Sul progetto del gas, Pivetti aveva dei potenziali soci campani — conferma un altro teste —. Uno si chiamava Giuseppe, l’altro Alessandro. Uno sembrava Genny Savastano di Gomorra». 

Diversi gli sms tra Pivetti e Vitaglione: «Giuseppe, per quello che stiamo costruendo insieme, vorrei chiederle di parlare con suo padre per farmi conoscere di persona», scrive Pivetti nel dicembre 2018. «Non vorrei che nascesse qualche problema per lei se la vedono», è la risposta. 

Un mese dopo, Pivetti chiede “la protezione” di Vitaglione: «Dovrei incontrare gente fastidiosa. Mi sarebbe di grande aiuto incontrarli con lei, li aiuta a capire che non siamo fessi». «Io non ho assolutamente mai avuto nulla a che fare con la camorra — ha replicato ieri Pivetti — né ho mai avuto i comportamenti che mi vengono gratuitamente attribuiti».

Schillaci s’è svegliato: “Via la quarantena per i positivi”. Il ministro della Salute annuncia la fine dell’isolamento di 5 giorni per chi contrae il Covid. Siamo rimasti l’ultimo paese Ue. Claudio Romiti su Nicolaporro.it 8 Luglio 2023, 17:15

Secondo quanto riporta l’Ansa, il ministro della Salute, Orazio Schillaci starebbe pensando di togliere l’obbligo di 5 giorni di isolamento per i positivi al Covid-19. Quasi rammaricandosi per il fatto che gli italiani abbiano spontaneamente smesso di seguire le demenziali misure di contrasto per una malattia praticamente scomparsa, questo il suo laconico commento, espresso a margine dell’Assemblea nazionale di Farmindustria: “Adesso penso lo toglieremo, ma di fatto credo sia ampiamente inapplicato”.

Un paio di giorni prima, Gabriele Milani, direttore nazionale della Federazione Turismo Organizzato di Confcommercio, dichiarava in un comunicato di aver inviato una lettera allo stesso Schillaci ed al ministro del Turismo, Daniela Santanché, in cui si chiedeva la totale eliminazione di questo surreale residuo di quarantena, insieme all’altrettanto surreale prescrizione, sempre ai danni dei citati positivi, di indossare la mascherina Ffp2 per dieci giorni, una volta usciti dall’isolamento.

E Milani ci va giù veramente pesante nei riguardi delle nostre ancora incerte autorità, ad essere buoni, sottolineando che “gli altri stati Ue hanno già tolto isolamento e quarantena l’anno scorso e, per ultima, la Francia il 1 febbraio scorso. Non serve ricordare che l’Oms ha definitivamente dichiarato chiusa l’emergenza sanitaria il 5 maggio e che, per quanto ci risulta, l’Italia è il solo Paese ad aver mantenuto l’obbligo di isolamento per i positivi al Covid”.

“È un obbligo – rincara la dose il responsabile sindacale –  che rappresenta una criticità per le nostre aziende. Infatti, il Codice del turismo disciplina il recesso dal contratto di pacchetto turistico: le norme prevedono che il viaggiatore ammalato o infortunato possa recedere in ogni momento, ma debba riconoscere all’organizzatore i costi di recesso indicati nell’accordo. Ci sono viaggiatori che chiedono di recedere senza penali in caso di positività da Covid e senza stipulare alcuna polizza a copertura delle stesse penali di cancellazione, scaricando così sull’organizzatore del pacchetto ogni costo applicato dai fornitori nel caso in cui il cliente rinunciasse alla vacanza per colpa del virus e del conseguente obbligo di isolamento.

Inoltre Milani riporta le doglianze espresse da molte agenzie e strutture ricettive, le quali si trovano in difficoltà a gestire parecchi “casi di positività di clienti stranieri in vacanza in Italia, increduli che qui da noi sia ancora in vigore l’obbligo di isolamento.” In conclusione, a nome di uno dei più importanti settori economici del Paese, Milani ritiene “necessario allineare la normativa italiana al resto dell’Ue e al contesto sanitario attuale, tenendo anche conto che il 1° luglio è scaduto anche il regolamento europeo sul green pass e non si possono più emettere i certificati digitali interoperabili di vaccinazione, test e guarigione”.

A questo punto non resta che attendere speranzosi le prossime deliberazioni in merito da parte del nostro amletico ministro della Salute. Sebbene, in un sistema che sembra condannato all’immobilismo, nel quale sembra quasi una impresa togliere di mezzo un semplice cartelletto – tant’è che in tantissimi luoghi pubblici, ospedali compresi, sono ancora copiosamente presenti quelli relativi alle precauzioni anti-Covid – dovremmo sempre fare come il famoso San Tommaso: vedere per credere.

Claudio Romiti, 8 luglio 2023

Quelli che volevano ripulire le istituzioni. La parabola giudiziaria dei manager grillini. Minenna ultimo di una lista di boiardi M5s che va da Marra a Lanzalone. Pasquale Napolitano il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

Marra, Lanzalone, Minenna, Romeo: sono i nomi (e i volti poco conosciuti) di quei manager grillini chiamati a portare nelle Istituzioni la «rivoluzione» al grido honestà, honestà.

Di Maio, Raggi, Fico e Di Battista infiammavano le piazze, promettevano il Cambiamento. Marra, Minenna, Lanzalone, Romeo dovevano trasformare il sogno in realtà. Di quella stagione, segnata da un'euforia collettiva, resta l'incubo di una rivoluzione sommersa da fallimenti politici e inchieste giudiziarie. Come una maledizione, simile a quella dei fondali dove dorme il Titanic, quei manager scelti da Grillo, Di Maio e Raggi sono finiti tutti intrappolati in inchieste della magistratura. Ieri è toccato a Marcello Minenna, uno dei pochi boiardi grillini che ancora risultava indenne. L'ex capo dell'Agenzia delle dogane si trova agli arresti domiciliari nell'ambito dell'inchiesta aperta dalla Procura di Forlì sulle forniture di mascherine durante la pandemia. Era il fiore all'occhiello del potere pentastellato. Grillo stravedeva per Minenna. Di Maio lo volle assessore al Bilancio della giunta Raggi: delega pesante che Minenna restituì nelle mani del sindaco dopo 70 giorni per contrasti politici. Lo strappo non compromise il legame con il M5s che lo volle poi a capo dell'Agenzia delle Dogane. É stato in pole, sempre con lo sponsor di Grillo e Di Maio, per andare al timone della Consob. Un altro Grillo boys macinato dalla magistratura è stato Luca Lanzalone. Ligure (come il suo sponsor Grillo) fu il super consulente del Movimento, ascoltato da Di Maio e Casaleggio, e uomo di fiducia di Virginia Raggi. Fu piazzato dall'ex sindaco di Roma a capo di Acea, la prima municipalizzata dal Comune di Roma. La sua esperienza finì con le dimissioni dopo l'inchiesta della procura di Roma sul progetto dello stadio dell'As Roma.

Secondo l'accusa fu uno degli uomini che curò la mediazione tra la giunta M5s Raggi e la società Eurnova di Luca Parnasi per modificare, tra gennaio e febbraio 2017, il masterplan dell'impianto (con il taglio delle cubature). Quando il Ms5 conquistò il Campidoglio non poteva commettere passi falsi. E dunque Di Maio, Raggi e Grillo si affidarono a Raffaele Marra, un ex ufficiale della Guardia Finanza. Marra divenne in pochissimo tempo il plenipotenziario e braccio destro di Raggi: se ne andò nel dopo l'arresto da parte dei carabinieri con l'accusa di corruzione. Dopo Marra arrivò Salvatore Romeo che finì indagata della Procura di Roma per concorso in abuso d'ufficio. Più conosciuto è Domenico Arcuri: l'ex numero uno di Invitalia tra il 2018 e il 2020 si conquistò velocemente la stima dell'allora premier Giuseppe Conte che nella fase della pandemia gli affidò i poteri di commissario. Pure il manager contiano è stato travolto dall'inchiesta dalla Procura di Roma nell'indagine sull'acquisto di oltre 800 milioni di mascherine ritenute non conformi. Una maledizione.

Stinchi di santo. Nessuna voglia di mandare qualcuno sul rogo, né tantomeno di pronunciare sentenze quando le indagini sono solo agli inizi. Se così fosse non potremmo definirci garantisti. Augusto Minzolini il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

Nessuna voglia di mandare qualcuno sul rogo, né tantomeno di pronunciare sentenze quando le indagini sono solo agli inizi. Se così fosse non potremmo definirci garantisti. Semmai l'arresto di Marcello Minenna, ex direttore dell'Agenzia delle dogane e già assessore della giunta Raggi al Comune di Roma, per l'ennesima truffa sulle mascherine all'epoca della pandemia, offre uno spunto di riflessione sulla fenomenologia del Movimento 5 Stelle, da cui Minenna è stato lanciato prima di approdare all'assessorato della Regione Calabria guidata dal centrodestra. Anche perché sono diversi i cosiddetti tecnici grillini finiti nei guai. Dal superconsulente della Raggi, Luca Lanzalone, al capo di gabinetto sempre dell'ex sindaco di Roma 5 Stelle, Raffaele Marra. Si potrebbe aggiungere pure il nome, visto che siamo in tema di mascherine, dell'ex commissario straordinario per il Covid, Domenico Arcuri, voluto in quel ruolo da Giuseppe Conte.

Il tema è semplice: non basta presentarsi come dei giacobini, atteggiarsi a giustizialisti tutti d'un pezzo, lanciare accuse, requisitorie e sospetti al grido di «ladri, ladri», ispirarsi a Travaglio e al Fatto per imporre rigore di comportamenti e tenere lontano il malaffare. Anzi, spesso chi ostenta la propria onestà a parole e slogan, predica bene e razzola male. Ci vuole ben altro. Ci vuole soprattutto una «competenza» che il populismo grillino rifugge, guarda con diffidenza e che, francamente, il Movimento dell'uno vale uno non ha nel Dna. Competenza per non essere presi per il naso dai «tecnici» e districarsi tra i «burocrati». Competenza per sapere chi promuovere e chi no.

Ci sarebbe da rileggere Benedetto Croce quando considerava «il governo degli onesti» (tipico lessico grillino) «utopia per imbecilli». E ancora: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza». Siamo agli antipodi dell'atteggiamento grillino che si ubriaca di moralismo ed è fedele al credo giustizialista per coprire la propria inadeguatezza. E ora che l'Elevato non impressiona più nessuno e il Movimento - al tramonto - si è affidato ad un avvocato d'affari, vengono i sudori freddi se si ritorna con la memoria agli anni in cui i 5 Stelle erano nella stanza dei bottoni: la stessa sensazione che si ha sulle montagne russe, il pericolo del baratro ad ogni curva.

Appunto, ora che la maggioranza del Paese è cosciente di cosa ha rischiato, c'è da sperare che non si faccia più ammaliare dal populismo giustizialista, che non dia retta alle sirene di chi recita quotidianamente requisitorie contro gli altri per coprire la propria incapacità. Di chi moltiplica organismi di controllo inutili, di chi ha immaginato un sistema giudiziario in cui i processi possono durare una vita, di chi lancia ombre su qualsiasi scelta abbeverandosi alla dottrina che tutto è marcio. È una filosofia che i grillini portano all'esasperazione, ma che attrae anche un certo tipo di sinistra, quella che parla di impunità per lanciare una crociata contro la riforma della giustizia di Nordio. Il risultato? Decrescita infelice, un Paese fermo e un paradosso: gli ignoranti al potere fatti fessi da improbabili stinchi di santo.

 Tangenti e corruzione sul Covid: arrestati ex capo delle dogane ed ex deputato leghista. Stefano Baudino su L'Indipendente il 23 Giugno 2023

Per i magistrati, esisteva un “pactum sceleris” tra l’ex parlamentare leghista Gianluca Pini e l’ex direttore generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, oggi assessore in Calabria, Marcello Minenna, da cui sarebbero sfociate azioni delittuose per l’ottenimento di reciproci vantaggi. È quanto emerge dalla maxi-inchiesta della Procura di Forlì e della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, che ha portato 34 persone agli arresti domiciliari o in carcere e al sequestro di 63 milioni di euro. Sia Pini che Minenna sono stati arrestati e, tra gli altri soggetti raggiunti da misure cautelari, ci sono funzionari della Prefettura di Ravenna e dell’Ausl Romagna.

L’attuazione del patto criminale stretto dalle due figure più note dell’inchiesta risalirebbe al contesto della pandemia. Secondo la ricostruzione della Procura, l’ex deputato del Carroccio – in Parlamento dal 2006 al 2018 – avrebbe promesso a Minenna di “accreditarlo all’interno della Lega” così che “venisse considerato un uomo di quel partito”, promettendogli inoltre “la conferma della nomina a direttore generale dell’Agenzia delle Dogane a seguito del cambio del governo, che effettivamente otteneva”. Conseguentemente, scrivono i pm, Minenna “accettava le promesse in cambio dell’asservimento della sua funzione pubblica”.

Pini avrebbe gestito “una rete di rapporti che gli ha permesso, tra l’altro, di ottenere un appalto milionario dall’Ausl Romagna”, che comprende i territori di 73 comuni, tra cui Forlì, Cesena, Ravenna e Rimini, “per la fornitura di dispositivi medici (attività rispetto alla quale non sussisteva alcuna specifica attitudine aziendale) lucrando così anche sulla crisi pandemica del 2020“. Nel periodo Covid, infatti, Pini era passato dal settore della ristorazione a quello della fornitura di mascherine provenienti dalla Cina, accaparrandosi un appalto da 3,5 milioni di euro senza gara dalla Regione. Poiché le mascherine sarebbero state prive delle necessarie certificazioni, per questa vicenda si ipotizza per lui il reato di truffa. Proprio qui sarebbe risultato fondamentale il ruolo giocato da Minenna: secondo i pm, che parlano di “comprovati rapporti corruttivi” tra Pini e l’ex numero uno dell’Agenzia delle Dogane, la connivenza nell’importazione da parte dell’ente sarebbe stata determinante.

Attraverso le intercettazioni telefoniche e ambientali, svolte nel quadro di un’inchiesta partita da un sequestro di 28 chili di cocaina proveniente dal Belgio, gli investigatori hanno scoperto un “forte e consolidato rapporto personale e d’affari” tra un imprenditore forlivese attivo nel settore degli autotrasporti e Gianluca Pini, che “grazie al suo incarico istituzionale” si sarebbe assicurato “la presenza di persone a lui asservite all’interno di diverse istituzioni pubbliche locali e nazionali” che gli “garantivano la cura dei suoi interessi all’interno dell’amministrazione di appartenenza”. Gli inquirenti parlano esplicitamente di “due veri e propri ‘sistemi’ di illecito arricchimento” facenti capo agli universi economici riconducibili all’ex parlamentare e all’imprenditore di Forlì, “uniti, oltre che da saldi e fiduciari rapporti privati, da vicendevoli interessi finanziari”. Per quanto concerne la posizione dell’uomo d’affari forlivese, i pm scrivono che “si giovava di importanti conoscenze criminali legate alla malavita albanese e al narcotraffico per approvvigionarsi di denaro da reinvestire in attività formalmente lecite o per acquisto di immobili”.

Marcello Minenna, in seguito all’arresto, è stato automaticamente sospeso (come prevede la legge) dall’assessorato in Calabria. Il presidente della regione forzista Roberto Occhiuto ha dichiarato di voler «confermare» la sua «fiducia a Minenna», che in Calabria «ha svolto molto bene il proprio lavoro, in modo particolare per quanto riguarda i fondi comunitari». [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Giuseppe Baldessarro per repubblica.it il 23 giugno 2023.

Le auto sequestrate e confiscate dall’Agenzia delle Dogane finivano a politici e ministri come “auto di cortesia”. C’è anche questo nell’atto d’accusa che ha portato l’ex direttore generale dell’agenzia, Marcello Minenna, agli arresti domiciliari. 

Minenna, scrivono gli investigatori “tra il 2020 ed il 2022 assegnava le auto in violazione di qualunque normativa di riferimento e con il solo fine di accrescere la propria personale sfera di influenza su esponenti politici e alti rappresentanti delle istituzioni, ha consegnato svariate autovetture confiscate dall'Agenzia delle dogane e dei monopoli disponendone come se fossero suoi beni personali”.

[…] Una conversazione registrata il 16 aprile 2021 - all’epoca del governo Draghi - finita agli atti dell’indagine per la frode delle mascherine prive di certificazione vendute da Pini all’Ausl di Forlì. Una delle auto sarebbe finita all’allora ministro del Turismo, Massimo Garavaglia. Dice Minenna a Pini: “Io gli sto dando una mano a costruire la sua segreteria … gli ho anche dato la macchina di servizio … gli ho dato una macchina sequestrata”. 

La circostanza è stata successivamente confermata anche da un collaboratore del direttore dell’Agenzia che interrogato a Bologna ricordava si trattasse di una Lexus […]: “Se non ricordo male ne diede una anche a Brunetta e a diversi altri ministri in carica”. […] il 31 ottobre successivo delle macchine sequestrate si torna a parlare in un’altra intercettazione. 

L’interlocutore di Minenna questa volta è l’ex ministro dell’Economia Vincenzo Visco. Quest’ultimo infatti sembra conoscere la prassi del direttore a cui chiede: “Ho capito della distribuzione delle auto, delle auto … cioè ma a quello gli dovevi dare una Porsche? Perché gli dovevi dare una Porsche?”. E Minenna con toni confidenziali spiega: “Enzo perché ognuno si sceglie dal sistema l’auto che vuole …”.

Estratto dell’articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2023. 

[…] Lo scorso 21 aprile, in un’ordinanza precedente a quella eseguita ieri, il gip di Forlì riporta una serie di testimonianze e intercettazioni dalle quali emerge la preoccupazione di Marcello Minenna […] di non essere riconfermato alla guida dell’Agenzia delle dogane: «Il Pini assicurava che avrebbe interceduto personalmente presso l’onorevole Giorgetti (all’epoca, luglio 2020, non era ministro, ndr )».

[…] Minenna […] Si era affidato a Pini promettendogli favori che i magistrati hanno letto come prezzo della corruzione. […] 

[…] Il dg parla con diversi «esponenti politici e/o alti rappresentanti delle istituzioni» […] e assicura la «dazione di auto di rappresentanza che erano in carico all’Agenzia delle dogane e dei Monopoli».

Il fatto di assegnare i mezzi era stato oggetto, il 18 ottobre 2022, di una nota del Mef nella quale si sottolineava chiaramente la «non conformità di tale usanza» introdotta da Minenna «di concedere gratuitamente, senza aste pubbliche, auto anche di grossa cilindrata ad esponenti politici e/o alti rappresentanti delle istituzioni».

[…] In un appunto della polizia giudiziaria del 4 maggio scorso, tra il 2020 ed il 2022, Minenna assegnando le auto «in violazione di qualunque normativa di riferimento e con il solo fine di accrescere la propria personale sfera di influenza su esponenti politici e/o alti rappresentanti delle istituzioni, ha consegnato svariate macchine confiscate dall’Agenzia come se fossero suoi beni personali».  Senza aste pubbliche queste assegnazioni sono «illegittime e produttive di rilevante danno erariale per l’amministrazione pubblica». […]

Estratto dell’articolo di Giuseppe Colombo per “la Repubblica” il 23 giugno 2023.

L’ossessione per il potere, dietro l’autodefinizione di civil servant. Così sfrenata, la smania di Marcello Minenna, da non lasciare nulla al caso. Perché nella spericolata parabola dell’ex direttore generale dell’Agenzia delle Dogane, [...] tutto può essere funzionale ad aggiungere un tassello in più al disegno dell’autocelebrazione. E tutto, perciò, deve essere posseduto. Soprattutto amministrato. 

A iniziare dalla cura del corpo, immagine emblematica di quel culto della persona coltivato giorno per giorno. Per questo nell’estate del 2016, fresco di nomina ad assessore al Bilancio della Giunta grillina guidata da Virginia Raggi, pretese e ottenne di ricavare una mini palestra dentro i suoi uffici. E la maniacalità per i particolari trovò sfogo in una barra appesa a una porta per tirarsi su e provare a scolpire gli addominali.

Restò poco o nulla di quell’esperienza, la prima avventura politica per il manager laureato alla Bocconi, che fino ad allora si era diviso tra la multinazionale Procter & Gamble e la Consob. Fu l’allora capo politico dei 5 stelle Luigi Di Maio a volerlo a fianco della sindaca. 

Ma l’idillio [...] durò appena settanta giorni, prima dell’addio furibondo, condito da una lettera velenosa contro la nomina di Salvatore Romeo a capo segreteria [...]. Ma il destino di Minenna è rimasto legato ai 5 stelle tanto che nel 2019 arrivò a sfiorare la nomina a presidente della Consob, preferito al fotofinish a Paolo Savona. 

[...] la spinta non si è fatta attendere quando si è trattato di resettare le agenzie fiscali. Serviva un uomo di fiducia, ai grillini. E Minenna era l’uomo giusto per il posto giusto: le Dogane. Chiamato [...] a rendere visibile un lavoro che tradizionalmente è poco esposto perché delicato. E lui [...] non se l’è fatto ripetere due volte. Il trasloco a piazza Mastai, nel centro di Roma, trasformato in una missione napoleonica, con tanto di loghi in marmo sui muri dei suoi uffici.

Le spese folli, come quei 21 milioni di euro spesi per tirare a lucido i dodicimila dipendenti [...], dai giubbotti ai pantaloni, passando per felpe, stivaletti e maglioni. E poi distintivi e stellette, per elevare la “sua” creatura. 

Soldi pubblici, soprattutto soldi sprecati. [...] E poi la storia dello yacht sequestrato e poi restaurato con il logo delle Dogane: spesa, 200mila euro. L’imbarcazione senza aver percorso un miglio è stata in seguito assegnata alla Guardia di Finanza. Mentre lui, [...] a gennaio ha trovato rifugio in Calabria, nella squadra del governatore forzista Roberto Occhiuto. Assessore all’Ambiente, questa volta. [...]

LETTERA DEL DIRETTORE DEL “SOLE 24 ORE” FABIO TAMBURINI il 23 giugno 2023.

Caro Dago, vedo che riprendi una nota del cdr sul provvedimento cautelare nei confronti di Marcello Minenna che ha una rubrica settimanale sul Sole. Ovviamente la rubrica verrà sospesa. Ma lasciami dire, chiosando Papa Francesco, chi sono io per giudicare? 

Ricordo soltanto che il gotha delle istituzioni e della magistratura ascoltavano e applaudivano le considerazioni che il dottor Minenna svolgeva nel corso delle sue relazioni annuali. Per quanto mi riguarda la sua rubrica era sempre piena di spunti che favorivano il dibattito economico. Attenderò gli sviluppi dell inchiesta sperando, da garantista convinto, che il dottor Minenna possa chiarire la sua posizione. 

Cordiali saluti e buon lavoro.

Fabio Tamburini

Da ilsole24ore.com il 23 giugno 2023. 

Nel novembre 2021 così scrivevamo in una mail alla direzione rimasta senza esiti: 

Ciao direttore, come avrai letto, dalle notizie di queste ore risulta che il nostro collaboratore, Marcello Minenna è attualmente indagato dalla procura di Roma per abuso d'ufficio. 

In casi simili, anche nel recente passato, abbiamo sempre adottato una linea di prudenza, a tutela della credibilità della nostra testata: crediamo che anche questa volta sarebbe opportuno seguirla.

Ti chiediamo, quindi, di valutare la sospensione della collaborazione di Minenna, in attesa che la vicenda venga chiarita. 

Ieri Marcello Minenna è stato arrestato nell'ambito di un'inchiesta della procura di Forlì. Il reato contestato è la corruzione. A Marcello Minenna, che ha proseguito in questi anni la sua collaborazione con Il Sole 24 Ore (ancora quattro giorni fa un suo articolo era ospitato come sempre in prima pagina), auguriamo sinceramente di chiarire la propria posizione nel più breve tempo possibile.

Al direttore torniamo a chiedere, questa volta pubblicamente, la sospensione della collaborazione. In questione infatti non c'è un atteggiamento rispetto alle politiche della giustizia e alle singole indagini che continuiamo a interpretare come garantista, quanto piuttosto la reputazione della testata e di tutta la redazione. 

Tema che dovrebbe stare tanto più a cuore ad un'azienda che da tempo richiama, peraltro del tutto impropriamente, i giornalisti al rispetto degli interessi morali e materiali della società.

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 23 giugno 2023.

«Noi vecchi leghisti teniamo alle persone serie come te…». Nel leggere gli atti dell’indagine sul sistema Dogane e le intercettazioni a essa allegate […] Gianluca Pini — ex deputato ma soprattutto leghista della prima ora prima che entrasse in rotta, fortissima, con il segretario Matteo Salvini, tanto da portarlo in tribunale per la gestione del partito — stupisce non tanto la disinvoltura negli affari e nelle richieste («Marcello, ho quel carico bloccato…»), alla fine comune con un certo tipo di indagini.

Quanto la disinvoltura con la quale metteva un partito — e le istituzioni — a disposizione dei suoi business personali. Di come confondesse, le parole sono del gip di Forlì Massimo de Paoli, «la funzione pubblica» e il «profitto privato». 

Pini non è considerato infatti soltanto «un faccendiere» o un banale «intermediario ». Ma piuttosto un «soggetto che esercitava una funzione pubblica: in cambio di utilità all’interno del partito Lega Salvini premier», scrive il gip, «assicurava vantaggi grazie al suo rapporto personale con i pubblici ufficiali, ignari dell’accordo corruttivo».

Cosa significa? Pini ha un «patto corruttivo » con il direttore delle Dogane, Marcello Minenna; una promessa di copertura politica in cambio dei favori alle sue società. L’ex deputato leghista vantava soprattutto la sua vicinanza con l’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, di cui in passato è stato anche socio. Ma con il quale da qualche tempo — giurano dall’entourage di Giorgetti — non ha nulla a che fare.

Giorgetti non è in alcun modo coinvolto nell’inchiesta. «Mi hanno detto però che Pini era il suo braccio destro» racconta ai magistrati uno degli assistenti di Minenna. L’ex deputato leghista effettivamente si muoveva come tale. Per dire: a luglio del 2020 Minenna tempesta di telefonate Pini perché Giorgetti partecipasse alla «presentazione del libro Blu», un lavoro dell’Agenzia delle Dogane. «Con la tua Autorevole Garanzia… » dice a Pini.

«Gli parlo io!», lo rassicura l’ex deputato. Giorgetti però dà buca (ma poi rimedia partecipando qualche mese dopo a un altro incontro). E Pini si fa perdonare in altra maniera. […] E così si muove direttamente con Giorgetti. È il 9 aprile quando chiama l’allora ministro allo Sviluppo economico: «Minenna è incazzatissimo. Chiamalo e digli guarda è un deficiente, scusami ti chiedo scusa io». «Va bene, mo lo chiamo io» gli dice Giorgetti. «E infatti — annota il gip — il ministro contattava Minenna alle 17,25 del 10 aprile, in una telefonata che dura 231 secondi».

Minenna è contento: «Mi ha fatto molto piacere» dice a Pini ricordando come già qualche mese prima, sempre grazie alla sua intercessione, aveva sentito Giorgetti. «Noi leghisti teniamo a persone serie come te». Pini mette a disposizione dei suoi affari tutta la Lega. Minenna vuole parlare con Zaia? Lui lo cerca. […] Minenna cerca una sponda in Piemonte? Pini cerca Riccardo Molinari, «già vicepresidente regionale». Ci sono brutti articoli sulle Dogane? «Ora sento i direttori». 

La “buona stampa” non era però soltanto una questione di narcisismo. Ma serviva ad altro: Minenna voleva infatti la riconferma alle Dogane. E, più in avanti, mirava alla poltrona di “presidente Consob”, ente da cui proveniva. Si muoveva con tutto il governo, grazie dice il gip, al «sistema delle auto sequestrate » (una, per esempio, era stata messa a disposizione dell’allora ministro leghista, Massimo Garavaglia). 

Ma Pini resta il suo core business. «Dopo il cambio di governo di febbraio 2021, poteva non essere riconfermato per effetto dello spoils system» scrive il gip. «E sapeva che solo attraverso il sostegno del ministro Giorgetti e, più in generale, del partito della Lega poteva ottenere la riconferma. «Facciamo un punto con Giancarlo in prospettiva?» chiedeva a Pini già a febbraio. «Io sono certo del suo supporto dopo le tue parole» gli dice.

E ancora più avanti: «Io speravo di essere aiutato dalla Lega…» gli dice, prima di incontrarlo a Roma. Il lavoro va a buon fine. Il 16 aprile 2021 Minenna incontra Giorgetti. Parlano, probabilmente, della nomina. Ma anche di un decreto — «sui prodotti metallici» — che interessava al ministro e per il quale Minenna si prodiga […]. Il 21 maggio Minenna veniva riconfermato. 

Le persone vicine a Giorgetti fanno notare che la nomina non dipendeva del suo ministero. E anzi quando è toccato a lui, arrivato al Mef, Minenna è stato mandato a casa. […]

Estratto dell’articolo di Paolo Baroni per “la Stampa” il 23 giugno 2023. 

Il suo sogno era fare dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli il quinto corpo di polizia del Paese, con tanto di nuove divise al posto delle tradizionali pettorine, gradi con mostrine e stellette applicate al personale civile, macchine e mezzi con la livrea dell'Adm ed una targa speciale come quella in dotazione al pari di Carabinieri e Guardia di Finanza.

Per l'appalto del vestiario, […] aveva messo in conto ben 21 milioni di euro di spesa sfociata in un atto di censura da parte dell'Autorità anticorruzione per violazione della par condicio, della libera concorrenza e massima partecipazione nella gara d'appalto ed in una denuncia per abuso d'ufficio. 

Alle Dogane Marcello Minenna, 51 anni originario di Bari, una laurea in economia alla Bocconi ed un master alla Columbia, era arrivato a inizio 2020 designato dal governo Conte. Incarico di consolazione dopo aver sfiorato la nomina a presidente della Consob sospinto dall'allora presidente grillina della Commissione Finanze Carla Ruocco a lui molto vicina.

Nell'orbita dei 5 Stelle Minenna era entrato nel 2016 quando su indicazione di Beppe Grillo e Luigi Di Maio era stato nominato super assessore nella giunta Raggi con deleghe su bilancio, patrimonio, partecipate e spending review, incarico che però aveva lasciato dopo appena 70 giorni a causa di dissidi interni. 

Nel suo curriculum […] on line Minenna si presenta come «civil servant», ed «economista esperto in finanza stocastica», professore a contratto alla Sapienza e all'Università San Raffaele di Roma. Lasciata l'Adm a gennaio Il suo ultimo incarico, dal quale ieri è stato subito sospeso, era quello di assessore tecnico della Regione Calabria con delega all'ambiente.

La sua idea di «militarizzare» i 10 mila dipendenti di Monopoli e Dogane, in realtà, ha avuto vita breve scontrandosi innanzitutto col veto della Finanza […]. Erano però rimaste le divise, ma private delle mostrine, oltre 40 tipi differenti, che scandivano le qualifiche contrattuali del personale […] e le 4 stelle riservate al direttore generale, ovvero allo stesso Minenna. Da inizio anno col cambio di gestione tutti i dipendenti dell'Adm sono tornati a vestire solo abiti civili. […]

Estratto dell’articolo di Vanessa Ricciardi per “Domani” il 23 giugno 2023.

«Un pactum sceleris» tra Gianluca Pini, un tempo vicinissimo al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ed ex parlamentare leghista, e l’ex direttore generale dell’Agenzia delle dogane Marcello Minenna, oggi assessore in Calabria. Questa l’ipotesi dei pm di Forlì che ha portato alla richiesta di arresto dei due uomini con l’accusa di corruzione per l’importazione di mascherine durante il Covid-19.

Pini, si legge nell’ordinanza del tribunale di Forlì, prometteva a Minenna di accreditarlo all'interno della Lega e la riconferma della nomina a direttore generale dell'Agenzia delle Dogane. Minenna dal canto suo, consapevole del ruolo di primo piano nella Lega dell’ex parlamentare diventato imprenditore (e importatore di mascherine), faceva di tutto per andare incontro ai suoi interessi: «Interveniva in prima persona con gli uffici territoriali per risolvere i problemi di Pini», oppure «chiedeva ai suoi collaboratori di mettersi a disposizione». 

Nell’ordinanza del tribunale di Forlì i messaggi di “Gianluca” a “Marcello”: «Ciao Marcello, scusa il disturbo ma stanno lentamente arrivando le mascherine per gli ospedali», il riferimento per sbloccare il lotto più velocemente, e «grazie mille». 

Le conoscenze di Pini erano di alto livello. Le comunicazioni acquisite dagli investigatori hanno ribadito l'esistenza dei legami dell'ex parlamentare con esponenti politici di rilievo nazionale. «È emerso che l’indagato Pini conversa con persone che nel corso delle indagini risultavano svolgere l'incarico di parlamentari della Repubblica italiana, come l’onorevole Giancarlo Giorgetti, l’onorevole Jacopo Morrone e altri ancora». 

Dal Mef ricordano a Domani che i rapporti tra Pini e il ministro dell’Economia si sono però interrotti da tempo, e che il leghista nulla sa degli affari dell’imprenditore di Forlì sulle mascherine, tantomeno dei suoi rapporti con l’economista ex Consob. 

Anche Minenna, quanto a contatti importanti, non è da meno. Dopo che non era stato ritenuto necessario in un primo momento, adesso il tribunale ha disposto gli arresti domiciliari, anche a fronte del fatto che nel 2021, prima ancora che gli venisse notificata un’altra indagine della procura di Roma, si era mosso con il parlamentare del Pd Luciano D’Alfonso per capire come difendersi al meglio dalle accuse dei magistrati. 

[…] A scoperchiare il “pactum” è stata inizialmente un’inchiesta parallela sul narcotraffico. Un imprenditore forlivese con precedenti penali secondo gli inquirenti avrebbe fatto parte di un giro internazionale di spaccio. Con le intercettazioni telefoniche e ambientali è emerso un consolidato rapporto personale e d’affari tra lui e Pini.

Gli investigatori hanno scoperto che quest’ultimo, intercettato a sua volta, sfruttando conoscenze di alto livello maturate grazie all'incarico istituzionale in parlamento nel tempo è riuscito a garantirsi la collaborazione in istituzioni pubbliche, locali e nazionali. La rete di rapporti gli ha permesso appunto di ottenere anche un appalto milionario dall'Ausl Romagna per la fornitura di dispositivi medici, «attività rispetto alla quale non sussisteva alcuna specifica attitudine aziendale» […]. Interpellato da Domani alla fine del 2021 rispondeva: «Non sapevo nemmeno come fosse fatta una mascherina».

Il lockdown per frenare il Covid-19 era stato proclamato il 9 marzo una settimana dopo, la società di Pini si aggiudicava un appalto pubblico per la fornitura di mascherine per oltre tre milioni di euro. […] 

Nelle conversazioni presentate dai pm, Minenna sapeva che Pini aveva legami politici di primo piano. Quelli che, sembra, gli interessavano davvero. Aveva spiegato ad Alessandro Canali, ex dirigente poi licenziato in tronco dal grillino (la vicenda è finita in tribunale), l'importanza di Pini perché «braccio destro di Giorgetti». Una sponda per accreditarsi presso il centrodestra nella prospettiva di una progressione di carriera all'interno delle istituzioni. Si fa riferimento a ipotesi di ruoli ministeriali o nella Consob.

Minenna si sarebbe offerto a Pini dicendogli che avrebbe in seguito saputo a chi «essere grato». Qualche giorno prima del 31 gennaio 2020, data nella quale era nominato direttore dell'agenzia delle dogane dei monopoli, faceva capire a Pini che insieme avrebbero lavorato come una squadra. 

Attaccato dall’ex deputato Paolo Tiramani, Minenna chiedeva a Pini di fargli giustizia. Pini chiamava Morrone per difenderlo visto che lo «abbiamo messo io e Giancarlo (Giorgetti, ndr)». Una millanteria, secondo l’entourage del ministro.

Frequenti, certamente, da parte di Minenna le richieste di intercessione presso Giorgetti. Nel 2020 Giorgetti contattava Minenna nel tardo pomeriggio del 10 aprile 2020, dopo che Pini aveva inviato a Minenna il seguente messaggio: «Ti chiamerà Giancarlo». 

Minenna cercava anche contatti pubblici. Dopo diversi eventi a cui Giorgetti tornato ministro si era negato, alla fine, racconta Canali, «ricordo che Minenna si era rivolto a Pini per far venire Giorgetti all'evento della “Casa dell'anticontraffazione”», nel 2021. Fu «rilevante, anche perché venne Bruno Vespa e si organizzò una tavola rotonda con personaggi di spicco, tra cui il ministro Giorgetti. So che la presenza di Giorgetti avvenne grazie all'intervento di Pini».

Minenna si era convinto che era la svolta leghista che desiderava. L’indagine ha rilevato che Pini aveva raggiunto un grado di «monopolio conseguito in ambienti istituzionali di sicuro spessore» e «l’eccezionale rete di conoscenze» costruita negli anni grazie alla sua pregressa attività di deputato, grazie alla quale avrebbe ottenuto «la compiacenza spesso servile nei suoi confronti da parte di uomini delle pubbliche istituzioni». […]

Estratto dell’articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2023.

«Pini agiva nella prospettiva funzionale di vedere riconfermato Minenna nel ruolo di direttore generale dell’Agenzia delle dogane. Si muoveva al fine di sollecitare la partecipazione ad alcuni eventi importanti da parte dell’onorevole Giancarlo Giorgetti, presentazione del libro Blu, inaugurazione della Casa dell’Anticontraffazione...». 

Lo scorso 21 aprile, in un’ordinanza precedente a quella eseguita ieri, il gip di Forlì riporta una serie di testimonianze e intercettazioni dalle quali emerge la preoccupazione di Marcello Minenna, rispetto al quale aveva peraltro negato la misura cautelare, di non essere riconfermato alla guida dell’Agenzia delle dogane: «Il Pini assicurava che avrebbe interceduto personalmente presso l’onorevole Giorgetti (all’epoca, luglio 2020, non era ministro, ndr)».

A leggere gli atti sembra che la rovina di Minenna sia stata la ricerca, ansiogena, di accreditarsi con i partiti di governo per non perdere la poltrona. Si era affidato a Pini promettendogli favori che i magistrati hanno letto come prezzo della corruzione. 

«Parlo io a Giancarlo»

Giorgetti veniva dunque contattato per partecipare alla presentazione del libro Blu, dove Giorgetti non andò, e all’inaugurazione della casa dell’Anticontraffazione. 

«Nel maggio 2021 si ipotizzava la non riconferma per l‘indisponibilità del politico alla partecipazione dell’evento». Il dg delle Dogane cercò così un contatto diretto e poi di nuovo attraverso Pini: «Però con una tua... autorevole... garanzia». E Pini: «Parlo io con Giancarlo per avere la certezza».

«Però Gialù, io sono in squadra e Matteo (Salvini, ndr) lo sa, Giancarlo (Giorgetti, ndr) pure... non riesco a capire perché questi mi trattano...». 

[...] Il dg parla con diversi «esponenti politici e/o alti rappresentanti delle istituzioni», scrive il magistrato, e assicura la «dazione di auto di rappresentanza che erano in carico all’Agenzia delle dogane e dei Monopoli». 

Il fatto di assegnare i mezzi era stato oggetto, il 18 ottobre 2022, di una nota del Mef nella quale si sottolineava chiaramente la «non conformità di tale usanza» introdotta da Minenna «di concedere gratuitamente, senza aste pubbliche, auto anche di grossa cilindrata ad esponenti politici e/o alti rappresentanti delle istituzioni». 

In un appunto della polizia giudiziaria del 4 maggio scorso, tra il 2020 ed il 2022, Minenna assegnando le auto «in violazione di qualunque normativa di riferimento e con il solo fine di accrescere la propria personale sfera di influenza su esponenti politici e/o alti rappresentanti delle istituzioni, ha consegnato svariate macchine confiscate dall’Agenzia come se fossero suoi beni personali». 

Senza aste pubbliche queste assegnazioni sono «illegittime e produttive di rilevante danno erariale per l’amministrazione pubblica».

Attraverso il suo staff il ministro Giorgetti ha fatto sapere di essere totalmente estraneo alla vicenda Pini- Minenna. Ha precisato che in ogni caso non ha bisogno di intermediari per parlare con il direttore delle Dogane e partecipare agli eventi. Dubbio: Pini forse millantava? Anche perché alla fine Minenna non ha ottenuto un granché: ha lasciato l’Agenzia ed è stato pure arrestato. 

Mascherine Pulite – Le intercettazioni. Quell’aiuto chiesto ai dem su come comportarsi con i pm. D’Alfonso a Minenna: “Scegli un avvocato che prende il caffè nei palazzi alti”. Rita Cavallaro su L'Identità il 23 Giugno 2023 

Marcello Minenna voleva influenzare i pubblici ministeri di Roma che indagavano sulle minacce del direttore dell’Agenzia delle Dogane nei confronti del funzionario dell’Antifrode Miguel Martina, incaricato nei primi mesi del 2020 di investigare su una presunta truffa sulle mascherine prive di certificazione che entravano in Italia. Ad accertarlo è il giudice per le indagini di Forlì, che nella richiesta di custodia cautelare ai domiciliari per Minenna ha ravvisato il pericolo di inquinamento delle prove, riportando una telefonata del 5 novembre 2021 che l’allora numero uno delle Dogane, piazzato in carica dal governo Conte, aveva fatto a Luciano D’Alfonso, parlamentare del Pd e amico di lunga data, in quanto aveva lavorato in passato con il padre del grillino. Scrive il gip: “Durante la conversazione Minenna chiedeva al dem alcuni consigli su come comportarsi nella fase delle indagini preliminari pendenti presso la Procura della Repubblica di Roma. La telefonata assume rilievo in quanto è particolarmente indicativa della spiccata attitudine di Minenna di intessere relazioni con esponenti di tutti gli apparati dello Stato proprio al fine di soddisfare le sue esigenze private, cercando di incidere concretamente sullo sviluppo delle indagini“. 

Ecco la conversazione: 

Minenna: “Pronto?”

D’Alfonso: “Marcè”

Minenna: “Eccoci caro”

D’Alfonso: “Fammi di’ due, tre cose… intanto complimenti per questa battaglia. Allora, due, tre cose, sei solo? Puoi ascoltarmi bene?

Minenna: “Allora un attimo che mi sposto… ora sono solo dimmi”

D’Alfonso: “Allora bene questa cosa è un punto fermo importante… questa cosa del giudice del Lavoro… io adesso ti devo dettagliare tre questioni. Al Mef hanno impaludato la tua credibilità (il riferimento deve intendersi alla cessione della auto confiscate ad esponenti politici criticata dal Mef, scrive il gip), il che non significa che io faccia il giornalista riferitole, io non mi limito mai a riferirti quello che ascolto, io ho già edificato controdeduzioni, ho già edificato minimalismo di lettura, però tu non puoi essere minimalista sui rischi e sui pericoli per i quali devi reagire proporzionalmente. La prima cosa che devi fare è contro dedurre rispetto ad ogni attacco, non fare l’errore di essere minimalista. Il verosimile… io ti parlo… io non sono un teorico della Luiss. Il verosimile si impossessa di sostituire la verità. Se tu non contro deduci idoneamente, non tu da solo, tu devi scrivere le controdeduzioni, dopodiché il valore a quello che tu scrivi dopo glielo dò io dialogando al Mef, glielo dò io dialogando in Parlamento, tu glielo dai parlando con i tuoi amici giornalisti. Tieni conto se tu oggi dovessi fare il libro blu (un’iniziativa fatta alla Dogane, ndr) mettiamo caso sui 10 che ti hanno applaudito, oggi ne troveresti 4 per ragioni di vigliaccheria dell’Italia salottiera. Tu adesso devi lavorare per ripristinare l’ordine. Che cosa ti consiglio di fare io. Uno: contro dedurre, sai che significa? Punto per punto anche le cazzate… ti dicono che tu hai avvelenato le mosche? E tu devi dire che le mosche non sono avvelenatili per questa ragione. Ti dicono che tu hai pettinato le bambole? Tu devi dire che non hai mai avuto pettini per pettinare le bambole. Terzo: secondo dato. Scegliti un avvocato non di seconda mano che vada prendere i caffè… nei luoghi non te lo devo dire io, lo sai tu dove sono i luoghi dove si prendono i caffè perché in Italia c’è una parte che si chiama procedimento… ascoltami bene… ascoltami bene e togliti tutte le cose che fanno adesso nei tuoi ambienti, questa è verità rivelata. L’accertamento della verità in Italia è fatto di due pezzi: un primo pezzo si chiama procedimento, un secondo pezzo si chiama processo. Gli avvocati vogliono lavorare sul processo perché vengono pagati. Tu devi lavorare sul procedimento che è la fase iniziale, è quando l’ovulo incontra lo spermatozoo non quando c’è il feto e nella fase del procedimento servono i colloqui nei palazzi alti, dove l’avvocato va, parla, prende il caffè e sedimenta l’opinione favorevole. Ti consiglio di mettere un avvocato idoneo, non ascoltando quello che dicono gli avvocati, ma se non hai fatti formali aspetta… nooo! Subito l’avvocato idoneo e a Roma ce ne sono tre o quattro che io non ti devo suggerire. Avvocati che abbiano capacità di curvare la schiena e capacità di mettere in campo credibilità”

Minenna: “Eeeeh! Però Lucia’… io ti posso fare…”

D’Alfonso: “Io ti faccio degli assist incredibili, quando si discuterà l’interrogazione su di te al Senato io farò un lavoro che nessuno sa fare come me! Nessuno!”

Minenna: “Ne sono sicuro”

D’Alfonso: “Ma proprio… perché ne sono convinto perché se non ne fossi convinto facevo la pantera rosa”

Minenna: “Lo so bene. Allora guarda io ti dico quello che…”

D’Alfonso: “No, non mi rispondere, non mi rispondere“

Minenna: “No, no”

D’Alfonso: “Ci rifletti, ci rifletti e ci risentiamo nel pomeriggio”

Minenna: “Va bene, ciao”, 

Dopo pochi minuti il direttore delle Dogane contattava l’avvocato “idoneo”, che sarebbe stato nominato successivamente suo legale dinnanzi alla Procura della Repubblica di Roma, per l’inchiesta aperta nei confronti di Minenna con le accuse di minaccia e calunnia verso Miguel Martina. Un fascicolo arrivato a conclusione delle indagini.     

Mascherine Pulite: quali sono i dispositivi medici e quanto costano veramente. Redazione su L'Identità il 23 Giugno 2023

Chirurgiche, di tessuto, Ffp2. Le mascherine ci hanno accompagnato durante tutto il periodo della pandemica, da primi giorni dell’emergenza, fino a qualche mese fa. Un oggetto che è stato parte della nostra quotidianità e che ne rimane tutt’ora presente. Anche in questi giorni, soprattutto in merito alla nuova inchiesta sull’appalto dei dispositivi medici durante l’emergenza sanitaria per cui è finito agli arresti l’ex presidente dell’Agenzia delle Dogane Marcello Minenna.

Ma cosa sono le mascherine e che differenza c’è tra le varie tipologie? Le mascherine sono dispositivi medici di protezione che coprono bocca e naso e filtrano l’aria.

Le più semplici, quelle chirurgiche sono formate da 2 o 3 strati di tessuto non tessuto (in fibre di poliestere o polipropilene) che filtrano l’aria in uscita e proteggono da schizzi di liquido, come la saliva emessa con tosse o starnuti.

Tutt’altra efficacia hanno le mascherine di tipo Ffp2 e Ffp3 di cui la maggior parte delle persone è venuta a conoscenza in occasione della pandemia e che, inizialmente, erano state destinate al personale sanitario. Queste sono realizzate con tre strati di tessuto non tessuto a diversa densità. Lo strato esterno protegge dallo sporco più grossolano, lo strato intermedio filtra e quello interno protegge il filtro dall’umidità del respiro. Una sorta di effetto meccanico che rende difficoltoso il passaggio dell’aria, bloccando l’ingresso delle particelle più grosse.

In Italia il costo di produzione per una mascherina chirurgica è di circa 12 centesimi di euro al pezzo. Durante il periodo della pandemia, il prezzo calmierato in farmacia e al supermercato prevedeva un costo di 50 centesimi, che è stato anche alzato nei momenti di maggiore richiesta, fino ad arrivare a tre euro al pezzo.

Per le mascherine Ffp2 (a norma di legge), provenienti molto spesso dal mercato asiatico e dalla Cina, il costo di produzione si aggira attorno ai 35 centesimi al pezzo, da sommare alla percentuale di vendita e ai costi di importazione. Durante il periodo di pandemia, il prezzo calmierato per le mascherine Ffp2 (che erano diventate obbligatorie) era di 0,75 euro. Prezzo che si è alzato, a seconda dei periodi e della distribuzione da 3,50 euro fino a 5 euro.

(ANSA il 22 giugno 2023) E' partita da un sequestro di 28 chili di cocaina nel gennaio 2020 l'inchiesta che ha poi portato all'arresto di Marcello Minenna e di Gianluca Pini. Le indagini hanno infatti scoperto che dietro alla droga sequestrata su un camion proveniente dal Belgio, c'era un imprenditore forlivese con precedenti, che lavora nel settore dell'autotrasporto. Dalle intercettazioni la procura di Forlì ha scoperto che aveva un consolidato rapporto con l'ex parlamentare Pini, non più in carica dalle elezioni del 2018.

La procura di Forlì accusa i due di un vero sistema, con scambi di favori. L'imprenditore forlivese, per il quali si ipotizza il traffico internazionale di stupefacenti, investiva il denaro in attività apparentemente lecite. Pini, secondo la procura di Forlì, aveva creato legami in varie istituzioni: le misure cautelari hanno riguardato infatti anche funzionari dell'Usl Romagna, appartenenti alle forze di polizia e un funzionario della prefettura di Ravenna.

(ANSA il 22 giugno 2023) - L'ex direttore dell'Agenzia delle Dogane Marcello Minenna, attuale assessore all'ambiente della Regione Calabria ed ex assessore del Comune di Roma, è stato arrestato nell'ambito di un'inchiesta della procura di Forlì e si trova ai domiciliari. Arrestati, su disposizione della Dda di Bologna, anche un ex parlamentare, funzionari della prefettura di Ravenna, dell'Ausl Romagna. In tutto sono stati 34 i provvedimenti cautelari. L'indagine riguarda vari episodi di corruzione ed è scaturita da un'inchiesta sul traffico di droga.

Arrestato l'ex parlamentare leghista Gianluca Pini

(ANSA il 22 giugno 2023) - C'è anche l'ex parlamentare della Lega Gianluca Pini, non più in carica dal 2018, fra gli arrestati nell'inchiesta della procura di Forlì che ha portato all'arresto di Marcello Minenna. Fra le accuse rivolte a Pini quelle di aver ottenuto un appalto dall'Ausl Romagna. Le comunicazioni acquisite della procura hanno rivelato l'esistenza di legami con esponenti politici di rilievo nazionale. 

Pm, fra Pini e Minenna "pactum sceleris"

(ANSA il 22 giugno 2023) - Un "pactum sceleris" fra Gianluca Pini e Marcello Minenna: è l'ipotesi dei pm di Forlì che ha portato agli arresti domiciliari dei due. Secondo i pm, Pini aveva promesso a Minenna di "accreditarlo all'interno della Lega in modo venisse considerato un uomo di quel partito e gli prometteva la conferma della nomina a Dg dell'Agenzia delle Dogane a seguito del cambio del governo, che effettivamente otteneva". Minenna, continuano i pm,"accettava le promesse in cambio dell'asservimento della sua funzione pubblica",in particolare "alle richieste di Pini in occasione di importazione di merci" fra cui le mascherine al centro dell'inchiesta

Estratto dell’articolo di Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it - 2 dicembre 2021 

Che il Covid fosse un disastro per molti e un affare per pochi è evidenza diventata lampante dopo le inchieste della procura di Roma sull’ex socio di Giuseppe Conte – l’avvocato Luca Di Donna – e soprattutto su Mario Benotti, l’ex giornalista della Rai capace di incassare 12 milioni per mediare una compravendita di mascherine dalla Cina per conto della struttura commissariale al tempo guidata da Domenico Arcuri.

In pochi, però, sanno che pure politici ed ex deputati sono finiti di recente nel mirino della magistratura per aver fatto (o provato a fare) business con mascherine anti-coronavirus e apparecchi medicali assortiti, termometri compresi. Non solo nella Capitale o a Siracusa, dove i pm stanno lavorando sui deal di Irene Pivetti. Ma anche a Forlì: Domani ha scoperto che la procura romagnola sta indagando da mesi su Gianluca Pini, ex onorevole di lungo corso della Lega e per anni vicinissimo al ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, di cui è stato socio in affari fino a poco tempo fa. 

Pini è finito sotto la lente d’ingrandimento della procura e dell’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia perché proprietario di una piccola srl di Fusignano (a 30 chilometri da Ravenna), la Codice, specializzata in commercio all’ingrosso di bevande, ma ora coinvolta in un’inchiesta sull’importazione di mascherine. Un’indagine in cui gli inquirenti ipotizzano reati gravi come la corruzione, la frode, il falso ideologico e la turbativa d’asta. «Non ho notizie in tal senso» dice Pini «Ma nel caso sarei tranquillissimo: ho svolto i miei affari rispettando tutte le leggi».

La storia è complessa. Il leghista, storico segretario del Carroccio in Emilia-Romagna dal 1999 al 2015 e onorevole dal 2006 al 2018, è tornato a fare l’imprenditore a tempo pieno da due anni, da quando non è riuscito ad ottenere la ricandidatura [...] 

[...] Pini [...] è tornato al suo vecchio amore: tecnologo alimentare, si è buttato nella ristorazione, aprendo a Forlì locali e bar come “Ruggine” e “Ginetto”, nome che viene dalla crasi tra il gin tonic e il nome del suo cane. 

Gli affari vanno bene, ma a inizio del 2020 l’arrivo del virus e i lockdown azzerano di colpo i profitti [...]. Il superfederalista [...] Capisce che può riciclarsi alla grande e fare un bel po’ di soldi comprando e vendendo mascherine per il pubblico e il privato.

Pini non ha mai lavorato nel settore medico, («non sapevo nemmeno come fosse fatta una mascherina», ci dice) ma un mese dallo scoppio della pandemia con la sua Codice riesce a piazzare il primo colpo: l’Ausl Romagna – senza un bando di gara – gira alla piccola srl della ristorazione un contratto che può fruttare al leghista fino a 6,3 milioni di euro. «Finora ho incassato solo tre milioni», chiarisce. 

Secondo il racconto dell’imprenditore, non è lui ha proporre l’affare. Ma è l’ente sanitario allora guidato da Marcello Tonini, dirigente nominato dal presidente Stefano Bonaccini, a chiedere aiuto al ristoratore ex deputato e alla Codice, nonostante fosse una società con un capitale sociale di soli 10mila euro. Com’è possibile? [...]

«I dirigenti apicali di Bonaccini non c’entrano nulla. Un venerdì, mentre ero a guardare la tv, preoccupato per la chiusura delle mie attività, mi ha telefonato un vecchio compagno di scuola che oggi lavora proprio alla Ausl Romagna. Si ricordava che, prima di diventare deputato, facevo trading di alimenti sui mercati asiatici. Mi chiese se potevo provare a trovare mascherine per il suo ente sanitario, perché erano disperati. Io ho ancora buoni contatti in effetti, e trovai subito chi poteva vendere dispositivi a buon prezzo». 

Sul perché decise di trasformarsi in mediatore, Pini dice: «Fui io stesso a suggerire all’Ausl che sarebbe stato meglio che li contattassero direttamente loro, perché se avessi intermediato io la compravendita ci sarebbero state polemiche, in quanto fino a poco tempo fa ero persona politicamente esposta. Replicarono che l’Ausl avevano tentato acquisti in Cina ed a Hong Kong senza successo, e che stavolta preferivano che il buyer fosse una società del territorio. Cioè la mia Codice. È andata così, glielo assicuro».

Pini chiarisce anche che i milioni di mascherine importate, una volta giunte in Italia, sono «stati preventivamente validate dall’Ausl. Non solo: le importazioni sono state sottoposte a rigidissime verifiche da parte dell’antifrode dell’Agenzia delle dogane, risultando pienamente conformi e regolari». 

Per la cronaca, Pini conosce bene il numero uno delle Dogane e dei Monopoli Marcello Minenna: a Domani risulta che l’ex deputato leghista sia stato visto almeno una volta nella sede centrale dell’ente negli scorsi mesi, e che Pini abbia dato qualche consiglio al direttore dell’agenzia anche sul nome da dare alla “Casa dell’anti-contraffazione”, un museo del falso inaugurato lo scorso giugno nella romana Piazza Mastai.

All’evento era presente [...] anche il Giorgetti, che Pini dice essere solo un suo vecchio amico: «Ci scambiamo consigli in assoluta amicizia, non sono il suo segretario-ombra come sostiene malignamente qualcuno. Credo solo che lui sia una delle poche teste pensanti della Lega. Dire come fa lei che lui è il braccio destro di Salvini mi fa ridere, è perfino offensivo per Giancarlo. Lo stimo molto, e credo che il giudizio sia ricambiato». Mai stato, sottolinea, a eventi pubblici con lui da quando è diventato ministro dello Sviluppo: «Al massimo ci vediamo insieme qualche partita della nostra squadra del cuore, il Southampton».

Anche i rapporti tra Pini e Minenna sono stretti, ma l’imprenditore leghista nega che abbia mai chiesto favori per sdoganare mascherine cinesi o altri apparecchi. «Lo conosco fin da quando era in Consob, è vero, ma non mi pare che sulle certificazioni e suoi controlli Minenna abbia un ruolo operativo. Non gli ho mai sollecitato nulla comunque, e sono andato a trovarlo in sede a Roma solo una volta, quando avevo una mezz’oretta libera». 

Come mai un alto dirigente pubblico incontri un imprenditore ex politico discutendo di anticontraffazione resta un mistero, così come non è chiaro come mai Pini abbia provato a importare anche una partita di termometri dall’estero. Il leghista è secco: «I termometri non me li ha chiesti l’Ausl Romagna, ma un amico che gestisce la distribuzione in farmacia» spiega «Ho importato un centinaio di campioni che però ho verificato non essere conformi, e così li ho fatti distruggere: tutto qui, non ci sono arcani».

Ora, non sappiamo se l’indagine di Forlì che indaga a vario titolo per corruzione e truffa sia incentrata anche sulle mascherine inviate alla Ausl Romagna dalla Codice. [...] Di certo però gli inquirenti hanno sentito come persone informate sui fatti alcuni dipendenti delle Dogane. E hanno messo sotto il microscopio altri affari in cui risulta coinvolta la società di Pini. Che tra aprile e luglio 2020 ha ordinato e ricevuto bonifici da centinaia di migliaia di euro anche da ditte che, con l’arrivo della pandemia, hanno cominciato a dedicarsi improvvisamente anche alla compravendita di dispositivi di protezione.

Tra i soggetti finiti nel mirino dei pm di Forlì e di Bologna c’è la Top Defender srl di Gianluca Fiore («non è un amico, ma un avventore del mio bar», chiosa Pini) e di una misteriosa donna di nazionalità ceca, Zuzana Miczkova («mi pare sia la segretaria di Fiore»). La sconosciuta Fi.da Obchod (riconducibile anche questa alla Miczkova e alla rumena Mihaela Atomei), che risulta essere localizzata nella Repubblica Ceca. E una terza società intestata ai fratelli Bruno e Giorgio Ciuccoli, dal 1976 specializzata in autotrasporti ma trasformatasi – nell’aprile 2020 – anche lei in buyer di Dpi.

Proprio dalla srl dei Ciuccoli (suoi conti correnti dell’azienda può operare anche Fiore) la Codice di Pini incassa la bellezza di 970mila euro tra aprile e luglio 2020. In pratica, l’amico di Giorgetti ricava in poche settimane circa 4 milioni di euro, sommando l’affare con la Ausl Romagna e altri business paralleli. «Ho venduto ai Ciuccoli mascherine cinesi, ma – come è scritto anche negli atti doganali – il destinatario finale era la Corofar». Ossia una grande cooperativa di farmacie territoriali, presieduta da Pier Luigi Zuccari. Proprio quest’ultimo potrebbe essere il «vero dominus» della Top Defender, che ha come cliente principale la Codice di Pini. Come mai questo sospetto?

Perché «Zuccari è delegato ad operare» segnalano ancora dall’antiriciclaggio «sul conto corrente privato intestato alla cittadina ceca Miczkova», la “segretaria” citata da Pini ma socia della Top Defender. Zuccari in Emilia-Romagna non è un impresario qualsiasi: gran capo della coop Corofar (la sede di Forlì è stato l’hub vaccinale del vaccino Pfizer) è pure membro del cda di Federfarma.Co, azienda che rappresenta 26 cooperative e società di farmacisti sparse su tutto il territorio nazionale, che rappresentano il 35 per cento dell’intero fatturato della distribuzione intermedia dei farmaci. 

Il nome della Corofar qualche mese fa è spuntato anche in un decreto della procura forlivese che ordinava il sequestro di alcune partite di mascherine distribuite dalla cooperativa, ma Zuccari gettò al tempo acqua sul fuoco, sostenendo che la mancata conformità dei prodotti cinesi era frutto solo di un «inconcepibile» errore burocratico. Anche i suoi amici sostengono che il suo nome sia finito nelle carte dell’antiriciclaggio per «errore». 

Vedremo se i magistrati indagheranno ancora sugli affari di Pini e sul turbinio di bonifici a cinque zeri tra società ceche e romagnole, se i reati ipotizzati cambieranno oppure se l’indagine verrà archiviata in tempi brevi senza formalizzare accuse a nessuno. Come già accaduto, ricorda Pini, a un processo per millantato credito che il leghista ha dovuto affrontare anni fa: condannato in primo grado a due anni di carcere, «la mia pena è stata poi cancellata in appello».

Ma al netto dei rilievi penali tutti ancora da dimostrare, quello che colpisce è come sia possibile che un ex politico impegnato in ristobar sia riuscito dal giorno alla notte a fatturare milioni con l’emergenza Covid. Non solo: il leghista antisalviniano mentre importava mascherine era contemporaneamente in affari anche con Giorgetti in persona. 

Non nella srl delle bevande Covid al centro dell’inchiesta forlivese, ma nella Saints Group. Una società informatica ed elettronica di cui – come raccontò Report ipotizzando il rischio di conflitti di interesse – il ministro era socio paritario con Pini e tal Enzo Pellizzaro. 

«Giorgetti non c’entra nulla con i miei affari con le mascherine, e con la Saints Group non ha più nulla a che fare da anni» dice Pini «Io posso avere in società chi mi pare, e non ci sono conflitti di interesse: a marzo del 2020 c’era il Conte II, Giorgetti era all’opposizione, né poteva decideva della sanità dell’Emilia Romagna o incidere sulla sanità nazionale». 

È vero che la Saints Group è del tutto estranea all’inchiesta di Forlì, ma in realtà Giorgetti si è sfilato dalla start up solo a giugno 2020, quando ha deciso di donare le sue quote a una sua parente stretta. Che ha poi controllato il 32 per cento della Saint Group fino ad aprile del 2021, quando – forse perché Giorgetti era diventato ministro del governo Draghi ha prevalso la questione di opportunità – ha ceduto tutte le quote a Pini. 

Non sono chiari i motivi per i quali il potente numero due della Lega abbia deciso di investire in una srl specializzata in app e in brevetti informatici, ma di sicuro i giri vorticosi di denaro che passano sui conti correnti del suo ex socio rischiano di causargli quantomeno qualche imbarazzo. 

Dall’entourage di Giorgetti spiegano che il numero due di Salvini «ha chiuso ogni rapporto con Pini da quando è diventato ministro», e che della vicenda delle mascherine «non sapeva nulla». Anche i rapporti tra il ministro e Minenna si sarebbero assai «raffreddati», anche a causa delle inchieste di Domani sul direttore dell’agenzia, indagato per abuso d’ufficio e falso dalla procura di Roma. [...]

Esclusivo Mascherine Pulite – Le intercettazioni. Pini a Giorgetti: “Chiama Minenna, ce lo dobbiamo tenere buono”. Rita Cavallaro su L'Identità il 22 Giugno 2023 

Marcello Minenna nelle intercettazioni si lamentava con Gianluca Pini perfino degli articoli negativi che uscivano sulla stampa. Il 6 aprile 2020, dopo che il direttore delle dogane si era interessato a risolvere questioni relative allo sdoganamento della merce importata da Pini, chiamava il leghista per un ingiusto attacco mediatico che gli era arrivato proprio da un esponente della Lega. Si trattava delle accuse rivoltegli dal deputato Paolo Tiramani, in riferimento a come le dogane stessero impedendo lo sdoganamento delle mascherine necessarie al contrasto della pandemia.

Pini si diceva pronto a interessarsi affinché il deputato venisse ricondotto a miti consigli. E diceva: “Faccio fare subito domattina. Tiramani è un coglione… Domattina chiamo Molinari (Riccardo Molinari, all’epoca vicepresidente del Consiglio Regionale del Piemonte, ndr) che è anche il segretario del Piemonte. Prima faccio fare lo shampoo a ‘sto coglione poi chiedo di fare una dichiarazione a sostegno del lavoro, invisibile ai più, ma fondamentale, che state facendo. Il vero dramma sono commissari… Han fatto più danni della grandine“.

Dal 7 aprile 2020 seguivano altri messaggi e, dall’esame dei tabulati di Pini, risultavano in effetti contatti tra il leghista e Molinari, in cui l’arrestato anticipava una richiesta di scambio di favori mediante l’intervento del direttore delle dogane per il proprio esclusivo interesse. E diceva a Minenna: “Nel mentre, ho trovato un ennesimo pirla di operatore privato che si rifiuta di applicare l’esenzione di dazi e Iva… Ho provato a contattarlo ma senza successo. Appena lo senti se puoi informarlo“.

Nel mentre, Pini proseguiva il suo lavoro di accreditamento di Minenna, contattando l’8 aprile 2020 un altro autorevole esponente della Lega, Jacopo Morrone, al quale diceva che Minenna era stato nominato alla direzione delle dogane per interessamento suo e di Giancarlo Giorgetti, e magnificava le doti del dirigente: “Lo abbiamo messo lì io e Giancarlo… Le dogane hanno fatto il loro lavoro, purtroppo ci sono degli approfittatori… Stanno facendo un lavoro della Madonna, mai fatto prima, anzi mi ritrovo spesso a dover discutere con la Protezione Civile, e le dogane sono gli intermediari perché tu non puoi operare come… In dogana tu non puoi andare da solo come non puoi andare in un processo senza un avvocato in Italia no? Devi avere un operatore doganale privato che ti flussa la merce… ci sono i privati che fanno resistenza, perché vedono che le procedure sono talmente farraginose, invece questo Minenna qua con due determine le ha rese semplici e quindi sono spaventati perché non vogliono fare le procedure semplificate, perché hanno paura di dovere rispondere, quindi siamo al paradosso dove c’è lo Stato che ha semplificato e i privati stanno incasinando la cosa“.

Il 9 aprile 2020 Minenna diceva a Pini che ancora non aveva avuto contatti con la Lega e il leghista contattava Giorgetti, al quale manifestava l’importanza di “tenere buono” il direttore delle dogane. “Allora se hai voglia di fare una buona azione, una buona azione in realtà (ride) è una rottura di cazzo ma è a buon fine… Se ti va di dare una telefonata al povero Minenna perché… Abbiamo veramente dei coglioni. L’altro giorno quel deficiente di parlamentare nuovo che si chiama Tiramani… Che mi han detto che è un cazzone di prima categoria… E’ andato a striscia dicendo che questo ha comprato delle mascherine per il suo comune, le ha comprate da un suo amico che ha un maglificio… Pensa un po’… Chiamalo e digli ‘guarda è un deficiente, scusami ti chiedo scusa io’… Perché è incazzatissimo… Cioè far incazzare adesso il direttore delle dogane… Allora mi ha chiamato due volte e gli ho detto Marcello siamo amici però io non faccio più politica quindi io che cazzo vuoi che ti dica“. E Giorgetti risponde: “Sì, no lo chiamo io“. E infatti Giorgetti contatta Minenna nel tardo pomeriggio del 10 aprile 2020, dopo che Pini aveva inviato alle 17 e 23 il seguente messaggio al direttore delle dogane: “Ti chiametà Giancarlo“. Pini poi, manda un messaggio a Minenna: “Noi vecchi leghisti teniamo a persone serie come te. Spiace quello che succede per colpa di quattro coglioni, ma come ti ho detto, ci sarà modo di far emergere tutto il buono che stai facendo. Un abbraccio, buona serata“.

Un secondo intervento in favore di Minenna avviene il 15 aprile 2020, quando il direttore segnalava a Pini di essere stato intervistato da una testata giornalistica, ma che le sue parole erano state travisate e voleva che l’articolo fosse rettificato. Si ipotizzava anche il travisamento delle parole rilasciate nell’intervista fosse dovuto a ragioni politiche, perché Il Foglio era ritenuto una testata vicina al Pd. “Parlo con il direttore è un buon amico e persona seria. Vediamo di far emergere la verità velocemente“, dice Pini riferendosi a Claudio Cerasa. “Intanto preparo rettifica” risponde Minenna “Ok, ma aspetta prima fammi parlare con Claudio, questa è una chiara marchetta del Pd e lui non è del Pd” dice Pini. Il 16 maggio 2020 Minenna si lamenta con il leghista di Maurizio Belpietro, direttore de La Verità: “Ciao Gianluca, ma perché Belpietro ci attacca così… C’è un modo per parlargli, conviene fare una lettera di precisazione“, sottolinea riferendosi a un articolo intitolato “Conte ci allenta il guinzaglio ma dovranno girare col metro” nel quale veniva scritto che “un esempio di come l’apparato pubblico stia contribuendo a non far capire più niente, lo fornisce l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, la quale ha addirittura pubblicato una guida per lo sdoganamento delle mascherine, un manuale talmente complicato e rigoroso che sta contribuendo a bloccare alla frontiere le importazioni di dispositivi di protezione”. E Pini rispondeva: “Leggo e ti dico. Lo conosco ma non mi è mai stato simpatico, pensa di essere un genio in realtà è solo uno che va a soldi, per scrivere ciò che gli pagano di scrivere“.

Arrestato Marcello Minenna, ex direttore dell’Agenzia delle Dogane, ora assessore regionale in Calabria.

Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Giugno 2023  

Operazione della Dda di Bologna a Ravenna. Al centro dell’inchiesta una vendita di mascherine all’Asl di Forlì. Manette anche all’Ausl e in Prefettura a Ravenna

Una maxi operazione con 34 provvedimenti di custodia cautelare (alcuni in carcere) e  63 milioni di euro. E’ il terremoto che parte dalla procura di Forlì, affiancata dalla direzione distrettuale Antimafia di Bologna, che contesta corruzione e traffico di sostanze stupefacenti: le ordinanze sono state eseguite dalla Questura di Forlì e di Modena, ma anche in Germania e Belgio.

L’ arresto di Minenna infatti rientra nell’ambito di uno dei due filoni dell’inchiesta, quello sulla corruzione. Ai domiciliari anche l’ex parlamentare della Lega Gianluca Pini. Quest’ultimo avrebbe promesso a Minenna, precedentemente di area M5S, di accreditarlo nel partito “Lega Salvini Premier”, garantendogli la riconferma della nomina a direttore generale delle Dogane con il nuovo governo. In cambio Minenna avrebbe favorito Pini sbloccando un carico di mascherine che l’ex parlamentare aveva venduto alla Asl di Forlì. Un’operazione da 3,5 milioni di euro. Gli arresti sono avvenuti alle 6.30 di oggi.

L’inchiesta ha avuto inizio dopo un’operazione antidroga della Squadra Mobile di Forlì nel gennaio del 2020 da cui sono seguite numerose intercettazioni telefoniche. Secondo la Procura di Forlì , “è stato così possibile disvelare due veri e propri sistemi di illecito arricchimento facenti rispettivamente capo agli universi economici riconducibili in particolare a un imprenditore forlivese e all’ex parlamentare”. Tutto parte infatti da un’indagine avviata che vede Gianluca Pini indagato per aver fornito 3,3 milioni di mascherine dalla Cina all’Ausl Romagna per 6 milioni di euro. Era la primavera, la prima fase della pandemia, quando tutta la sanità cercava dispositivi di protezione dal Covid. Altri sette gli indagati, in tutta la Romagna per quel filone. L’operazione ha portato agli arresti, anche, di “pubblici funzionari presso l’Ausl Romagna”. Nonché, scrive la procura, “presso la Prefettura di Ravenna e le forze dell’ordine”.  

Sempre secondo la Procura, “l’imprenditore forlivese si giovava di importanti conoscenze criminali legate alla malavita albanese e al narcotraffico per approvvigionarsi di denaro da reinvestire in attività formalmente lecite o per acquisto di immobili. Si profilerà chiaramente il pieno coinvolgimento di questo soggetto – viene sottolineato – in un’attività di traffico internazionale di stupefacenti operato in collaborazione con un gruppo criminale armato di origine albanese”.

L’ex parlamentare leghista avrebbe sfruttato le sue conoscenze di alto livello maturate grazie all’incarico istituzionale per “garantire la presenza di persone a lui asservite all’interno di diverse istituzioni pubbliche locali e nazionali” i quali gli “garantivano la cura dei suoi interessi all’interno dell’amministrazione di appartenenza“. Secondo quanto emerso, è stato dunque possibile evidenziare la costituzione di “una rete di rapporti che ha permesso, tra l’altro, all’ex parlamentare di ottenere un appalto milionario dall’Ausl Romagna per la fornitura di dispositivi medici (attività rispetto alla quale non sussisteva alcuna specifica attitudine aziendale) lucrando così anche sulla crisi pandemica del 2020. Sono stati inoltre comprovati rapporti corruttivi tra l’ex parlamentare e appartenenti alle forze di polizia, un funzionario prefettizio e vertici dell’Agenzia delle Dogane”.

Secondo la Procura di Forlì, sono due gli episodi fondamentali che hanno dato una svolta alle indagini: l’arresto in frontiera da parte delle autorità italiane nell’estate del 2020 di due fratelli soci di un’impresa di autotrasporto.  In seguito “le perquisizioni eseguite nella primavera del 2021 che hanno avuto come obiettivo le sedi di diversi operatori economici, dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli, dell’Ausl Romagna e di alcuni degli indagati“.

L’analisi dei dispositivi elettronici sequestrati “ha permesso di ricostruire dettagliatamente i rapporti intessuti dall’ex parlamentare con appartenenti alle istituzioni per ottenerne uno stabile asservimento delle loro pubbliche funzioni ad interessi economici e imprenditoriali prettamente personali. Le comunicazioni acquisite hanno inoltre rilevato l’esistenza di legami dell’ex parlamentare con esponenti politici di rilievo nazionale“.

La difesa ambigua della Regione Calabria per Minenna

“A seguito della sospensione – automatica e prevista dalla legge – dell’assessore Marcello Minenna, ho fatto mie le sue deleghe, in modo che il lavoro della Regione possa andare avanti nelle prossime settimane senza particolari scossoni. La giustizia farà il suo corso e rispetto l’operato della magistratura, ma allo stesso tempo voglio confermare la mia fiducia a Marcello Minenna, che in questi mesi in Calabria ha svolto molto bene il proprio lavoro, in modo particolare per quanto riguarda i fondi comunitari. I fatti che gli vengono contestati dalla Procura di Forlì riguardano il periodo nel quale Minenna è stato direttore dell’Agenzia delle Dogane: sono certo che dimostrerà la sua estraneità”. Lo afferma in una nota Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria. Redazione CdG 1947

Corruzione e appalti, arrestato il barese Minenna, ex direttore Agenzia delle Dogane. L'inchiesta della Procura di Forlì ha portato all'arresto anche di un ex parlamentare, Gianluca Pini (Lega), funzionari della prefettura di Ravenna, dell’Ausl Romagna. In tutto sono 34 i provvedimenti cautelari. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Giugno 2023

L’ex direttore dell’Agenzia delle Dogane, il barese Marcello Minenna, attuale assessore all’ambiente della Regione Calabria ed ex assessore del Comune di Roma, è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta della procura di Forlì e si trova ai domiciliari. Arrestati, su disposizione della Dda di Bologna, anche un ex parlamentare, Gianluca Pini (Lega), funzionari della prefettura di Ravenna, dell’Ausl Romagna. In tutto sono stati 34 i provvedimenti cautelari. L’indagine riguarda vari episodi di corruzione ed è scaturita da un’inchiesta sul traffico di droga.

Marcello Minenna, l’ex direttore dell’Agenzia delle dogane arrestato e posto ai domiciliari nell’ambito di un’inchiesta della Procura della Repubblica di Forlì, è stato nominato assessore di area tecnica della Regione Calabria il 31 gennaio scorso. Il presidente, Roberto Occhiuto, gli ha attribuito le deleghe all’Ambiente, alle Partecipate ed ai Fondi comunitari.

Minenna è subentrato come assessore al dimissionario Mauro Dolce, anche lui tecnico, che aveva però le deleghe alle Infrastrutture ed ai Lavori pubblici, settori che il presidente Occhiuto attualmente gestisce direttamente.

Minenna ha 52 anni ed è originario di Bari. È un economista ed è professore a contratto di Teorie e Politiche per lo sviluppo economico all’Università La Sapienza e di Econometria finanziaria e Finanza empirica all’Università telematica San Raffaele.

In passato Minenna è stato anche assessore tecnico al Bilancio, Patrimonio, Partecipate, Politiche Sociali e Spending review di Roma Capitale.

C'è anche un maxi appalto con l'Ausl Romagna per la fornitura di mascherine nell’inchiesta che ha portato all’arresto, fra gli altri, dell’ex dg dell’Agenzia delle Dogane Marcello Minenna e dell’ex parlamentare Gianluca Pini

Secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Forlì, lo stesso parlamentare avrebbe ottenuto un appalto milionario dall’Azienda Usl Romagna per la fornitura di mascherine, nonostante non esistesse nessuna specifica attitudine aziendale, lucrando così anche sulla pandemia del 2020.

È partita da un sequestro di 28 chili di cocaina nel gennaio 2020 l’inchiesta che ha poi portato all’arresto di Marcello Minenna e di Gianluca Pini.

Le indagini hanno infatti scoperto che dietro alla droga sequestrata su un camion proveniente dal Belgio, c'era un imprenditore forlivese con precedenti, che lavora nel settore dell’autotrasporto. Dalle intercettazioni la procura di Forlì ha scoperto che aveva un consolidato rapporto con l’ex parlamentare Pini, non più in carica dalle elezioni del 2018. La procura di Forlì accusa i due di un vero sistema, con scambi di favori. L'imprenditore forlivese, per il quali si ipotizza il traffico internazionale di stupefacenti, investiva il denaro in attività apparentemente lecite. Pini, secondo la procura di Forlì, aveva creato legami in varie istituzioni: le misure cautelari hanno riguardato infatti anche funzionari dell’Usl Romagna, appartenenti alle forze di polizia e un funzionario della prefettura di Ravenna.

Estratto dell’articolo di Filippo Fiorini per “la Stampa” il 24 giugno 2023.

I viaggi con una collaboratrice pagati dall'istituzione che dirigi. La gara d'appalto indetta dallo stesso organo di controllo, per ingaggiare il geometra che ti ristruttura casa. Le auto sequestrate (sempre dal tuo ufficio), offerte gratis ai ministri. La telefonata a un senatore che promette di «servirti degli assist», durante l'interrogazione parlamentare su un'inchiesta contro di te. 

Sommarie informazioni testimoniali, certo. Semplici denunce da verificare, vero. Ma anche intercettazioni e ipotesi di reato, finite in un'inchiesta che ieri l'altro ha disposto misure cautelari per 34 persone, tra cui spiccano i nomi dell'ex parlamentare leghista Gianluca Pini (arrestato), e del suo «sodale», l'ex direttore dell'Agenzia delle Dogane (oggi assessore regionale in Calabria sospeso), Marcello Minenna, ovvero l'uomo a cui vengono addebitati questi illeciti e che ora, finito ai domiciliari, causa imbarazzo a tutto l'arco politico italiano.

Le mascherine contraffatte erano un business esclusivo di Pini e di un suo socio narcotrafficante: 10 giorni dopo il primo lockdown, l'ex onorevole leghista stava fornendo Ffp2 cinesi all'Ausl Romagna senza gara d'appalto e con documenti falsi. Lo scrive la Procura di Forlì e aggiunge che Minenna lo aiuta a liberare i carichi bloccati in frontiera a causa di queste lacune. Minenna le Dogane le dirige.

Faceva favori a Pini «per essere accreditato all'interno della Lega ed essere riconfermato» in questo incarico. È convinto che solo con l'intercessione dell'attuale ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti (Lega, al tempo deputato), potrà restare al suo posto e poi sperare in «una carriera ministeriale o la presidenza della Consob». Giorgetti dice che la sua decisione fu invece quella di rimuoverlo. 

Alla Consob, Minenna c'è già stato. Nei corridoi dell'autorità che vigila sulla Borsa ricordano come dirigesse una piccola unità, si muovesse con un Suv in compagnia di un cane molesto e premesse per essere sempre in missione. Poi, rammentano: «Quando nel 2018, Mario Nava si trasferì dalla Commissione Ue per diventare presidente della Consob, Minenna gli chiese di nominarlo direttore generale e in cambio fece balenare la garanzia di un settennato di pace con il Movimento 5 Stelle». […]

Estratto dell'articolo di Andrea Pasqualetto per "il Corriere della Sera" il 24 giugno 2023.

[…] Brunetta, oggi presidente del Cnel, sospira: «Ma si tratta dell’auto della mia scorta, un mezzo suv bianco, che è stato dato all’Arma dei carabinieri ed è guidata da loro, non a me. Questa delle auto confiscate è una prassi consolidata e per me anche virtuosa. Perché o si vendono o si usano ma se si vendono l’incasso è irrisorio». […]

Estratto dell’articolo di Vanessa Ricciardi per “il Domani” il 24 giugno 2023. 

L’ex direttore generale dell’Agenzia delle Dogane, Marcello Minenna, oggi assessore (sospeso) in Calabria, è agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione della procura di Forlì. Per gli inquirenti avrebbe aiutato l’ex leghista Gianluca Pini a importare illecitamente un lotto di mascherine in cambio di entrature politiche.

Per il Gip, Massimo De Paoli, esiste la possibilità che possa inquinare le prove, e nell’ordinanza di custodia cautelare in cui parla della sua «personalità criminale» e delle sue «relazioni persistenti» ha citato una telefonata con il senatore Pd Luciano D’Alfonso del 5 novembre. I due discutevano il da farsi riguardo a un’altra indagine presso la procura di Roma, che ancora non gli era stata nemmeno notificata. Per il sentore D’Alfonso, non indagato, è tutto lecito nell’ambito del diritto.

Domani pubblica in esclusiva un video del 2021 non menzionato nell’ordinanza in cui Minenna già il 2 novembre chiedeva ai suoi dirigenti di informarlo sulle loro interazioni con le procure, sempre prima ovviamente che gli venisse notificato di essere iscritto nel registro degli indagati, oggetto di un esposto. 

Minenna diceva ai dipendenti dell’Agenzia delle dogane seduti attorno a un tavolo che «bisogna seguire le veicolazioni del caso» con l’autorità giudiziaria. E, proseguiva, «negli ultimi 20 giorni vedo che non c’è la giusta veicolazione informativa». Nonostante «la comunicazione fluida, ci vediamo in maniera settimanale, il mio ufficio è sempre aperto e abbiamo le chat whatsapp». 

Alessandro Canali, ex vicedirettore, avvocato un tempo vicinissimo al direttore dei Monopoli e rimosso dal suo incarico a ottobre del 2021, ha appreso dell’intervento di Minenna e nel 2022 ha depositato un esposto in procura presumendo potesse trattarsi di un tentativo di inquinare le prove. Quando Minenna ha parlato ai dirigenti infatti era già a conoscenza della indagine aperta sul licenziamento di Canali, visto che Domani ne aveva scritto a settembre. 

Nel verbale della seduta testualmente si legge: «Il presidente (Minenna) invita tutti i Direttori delle DC (Direzioni centrali) e delle DT (Direzioni Territoriali) che abbiano rapporti con l'esterno (....)Autoritò Giudiziaria (...) a inviare prontamente le segnalazioni alla Direzione Generale (...) considerato che il Direttore Generale cura le interazioni ed i rapporti con l'esterno». 

Per l’avvocato «Minenna quindi sembra rappresentare al management di ADM una realtà di diritto che capovolge esattamente quanto previsto dall'art. 329 c.p.p, che per quanto attiene le attività dell' Autorità Giudiziaria prevede un obbligo di segretezza e riservatezza generale che può essere derogato solo dal procuratore della Repubblica e non il contrario». 

[…] Minenna, per Canali, avrebbe letteralmente imposto ai dipendenti di riferirgli di ogni interazione con l'Autorità Giudiziaria, e quindi anche delle interazioni relative all’indagine: «Palese rischio di inquinamento  delle attività di indagine svolte in quel periodo e nel periodo successivo».

Appena due giorni dopo la seduta della Conferenza dei direttori, il 4 novembre, Domani ha riferito la notizia dell'iscrizione di Minenna sul registro degli indagati per abuso d'ufficio. Il giorno in cui è andata anche in edicola, Minenna ha deciso di parlarne con l’allora presidente della commissione Finanze D’Alfonso, che gli ha suggerito di «controdedurre» e dare la sua versione dei fatti. 

Ancora non è nemmeno stata ufficializzata la sua posizione di indagato, ma per D’Alfonso bisogna intervenire «quando l'ovulo incontra lo spermatozoo, non quando c'è il feto». Ad aprile il gip di Forlì ha detto di no alla richiesta di arresto, il giudice ha cambiato idea quando ha visto la trascrizione della telefonata con D’Alfonso.  […]

Caso Minenna, Palamara: “Grillini vittima del loro giustizialismo”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 22 Giugno 2023

“Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto”. Così l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara commenta l’arresto dell’ex direttore dell’Agenzia delle Dogane in merito all’inchiesta sui dispositivi anti Covid.

Possiamo dire che il caso Minenna apre il mascherina gate?

Come in tutte le vicende giudiziarie, penso che sia doveroso attendere la lettura di tutte le carte. E ciò al fine di meglio comprendere quelli che potranno essere gli sviluppi di questa inchiesta.

La verità sui soldi spesi durante la pandemia è venuta tutta a galla?

Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto. Penso che ora tante altre verità potranno venire a galla.

Fare chiarezza interessa soprattutto ai cittadini…

Certamente! Mi riferisco a quelle persone, che hanno vissuto quel periodo nella totale incertezza di ciò che improvvisamente stava avvenendo. Non dimentichiamo mai che uno dei momenti più oscuri fu proprio quello legato al prezzo delle mascherine, inizialmente schizzato alle stelle e poi improvvisamente ribassato.

Minenna sembra essere amico di Grillo. Non è che quel giustizialismo che hanno sempre difeso i pentastellati, adesso, gli si ritorce contro?

Distinguerei le due vicende. Quella di Minenna attiene al piano giudiziario e come tale deve essere affrontata, nel rispetto di tutte le garanzie difensive. Quella del giustizialismo attiene, invece, ai rapporti tra politica e magistratura e per una sorta di nemesi si sta ora ritorcendo contro coloro i quali dopo le elezioni politiche del marzo 2018 ritenevano essere in qualche modo “immuni” da ogni iniziativa giudiziaria. Il mondo della magistratura è un mondo complesso e l’idea di una parte politica, in questo caso quella dei 5 Stelle, di poter maggiormente “flirtare” con la corrente della magistratura capeggiata da Piercamillo Davigo, come ha plasticamente evidenziato la vicenda dei verbali della Loggia Hungaria, si è rivelata alla fine un boomerang.

Perché?

Non dimentichiamo che molte delle riforme di Bonafede traevano ispirazione proprio da questo connubio e che alla fine anche l’iniziale battaglia dello stesso ministro e dei cinquestelle contro il correntismo e le logiche del sistema si è rivelata di corto respiro. Basti considerare che, oggi, secondo le logiche del sistema, Bonafede compone il consiglio di giustizia tributaria e due ex magistrati, Cafiero de Raho e Scarpinato, siedono al Senato tra le loro fila. Insomma, come dice Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “tutto cambia affinché nulla cambi”.

Esiste una guerra all’interno della magistratura sul Coronavirus.  Il tribunale dei ministri, intanto, ha assolto l’ex premier Conte. Le sembra strano?

Non parlerei assolutamente di guerra, ma dicevo prima che la magistratura è un mondo complesso e l’autonomia, l’indipendenza che la contraddistingue comporta che ci siano tanti magistrati che in qualche modo non vogliono essere allineati a un unico pensiero. Tutto questo comporta che ci possano essere iniziative e decisioni divergenti tra di loro. Aspetterei ulteriori sviluppi per comprendere come potrà evolversi la vicenda.

Covid, mascherine pericolose: l’ex commissario Domenico Arcuri a processo per abuso d’ufficio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Aprile 2023

Mascherine anti Covid pericolose per la salute ed acquistate mediante modalità sospette.  L ’ex commissario per l’emergenza Domenico Arcuri comparirà il 15 settembre con l’accusa di  abuso d’ufficio, davanti al giudice per l’udienza preliminare, che dovrà decidere sulla richiesta di processo a suo carico avanzata dalla procura. Tramontate invece le iniziali accuse di corruzione e peculato.

Con Domenico Arcuri è imputato l’imprenditore ed ex giornalista Rai Mario Benotti con l’accusa di traffico di influenze illecite. In base a quanto emerge dal capo di imputazione l’imprenditore “in concorso con altri, sfruttava le proprie relazioni personali e occulte con Arcuri, ex commissario per l’emergenza sanitaria, ottenendo che quest’ultimo assicurasse ai partner di Benotti un’esclusiva in via di fatto nell’intermediazione delle forniture di maschere chirurgiche e dispositivi di protezione individuali”.  

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “Il Messaggero” il 20 aprile 2023.

Ottocento milioni di mascherine irregolari e pericolose per la salute, utilizzate dai medici in piena emergenza Covid. Dispositivi di protezione pagati dalla struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri con cospicui anticipi, prima delle verifiche di conformità previste dalla legge. 

Una fornitura pagata un miliardo e 251 milioni di euro con i fondi speciali della presidenza del Consiglio, preceduta da una trattativa nella quale i mediatori italiani, che hanno incassato provvigioni a sei zeri dalle società di Hong Kong, non sono stati menzionati, anche se la legge prevedeva una rendicontazione.

Per queste scelte, che hanno determinato una posizione di «vantaggio patrimoniale» ai fornitori, adesso, la procura ha chiesto il processo per Arcuri, quattro società e altre undici persone, tra le quali Antonio Fabbrocini, responsabile unico del procedimento, che, oltre a rispondere di abuso d'ufficio, come l'ex commissario, dovrà difendersi anche dall'accusa di frode in pubbliche forniture e falso in atto pubblico […] 

Secondo le indagini del nucleo di polizia valutaria della Finanza l'acquisto degli oltre 800 milioni di mascherine, durante la prima drammatica ondata di contagi (maggio-luglio 2020) sarebbe avvenuto con la mediazione di alcune aziende italiane grazie al rapporto privilegiato tra Arcuri e Mario Benotti, l'ex giornalista ora accusato di traffico di influenze, che avrebbe ottenuto dal commissario un'esclusiva nell'intermediazione delle forniture.

Sarebbe così stato accreditato presso il commissario l'imprenditore Vincenzo Andrea Tommasi al quale veniva assicurato di selezionare, attraverso la sua "Sunsky spa" le aziende cinesi, alle quali la struttura avrebbe fatto l'ordine, e di mantenere i rapporti tra il governo e le società per la logistica, il trasporto e la soluzione delle anomalie documentali «senza alcun incarico formale o contratto scritto così da potere incassare provvigioni a valere sui prezzi pagati dal governo, senza alcun controllo pubblico». 

[...]

Secondo la ricostruzione del nucleo di polizia valutaria della Finanza, Arcuri e Fabbrocini avrebbero «omesso intenzionalmente di formalizzare e palesare il rapporto di mediazione che la struttura commissariale costituiva e intratteneva con Tommasi» che, in questo modo non avrebbe avuto responsabilità sull'enorme quantitativo di mascherine risultate pericolose perché di fatto non proteggevano dal virus. 

[...]

 Bimbo morto in ospedale. Il padre: “Colpa delle regole anti Covid”. La denuncia del papà del piccolo soffocato a Roma all’ospedale Sandro Pertini: “Nessuno poteva stare con lei”. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 23 Gennaio 2023.

Un bimbo di tre giorni muore soffocato a Roma, nell’ospedale Sandro Pertini, mentre lo stava allattando la madre. E secondo il padre non si tratta affatto di mera fatalità. Egli punta il dito contro le sempre più folli misure anti-Covid nei nostri centri di cura e lancia il suo j’accuse: “Mia moglie dopo il parto era sfinita, ma le hanno portato il piccolo per l’allattamento, sebbene lei non si reggesse letteralmente in piedi. Hanno persino preteso che gli cambiasse il pannolino da sola”. E ancora: “Avevamo scelto il Pertini   perché la mia compagna è nata lì e lì voleva partorire. Ma gliel’hanno lasciato accanto ininterrottamente e con le norme Covid nessuno di noi ha potuto starle accanto. E lei, anche se ha 29 anni, era stanchissima, il piccolo era irrequieto, non l’hai mai fatta dormire. Così ha passato le nottate senza chiudere occhio”. Molte donne, è la denuncia, “sono lasciate sole nei reparti anche a causa delle restrizioni anti-Covid. I protocolli andrebbero rivisti”.

Dai primi accertamenti operati dalla polizia, sembrerebbe che il piccolo sia morto schiacciato dalla madre, la quale è comprensibilmente crollata dal sonno dopo un travaglio di 17 ore. Malgrado ciò anche in questo caso ha prevalso l’ottusa, intransigente battaglia del nostro sistema sanitario contro un virus clinicamente quasi scomparso e che – parole di Giorgio Palù, illustre virologo presidente dell’Aifa – attualmente registra un tasso di letalità cinque volte più basso rispetto a quello dell’influenza stagionale.

Da questo profilo, così come è accaduto a molte giovani vittime dei vaccini pseudo-sperimentali e ai tantissimi morti causati dal ritardo nelle cure di altre malattie, il neonato di Roma allunga l’interminabile lista di decessi determinati dalle più rigide restrizioni d’Occidente. Di fatto possiamo definire il prodotto di questa catastrofe, in parte ancora in atto, come i danni collaterali di una follia che non sembra avere mai fine.

Una follia che ci impone ancora di indossare l’inutile e malsana mascherina per accedere in qualunque ospedale della Penisola (per questo motivo sto procrastinando la mia consueta donazione di sangue, in attesa che il nostro formidabile ministro della Salute si decida ad eliminarne l’obbligo, perché mi rifiuto di subire una tale umiliazione), e che condanna ad una morte evitabile tante, troppe persone, così come pare che sia accaduto al povero bimbo della Capitale.

Ancora una volta bisognerebbe emulare in massa l’esortazione del protagonista del magnifico film Quinto potere, del grande Sidney Lumet, gridando dalle nostre finestre “sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più.” Tutto ciò nella speranza che dagli alti palazzi della politica qualcuno si prenda la responsabilità di mettere la parola fine a questa surreale vicenda, mandando finalmente al macero i citati, demenziali protocolli anti-Covid. Claudio Romiti, 23 gennaio 2023

Secondo Natura. Mascherine, studio sugli eventi avversi: “Effetti simili a quelli del fumo di sigaretta”. Un'ampia revisione condotta su più di mille pubblicazioni mostra eventi avversi importanti provocati dall'uso delle protezioni su naso e bocca e molti disturbi somigliano a quelli del Long Covid. Gli esperti si chiedono: "Se a provocare questi disturbi fossero state le FFp2?" Gioia Locati il 19 aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cosa emerge

 Lo studio

 Gli eventi avversi

 La definizione di salute dell'OMS

 Conclusioni

È stata appena pubblicata su Frontier’s un’ampia revisione sugli effetti della mascherine. È una raccolta di 2.168 lavori divulgati realizzata da vari dipartimenti di salute tedeschi e austriaci.

Cosa emerge

Poca ossigenazione, respirazione compromessa, confusione mentale. Ma anche ipercapnia (accumulo di anidride carbonica nel sangue) aumento della pressione arteriosa e di quella intra oculare, asma, acne e, come conseguenza, compromissione del sistema immunitario. Sono alcuni degli “eventi avversi” riscontrati dagli autori nei portatori di mascherine chirurgiche e FFP2.

Gli autori hanno osservato che tutti questi sintomi sono gli stessi del cosiddetto long Covid. E hanno concluso chiedendosi “se invece del long Covid molti sintomi fossero dipesi dall’uso delle mascherine”?

L’invito è quello di continuare a indagare. Senza ipotesi, infatti, non vi sarebbe alcuna scienza.

Gli effetti collaterali delle mascherine devono essere valutati (rapporto rischi-benefici) rispetto alle prove disponibili della loro efficacia contro le trasmissioni virali. In assenza di una forte evidenza empirica di efficacia (altra considerazione importante fatta dagli autori) l'uso della protezione non dovrebbe essere obbligatorio e tanto meno imposto dalla legge.

Lo studio

È stata condotta una revisione sistematica di 2.168 pubblicazioni sugli effetti avversi, da qui gli autori hanno prodotto 54 lavori e 37 studi per la meta-analisi. Dei 54 studi, 51 hanno riportato numerosi e vari effetti avversi. Dei 37 analizzati, 12 sono stati condotti su operatori sanitari (32%), solo in 3 (il 6%) non sono evidenziati effetti collaterali dopo l’uso delle mascherine.

Le mascherine mediche si indossano per un tempo variabile, quale il tempo analizzato dagli autori? È riportato: "Il tempo sperimentale mediano degli studi inclusi nelle meta-analisi (principalmente studi controllati) sugli effetti fisiologici, fisici e chimici della maschera facciale è stato di 18 minuti con un intervallo interquartile (IQR) di 50 minuti (minimo 6 minuti, massimo 360 minuti)”.

Gli autori hanno ricordato che le protezioni su naso e bocca sono state introdotte nel 2020 poiché si riteneva che potessero rappresentare una protezione contro la trasmissione virale, "benché le prove dell'efficacia di questa misura fossero solo deboli. L'efficacia delle mascherine in tutte le strutture sanitarie era un argomento discusso anche prima del 2020. Questi sistemi di protezione non erano solo raccomandati ma sono diventati misura obbligatoria di sanità pubblica in molti Paesi del mondo".

Si legge: “Le mascherine hanno ridotto il volume respiratorio del -19% al minuto, secondo la nostra meta-analisi e fino al -24% per le maschere FFp2, la differenza tra le maschere chirurgiche e FFp2 era di -10% volume respiratorio al minuto”.

Gli eventi avversi

Numerosi sono gli eventi avversi segnalati:

aumento del volume dello “spazio morto respiratorio” (si intende il volume d’aria che resta intrappolata nelle vie aeree e non partecipa allo scambio gassoso)

aumento della resistenza respiratoria;

aumento dell'anidride carbonica nel sangue;

diminuzione della saturazione di ossigeno nel sangue;

aumento della frequenza cardiaca;

diminuzione della capacità cardiopolmonare;

variazioni della frequenza respiratoria;

mancanza di respiro e difficoltà respiratorie;

cefalea;

vertigini;

diminuzione della capacità di concentrazione;

sonnolenza;

prurito;

acne, lesioni cutanee e irritazioni;

stanchezza e spossatezza complessiva percepita;

diminuzione della ventilazione;

aumento della pressione arteriosa;

disturbo della comunicazione e della voce;

disagio percepito;

aumento dell'ansia;

aumento degli sbalzi d'umore o umore depressivo;

cambiamenti nel metabolismo microbico (intestino e bocca).

Tuttavia, tre studi (6% degli articoli inclusi) descrivono l'assenza di effetti negativi e concludono con una valutazione positiva sull'uso delle mascherine.

Per gli autori sono emersi danni più pronunciati nelle persone dai 60 agli 80 anni, specie in chi è affetto da aneurisma o tumore cerebrale. Ma è stato aggiunto che portare la mascherina “può contrastare la terapia che mira a ridurre la pressione intraoculare e può esacerbare i problemi irreversibili della vista a lungo termine nei soggetti con glaucoma. Gli effetti sono paragonabili al fumo di sigaretta”.

La definizione di salute dell'OMS

Secondo la metanalisi questi sintomi correlati alla maschera contraddicono ciò che l’OMS definisce come stato di benessere e salute. Secondo l'OMS: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplicemente l'assenza di malattia o infermità”. Affermano gli autori: "Per quanto riguarda tutti i possibili effetti collaterali delle mascherine e la loro ancora non dimostrata efficacia contro la trasmissione virale nella popolazione generale la salute sembra non essere sostanzialmente preservata indossando mascherine. Ci sono evidenze che i tassi di COVID-19 si siano espansi rapidamente quando Omicron ha colpito anche nelle società in cui l'uso della maschera è stato assiduamente seguito, come in Corea, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Dai fatti di cui sopra, concludiamo che un requisito della maschera deve essere riconsiderato in modo strettamente scientifico senza alcuna interferenza politica, nonché da un punto di vista umanitario ed etico. In assenza di una forte evidenza empirica dell'efficacia della maschera, l'uso della maschera non dovrebbe essere obbligatorio e tanto meno applicato dalla legge".

Conclusioni

A proposito dei numerosi sintomi provocati dall'indossare le mascherine, gli autori hanno considerato: "Quasi il 40% dei principali sintomi di COVID-19 a lungo termine coincide con i disturbi e i sintomi correlati al portare le mascherine descritti in letteratura, come affaticamento, dispnea, confusione, ansia, depressione, tachicardia, vertigini e mal di testa, che abbiamo rilevato anche nell'analisi qualitativa e quantitativa degli effetti sull'uso delle mascherine nella nostra revisione sistematica. È possibile che alcuni sintomi attribuiti al lungo COVID-19 siano prevalentemente correlati alla mascherina. Vanno condotte ulteriori ricerche su questo fenomeno".

Covid: l’analisi comparativa di 78 studi demolisce l’uso delle mascherine. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 27 febbraio 2023.

Non vi è alcuna evidenza scientifica sul fatto che indossare le mascherine – i cosiddetti dispositivi di protezione individuali delle vie respiratorie – riduca la diffusione delle malattie virali, incluso il Covid-19. È quanto sostiene uno degli studi comparati più ampi e rigorosi pubblicato il mese scorso e condotto per Cochrane, un’organizzazione no profit britannica considerata il punto di riferimento per eccellenza della revisione dei dati sanitari e degli studi scientifici. «Non ci sono prove che [le mascherine] facciano alcuna differenza. Punto», ha detto Tom Jefferson – l’epidemiologo di Oxford, principale autore dello studio – alla giornalista Maryanne Demasi che lo ha intervistato. Le conclusioni di Jefferson sono basate su 78 studi controllati randomizzati, sei dei quali condotti durante la pandemia di Covid-19 con un totale di 610.872 partecipanti di diverse nazioni. Quella pubblicata lo scorso mese su Cochrane è la versione aggiornata dello studio comparato già pubblicato nel novembre del 2020. Lo studio conferma peraltro ciò che è stato chiaramente osservato negli Stati Uniti: gli Stati che hanno imposto l’obbligo di mascherina non hanno ottenuto risultati migliori, in termini di riduzione dei contagi, rispetto agli Stati che non hanno imposto l’obbligo. Di conseguenza, sembrerebbe che l’imposizione dei dispositivi individuali delle vie respiratorie sia stata inutile se non fallimentare.

Secondo Jefferson – che ha condotto lo studio insieme ad altri 11 colleghi – nemmeno il tipo di mascherina impiegata, N95 o FFP2, risulta determinante ai fini del contenimento dell’infezione: «Non fa alcuna differenza, niente di tutto ciò», ha affermato. E riguardo agli studi che inizialmente hanno persuaso i governi a rendere obbligatorio l’uso delle mascherine, l’epidemiologo di Oxford ha affermato che «sono stati convinti da studi non randomizzati, studi osservazionali imperfetti». Jefferson ha inoltre spiegato come, durante la pandemia di Covid-19, Cochrane abbia voluto ritardare di sette mesi la pubblicazione dello studio nell’intento di «minare il nostro lavoro», ha dichiarato Jefferson. Su esplicita domanda della giornalista rispetto al fatto se Cochrane fosse a favore delle mascherine e, dunque, lo studio in questione ne contraddicesse la narrativa, il ricercatore ha risposto: «Sì, penso che sia quello che è successo», aggiungendo anche che «quei sette mesi sono stati cruciali. È stato il periodo durante il quale la politica è stata convinta circa la necessità dell’uso della mascherina. Il nostro studio era importante e avrebbe dovuto essere pubblicato».

Secondo il ricercatore di Oxford, «i governi hanno completamente fallito nel fare la cosa giusta e nel domandare maggiori evidenze scientifiche. All’inizio della pandemia c’erano delle voci che sostenevano che le mascherine non servissero, ma poi rapidamente la narrativa è cambiata». Le parole del ricercatore mettono in evidenza come anche gli studi scientifici possano essere imperfetti, parziali o influenzati da interessi di vario genere e, per tale ragione, il totale affidamento ad una “scienza” inquinata da interessi di potere e commerciali comporta errori anche gravi nell’ambito della salute pubblica. Tali interessi sono stati i principali fattori per cui tutte le voci disallineate rispetto alla narrazione dominante sono state silenziate e e demonizzate, mentre ora sta lentamente emergendo come quella minoranza di “eretici” che si voleva bandire dalle pubbliche discussioni e finanche dalla vita sociale sostenesse tesi ora confermate da rigorosi studi scientifici.

L’Indipendente stesso già nel maggio 2022 aveva pubblicato un articolo di approfondimento in cui si analizzava – attraverso gli studi scientifici a disposizione – la reale efficacia delle mascherine: dopo aver citato una serie di pubblicazioni in cui si sosteneva l’utilità delle stesse, veniva messo in luce come però ve ne fossero altre che, al riguardo, presentavano conclusioni totalmente differenti. In particolare, uno studio pubblicato sulla rivista Medicine, dal titolo “Un meccanismo mediante il quale le mascherine contribuiscono al tasso di mortalità Covid-19”, sosteneva che «indossare mascherine potrebbe comportare un grande rischio per gli individui, che non sarebbe mitigato da una riduzione del tasso di infezione» e che quindi «il loro utilizzo potrebbe essere inadatto, se non controindicato, come intervento epidemiologico contro il Covid-19». La causa di ciò risiederebbe nell’effetto Foegen, ossia nella «reinalazione profonda di goccioline ipercondensate o virioni puri catturati nelle mascherine», che «possono peggiorare la prognosi e potrebbero essere collegate agli effetti a lungo termine dell’infezione da Covid-19».

Ora si ha una prova in più del fatto che gli studi scientifici a sostegno dell’utilità delle mascherine sono stati condotti con metodi non scientificamente “ortodossi” e – probabilmente – influenzati da interessi di varia natura e che l’obbligo di indossare la mascherina imposto dagli Stati sia stato per lo più inutile, specie all’aperto, dove vi erano già una grande quantità di studi che accertavano l’assoluta inutilità. Progressivamente stiamo, dunque, assistendo allo sgretolamento di tutte le misure che hanno sostenuto l’emergenza Covid, sia dal punto di vista giuridico – con diverse sentenze che hanno dichiarato incostituzionali i Dpcm restrittivi della libertà personale – sia dal punto di vista sanitario, con svariati studi che hanno messo in discussione, oltre alle mascherine, l’efficacia dei vaccini chiedendo di rivalutarne in modo più rigoroso rischi e benefici. [di Giorgia Audiello]

Cresce l'allerta. Variante Kraken Covid, l’Oms raccomanda mascherine al chiuso: “Entro 1-2 mesi dominante in Europa”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Il livello di allarme si sta alzando. Il rischio di una nuova ondata di Covid-19 a livello globale, ‘spinto’ dalla variante Kraken, preoccupata gli esperti di sanità che raccomandano prudenza.

Ad intervenire è infatti l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della sanità (Oms), che oggi ha diffuso una nota in un consiglia a chiunque di indossare sempre le mascherine in quelli che definisce “uno spazio affollato, chiuso o scarsamente ventilato”.

L’Organizzazione specifica inoltre di comportarsi in questo modo a livello preventivo “indipendentemente dalla situazione epidemiologica delle singole regioni, vista l’attuale situazione pandemica a livello globale”. Un invito rivolto in particolare a tutti coloro che sentono di avere sintomi riconducibili al Covid-19 o se comunque si è entrati a contatto con persone fragili.

Il non detto di queste raccomandazioni è la preoccupazione in merito alla variante XBB.1.5 del Sars-Cov-2, quella ribattezzata Kraken. Questa non è legata all’esplodere dei contagi in Cina, dove l’abbandono improvviso della strategia “Zero Covid” da parte del regime di Pechino, sommato alla basse percentuale di vaccinazioni e all’inefficacia dei vaccini sviluppati localmente, ha provocato milioni di contagi.

L’allarme vero arriva infatti dagli Stati Uniti, dove è stata osservata per la prima volta già lo scorso ottobre e sta diventando rapidamente dominante. . “Negli Stati Uniti XBB.1.5 si sta diffondendo a una velocità del 12% maggiore rispetto alle altre varianti” spiega l’Ecdc, lo European Centre for Disease Control.

Ma Kraken sarà presto un problema anche in Europa. “I nostri modelli matematici – spiega l’Ecdc – indicano che XBB.1.5 potrebbe diventare dominante in Europa tra uno o due mesi, considerata la proporzione bassa di oggi e il suo tasso di crescita“.

La nuova variante comunque, così come le altre  Gryphon (XBB), Cerberus (BQ.1) e Centaurus (BA.2.75), è al momento classificata come come variante di interesse e non come variante di preoccupazione.

Questo perché, come fa notare ancora l’Ecdc, nonostante l’aumento dei contagi negli Stati Uniti e dei decessi, causato probabilmente dal maggior numero di infezioni, al momento non si notano tratti più preoccupanti in Kraken rispetto alle altre parenti della famiglia Omicron: “Non ci sono al momento segnali che la gravità dell’infezione da XBB.1.5 sia diversa rispetto alle altre subvarianti di Omicron”, spiegano gli esperti.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da blitzquotidiano.it il 5 gennaio 2023.

Un italiano di 38 anni è stato assolto dal Tribunale di Milano dal reato di falso ideologico. Il 15 gennaio di un anno fa, fu fatto scendere dal treno Milano-Bari perché privo di un tampone anti Covid negativo dopo un test positivo che risaliva a tre giorni prima. La Procura, racconta il Corriere della Sera, chiedeva la condanna a 2 mesi per aver violato l’obbligo generale di quarantena introdotto il 25 febbraio 2020.

 Salì sul treno senza tampone Covid negativo, assolto

Il giudice ha escluso il reato per tre ragioni. La prima è che il passeggero del treno appariva privo del requisito dell’offensività. L’indiziato non sarebbe stato “in grado di esporre a pericolo la salute pubblica mediante concreta possibilità di contagio di un numero indeterminato di persone”. In quanto “del tutto asintomatico al momento del controllo” sul treno e “negativo a un test in farmacia solo due ore dopo”.

Per il giudice “illegittimo limitare la libertà personale”

La seconda ragione è che l’azienda sanitaria di competenza non l’ha mai sottoposto alla quarantena. Nel senso che la contravvenzione avrebbe dovuto presupporre un ordine non generalizzato ma “ad personam”. Per applicarla non è sufficiente la violazione dell’obbligo contenuto nel provvedimento generale.

Perché altrimenti questo costituirebbe un’illegittima violazione della libertà personale. Che quindi sarebbe incostituzionale. Perché quel tipo di limitazione è riservata all’Autorità Giudiziaria. E deve essere fatta con provvedimenti ad personam. Per la giudice “ne consegue che un regolamento generale e indifferenziato che imponga la quarantena ai positivi Covid appare illegittimo e dunque incostituzionale, sicché può essere disapplicato e la sua violazione non può integrare ipotesi di reato”.

Covid: il tribunale di Milano dichiara illegittimi i Dpcm restrittivi della libertà personale. Giorgia Audiello su L'Indipendente l’8 Gennaio 2023

Il giudice di Milano, Sofia Fioretta, ha emesso una sentenza – l’ultima di una lunga serie – relativa alle misure restrittive della libertà personale durante il periodo pandemico, che etichetta indirettamente come illegittimi i Dpcm varati dal governo Conte prima e da quello Draghi dopo. La sentenza ha assolto, infatti, un trentottenne accusato di aver violato le disposizioni pandemiche e di falso ideologico e per il quale la Procura aveva chiesto due mesi di arresto e 350 euro di ammenda. L’uomo il 15 gennaio 2022, quando era in vigore il green pass, viaggiava sul treno Milano Bari senza la certificazione verde né la prova di un tampone negativo ed è quindi stato fatto scendere dal treno. Tre giorni prima era risultato positivo, ma asintomatico, a un tampone e, in base agli allora regolamenti, avrebbe dovuto rispettare l’obbligo di quarantena. A distanza di quasi un anno dall’accaduto, il tribunale di Milano ha dato ragione all’imputato in quanto «limitare la libertà con obblighi indifferenziati viola la Carta costituzionale e quindi «il fatto non sussiste».

Le motivazioni della sentenza non sono ancora state depositate, ma secondo le anticipazioni pubblicate dal Corriere della Sera, sono tre le ragioni con cui la giudice ha motivato la sentenza: la prima è quella per cui la condotta del passeggero «appare del tutto priva del requisito della necessaria offensività», poiché l’imputato non sarebbe stato «in grado di esporre a pericolo la salute pubblica mediante concreta possibilità di contagio di un numero indeterminato di persone». Il trentottenne, infatti, era risultato del tutto asintomatico al momento del controllo e negativo a un test in farmacia solo due ore dopo. La seconda ragione è che – anche se l’accusato tre giorni prima era risultato positivo – la presunta contravvenzione avrebbe dovuto presupporre non un ordine generalizzato, ma “ad personam”, ossia «rivolto a un determinato destinatario di un provvedimento amministrativo (ad esempio attraverso un sms dell’Azienda sanitaria di competenza) con il quale, verificata la positività a seguito del test, egli fosse stato sottoposto alla quarantena». Al contrario, se per considerare reato la condotta dell’imputato si ritenesse «sufficiente la semplice violazione dell’obbligo di quarantena contenuto nel provvedimento generale e astratto emesso dal governo», esso consisterebbe allora «nella violazione di una del tutto illegittima limitazione della libertà personale» e quindi «sarebbe incostituzionale per violazione del principio di riserva di giurisdizione». Solo l’Autorità Giudiziaria, infatti, può emettere un provvedimento che limiti la libertà personale con un provvedimento “ad personam”, non generalizzato, violando diversamente l’articolo 13 della Costituzione. Per questi motivi, la giudice ha concluso che «un regolamento generale e indifferenziato che imponga la quarantena ai positivi Covid appare illegittimo e dunque incostituzionale, sicché può essere disapplicato e la sua violazione non può integrare ipotesi di reato».

La sentenza in questione, così come molte altre simili degli ultimi mesi, mostra come le ragioni che hanno sostenuto l’intero impianto di restrizioni pandemiche si siano rivelate inesatte dal punto di vista giuridico, piano che si aggiunge alla fallacia ormai acclarata anche di quello scientifico: è ormai assodato, infatti  che i vaccini non bloccano la trasmissione dell’infezione e che quindi il contagio può avvenire nello stesso modo e nella stessa misura anche tra vaccinati. Tuttavia, le sentenze che sgretolano l’utilità e la legittimità dei Dpcm non vengono portate alla luce dai principali organi di stampa nazionali se non confinate in oscuri trafiletti, rimanendo nascoste e divulgate principalmente dalla stampa indipendente, così che il grande pubblico rimanga prevalentemente all’oscuro dell’illiceità dell’intera architettura costruita durante il “periodo pandemico”. L’avvocato del trentottenne accusato, Francesca Turchietti, ha detto che l’assoluzione «non era affatto scontata». Tuttavia, ha anche messo in luce come «Gli argomenti giuridici a favore di questa assoluzione erano molti forti: tutta la disciplina della quarantene e le norme che disciplinano le violazioni si espongono a seri dubbi di legittimità costituzionale». [di Giorgia Audiello]

Covid, sentenza storica: “La quarantena per tutti è incostituzionale”. La sentenza storica che assolve un cittadino, privo di tampone negativo dopo 3 giorni di positività. Claudio Romiti su nicolaporro.it il 4 Gennaio 2023

Sul tema delle libertà violate durante la pandemia, di quando in quando si scopre che pure per gli italiani c’è sempre un giudice a Berlino, come si suol dire. E’ di questi giorni la notizia della  clamorosa assoluzione di un nostro concittadino di 38 anni, rinviato a giudizio per falso ideologico. Il malcapitato, il 15 gennaio del 2022 era stato fatto scendere dal treno Milano-Bari, perché privo di un tampone negativo al Covid, dopo che tre giorni prima era risultato positivo ma del tutto asintomatico. Per questo motivo la Procura di Milano aveva chiesto alla giudice, Sofia Fioretta, una condanna esemplare di 2 mesi di reclusione.

Di diverso avviso il giudice, che ha escluso il reato per tre ragioni: la prima è che il passeggero del treno appariva privo del requisito dell’offensività. L’indiziato non sarebbe stato “in grado di esporre a pericolo la salute pubblica mediante concreta possibilità di contagio di un numero indeterminato di persone”. In quanto “del tutto asintomatico al momento del controllo” sul treno e “negativo a un test in farmacia solo due ore dopo”.

La seconda ragione è che l’azienda sanitaria di competenza non l’ha mai sottoposto alla quarantena. Nel senso che la contravvenzione avrebbe dovuto presupporre un ordine non generalizzato ma “ad personam”. Per applicarla non è sufficiente la violazione dell’obbligo contenuto nel provvedimento generale. Perché altrimenti questo costituirebbe un’illegittima violazione della libertà personale. Che quindi sarebbe incostituzionale. Perché quel tipo di limitazione è riservata all’Autorità Giudiziaria e deve essere fatta con provvedimenti ad personam. Per la giudice “ne consegue che un regolamento generale e indifferenziato che imponga la quarantena ai positivi Covid appare illegittimo e dunque incostituzionale, sicché può essere disapplicato e la sua violazione non può integrare ipotesi di reato.”

Si tratta di una sentenza molto importante, al di là del caso specifico, con la quale si stabilisce un principio costituzionale che, durante gli anni bui della pandemia, è stato costantemente violato a colpi di atti amministrativi. Infatti, oltre alle quarantene, tante altre limitazioni della nostra libertà sono state adottate in senso generalizzato con un semplice tratto di penna. Siamo stati posti agli arresti domiciliari di massa per due mesi, abbiamo subito l’obbrobrio del coprifuoco, delle mascherine anche all’aperto, delle autocertificazioni per uscire dal proprio comune, del limite dei 200 metri nello svolgere l’attività fisica fuori di casa e tutta una lunga serie di obblighi generalizzati i quali, oltre ad aver devastato la nostra economia e la nostra claudicante socialità, hanno letteralmente annichilito lo spirito critico di milioni di italiani, molti dei quali ancora oggi si sono bevuti la balla che è solo in forza di queste misure che sono sopravvissuti. 

A tale proposito ci chiediamo quante altre sentenze dovranno essere depositate prima che la sfera politica di questo disgraziato Paese si assuma le proprie responsabilità, decretando con atti concreti la fine di una stagione di terrore che ancora in troppi sembrano interessati a mantenere. Claudio Romiti, 4 gennaio 2023

Covid, quarantena e mascherine: cambiano ancora le regole. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 2 Gennaio 2023

Il governo ha diffuso la circolare contenente le nuove disposizioni per coloro che risultino positivi al virus SARS-CoV-2 e chi vi entri in stretto contatto, definite in seguito alla conversione in legge del dl 162/22, il cosiddetto “Decreto rave”. Al suo interno sono previste anche norme specifiche per i cittadini che provengano dalla Repubblica Popolare Cinese, i quali dovranno attenersi a misure di sicurezza aggiuntive.

Coloro che risultino positivi al test antigenico o molecolare devono sottoporsi a isolamento. Questo può terminare dopo cinque giorni per gli asintomatici o per coloro che non presentino sintomi da almeno due giorni, a prescindere dall’esito di un eventuale nuovo test. Per i positivi asintomatici, l’isolamento potrà terminare anche prima in caso di test negativo. I soggetti immunodepressi e i sanitari sono tenuti a sottoporsi a isolamento fino a quando il test risulti negativo. L’uso di mascherine FFP2 è in ogni caso obbligatorio fino al decimo giorno dall’inizio dei sintomi o del primo test positivo, con raccomandazione di evitare luoghi affollati – precauzioni che decadono dal momento in cui il test risulti negativo.

Coloro che si sono trovati a stretto contatto con un caso confermato dovranno sottoporti a regime di autosorveglianza, con obbligo di indossare mascherina FFP2 al chiuso o in presenza di assembramenti fino al quinto giorno dalla data del contatto stretto. In caso di comparsa di sintomi, l’esecuzione di test antigenico o molecolare è raccomandata, ma non obbligatoria. Gli operatori sanitari dovranno invece sottoporsi a test giornaliero fino al quinto giorno dal contatto.

Per quanto riguarda i casi confermati di cittadini giunti in Italia dalla Cina nei 7 giorni precedenti il primo test positivo, l’isolamento potrà terminare dopo un minimo di 5 giorni dal primo test, se asintomatici da almeno due giorni e negativi a un test antigenico o molecolare. [di Valeria Casolaro]

L’Allarmismo.

Basta terrorismo in tv alle immagini isteriche si replica con la scienza”. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 30 Dicembre 2022 

Allarmismo, terrorismo mediatico e dati poco credibili. Ecco cosa si nasconde, secondo il Professore Mariano Bizzarri, dietro le ultime notizie che arrivano da Pechino sui contagi da Covid-19. Secondo il ricercatore della Sapienza “bisogna tornare con i piedi per terra e fare informazione con dati scientifici certi”.

Le notizie di nuovi contagi che arrivano dalla Cina crede siano preoccupanti?

Innanzitutto, l’informazione scientifica non si basa sulle immagini isteriche trasmesse dai telegiornali, ma su dati scientifici certi, perché le immagini sono soggette a cauzione da tanti punti di vista, ricordiamo che dall’inizio della pandemia ci hanno propinato delle immagini di persone che stramazzavano al suolo. Sono immagini che stridono con i dati. Primo dato, comunicato oggi dal ministro Schillaci è che non ci sono nuove varianti e questo è un virus che sta già circolando. Il secondo dato è che l’Unione europea ci aveva aspramente criticato la misura dei tamponi, che non è giustificata, e molti paesi, tra cui la Francia, hanno detto che i cinesi sono ben accetti. Terzo dato, stiamo parlando di un vaccino – quello cinese – che è stato riconosciuto dall’Oms, esattamente come fatto con Pfizer e credo che ciò abbia la stessa valenza. A maggior ragione, se siamo stati vaccinati non dovremmo avere paura di un eventuale ritorno di fiamma di varianti già circolanti”.

Reazione esagerata?

Innanzitutto, le persone che fanno esercizio di terrorismo mediatico sono chiamate a rispondere di quello che dicono. Un mese fa Pregliasco parlava di migliaia di morti e centomila ricoverati: dove sono questi dati oggi? Siamo in calma piatta. Anche Bassetti, non più tardi di una settimana fa, ha detto di preoccuparsi dell’influenza australiana e non del Covid. A cosa serve ora rianimare questa condizione di emergenza e ricreare questo clima di terrorismo? Inoltre, in molti elogiavano il sistema cinese fino a poco tempo fa: pensano che il Covid si sconfigga con un eterno lockdown? Torniamo con i piedi per terra e non facciamo terrorismo mediatico”.

Oggi ci sarà la cabina di regia di Schillaci, crede ci sia necessità di prevedere nuove restrizioni o ulteriori misure nei confronti di chi arriva dalla Cina?

È esagerato: in primo luogo, se una misura è efficace allora viene presa a livello europeo. Se l’Europa c’è allora bisogna decidere insieme. Ma a livello europeo ci hanno guardato tutti come scemi. Le decisioni vanno prese a livello comunitario: bloccando i cinesi poniamo discriminazioni all’ingresso in Europa. In secondo luogo, se dovevamo credere ai cinesi tre anni fa, perché non ci crediamo ora? Non hanno deciso di liberalizzare casualmente: ci dicono che la situazione è sotto controllo e non gli crediamo, però dovevamo farlo tre anni fa. Vedo che alcuni studi arrivano a cifre impossibili: se è vero che 250 milioni di cinesi sono positivi, tra una settimana tutta la Cina sarà positiva. Mi sembrano cifre non credibili, quando è successo, in una notte? C’è un limite anche nel voler prendere per i fondelli la gente. Non si risponde con i procurati allarmi, ma con dati certi. Lo stesso Oms non ha sollecitato l’allarme e io preferisco credere alle autorità sanitarie piuttosto che all’esperto di turno”.

Alcuni esperti e autorità dicono che i dati che arrivano dalla Cina non sono trasparenti…

Sono le stesse persone che giuravano su quei dati fino a dieci giorni fa. Ricciardi, ricordo, aveva proposto il modello cinese e ora invece ci dicono che i dati non sono più credibili. Mi sono confrontato con dei colleghi alla Sapienza e ci chiediamo perché dare credito ai soliti quattro noti. Ci sono migliaia di persone che la pensano in modo opposto. Nessuno li ha delegati a rappresentare la scienza. Ognuno porta il suo contributo e deve esserci il coraggio di dire ‘questa è un’opinione’”.

(ANSA-AFP il 29 dicembre 2022.) Le misure di protezione adottate dagli altri Paesi di fronte alla nuova ondata di Covid in Cina è "comprensibile". Lo ha detto il direttore generale dell'Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus.

 (ANSA il 29 dicembre 2022.) "I vaccini contro il Covid rimangono la migliore protezione contro la malattia grave. Tuttavia, mentre la pandemia entra nel suo quarto anno, milioni di persone in Europa rimangono non vaccinate. Invito tutti i 53 Paesi della Regione Europea dell'Organizzazione mondiale della sanità a rinnovare gli sforzi di vaccinazione. L'attuale scenario globale ne sottolinea l'urgenza".

A scriverlo su Twitter, nel momento in cui l'aumento di contagi in Cina preoccupa le autorità sanitarie, è Hans Kluge, direttore regionale dell'Oms per l'Europa che, ricorda come sia essenziale condividere informazioni e dati sul virus. Le sfide globali, aggiunge Kluge, "richiedono una collaborazione globale che porti a soluzioni globali. Tutti i paesi devono condividere informazioni critiche su Covid-19, incluso il sequenziamento genomico delle varianti e dei sottotipi del virus. La trasparenza genera fiducia".

Convivere con la pandemia, prosegue in un successivo tweet, "è la nostra realtà globale a lungo termine. Il virus continuerà a cambiare con nuove varianti possibili. Possiamo salvaguardare noi stessi e coloro che ci circondano attraverso misure di igiene personale e protezione, inclusa la vaccinazione, in particolare per i più vulnerabili".

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 30 dicembre 2022. 

«La situazione è abbastanza sotto controllo», assicura Giorgia Meloni, di fronte alla nuova, massiccia ondata di Covid in Cina. Per la premier andremo avanti con «i controlli, i tamponi, le mascherine», mentre ribadisce che «il modello di privazione delle libertà del passato non mi è parso così efficace». 

Comunque vada, insomma, lockdown e Green pass non torneranno. Mentre l'invito a vaccinarsi è «per anziani e fragili, gli altri chiedano al medico». La speranza è che non siano questioni destinate a tornare di attualità. «Niente allarmismi», è anche l'appello del ministro della Salute, Orazio Schillaci, durante la sua informativa in Parlamento. 

Sottolinea un punto fondamentale: ad oggi, non sono state individuate nuove varianti più pericolose di Omicron. È il timore più grande. E per questo tutti, dal governo ai presidenti delle Regioni, spingono per intensificare i controlli con i tamponi negli aeroporti italiani, per chi arriva dalla Cina. Anche se resta il problema dei voli non diretti, in assenza di un coordinamento a livello europeo. 

«Auspichiamo che si voglia operare in questo senso», dice la premier di fronte alle resistenze di Bruxelles. Secondo Schillaci, gli scali intermedi rendono il «tracciamento pressoché impossibile, a meno che non si reintroducano misure maggiormente restrittive, come il "passenger locator form" digitale».

Ma per iniziative di questo tipo serve «un raccordo in sede Ue» aggiunge il ministro. Intesa che non sembra imminente. Una nota del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), infatti, definisce «ingiustificata» l'introduzione di controlli obbligatori negli aeroporti, perché i Paesi dell'Unione europea «hanno livelli relativamente elevati di immunizzazione e vaccinazione» e «le varianti che circolano in Cina stanno già circolando nell'Ue». 

D'altra parte, il governo cinese mette le mani avanti: «Abbiamo sempre creduto che le misure di risposta al Covid debbano essere basate sulla scienza e proporzionate - sottolinea il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino - e che si applichino in egual misura alle persone di tutti i Paesi, senza pregiudicare i normali spostamenti». 

La stessa Organizzazione mondiale della sanità, con il direttore per l'Europa, Hans Kluge, invita ad «attingere alle lezioni del passato e a non discriminare alcuna particolare popolazione». Ma, allo stesso tempo, manda un messaggio chiaro: «Covid is not over», «il Covid non è finito, bisogna mantenere le capacità di test e sorveglianza». Raccomandazione opportuna di fronte alle stime impressionanti su questo ritorno di fiamma del virus in Cina: un abitante su cinque contagiato, 250 milioni di casi, cinquemila nuove infezioni ogni giorno, una previsione di oltre un milione e mezzo di morti.

Quella che si è sviluppata lì è una «tempesta perfetta», dice Schillaci, provocata da «una copertura vaccinale contro il Covid insufficiente, con la maggior parte delle persone ancora suscettibili al virus». E da una «politica sanitaria sbagliata: la riduzione repentina delle misure di restrizione, causata dalla protesta popolare, ha funzionato da innesco», spiega il ministro. Per fortuna, «le poche informazioni che arrivano indicano che le varianti sono le stesse che già circolano da tempo a livello globale, quindi all'interno delle sottovarianti di Omicron».

Un dato confermato dall'attività di sequenziamento sui tamponi positivi dei passeggeri provenienti dalla Cina atterrati negli aeroporti di Malpensa e Fiumicino. Nello scalo romano, sul primo volo interessato dallo screening, è stato trovato un passeggero positivo ogni 10. Questa mattina si riunirà l'Unità di crisi del ministero della Salute, mentre Schillaci ha deciso di estendere fino al prossimo 30 aprile l'obbligo di indossare le mascherine nelle strutture sanitarie, dagli ospedali alle Rsa, fino agli studi dei medici di base.

Una mossa che, unita alle parole di Meloni sull'importanza di usare i dispositivi di protezione, suscita la reazione polemica del Movimento 5 stelle: «Oggi scoprono che i controlli e le mascherine sono armi indispensabili per combattere il Covid, meglio tardi che mai». Non senza ricordare che «solo due mesi fa» si rifletteva sulla possibilità di «togliere le mascherine addirittura nelle Rsa e negli ospedali».

 (ANSA il 30 dicembre 2022) - In vigore i tamponi in aeroporto per la rilevazione del Covid-19 per i passeggeri provenienti dalla Cina. L'ordinanza del ministro della Salute su 'Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'epidemia da Covid-19 concernenti gli ingressi dalla Cina è infatti inserita nella gazzetta ufficiale (GU Serie Generale n.303 del 29-12-2022) pubblicata oggi

Monica Serra per “La Stampa” il 30 dicembre 2022. 

Nell'area arrivi extra Schengen dell'aeroporto di Malpensa, si ripete la stessa formula: «Aspettiamo disposizioni dal ministero». Alle 15,15, quando il volo Neos partito da Tianjin, nel nord-est della Cina, è appena atterrato, però, l'ordinanza da Roma non è ancora arrivata e i tamponi sono «facoltativi» su disposizione di Regione Lombardia.

Così i sessantasette passeggeri, tra adulti e bambini, intimoriti più da macchine fotografiche e telecamere che dalla necessità di sottoporsi all'esame, hanno dovuto pagare 90 euro per un test molecolare. «Che - garantisce con una punta di orgoglio il dg al Welfare della Regione, Giovanni Pavesi - è stato fatto proprio a tutti». Anche a chi, come un giovane italiano in testa alla fila, si è rifiutato di sborsare quella cifra. «Siete pazzi? Novanta euro?» ha discusso a lungo davanti alle casse piazzate al termine di un percorso delimitato dai nastri blu. Ha fatto l'esame ed è corso via, senza fermarsi commentare.

L'area dell'aeroporto è stata attrezzata da un laboratorio convenzionato con Regione Lombardia, che ha allestito sei postazioni per effettuare i tamponi. Pronti i sanitari, nella loro tuta blu, a rimarcare un tuffo nel passato che il governo delle misure più blande contro il Covid forse credeva di essersi lasciato alle spalle. 

Nessuno dei cinesi presenti si lamenta dello screening: «La situazione è seria, è giusto», dice John che ha 19 anni e a Milano raggiunge i familiari per le feste. «Fa sentire più sicuri i miei parenti: lo avrei fatto comunque». Ma ti è stato chiarito che il tampone non è ancora obbligatorio? Scuote la testa: «Non sapevo». Anche lui, come molti altri, non avrà notato i cartelli all'ingresso.

Milena, 39 anni, mascherina sul volto e capelli raccolti, ha in braccio il suo bimbo di 4: «Prenderò subito un treno per raggiungere mio marito, che è italiano. Viviamo a Roma». L'esito del suo tampone, come quello degli altri, non arriverà prima di questa mattina. I passeggeri positivi saranno costretti all'autoisolamento. Al termine del quale, per poter uscire, a differenza dei cittadini italiani, dovranno sottoporsi a un antigenico negativo.

«Sono stata per quattro mesi a Tianjin dalla mia famiglia. Per me è giusto il test: in Cina me ne facevano uno al giorno - prosegue Milena -, ma sempre gratis. Va bene la sicurezza, ma non è giusto che sia a nostre spese». Se gli esami obbligatori ai passeggeri dei voli in arrivo dalla Cina saranno o meno a pagamento non lo chiarisce neanche l'ordinanza del ministero: «Attendiamo la circolare», spiega il dg Pavesi che rivendica la scelta della Lombardia di effettuare test «rigorosamente molecolari. Deve essere chiaro che non stiamo lavorando in un contesto emergenziale. Stiamo facendo un intervento di sanità pubblica per monitorare un fenomeno di diffusione del contagio in Cina con l'intento di prevenire l'ingresso in Italia di varianti non coperte dai vaccini».

Nei due precedenti voli «i positivi erano il 37 per cento nel primo e la metà nel secondo. I risultati sono tranquillizzanti: sono state identificate tre varianti Omicron già presenti in Italia».

Ma la misura obbligatoria per i passeggeri in arrivo dalla Cina, che l'Ecdc definisce «ingiustificata», è molto criticata da tutta la comunità cinese in Italia: «Che senso ha fare l'esame solo a chi arriva con un volo diretto? E chi fa prima uno scalo? Che senso ha farlo solo in Italia e non in tutta Europa?», si chiede Francesco Wu, presidente onorario dell'Unione imprenditori Italia-Cina, che riunisce più di 500 imprenditori cinesi che vivono stabilmente qui.

«La tecnocrazia cinese ha dimostrato che il virus così non si contiene. Se le ragioni di questa decisione sono, come temo, solo politiche, noi non ci stiamo più. Siamo stanchi di essere vittime di strumentalizzazioni. Basta guardare i titoli dei giornali di oggi per capirlo. Alla fine - conclude Wu - a essere criminalizzati siamo sempre noi cinesi residenti in Italia. È già successo in questi tre anni di pandemia, e sta capitando ancora».

Dietro le morti improvvise di questi mesi non c'è il vaccino, ma il Covid e la scarsa prevenzione.Linda Di Benedetto Panorama il 26 Aprile 2023

Infarti e malori inattesi sono sempre più frequenti ma secondo i cardiologi italiani il vaccino non c'entra. Mentre il coronavirus sì

«Come cardiologi abbiamo registrato un peggioramento della salute cardiovascolare ed un aumento dei decessi nell’ultimo triennio, dovuti a patologie legate al cuore». Malori, anzi, morti improvvise. Da inizio anno le cronache raccontano di decessi apparentemente inspoiegabili e che molti provano a collegare con il Covid se non addirittura con il vaccino contro il coronavirus. Ma come stanno davvero le cose lo spiega il Professor Furio Colivicchi, Presidente dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO), a cui sono iscritti circa 6000 cardiologi che lavorano nelle strutture del Servizio Sanitario pubblico. Contrariamente a quanto si pensa non è stato solo il Covid a uccidere migliaia di persone ma anche le malattie cardiovascolari che restano ancora oggi la principale causa di morte in Italia, e sono in continuo aumento e responsabili del 44% di tutti i decessi, con una prevalenza più elevata della media europea (7.499 casi ogni 100mila abitanti) causata dell’età media particolarmente alta della popolazione. Numeri che la pandemia non ha fatto altro aggravare infatti oltre ai casi già esistenti nei soggetti colpiti dal Covid si è riscontrato un aumento del 20-25% di tutte le malattie cardiovascolari soprattutto nei pazienti di età avanzata con comorbidità come ipertensione, diabete, obesità. Numeri confermati nel 2022 dai cardiologi italiani con dati che hanno mostrato come la mortalità per infarto si fosse triplicata passando dal 4.1% al 13.7%. I vaccini anti-Covid hanno causato l’insorgere di malattie cardiovascolari? «C’è un bassissima percentuale di soggetti che hanno avuto come effetto collaterale del vaccino delle malattie cardiovascolari, ma questo è un fattore di rischio legato anche ai farmaci. In alcune regioni infatti ho visto che si cerca di istituire il registro delle morti improvvise, che mi preme sottolineare già c’era prima del Covid nel Veneto dal 1993 perché c’era un’alta incidenza di displasia ritmogena, e in Toscana dal 2017, per monitorare soprattutto l’incidenza delle morti giovanili. Anche queste rappresentano una scarsa percentuale». Quanti decessi sono causati da malattie cardiovascolari? «Nelle attività di pronto soccorso: per lo scompenso cardiaco gli accessi sono aumentati di oltre il 25% e la mortalità in ospedale dei pazienti scompensati è salita al 15-20% mentre nel periodo della pandemia era triplicata. Invece tra il 2020 e il 2021 c’è stato un crollo delle vendite dei farmaci per la cura dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia di oltre il 20%, questo ci da la misura di una scarsa cura dei due fattori di rischio principali nelle malattie cardiovascolari e degli effetti sulla salute dei pazienti». C’è una prevenzione adeguata? «La prevenzione per le malattie cardiovascolari purtroppo viene praticata meno di quanto si dovrebbe e questo comporta una ridotta sensibilizzazione sugli stili di vita che incidono su queste patologie. Ad esempio il fumo è ampiamente sottovalutato nonostante durante il Covid ci sia stata una mortalità superiore nei soggetti fumatori. Eppure la prevenzione dovrebbe essere ancora più determinante dopo il Covid-19 perché ha agito sulle patologie del cuore a diversi livelli: nelle persone colpite dal virus hanno generato infiammazioni di miocardio e pericardio (un fattore che solitamente viene riscontrato in tutti i virus).Anche la sedentarietà, l’aumento di peso e l’obesità infantile sono altri fattori critici da tenere sotto controllo soprattutto quest’ultimo che è in forte aumento». Come si può migliorare la prevenzione? «La medicina territoriale dovrebbe evitare che le persone si ammalino coordinandosi con le strutture locali ormai ridotte al lumicino, perché povere di operatori e macchinari. Andrebbe anche implementata la figura dell’infermiere di comunità che in realtà non esiste ma è quella più adatta a svolgere gli esami diagnostici per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Le regioni hanno 20 diversi sistemi sanitari che si muovono autonomamente, alcune in maniera virtuosa come Emilia Romagna e Veneto altre invece sono molto carenti a tal punto che in alcune aree del Paese tipo il Mezzogiorno non esiste nemmeno il Cup per le prenotazioni di visite specialistiche. Questo crea inevitabilmente un problema di accesso alle prestazioni sanitarie che incide sulla salute dei cittadini. A pesare inoltre sulla qualità della medicina territoriale e non solo, è anche il grande carico burocratico della modulistica che toglie tempo alla cura dei pazienti e va assolutamente alleggerito. Per questo come presidente ANMCO ho fatto richiesta al Ministero della Salute di occuparsi di questo tema, ma è un iter lungo che coinvolge sia Aifa che Agenas, quindi non ci rimane che aspettare».

Poco sole e aria inquinata: ecco perché il Covid in Lombardia è stato più letale. Le cause e gli effetti sulla salute. Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023

Lo studio dei ricercatori del «Sacco» e dell’università dell’Insubria: i livelli di biossido di azoto correlati all’andamento dei contagi anche durante l’estate. Polveri sottili decisive nella diffusione della malattia 

«I livelli di biossido di azoto hanno avuto una correlazione con l’andamento dei casi anche durante l’estate, a conferma dei ben conosciuti effetti deleteri sulla salute umana e sulla suscettibilità al Covid-19». Per quanto riguarda invece le polveri, quelle più sottili (Pm2,5) hanno portato «un peggioramento nella diffusione della malattia nel Nord Italia, suggerendo che l’inquinamento ambientale abbia avuto un ruolo non trascurabile nel promuovere il processo di infezione in tutta la valle del Po».

Se a queste conclusioni erano già arrivate altre ricerche, l’articolo appena pubblicato sulla rivista scientifica Heliyon da un gruppo di ricercatori dell’ospedale «Sacco» e dell’università dell’Insubria permette un avanzamento delle conoscenze: perché è elaborato su un modello statistico che ha messo in correlazione fattori demografici (dalla densità abitativa, alla composizione delle famiglie), ambientali (i principali inquinanti) e variabili climatiche: in particolare il livello di irradiazione solare, che mai era stato impiegato per questo genere di studi in Italia.

La ricerca dunque non si sofferma sulle relazioni dirette tra un singolo fattore ambientale e l’andamento della pandemia, perché è concentrato sulla correlazione complessiva di tutti gli elementi. Ecco perché le conclusioni, al di là della ricostruzione della storia del Covid in Lombardia, si proiettano nel futuro: «Una speciale attenzione andrà dedicata alle aree molto popolose, in particolare se molto inquinate e debolmente esposte al sole».

Effetti sulla salute

L’analisi della correlazione complessiva è in grado di rivelare aspetti inediti. Ad esempio quello relativo all’ozono, che resta un inquinante con «azione deleteria sulla salute sia per gli effetti irritanti, sia per lo stress ossidativo sull’apparato respiratorio». Nell’analisi è però emerso che l’ozono possa aver avuto, nelle interrelazioni, un ruolo «protettivo» contro il Covid. La spiegazione riguarda una reazione chimica specifica: «Le concentrazioni di ozono sono inversamente proporzionali a quelle di Nox, dato che è prodotto di una reazione fotochimica del biossido di azoto» (è un inquinante secondario). Tradotto: l’inquinante che nella pandemia ha avuto un ruolo più dannoso, il biossido di azoto (No2), sotto i raggi solari tende a trasformarsi in ozono. Presenza di ozono equivale dunque a minor concentrazione del gas invece più dannoso. Si tratta solo di condizioni del contagio. L’ozono, inoltre, ha un’azione di danneggiamento sui virus.

Virus e calore

Il ruolo della temperatura nella diffusione del Covid è controversa, in particolare da quando il contagio in alcune zone degli Stati Uniti ha «galoppato» anche con temperature vicine ai 40 gradi. La conclusione è che la temperatura da sola, al contrario di quanto ipotizzato all’inizio della pandemia, non ha una correlazione (dunque un ruolo) decisivo nel contenimento del contagio, se non sotto i venti gradi. L’aspetto più innovativo dello studio è però quello di aver inserito nei modelli di analisi i dati sull’irradiamento solare, per approfondire quali siano le connessioni tra i vari fattori climatici e ambientali in relazione alla diffusione della pandemia. Si tratta di dati complessi che sono stati forniti dai centro di meteorologia dell’Aeronautica.

La protezione radiale

Tra le variabili meteorologiche, proprio i raggi del sole sembrano aver avuto un peso notevole nel contenere il contagio, «sia per effetti diretti, sia per la correlazione con altri fattori». Ad esempio, nei periodi più freddi, una temperatura un po’ più alta ha avuto un ruolo di protezione proprio se combinata con un maggior irradiamento solare: un aspetto che potrebbe aver salvaguardato le Regioni del centro e del Sud nella prima ondata Covid del 2020. Inoltre, i raggi del sole tendono a innescare la trasformazione del biossido di azoto, gas inquinante che come si è visto ha gli effetti più negativi sulla salute ed è maggiormente correlato alla diffusione dei virus. Ci sono poi processi biologici: i raggi solari, da una parte, disattivano la potenza dei virus; dall’altra, stimolano la produzione di vitamina D, che rafforza le difese immunitarie contro virus e batteri.

Estratto dell’articolo di M.G.F. per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2023.

Era l’11 marzo 2020 quando l’Organizzazione mondiale della sanità, dopo aver valutato i livelli di gravità e la diffusione globale dell’infezione da Sars-CoV-2, dichiarò che il mondo si trovava a dover affrontare una vera pandemia.

 Meno di due mesi prima il Comitato dell’Oms aveva definito il Covid un’emergenza sanitaria pubblica internazionale. Da allora la Johns Hopkins University di Baltimora, negli Stati Uniti, con il suo Coronavirus Resource Center, ha raccolto costantemente dati, in tempo reale, provenienti dai principali enti sanitari mondiali e nazionali. Tra questi la stessa Oms, i Centers for Disease Control and Prevention americani, l’ European Centre for Disease Prevention a nd Control e molti altri punti di monitoraggio dei principali Paesi.

 A distanza di tre anni l’ente americano ha deciso di interrompere l’attività di aggiornamento dei dati e lo ha comunicato sul suo sito ufficiale che ha avuto più di 2,5 miliardi di visualizzazioni.

Il bilancio «finale» della Johns Hopkins dà conto di 676.609.955 casi di Covid accertati nel mondo, 6.881.955 morti, 13.338.833.198 dosi di vaccino somministrate. Durante l’emergenza sanitaria internazionale il portale, con i numeri aggiornati in tempo reale relativi a tutti i Paesi, compreso il nostro, è stato un punto di riferimento per responsabili politici, scienziati di tutto il mondo, semplici cittadini, fornendo informazioni affidabili oltre che analisi di esperti. […]

Dal libro "IL COGLIONAVIRUS" e successivi aggiornamenti.

I veri numeri del Covid:

Totale 2022 (gennaio):

11.116.422 casi totali

8.492.983 dimessi-guariti

146.925 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.

Totale 2021:

6.266.939 casi totali

5.107.729 dimessi-guariti

137.513 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.

Totale 2020:

2.129.376 casi totali

1.479.988 guariti

74.621 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.

Il Washington Post: «con Covid» e «per Covid», distinzione essenziale. Piccole Note il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dall’insorgenza della pandemia si è aperto un acceso dibattito sulle ospedalizzazioni e i decessi “per Covid” o “con Covid”. Nella gestione della pandemia tale differenza è stata trattata come una mera distinzione linguistica, come non avesse alcuna importanza reale.

Tanti, anche noi, nel nostro piccolo, si sono invece posti domande su tale distinzione, anche se tali domande, del tutto ragionevoli, sono state criminalizzate e ascritte d’ufficio nel novero dell’indicibile e quindi censurabile. Così è con certa soddisfazione che abbiamo letto sul Washington Post un articolo che pone domande analoghe.

Domande lecite

Un po’ tardi, dal momento che esse andavano poste all’inizio della pandemia per evitare l’isterismo che l’ha accompagnata, sia da parte delle autorità che dei critici delle stesse, con questi ultimi più scusabili dei primi, dal momento che era proprio l’isteria delle autorità – che si è manifestata attraverso la censura, postuma e preventiva – ad alimentare vieppiù le critiche di parte dell’opinione pubblica.

E però, il fatto che un quotidiano autorevole come il Washington Post inizi a porsi e a porre domande, e soprattutto a pubblicare articoli diversi dagli usuali, scritti secondo le rigide disposizioni pandemiche, è di qualche conforto. Vuol dire che nel potere, quello vero, imperiale, si è aperta una crepa.

Leana Wen, questo il nome della cronista del Wp, non scrive nulla di sconvolgente per quanti hanno seguito il dibattito sul tema. Ha solo interpellato alcuni medici autorevoli, che, pur ribadendo la legittimità delle disposizioni pandemiche, spiegano che spesso, e troppo spesso, l’etichetta Covid è stata apposta su pazienti e defunti in maniera arbitraria.

Per” o “con”, percentuali sorprendenti

Riportiamo: “Robin Dretler , medico presso l’Emory Decatur Hospital ed ex presidente della sezione della Georgia della Infectious Diseases Society of America, stima che nel suo ospedale il 90% dei pazienti con diagnosi Covid sia in realtà ricoverato per qualche altra malattia”.

“‘Poiché ogni paziente ricoverato viene testato per Covid, molti risultano casualmente positivi’, ha detto. Una vittima d’arma da fuoco o una persona che ha avuto un infarto, ad esempio, potrebbero risultare positivi al virus, ma l’infezione non ha alcuna relazione con il motivo per cui hanno cercato assistenza medica”.

Dretler analizza anche il caso di pazienti con più infezioni concomitanti. ‘Le persone che hanno un numero di globuli bianchi molto basso a causa di una chemioterapia potrebbero essere ricoverate per una polmonite batterica o una cancrena del piede. Potrebbero anche avere il Covid, ma il Covid non è il motivo principale per cui sono così malati’”.

Se questi pazienti muoiono, il Covid potrebbe essere aggiunto al loro certificato di morte insieme alle altre diagnosi [e la morte viene registrata nel novero dei morti causati dal virus ndr]. Ma il coronavirus non è stato il principale responsabile della loro morte e spesso non ha avuto alcun ruolo”.

Quindi, dopo aver spiegato che non c’è nessuna cattiva intenzione nella sovrastima che ha caratterizzato la pandemia,  commenta: ‘La sopravvalutazione involontaria del rischio può rendere gli ansiosi più ansiosi e gli scettici più scettici'”.

Delle stesso tenore le parole di un’altra dottoressa interpellata dalla Wen,  Shira Doron, della quale riferiamo solo un cenno, perché più che significativo: “In alcuni giorni, ha detto, la percentuale di coloro che sono stati ricoverati in ospedale a causa di Covid è stata pari al 10% del numero totale riportato ufficialmente”.Il diario del caro estinto. Redazione L'Identità il 31 Dicembre 2022

Il medico rianimatore Paolo Demo è consapevole dell’atroce fine verso cui si sta lentamente avviando. La causa è il batterio killer chimaera che l’ha aggredito in sala operatoria durante la sostituzione di una valvola aortica e che purtroppo non gli dà più scampo. Egli con scrupolo professionale tiene un puntuale diario clinico che si trasformerà nel potente capo d’accusa contro le lacune e le inadempienze dell’Azienda sanitaria Ulss 8 Berica e della multinazionale Livanova-Sorin. Quest’ultima è la produttrice del macchinario in cui si era insinuato il batterio che ha provocato l’infezione fatale. Dopo due anni di processo civile il tribunale di Vicenza giunge alla conclusione che c’è piena responsabilità, al 50% ciascuno dei due principali convenuti, appunto l’Ulss e l’azienda che costruisce i sofisticati dispositivi, per il decesso di Demo e li condanna a risarcire alla moglie e alle due figlie del 66enne professionista vicentino 1,2 milioni di euro e 60 mila euro di spese legali.

EMERGENZA

Il caso chimaera si trasforma in una sorta di emergenza sanitaria in più regioni e spinge il ministero della Salute a predisporre una procedura standardizzata per segnalare i casi che piovono da diverse parti d’Italia, grazie alle osservazioni di Demo (nella foto) che purtroppo aveva fatto da cavia. Quando egli comincia a stare male inizia a studiare la letteratura scientifica sull’organismo unicellulare microscopico che lo sta uccidendo un po’ alla volta e consegna al suo avvocato Pier Carlo Scarlassara un dossier alla base della citazione. Il medico rianimatore viene operato in cardiochirurgia a Vicenza il 7 gennaio 2016. Gli viene sostituita la valvola aortica e durante l’intervento, che sotto il profilo clinico riesce perfettamente, per regolare la temperatura del sangue in circolazione extracorporea i cardiochirughi utilizzano dei serbatoi d’acqua che fanno parte dei dispositivi per il raffreddamento e riscaldamento realizzati da Livanova-Sorin. Il problema è che questi macchinari vengono infettati dal mycobacterium chimaera che sviluppa una pellicola che contagia il sangue. La difesa della ditta costruttrice afferma che fin dal 2014 aveva informato l’Azienda ospedaliera di Vicenza del problema. Dunque era “importante assicurarsi che il personale fosse consapevole del rischio associato ai microbatteri, nonché revisionare le procedure igieniche e chirurgiche in sala operatoria cardiochirurgica”. Anche l’Ulss contestava la propria responsabilità affermando che Demo si era recato in ospedale il 12 dicembre 2017, cioè a quasi due anni dall’intervento, lamentandosi per una tumefazione a livello dello sterno. Tuttavia, dopo un’approfondita analisi svolta dai periti incaricati dal giudice Eloisa Pesenti, quest’ultima ha concluso che “il decesso del dott. Paolo Demo è stato causato dalla con corrente responsabilità dell’azienda Livanova-Sorin produttrice dei macchinari e della convenuta Ulss 8 per carente disinfezione dei macchinari e dell’ambiente operatorio”. L’ospedale, sottolinea la sentenza, non aveva “documentato di avere provveduto nemmeno ai campionamenti bisettimanali raccomandati dalla produttrice”. Inoltre, per il giudice la multinazionale è corresponsabile perché in atti non è emersa la prova che anche con la disinfezione sarebbe stato prevenuto il rischio contagio.

NAZIONALE

La questione di fondo è che quella di Demo non è l’unica tragedia legata al batterio chimaera che ha coinvolto i cadiopatici. Tanto è vero che l’Osservatorio delle malattie rare in un proprio documento spiegava che “a 10 ottobre 2019 sono stati segnalati al ministero della Salute 36 casi confermati di mycobacterium chimaera, e due possibili di infezione invasiva, inclusi 21 decessi in Calabria, Emila-Romagna, Piemonte e Veneto”. Proprio in Veneto dopo la morte di Demo la Regione aveva richiamato migliaia di pazienti che erano stati operati tra il 2014 e il 2018 e che erano stati sottoposti alla circolazione extracorporea mediante i dispositivi della Livanova-Sorin. Anche successivamente il ministero ha diramato circolari per sensibilizzare i cardiochirurghi a segnalare tutti i casi di infezione da mycobacterium chimaera in “soggetti precedentemente sottoposti a intervento chirurgico con impiego dei dispositivi” di Livanova-Sorin. Si chiedeva anche la costituzione di un “registro con valenza prospettica”, laddove non fosse stato ancora predisposto, per delineare una rete che “faccia capo a un riferimento clinico-specialistico regionale/interregionale”per proteggere i pazienti asintomatici che avrebbero potuto essere colpiti dal batterio che si propaga lentamente. Addirittura si invitavano le aziende ospedaliere italiane che utilizzavano i dispositivi di Livanova-Sorin per gli interventi a torace aperto a informare tutti i pazienti che si erano sottoposti dal 2010 in poi alle operazioni a mettersi in contatto subito “con il medico di medicina generale o il centro di riferimento clinico-specialistico in caso di comparsa di disturbi compatibili con l’infezione”.

I VACCINI.

Il Nobel.

Disinformazione.

Efficacia.

Obblighi.

Sprechi.

Truffe.

Profitti.

I Rischi.

Il Nobel.

Nobel per la Medicina 2023 per i vaccini contro il Covid: un premio più che mai politico. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 3 Ottobre 2023 

L’assegnazione del Premio Nobel per la medicina 2023 all’ungherese Katalin Karikó di 68 anni e all’americano Drew Weissman di 64, per aver messo a punto il metodo dell’Rna usato per i vaccini contro il Covid, risulta quanto meno controversa e richiede, dunque, alcune riflessioni, considerato che si tratta di una tecnologia ancora in fase di sperimentazione e della quale non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine. Non solo: negli ultimi mesi sono emersi diversi studi a livello internazionale che sottolineano la correlazione tra i farmaci a mRna e diverse patologie, tra cui miocarditi, pericarditi e paralisi di Bell, mentre è ormai assodato che le stesse case farmaceutiche hanno ammesso che i vaccini Covid-19 non impediscono il contagio, ma – in alcuni casi – evitano l’aggravarsi della malattia. Insomma, mentre il dibattito all’interno del mondo scientifico è ancora aperto e gli studi sugli effetti avversi sono tutt’altro che conclusi, l’assegnazione del Nobel per la Medicina agli inventori del vaccino a mRna ha tutta l’aria di essere un modo per serrare il dibattito intorno all’efficacia e alla sicurezza di questi farmaci, grazie alla “santificazione scientifica” conferita dal prestigioso riconoscimento dell’Accademia svedese, che però non è esente da interessi e pressioni politiche.

L’Assemblea Nobel ha giustificato l’attribuzione del premio ai due ricercatori, sostenendo che «grazie a loro milioni di vite sono state salvate e il mondo è tornato ad aprirsi». Da ricordare però come centinaia di medici denigrati dal coro mediatico e ignorati dalla politica abbiano applicato protocolli domiciliari di cura e terapie alternative che sono state velocemente archiviate e ritenute sbrigativamente non efficaci senza svolgere solide ricerche e sperimentazioni. Il tutto ha lasciato come unica soluzione quella della vaccinazione a mRna sulla quale da anni le case farmaceutiche hanno investito ingenti risorse. Gli stessi Karikò e Weissman durante le loro ricerche – in corso dagli anni Novanta – sono riusciti ad attirare pochi finanziamenti: i due avevano fondato nel 2007 la RNARx che si era assicurata solo alcuni modesti finanziamenti da parte del governo americano (circa 97.000 dollari), e in seguito aveva dovuto fare i conti con diversi esperimenti falliti, con la competizione all’interno dell’ambito scientifico e soprattutto col business. Dopo aver speso senza risultati altri 800.000 dollari di finanziamenti, i due ricercatori hanno chiuso il laboratorio e Karikò decise di collaborare con le multinazionali del farmaco entrando in BionTech. Si configurano così anche potenziali conflitti d’interesse, essendo la ricercatrice non solo docente e medico, ma anche consulente di un colosso farmaceutico che nel 2021, grazie ai farmaci a mRna, aveva fatturato sei miliardi di euro.

Ma i conflitti di interesse non si fermano qui: secondo alcune fonti, infatti, il Karolinska Institutet – l’Università medica svedese il cui Comitato seleziona ogni anno i vincitori del Premio Nobel per la medicina – sarebbe stato finanziato, tra gli altri, dalla Fondazione Bill & Melinda Gates che, dal 2010, avrebbe elargito all’istituto circa un milione e 714 mila dollari. La fondazione Gates ha finanziato la ricerca sui vaccini a mRna di Moderna ed è sponsor di Gavi, l’alleanza internazionale per i vaccini, e di Covax. Proprio a causa dello spiccato interesse della Fondazione per i vaccini e la tecnologia a mRna, si tratta di elargizioni che potrebbero certamente avere influenzato la scelta per l’assegnazione del Nobel.

Non è la prima volta, del resto, che il premio istituito nel 1901 dall’inventore della dinamite, Alfred Nobel, viene piegato alle logiche politiche e ai criteri ideologici occidentali, assumendo così i connotati di uno strumento atto a legittimare nell’opinione pubblica l’operato del potere e, in questo caso, delle multinazionali del farmaco occidentali. Uno dei casi più emblematici al riguardo è quello del conferimento del Premio Nobel per la Pace all’ex presidente americano Obama: un premio che stride pesantemente con l’operato dell’ex inquilino della Casa Bianca che ha autorizzato interventi militari in Libia, Iraq, Siria, Afghanistan e Pakistan durante il suo mandato, solo per citarne alcuni, ed è stato in prima linea in Libia con l’invio di caccia statunitensi nell’operazione militare contro Gheddafi, di cui il continente europeo sconta ancora oggi gli effetti sul piano migratorio e della politica energetica. Inoltre, l’ex presidente progressista ha scatenato una guerra dei droni in Somalia che ha mietuto centinaia di morti e ha ricevuto il Premio Nobel per la pace dopo nemmeno un anno dal suo insediamento. Il che lascia supporre che il conferimento del Premio sia stata più un’operazione politica – per tesserne l’immagine di presidente “illuminato” del XXI secolo – che un effettivo riconoscimento per il suo operato da presidente.

Non per nulla, l’ambito riconoscimento internazionale assume sempre di più i risvolti di un premio politico su cui pesano le pressioni del mondo farmaceutico e finanziario occidentale. La definitiva “consacrazione” della tecnologia a mRna, del resto, conferisce il via libera ai futuri farmaci a mRna su cui l’industria sta investendo altri milioni di dollari e che rappresentano – secondo i suoi fautori – la medicina del futuro, sebbene non si abbiano ancora informazioni certe sulla sicurezza a medio e lungo termine di questa tipologia di farmaci. È necessario quindi inquadrare il conferimento del Premio all’interno del contesto scientifico, politico e culturale occidentale che risponde a criteri parziali e a interessi economici ben precisi. [di Giorgia Audiello]

Disinformazione.

Texas: Pfizer andrà a giudizio per aver “illegalmente travisato” l’efficacia del vaccino. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 4 Dicembre 2023

Il colosso farmaceutico Pfizer è stato citato in giudizio dal procuratore generale del Texas, Ken Paxton, per aver illegalmente travisato l’efficacia del suo vaccino anti-COVID-19: in una denuncia depositata presso il tribunale statale della contea di Lubbock, Paxton ha fatto notare che l’affermazione sull’efficacia del vaccino – stimata pari al 95% – da parte dell’azienda è stata altamente fuorviante, poiché concerneva una “riduzione relativa del rischio” e non “assoluta”. L’affermazione si basava, infatti, su soli due mesi di dati di studi clinici e la “riduzione assoluta del rischio” dei soggetti vaccinati avrebbe dimostrato che il vaccino è efficace solo dello 0,85%. Per queste ragioni, Pfizer è stata accusata di “atti e pratiche false, ingannevoli e fuorvianti”, in quanto avrebbe fatto affermazioni non supportate da dati riguardanti il ​​vaccino COVID-19 dell’azienda in violazione del Texas Deceptive Trade Practices Act. “Pfizer ha intenzionalmente travisato l’efficacia del suo vaccino contro il Covid-19 e ha censurato le persone che minacciavano di diffondere la verità al fine di facilitare la rapida adozione del prodotto ed espandere le sue opportunità commerciali”, si legge nella denuncia.

L’affermazione secondo cui il vaccino possedeva un’efficacia del 95% contro l’infezione sarebbe stata altamente fuorviante in quanto concernente la cosiddetta “riduzione del rischio relativo” che, secondo le pubblicazioni della FDA (Food and Drug Administration), è una statistica fuorviante che “influenza indebitamente” la scelta del consumatore. I contenuti della denuncia si concentrano poi su altri due aspetti rilevanti: il fatto che Pfizer fosse al corrente che la protezione vaccinale non poteva essere prevista con precisione oltre i due mesi e, nonostante ciò, abbia alimentato la convinzione ingannevole che la protezione vaccinale fosse duratura, e la questione fondamentale attinente alla protezione dalla trasmissione dell’infezione. Rispetto a quest’ultimo punto, la denuncia evidenzia che, nonostante il colosso farmaceutico non avesse testato l’efficacia del prodotto contro la trasmissibilità, ha intrapreso una campagna per intimidire il pubblico affinché si sottoponesse al vaccino come misura necessaria per proteggere i propri cari.

Paxton ha anche affermato che i casi di Covid 19 sono aumentati dopo la somministrazione dei vaccini e che, in Texas, alcune aree hanno registrato una percentuale maggiore di decessi per COVID-19 tra la popolazione vaccinata rispetto a quella non vaccinata. L’obiettivo della causa è impedire a Pfizer di fare presunte affermazioni false e di mettere a tacere coloro che sollevano dubbi o critiche sul vaccino sviluppato dalla società, il Comirnaty, e prevede la richiesta di più di dieci milioni di dollari di multa per aver violato una legge del Texas che protegge i consumatori dal marketing ingannevole. Da parte sua, Pfizer si è difesa affermando che le dichiarazioni sul suo vaccino sono state “accurate e basate sulla scienza” e che il suo vaccino ha “dimostrato un profilo di sicurezza favorevole in tutte le fasce d’età e ha contribuito a proteggere da gravi esiti di COVID-19, tra cui il ricovero in ospedale e la morte”.

Il procuratore repubblicano Paxton ha iniziato ad indagare su Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson all’inizio del 2023 per esaminare le “basi scientifiche ed etiche” alla base delle decisioni sulla salute pubblica riguardanti il ​​COVID-19. La causa è la seconda intentata da Paxton contro Pfizer nel mese di novembre. Il procuratore ha affermato in una nota che “Pfizer non ha detto la verità sui suoi vaccini contro il Covid-19” e ha aggiunto che “Stiamo perseguendo la giustizia per le persone del Texas, molte delle quali sono state costrette da tirannici mandati ad accettare un prodotto difettoso venduto con menzogne”. [di Giorgia Audiello]

Covid, la lettera “shock” dell’EMA sui vaccini è stata riportata decisamente male. Roberto Demaio il 27 Novembre 2023 su L’Indipendente.

In questi giorni su diversi siti e canali di informazione alternativa sta circolando una lettera dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) in cui, stando a ciò che viene scritto, sarebbero contenute rivelazioni ed ammissioni “shock” sui vaccini Covid. Il documento è una risposta ad una richiesta di spiegazioni inviata dall’eurodeputato olandese Marcel de Graaff, il quale ha esposto dubbi riguardo a efficacia, sicurezza e autorizzazioni dei farmaci utilizzati per la prevenzione del Sars-CoV-2, chiedendone poi l’immediato ritiro. In una conferenza stampa che si è tenuta il 21 novembre, un gruppo guidato dall’europarlamentare tedesco di Alternative für Deutschland, Joachim Kuhs, ha discusso il contenuto della lettera, riportando però alcune frasi decontestualizzate e associandole a considerazioni personali che non trovano riscontro con ciò che è stato effettivamente scritto nella risposta dell’Ema, o che lo trovano solo in parte. Tali considerazioni sono state poi riprese senza verifica da diversi canali e il risultato è stato quello di stravolgere il senso della missiva dell’Ente del farmaco europeo. Eppure, dopo averla letta e tradotta per bene, la lettera dell’EMA contiene dettagli interessanti che meritano attenzione.

Le dichiarazioni usate come “notizia”:

In diversi titoli e articoli di siti e giornali (anche esteri) si parla di “rivelazioni scioccanti” ed “esplosive”, di “sieri a mRNA come OGM” e di controindicazioni per under 60. Il Giornale d’Italia per esempio scrive, con tanto di virgolettato: «Vaccini Covid, la lettera choc di Ema al Parlamento europeo: “Siero non pensato per prevenire infezioni, nessuno under 60 avrebbe dovuto farlo perché non c’era rischio di morte per Covid”». Tuttavia, si tratta di principalmente di affermazioni espresse all’interno della conferenza stampa e non nella lettera di risposta dell’Ema (che può essere letta qui tradotta integralmente). Ecco le dichiarazioni più importanti che sono poi state utilizzate da diversi articoli come elemento di notizia:

Al minuto 4:18, l’eurodeputato dichiara, citando l’Ema: «Ci aspettiamo molte segnalazioni di effetti collaterali che si verificano durante o subito dopo l’infezione». Ciò che non viene riportato tuttavia, è che all’inizio della stessa frase citata da Marcel de Graaf l’Ema fa una premessa fondamentale. La frase completa riporta: «Dato che gran parte della popolazione generale ha ricevuto i vaccini, ci aspettiamo molte segnalazioni di effetti collaterali che si verificano durante o subito dopo l’infezione». L’Agenzia europea del farmaco, quindi, non sta sottintendendo che si tratta di farmaci pericolosi, ma che in una popolazione altamente vaccinata in generale è normale aspettarsi “molte” segnalazioni di effetti avversi. Nello stesso paragrafo, inoltre, l’Ema scrive: «La maggior parte degli effetti collaterali sono lievi, sebbene possano verificarsi anche quelli più gravi».

Al minuto 13:00, l’attivista Willem Engel afferma: «Per essere molto chiari, l’mRNA non è umano e fa parte degli OGM (Organismi geneticamente modificati). Inoltre, le recenti pubblicazioni sulla contaminazione del DNA plasmatico in questi fluidi delle iniezioni di mRNA dimostrano senza dubbio che si tratta di un prodotto OGM». Tali dichiarazioni non trovano alcun riscontro con la lettera dell’Ema, che a riguardo invece scrive: «È importante innanzitutto chiarire che i vaccini a mRNA non sono considerati organismi geneticamente modificati. A quanto ci risulta, il Regolamento era destinato ad altri vaccini, come i vaccini che contengono virus attenuati o vettori vivi, che possono rientrare nella definizione di OGM».

Al minuto 16:55, il consulente medico Vibeke Mannich asserisce: «Fin dall’inizio i lotti forniti sono stati i cosiddetti “lotti difettosi”. In realtà strada facendo sono cambiati, se sia stata la Pfizer a cambiare il prodotto, se siano stati i trasporti, l’amministrazione, non lo sappiamo». Nessuna di queste dichiarazioni trova riscontro nella lettera dell’Ema, che anzi smentisce anche l’articolo del British Medical Journal (MBJ) sull’integrità dei dati Pfizer citato nella lettera di de Graaff: «Hai anche citato un articolo del BMJ di Paul D Thacker su Ventavia, un’organizzazione di ricerca a contratto che ha lavorato su alcuni siti di sperimentazione clinica per Comirnaty. L’Ema, in stretta collaborazione con la Food and Drug Administration (FDA) statunitense, ha esaminato i problemi segnalati nel BMJ e ha concluso che le carenze identificate non mettono a repentaglio la qualità e l’integrità dei dati dello studio principale Comirnaty e non hanno alcun impatto sulla la valutazione rischio-beneficio».

Un’altra frase di Marcel de Graaff utilizzata è la seguente: «Poiché quasi nessuno sotto ai 60 anni ha avuto il rischio di gravi complicazioni a causa del coronavirus, nessuno, assolutamente nessuno, sotto i 60 anni, dovrebbe essere vaccinato, salvo rare eccezioni. Quindi, i palazzetti pieni per le vaccinazioni erano completamente contrari all’utilizzo per cui i vaccini erano stati autorizzati dall’Ema». Si tratta di dichiarazioni tutt’altro che impensabili, ma che trovano riscontro solo in parte con ciò che è stato effettivamente scritto nella lettera di risposta dell’Ema, la quale non fa nessun riferimento agli under 60 e scrive: «Hai infatti ragione a sottolineare che i vaccini contro il Covid-19 non sono stati autorizzati per prevenire la trasmissione da una persona all’altra. Le indicazioni riguardano esclusivamente la tutela dei soggetti vaccinati. Le informazioni sul prodotto per i vaccini contro il COVID-19 affermano chiaramente che i vaccini servono per l’immunizzazione attiva per prevenire il COVID-19. Inoltre, i rapporti di valutazione dell’EMA sull’autorizzazione dei vaccini rilevano la mancanza di dati sulla trasmissibilità». Queste dichiarazioni, più che una “notizia shock”, sono semplicemente una conferma di ciò che l’Ema scriveva già a febbraio 2021: «Attualmente non è noto se il vaccino protegga dall’infezione asintomatica, né il suo impatto sulla trasmissione virale». Che i vaccini fossero stati autorizzati a prescindere dalla capacità di prevenire l’infezione poi, è stato confermato sia dalla presidente della sezione della Pfizer Janine Small ad ottobre 2022, sia dalla Food and Drug Administration quest’anno.

L’eurodeputato parla anche del fatto che l’Ema scrive che «l’esposizione al virus aumenta la possibilità di contagi anche nei soggetti vaccinati». Dichiarazioni tutt’altro che “shock”, ma che risultano la diretta conseguenza di quanto scritto sopra: ovvero di un vaccino che, ad oggi, non risulta che protegga dall’infezione.

I dettagli della lettera significativi

All’interno della lettera, invece, ci sono altri dettagli e conferme interessanti che, nonostante non risultino comunque “nuovi” o “shock”, non hanno trovato abbastanza spazio all’interno degli articoli che hanno trattato la notizia, e che però sono stati oggetto della conferenza stampa al Parlamento europeo. Per esempio, Marcel de Graaff ha esposto dubbi sulla legittimità del consenso informato, dichiarando che «quindi potevi raccomandare una vaccinazione solo dopo che un medico aveva stabilito che era sensato nel tuo caso». L’eurodeputato poi tratta anche delle miocarditi e pericarditi e Joachim Kuhs riprende i dubbi esposti precedentemente riguardo alla legittimità e all’efficienza del consenso informato. Tali considerazioni trovano riscontro con la lettera dell’Ema, che conferma: «Si nota il rischio di miocardite e pericardite, che l’Ema ha valutato e descritto nelle informazioni sul prodotto». Tuttavia, l’Ema a riguardo omette un dato fondamentale: le miocarditi e pericarditi non erano presenti all’interno dei primi fogli illustrativi dei prodotti, ma sono state aggiunte in seguito alle segnalazioni di effetti avversi. Per quanto riguarda le difficoltà nel trattamento del consenso informato, l’Ema scrive: «Lei nota che i riassunti delle caratteristiche del prodotto per Comirnaty e Spikevax “sono così voluminosi che sono diventati di fatto illeggibili sia per i medici che per i cittadini rendendo impossibile il consenso informato”. Nota un problema simile anche con i foglietti illustrativi. Questi documenti sono infatti cresciuti di dimensioni man mano che sono stati approvati nuovi dosaggi e nuovi vaccini adattati. L’Ema sta attualmente valutando le modalità per migliorare il modo in cui le informazioni vengono presentate negli RCP e nei fogli illustrativi, non solo per i vaccini COVID-19 ma per tutti i medicinali valutati a livello centrale nell’UE». Inoltre, l’attivista Willem Engel parla dell’autorizzazione all’immissione al commercio concessa al booster XBB 1.5 anche in assenza di dati di studi clinici (questione già trattata qui da L’Indipendente). Ciò trova riscontro con la lettera dell’Ema, che scrive: «Si noti che i dati degli studi clinici non sono disponibili per i vaccini adattati mirati alla sottovariante Omicron XBB.1.5». E poi: «I dati provenienti dagli studi clinici non costituivano un requisito scientifico per i vaccini adattati Omicron XBB.1.5 a causa delle informazioni derivate dai vaccini originariamente autorizzati e adattati in precedenza».

In conclusione, le posizioni espresse durante la conferenza stampa e usate come elemento di notizia dalla maggior parte degli articoli che hanno trattato la vicenda non trovano riscontro con ciò che è stato effettivamente scritto dall’Ema. D’altra parte, invece, esistono questioni come effetti avversi, consenso informato e mancanza di dati scientifici per l’approvazione dei vaccini per le nuove varianti che sono state affrontate sia dal gruppo di de Graaff sia dalla lettera e per le quali ci si aspetta maggiori spiegazioni ed approfondimenti sia dalle istituzioni europee, che dall’Agenzia europea per i medicinali. [di Roberto Demaio]

Estratto dell’articolo di Stefano Pancini per corriere.it lunedì 11 settembre 2023.

In Italia, dal 2017, ben prima che il Covid mostrasse al mondo di cosa è capace un virus che dilaga, sono obbligatorie per tutti i nuovi nati dieci vaccinazioni: anti-poliomielitica, anti-difterica, anti-tetanica, anti-epatite B, anti-pertosse, anti-Haemophilus influenzae B, anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite e anti-varicella. 

La mancata somministrazione dei vaccini obbligatori preclude l’iscrizione agli asili nido e alle scuole materne. Per il mancato rispetto dell’obbligo da parte di bambini e ragazzi più grandi, invece, è prevista una multa fino a 500 euro ma, ovviamente, sono esonerati dall’obbligo i bambini già immunizzati a seguito di malattia naturale, e quelli che presentano specifiche condizioni cliniche che rappresentano una controindicazione permanente o temporanea alle vaccinazioni.

Due genitori a Rovereto, nel 2019, si rifiutano di sottoporre loro figlio, nato l’anno precedente, al ciclo vaccinale obbligatorio. L’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (Apss) fu così costretta a sanzionarli. Dopo quattro anni, avendo i genitori impugnato l’ingiunzione di pagamento, si sono visti annullare dal Giudice di Pace la sanzione perché non adeguatamente informati.

L’Apss aveva indicato nel verbale di contestazione che la coppia genitoriale, dopo aver parlato con i medici, non aveva concesso il nulla osta a procedere con le vaccinazioni e che si sarebbero riservati in "motu proprio" di effettuare ulteriori esami. 

Di tutta risposta, questa madre e questo padre hanno contestato all’Apss di non aver ricevuto informazioni esaurienti e, inoltre, hanno allegato un documento rilasciato da un’altra azienda sanitaria dove viene specificato che il quadro clinico di questo bambino rientra in quelli previsti per posticipare le vaccinazioni.

Da qui, carte alla mano e sentite le due parti, il Giudice di Pace ha accolto la tesi dei due genitori, che li ha descritti come non sufficiente informati e che i loro dubbi, benché infondati, non sono il nocciolo della questione. […]

Corte d’appello USA: Biden ha violato la libertà d’espressione sul Covid. Valeria Casolaro su L'Indipendente lunedì 11 settembre 2023.

L’amministrazione Biden potrebbe aver violato il Primo Emendamento della Costituzione americana, inerente la libertà di espressione, durante il periodo Covid. In particolare, il governo avrebbe influenzato impropriamente le decisioni di tutte le principali piattaforme social riguardo la pubblicazione o la soppressione di post inerenti la pandemia da Covid-19, ma anche le elezioni del Congresso svoltesi nel 2022. A sancirlo è una sentenza emanata lo scorso venerdì dalla Corte d’Appello degli Stati Uniti per il 5° Circuito nell’ambito del processo Missouri vs. Biden.

Secondo la sentenza, che porta la firma dei giudici repubblicani Clement, Elrod e Willet, “negli ultimi anni – almeno dalle elezioni presidenziali del 2020 – un gruppo di ufficiali federali è stato regolarmente in contatto con quasi tutte le maggiori compagnie di social media americane in merito al diffondersi della ‘disinformazione’ sulle loro piattaforme”. Tali compagnie avrebbero dato agli ufficiali accesso ad un “sistema di segnalazione accelerato”, oltre ad aver “declassato o rimosso i post segnalati” e “rimosso utenti”. Le piattaforme social avrebbero anche “cambiato le loro politiche interne per individuare più contenuti segnalati e inviato costantemente rapporti sulle loro attività di moderazione agli ufficiali”. Una manipolazione a tutti gli effetti dell’informazione in merito ad argomenti scomodi, primo fra tutti la pandemia da Covid, architettata e messa in atto per intero dal governo. Tutto questo sarebbe avvenuto non solo “durante la pandemia da Covid-19” e “le elezioni congressuali del 2022”, ma sarebbe tuttora ancora in corso.

L’atteggiamento del governo nei confronti delle piattaforme avrebbe assunto i toni di una vera e propria coercizione, in quanto la Casa Bianca avrebbe “costretto le piattaforme a prendere le loro decisioni di moderazione attraverso messaggi intimidatori e minacce di conseguenze avverse e incoraggiando significativamente le decisioni delle piattaforme prendendo il comando del loro processo decisionale, in violazione del Primo Emendamento”. Nel mirino del governo sarebbero finite tutte le principali piattaforme social, comprese Facebook, Twitter (ora X), YouTube e Google. Tra i pochi interventi ritenuti leciti dalla Corte vi è quello del medico Anthony Fauci, ex consigliere del presidente coinvolto nella causa, il quale non avrebbe cercato di manipolare l’informazione dei social media e non si sarebbe dunque posto “in contrasto con il Primo Emendamento”.

A dimostrazione di quanto dichiarato vi sarebbero i documenti resi pubblici lo scorso 6 gennaio. Dalle carte sarebbe emerso, in particolare, il ruolo del direttore dei media digitali della Casa Bianca, Ron Flaherty. Proprio lui, in una mail inviata ad un dirigente di Facebook il 14 marzo 2021, suggeriva come il social partecipasse alla «diffusione di idee che contribuiscono all’esitazione vaccinale». A fronte dell’esitazione del dirigente della piattaforma (il nome non è stato reso noto), Flaherty aveva preteso un cambio delle politiche di moderazione, sottolineando come «Siamo seriamente preoccupati dal fatto che il vostro servizio sia uno dei principali motivi che spingono all’esitazione vaccinale, punto… Vogliamo sapere che ci state lavorando, vogliamo sapere come possiamo aiutarvi e vogliamo sapere che non state facendo il gioco delle tre carte…». A fronte delle pressioni, tanto Facebook quanto tutti gli altri social coinvolti avrebbero ceduto alle richieste governative.

Secondo il Washington Post, la sentenza avrà un forte impatto sulle elezioni del 2024, influenzando tanto le strategie comunicative del governo quanto le decisioni dei social media e, non da ultimo, degli elettori. Il caso, ad ogni modo, rappresenta il più riuscito tra gli sforzi legali dei conservatori di dimostrare (e limitare) l’ingerenza dell’amministrazione Biden nelle attività dei social media e dei mezzi di informazione. [di Valeria Casolaro]

Efficacia.

Covid: un nuovo vaccino Pfizer è stato approvato in Europa, ma mancano i dati. L'Indipendente giovedì 31 agosto 2023.

L’Ente del Farmaco europeo (EMA) ha approvato il nuovo Comirnaty, il vaccino Covid prodotto da Pfizer-BioNTech e mirato alla sottovariante Omicron XBB.1.5. L’approvazione è stata raccomandata per tutti gli adulti e per i bambini al di sopra dei sei mesi di età. Nello scarno comunicato rilasciato, l’EMA assicura che “nella decisione di raccomandare l’autorizzazione, il CHMP (Comitato per i medicinali a uso umano, ndr) ha considerato tutti i dati disponibili su Comirnaty e sugli altri vaccini adattati, compresi i dati su sicurezza, efficacia e immunogenicità”. Quali sono questi dati? Per quanto riguarda l’efficacia contro la variante attualmente dominante (la XBB.1.5), EMA si limita a ipotizzare che siccome essa “è strettamente correlata ad altre varianti attualmente in circolazione, si prevede che il vaccino contribuisca a mantenere una protezione ottimale“. Per quanto riguarda invece i profili di sicurezza non si è ritenuto di dover raccogliere nuove informazioni in quanto “i vaccini adattati funzionano allo stesso modo dei vaccini originali” e “le autorità hanno acquisito una conoscenza approfondita sulla sicurezza del vaccino”.

Anche cercando le informazioni sui trials clinici condotti sul nuovo vaccino e i risultati ottenuti direttamente sul portale dell’azienda produttrice non si ottiene molto di più. Pfizer, all’interno del comunicato che celebra l’approvazione da parte dell’Ente europeo, si limita ad affermare che “la raccomandazione del CHMP si basa sull’intero corpus di precedenti prove cliniche, non cliniche e reali a sostegno della sicurezza e dell’efficacia dei vaccini COVID-19 di Pfizer e BioNTech”. Specificando inoltre, che la domanda “includeva dati preclinici che dimostrano che il vaccino monovalente COVID-19 adattato da Omicron XBB.1.5 genera una risposta sostanzialmente migliore contro più sottoceppi XBB, tra cui XBB.1.5, XBB.1.16 e XBB.2.3, rispetto al vaccino bivalente anti-COVID-19 adattato da Omicron BA.4/BA.5″ e che “ulteriori dati preclinici dimostrano che gli anticorpi indotti dal vaccino COVID-19 aggiornato, se confrontati con il vaccino COVID-19 bivalente adattato da Omicron BA.4/BA.5, neutralizzano efficacemente anche la variante dominante a livello globale e recentemente designata dall’OMS di interesse EG.5.1″. Quanto sia “sostanzialmente migliore” la risposta e quanto sia “efficace” la neutralizzazione della variante non è dato saperlo. Dopo ampia ricerca non ci risulta che i risultati stessi siano stati pubblicati. Per ulteriore verifica L’Indipendente ha inviato una richiesta formale a Pfizer, al momento senza ottenere risposta.

Il comunicato rilasciato dalla multinazionale americana pare molto più interessato a rassicurare gli azionisti, dopo che i risultati del secondo trimestre 2023 avevano evidenziato una flessione del 77% dei profitti, con utili registrati di “soli” 2,3 miliardi di dollari, contro i quasi 10 miliardi del 2022. Un crollo che la stessa Pfizer aveva motivato con la possibilità che “il Covid-19 si attenuerà nella sua gravità e diffusione oppure sparisca del tutto”. Il comunicato rilasciato dopo l’approvazione del nuovo vaccino si concentra quindi nel rassicurare gli investitori sul fatto che le vendite dei vaccini non sono finite ed, anzi, si confida sul fatto che quello approvato non sia l’ultimo aggiornamento da sviluppare e distribuire: “si prevede che il COVID-19 adotti un modello stagionale, simile ad altri virus respiratori, restiamo impegnati a fornire alle persone di tutto il mondo vaccini COVID-19 che si adattino meglio alle varianti o ai sottolignaggi circolanti rilevanti, per supportare le vaccinazioni nel prossimo autunno e nella stagione invernale”, riporta il comunicato.

L’unico studio citato nel comunicato è quello pubblicato su Nature a marzo scorso (e quindi impossibilitato a valutare l’efficacia del nuovo booster sulle varianti attualmente dominanti) nel quale gli autori dichiarano che “i vaccini modificati con varianti hanno prodotto in media titoli 1,61 volte più alti rispetto al vaccino equivalente di origine ancestrale (ovvero il primo booster realizzato sulla variante Omicron). I ricercatori affermano di nutrire “un elevato grado di fiducia” sul fatto che i nuovi booster garantiscano “un livello più elevato di protezione della popolazione”, ma prudentemente evidenziano il fatto che il loro studio “si basa sulla previsione dell’efficacia del vaccino dai titoli di neutralizzazione” e non può “sostituire gli studi clinici sull’efficacia del vaccino”.

La sola ricerca di cui si abbia notizia volta a indagare l’efficacia del nuovo vaccino su una delle varianti attualmente in circolazione (la EG.5, ribattezzata “Eris”) è stato effettuato dalla stessa Pfizer non su umani, ma solo su topi. Ancora una volta i risultati non risultano pubblicati per il pubblico dominio, e a disposizione si ha solo un comunicato stampa, riportato dall’agenzia Reuters, in cui l’azienda assicura che i risultati del test “hanno mostrato attività neutralizzante contro la sottovariante”.

Ad ogni modo, l’Ente del farmaco europeo ha approvato il nuovo bivalente Pfizer, questa volta addirittura in anticipo rispetto al suo omologo statunitense, il CDC, che si riunirà il prossimo 12 settembre per decidere se approvare il nuovo booster aggiornato.

L’Indipendente ha contattato anche l’ufficio stampa di EMA per chiedere maggiori dettagli su quali sono gli studi clinici valutati per approvare l’efficacia del vaccino Pfizer, per sapere se tra questi esistono anche trial effettuati sull’uomo e non solo su cavie animali, nonché per richiedere dettagli maggiormente precisi sui risultati degli studi rispetto a quelli riportati nel comunicato stampa. Al momento non abbiano ricevuto risposta, nel momento in cui questa dovesse arrivare non mancheremo di aggiornare i lettori. [La redazione] 

Nel Regno Unito si sviluppano vaccini per una malattia che ancora non esiste. Roberto Demaio su L'Indipendente venerdì 11 agosto 2023. 

Gli scienziati inglesi hanno iniziato a sviluppare vaccini contro la prossima pandemia causata dalla “Malattia X”. La scelta della stessa lettera usata spesso in matematica per le incognite non è casuale: i vaccini serviranno a contrastare un patogeno che è ancora sconosciuto. La storia della Malattia X risale al 2018, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la inseriva in una lista di malattie prioritarie, classificandola come  “agente patogeno attualmente sconosciuto” potenzialmente in grado di causare una “grave epidemia internazionale”. Passata la questione Covid-19 le autorità del Regno Unito sono quindi tornate a concentrarsi sulla ipotetica Malattia X, allo scopo di studiare vaccini in grado di fare fronte alla sua diffusione.

Nel maggio del 2015 i paesi membri chiesero all’Organizzazione Mondiale della Sanità di creare un “Piano di azione di ricerca e sviluppo per prevenire le epidemie”. Lo scopo era quello di dedicarsi alle malattie infettive emergenti più gravi e sviluppare strategie per contrastarle. La storia della Malattia X inizia ufficialmente a febbraio 2018, quando l’OMS ha stilato la lista di malattie prioritarie che avrebbero potuto causare una pandemia. Gli autori della lista fanno parte del progetto (sempre dell’OMS) chiamato R&D Blueprint Scientific Advisory Group, un gruppo di esperti globali impegnati in strategie di coordinamento, assegnazione delle priorità delle malattie e disegni di sperimentazione clinica. Tra varie sindromi febbrili, il virus ebola e le malattie enipavirali, compare il patogeno denominato “Malattia X”, definito come “la consapevolezza che una grave epidemia internazionale potrebbe essere causata da un agente patogeno attualmente sconosciuto per causare malattie umane”. Con l’arrivo dell’emergenza Covid-19, numerosi esperti hanno sostenuto che il Sars-CoV-2 fosse effettivamente la malattia incognita che si stava cercando: il virologo cinese Shi Zhengli, dell’Istituto di virologia di Wuhan, ha scritto a febbraio 2020 che “la prima malattia X è causata da un coronavirus altamente trasmissibile”. Nello stesso periodo Marion Koopmans e Peter Daszak, due membri del R&D Blueprint dell’OMS hanno scritto che il focolaio di Sars-CoV-2 era il primo virus che rientrava nella definizione di Malattia X.

Tuttavia, con la fine dell’emergenza Covid-19 dichiarata il 5 maggio 2023 sembra che lo spazio dedicato alla Malattia X si sia nuovamente liberato e perciò gli scienziati inglesi stanno già pensando a quale potrebbe essere il patogeno responsabile della prossima pandemia. Nel complesso di laboratori ad alta sicurezza del governo di Porton Down nel Wiltshire, una contea nel sud-ovest dell’Inghilterra, un gruppo di oltre 200 scienziati ha stilato un elenco di minacce di virus animali che potrebbero diffondersi rapidamente in tutto il mondo infettando anche l’uomo. Quale tra questi scatenerà una pandemia e se l’ipotetico virus fa parte o meno di questo elenco non si sa: da qui il nome di Malattia X. I virus attivi saranno tenuti in loco in strutture di contenimento specializzate in cui avverrà la valutazione del rischio e la ricerca sullo sviluppo di test e vaccini. La professoressa Dame Jenny Harries, capo dell’Agenzia per la sicurezza sanitaria del Regno Unito (UKHSA), ha dichiarato: «Quello che stiamo cercando di fare qui è assicurarci di prepararci in modo che se arriverà una nuova Malattia X, un nuovo agente patogeno, noi avremo svolto quanto più lavoro possibile in anticipo. Speriamo di poterla prevenire [una pandemia]. Ma se non possiamo e dobbiamo rispondere, allora abbiamo già iniziato a sviluppare vaccini e terapie per risolverla». Il governo inglese ha affermato che il centro è impegnato nella “missione dei 100 giorni”: un obiettivo globale fissato dal G7 nel 2021 che mira a distribuire un vaccino contro qualsiasi nuova minaccia pandemica entro 100 giorni dall’identificazione”.

Tra i primi prodotti del centro di ricerca ci sarebbe il primo vaccino al mondo contro la febbre emorragica di Crimea-Congo, una malattia con un tasso di mortalità del 30% che si diffonde dalle zecche. Gli studi clinici sono appena iniziati e 24 persone riceveranno volontariamente il vaccino. La professoressa Harries ha aggiunto che tra i fattori che aumenterebbero le probabilità di una prossima pandemia ci sarebbero i cambiamenti climatici: «Quello che stiamo vedendo è un aumento del rischio a livello globale. In parte è dovuto anche all’urbanizzazione in cui è possibile che il virus salti negli esseri umani, come abbiamo visto con l’influenza aviaria. E in parte è dovuto al cambiamento climatico in cui zecche e zanzare si spostano dove prima faceva freddo e ora sta diventando sempre più caldo». [di Roberto Demaio]

(ANSA il 20 aprile 2023) - La percezione pubblica dell'importanza dei vaccini per i bambini è diminuita durante la pandemia da covid in 52 sui 55 paesi presi in esame e in alcuni fino a 44 punti percentuali. Lo rivela il rapporto dell'Unicef "La condizione dell'infanzia nel mondo 2023: per ogni bambino, vaccinazioni". 

La percezione dell'importanza dei vaccini per i bambini è diminuita di oltre un terzo nella Repubblica di Corea, Papua Nuova Guinea, Ghana, Senegal e Giappone dall'inizio della pandemia. In Italia, c'è stato un calo di 6,8 punti percentuali nella fiducia nei vaccini, dal 92,1% all'85,5%. fra le persone sotto i 35 anni il calo è stato maggiore (7,5 punti percentuali) rispetto a quelle sopra i 65 anni (4,6). fra le donne (8,6 punti in meno) maggiore che fra gli uomini (4,7 punti in meno).

Secondo i nuovi dati, raccolti dal Vaccine Confidence Project e pubblicati oggi dall'Unicef, Cina, India e Messico sono gli unici Paesi studiati in cui i dati indicano una percezione dell'importanza dei vaccini rimasta inalterata o addirittura migliorata. "Nella maggior parte dei paesi, le persone sotto i 35 anni e le donne hanno maggiori probabilità di segnalare meno fiducia nei vaccini per i bambini dopo l'inizio della pandemia".

Nonostante la flessione, il sostegno complessivo ai vaccini - sottolinea Unicef - rimane relativamente forte. in quasi la metà dei 55 paesi studiati, più dell'80% degli intervistati ritiene che i vaccini siano importanti per i bambini. Tuttavia, il rapporto avverte che la confluenza di diversi fattori suggerisce che la paura dell'esitazione nei confronti del vaccino potrebbe essere in aumento.

"All'apice della pandemia, gli scienziati hanno sviluppato rapidamente vaccini che hanno salvato innumerevoli vite. ma nonostante questo risultato storico, la paura e la disinformazione su tutti i tipi di vaccini sono circolate tanto quanto il virus stesso.- ha commentato Catherine Russell, direttore generale dell'Unicef - questi dati sono un preoccupante campanello d'allarme". 

Il rapporto sottolinea che tra il 2019 e il 2021 un totale di 67 milioni di bambini non hanno ricevuto le vaccinazioni, con livelli di copertura vaccinale in calo in 112 paesi. I bambini nati appena prima o durante la pandemia stanno superando l'età in cui normalmente verrebbero vaccinati.

Nel 2022, ad esempio, il numero di casi di morbillo è più che raddoppiato rispetto all'anno precedente e il numero di bambini paralizzati dalla polio è aumentato del 16% rispetto all'anno precedente. Confrontando il periodo 2019-2021 con il triennio precedente, si è registrato un aumento di otto volte del numero di bambini paralizzati dalla polio, evidenziando la necessità di garantire il mantenimento degli sforzi di vaccinazione.

Risulta quindi che circa 1 bambino su 5 non ha alcuna protezione contro il morbillo e circa 7 ragazze su 8 non sono vaccinate contro il papillomavirus umano che può causare il cancro al collo dell'utero. "Le risorse ancora disponibili dalla campagna di vaccinazione contro il covid-19, è il momento di reindirizzarle - conclude Russell - per rafforzare i servizi di vaccinazione e investire in sistemi sostenibili per ogni bambino".

Meno efficaci con l’inquinamento”. L’ultimo studio choc sui vaccini. I vaccini sarebbero meno efficaci con l’inquinamento atmosferico, influenzando così le immunoglobuline. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 9 Aprile 2023

Covid, studio: “Vaccini meno efficaci con inquinamento”, questo il titolo di un articolo pubblicato sulla pagina “Salute e Benessere” del sito di Skytg24. Nel pezzo, viene spiegato che livelli più elevati di inquinamento atmosferico sembrano correlati a una risposta anticorpale inferiore in caso di vaccinazione anti-Covid.  

Tutto ciò emergerebbe da uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Health Perspectives, condotto dagli scienziati del Barcelona Institute for Global Health (ISGlobal) e dell’Istituto di ricerca tedesco Trias i Pujol (IGTP). Il team, in particolare, ha valutato come il particolato fine (PM2,5), il biossido di azoto (NO2) e il Blank Carbon (BC) possano influenzare le immunoglobuline e le risposte anticorpali al vaccino. 

Al che, dopo oltre tre anni che ci sciroppiamo a dosi massicce il terrore virale a mezzo stampa, essendo oramai acclarato che le persone immunocompetenti potevano tranquillamente evitare questi controversi vaccini sperimentali, mi è venuto spontaneo canticchiare un ritornello de “La società dei magnaccioni”, celebre canzone popolare romana: “Ma che ce frega ma che ce ‘mporta

Nel senso, per meglio comprendere il mio punto di vista, che, come nel caso della ridicolaggine dei cani da Covid, eseguire una indagine lunga e approfondita, la quale ha coinvolto per quasi un anno un campione di circa mille persone dai 40 ai 65 anni, rappresenta veramente un gioco che non vale la candela. Se infatti consideriamo che solo una ristretta fascia di persone fragili – che immagino siano generalmente meno esposte agli elementi inquinanti – correva seri rischi contraendo il Sars-Cov-2, il fatto che si stimi una diminuzione del 10% nell’efficacia del vaccino anti-Covid per chi, la vasta platea delle persone in buona salute, si muove in totale autonomia in un ambiente relativamente inquinato non sposta di una virgola la totale inutilità di un siffatto, per così dire, studio scientifico. 

In altri termini, sarebbe come dire che l’infinitesimale rischio di ammalarsi gravemente di Covid per un soggetto che vive in una grande metropoli industrializzata aumenterebbe di un decimillesimo rispetto a quello che correrebbe un suo coetaneo di una cittadina rurale. D’altro canto, in questi tempi di un impazzimento collettivo che procede ondate, il montante gretinismo ambientale prima o poi doveva in qualche modo saldarsi con la mitologia del Covid-19. In fondo si tratta di due pseudo- religioni che hanno molto in comune.

Claudio Romiti, 9 aprile 2023

Obblighi.

La Corte Costituzionale ha ribadito la legittimità dell’obbligo vaccinale contro il Covid. Stefano Baudino su L'Indipendente giovedì 12 ottobre 2023.

La Corte Costituzionale ha nuovamente ribadito la legittimità dell’obbligo vaccinale anti-Covid per il personale sanitario, introdotto temporaneamente dall’Esecutivo guidato da Mario Draghi. I giudici hanno infatti respinto il ricorso di una dipendente dell’Asst degli Ospedali Civici di Brescia, che all’inizio del 2022, dopo circa tre mesi di smart-working, era stata sospesa dal servizio per non aver adempiuto all’obbligo. La ricorrente si era rivolta al giudice del lavoro deducendo l’illegittimità dell’obbligo vaccinale, chiedendo di essere riammessa in servizio, di percepire la retribuzione perduta e di vedersi versati i contributi previdenziali dalla data della sospensione sino alla riammissione in servizio. Il caso è arrivato fino alla Corte Costituzionale, che non le ha dato ragione.

La Corte ha evidenziato come sia già stato “chiarito che l’obbligo di vaccinazione e la correlata sospensione per inadempimento allo stesso devono ritenersi misure non irragionevoli e non sproporzionate”, sia in considerazione del “non irragionevole bilanciamento operato dal legislatore tra la dimensione individuale e quella collettiva del diritto alla salute, alla luce della situazione sanitaria dell’epoca e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili” che della “proporzionalità della misura imposta in ragione della sua strutturale temporaneità”. Per quanto riguarda lo smart working, la Consulta ha ricordato come tale strumento non costituisca “un diritto del lavoratore”, assumendo “carattere variabile nel tempo” e “potendo essere oggetto di revoca o di modifiche”, nonché “atteggiarsi, nelle singole ipotesi applicative, in maniera estremamente diversificata”. Questa opzione, infatti, rappresentava in prima battuta “una risposta all’emergenza pandemica portatrice di una serie di vantaggi, in considerazione della situazione sanitaria in atto, per affrontare la quale era indispensabile assicurare una tempestiva e uniforme attuazione dell’obbligo vaccinale”. Inoltre, ha concluso la Corte, “una diversa soluzione non ugualmente improntata alla semplificazione pur astrattamente possibile come nell’originaria fase della pandemia” non avrebbe permesso “di affidare l’attività di accertamento e monitoraggio direttamente ai datori di lavoro, individuati dal comma 2 del censurato art. 4-ter, per l’ipotesi in esame, nei responsabili delle strutture in cui presta servizio il personale”.

La legittimità dell’obbligo della vaccinazione anti-Covid per il personale sanitario, insieme alle relative sanzioni, era già stata confermata dalla Consulta lo scorso dicembre, quando i giudici avevano emesso alcune sentenze in risposta ai ricorsi presentati da diversi tribunali amministrativi regionali. Nelle motivazioni, uscite due mesi dopo, la Corte aveva ritenuto tali norme legittime e necessarie per proteggere il “bene supremo” della salute collettiva basandosi sull’assunto – oggi ampiamente smentito – che il vaccino fosse funzionale a impedire o a rallentare il contagio. [di Stefano Baudino]

Obbligo vaccinale Covid: la Corte Costituzionale pubblica le motivazioni delle sentenze. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 10 Febbraio 2023.

Hanno suscitato non poco scalpore le motivazioni recentemente pubblicate con cui la Corte costituzionale ha giustificato le tre sentenze emesse lo scorso primo dicembre con le quali ha confermato la legittimità dell’obbligo della vaccinazione Covid per il personale sanitario e delle relative sanzioni. La Consulta ha ritenuto le disposizioni legittime e necessarie per proteggere il “bene supremo” della salute pubblica basandosi sull’assunto – ormai ampiamente confutato – che l’inoculazione serva ad impedire o rallentare il contagio: in realtà è noto da tempo che i sieri a mRna non impediscano la trasmissione del virus, bensì che evitino – eventualmente – l’aggravarsi della malattia. Le sentenze sono state emesse tutte come risposta ai ricorsi presentati da diversi tribunali amministrativi regionali che avevano presentato questioni di legittimità costituzionale.

Nel dettaglio, la prima sentenza ha rigettato il ricorso del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana che aveva a sua volta sollevato questioni di legittimità costituzionale circa l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 per il personale sanitario, da un lato, e la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie per inadempimento dello stesso, dall’altro. La Corte ha rigettato tutte le questioni di legittimità sollevate ritenendo che «la scelta assunta dal legislatore al fine di prevenire la diffusione del virus, limitandone la circolazione, non possa ritenersi irragionevole né sproporzionata, alla luce della situazione epidemiologica e delle risultanze scientifiche disponibili». Come accennato, tuttavia, era noto fin da subito che i sieri non fossero in grado di «prevenire la diffusione del virus» e diversi studi in merito erano già usciti nel 2021, tanto che la raccomandazione era quella di continuare ad usare i dispositivi di protezione individuale. In uno studio pubblicato su The Lancet, infatti, si legge che «La vaccinazione non elimina completamente il rischio di infezione e pertanto i dispositivi di protezione individuale e i test diagnostici si dovranno continuare a utilizzare fino a quando la prevalenza del virus SarsCoV2 non sarà così bassa da ridurre il rischio di trasmissione». Sempre su The Lancet, inoltre, nel 2022 era apparso un articolo dal titolo “Trasmissibilità di Sars-CoV-2 tra individui completamente vaccinati” in cui si riportava che l’impatto della vaccinazione sulla trasmissione del Sars-CoV-2 e delle sue varianti non sembrava essere significativamente diverso da quello tra persone non vaccinate. Lo studio, quindi, suggeriva esplicitamente che «si possono riconsiderare le attuali politiche di vaccinazione obbligatoria».

La seconda sentenza, invece, risponde alle questioni di legittimità sollevate dai Tribunali ordinari di Brescia, di Catania e di Padova e ha stabilito che la previsione per i lavoratori sociosanitari dell’obbligo vaccinale piuttosto che quello di sottoporsi a quotidiani test diagnostici non ha costituito una soluzione irragionevole o sproporzionata rispetto ai dati scientifici disponibili. Per la Corte, infatti, «il sacrificio imposto agli operatori sanitari non ha ecceduto quanto indispensabile per il raggiungimento degli scopi pubblici di riduzione della circolazione del virus, ed è stato costantemente modulato in base all’andamento della situazione sanitaria, peraltro rivelandosi idoneo a questi stessi fini». La Consulta ha anche sottolineato come «la mancata osservanza dell’obbligo vaccinale ha riversato i suoi effetti sul piano degli obblighi e dei diritti nascenti dal contratto di lavoro, determinando la temporanea impossibilità per il dipendente di svolgere mansioni implicanti contatti interpersonali o che comportassero, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio». Secondo i giudici costituzionali, l’inoculazione avrebbe permesso la tutela della salute del personale sanitario e dei pazienti, evitando «l’interruzione di servizi essenziali per la collettività». Anche in questo caso, però, i fatti contraddicono la versione della consulta, in quanto gli ospedali hanno registrato una carenza diffusa di personale medico non solo per via della sospensione dei sanitari non vaccinati – che erano comunque una minoranza del totale – ma anche a causa dell’assenza di personale positivo al virus, a riprova del fatto che la vaccinazione non ha impedito la diffusione del contagio anche nei reparti. A mero titolo d’esempio, alcuni giornali nel gennaio 2022 titolavano «Covid, ospedali in ginocchio: assenti 40.000 operatori sanitari tra positivi e no vax». In particolare, Il Mattino scriveva che «Almeno 12.000 tra medici e infermieri sono positivi: per almeno una settimana non possono lavorare. Detta in altri termini: ogni giorno 1.800 operatori sanitari scoprono di essere infetti e devono lasciare il reparto».

La terza sentenza risponde, infine, alle questioni di legittimità poste dal TAR Lombardia circa il caso di una psicologa sospesa dall’ordine perché priva del requisito di vaccinazione, nonostante svolgesse l’attività unicamente da remoto e fosse assente quindi qualunque rischio di diffondere il contagio. I giudici amministrativi hanno ritenuto la sospensione in contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, non comportando l’attività alcun rischio di diffusione del COVID-19, in quanto svolta da remoto, mediante l’utilizzo di strumenti telematici e telefonici. Tuttavia, le questioni poste sono state dichiarate inammissibili dalla Consulta per via di una motivazione puramente formale riguardante un preliminare profilo processuale, che ha escluso una valutazione nel merito delle stesse: il difetto di giurisdizione del tribunale amministrativo regionale che le ha sollevate. Le toghe, dunque, si sarebbero nascoste dietro motivi puramente formali che hanno impedito di entrare nel merito della questione. Da notare anche come sia le sentenze che le relative motivazioni potrebbero essere non prive di parzialità politica, in quanto i redattori delle stesse – Filippo Patroni Griffi e Stefano Petitti – risultano avere legami politici e posizioni arbitrariamente orientate alla vaccinazione: il primo, infatti, è stato membro dei governi Monti e Letta, mentre il secondo è autore di un podcast sulla disciplina dell’obbligo vaccinale.

Le motivazioni e le scelte della Consulta, dunque, potrebbero essere state suggerite non tanto da ricerche scientifiche, dai dati e dai fatti – che spesso contraddicono le ragioni dei giudici costituzionali – quanto piuttosto da una linea “pro-governativa” influenzata da posizioni politiche e componenti ideologiche che esaltano la “scienza” e sopprimono qualunque diritto in nome del bene supremo della “salute”. [di Giorgia Audiello]

Sprechi.

L’UE ha comprato 325 milioni di vaccini che non esistono contro pandemie ipotetiche. Stefano Baudino su L'Indipendente martedì 4 luglio 2023.

Dopo aver firmato in totale mancanza di trasparenza contratti monstre che hanno prodotto la consegna di milioni di dosi in eccesso rispetto all’effettivo fabbisogno, dopo aver pattuito clausole segrete con il CEO del colosso Pfizer Albert Bourla e aver “perso” gli sms da questi scambiati con la Presidente Ursula von der Leyen, la Commissione europea ha deciso di acquistare centinaia di milioni di dosi di vaccino ancora inesistenti da quattro case farmaceutiche per prepararsi a potenziali pandemie future. Con un ovvio e ingente esborso per le casse dell’Unione Europea.

L’Agenzia esecutiva europea per la salute e il digitale (HaDEA) ha infatti appena sottoscritto un accordo con quattro contraenti – il “solito” colosso statunitense Pfizer, i produttori di vaccini spagnoli HIPRA e CZ vaccines e la società olandese Bilthoven Biologicals -, assicurandosi in via preventiva vaccini per fronteggiare ipotetiche “future pandemie”. Si parla di vaccini con tecnologia a mRna, come quelli per il Covid, ma anche a vettore virale e a base di proteine. L’Ue riserva così l’acquisto di ben 325 milioni di dosi di vaccini, con un costo stimato in 160 milioni di euro l’anno. “Nel caso in cui ci fosse un’altra pandemia nel futuro prossimo”, si legge nel comunicato della stessa HaDEA, le dosi saranno prodotte in Belgio, Irlanda, Paesi Bassi e Spagna. Insomma, queste aziende saranno chiamate a farsi trovare pronte in vista delle pandemie che potrebbero avere luogo nell’immediato futuro, ma percepiranno grosse quantità di denaro anche se tale scenario sarà scongiurato.

L’Ue si garantisce in due tempi. Nel corso della “fase di preparazione“, i produttori farmaceutici – che istituiscono la rete Fab dell’Ue “per capacità di produzione sufficienti e agili” per diversi tipi di vaccini, – “si riservano la capacità produttiva necessaria” e “assicurano la loro costante prontezza a rispondere a una crisi mantenendo aggiornate le loro strutture, assicurando che il personale sia formato e monitorando le loro catene di approvvigionamento, compreso lo stoccaggio ove necessario”. Nel comunicato diramato da Bruxelles si fa poi riferimento all’altro asset del contratto, ovvero la “fase di crisi“: nel caso in cui venga riconosciuto che “un’emergenza sanitaria pubblica” è in corso, la Commissione europea stabilisce di comprare vaccini dalle aziende della rete Fab. Gli impianti, quindi, “avvieranno rapidamente la produzione e consegneranno i vaccini secondo le scadenze fissate nei contratti di acquisto”.

L’onnipresente Pfizer, il colosso statunitense di Big Pharma, è di recente finita in uno scandalo per la vicenda inerente gli sms tra il suo CEO Albert Bourla e Ursula von der Leyen, che nel 2021 avrebbero pattuito in segreto intese per decine di miliardi di euro per l’acquisto di cospicue quantità di dosi di vaccino. I messaggi non sono però mai stati resi pubblici: per questo, il quotidiano statunitense New York Times ha citato in giudizio la Commissione europea, che ha sostenuto di averli “persi”. Nel pieno della pandemia, la Commissione aveva stretto un impegno con Pfizer, prevedendo la fornitura di 1,1 miliardi di dosi. Sulla base dei patti, l’Ue dovrebbe dunque continuare ad acquistare il prodotto, nonostante lo scorso maggio l’OMS abbia dichiarato la fine della pandemia: di recente, la Commissione europea e gli sviluppatori di vaccini BioNTech-Pfizer hanno raggiunto un accordo per la modifica del contratto di fornitura, prevedendo una riduzione della quantità di dosi acquistate dagli Stati membri in base al contratto e un’estensione della fase (4 anni da oggi) entro cui i Paesi potranno prendere in consegna i vaccini.

Sempre nel 2021, molto avevano fatto discutere le modalità di accesso al contratto confidenziale di fornitura dei vaccini, concluso tra la Commissione europea e l’azienda tedesca CureVac, concesse ai deputati del Parlamento Europeo, i quali avevano infatti avuto soltanto 50 minuti a disposizione per leggere decine e decine di pagine. L’eurodeputato belga Marc Botenga, del gruppo La Sinistra, aveva raccontato di aver dovuto «lasciare fuori smartphone e computer prima di entrare nella stanza» dove aveva letto il contratto e «prendere appunti a mano» dopo aver firmato «una dichiarazione di riservatezza». [di Stefano Baudino]

Nuovo contratto segreto tra Pfizer e Ue: continueremo a pagare dosi in eccesso. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 30 Maggio 2023.

Recentemente, la Commissione europea ha siglato un altro contratto segretato con la casa farmaceutica Pfizer/Biontech per rimediare al contratto capestro – sempre segretato – firmato con l’AD del colosso farmaceutico, Albert Bourla, nel 2021 che era già balzato agli onori della cronaca, suscitando aspre polemiche per via della negoziazione diretta, tramite sms, tra la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e lo stesso Bourla. Il contratto in questione prevedeva la consegna, entro quest’anno, di 450 milioni di dosi che ormai non servono più, perché il virus è nel frattempo mutato indebolendosi notevolmente tanto da poter essere accomunato a una normale influenza. Per questo, la Commissione ha deciso di stipulare un altro contratto che prevede la diluizione nel tempo, fino al 2026, della consegna delle dosi in eccesso, facendo in modo che una parte di esse sia pagata la metà, sebbene ufficialmente non si conosca il prezzo. Secondo le indiscrezioni di alcuni organi di stampa nazionali, gli Stati membri dovranno pagare una cifra di circa 10 euro, anziché 19,50, per le dosi in eccesso che non saranno, dunque, nemmeno consegnate. È prevista però la consegna – a prezzo pieno – di almeno 70 milioni di dosi l’anno che per l’Italia equivalgono a un quantitativo di 10 milioni, superiore quindi a quello dei vaccini antinfluenzali consegnati annualmente. L’Europa dovrebbe risparmiare una parte dei 9,5 miliardi di euro dovuti per le dosi attese, su una spesa complessiva di 71 miliardi.

La platea di persone che si sottopongono all’inoculazione coincide perlopiù con gli ultrasessantenni, ma non si prevede una grande domanda se non in caso di una recrudescenza remota del Covid. In Italia, invece, si vaccinano in media 300/400 persone al giorno anche in questo caso over 60: secondo quanto riportato da Repubblica, quest’anno sono destinate a scadere e saranno buttate circa 15 milioni di dosi pagate a prezzo pieno e dunque almeno 300 milioni di euro. Senza l’ultimo accordo stipulato, però, le dosi in eccesso e il loro pagamento sarebbero state di gran lunga maggiore: circa 173 milioni di dosi per un valore di tre miliardi di euro.

Allo stesso tempo, Gavi – l’alleanza globale per portare i vaccini anti-Covid nel sud del mondo, finanziata, tra gli altri, da Bill Gates – ha negoziato condizioni più favorevoli di quelle dell’Ue, ottenendo la trasformazione delle dosi in eccesso in altri farmaci. La contrattazione dell’Ue, dunque, non è stata solo illegittima sul piano formale, in quanto non sono state seguite le procedure standard previste dall’Ue per la stipulazione dei contratti, ma è andata anche contro gli interessi dei cittadini europei e a favore, invece, dei bilanci dei colossi farmaceutici: quest’ultimi, oltre ad imporre le loro condizioni e a mantenere la riservatezza sui contenuti dei contratti, hanno anche ottenuto profitti da capogiro grazie agli investimenti degli Stati. Secondo i calcoli fatti dagli analisti, incaricati dalla Commissione parlamentare europea di verificare i guadagni delle aziende, a fronte di 90 miliardi di utili realizzati dalle multinazionali del farmaco tra il 2021 e il 2022 (35 miliardi solo Pfizer), gli investimenti sono stati sostenuti più dagli Stati (per circa 30 miliardi) che dai privati (per circa 16).

La malagestione dei contratti e i guadagni eccessivi delle società sono da inputarsi prevalentemente all’Ue e, in particolare, alla trattativa privata intercorsa tra la von der Leyen e Bourla denunciata per la prima volta da un articolo del New York Times: tramite sms, i due avrebbero concordato la fornitura di 1,8 miliardi di dosi, al di fuori della procedura standard, e la richiesta di alcuni europarlamentari di visionare i messaggi ha ricevuto il rifiuto della Commissione europea che ha fatto sapere che i messaggi non sono stati conservati. Così Emily O’Reilly, l’attuale mediatrice europea, dopo aver analizzato la questione, ha deciso di aprire un’indagine, mentre allo stesso tempo la commissione che indaga sul Covid ha invitato Bourla a presentarsi in audizione. Invito sempre respinto dal presidente di Pfizer. Oggi, a più di un anno dall’apertura dell’indagine, non ci sono risultati e la vicenda è finita nel nulla, scomparendo quasi dall’attenzione mediatica. Tuttavia, gli effetti di quei contratti segretati e condotti attraverso procedure informali vengono scontati dagli Stati, costretti a pagare e buttare via dosi in eccesso che sarebbero peraltro state molte di più senza la stipulazione dell’ultimo accordo che ha rimediato in extremis parte delle condizioni capestro firmate dalla Commissione Ue con i colossi farmaceutici. [di Giorgia Audiello]

I 300 mln per il vaccino contro il Covid ormai inutile. Linda Di Benedetto su Panorama il 30 Maggio 2023

15 milioni di dosi in più sono ormai vicine alla scadenza e le aziende farmaceutiche non vogliono negoziare.

Se da una parte la comunità internazionale ha tirato un sospiro di sollievo per la fine della pandemia dall’altra ci si prepara ad una guerra con le case farmaceutiche che hanno monopolizzato il settore e non sembrano voler cedere ad una rinegoziazione vantaggiosa dei contratti per i vaccini anti Covid-19. Solo in Italia infatti con la campagna vaccinale ormai al palo sono circa 15 milioni le dosi di vaccino rimaste inutilizzate che entro fine anno dovranno essere distrutte perché in scadenza. Uno spreco di denaro pubblico senza precedenti che si aggira al momento intorno ai 300 milioni di euro. Soldi buttati via ma necessari per non lasciare il Paese impreparato difronte ad un eventuale recrudescenza del virus. Stesso problema dei Paesi Ue che nel corso degli ultimi mesi hanno chiesto di cancellare o rivedere gli accordi sottoscritti in piena pandemia perchè si ritrovano con un eccesso di dosi rispetto alla domanda.Alcuni Paesi hanno addirittura chiesto la cancellazione degli accordi ma le case farmaceutiche, forti dei contratti firmati con i governi nel pieno della pandemia, non avevano mostrato la minima intenzione di rinegoziarli. Così l’Unione europea dopo mesi di tensioni è riuscita a rimodulare con Pfizer il numero di consegne di vaccini anti Covid. Una trattativa che non è chiara ma dove si prospettano ulteriori perdite economiche. La trattativa La Commissione europea, in collaborazione e per conto degli Stati membri, aveva firmato un terzo contratto con Pfizer/BioNTech per l’acquisto di 900 milioni di dosi di vaccino, con l’opzione di acquistarne altre 900 milioni, per un costo massimo stimato in 35 miliardi di euro, a carico dei singoli Stati fino al 2023. Ed ora il nuovo accordo raggiunto ora tra Ue e Pfizer/BioNTech prevede nell’accordo appena annunciato: una riduzione della quantità di dosi acquistate dagli Stati membri in virtù del contratto; le dosi originariamente convenute nel contratto saranno convertite in ordini facoltativi dietro pagamento di una tariffa; una proroga del periodo durante il quale gli Stati membri potranno ricevere i vaccini, che a partire da adesso potrà arrivare a 4 anni; la possibilità, fino al termine del contratto di continuare ad avere accesso a dosi supplementari fino a concorrenza del volume originariamente convenuto per soddisfare le esigenze in caso di aumento dei casi e di peggioramento della situazione epidemiologica ed un accesso continuo a vaccini adattati alle nuove varianti, non appena questi siano stati autorizzati dalle autorità di regolamentazione. Ombre sul contratto La commissione europea non ha parlato dei termini economici dell’accordo ed il ministro della Salute polacco Adam Niedzielskiin una nota ha scritto: «I dettagli esatti non sono stati resi pubblici, ma la proposta in discussione vedrebbe la cancellazione di alcune dosi, ma con un prezzo più alto per le consegne rimanenti, in pratica creando una “tassa di cancellazione”.Nonostante la mia volontà di trovare un compromesso, Pfizer non è disposta a mostrare un livello soddisfacente di flessibilità e a fare proposte realistiche che rispondano alla mutata situazione (sanitaria) in Europa». Mentre a febbraio 2023 dopo il Consiglio Salute tenutosi a Bruxelles il ministro della salute Orazio Schillaci, in sessione pubblica, aveva rivelato un dettaglio dei contratti ossia che gli Stati, nel caso in cui un cittadino citi in giudizio una casa farmaceutica per un effetto collaterale del vaccino, sono costretti a pagare le spese legali in cui incorrono i produttori, in pratica a pagare loro gli avvocati. Quanto hanno guadagnato i maggiori produttori dei vaccini anti Covid Tra il 2021 e i primi nove mesi del 2022 le multinazionali farmaceutiche Pfizer, BioNTech, Moderna e Sinovac hanno registrato profitti per circa 90 miliardi di dollari dalla vendita di vaccini e farmaci contro il Covid-19. Guadagni enormi “in larga parte dovuti a decenni di ricerca finanziata da investimenti pubblici, miliardi di sovvenzioni per lo sviluppo e la produzione e decine di miliardi sotto forma di Accordi di acquisto avanzato (APA) con i governi” scrive Somo, organizzazione olandese che indaga i comportamenti e le politiche delle grandi aziende transnazionali, nel rapporto “Pharma’s pandemic profits” pubblicato il 27 febbraio. Più nel dettaglio, Pfizer ha generato utili netti per 25 miliardi di dollari, BioNTech e Moderna 20 miliardi a testa mentre la cinese Sinovac ha rilevato margini per circa 15 miliardi. I ricercatori di Somo hanno analizzato i dati finanziari dei sette maggiori produttori di vaccini contro il Covid-19: un’attività che ha permesso di generare ricavi pari a 86,5 miliardi di dollari solo nel 2021, con un utile di 50 miliardi. Ma solo quattro società (Pfizer, BioNTech, Moderna e Sinovac, appunto) hanno realizzato utili consistenti. “Con un margine netto del 57% sono stati superati persino i profitti già alti del business as usual dell’industria farmaceutica, che è tra i settori commerciali più redditizi al mondo.

Covid, le scorte di vaccini che fine faranno una volta terminata la pandemia? Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

Nonostante i dati in discesa, la vaccinazione resta importante per anziani e fragili. I Paesi si ritrovano però con un eccesso di dosi inutilizzate: l’Europa ha chiesto alle case farmaceutiche una rinegoziazione dei contatti

Quando potremo mettere la parola «fine» alla pandemia di Covid? Secondo diversi esperti — come il virologo Giorgio Palù, presidente di Aifa (Agenzia italiana del farmaco), intervistato dal Corriere della Sera — l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) prende tempo per motivi di prudenza, ma nei fatti ci stiamo avvicinando a una fase endemica, o post-pandemica, in cui il virus continuerà a circolare ma con un numero di casi costante nel tempo e variazioni stagionali (come l’influenza). Ciò non significa che spariranno casi gravi e decessi: in Italia per esempio l’ultimo bollettino del Ministero della Salute (dati 14-20 aprile) mostra che i nuovi contagi sono in aumento rispetto alla settimana precedente (27.982 rispetto a 21.779), così come i decessi (191 vs 129). È complessivamente limitato l’impatto sugli ospedali, ma con un tasso di occupazione dei posti letto in lieve aumento sia nelle aree mediche che nelle terapie intensive.

I fragili devono proteggersi

Seppure con qualche alto e basso, la morsa del virus si è allentata in tutto il mondo, tanto che l’11 aprile il presidente americano Joe Biden ha firmato la legge che mette fine all’emergenza Covid negli Stati Uniti. In Italia lo stato di emergenza (dichiarato il 31 gennaio 2020) era terminato oltre un anno fa, il 31 marzo 2022, su disposizione del Consiglio dei Ministri. Resta però importante proteggersi con le armi che abbiamo a disposizione, perché non sempre l’infezione si «accontenta» di provocare un raffreddore o poco più. «Si ribadisce l’opportunità, in particolare per le persone a maggior rischio di sviluppare una malattia grave, di continuare ad adottare misure come l’uso della mascherina, aereazione dei locali, igiene delle mani e porre attenzione alle situazioni di assembramento — si legge nell’ultimo report del Ministero della Salute —. L’elevata copertura vaccinale, il completamento dei cicli di vaccinazione e il mantenimento di una elevata risposta immunitaria attraverso la dose di richiamo rappresentano strumenti importanti per mitigare l’impatto clinico dell’epidemia».

Campagne vaccinali ferme

I vaccini anti-Covid dunque non finiranno in soffitta. Ma una domanda è lecita: vista l’elevata copertura raggiunta in molti Paesi del mondo (fanno eccezione il continente africano, la Russia, alcuni Paesi dell’Est Europa e del Medio Oriente) e le campagne vaccinali ormai ferme, che ne sarà delle scorte che i vari Paesi si sono assicurati nei mesi più duri della pandemia e che rischiano di rimanere inutilizzate (oltre che di scadere)? Nei giorni scorsi il ministro della Salute Orazio Schillaci ha affermato che in autunno la vaccinazione Covid sarà consigliata ai pazienti fragili e agli anziani (come suggerito dall’Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) e che «non abbiamo alcun problema sulle scorte». Dunque nessuna carenza, semmai il contrario.

Contratti con le case farmaceutiche

La questione delle dosi in eccesso rispetto alla domanda è stata posta già nel 2022 dagli Stati membri dell’Ue che hanno chiesto alla Commissione Europea di rinegoziare i contratti siglati con le case farmaceutiche per la fornitura di vaccini anti-Covid. Alcuni Paesi hanno proposto la semplice cancellazione degli accordi. Ma le case farmaceutiche, forti dei documenti firmati in piena pandemia, non si sono mostrate disponibili a una rinegoziazione. Oggi gli Stati si ritrovano legati a contratti «pesanti», con i quali si sono impegnati ad acquistare dosi di vaccini in quantità che all’epoca era molto difficile «dimensionare» in modo adeguato, dato che l’evoluzione della pandemia era imprevedibile. La Commissione europea ha «scoraggiato cambiamenti unilaterali delle condizioni contrattuali che sono state già approvate». Tuttavia sono gli Stati che decidono in materia di politica sanitaria. Pertanto la Commissione ha lavorato con i Paesi membri e con i produttori di vaccini «con lo scopo di allineare i contratti alla situazione attuale», ha affermato la commissaria per la Salute e la sicurezza alimentare, Stella Kyriakides. Tuttavia, ha constatato la commissaria, «i produttori di vaccini non sono disponibili a ridurre il numero di dosi, al momento».

Il caso della Polonia

Secondo quanto riporta il sito di informazione Euractiv , è stata la Polonia, lo scorso anno, il primo Paese europeo a tentare di rinegoziare il suo accordo con Pfizer, non potendo più permettersi di pagare le forniture a causa dei costi per l’accoglienza dei rifugiati ucraini in fuga dalla guerra. La Commissione ha dato alla Polonia (in via eccezionale) il via libera per rinegoziare l’accordo su base individuale ma, nonostante i colloqui siano iniziati circa un anno fa, non è stato ancora raggiunto alcun accordo. A marzo i ministri della Salute di Bulgaria, Polonia, Lituania e Ungheria hanno chiesto nuovamente alla Commissione di rinegoziare le condizioni di fornitura dei vaccini Pfizer. «La Commissione dovrebbe cercare opportunità per negoziare ulteriormente con Pfizer, in particolare sui pagamenti per le mancate consegne, riducendo il numero di dosi contrattate, o per prendere l’iniziativa stessa e acquistare vaccini in eccedenza dagli Stati membri per donarli alle regioni bisognose» hanno dichiarato i ministri.

La situazione in Italia

Secondo quanto riportato da Euractiv , in base agli accordi europei l’Italia dovrebbe ricevere 61,1 milioni di dosi. Le dosi non utilizzate saranno probabilmente 173 milioni, comprese quelle attualmente in magazzino. Tutto ciò potrebbe costare al Paese circa 3 miliardi di euro. Anche il ministro Schillaci, a dicembre, ha chiesto alla Commissione Ue di rinegoziare i contratti con i fornitori di vaccini, chiedendo di tornare ad acquistarli «su base nazionale» (e non più facendo capo all’Europa, come avvenuto in occasione della pandemia Covid). Lo spreco di vaccini, ha affermato il ministro, «sarebbe difficile da comprendere per le nostre opinioni pubbliche; anzi, rischierebbe di generare paradossalmente un senso di disaffezione verso le future campagne vaccinali». Nel 2020 la Commissione europea ha ordinato dosi di vaccino anti-Covid per conto degli Stati membri. Diversi produttori, tra cui Pfizer, AstraZeneca, Moderna, Novavax e Sanofi, hanno firmato accordi con la Commissione. «Oggi, grazie agli acquisti raggruppati di vaccini, il 70% della popolazione europea è vaccinata» ha detto la commissaria per la Salute e la sicurezza alimentare, Stella Kyriakides. In Italia il 90% della popolazione over 12 ha ricevuto il ciclo vaccinale completo.

Scaduti 122 milioni di vaccini Covid: l’Italia ha regalato 2 miliardi a Big Pharma. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 2 Febbraio 2023.

Con il retrocedere dell’emergenza legata alla pandemia da Covid-19, esplosa nel 2020, sono sempre meno gli italiani che decidono di farsi somministrare il vaccino contro il virus. Così, a fronte delle centinaia di milioni di dosi ordinate dall’Italia, un quantitativo ingente di queste è rimasto inutilizzato ed è destinato con tutta probabilità al macero, vista l’imminente scadenza, con un conseguente spreco di denaro (pubblico) che si aggira perlomeno intorno ai 2 miliardi di euro.

La campagna di vaccinazione ha infatti subito una prepotente battuta d’arresto: solamente 5,8 milioni di persone (il 30,7%) delle 19,1 milioni che potrebbero avere accesso immediato alla quarta dose hanno richiesto la somministrazione del vaccino, dato che scende al 13,5% per coloro che hanno richiesto la quinta dose (dati della Fondazione GIMBE). Secondo un conteggio effettuato la La Stampa, sono quindi 19 milioni le dosi di vaccino contro la variante Omicron 1 che andranno gettate, insieme alle 15 milioni contro le varianti Omicron 4 e 5. A queste vanno poi aggiunte 28 milioni andate in scadenza alla fine dell’anno, oltre a 60 milioni donate all’Africa ma in larga parte (se non del tutto) andate inutilizzate per problemi legati alla logistica o al fatto che gran parte di queste venissero donate quando già in scadenza (come abbiamo spiegato in un approfondimento dedicato al sistema COVAX). Il totale delle dosi destinate a rimanere inutilizzate e quindi da gettare ammonterebbe così a ben 122 milioni. Considerando un prezzo medio tra i 16 e i 19,5 euro a dose (come ipotizzato da una nostra inchiesta, dal momento che il contenuto dei contratti con le case farmaceutiche è rimasto per lo più segreto), lo spreco si aggira tra gli 1,9 e i 2,3 miliardi di euro.

Il problema era già noto nell’autunno dell’anno scorso, quando era evidente che la campagna vaccinale stesse subendo un rapido rallentamento. Già allora le Regioni avevano tentato di mettere in guardia il governo del potenziale immane spreco cui si stava andando incontro, ma nonostante ciò si è deciso comunque di procedere con l’acquisto di nuove dosi e con l’insistere sulla campagna per la somministrazione di una quinta vaccinazione ai soggetti fragili. [di Valeria Casolaro]

(ANSA il 31 gennaio 2023) - Pfizer ha chiuso il 2022 con "ricavi record" per 100,33 miliardi di dollari (92,63 mld euro), in crescita del 23%. Lo si legge in una nota in cui viene indicato che l'utile netto è salito del 43% a 31,37 miliardi di dollari e l'utile per azione del 62% a 6,58 dollari (6,07 euro). Per l'anno in corso il colosso Usa del farmaco prevede ricavi compresi tra 67 e 71 miliardi di dollari (tra 61,86 e 65,55 mld euro) e un utile per azione tra 3,25 e 3,45 dollari (fra 3 e 3,19 euro).

Truffe.

Quelle relazioni pericolose tra medici e industria. Maddalena Loy su Panorama il 05 Maggio 2023.

 Sono le aziende farmaceutiche a sovvenzionare, fin troppo generosamente, il settore della Sanità e la ricerca di nuove terapie. E questa mancanza di indipendenza ha forti conseguenze Quelle relazioni pericolose tra medici e industria sulla salute (oltre che sull’etica) come denuncia - da sempre - Silvio Garattini.

Nel 2021 Pfizer ha elargito milioni in finanziamenti a enti “indipendenti” pro vaccini. Michele Manfrin su L'Indipendente il 4 Maggio 2023.

È stato svelato un ampio elenco di finanziamenti elargiti, negli USA, dai giganti della farmaceutica a favore di gruppi di consumatori, medici, scienziati, organizzazioni di sanità pubblica e non profit per i diritti civili. Si tratta di fondi elargiti durante il periodo pandemico, quando il governo federale spingeva per la vaccinazione di massa. A dimostrarne l’esistenza il giornalista investigativo Lee Fang, il quale ha pubblicato un’inchiesta che mostra come Pfizer, in particolare, abbia fornito finanziamenti a una vasta rete di organizzazioni e individui i quali, senza rivelare il finanziamento ottenuto (quindi con un possibile conflitto d’interesse), hanno allo stesso tempo propagandato la necessità che i cittadini statunitensi si vaccinassero al fine di prevenire l’infezione e scongiurare il propagarsi del contagio.

Ad esempio, la Chicago Urban League – un’affiliata della National Urban League che sviluppa programmi e partnership e si impegna nella difesa per affrontare la necessità di occupazione, imprenditorialità, alloggi a prezzi accessibili e istruzione di qualità – ha ricevuto da Pfizer un contributo di 100.000 dollari proprio per una campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza e l’efficacia del vaccino per il Covid-19, prevalentemente destinata alla comunità afroamericana, la quale stava subendo le conseguenze economiche e sociali peggiori delle politiche di contrasto pandemico.

Un altro caso riguarda invece la National Consumers League (NCL) – la quale fornisce al governo, alle imprese e ad altre organizzazioni il punto di vista del consumatore su problemi quali il lavoro minorile, la privacy, la sicurezza alimentare e le informazioni sui farmaci – che ha ricevuto 75.000 dollari proprio nel periodo in cui ha iniziato a sostenere la necessità delle vaccinazioni per accedere sul posto di lavoro. Inoltre, nel consiglio di amministrazione di NCL sedeva Andrea LaRue, lobbista a contratto per Pfizer non segnalato sul sito web di NCL.

L’American Academy of Pediatrics (AAP) è stato uno degli organi più attivi in favore della vaccinazione di massa così come uno dei più finanziati da Pfizer, nelle sue varie ramificazioni locali. Infatti, in questo caso, Pfizer ha fornito anche sovvenzioni a singoli capitoli statali dell’AAP destinati a fare pressioni sulla politica vaccinale. Ad esempio, Ohio AAP ha esercitato pressioni sulla legislatura dello Stato affinché non si frenasse sulle politiche coercitive anti-pandemiche mentre riceveva una sovvenzione da parte di Pfizer il cui giustificativo è segnalato come “legislazione sull’immunizzazione”.

The Immunization Partnership, un’organizzazione no profit per la salute pubblica con sede a Houston, ha fatto pressioni pubbliche contro la legislazione del Texas nel 2021, la quale impediva l’istituzione di passaporti vaccinali e mandati municipali per i vaccini sul luogo di lavoro. I protetti di legge “erodono il ruolo vitale della sanità pubblica e degli esperti medici del nostro Stato nella lotta contro questa pandemia” dichiarava Immunization Partnership, mentre riceveva al contempo 35.000 dollari da Pfizer.

L’American Pharmacists Association, l’American College of Preventive Medicine, l’Academy of Managed Care Pharmacy, l’American Society for Clinical Pathology e l’American College of Emergency Physicians hanno firmato una lettera a sostegno del mandato dell’amministrazione Biden, il quale richiedeva ai datori di lavoro con 100 o più dipendenti che questi fossero completamente vaccinati o che fosse somministrato loro un test almeno una volta alla settimana. Tutte le organizzazioni citate hanno ricevuto finanziamenti da parte del gigante della farmaceutica Pfizer.

Nella lunga e variegata lista di organizzazioni che hanno ottenuto fondi da Pfizer nel corso del 2021, tra quelle indicizzate con giustificativo legato al Covid-19 e i vaccini troviamo anche un milione di dollari alla US India Friendship Alliance per “sforzi di soccorso COVID-19”. L’Università di Louisville ha invece ricevuto 30.000 dollari per un “programma di sorveglianza del coronavirus”. Anche la fondazione delle Nazioni Unite ha ricevuto una donazione di 15.000 dollari relativi ad un programma di vaccinazione. Nell’elenco figurano anche l’Università della California, con 125.000 dollari, e il Pinyon Foundation DBA World Voices Media (100.00 dollari) per una “iniziativa di educazione vaccinale” mirata alla popolazione ispanica. La National Foundation for Infectious diseases ha invece ottenuto 105.000 dollari per l’educazione vaccinale tra gli adulti.

La lista è lunga e comprende anche: National Association of Nutrition and Aging Services Programs, a cui sono andati 110.000 dollari; National Black Nurses Association 8.000; 45.000 alla National Alliance of State Pharmacy Associations; 200.000 alla Henrietta Lacks House of Healing; Generations United ha invece ottenuto 50.000 dollari; Friendship Community Services 10.000 dollari; Dia de la mujer latina ha ricevuto invece 75.000 dollari; Community Health Coalition 50.000 dollari; Bedford Scientific 352.000 dollari; Alliance for Aging Reasearch 100.000 dollari; Advertising Council mezzo milione di dollari; 100 Black Men of America ha ottenuto 100.000 dollari.

Jenin Younes, un ex avvocato del New Civil Liberties Alliance che ha portato alcune delle prime sfide legali ai mandati sui vaccini, ha affermato: «Se persone o istituzioni hanno sostenuto o attuato mandati, pur non rivelando i legami con le aziende produttrici di vaccini, si tratta di una grave violazione etica e potenzialmente anche illegale, e dovrebbe essere indagata a fondo». Il dottor Aaron Kheriaty, esperto di bioetica, ha osservato che le aziende farmaceutiche finanziano abitualmente organizzazioni esterne per modellare le decisioni mediche e le politiche sanitarie. Kheriaty ha affermato che Pfizer si è impegnata in una «forma di manipolazione del mercato spingendo mandati utilizzando organizzazioni che si presentano come scientificamente credibili o agendo nell’interesse pubblico, creando con la forza un mercato per i prodotti dell’azienda».

Mentre le organizzazioni promuovevano i vaccini come strumento risolutore contro la propagazione dell’infezione, nel prevenire la malattia e la sua gravità, Pfizer elargiva centinaia di migliaia, milioni di dollari ad enti che avrebbero dovuto essere terzi e indipendenti, molti dei quali hanno omesso i finanziamenti ricevuti dalla casa farmaceutica e così il potenziale conflitto d’interesse. [di Michele Manfrin]

MRNA e cancro: il business dei vaccini che non sono vaccini. Michele Manfrin su L'Indipendente il 18 aprile 2023.

La notizia negli ultimi giorni ha fatto il giro di tutti i media: le aziende farmaceutiche Moderna e Merck hanno annunciato che entro il 2030 saranno disponibili rivoluzionari vaccini contro il cancro e forse anche contro le malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni. Secondo quanto riferito da Paul Burton, direttore medico di Moderna, grazie alla tecnologia a mRNA, con il suo enorme sviluppo ed applicazione durante la pandemia del Covid-19, sarà possibile curare una lunga lista di malattie. Curare, non prevenire. Infatti, quelli che vengono chiamati vaccini sono in realtà terapie geniche, stando alle stesse parole e ai fatti esposti dai produttori, che curano soggetti che hanno già una patologia in corso. Inoltre ancora non si ha alcun dato disponibile sull’efficacia delle terapie anti-cancro ad mRNA, se non i soliti comunicati aziendali che già in passato avevano – ad esempio – autocelebrato una inesistente efficacia del 95% contro il coronavirus. Eppure, tra giornalisti, virologi, politici e influencer di sistema è già iniziata la corsa alla magnificazione dei nuovi “vaccini”. Certo, la ricerca sulle terapie geniche contro il cancro – come ogni nuova frontiera della ricerca – è potenzialmente molto importante, ma questo non nega che molto di quanto abbiamo letto in questi giorni è falso.

Questi vaccini non sono vaccini

Durante un’intervista rilasciata al giornale britannico The Guardian, Paul Burton, direttore medico di Moderna, decanta le lodi di quelli che sarebbero i “rivoluzionari” sviluppi in campo medico posti dall’implementazione su vasta scala della tecnologia a mRNA, la stessa utilizzata per la produzione dei così detti vaccini anti-Covid prodotti da Moderna e Pfizer-Biontech, che sarebbe in grado di offrire trattamenti per “tutti i tipi di aree patologiche” entro il 2030. “Penso che saremo in grado di offrire vaccini antitumorali personalizzati contro diversi tipi di tumore alle persone di tutto il mondo”, ha detto Burton durante l’intervista.

Al diffondersi delle dichiarazioni rilasciate dal direttore medico di Moderna, giornalisti, virologi, politici e influencer di sistema si sono subito attivati per la propaganda; uno su tutti, il giornalista Enrico Mentana, direttore del telegiornale di La7, il quale ha scritto un canzonatorio post rivolto ai fantomatici “no vax” nel quale afferma: “E quindi, oltre ad averci permesso di fronteggiare la pandemia di Covid, i vaccini a Rna messaggero aprono la strada verso altri vaccini che ci potranno preservare dai tumori e da altre malattie”. Se però Mentana avesse letto (meglio) l’intervista rilasciata dal direttore medico di Moderna, Burton, si sarebbe reso conto che la spiegazione del fatto che tali prodotti non sono vaccini è fornita dal medesimo Burton quando spiega il funzionamento di quel che viene chiamato “vaccino” contro il tumore e che, non essendo un vaccino, non può “preservare” proprio niente. Infatti, quel che viene definito “vaccino contro il cancro”, e che in realtà è una terapia genica ad mRNA, viene iniettato a soggetti che hanno sviluppato già una patologia tumorale. Il procedimento, spiegato nell’articolo del The Guardian, prevede prima la biopsia del tumore sviluppato dal paziente malato, alla quale seguono analisi di laboratorio e calcoli con utilizzo di algoritmi per stabilire quale sia la cura personalizzata “più promettente” per il singolo soggetto. Dunque, i “vaccini” contro il cancro, come quelli promessi contro malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni e molte altre, non prevengono, e non ci possono “preservare”, da alcuna malattia, semplicemente perché non sono vaccini ma terapie volte a curare una malattia già in corso.

Le giravolte linguistiche delle multinazionali per chiamarli vaccini

Il sito dell’azienda farmaceutica Merck, che ha collaborato con Moderna per mettere a punto una terapia contro il cancro, in fondo alla pagina, alla voce chiamata “L’attenzione di Moderna sul cancro” riporta un chiaro esempio di effetto paradossale nel tentativo di voler affermare come vaccino qualcosa che chiaramente non lo è, per stessa ammissione degli stessi che, in una sorta di ciclo perverso, devono però proprio per questo continuare ad affermare il suo status di vaccino: “In Moderna, stiamo mantenendo la promessa della scienza dell’mRNA di creare una nuova generazione di farmaci trasformativi per i pazienti. Stiamo lavorando incessantemente per far crescere la nostra modalità terapeutica del cancro scoprendo farmaci a mRNA che sfruttano il sistema immunitario del corpo per identificare e uccidere le cellule tumorali nello stesso modo in cui il sistema immunitario identifica e prende di mira le infezioni. Un esempio di un promettente candidato oncologico è la creazione di vaccini antitumorali personalizzati individualizzati e basati su mRNA che forniscono farmaci personalizzati a un paziente alla volta. Continuiamo inoltre a rafforzare il nostro portafoglio attraverso collaborazioni strategiche che aumentano il nostro potenziale per migliorare le opzioni di trattamento per i pazienti affetti da cancro”. Insomma “una nuova generazione di farmaci” oncologici che però vengono chiamati vaccini antitumorali per pazienti “affetti da cancro”. Dunque stiamo parlando di farmaci che servono per curare persone malate. Addirittura, nel tentativo di continuare ad utilizzare la parola vaccino, in un passaggio di quanto riportato sopra, si afferma qualcosa di totalmente illogico: “Un esempio di un promettente candidato oncologico è la creazione di vaccini antitumorali personalizzati individualizzati e basati su mRNA che forniscono farmaci personalizzati a un paziente alla volta”. Quindi, vaccini antitumorali basati su mRNA che forniscono farmaci personalizzati? Riducendo ancora: vaccini che forniscono farmaci? E cosa vorrebbe dire? Sembra assomigliare ad una supercazzola.

Appena sopra, sempre sullo stesso sito, alla voce “L’attenzione di Merck sul cancro” si afferma: “Il nostro obiettivo è tradurre la scienza rivoluzionaria in farmaci oncologici innovativi per aiutare le persone affette da cancro in tutto il mondo. In Merck, il potenziale per portare nuova speranza alle persone affette da cancro guida il nostro scopo e sostenere l’accessibilità ai nostri farmaci antitumorali è il nostro impegno. Come parte della nostra attenzione al cancro, Merck è impegnata a esplorare il potenziale della immuno-oncologia con uno dei più grandi programmi di sviluppo del settore in oltre 30 tipi di tumore. Continuiamo inoltre a rafforzare il nostro portafoglio attraverso acquisizioni strategiche e stiamo dando priorità allo sviluppo di diversi candidati oncologici promettenti con il potenziale per migliorare il trattamento dei tumori avanzati”. Ancora una volta, stiamo chiaramente parlando di farmaci e cure per persone malate e non di vaccini che prevengono la malattia. E a dirlo sono gli stessi produttori, benché sempre essi stessi continuino ad utilizzare la parola “vaccino” per definire le proprie terapie geniche.

E perché queste terapie vengono ostinatamente chiamate vaccini? Un documento redatto da Marco Cosentino e Franca Marino, dal titolo Understanding the Pharmacology of COVID-19 mRNA Vaccines: Playing Dice with the Spike?, pubblicato il 17 settembre dello scorso anno sulla rivista International Journal of Molecular Sciences, aveva già spiegato che i “vaccini” anti-covid non erano vaccini bensì farmaci, riassumendone le prove disponibili, ed evidenziato le implicazioni normative – nel definire farmaco o meno un prodotto – riguardo la sicurezza farmacodinamica, farmacocinetica, clinica e post-marketing, nel considerare farmaco piuttosto che “vaccino”. Infatti, se un prodotto è definito come vaccino la sua valutazione segue certi criteri mentre se è considerato un farmaco la valutazione sarà condotta seguendone altri. Nella pubblicazione appena citata si legge: “Definire la natura dei vaccini mRNA COVID-19 non è solo una questione di confronto di opinioni scientifiche. Le agenzie regolatorie hanno definito questi prodotti a priori come vaccini convenzionali e, di conseguenza, hanno fatto riferimento alle linee guida sui prodotti applicabili quando si è trattato di valutare le domande di vaccini COVID-19 per la successiva autorizzazione all’immissione in commercio”. Insomma, se un prodotto è considerato come un vaccino è sottoposto ad una certa valutazione mentre se è un farmaco la sua valutazione comprenderà specifici criteri. I due studiosi concludono dicendo: “I vaccini mRNA COVID-19 sono in realtà farmaci farmaceutici, e di conseguenza la loro farmacocinetica e farmacodinamica, ed eventualmente anche la loro farmacogenetica, devono essere adeguatamente caratterizzati per fornire un solido background di conoscenze per il loro uso razionale e mirato, smettendo così di “giocare a dadi” con questi prodotti a causa dell’errata convinzione che lo stesso vaccino alla stessa dose faccia bene a tutti, e che gli effetti avversi si verificano solo per caso”. Ovviamente, oltre alle implicazioni normative ci sono anche quelle sostanziali e di concetto: il vaccino viene somministrato a persone sane per prevenire una determinata malattia mentre un farmaco si somministra a persone malate per curare la suddetta malattia. Quindi riuscire ad accreditare un farmaco come vaccino amplia enormemente la potenziale platea dei destinatari e quindi gli affari dell’azienda produttrice.

Business e perpetuazione del potere

Stando ai primi dati forniti da Moderna e Merck riguardo alla loro collaborazione per una terapia per la cura del cancro, l’effetto combinato del siero mRNA prodotto da Moderna (mRNA-4157/V940) – chiamato “vaccino” – con quello di Pembrolizumab – un anticorpo monoclonale prodotto da Merck – riduce del 44% il rischio di recidiva o morte rispetto al solo utilizzo di Pembrolizumab, del quale però non viene fornito alcun dato di efficacia a paragone. Per quanto riguarda gli effetti avversi gravi, invece, viene riscontrato un valore del 10% nella cura con il solo Pembrolizumab, mentre il valore registrato con la combinazione tra Pembrolizumab e mRNA-4157/V940 sale al 14% di effetti avversi gravi. La sperimentazione della terapia ha avuto luogo su un ristrettissimo campione composto da 157 pazienti con melanoma in stadio III/IV. Sul sito si può leggere: “Dopo la resezione chirurgica completa, i pazienti sono stati randomizzati a ricevere mRNA-4157/V940 (nove dosi totali di mRNA-4157) e pembrolizumab (200 mg ogni tre settimane per un massimo di 18 cicli [circa un anno]) rispetto a pembrolizumab da solo per circa un anno fino alla recidiva della malattia o alla tossicità inaccettabile”. Dunque, detto in altre parole, la terapia combinata tra mRNA-4157/V940 di Moderna e Pembrolizumab di Merck, ha ridotto del 44% la recidiva o la morte di pazienti a cui era stato asportato chirurgicamente un melanoma.

Alla luce dello studio condotto dalle due case farmaceutiche, su un minuscolo campione di 157 persone, il cui 14% (22 persone) ha registrato effetti avversi gravi, con riscontro positivo nel 44% (69) dei pazienti, le mirabolanti dichiarazioni di Burton sembrano non avere alcuna sostanza eppure mirano a qualcosa. A ben vedere gli scopi possono essere due ed entrambi strettamente connessi ad un elemento. Il primo consiste nella reificazione del potere immaginifico creato con l’utilizzo spropositato della parola “vaccino” per somministrare farmaci genici i quali, passando per vaccini, percorrono strade di verifica e controllo diverse rispetto a quello dei farmaci. L’altro scopo è quello di legittimare e rafforzare il lavoro svolto in questi ultimi anni passati, i quali, al dire degli addetti ai lavori, avrebbero permesso di avanzare in maniera esponenziale nello sviluppo e nella ricerca della tecnologia mRNA: “15 anni di progressi sono stati sbobinati in 12-18 mesi grazie al successo del vaccino Covid”, si scrive nell’articolo del The Guardian; quest’ultimo riporta anche le dichiarazioni di Richard Hackett, CEO della Coalition for Epidemic Preparedness and Innovations (Cepi), che afferma: “[..] le cose che avrebbero potuto srotolarsi nel prossimo decennio o anche 15 anni, sono state compresse in un anno o un anno e mezzo”. E nel merito della questione, non possiamo qui non ricordare le parole di Kathrin Jansen, ex responsabile della ricerca e sviluppo dei vaccini presso Pfizer, che nel novembre scorso, come da noi riportato, affermava: “Abbiamo pilotato l’aereo mentre lo stavamo ancora costruendo”.

E quale sarebbe la stretta connessione tra i due scopi? Il profitto. Andrea Casadio, medico e giornalista, dalle pagine del quotidiano Domani, in un interessante articolo intitolato “I vaccini rivoluzionari di Moderna. Dietro l’annuncio interessi economici”, dopo aver spiegato cosa siano questi cosiddetti “vaccini”, fa notare che l’annuncio di Moderna segue il tonfo registrato in borsa dalla stessa casa farmaceutica dopo la comunicazione del 22 marzo scorso con cui annunciava di mettere in commercio il “vaccino” anti-Covid al prezzo di 130 dollari per dose, mentre prima era venduto al governo degli Stati Uniti per un prezzo calmierato che oscillava tra i 15 e i 26 dollari per dose.

Vogliamo dire di più. Oltre alle azioni finanziarie di una singola azienda, che certamente contano quando si fanno certi annunci, sul piatto c’è un sistema di business e potere che non vuol mollare la posizione acquisita durante la pandemia. Infatti, come spiega lo stesso Casadio nel suo articolo, non si tratta solo di Moderna e Merck ma anche delle altre aziende farmaceutiche come Pfizer, Biontech, Novavax, Astrazeneca etc., le quali puntano forte sulle terapie sviluppate in maniera esponenziale grazie a due anni di emergenza pandemica, di regole saltate e di nuove arrivate. Per questo, nell’articolo del The Guardian, in chiusura, si riporta l’appello di Andrew Pollard, direttore dell’Oxford Vaccine Group e presidente del Joint Committee on Vaccination and Immunisation (JCVI) del Regno Unito, che chiede, in tempo di guerra e conflitto, di non dirottare l’attenzione e i finanziamenti fin qui forniti all’aspetto medico-sanitario poiché questo farebbe perdere lo slancio assunto dal settore farmaceutico. [di Michele Manfrin]

PFIZERGATE. Martina Melli su L’Identità il 15 Febbraio 2023

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, nel 2021 non rese pubblici i messaggi riguardanti i negoziati con il ceo di Pfizer, Albert Bourla, per l’acquisto dei vaccini. Per questo motivo, il New York Times, watchdog di punta del giornalismo internazionale liberale, ha deciso di trascinare in tribunale la Commissione Europea.

Secondo il quotidiano infatti, la Commissione ha l’obbligo legale di rendere pubbliche tutte le informazioni sull’acquisto dei vaccini per miliardi di euro. La vicenda è stata riportata dal media statunitense Politico.

Il New York Times – che per primo segnalò l’esistenza di questi messaggi di testo in un’intervista con von der Leyen nell’aprile 2021 – non ha rilasciato alcuna dichiarazione, si è limitato a spiegare la propria posizione in un comunicato: “Avanziamo diverse richieste di accesso a documenti di interesse pubblico. Al momento non possiamo commentare le parti in causa”. No comment anche dalla Commissione europea.

La causa legale è l’ultimo segmento di una lunga inchiesta investigativa avviata nel gennaio 2022, quando, per la prima volta, era risultato che la Commissione non avesse ottemperato ai propri doveri di trasparenza. All’epoca, fu l’osservatorio dell’Ue ad aprire un’indagine sui messaggi, ritenendo il braccio esecutivo colpevole di “cattiva amministrazione”.

La Commissione inizialmente affermò che dopo un’approfondita ricerca non aveva “identificato” alcun messaggio di testo tra von der Leyen e l’amministratore delegato di Pfizer, società che, in quell’anno finanziario, vide entrate per 36 miliardi di dollari dalle vendite di vaccini.

Secondo le indagini del difensore civico dell’Ue, Emily O’Reilly, la ricerca effettuata dai funzionari della commissione per le conversazioni via sms, era limitata a un registro interno di documenti. La commissione successivamente dichiarò di non ritenere che i messaggi di testo rientrassero nell’obbligo Ue di archiviare i documenti relativi alla polizza, in quanto comunicazioni “effimere”. “Quando si tratta del diritto di accesso del pubblico ai documenti Ue, è il contenuto che conta e non il dispositivo o la forma”, affermò O’Reilly. “Se i messaggi di testo riguardano politiche e decisioni dell’Ue, dovrebbero essere trattati come documenti Ue. L’amministrazione della commissione europea deve aggiornare le sue pratiche di registrazione dei documenti per riflettere questa realtà”.

Interessante ricordare come la Commissione fu aspramente criticata per il salatissimo costo (negoziato) dei vaccini anti-Covid: circa 31 miliardi di euro in più rispetto al costo di produzione.

Vaccino Covid, il New York Times fa causa a von der Leyen. Il Tempo il 14 febbraio 2023.

Dopo le inchieste si finirà in tribunale. Il New York Times ha deciso di portare la Commissione Europea davanti all'autorità giudiziaria per non aver reso pubblico lo scambio di messaggi tra la presidente, Ursula von der Leyen, e il ceo di Pfizer Albert Bourla, riguardo il negoziato che ha portato all’acquisto delle dosi di vaccino per il Covid. Il quotidiano sostiene che la Commissione aveva l’obbligo di rendere pubblici i messaggi, in nome della trasparenza, perché potrebbero contenere informazioni utili legate all’acquisizione per miliardi di dollari di dosi di vaccino. La notizia è rilanciata da Politico, con il New York Times che si è limitato a emettere un comunicato, evitando ogni ulteriore commento: «Presentiamo - si legge - molte richieste di accesso a documenti di interesse pubblico. Non possiamo fare commenti questa volta sul soggetto al centro della causa». La Commissione europea non ha rilasciato commenti. 

La causa segue un filone investigativo avviato nel gennaio 2022, quando era risultato che la Commissione non avesse ottemperato alla richiesta del giornalista Alexander Fanta, di netzpolitik.org, sito tedesco specializzato in diritti digitali, che aveva chiesto di poter leggere lo scambio di messaggi tra von der Leyen e il ceo di Pfizer. La commissaria alla Trasparenza per l’Unione Europea, Vera Jourovà, aveva risposto che i messaggi potevano essere stati cancellati, a causa della loro «natura effimera». La risposta non è stata ritenuta soddisfacente. Il quotidiano tedesco Bild aveva presentato un’analoga richiesta di accesso ai documenti, ma legati ai negoziati che avevano portato all’acquisto da parte dell’Unione Europea dei vaccini prodotti da Pfizer/BioNTech e AstraZeneca. I documenti a cui Bild ha avuto accesso non contenevano lo scambio di email tra la presidente della Commissione Europea e il ceo di Pfizer. Sul caso si era espressa anche l’Ombudsman dell’Ue chiedendo trasparenza alla Commissione e diversi europarlamentari.

Coronavirus. New York Times in causa contro la Von der Leyen. "Fuori gli sms con Pfizer". Dopo due anni, si riapre il giallo sull'accordo che fece arrivare alla Ue 1,8 miliardi di dosi. Maria Sorbi il 15 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Febbraio 2021. Sono giorni di tensione alle stelle. I vaccini di Astrazeneca, che sembrava dovessero essere i primi a sbarcare sul mercato, sono in un ritardo clamoroso, non vengono consegnati. Gli ospedali sono pieni di malati gravi e la gente vuole un rimedio contro il Covid, penetrato ovunque con la seconda ondata. Piovono critiche da ogni dove e, esasperata, la presidente della commissione Ue Ursula von del Leyen impugna i telefono e scrive a Albert Bourla, ceo di Pfizer. Gli «ordina» 1,8 miliardi di dosi. Salta tutti i passaggi istituzionali e fa fronte, a suo modo, all'emergenza. Sbloccando per Pfizer quel via libera che i giornali annunciavano per imminente ma che non arrivava mai.

Ora il New York Times ha deciso di portare la Commissione Europea in tribunale per non aver reso pubblico lo scambio di messaggi tra la presidente von der Leyen e il numero uno di Pfizer. E vuole vederci chiaro: cosa si sono scritti? Come sono arrivati a un accordo che ha lasciato tutti a bocca aperta? Il quotidiano sostiene che la Commissione aveva l'obbligo di rendere pubblici i messaggi, in nome della trasparenza, perchè potrebbero contenere informazioni utili legate all'acquisizione per miliardi di dollari di dosi di vaccino. Il Nyt si è limitato a emettere un comunicato, evitando ogni ulteriore commento: «Presentiamo - si legge - molte richieste di accesso a documenti di interesse pubblico. Non possiamo fare commenti questa volta sul soggetto al centro della causa». La Commissione Europea non ha rilasciato commenti. Non è la prima volta che qualcuno cerca di ricostruire i passaggi che hanno portato all'accordi da quasi 2 milioni di vaccini. La causa segue un filone investigativo avviato nel gennaio 2022, quando era risultato che la Commissione non avesse ottemperato alla richiesta del giornalista Alexander Fanta, di netzpolitik.org, sito tedesco specializzato in diritti digitali, che aveva chiesto di poter leggere lo scambio di messaggi «incriminato». La commissaria alla Trasparenza per l'Unione Europea, Vera Jourovà, aveva risposto che i messaggi potevano essere stati cancellati, a causa della loro «natura effimera». La risposta non è stata ritenuta soddisfacente. Il quotidiano tedesco Bild aveva presentato un'analoga richiesta di accesso ai documenti, ma legati ai negoziati che avevano portato all'acquisto da parte dell'Unione Europea dei vaccini prodotti da Pfizer/BioNTech e AstraZeneca. I documenti a cui Bild ha avuto accesso non contenevano lo scambio di email tra la presidente della Commissione Europea e il ceo di Pfizer. La serie di sms e mail ha portato a un autentico matrimonio tra l'Unione europea e la casa farmaceutica americana. Di fatto Pfizer da quel momento è diventato l'alleato privilegiato contro il Covid. Cosa accade? La multinazionale americana e il suo partner tedesco inviano 900 milioni, da febbraio 2021 a oggi, e l'Europa ha un'opzione di altri 900 milioni per il futuro.

Un accordo anomalo, forse. Ma erano le settimane in cui Astrazeneca aveva ridotto del 77% le consegne e la campagna vaccinale era a serio rischio. «Quei messaggi sono andati persi» era stato risposto a un primo tentativo di fare chiarezza sulla vicenda. Ma più che gli sms, forse quel che conta è che i vaccini siano arrivati negli hub di tutta Europa e non solo.

Profitti.

Abbiamo letto il contratto tra Sudafrica e Pfizer: il primo pubblicato sui vaccini Covid. Roberto Demaio su L'Indipendente martedì 12 settembre 2023 

Le grandi aziende farmaceutiche «hanno costretto il Sudafrica a firmare accordi ingiusti che hanno portato il Paese a pagare più del dovuto rispetto alle nazioni occidentali». È ciò che ha dichiarato la ONG sudafricana Health Justice Initiative (HJI), che conduce una campagna contro la disuguaglianza nella salute pubblica e che ha definito gli accordi «bullismo farmaceutico». La pubblicazione avviene a seguito della battaglia legale svoltasi le scorse settimane, che ha portato il governo sudafricano a rendere noti i contratti stipulati con le case farmaceutiche per l’acquisto di dosi contro la Covid-19. Con un’ordinanza, infatti, l’Alta Corte di Pretoria ha intimato il Dipartimento di Sanità di rendere pubblici tanto i contratti quanto gli atti delle riunioni d’acquisto delle dosi svoltesi con Pfizer, Janssen, Serum Institute of India e Gavi. Da quanto emerso, sembra che le aziende abbiano approfittato della loro posizione e del periodo di emergenza per far siglare al governo contratti estremamente sfavorevoli (in alcuni casi, per esempio, non era nemmeno previsto un termine di scadenza per la consegna delle dosi concordate). Il tutto a fronte del fatto che, come scritto nei contratti stessi, l’acquirente avrebbe dovuto riconoscere che “l’efficacia a lungo termine del vaccino non è nota” e che “potrebbero esservi effetti avversi del vaccino che non sono attualmente noti”. L’Indipendente ha letto l’intero documento del contratto Pfizer e ha riportato gli altri principali punti salienti, che prevedono l’esenzione di responsabilità dell’azienda da “mancato sviluppo e ottenimento di autorizzazioni entro le date previste” e da “penalità per ritardata consegna”, eventuali ordini di dosi aggiuntive che saranno “vincolanti e irrevocabili”, lo sforzo (dell’Acquirente) nel “difendere” e “indennizzare Pfizer da e contro qualsiasi causa” e persino la possibilità di deviare i prodotti verso il mercato più favorevole, anche se questo potrebbe comportare un ritardo nella consegna delle dosi.

I contratti hanno rivelato che il vaccino Oxford/AstraZeneca è stato pagato 5,35 dollari per dose (al contrario dell’UE che ha pagato ogni fiala solo 1,78 euro), J&J è stato acquistato 10 dollari a dose (il 15% in più rispetto a quanto pagato dall’UE) e BioNTech/Pfizer è stato pagato 10 dollari a fiala, al contrario dell’UE che per ognuna ha versato 15,50 euro. Tuttavia, secondo le ONG si tratta comunque di un prezzo superiore a quello che sarebbe stato addebitato all’Unione africana, ovvero 6,75 dollari. Secondo Fatima Hassan, avvocato per i diritti umani e fondatrice dell’HJI, gli accordi sono prova di «pernicioso bullismo farmaceutico». Ha poi aggiunto: «I termini e le condizioni di questi contratti e accordi sono così unilaterali e così a favore delle multinazionali che sono incredibili». I contratti rivelano che J&J ha impedito al Sudafrica di imporre restrizioni all’esportazione di vaccini, poiché è stato impedito al Paese di donare o esportare dosi senza il consenso delle aziende. Nel contratto di Gavi invece, relativo ai vaccini che sarebbero stati consegnati nell’ambito del COVAX, non c’era alcuna garanzia sul numero di dosi o sulla data di consegna dei vaccini.

Per quanto riguarda il contratto Pfizer, L’Indipendente ha letto l’intero documento (disponibile in italiano a questo link) e riporta i passaggi più significativi di seguito:

 Pagina 7, sezione 2.1: «Nonostante gli sforzi e le eventuali date stimate stabilite nel Programma di consegna provvisorio, le Parti [Pfizer e l’Acquirente] riconoscono che il Prodotto ha completato gli studi clinici di Fase 2b/3 e che, nonostante gli sforzi di Pfizer nella ricerca, nello sviluppo e nella produzione, il prodotto potrebbe non avere successo a causa di problemi o guasti tecnici, clinici, normativi, di produzione, di spedizione, di conservazione o di altro tipo. Di conseguenza, Pfizer e le sue Affiliate non avranno alcuna responsabilità per l’eventuale mancato sviluppo o ottenimento dell’Autorizzazione del Prodotto da parte di Pfizer o delle sue Affiliate in conformità con le date stimate descritte nel presente Contratto».

Pagina 8, sezione 2.3: «Alla data di entrata in vigore, l’Acquirente dovrà presentare a Pfizer uno o più ordini di acquisto legalmente vincolanti e irrevocabili per 20.001.150 dosi del Prodotto. L’Acquirente può richiedere dosi aggiuntive durante la Durata del Contratto tramite uno o più Ordini di Acquisto legalmente vincolanti e irrevocabili, ma solo dopo essere stato informato che Pfizer ha la disponibilità di fornitura di tali dosi aggiuntive richieste».

Pagina 10, sezione 2.5: «Se viene ricevuta l’autorizzazione ma la fornitura non è sufficiente per consegnare l’intero numero di dosi contrattualmente previste nel programma di consegna provvisorio, anche nella misura in cui l’eventuale carenza sia dovuta all’esigenza di Pfizer di deviare la fornitura disponibile del Prodotto verso un altro mercato, Pfizer lavorerà in modo collaborativo per fornire avvisi. Dopo aver ricevuto tale notifica, l’Acquirente dovrà eseguire tempestivamente tutte le istruzioni stabilite nell’avviso».

Pagina 11, sezione 2.6: «In nessun caso Pfizer sarà soggetta o responsabile di penalità per ritardata consegna».

Pagina 13, sezione 2.8: «L’Acquirente riconosce che Pfizer non accetterà, in nessun caso, alcuna restituzione del Prodotto (o di qualsiasi dose). In particolare, dopo aver ricevuto il Prodotto in conformità ai termini del contratto, in nessun caso potrà avvenire la restituzione del Prodotto (compresi futuri cambiamenti di stock, Prodotti scaduti, modifiche nell’allocazione dei Prodotti, consegna, domanda o lancio di nuovi prodotti)».

Pagina 18, sezione 5.1: «L’Acquirente sarà responsabile di tutti i costi di qualsiasi rivendita o ritiro dal mercato del Prodotto in Sud Africa, inclusi, senza limitazione, i costi ragionevoli sostenuti da o per conto di Pfizer e delle sue affiliate o di BioNTech e delle sue affiliate, salvo nella misura in cui tale ricalibrazione o il ritiro dal mercato deriva da una condotta dolosa».

Pagina 20, sezione 5.5: «L’Acquirente riconosce che il vaccino e i materiali ad esso relativi, nonché i relativi componenti e materiali costitutivi sono in fase di rapido sviluppo a causa delle circostanze di emergenza della pandemia di COVID-19 e continueranno a essere studiati dopo la fornitura del vaccino all’Acquirente ai sensi del presente Contratto. L’Acquirente riconosce inoltre che gli effetti e l’efficacia a lungo termine del vaccino non sono attualmente noti e che potrebbero esserci effetti avversi del vaccino attualmente non noti. Inoltre, nella misura applicabile, l’Acquirente riconosce che il Prodotto non sarà serializzato».

Pagina 22, sezione 8.1: «L’Acquirente si impegna a indennizzare, difendere e tenere indenne Pfizer e BioNTech […] da e contro qualsiasi causa, rivendicazione, azione, richiesta, perdita, danno, responsabilità, transazione, sanzioni, multe, costi e spese (incluse, senza limitazioni, ragionevoli onorari di avvocati e altri consulenti legali e altre spese di un’indagine o di un contenzioso), siano essi derivanti da contratto, illecito civile, proprietà intellettuale o qualsiasi altra teoria, e siano essi legali, statutari, equitativi o altrimenti da qualsiasi persona fisica o giuridica.

Pagina 24, sezione 9.2: «La responsabilità complessiva di Pfizer e delle sue affiliate derivante da, ai sensi o in connessione con il presente Contratto non dovrà superare una somma equivalente al I00% del Prezzo totale effettivamente ricevuto da Pfizer ai sensi del presente Contratto per le Dosi Contrattate».

Pagina 26, sezione 9.6: «L’Acquirente dichiara di avere e continuerà ad avere un’adeguata autorità statutaria o regolamentare e adeguati stanziamenti di finanziamento per intraprendere e adempiere completamente agli obblighi di indennizzo e fornire un’adeguata protezione a Pfizer e a tutti gli indennizzati dalla responsabilità per sinistri e tutte le perdite derivanti da o in relazione al vaccino o al suo utilizzo».

Sebbene alcune di queste accuse fossero già state riportate da alcuni media e associazioni, la pubblicazione dei contratti non oscurati fornisce ulteriori prove concrete del fatto che le case farmaceutiche, partendo dalla loro posizione dominante in un momento di bisogno percepito, hanno imposto clausole pesanti agli Stati preservandosi allo stesso tempo da ogni possibile contenzioso e vietando agli Stati addirittura di vendere o regalare dosi prossime alla scadenza. [di Roberto Demaio]

Il colosso farmaceutico e la «strategia dei brevetti»: «Ha massimizzato i profitti rallentando lo sviluppo di un farmaco contro l’Hiv». Storia di Giuseppe Benedini su Il Corriere della Sera sabato 22 luglio 2023. 

Un’azienda farmaceutica è accusata di aver ritardato volontariamente lo sviluppo di una nuova versione di un suo farmaco, nonostante avesse prova del fatto che potesse essere più sicura per i pazienti, con l’intento di massimizzare i profitti, estendendo al massimo la vita del brevetto sulla precedente versione dello stesso farmaco. Secondo le rivelazioni del New York Times, che cita documenti interni, Gilead nel 2004 avrebbe deciso di interrompere la ricerca per un nuovo farmaco contro l’Hiv con l’intento di aumentare al massimo i profitti derivanti da un medicinale già in commercio - ma, in teoria, più dannoso per la salute dei pazienti. Gilead, che è una delle più grandi case farmaceutiche al mondo, sembra si sia avvalsa di quella che il New York Times definisce una tattica consolidata nel settore: sfruttare il sistema di brevetti degli Stati Uniti per proteggere monopoli redditizi sui farmaci più venduti. In quel periodo, Gilead aveva già due trattamenti di grande successo contro l’Hiv, entrambi basati su una versione di un medicinale chiamato tenofovir. Il primo di quei trattamenti sarebbe stato privo della protezione di un brevetto nel 2017, momento in cui i concorrenti avrebbero potuto introdurre alternative più economiche. Il farmaco che sarebbe stato «stoppato» nel 2004, all’epoca ancora nelle prime fasi di sperimentazione, era una versione aggiornata del tenofovir. Secondo il New York Times, i dirigenti di Gilead sapevano che aveva il potenziale per essere meno tossico per i reni e le ossa delle persone trattate rispetto alla precedente formulazione; un dato che emergerebbe anche dai memorandum interni scoperti dagli avvocati che stanno citando in giudizio Gilead a nome dei pazienti. Nonostante i possibili benefici, i dirigenti avrebbero concluso che la nuova versione rischiava, di fatto, di «competere» con il farmaco che l’azienda aveva già in vendita e ancora protetto da brevetti: se avessero ritardato il lancio del nuovo prodotto fino a poco prima della scadenza dei brevetti esistenti, l’azienda avrebbe quindi potuto aumentare notevolmente il periodo di tempo durante il quale almeno uno dei suoi trattamenti per l’Hiv sarebbe rimasto protetto dall’esclusiva. La «strategia di estensione dei brevetti», come viene chiamata ripetutamente nei documenti di Gilead citati dal New York Times, avrebbe permesso all’azienda di mantenere prezzi elevati per i suoi farmaci a base di tenofovir: così facendo l’azienda biofarmaceutica avrebbe potuto passare i pazienti al nuovo farmaco poco prima che sul mercato arrivassero i generici più economici. Una strategia che avrebbe permesso al tenofovir di valere miliardi per l’azienda e rimanere un successo commerciale per decenni. Gilead ha deciso di introdurre la nuova versione del farmaco solo nel 2015: dieci anni dopo quello che, secondo il quotidiano, sarebbe stato il possibile lancio sul mercato se l’azienda non ne avesse consapevolmente interrotto lo sviluppo, permettendo così al nuovo brevetto di avere validità fino almeno al 2031. Il ritardato rilascio del nuovo trattamento è ora oggetto di cause legali statali e federali in cui circa 26 mila pazienti che hanno assunto i vecchi farmaci per l’Hiv di Gilead sostengono che l’azienda li ha esposti inutilmente a problemi renali e ossei. Deborah Telman, vicepresidente esecutivo della Gilead, ha dichiarato che le decisioni della società in materia di ricerca e sviluppo sono sempre state e continuano a essere «guidate dalla volontà di fornire farmaci sicuri ed efficaci per le persone che li prescrivono e utilizzano. Gilead ha preso la decisione di interrompere lo sviluppo del farmaco nel 2004 perché in quel momento i dati non hanno dimostrato che fosse sufficientemente diverso dal tenofovir in termini di efficacia, sicurezza e tollerabilità per supportarne il continuo sviluppo. È inesatto affermare che la decisione di interrompere lo sviluppo sia stata basata» su una strategia sui brevetti. Secondo Iqvia, provider globale di informazioni, tecnologie innovative e servizi di ricerca clinica, specializzato nell’utilizzo di dati e competenze scientifiche per aiutare i clienti a identificare le migliori soluzioni per i propri pazienti, a oggi una generazione di costosi farmaci di Gilead che contengono la nuova iterazione di tenofovir rappresenta la metà del mercato dei trattamenti e della prevenzione dell’Hiv, con prezzi di listino che si avvicinano ai 26 mila dollari all’anno, quando le versioni generiche del suo predecessore, come il Truvada, i cui brevetti sono scaduti, costano ora meno di 400 dollari l’anno.

Tutti i soldi donati da Pfizer a medici, associazioni e ricercatori durante la pandemia. L'Indipendente il 21 Maggio 2023

Ci sono le associazioni dei pediatri che successivamente pubblicarono opuscoli e iniziative per incoraggiare a vaccinare i più piccoli, ci sono le fondazioni più attive nel diffondere consigli ed organizzare convegni sul tema Covid, ci sono anche gli istituti di ricerca dove lavorano alcuni dei virologi più spesso ospitati nei salotti televisivi. Questo e molto altro si trova nel documento "Pubblicazione dei trasferimenti di valore" rilasciato da Pfizer Italia, e all'interno del quale si trova l'elenco di tutte le donazioni e sovvenzioni elargite dalla multinazionale farmaceutica americana. In...

Finanziamenti pubblici, profitti privati: uno studio fa i conti sui vaccini Covid. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 28 marzo 2023.

I finanziamenti forniti dagli Stati per la ricerca, lo sviluppo e l’ampliamento della capacità di produzione dei vaccini anti Covid-19 sono stati alquanto corposi, ma nonostante ciò diverse aziende farmaceutiche hanno fissato i prezzi senza tenerne conto e sono arrivate a guadagnare ingenti somme di denaro in barba ai fondi messi a disposizione dai contribuenti: è quanto si desume da un recente studio richiesto dalla Commissione speciale sulla pandemia di Covid-19 (COVI) del Parlamento Europeo. Dopo aver esaminato nove differenti vaccini anti Covid-19, dalla ricerca è emerso che dal 2020 all’inizio del 2022 i finanziamenti esterni, provenienti prevalentemente dai governi ed in particolar modo dagli Stati Uniti, ammontavano a 9 miliardi di euro, con una media di un miliardo per ciascun vaccino seppur con “notevoli differenze tra le aziende”. Non solo, perché queste ultime hanno altresì ottenuto “quasi 21 miliardi di euro grazie agli accordi preliminari di acquisto (APA)”, con il sostegno dell’UE e dei suoi Stati membri che è stato “fondamentale per ridurre il rischio degli investimenti nella produzione dei vaccini”.

Dati alquanto rilevanti, soprattutto se si considera che i finanziamenti delle aziende sembrano non reggere il confronto con i finanziamenti esterni pari a 30 miliardi di euro. “Sebbene le informazioni sulle spese per la ricerca e lo sviluppo sostenute dalle aziende per i vaccini anti Covid-19 non siano disponibili per il pubblico, si stima che si aggirino intorno ai 4-5 miliardi di euro per il periodo 2020-2021”: questo si legge infatti nello studio, in cui viene poi sottolineato che “governi ed altri attori pubblici rappresentano oltre l’80% del totale dei fondi esterni assegnati“. Un forte sostegno pubblico, dunque, che riducendo i rischi per le società ha conseguentemente “aumentato i rendimenti per gli investitori, soprattutto per le aziende che non hanno dichiarato di fissare il prezzo della dose in base ai costi”. E l’aumento a quanto pare è stato notevole: basterà ricordare che alcuni finanziamenti ed i quasi 21 miliardi di euro di accordi preliminari di acquisto (APA) – firmati prima dell’approvazione dei vaccini – potrebbero aver contribuito a ridurre il rischio di “circa 11 miliardi di euro di investimenti aziendali per la capacità di produzione dei vaccini fino al 2021″. Una riduzione a cui avrebbe partecipato in maniera importante l’Unione europea, la quale fino al 2021 aveva firmato con i produttori dei vaccini “8 APA per un totale di 1,3 miliardi di dosi”, che secondo una stima basata sulle informazioni trapelate in merito al prezzo per dose avevano un valore totale di “circa 6,8 miliardi di euro”.

Sarebbe quindi sbagliato sostenere che i guadagni realizzati dalle aziende grazie alla vendita dei vaccini (in alcuni casi pari a decine di miliardi di euro) siano in qualche modo accettabili in virtù del rischio finanziario dalle stesse assunto. Come visto, infatti, il rischio assunto dal settore pubblico è stato anche superiore a quello delle aziende, che mediamente hanno ricevuto importanti finanziamenti esterni. Alcune società, però, hanno goduto in maniera maggiore degli stessi: basterà ricordare il caso dell’azienda statunitense Moderna, per la quale la “percentuale dei finanziamenti pubblici rispetto ai finanziamenti totali” è stata del 100%. Un dato che inevitabilmente cattura l’attenzione, soprattutto se si considera la recente volontà dell’azienda di far corrispondere a circa 130 dollari il prezzo del suo vaccino negli Stati Uniti, facendolo aumentare di quattro volte. Una scelta ancor più rilevante se si tiene conto delle parole pronunciate dall’amministratore delegato di Moderna Stéphane Bancel, il quale in seguito alle prime notizie circolate nelle scorse settimane ha da un lato ammesso che il finanziamento pubblico «ha accelerato lo sviluppo del vaccino» ma dall’altro giustificato la decisione affermando che «la piattaforma mRNA dell’azienda è stata finanziata da investitori e non dal governo», aggiungendo che «uno stabilimento aziendale è stato costruito prima della pandemia con finanziamenti privati». Il fatto che successivamente siano arrivati finanziamenti pubblici notevoli evidentemente non conta, ed è forse anche per questo che lo studio parla del bisogno di “evitare che la futura scienza dei vaccini sostenuta dai contribuenti venga completamente privatizzata senza alcuna garanzia in materia di diritti di proprietà intellettuale (DPI), distribuzione equa e prezzi accessibili”. E di trasparenza sui dati, aggiungiamo noi. [di Raffaele De Luca]

Il grande affare dei vaccini Covid: gli stati pagano la ricerca, Big Pharma decide e incassa miliardi. Stati Uniti ed Europa hanno investito trenta miliardi nei farmaci contro la pandemia: le multinazionali solo 16, hanno realizzato profitti per oltre 90 e possono alzare i prezzi. I risultati di un’indagine commissionata dalla commissione europea al professore della Statale di Milano, Massimo Florio. Gloria Riva su L’Espresso il 24 marzo 2023.

Trenta miliardi. È questa la cifra che gli Stati, Usa e Unione Europea in primis, hanno speso per finanziare la ricerca e lo sviluppo dei vaccini. Mentre le case farmaceutiche, che si sono arricchite vendendo i risultati di quegli investimenti pubblici, hanno messo di tasca propria solo 16 miliardi per la ricerca e sviluppo. A posteriori, nei due anni successivi all’inizio della pandemia, le principali multinazionali farmaceutiche Pfizer, BioNTech, Moderna e Sinovac hanno registrato profitti per circa 90 miliardi di dollari dalla vendita di vaccini e farmaci contro il Covid-19. 

È questo il dato emerso da uno studio commissionato dal Parlamento Europeo e dalla Commissione speciale sugli insegnamenti da trarre dalla pandemia ai docenti di Scienze della Finanza dell'Università di Milano, Massimo Florio, Simona Gamba e a Chiara Pancotti del Center of Industrial Studies, Csil.

Trenta miliardi sono stati investiti dal pubblico, senza tuttavia avere alcuna voce in capitolo sulle decisioni economiche fondamentali e costretti, oltretutto, a sottostare a qualsiasi variazione di prezzo stabilita dalle multinazionali: al punto che, in base all'indagine della Corte dei Conti Europea, il Vecchio continente ha speso altri 71 miliardi per 4,6 miliardi di dosi di vaccino, con contratti di acquisto anticipato. Si tratta, di fatto, della spesa più onerosa per il bilancio europeo di tutti i tempi.

Lo studio del professor Florio ha dimostrato «la forte prevalenza del rischio finanziario assunto dal pubblico, cioè dai cittadini, rispetto al privato nella produzione dei vaccini contro Covid-19. Un rischio a cui non ha corrisposto un potere di decisione sui prezzi e sulla distribuzione, con gravi oneri per l’interesse collettivo».

Si tratta di una realtà del tutto diversa dalla narrazione secondo cui i risultati ottenuti con i vaccini si devono soprattutto agli investimenti “a rischio” assunti dalle imprese farmaceutiche, perché assunti ancor prima di sapere se i vaccini funzionassero o meno.

Per i nove vaccini esaminati dallo studio, la ricerca ha stimato che le imprese hanno realizzato investimenti di cinque miliardi di euro per ricerca e sviluppo e di undici miliardi per investimenti produttivi prima di avere certezza di vendita, per un totale di 16 miliardi. A fronte di essi, dall’esterno, in quasi completa provenienza dagli Stati, sono arrivate alle imprese sovvenzioni a fondo perduto di nove miliardi per ricerca e sviluppo, con un'enorme variabilità fra imprese riceventi , e ventuno miliardi di advanced purchase agreements, cioè degli accordi di acquisto prima dell’autorizzazione dei vaccini stessi, per un totale di 30 miliardi.

«Quindi la maggior parte del rischio finanziario che ha consentito la realizzazione dei nove vaccini esaminati è stata assunta dal settore pubblico, non dalle imprese» ha commentato Fabrizio Barca, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, che continua: «Questo dato nega, in primo luogo, che gli elevatissimi extra-profitti realizzati dalle imprese farmaceutiche nella vendita dei vaccini siano in qualche misura giustificati dal rischio di mercato da loro assunto. Addirittura, per alcune multinazionali i profitti sono stati di svariate decine di miliardi. Mentre, un rischio due volte maggiore è stato assunto dagli Stati, con mezzi delle persone contribuenti (di oggi e di domani). Ma a fronte di tale rischio gli Stati non hanno esercitato la funzione di governo e controllo delle decisioni di prezzo e distribuzione che competono a chi si assume la maggioranza del rischio».

Quei soldi avrebbero potuto essere spesi diversamente, ad esempio i governi avrebbero potuto investire sul rafforzamento dei sistemi sanitari pubblici. Una distorsione che rischia di aggravarsi ulteriormente nell’immediato futuro, visto che Moderna e Pfizer hanno annunciato di volere quintuplicare il prezzo a dose portandolo a circa 100 dollari dagli attuali 20,e che l’immunizzazione dura solo pochi mesi. Per cui si ricomincerà a dover pagare un conto illimitato. Per di più, argomenta lo studio, senza che i fortissimi differenziali di prezzo fra i diversi vaccini siano accompagnati da alcuna valutazione delle differenze nella loro efficacia.

«È evidentemente necessaria una forte correzione di rotta per affrontare in tutt’altro modo i possibili sviluppi dell’attuale pandemia e ogni simile emergenza», argomenta Massimo Florio, che è docente di Economia alla Statale di Milano e membro del Forum DD, che continua: «La scelta sin qui compiuta dall’Unione Europea non va in questa direzione, ma conferma la logica delle sovvenzioni pubbliche in attività di ricerca e sviluppo su cui gli Stati non hanno voce. Occorre un intervento pubblico europeo per prevedere e affrontare le prossime pandemie e per altre emergenze già visibili. In campi cruciali per la salute, serve la messa a punto di farmaci, vaccini, diagnostica e altri rimedi, da offrire ai cittadini come beni comuni: con ricerca e sviluppo anche in collaborazione con imprese private, ma mantenendo fermamente sotto controllo pubblico la proprietà intellettuale e le decisioni strategiche su tutto il ciclo dell’innovazione biomedica e del farmaco in quei campi».

Lo studio argomenta che nell’immediato è necessario normare a livello Europeo la condivisione delle decisioni di prezzo e distribuzione fra privato e pubblico in relazione all’entità dei rispettivi investimenti. A regime, la strada appropriata è quella di avviare la costruzione di un’infrastruttura pubblica, come quella proposta nello studio precedente Biomed Europa, svolto dagli stessi economisti per lo Science and Technology panel del Parlamento Europeo, a partire da una idea maturata già nel 2019 nel ForumDD.

Le pressioni di Bill Gates per produrre più vaccini e quel ruolo nell'Oms. Il magnate è tornato a parlare del Covid e del rischio di nuove pandemie sul New York Times. Ecco il piano dell'ex capo di Microsoft. Mauro Indelicato il 23 marzo 2023 su Il Giornale.

Nei prossimi giorni l'Oms potrebbe dichiarare ufficialmente la fine della pandemia da Sars-Cov2. I vari enti sanitari internazionali hanno già declassato come influenza comune la diffusione dell'agente patogeno che, a partire dal 2020, ha tenuto sotto scacco le economie più avanzate. Per Bill Gates, fondatore di Microsoft e noto per i suoi impegni a favore della diffusione dei vaccini, non è però il momento di abbassare la guardia. E anzi, il magnate invoca sistemi di controllo internazionali per la prevenzione delle prossime pandemie. Con riguardo soprattutto all'implementazione proprio dei vaccini.

Le parole di Bill Gates sul New York Times

Gates non è nuovo a frasi relative non solo all'ultima pandemia, ma anche a quelle passate. Nel 2015 ha pronosticato l'insorgere di virus in grado di mettere in difficoltà i sistemi sanitari dei Paesi più avanzati. Intervistato dal New York Times, il magnate ha parlato dell'importanza di agire sulla prevenzione.

"Immaginate che ci sia un piccolo incendio nella vostra cucina - ha dichiarato nell'intervista - L'allarme antincendio scatta, avvertendo tutti i vicini del pericolo. Qualcuno chiama il 911, cercate di spegnere il fuoco da soli, magari con un estintore sotto il lavello. Se non funziona, sapete come evacuare in sicurezza. Quando arrivate fuori, un'autopompa sta già arrivando. I pompieri usano l'idrante di fronte a casa vostra per spegnere le fiamme prima che le abitazioni dei vostri vicini prendano fuoco".

Un esempio usato proprio per paragonare future pandemie a futuri incendi in grado di colpire nuovamente l'intero pianeta. "Ecco - ha proseguito Bill Gates - dobbiamo prepararci a combattere le epidemie proprio come facciamo con gli incendi. Se un rogo viene lasciato divampare senza controllo, rappresenta una minaccia non solo per una casa, ma per un'intera comunità. Lo stesso vale per le malattie infettive, ma su scala molto più ampia".

Prevenzione è quindi la parola d'ordine. Secondo il fondatore della Microsoft, il Covid ha contribuito a far bruciare almeno mille miliardi di Dollari in tre anni e in futuro una nuova pandemia potrebbe costare ancora più caro. La ricetta propagandata da Gates, si articolerebbe in due punti fondamentali. In primo luogo, occorrerebbe "un sistema ben finanziato che sia pronto a scattare appena emerge il pericolo". Per realizzarlo, i volontari non bastano. Servirebbe, sempre secondo il magnate, andare oltre fino alla creazione di un "corpo di professionisti in ogni Paese per controllare i focolai ovunque si manifestino".

Poi, in secondo luogo, Bill Gates ha parlato dell'importanza dei vaccini. "Preferirei spendere miliardi per i vaccini - ha detto - piuttosto che per viaggiare su Marte". Chiara in questo passaggio una stoccata lanciata agli altri "paperoni", in primis Elon Musk e Jeff Bezos. Sui vaccini, il magnate si è lungamente speso sia durante il Covid che negli anni precedenti.

Nell'intervista, spazio anche ad alcune dichiarazioni in cui Gates risponde alle accuse di complotto nei suoi confronti. "Le persone cercano un capro espiatorio per l'emergenza Covid - ha dichiarato - ma i complotti sono una spiegazione troppo semplicistica. La malevolenza è molto più facile da capire della biologia".

Il ruolo del fondatore Microsoft nell'Oms

Bill Gates nell'intervista ha anche difeso il ruolo dell'Oms, considerato essenziale anche in chiave futura. Anche se, come riferito al New York Times, l'ente dovrebbe essere affiancato da squadre di professionisti in grado di rilevare in anticipo focolai infettivi e monitorare costantemente la situazione.

Le parole del fondatore di Microsoft hanno un valore anche di natura politica. Noto per le sue campagne a favore dei vaccini, Bill Gates ha però parlato non solo in quanto personaggio pubblico ma anche in quanto attore di primo piano all'interno dell'Oms. La sua fondazione, la Bill&Melinda Gates Foundation, rappresenta l'ente privato più importante nella voce di bilancio dell'organizzazione mondiale della sanità. Da sola, contribuisce a quasi il 10% dell'intero budget dell'Oms. Pochi punti percentuali in meno rispetto ai fondi stanziati dal governo degli Stati Uniti, i quali ammontano al 15% del bilancio.

Proprio il peso di Gates nell'organizzazione rappresenta ad oggi uno dei temi più discussi. L'Oms è finanziata solo per il 15% dalle quote spettanti a ogni singolo Stato. Considerando anche le donazioni dei vari governi, solo poco più della metà dei soldi necessari a mantenere in vita l'ente arriva dai governi membri. L'Oms deve quindi attingere sempre di più dagli attori privati.

Il rischio, paventato da diversi analisti, è che il crescente peso dei privati, e della fondazione del magnate della Microsoft in particolare, possa dirottare l'Oms verso scelte più vicine agli interessi dei singoli donatori. Allontanandosi in tal modo dagli interessi pubblici e dalle direttive degli Stati membri.

Il Covid volge al termine? Pfizer vara il piano per confermare profitti record. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 6 Febbraio 2023.

Dopo aver incassato profitti da capogiro nel 2022 grazie alla vendita del suo vaccino anti-Covid a mRna, il colosso farmaceutico Pfizer – BioNTech prevede una diminuzione degli utili per l’anno corrente anche a causa della minore richiesta di vaccini da parte degli Stati che hanno scorte significative di sieri ancora da smaltire nei magazzini, ma non solo: il virus si è addomesticato e non fa più così paura. I medici spiegano che i casi gravi sono quasi spariti e sempre meno persone si sottopongono all’inoculazione: di conseguenza al ridimensionarsi dell’emergenza sanitaria, si sgonfia anche il business da record di uno dei principali colossi produttori di vaccini. Se da un lato, infatti, l’Ad del colosso farmaceutico, Albert Bourla, ha descritto il 2022 come «un anno di record», in termini di ricavi e di “soddisfazione” dei pazienti, dall’altro, ha definito il 2023 come «un anno di transizione» che dovrebbe condurre l’azienda verso un nuovo boom atteso per il 2024, anno durante il quale la società si attende una ripresa dei profitti.

Nel 2022 Pfizer ha realizzato un fatturato di 100,3 miliardi di dollari, cifra mai raggiunta prima, per un utile netto di 31 miliardi di dollari, mentre l’utile per azione è stato di 6,58 dollari: rispetto all’anno precedente, il fatturato è aumentato del 23%, i profitti sono saliti del 43% a 31,3 miliardi di dollari e l’utile per azione del 62% a 6,58 dollari. Per il 2023, invece, è previsto un forte calo con un fatturato che oscilla tra 67 e 71 miliardi di dollari, con un utile per azione tra i 3,25 e i 3,45 dollari. I ricavi dei prodotti anti-Covid però, secondo le dichiarazioni della compagnia, dovrebbero riprendere a salire nel 2024 con la fine delle scorte accumulate. Bourla ha dichiarato che il 2022 è stato «un anno di record, non solo in termini di ricavi e di utile per azione, che sono stati i più alti di sempre, ma soprattutto in termini di percentuale di pazienti che hanno avuto una percezione positiva su di noi e sul nostro lavoro».

Le prospettive per il 2023 sono meno rosee rispetto a quelle del 2022 anche a causa della fine del programma di acquisto vaccini e di prodotti anti-Covid da parte del governo americano, oltreché per il fatto che la domanda di sieri a mRna è calata con lo scemare della pandemia, mentre i governi acquistano meno lotti sia a causa della diminuzione della domanda sia per il fatto che molti vaccini acquistati non sono ancora stati utilizzati. Un quadro che ha lasciato gli analisti delusi circa le performance dell’anno in corso: la flessione dei ricavi, infatti, si prospetta più profonda del previsto e ciò spiega anche le resa non particolarmente brillante del titolo in borsa dopo la diffusione dei dati, prima in calo e poi intorno alla parità. Anche per il farmaco antivirale Paxlovid ci si aspetta un calo della domanda. Nel dettaglio, Pfizer prevede che nel 2023 le vendite dei vaccini crolleranno del 64%, per un valore di circa 13,5 miliardi di dollari, mentre quelle del Paxlovid caleranno del 58%, per un valore di circa 8 miliardi di dollari.

Tuttavia, l’azienda si è detta fiduciosa per il 2024, grazie al lancio di un gran numero di nuovi prodotti. Bourla ha dichiarato, infatti, che «I prossimi saranno i 18 mesi più importanti nella storia di Pfizer perché faremo qualcosa che non è mai stato fatto prima. Lanceremo 19 novità. La maggior parte di essi sono nuovi prodotti e alcuni di essi sono nuove indicazioni di prodotti esistenti. Secondo le nostre stime, questi nuovi lanci produrranno nel 2030 un fatturato di circa 20 miliardi di dollari.» La società si sta, dunque, riposizionando da un mercato governativo a un mercato privato, tornando alla normalità. Sebbene la speranza sia quella di raggiungere di nuovo le cifre record del 2022, sarà difficile che con l’attenuarsi della pandemia e con la fine dei contratti d’acquisto sottoscritti dagli Stati il colosso farmaceutico potrà eguagliare nuovamente le cifre dell’anno passato. «Nel 2022 abbiamo venduto a prezzi da pandemia più cicli di trattamento di quanti ne siano stati utilizzati alla fine. Ciò ha portato a una creazione di scorte governative che prevediamo venga assorbita nel 2023, probabilmente nella seconda metà. In quel periodo, prevediamo di iniziare a vendere Paxlovid attraverso i canali commerciali a prezzi commerciali», ha spiegato Bourla.

Allo stesso tempo, il presidente della società ha delineato degli scenari che nel 2030 potrebbero portare il produttore di farmaci a 84 miliardi di dollari di ricavi – o 70 in uno scenario meno ottimistico – esclusi però i farmaci per il COVID (vaccini e Paxlovid). Per raggiungere questi obiettivi di fatturato, l’azienda sta ampliando la gamma di prodotti farmaceutici con un gruppo di novità che comprende, tra gli altri, due vaccini contro l’RSV per donne incinte e per soggetti anziani, l’anticorpo bispecifico anti BCMA Elranatamab nel mieloma multiplo resistente o refrattario, Ritlecitinib nell’alopecia areata e numerosi altri prodotti.

Pfizer punta tutto, dunque, sull’investimento di nuovi prodotti farmaceutici in quanto con l’indebolirsi dell’emergenza pandemica il business dei vaccini si è sgonfiato: l’azienda deve, dunque, tornare alla normalità adottando prezzi commerciali e strategie ordinarie per pompare i ricavi nella speranza di ripetere le cifre record del 2022 raggiunte grazie ad accordi con gli Stati tuttora segretati. Allo stesso tempo, mentre Pfizer dichiara di avere effettuato incassi stellari e programma gli investimenti da qui al 2030, emergono sempre più studi scientifici (messi alla pubblica gogna) che evidenziano l’aumento o l’aggravarsi di determinate patologie a seguito della vaccinazione coi sieri a mRna. [di Giorgia Audiello]

Vaccini Covid e richiami: ora l’attacco a Pfizer e Moderna arriva dal Wall Street Journal. Iris Paganessi su L'Indipendente il 27 Gennaio 2023

La campagna ingannevole dei booster Covid bivalenti” così il WSJ ha intitolato l’editoriale pubblicato il 22 gennaio, nel quale ha definito “ingannevole” la pubblicità radiofonica sponsorizzata dal Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, secondo la quale i vaccini bivalenti contro il Covid 19 migliorerebbero la protezione contro il virus. 

Il commento, che reca la firma di Allysia Finley, attacca le case farmaceutiche Pfizer e Moderna chiamando in causa le diverse questioni scientifiche contrarie a questa tesi. 

Infatti, se inizialmente i vaccini a mRNA potevano essere considerati vantaggiosi per i produttori – che in poco tempo avrebbero potuto modificare la sequenza genetica e produrre rapidamente nuovi vaccini mirati a nuove varianti (è il caso dei booster bivalenti BA.4 e BA.5)-, ora tempo e studi hanno portato a galla tre problemi scientifici: “In primo luogo” scrive Finley “il virus si evolve molto più velocemente di quanto i vaccini possano essere aggiornati; in secondo luogo, i vaccini hanno cablato il nostro sistema immunitario per rispondere al ceppo originario di Wuhan, quindi produciamo meno anticorpi che neutralizzano le varianti mirate dai vaccini aggiornati; in terzo luogo, gli anticorpi si esauriscono rapidamente dopo pochi mesi”. 

L’editoriale del WSJ cita anche due studi del New England Journal of Medicine in cui viene dimostrata la contraddizione fra ciò che dice la scienza, quella libera dai dogmi, e ciò che dicono le aziende farmaceutiche: “I comunicati stampa di novembre di Pfizer e Moderna, in cui si afferma che i loro bivalenti hanno prodotto una risposta alle varianti BA.4 e BA.5 da quattro a sei volte superiore a quella dei booster originali, sono fuorvianti”. – si legge nell’editoriale – “Nessuno dei due produttori di vaccini ha condotto uno studio randomizzato. Hanno testato i booster originali lo scorso inverno, molto prima dell’ondata di BA.5 e da quattro mesi e mezzo a sei mesi dopo che i partecipanti allo studio avevano ricevuto la terza iniezione. I bivalenti, invece, sono stati testati dopo che il BA.5 ha iniziato ad aumentare, da 9 mesi e mezzo a 11 mesi dopo che i partecipanti avevano ricevuto la terza iniezione”. 

La giornalista del WSJ se la prende duramente (e giustamente, a detta di chi scrive) con FDA e CDC perché non hanno fatto nulla per evitare un’inutile corsa al vaccino. “Ma perché avrebbero dovuto? – chiede provocatoriamente –  Hanno un interesse personale a promuovere i bivalenti”. E spiega: “A giugno la Food and Drug Administration ha ordinato ai produttori di vaccini di aggiornare i booster contro BA.4 e BA.5 e a fine agosto si è affrettata ad autorizzare i bivalenti prima che fossero disponibili i dati clinici. I Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno raccomandato i bivalenti per tutti gli adulti, senza alcuna prova della loro efficacia o necessità. I produttori di vaccini avrebbero potuto eseguire piccoli studi randomizzati la scorsa estate […] e i risultati sarebbero stati disponibili entro la fine di settembre. Ma le autorità sanitarie non hanno voluto aspettare e ora sappiamo perché”. E ancora: “A novembre il CDC ha pubblicato uno studio che stimava che i bivalenti erano efficaci contro l’infezione solo dal 22 al 43% durante l’ondata BA.5, il loro picco di efficacia. Quando gli anticorpi sono diminuiti e nuove varianti sono subentrate nel corso dell’autunno, la loro protezione contro l’infezione è probabilmente scesa a zero”. 

Allora perché il booster è stato fortemente raccomandato e distribuito, nonostante l’assenza di studi e a prescindere da questi risultati?

Abbiamo bisogno di leader onesti” conclude Finley. [di Iris Paganessi]

Il Parlamento europeo si muove contro Pfizer e von der Leyen. Raffaele De Luca su L'Indipendente su il 13 Gennaio 2023.

A causa delle zone d’ombra legate al più grande contratto europeo sui vaccini anti-Covid, il quale prevedeva la fornitura di 1,8 miliardi di dosi, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e l’azienda farmaceutica Pfizer sono finiti nel mirino degli eurodeputati a capo della commissione speciale del Parlamento europeo sul Covid-19. Questi ultimi, infatti, hanno deciso di chiedere a von der Leyen di comparire pubblicamente davanti alla commissione, con l’obiettivo di indagare sul ruolo da ella svolto nell’ambito della negoziazione dell’imponente contratto. A rivelarlo è stato il quotidiano statunitense Politico, che sulla base di una dichiarazione rilasciatagli in esclusiva dalla presidente della commissione speciale sul Covid-19, Kathleen Van Brempt, ha fatto sapere che gli eurodeputati non solo hanno deciso di muoversi contro von der Leyen, ma appunto anche contro la multinazionale Pfizer. Van Brempt, infatti, ha affermato che la commissione chiederà altresì di revocare il privilegio di accedere al Parlamento europeo all’azienda farmaceutica, in seguito al rifiuto da parte del suo presidente Albert Bourla di rendere testimonianza.

Sia nel mese di ottobre 2022 che in quello di dicembre 2022, infatti, Bourla ha scelto di non partecipare alle audizioni sui contratti, e mentre nella prima occasione Pfizer era stata rappresentata da Janine Small – presidente della sezione dell’azienda dedicata allo sviluppo dei mercati internazionali – il secondo invito è stato rispedito al mittente da Bourla in maniera ancora più drastica. «Dopo l’udienza Covid di ottobre, non abbiamo ulteriori informazioni da condividere con il Comitato, quindi decliniamo rispettosamente l’invito a parlare nuovamente di questi problemi»: questo avrebbe infatti fatto sapere il presidente di Pfizer tramite una lettera datata 2 dicembre e visionata da Politico.

Eppure, a quanto pare della negoziazione del contratto si sa poco e niente, se non che sembrerebbe non essersi basata sulle procedure negoziali standard adottate per la stipula di altri accordi, al punto tale da aver da tempo attirato l’attenzione di due organi di vigilanza che stanno indagando sui fatti: l’Ombudsman europeo, guidato da Emily O’Reilly, e la Corte dei conti Ue. Nella vicenda, inoltre, risulta essere coinvolta proprio la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che insieme al numero uno di Pfizer potrebbe aver infranto le regole. Il rapporto della Corte dei conti europea ha rilevato, infatti, che von der Leyen sarebbe stata coinvolta direttamente nei negoziati preliminari per il grande contratto che prevedeva la fornitura di 1,8 miliardi di dosi, mentre la procedura negoziale generalmente seguita prevede colloqui esplorativi condotti da una squadra negoziale congiunta composta da funzionari della Commissione e dei Paesi membri.

Oltre a ciò, la Commissione ha rifiutato di fornire le prove delle trattative con Pfizer, tra cui soprattutto gli sms scambiati tra von der Leyen e Bourla in vista del contratto, che l’istituzione europea ha dichiarato di non poter recuperare. La questione degli sms era stata sollevata nell’aprile del 2021, quando il New York Times aveva riferito dello scambio di messaggi tra von der Leyen e Bourla e la relativa richiesta di renderli pubblici. Così, nel momento in cui Bruxelles ha fatto sapere di non poterli rendere accessibili poiché non erano stati conservati, è stata effettuata una denuncia presso il mediatore europeo, giustificata dal fatto che gli sms rientrano nel concetto di “documento”, previsto dal regolamento 104/2001. Ad aggiungere altra carne al fuoco, infine, è stata la Procura europea, che lo scorso ottobre ha fatto sapere di aver aperto un’indagine sugli acquisti di vaccini anti-Covid 19 da parte dell’UE.

È in tale contesto, dunque, che si colloca l’intenzione degli eurodeputati di interrogare von der Leyen e di revocare l’accesso al Parlamento a Pfizer. Nel primo caso, l’invito dovrà essere inviato alla Presidente del Parlamento Roberta Metsola, la quale deciderà poi se chiedere a von der Leyen di partecipare all’udienza: certo, esso non avrebbe in ogni caso alcun valore legale e, così come fatto da Bourla, von der Leyen potrebbe rispedirlo al mittente, tuttavia ciò non farebbe che rendere ancor più enigmatica la posizione della presidente. Per trasformare in realtà la revoca nei confronti di Pfizer, invece, la richiesta dovrebbe superare alcune procedure interne al Parlamento, e solo successivamente si verificherebbe la stessa situazione verificatasi nel 2017, quando ai lobbisti della Monsanto venne vietato l’ingresso in Parlamento dopo che la multinazionale si era rifiutata di partecipare a un’audizione parlamentare. Certo, i singoli eurodeputati potrebbero continuare a far accedere i lobbisti di Pfizer come ospiti privati, motivo per cui il provvedimento sarebbe soprattutto simbolico. Tuttavia, non prendere tale decisione non potrebbe che minare ulteriormente la credibilità delle istituzioni europee.

[di Raffaele De Luca]

La Florida mette sotto indagine i produttori di vaccini a mRNA. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 24 Dicembre 2022

La Corte Suprema della Florida ha approvato la richiesta del governatore Ron DeSantis di istituire un gran giurì per indagare sui produttori di vaccini Covid-19. All’interno della petizione diffusa da DeSantis a inizio dicembre, infatti, questi sosteneva che istituzioni ed esperti avessero spinto la cittadinanza a vaccinarsi «per un guadagno finanziario». «L’amministrazione Biden e le multinazionali farmaceutiche continuano a spingere la distribuzione su larga scala dei vaccini a base di mRNA sul pubblico, compresi i bambini di 6 mesi, attraverso una propaganda incessante che ignora gli eventi avversi reali» ha dichiarato il governatore nel corso di una tavola rotonda, nella quale ha esposto le proprie motivazioni.

All’interno della propria petizione scritta, DeSantis riporta diversi esempi di dichiarazioni contraddittorie rilasciate durante la pandemia dalle case farmaceutiche. Tra queste, il fatto che «Nel gennaio 2021 il CEO di Moderna Stephane Bancel ha dichiarato ‘il decadimento degli anticorpi generato dal vaccino negli esseri umani procede molto lentamente’ e ‘riteniamo vi sarà protezione potenzialmente per un altro paio d’anni’. Eppure, nemmeno un anno dopo, Bancel annunciò che studi clinici indicavano un maggiore rischio di contagi post vaccino ‘illustrano l’impatto del declino dell’immunità e sostengono la necessità di un richiamo per mantenere alti i livelli di protezione’», o anche il fatto che «Solo un mese fa, un dirigente di Pfizer ha confermato nel corso di un’audizione di fronte al Parlamento Europeo, che la compagnia non ha testato i suoi vaccini contro il Covid-19 prima che entrassero nel mercato per determinare se prevenissero la trasmissione del Covid o meno». O ancora: «Bourla [ad di Pfizer, ndr] ha twittato che una forma grave di Covid-19 fosse ‘rara nei bambini’, mentre insisteva nel dire che ‘una vaccinazione estesa è uno strumento critico per fermare il contagio’. Tuttavia, appena tre mesi dopo, Bourla ha dichiarato che la variante Delta costituisse una ‘sostanziale minaccia’ per i bambini».

«L’industria farmaceutica ha una storia celebre di inganni al pubblico per guadagno finanziario» sostiene DeSantis, il quale ha quindi ritenuto vi fossero «buone e sufficienti ragioni» per «convocare un gran giurì nazionale per indagare sulle attività criminali o errate in Florida correlate con lo sviluppo, la promozione e la distribuzione dei vaccini che si supponeva prevenissero l’infezione, i sintomi e il contagio da Covid-19».

La Corte Suprema della Florida ha ora accolto la richiesta del governatore, ordinando che fosse convocato il gran giurì a livello nazionale e per 12 mesi dalla data di convocazione, “per indagare sui crimini, formulare accuse, fare presentazioni e svolgere in altro modo tutte le funzioni di un gran giurì in relazione ai reati indicati”. La giuria, che sarà presieduta dal giudice Ronald Ficarrotta, avrà giurisdizione in tutto lo Stato della Florida ed indagherà i gruppi coinvolti nella progettazione, nello sviluppo, nei test clinici, nella commercializzazione e nella distribuzione di vaccini anti Covid-19 per scandagliare “qualsiasi illecito”. In particolare, verrà analizzata l’attività di Pfizer-BioNTech e Moderna, dei loro dirigenti e altre associazioni ed organizzazioni mediche coinvolte nel lancio dei vaccini nello Stato della Florida, compresi quelli responsabili della progettazione, dello sviluppo, dei test, del marketing, dell’etichettatura, della distribuzione, della vendita, dell’acquisto, della donazione e dell’amministrazione dei vaccini. [di Valeria Casolaro]

I Rischi.

Stefano Paternò morì per il vaccino, ma per pm e giudici non ci sono colpevoli. Stefano Baudino su L'Indipendente martedì 24 ottobre 2023.

La morte del 43enne Stefano Paternò, sottufficiale della marina militare di Augusta, fu correlata con l’inoculazione del vaccino Astrazeneca, avvenuta 12 ore prima del decesso – datato 9 marzo 2021 -, ma per il suo caso non ci saranno colpevoli. Nonostante la perizia disposta dal pubblico ministero avesse fin da subito attestato che la morte del militare fosse stata provocata dal vaccino, infatti, la Procura aveva chiesto l’archiviazione degli indagati, sostenendo che non siano state violate norme penali. Dopo aver archiviato la posizione di un medico, di un infermiere dell’ospedale militare di Augusta e di un medico del 118 intervenuto nella casa di Paternò tentando di rianimarlo – tutti indagati per omicidio colposo -, il gip del Tribunale di Siracusa negli scorsi giorni ha in ultimo disposto anche l’archiviazione per Lorenzo Wittum, l’amministratore delegato di AstraZeneca. “Il decesso è ascrivibile alla risposta individuale al vaccino indotto da uno stato di sensibilizzazione al Sars-Cov-2, contratto in via asintomatica – ha scritto il gip di Siracusa, Carmen Scapellato, nel decreto con cui ha disposto l’archiviazione – ma dalle “complesse e articolate indagini è emerso” che “sono state compiute regolarmente le attività di trasporto, consegna e stoccaggio del vaccino” e che il lotto al centro dell’inchiesta “non presentava in sé alcuna anomalia”.

La prima dose del vaccino fu somministrata a Paternò l’8 marzo del 2021. L’uomo morì poche ore dopo, nella notte del giorno successivo. Nella perizia depositata il 25 maggio del 2021, si legge nero su bianco che la morte di Paternò “non può che essere ascrivibile alla risposta individuale al vaccino, indotta da uno stato di sensibilizzazione al Sars-Cov-2”. Paternò, infatti, “ebbe una risposta infiammatoria abnorme al vaccino, stimolata dal pregresso contatto con il virus (dimostrato dalla positività all’Rna su tampone e dalla presenza di IgG a titolo significativo) e sostenuta da una risposta citochinica che ha indotto un eclatante e drammatico danno polmonare, con la conseguente Ards”. Al militare, che aveva precedentemente contratto il Covid da asintomatico, è infatti risultato fatale “un complesso meccanismo di risposta immunitaria certamente esagerata”. Il pubblico ministero ha riconosciuto che “in teoria, un’ipotesi di responsabilità penale” a carico di Astrazeneca “potrebbe consistere nell’avere omesso di indicare” nelle avvertenze “la sussistenza di un rischio di potere sviluppare l’Ards in soggetto positivo al Covid-19 sia pure asintomatico o paucisintomatico e, dunque, avere impedito al vaccinando di potere scegliere se sottoporsi precauzionalmente a tampone”, potendosi dunque “vaccinare in sicurezza” sulla base di “un consenso informato completo ed effettivo”, oppure di “sottoporsi a test sierologico” al fine di accertare “l’eventuale presenza di anticorpi già sviluppati quale segno di una pregressa infezione”. D’altra parte, però, “mancherebbero dati oggettivi”, dunque il pm ha chiesto l’archiviazione.

L’inchiesta della Procura si è incentrata sul lotto di vaccino somministrato a Paternò, ma le indagini di laboratorio, effettuate dal Rivm in Olanda, hanno dato esito negativo, confermando che tale fiala non presentava criticità. Secondo i pm, insomma, né i medici “che avevano curato l’anamnesi, inoculato la dose e soccorso Paterno” né “Lorenzo Wittum, quale amministratore delegato di Astrazeneca” sarebbero stati responsabili di condotte penalmente rilevanti. [di Stefano Baudino]

Ma quali danni da vaccini: 26 milioni di dosi, 3 indennizzi. Delle 96 reazioni avverse denunciate quasi nessuna è ricondotta ai sieri. Bertolaso: teorie No Vax asfaltate. Enza Cusmai il 20 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Nove milioni di vaccinati, 26 milioni di dosi somministrate, solo tre richieste di indennizzo accolte. La risposta alle farneticazioni dei no vax contro il vaccino anti Covid è racchiusa tutta in queste cifre snocciolate ieri dall'assessore regionale alla Sanità, Guido Bertolaso. Dinnanzi ad una platea di volontari bresciani che hanno affrontato quasi a mani nude la pandemia nei tempi bui, Bertolaso rivendica la bontà della campagna vaccinale che ha fatto solo tanto, tanto bene. Gli eventi avversi, minimali, quasi irrisori, lo confermano.

«Questi sono dati che asfaltano le teorie dei no vax» dice l'assessore alla platea, che applaude. E infatti sembra assurdo che ancora oggi alcuni contestino la bontà della vaccinazione che ha sconfitto la bestia nera del Covid. In realtà, il virus circola, lo sappiamo tutti, ma con una virulenza diversa dal passato. E questo grazie alla copertura vaccinale di massa che garantisce l'immunizzazione collettiva. Certo, per pochissimi è andata male. Ma la sicurezza totale di un qualsiasi farmaco non esiste. Anche se qui, con il vaccino, ci siamo andati vicino. Basta guardare nel dettaglio le richieste di indennizzo per danni provocati direttamente dal vaccino analizzate dalla Commissione Medico Ospedaliera. Sono state poco meno di 100 le richieste di cui solo 66 ammissibili. Tra queste, 21 hanno ricevuto parere negativo, 42 devono ancora essere analizzate, tre sono state accettate. La fascia di età che ha presentato più istanze è quella compresa tra i 50-60 anni, circa 8 su 1 milione di dose somministrate.

Da qui la conclusione della CMO che scrive: «In Lombardia dove sono stati vaccinati 8.861.603 abitanti (su 9.796.122) e somministrate 26.079.937 milioni di dosi, si evince la scarsa numerosità delle richieste con un tasso medio di istanze presentate del 3.6 per un milione di dosi somministrate».

Questi rassicuranti numeri dovrebbero dare la spinta alla campagna vaccinale in corso contro il Covid. Ma, anche a causa del protrarsi della bella stagione, molti non hanno ancora pensato a farsi il richiamo. Che è annuale e - lo ricordiamo - è dedicato principalmente alle categorie a rischio, i fragili, gli over 60, gli operatori sanitari, insegnanti e a tutti coloro che non si sono mai vaccinati. Si tratta di milioni di persone, che però, indugiano nel rinfrescare la memoria immunitaria con il richiamo ormai annuale. Per il momento, in Lombardia, si contano 21.694 somministrazioni anti Covid, di cui oltre 16mila tra gli over 60 e nelle Rsa, solo 3562 tra operatori sanitari e personale scolastico.

Dopo la pandemia è crollata la fiducia nei vaccini per bambini. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 6 Maggio 2023

La fiducia nei vaccini per i bambini è calata negli ultimi anni: è quanto sottolineato dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) in virtù di un suo recente rapporto sulle vaccinazioni nei più piccoli, da cui è emerso che tale tendenza si è verificata precisamente durante la pandemia da Covid-19. Tra i Paesi esaminati, a mettere in dubbio in maniera maggiore la vaccinazione dei bambini sono stati il Senegal, il Giappone, il Ghana, la Corea del Sud e la Papua Nuova Guinea, dove “la percezione dell’importanza dei vaccini per i bambini è diminuita di oltre un terzo” dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Casi degni di nota che inevitabilmente catturano l’attenzione, ma che in fin dei conti rappresentano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che interessa la maggior parte dei 55 Paesi analizzati. Solo in Cina, India e Messico, infatti, i dati indicano una percezione “rimasta inalterata o addirittura migliorata”, mentre in tutti i restanti 52 Paesi la fiducia nei vaccini per i bambini è calata. Tra questi troviamo la Croazia ed il Sudafrica, dove la fiducia è diminuita di oltre il 29%, ma anche l’Italia, dove si è verificato un calo del 6,8%.

Insomma, l’inizio della pandemia è in generale coinciso con una diminuzione della fiducia nei vaccini per i più piccoli, ed il fenomeno è risultato presente soprattutto negli under35 e nelle donne, rispettivamente più sfiduciati rispetto agli ultra sessantenni ed agli uomini. Dati senza dubbio rilevanti, soprattutto se si considera che – a detta dell’UNICEF – sono sinonimo di un “allarmante declino nella fiducia” che “arriva in un momento in cui assistiamo al più grande arretramento prolungato della vaccinazione dei bambini da trent’anni a questa parte”. Ad alimentarlo? Sempre la pandemia, che “ha interrotto le vaccinazioni dei bambini quasi ovunque, soprattutto a causa delle pressioni sui sistemi sanitari, del dirottamento delle risorse per le vaccinazioni verso quelle anti-Covid, della carenza di operatori sanitari e delle misure relative alla permanenza a casa”. Il rapporto, nello specifico, rivela che “tra il 2019 e il 2021 un totale di 67 milioni di bambini non hanno ricevuto le vaccinazioni, con livelli di copertura vaccinale in calo in 112 Paesi”. Un dettaglio notevole, andandosi ad aggiungere a quello delle disuguaglianze “acuite” dalla pandemia. “Per fin troppi bambini, soprattutto nelle comunità più ai margini, la vaccinazione non è ancora disponibile o accessibile” – ricorda infatti l’UNICEF – facendo luce su un aspetto utile a comprendere le conseguenze della pandemia, o meglio del modo in cui essa è stata gestita.

Proprio su quest’ultimo punto, inoltre, non si può non porre la lente di ingrandimento, cosa che l’UNICEF sembra fare solo in parte. Tra le possibili cause della crescente sfiducia, infatti, l’UNICEF annovera “l’incertezza sulla risposta alla pandemia” ed il “crescente accesso a informazioni fuorvianti”, senza però specificare da dove esse siano arrivate. A differenza di quanto comunemente si è portati a pensare, infatti, a diffondere informazioni fuorvianti se non false sono spesso state le stesse istituzioni, che potrebbero così aver contribuito in maniera importante all’esitazione nei confronti dei vaccini. Durante la pandemia, ad esempio, gli esponenti istituzionali italiani hanno sostanzialmente inculcato nei cittadini un presunto dovere civico a vaccinarsi per non far ammalare le altre persone nonostante – come successivamente ammesso dalla stessa Pfizer – i vaccini non fossero stati testati sulla trasmissione prima di immetterli sul mercato. Trattasi, però, solo di un piccolo esempio del modo in cui le istituzioni potrebbero aver incrementato un clima di incertezza nei confronti dei vaccini e della scienza, essendo numerose le presunte verità della narrazione pandemica rivelatesi false col passare del tempo. Se a ciò infatti si aggiunge una controversa campagna vaccinale anti-Covid, che in Italia ha portato la Procura di Genova ad interrogare alcuni membri del Comitato Tecnico Scientifico (CTS) in merito agli open day vaccinali, non si può non ipotizzare che il calo di fiducia nei vaccini per i bambini potrebbe essere anche una conseguenza dell’atteggiamento dei governanti nonché degli enti sanitari, che non di rado si sono resi protagonisti di vicende alquanto bizzarre.

Il problema della sfiducia, dunque, potrebbe avere molteplici cause, tra cui anche l’atteggiamento istituzionale. Certo, come precisato dall’UNICEF “nonostante la flessione, il sostegno complessivo ai vaccini rimane relativamente forte” e saranno necessari ulteriori dati ed analisi per “determinare se i risultati sono indicativi di una tendenza a lungo termine”. Tuttavia, al momento l’incremento della sfiducia sembra rappresentare un dato di fatto, e per risolverlo potrebbe essere necessario non solo un “rafforzamento dell’assistenza sanitaria di base” – come sottolineato dall’UNICEF – ma anche un cambio di paradigma nel modus operandi istituzionale, rivelatosi pieno di punti critici durante l’emergenza sanitaria. [di Raffaele De Luca]

In Australia è partita una class action contro il governo per gli effetti avversi dei vaccini Covid. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 2 maggio 2023.

In Australia, un’importante causa collettiva per lesioni da vaccino Covid-19 è stata presentata contro il governo nazionale e l’ente regolatore dei farmaci. L’azione legale conta 500 membri, tra cui tre ricorrenti, e punta a far ottenere un risarcimento a coloro che sono stati presumibilmente danneggiati o che hanno subito un lutto a causa del vaccino Covid-19.

Nella class action, che è stata depositata mercoledì presso la Corte Federale del Nuovo Galles del Sud, si accusano il governo federale, la Therapeutic Goods Administration (TGA) e il Dipartimento della Salute di negligenza nell’approvazione e nel monitoraggio dei vaccini Covid-19, di violazione degli obblighi di legge e di abuso di ufficio pubblico.

L’azione collettiva riguarda, nello specifico, tre ricorrenti. Il primo è il 41enne Gareth O’Gradie, che dopo la prima vaccinazione con Pfizer ha sviluppato una grave pericardite. Non avendo risposto a una lunga serie di farmaci e terapie, nel febbraio 2022 i medici hanno eseguito un intervento a cuore aperto per rimuovere il sacco pericardico che riveste il cuore. Gli altri due sono Antonio Derose, di 66 anni, che ha sviluppato un’encefalomielite (infiammazione del cervello e del midollo spinale) in seguito al vaccino AstraZeneca, e Anthony Rose, di 47 anni, che lamenta gravi disturbi cognitivi e stanchezza cronica in seguito alla vaccinazione Moderna.

L’azione legale è stata organizzata dalla dottoressa Melissa McCann, medico di base del Queensland, che ha raccolto oltre 105.000 dollari grazie al crowdfunding. «Queste persone, danneggiate o a lutto, hanno subito perdite, sofferenza e dolore», ha twittato la dottoressa McCann, che ha puntato il dito contro la «manipolazione psicologica» e il «silenzio» che li avrebbero fatti sentire «abbandonati», nonché contro il sistema di indennizzo esistente, reputato «non adatto allo scopo».

Per contro, l’ente regolatore dei farmaci ha minimizzato la questione. In un recente rapporto, ha segnalato che i rischi di effetti avversi sarebbero molto bassi (registrando 138.307 segnalazioni su quasi 66 milioni di dosi di vaccino somministrate). “I benefici protettivi della vaccinazione superano di gran lunga i rischi potenziali”, si legge nella relazione. L’avvocato incaricato Natalie Strijland, dello studio legale NR Barbi di Brisbane, ha dichiarato però che nell’azione legale si accuserà la TGA di aver causato danni considerevoli non avendo regolamentato correttamente le vaccinazioni Covid-19.

Il programma di indennizzo esistente, aperto agli australiani che “subiscono un impatto da moderato a grave a seguito di una reazione avversa a un vaccino Covid-19 approvato dalla TGA”, è stato fortemente criticato perché di difficile accesso e troppo limitato. Al 12 aprile, Services Australia ha ricevuto 3501 domande e pagato 137 richieste per un totale di oltre 7,3 milioni di dollari. Sul tavolo ci sono attualmente 2263 domande, poiché ne sono state ritirate 405 e 696 sono state ritenute non pagabili. [di Stefano Baudino]

La verità sui danni creati dai vaccini vale meno dei diritti Lgbt? Gianluigi Paragone su Il Tempo il 09 aprile 2023

Non c’è niente da fare, si può parlare di tutto in Europa tranne di quel che sarebbe importante sapere. Si può attaccare Orban e le sue leggi in difesa della famiglia che a Bruxelles trasformano e interpretano come anti-Lgbt. Ovviamente chi non prende le posizioni della Ue contro Orban diventa cattivo come Orban. Tant’è che il governo Meloni è per proprietà transitiva come il governo ungherese, solo perché continua a opporsi alla narrazione incline alla maternità surrogata. (Ministro Roccella, vada avanti! ) L’Europa non vuole discriminazioni, dunque. E dà battaglia in difesa dei diritti. Che bella questa Europa così pugnace quando in ballo non ci sono interessi che scottano. Tanto per dire, come mai l’Europa non vuole sapere chi ha sabotato il gasdotto NordStream? Ha paura? Come mai l’Europa si piega al volere di America e Cina sul motore elettrico con la conseguenza che così distruggeranno interi pezzi dell’automotive continentale? Come mai l’Europa si sta coprendo occhi e orecchie dopo gli scandali che coinvolgono pezzi importanti del Pse rispetto al Qatar («Stanno facendo notevoli passi in avanti in tema di diritti», dicevano alcuni di loro quando si discuteva dei Mondiali di calcio) e al Marocco? Come mai l’Europa fa così il tifo per le carni sintetiche, per le farine d’insetti e per il food a misura di multinazionali? E, infine, come mai la Commissione europea sta nascondendo la verità sui vaccini della Pfizer? C’è qualcuno che teme qualcosa?

Nell’Europa che sanziona Orban, si protegge il ceo di Pfizer Albert Bourla e la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen silenziando i loro scambi «epistolari» durante e dopo la negoziazione dei contratti per l’acquisto dei vaccini. L’ottobre scorso la responsabile commerciale del colosso farmaceutico, Janine Smell, ammetteva in audizione che «il (loro) vaccino non era stato testato per prevenire l’infezione né alcuno ce lo ha mai chiesto». Dopo quell’audizione nonostante i reiterati inviti a presentarsi in audizione, Bourla si negò per ben due volte. Chi lo protegge? Possibile che ieri non si potessero avere informazioni sulle modalità e sulle clausole circa il contratto di acquisto dei vaccini (cosa c’è scritto lì dentro di così pericoloso?) e oggi non si possono avere tutti i dati sulle reazioni avverse degli stessi? Dopo aver analizzato le carte dell’agenzia regolatoria canadese Health Canada, l’accademico ed editorialista per il British Medical Journal, Peter Doshi rivela che già dall’aprile del 2022 a Pfizer era noto l’evidente calo di efficacia dei vaccini contro il coronavirus. Ci sono troppi elementi per non rovesciare i mesi e mesi di campagna a senso unico che anche in Italia è stata fatta su ordine dei governi Conte 2 e Draghi, con una stampa sdraiata e medici innalzati a ruoli sacerdotali: la verità della scienza contro i dubbi dei No Vax.

Ebbene, oggi, il problema non sono più i No Vax ma coloro che si erano vaccinati convinti dalla correttezza delle dichiarazioni governative e degli esperti: sono loro e non i trinariciuti No Vax a dover essere ascoltati. Non solo nessuno lo fa, ma nessuno nemmeno vuole più parlare degli effetti avversi da vaccino e fare chiarezza su quella occasione. Nemmeno il ministro Schillaci che preferisce nuotare sott’acqua, affiancato dai Brusaferro e Locatelli. Se questo è il contesto non so che commissione d’inchiesta uscirà. Si parlerà dei vaccini, sì o no? O resteremo nella narrazione che ci hanno salvato dalla morte? Perché lo cose non sono andate esattamente così. Per questo il silenzio regna e sulle reazioni avverse da vaccino si spera nel silenzio. Tanto in parlamento i rompiscatole non sono stati eletti.

L’OMS stravolge le linee guida: retromarcia sui vaccini ai bambini. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 31 marzo 2023.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nell’ultimo documento contenente le raccomandazioni sulla gestione della pandemia da coronavirus, ha ridimensionato l’utilità dei vaccini a bambini e adolescenti sani. Il gruppo di esperti dell’OMS ha rivisto la tabella di marcia in merito alla “convenienza della vaccinazione Covid-19 per le persone a basso rischio, vale a dire bambini e adolescenti sani”, specificando che “l’impatto sulla salute pubblica della vaccinazione di tali soggetti è molto inferiore ai benefici stabiliti dei tradizionali vaccini essenziali per i bambini, come i vaccini coniugati contro il rotavirus, il morbillo e lo pneumococco”. Il cambio di rotta dell’OMS avviene a distanza di quasi due anni dai primi appelli e studi che esprimevano non poco scetticismo nei confronti della vaccinazione a bambini e adolescenti sani.

Nel documento pubblicato il 28 marzo, l’OMS ha stabilito tre fasce di priorità per la vaccinazione contro il Covid-19: alta, media e bassa. L’inserimento degli individui nei tre gruppi avviene sulla base di diversi fattori, tra cui il rischio di malattie gravi e di morte in caso di contrazione del virus, le prestazioni del vaccino (efficacia e convenienza) e “l’accettazione della somministrazione da parte della collettività di riferimento”. Il gruppo a bassa priorità include bambini e adolescenti sani, dunque non affetti da particolari malattie (come il diabete) o immunodepressi. Per questi soggetti, l’OMS invita i Paesi che intendono continuare con la vaccinazione anti-Covid a riflettere sul rapporto costo-benefici di questi ultimi. Si tratta dell’ultimo tassello in materia sanitaria che si aggiunge ai tanti giudiziari documentati sulle pagine de L’Indipendente e in qualche modo riaprono il dibattito sulla gestione pandemica da parte delle autorità.

La scorsa estate uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet e realizzato dagli scienziati dell’Istituto Superiore di Sanità e dal Ministero della Salute italiano aveva rivelato che l’efficacia del vaccino contro il Covid sui bambini nella fascia di età 5-11 anni fosse molto più bassa di quanto si pensasse. Su quasi 3 milioni di bambini osservati, dei quali 1,1 milioni vaccinati e 1,7 milioni non vaccinati, lo studio aveva indicato una copertura inferiore al 30% per l’infezione e del 41,1% appena contro lo sviluppo di forme gravi della malattia. A luglio 2022, il direttore generale dell’Autorità sanitaria danese, Søren Brostrøm, si scusò pubblicamente per aver somministrato ai bambini un vaccino che «non ha prodotto grandi risultati in ottica controllo dell’epidemia».

[di Salvatore Toscano]

Fuori dal Coro, Mario Giordano svela le carte segrete sui vaccini. Il Tempo il 21 marzo 2023

Vaccini Covid somministrati agli anziani e ai soggetti fragili senza alcuno studio sugli effetti. E' quanto emerge dalle carte segrete mostrate da Mario Giordano in apertura della puntata di "Fuori dal Coro" in onda il 21 marzo su Rete4. Giordano mostra la documentazione interna all'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, da cui emerge che, all'epoca, nessuno conosceva gli effetti del vaccino su anziani e soggetti fragili.

 "Ci hanno raccontato balle sulla pandemia, i vaccini, il Covid - ha detto Mario Giordano in apertura di trasmissione - Quello che emerge dall'inchiesta della Procura di Bergamo è che ci hanno raccontato balle anche sui vaccini. Questi sono i documenti segreti interni all'Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) che vi sveliamo in esclusiva. Questo è del 15 gennaio 2021 quando la vaccinazione era solo all'inizio. E da chi si inizia? Si inizia dalle persone fragili, dagli anziani e dai malati. Ebbene in quel momento, quando si iniziano a vaccinare gli anziani e i fragili, l'Aifa sa che non esiste uno studio sugli effetti del vaccino sulle persone fragili. E lo scrive: "Attenzione i pazienti fragili rientrano tra le popolazioni non studiate". Tanto è vero che un funzionario prova a scrivere che i vaccini hanno provato un'elevata efficacia e l'Aifa lo cancella perché non si può dire un'elevata efficacia perché non è stato neanche studiato. In quel momento si mandano milioni di italiani fragili a fare il vaccino dicendo che c'è un'elevata efficacia e che ci sono le prove e gli studi dell'elevata efficacia. E invece questa non c'è. E l'Aifa nei suoi documenti interni lo scrive. In quei giorni, infatti, era arrivata la notizia degli anziani morti dopo il vaccino. E allora nell'Aifa ci fu uno scambio di documenti interni".          

Pfizer rivela: i vaccini sulle donne in gravidanza approvati senza sperimentazione. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 28 Febbraio 2023

Il colosso farmaceutico Pfizer non ha portato a termine gli studi clinici randomizzati riguardanti gli effetti del vaccino anti-Covid sulle donne in gravidanza e che allattano e, dunque, non dispone dei dati sufficienti per poter ritenere il farmaco sicuro durante la gestazione. È quanto emerge da un’indagine condotta dalla giornalista d’inchiesta australiana Maryanne Demasi che ha interpellato direttamente i rappresentanti della Pfizer. L’azienda ha spiegato di non aver potuto concludere i trial per mancanza di volontarie, ma, nonostante ciò, il farmaco è stato comunque raccomandato dalle agenzie regolatorie del farmaco – l’EMA europea e la FDA statunitense – che pure erano al corrente del fatto che mancassero i dati necessari per poter raccomandare il vaccino. Pfizer, infatti, ha ammesso che la Food and Drug Administration americana l’Agenzia europea del farmaco erano al corrente del fatto che l’azienda non stesse effettuando sperimentazioni «perché il numero di donne partecipanti era molto basso».

Ma questo non è l’unico motivo per cui Pfizer ha interrotto i test clinici: lo stesso colosso, infatti, ha spiegato in una mail inviata a Demasi che proseguire con i trial non aveva più senso, dal momento che le agenzie regolatorie avevano già garantito sia ai ginecologi che alle pazienti la sicurezza della vaccinazione a mRNA: «Questo studio è stato promosso prima della disponibilità o della raccomandazione per la vaccinazione COVID-19 nelle donne in gravidanza. L’ambiente è cambiato durante il 2021, quando i vaccini COVID-19 sono stati raccomandati dagli organismi di raccomandazione applicabili (ad es. ACIP negli Stati Uniti) per le donne incinte in tutti i paesi partecipanti/pianificati e, di conseguenza, il tasso di iscrizione è diminuito in modo significativo. Con il calo delle iscrizioni, lo studio aveva una dimensione del campione insufficiente per valutare l’obiettivo primario di immunogenicità e la continuazione di questo studio controllato con placebo non poteva più essere giustificata a causa delle raccomandazioni globali», si legge nella mail.

Prima dell’avvio, annunciato da Pfizer nel 2021, dei test randomizzati mai conclusi, l’azienda aveva studiato l’effetto del siero solo su femmine di ratto gravide, come si è appreso da una richiesta di accesso agli atti presentata al regolatore dei farmaci australiano nel 2021. Gli animali coinvolti nello studio erano appena 44: a metà fu iniettato il farmaco a mRNA e a metà un placebo. In base ai risultati dello studio è stato possibile rilevare che «il vaccino ha portato a un raddoppio statisticamente significativo della perdita fetale (9,77% nel gruppo trattato con mRNA e 4,09% in quello che aveva ricevuto il placebo), ma Pfizer ha concluso che la differenza tra i due gruppi non era biologicamente significativa», scrive Demasi dopo aver visionato la documentazione.

Il ricercatore di politiche pubbliche presso la Johns Hopkins University, Marty Makary, ha chiesto che almeno vengano forniti i dati della sperimentazione condotta sulle 349 donne volontarie, nonostante l’esiguità del campione: «Dovrebbero dire qualcosa, hanno il dovere morale di parlare. Eccoci qui, 18 mesi dopo, i risultati di quelle 349 donne non sono mai stati resi pubblici», ha protestato il ricercatore. Ha inoltre aggiunto che «L’hanno consigliato alle donne incinte con zero dati. E forse è per questo che [la Pfizer] ha interrotto lo studio. L’esecuzione di uno studio rischia di dimostrare che potrebbero non esserci benefici nelle donne in gravidanza».

A ben guardare la posizione delle agenzie regolatorie del farmaco risulta addirittura più grave di quella della Pfizer, in quanto EMA e FDA, il cui compito è proprio quello di vigilare sulla sicurezza dei farmaci e sugli studi condotti su di essi, hanno autorizzato e raccomandato il siero alle donne in gravidanza e allattamento, nonostante sapessero che lo stato dei test era assolutamente incompleto. La Pfizer, invece, non ha mai raccomandato la vaccinazione di questa fascia di popolazione perché non disponeva dei dati sufficienti. La conclusione è, dunque, che milioni di future madri hanno inconsapevolmente fatto da cavie per un farmaco ancora in fase di sperimentazione e alcune di loro potrebbero anche avere subito effetti avversi in seguito all’inoculazione. [di Giorgia Audiello]

Vaccini Covid: ora anche i ricercatori dell’ISS chiedono di rivalutare rischi e benefici. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 6 Febbraio 2023.

Tre ricercatori del Centro nazionale per il controllo e la valutazione dei farmaci, afferente all’Istituto Superiore della Sanità (ISS), hanno redatto un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Pathogens, dal titolo Safety of COVID-19 Vaccines in Patients with Autoimmune Diseases, in Patients with Cardiac Issues, and in the Healthy Population, nel quale mettono in dubbio l’utilità della somministrazione di ulteriori dosi di vaccino contro il Covid-19 alla popolazione, tanto ai soggetti con patologie autoimmuni quanto a quelli perfettamente sani. In particolare, i ricercatori hanno messo in discussione “la reale necessità di somministrare questi prodotti dagli effetti poco chiari nel lungo periodo a persone a rischio con patologie autoimmuni, così come persone sane, nel periodo delle varianti Omicron”. Immediata la replica dell’ISS, che non ha esitato a definire “lacunosa e parziale” l’analisi dei (propri) ricercatori, prendendo nettamente le distanze da quanto pubblicato nell’articolo.

Loredana Frasca, Giuseppe Ocone e Raffaella Palazzo, i tre autori dell’articolo, hanno infatti dichiarato che, a fronte dell’“esistenza di interventi terapeutici” che al giorno d’oggi risultano “molto più chiaramente valutati” rispetto all’inizio della pandemia, e in considerazione della “natura relativamente meno aggressiva delle nuove varianti virali”, andrebbe messo in discussione l’utilizzo di vaccini “che funzionano principalmente inducendo, nell’ospite, la produzione della proteina antigenica della SARS-CoV-2 chiamata Spike, iniettando un’istruzione basata su RNA o una sequenza di DNA”, ovvero i vaccini a tecnologia mRNA. L’articolo, viene specificato, non intende mettere in discussione l’efficacia dei vaccini contro la variante originale, la cui efficacia “è stata documentata” fino a che non è comparsa la variante Omicron. Tuttavia, sono numerosi gli studi che hanno dimostrato il rapido calo di efficacia dei vaccini mRNA e, considerato l’alto numero di soggetti che ha acquisito l’immunità a seguito della guarigione dal contagio e che esistono terapie efficaci, “potrebbe essere il momento giusto per rivedere il rapporto rischio/beneficio di questi interventi farmacologici”.

È la prima volta che ricercatori dell’ISS mettono in dubbio l’utilità dei vaccini mRNA contro il Covid-19. E la risposta dell’Istituto non si è fatta attendere. In una nota pubblicata dall’ufficio stampa dell’Istituto, la pubblicazione è segnalata come violazione del “codice interno di integrità dei ricercatori ISS”. L’analisi effettuata dai tre scienziati è infatti definita “lacunosa e parziale” e, viene sottolineato, “non rappresenta in nessun modo la posizione dell’Istituto Superiore di Sanità”. “L’interpretazione dei dati presi in esame, inoltre, è del tutto personale, tanto che in alcuni casi gli autori citano studi arrivando a conclusioni opposte rispetto a quelle di chi li ha condotti” dichiara l’ISS. Di fronte ai dubbi scientifici esposti dai propri ricercatori ed alla loro richiesta di nuove valutazioni e ricerche su rischi e benefici dei farmaci, insomma, l’Istituto Superiore di Sanità scegli di arroccarsi censurando l’attività scientifica e i dubbi esposti dai propri studiosi. [di Valeria Casolaro]

Reazioni avverse e responsabilità. Ivano Tolettini su L’Identità il 18 Gennaio 2023

È doveroso e democratico ascoltare chi ha subito reazioni avverse al vaccino. I cosiddetti “invisibili”. Pensiamo ai medici, la categoria più esposta al covid-19. C’è il medico del sistema sanitario che deve attenersi a normative, a circolari e protocolli. Il pensiero diverso se lo permette il medico privato che può ispirarsi a una cultura alternativa. In democrazia è fondamentale la libertà d’espressione delle minoranze”. Lo psicoterapeuta vicentino Lino Cavedon, 71 anni, una lunga esperienza nel Servizio sanitario nazionale, ha elaborato una riflessione sul contrasto alla pandemia che va al di là della dicotomia “si vax – no vax”.

I farmaci sono prodotti in base al metodo sperimentale. Nella fase più acuta della pandemia siamo stati forzati a fare determinate cose citando sempre il pensiero della scienza. Quest’ultima procede attraverso il concetto di falsificazione. Essa ha bisogno di protocolli e trial clinici, cioè protocolli di sperimentazione sugli individui per testare l’efficacia ed i possibili effetti collaterali e avversi di un farmaco. Per questo c’è bisogno di solito di 4-5 anni”.

Lo impone anche la bioetica?

Assolutamente sì, perché se non seguiamo il trial clinico la medicina che agisce su una patologia può fare danni ad altri livelli.

Se intendo il suo ragionamento. Un conto è dire, cari cittadini abbiamo agito in fretta con i vaccini per affrontare un nemico che mieteva tante vittime, e un altro far passare il messaggio che il vaccino era sicuro senza controindicazioni.

È uno dei problemi. Il vaccino è stato sperimentato in undici mesi. All’inizio ci ricordiamo i cortei di camion militari carichi di bare e le persone ricoverate d’urgenza. In quel momento c’era una forte emotività e ci stava che si intervenisse con quello che la ricerca metteva a disposizione.

Perché si combatteva in prima linea contro un nemico pericoloso.

Esattamente, di cui non sapevamo nulla e quindi il primo vaccino ci stava e la scienza non aveva ancora raccolto più di tante informazioni.

Lei sul punto sostiene che il nostro corpo è sapiente.

L’ho riscontrato in quarant’anni di professione. Ci sono persone che si affidano comunque ai farmaci anziché credere nella capacità del corpo di intervenire in determinate situazioni di disequilibrio. Noi non abbiamo bisogno di ricorrere sempre ai farmaci. Si prendono quando non ci sono alternative. Credo che non abbiano mai fornito alle persone elementi di scientificità, l’unica era se fai il vaccino eviti il peggio. Tanto che c’è chi anche con la quarta dose ha avuto ripercussioni avverse importanti.

Lei ritiene che il ministero abbia agito con forzature sulla libertà delle persone di scegliere come curarsi?

Ritengo di sì. Sono entrate in gioco anche legittime paure di ciascuno di noi. Numerose persone hanno sollevato dubbi per carenza di informazioni e protocolli. La scienza autorevole ha bisogno di tempi e di protocolli. Le conseguenze avverse della ricerca sperimentale si sono manifestate a mano a mano che si procedeva con le vaccinazioni. Di cui è giusto e doveroso parlare. Tenuto conto che ci sono stati provvedimenti pesanti per talune categorie. I vaccini per molti hanno tuttora un alone di dubbio che ha giustificato perplessità a causa di chi ha patito reazioni avverse ed è stato intubato.

Dunque, il rispetto del pensiero delle singole persone e anche delle paure.

Non c’è dubbio. Le persone andavano accompagnate gradualmente senza provocare fazioni opposte nel mondo del lavoro. Ma anche nelle famiglie con coppie che hanno rischiato di spaccarsi, amici che si sono allontanati perché c’erano fazioni diverse. Pensiamo ai genitori separati che sono dovuti ricorrere al giudice per decidere se vaccinare o meno un figlio. La gestione è stata viscerale, dettata dall’idea che forzare la gente verso la vaccinazione fosse in assoluto la scelta migliore.

È stata fatta un’analisi di tipo economicistico costi-benefici?

Certo Avrei capito se dopo le prime dosi quando il virus si era modificato ci fosse stato più rispetto per il pensiero alternativo. Invece, c’era un unico pensiero. Che difettava di etica per carenza di un trial clinico adeguato del vaccino. La cosa sgradevole è che chi ha avuto effetti avversi con sintomi probabilmente non codificati non ha una copertura sanitaria. In molti c’è smarrimento, risentimento e rabbia perché pur essendosi vaccinato ha avuto effetti avversi. Altro tema è il problema delle responsabilità sulle azioni negative. Questa materia non è ancora stata affrontata. Bisogna curare con un criterio flessibile e intelligente. Quando c’è l’urgenza si ricorre al farmaco, ma quando l’organismo è in grado di lavorare per proteggersi credo sia molto più saggio operare in questo modo. Avverto troppa emotività”.

I vaccini e le tantissime reazioni avverse il docufilm che squarcia il silenzio di Stato. Ivano Tolettini su Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

In questi anni in Italia è venuto meno il confronto, perché non è stata data voce a una parte della popolazione, grande o piccola che sia, che riporta un’altra visione delle cose sul covid 19. Il dibattito non è sul piano scientifico, perché in quell’ambito dovremmo ascoltare anche i medici e i sanitari radiati, che sono tanti e che portano avanti altri studi, ma ciò che ci preme rappresentare è la libertà d’espressione di chi si è sottoposto alle vaccinazioni ed ha avuto un esito avverso, ma non può esprimerlo sui grandi media. Anzi, viene censurato su youtube, com’è capitato al nostro documentario “Invisibili”, che consente di esprimersi a coloro che hanno subito reazioni negative dopo la somministrazione del vaccino. Il nostro impegno nasce da qui, una passione democratica”. Il blogger e film-maker Alessandro Amori (nella foto), 49 anni, parla mentre sta correndo a prendere i figli a scuola. Il suo interesse sui vaccini risale al 2017 quando in seguito al decreto della ministra Beatrice Lorenzin furono rese obbligatorie le 12 poi diventate 10 somministrazioni ai bambini in età scolare, e chi vi si sottraeva veniva escluso dalla scuola.

L’altro pomeriggio alcune centinaia di persone sono rimaste all’esterno del cinema di Verona esaurito dove veniva proiettato “Invisibili – il documentario sulle reazioni avverse che tutti devono vedere” di cui oltre ad Amori è artefice il regista Paolo Cassina, vincitore di premi per la sua dedizione ai documentari e alle inchieste giornalistiche. Il docufilm è stato proiettato nelle sale del circuito parallelo a quello delle grandi sale al pubblico a settembre, ma è solo nelle ultime settimane che ha “bucato” l’interesse della gente, riscuotendo consenso. Anche a Bergamo e Firenze si sono contate molte persone che non sono riuscite a partecipare alle proiezioni. La presentazione ufficiale sarà il 29 gennaio a Sanremo, nella sala della Federazione Operaia Sanremese, mentre la programmazione al cinema è prevista anche per tutto febbraio e, per adesso, anche in parte a marzo. “Noi siamo partiti dalla constatazione che durante la crisi pandemica si sentiva una voce unica narrante – prosegue Amori – e chi manifestava il pensiero critico veniva inscritto subito tra i no vax”. Non era consentito manifestare il dubbio, il cogito cartesiano, perché automaticamente venivi incasellato nello schieramento alternativo ai vaccini. Nei fatti c’è stata una lesione del principio di libertà d’espressione”. Alla domanda se si sia vaccinato o meno, Alessandro Amori replica che il tema centrale “da cui siamo partiti è che chiunque nel 2021 manifestava perplessità sui vaccini per una informazione adeguata su cui fondare il consenso informato veniva subito messo nel recinto no vax senza possibilità di parola. Del resto il vaccino è un farmaco e che ci potessero essere anche reazioni avverse era, ed è, nella logica delle cose. Ma ufficialmente non si poteva parlarne. Noi abbiamo scandagliato questo mondo scoprendo un’umanità variegata e le risposte, come vediamo queste settimane, sono considerevoli. La valuto una prova di democrazia compiuta”. Il blogger e autore quando ha deciso di raccontare la protesta dall’interno si è “armato” di una piccola telecamera ed ha girato l’Italia raccogliendo le testimonianze “dei danneggiati da vaccino”.

CENSURA

Abbiamo realizzato il primo documentario vax over – analizza -, ma la protesta non ha mai avuto risonanza pubblica, anzi ci sono stati casi di censura vera e propria perché la voce dissonante non era permessa”. Non ha dubbi, Amori, che la somministrazione abbia avuto molteplici reazioni avverse. “Ripeto, la questione per noi nodale non è se il vaccino funzioni o meno, ma consentire alle persone il diritto alla libera espressione, perché girando le piazze conoscevo padri e madri che volevano vaccinare i figli, ma prima volevano avere delle risposte rispetto alle loro perplessità e alle legittime domande che ponevano. Invece, venivano emarginati ed etichettati”.

SOLITUDINE

A quel punto Amori ha creato una piattaforma per dare voce a chi poneva quesiti e non si accontentava. Dopo avere incontrato il regista Paolo Cassina ha deciso di lavorare al documentario per capire il fenomeno nella sua complessità. Raccontare l’altra faccia del covid-19, l’altra verità, quella cioè di chi si sottoponeva alla vaccinazione e dopo non era più quello di prima. Le testimonianze nella seconda fase sono cresciute perché molti di quelli che avevano subito le avversità si sono “sentiti soli, anche all’interno della propria famiglia”, con matrimoni anche entrati in crisi, per non parlare della rete lacerata delle amicizie o delle difficoltà sul lavoro. “Non sono stati neppure presi in carico dal proprio medico – come hanno raccontato – e questo è stato un fatto nuovo, perché i medici di solito ascoltano per fare l’anamnesi e quindi offrire la diagnosi. Invece, nel caso dei vaccini c’è stata una chiusura e così la persona che manifestava danni e malesseri è stata considerata stressata o comunque bisognosa di cure psicologiche. Fatto sta che anche nelle famiglie molti non sono stati compresi, perché si è stati portati a leggere la realtà attraverso la dicotomia semplicistica si vax- no vax, mentre molti individui, come abbiamo testimoniato, erano in difficoltà e cercavano di comprendere che cosa stava loro capitando”. La nascita dei primi comitati è stata la conseguenza della solitudine che si è impadronita di molti. Tra di essi “Ascoltami” al quale si è avvicinato Alessandro Amori per approfondire il lavoro di ricerca. “Osservare le cose a prescindere dai nostri convincimenti, questo è stato l’imperativo deontologico che ha fatto da filo conduttore a Paolo ed a me – conclude Amori – per consentire a chi per difendersi dal virus ha subito conseguenze, anche permanenti, e fino a quel momento non sapeva come esprimersi. Il fatto stesso che le persone che vengono alle proiezioni di “Invisibili” sono tante è la dimostrazione che nel nostro Paese è mancato un confronto aperto tra posizioni diverse, senza pregiudizi, facendo prevalere un ostracismo che è negativo per la nostra democrazia”. Chi vuole vedere il documentario “Invisibili” lo trova su playmastermovie. com.

Morti sospette e vaccino: i casi il cui esito è fatale. Ivano Tolettini su L’Identità il 7 Marzo 2023

L’argomento in Italia è ancora tabù. Si chiamano eventi avversi. Spesso senza gravi conseguenze, a volte con ripercussioni importanti o addirittura funeste. Morti improvvise di persone fino a quel momento in apparenza sane. Casi moltiplicatisi. Così da due anni i rappresentanti di tante associazioni chiedono che ci sia la possibilità di avere informazioni scientifiche accurate sulla somministrazione dei vaccini anti Covid 19 e i fenomeni negativi, per avere una casistica nazionale. Se nel nostro Paese l’argomento è ancora scabroso, negli Stati Uniti di recente se n’è parlato e discusso dal punto di vista medico-scientifico, dal 7 al 18 febbraio in Florida, alla 75^ conferenza annuale dell’Accademia americana delle scienze forensi. Ma anche in Germania i medici delle assicurazioni hanno dibattuto il problema. In un rapporto presentato alla conferenza americana, c’è stato spazio anche per i dati italiani, 40 casi legati alle complicazioni trombo-emboliche post vaccinazione. I casi segnalati sarebbero l’iceberg di un fenomeno esteso. Gli uomini sono stati colpiti la metà delle donne, con un’età media attorno ai 41 anni. Il fatto stesso che nel 9° rapporto Aifa sulla sorveglianza da vaccini anti Covid-19 nel periodo tra il 27 dicembre 2020 e il 26 settembre 2021, l’Istituto Superiore della Sanità evidenzi 101 mila segnalazioni su 84 milioni di dosi somministrate (120 ogni 100.000 dosi) è sintomatico. “Questo non porta a conclusioni univoche, ma imporrebbe una riflessione e un’analisi puntuali, perché altrimenti si continua a non vedere il problema”. A dirlo è Dario Giacomini, medico dell’Ulss 8 di Vicenza, che con il filosofo Giorgio Agamben, Giovanni Frajese ed Elisabetta Frezza ha costituito l’associazione ContiamoCi, in prima linea perché si faccia luce su un’arma che è stata formidabile per mettere tra parentesi la forza del virus, oggi sotto controllo.

POLITICA

I dati raccolti sulle evidenze temporali tra vaccinazione e complicazioni per i cittadini sono copiosi, ma come analizza lo stesso Giacomini “bisognerebbe valutare il nesso causale, ma purtroppo non c’è la disponibilità da parte delle strutture preposte ad approfondire i casi in maniera laica, e pertanto non ci sono fondi per potere eseguire dei trial clinici per indagare prima di trarre conclusioni”. La prudenza è d’obbligo. All’associazione ContiamoCi sono tante le segnalazioni da tutta Italia sugli eventi avversi subiti da donne e uomini dopo la vaccinazione. Ma a fronte della mancanza di una letteratura scientifica sufficientemente valida non c’è spazio per adesso per portarli all’attenzione della politica. “Manca il dato scientifico inconfutabile, anche se gli indizi sono importanti – sottolinea Giacomini – perché non avendo accesso alle strutture preposte è impossibile avere riscontri oggettivi. Del resto, se non si indaga non si trova”.

ASSEMBLEE

I soci iscritti a ContiamoCi sono migliaia in tutta Italia e

quando “organizziamo assemblee moltissime persone si avvicinano chiedendo di essere aiutate perché lamentano disturbi e complicazioni di varia natura: dal disturbo dell’attenzione a rallentamenti motori, quindi di tipo neurologici, non per forza solamente somatici”, osserva Giacomini, per il quale lo studio degli eventi avversi è davvero un grosso problema, e le istituzioni farebbero bene ad indagare per la loro stessa credibilità. Oltre che farebbe bene alla medicina perché “non è accettabile che si giri la testa dall’altra parte per non volere ammettere che ci sono stati degli errori”.

SINTOMI E BUSINESS

Nausea e vomito legati a disagi gastrointestinali, con febbre, dispnea e dolori al petto i sintomi è più ricorrenti. Se la stima ufficiale parla di meno di un decesso per ogni milione di dosi di vaccino somministrato, si legge nel documento discusso in Florida un paio di settimane fa, è vero che con ogni probabilità non tutti i morti dopo l’inoculazione del vaccino sono stati sottoposti all’autopsia cosicché i numeri dei casi di “trombocitopenia trombotica indotta dal vaccino” sono sottostimati. Oltre al fronte medico ce n’è uno economico, perché i vaccini se da un lato hanno aiutato a fermare il contagio, dall’altro hanno rappresentato un innegabile business per le grandi case farmaceutiche. “Adesso però c’è un problema contrario – conclude Giacomini – perché se si dimostra che effettivamente ci potrebbero essere stati danni ben maggiori in percentuale rispetto a quelli negati completamente, è chiaro che ci sarebbe anche un ristoro economico per i pazienti vittime degli eventi negativi con la loro presa in cura. Senza considerare tutti coloro che hanno perso il lavoro o sono stati espulsi e hanno patito un danno per la loro carriera”.

La Casa Bianca ha costretto Facebook a censurare notizie vere sui vaccini. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 13 Gennaio 2023.

Dopo i Twitter Files, che attestano come Twitter abbia influenzato il dibattito sul Covid, manipolandolo secondo le direttive della Casa Bianca e dell’FBI e censurando i contenuti divergenti rispetto alla narrazione pandemica, il Wall Street Journal ha pubblicato un’inchiesta su quelli che potremmo definire i Facebook Files. Si tratta di documenti appena rilasciati che mostrano come la Casa Bianca abbia, ancora una volta, svolto un ruolo chiave nella censura sui social media. 

L’esecutivo democratico avrebbe fatto pressioni sui social di Mark Zuckerberg, per oscurare post relativi a contenuti «spesso veri», che potevano però essere percepiti come materiale «sensazionalistico, allarmistico o scioccante». In parole povere, per censurare quelle notizie “vere” ma scomode al governo democratico, che potevano generare incertezza, paure ed esitazioni sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini anti-Covid. 

I documenti sono stati pubblicati il 6 gennaio, nell’ambito del processo Missouri vs Biden, un caso contro presunte violazioni della libertà di parola da parte dell’amministrazione democratica, che vede coinvolti i procuratori generali del Missouri, della Louisiana, oltre a quattro querelanti della New Civil Liberties Alliance. 

Dalle carte del processo sono emersi alcuni scambi di e-mail tra Rob Flaherty, il direttore dei media digitali della Casa Bianca, e un dirigente di Facebook, il cui nome non è stato reso noto. 

Il 14 marzo 2021, Flaherty ha inviato un’e-mail al dirigente di Facebook, mostrando come il social partecipasse alla «diffusione di idee che contribuiscono all’esitazione vaccinale». Alla risposta imbarazzata del dirigente («Credo ci sia un malinteso»), il funzionario governativo ha reagito con fermezza, esigendo un cambio nella policy del social: «Non credo si tratti di un malinteso. Siamo seriamente preoccupati dal fatto che il vostro servizio sia uno dei principali motivi che spingono all’esitazione vaccinale, punto… Vogliamo sapere che ci state lavorando, vogliamo sapere come possiamo aiutarvi e vogliamo sapere che non state facendo il gioco delle tre carte…». Tanto è bastato affinché la piattaforma corresse ai ripari, cedendo alle imposizioni della Casa Bianca.

Il 21 marzo, il dirigente di Facebook inviava una mail in cui illustrava i cambiamenti di policy per «eliminare la disinformazione sui vaccini» e ridurre la «viralità dei contenuti che scoraggiano la vaccinazione», ma che non contenevano forme di «disinformazione perseguibile». Facebook si è inoltre impegnato a «rimuovere gruppi, pagine e account, quando promuovono in modo sproporzionato» questo genere di contenuti.

L’interesse della Casa Bianca non si è limitato “solo” a Facebook, ma si è esteso anche a Whatsapp e a YouTube. L’Inquisitore digitale della Casa Bianca ha interpellato Meta per sapere che cosa stesse facendo per «limitare la diffusione di contenuti virali» sulla app di messaggistica privata, «data la sua portata nelle comunità di immigrati e nelle comunità di colore». La società ha risposto tre settimane dopo con un lungo elenco di promesse.

Come se non bastasse, il 9 aprile, il rappresentante di Washington ha incolpato la società per la mancanza di zelo nel “controllare” il discorso politico (senza specificare a quale “contesto elettorale” si riferisse), esigendo rassicurazioni che tale negligenza non si sarebbe verificata nuovamente sul fronte vaccinale. Il funzionario ha accusato Meta di aver sviluppato tardivamente un algoritmo in grado di privilegiare le «notizie di qualità» per poi accantonarlo. La Big Tech si è limitata a chinare il capo: «Capito», è stata la risposta. 

Pochi giorni dopo, il 14 aprile, Flaherty è tornato alla carica chiedendo conto del perché il «post più visto sui vaccini» in quella data fosse quello del conduttore conservatore di Fox, Tucker Carlson, «che dice che non funzionano».

Il 10 maggio la piattaforma inviava un elenco delle misure che Facebook aveva provveduto ad adottare per assecondare le richieste della Casa Bianca. In risposta, uno stizzito Flaherty infieriva sull’interlocutore, replicando che risultava «difficile prendere sul serio» le misure censorie di Meta.

Come rileva il Wall Street Journal, da queste e-mail emerge come il social di Zuckerberg abbia assecondato le ripetute pressioni della Casa Bianca e per questo migliaia di americani siano stati silenziati «per aver espresso opinioni scientificamente fondate ma divergenti dalla linea del governo».  [di Enrica Perucchietti]

LE CURE.

La risposta cubana. 

Il plasma iperimmune.

Il Molnupiravir.

La risposta cubana. 

Un’altra cura è possibile: l’esempio prezioso della medicina socialista cubana. Michele Manfrin su L'Indipendente lunedì 14 agosto 2023

La risposta alla pandemia è stata pressoché la stessa in quasi tutti i Paesi del mondo: restrizioni senza precedenti, ricerca e produzione delle terapie affidata alle multinazionali del farmaco, rifiuto delle cure domiciliari e precoci. Ovunque, fatta eccezione per un piccolo Paese di appena undici milioni di abitanti situato al centro dei Caraibi che dal lontano 1959 marcia in direzione ostinata e contraria: Cuba. L’isola socialista non ha abdicato alla sua unicità dopo la morte del líder máximo Fidel Castro e continua a procedere – nonostante il lunghissimo embargo imposto dagli Stati Uniti e un’economia che non può godere di particolari ricchezze naturali – su una strada basata su forti investimenti pubblici, sulla ricerca e un sistema sanitario universale e gratuito, composto non solo da ospedali e cliniche specialistiche, ma anche da una medicina di base capillare e da una particolare attenzione sulla prevenzione. In un sistema socialista, infatti, la malattia non è vista come un affare per aziende farmaceutiche e cliniche private ma come un costo per la collettività che si cerca di ridurre al minimo, promuovendo prevenzione e cure precoci. Un sistema solidaristico, ramificato ed eguale, privo di commistioni tra interesse pubblico e privato, che ha permesso anche di affrontare la pandemia del Covid-19 in maniera profondamente differente, dimostrando la fattibilità e la razionalità di un altro modello possibile di assistenza pubblica.

La risposta cubana 

I primi casi di coronavirus confermati a Cuba risalgono all’11 marzo 2020 quando tre turisti italiani risultano positivi al test. Alla fine del mese, i positivi al Sars-Cov 2 sono 170 e i morti 4. Dal 1° aprile, Cuba decide di sospendere tutti i voli internazionali con l’intento di fermare il flusso di turisti che stava contribuendo a propagare il virus sull’isola. Inoltre, il governo cubano istituisce un lockdown con la chiusura della maggior parte delle attività produttive, allentando le misure politico-sanitarie con l’arrivo dell’estate, salvo poi reintrodurle tra la metà e la fine di agosto, di pari passo con il nuovo aumento del tasso di contagio.

Fino a qui niente di diverso da quanto vissuto a queste latitudini, apparentemente. A Cuba infatti, mentre si chiede alle persone di rimanere in casa col fine di cercare di contenere il contagio, il sistema sanitario – basato su una forte decentralizzazione territoriale con un gran numero di medici di famiglia sparsi sul territorio, incluse le zone meno abitate – si mette in moto. I medici girano per le case a fare test, visitare le persone e curare coloro che mostrano i primi sintomi. Mentre in Italia si procede con il protocollo “Tachipirina e vigile attesa” e si bolla come stregoneria da complottisti ogni tentativo di cure domiciliari, le autorità sanitarie de L’Avana approvano a tempo di record un protocollo nazionale per contrastare il Covid-19 in sei fasi, al fine di garantire sia la prevenzione che la cura della malattia. Per quel che concerne i farmaci preventivi, il governo distribuisce gratuitamente a tutta la popolazione il PrevengHo-vir, un rimedio omeopatico di produzione nazionale che consente di rinforzare il sistema immunitario prevenendo i decorsi aggressivi del contagio. Se la persona contagiata mostra i sintomi si interviene invece con l’Interferone Alfa 2b. Il ricovero in terapia intensiva è previsto soltanto come ultima ratio, da applicare in caso di fallimento di tutti i rimedi di prevenzione e cura domiciliare.

Secondo i dati Minsap (Ministero della salute pubblica di Cuba) questo protocollo è stato lo strumento con cui L’Avana ha potuto registrare tassi di letalità sensibilmente più bassi degli altri Paesi. Le ragioni alla base della scelta, oltre che medico-sanitarie, risiedono anche nel modello politico e nella storia di Cuba: l’isola, oltre a perseguire un sistema di sviluppo socialista (che punta a porre l’interesse collettivo davanti a quello privato), vive da decenni sotto embargo statunitense: il blocco commerciale da parte del potente vicino di casa, storicamente determinato a far precipitare, con mezzi economici o militari, ogni esperienza di governo che mette in discussione il modello capitalista. Cuba ha così dovuto fare di necessità virtù, ingegnandosi per rispondere alle necessità della popolazione. Per il Paese, povero ma ostinato nella sua volontà di indipendenza, il sistema sanitario è divenuto perno centrale per progredire verso il benessere collettivo; in questo, la prevenzione è certamente carattere fondamentale dell’approccio medico. Uno Stato come Cuba non può aspettare che la situazione si aggravi poiché concentrarsi sulla prevenzione e sulle cure precoci costa meno rispetto a curare una malattia già in avanzato decorso.

Il sistema sanitario cubano

[Medici cubani che hanno prestato soccorso in Messico durante la pandemia, rientrano a Cuba. ]Nei Paesi capitalisti c’è una tendenziale relazione tra salute della popolazione e stato dell’economia. Non è il caso di Cuba che, pur presentando un PIL modesto (il settantesimo al mondo), è riuscito a raggiungere indicatori di salute (speranza di vita alla nascita e mortalità infantile) pari a quelli dei Paesi ricchi, anzi in alcuni casi migliori. Il sistema sanitario cubano si fonda sul principio per cui la salute è un diritto sociale inalienabile di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna. Il sistema sanitario cubano è governato e coordinato dal Ministero di Salute Pubblica (MINSAP) che coordina l’assistenza modulandola su tre gradi amministrativi (nazionale, provinciale e municipale) e quattro livelli di servizio (nazionale, provinciale e municipale e di settore). L’assistenza di primo livello copre circa l’80% dei problemi di salute della popolazione e i suoi servizi sono forniti principalmente nei consultori e nei poliambulatori presenti in tutti i 168 municipi della nazione. I servizi di secondo livello – gli ospedali provinciali – coprono circa il 15% dei problemi di salute. Nel terzo livello – ospedali specializzati o istituti di eccellenza – viene trattato soltanto il 5% dei problemi di salute sui quali non si è riusciti a intervenire con successo nelle fasi precedenti.

Complessivamente, quindi, il sistema sanitario dell’isola conta su una rete infrastrutturale di oltre 500 policlinici, 220 ospedali e 15 istituti di ricerca; nel settore sanitario lavorano complessivamente circa 600.000 persone (circa il 9% della popolazione in età lavorativa), di cui più di 30.000 medici di famiglia. Si è passati dall’avere, nel 1995, 5,2 medici ogni 1000 abitanti a circa 6,7 nel 2009, fino ad arrivare agli 8,3 di oggi. Un rapporto che fa di Cuba la nazione con la più alta densità di medici ogni 1.000 abitanti (Svizzera 4,3; Germania 4,25; Italia 3,8); nello stesso periodo, gli infermieri sono passati dall’essere 7 per ogni 1000 abitanti a 9,5 (contro i 6,2 dell’Italia). Il forte orientamento alle cure primarie è garantito dalla capillare presenza sul territorio di strutture di bassa e medio-bassa complessità. Si parte dai consultori, strutture dove operano le Equipe Basica de Salud (EBS), e i policlinici, in cui lavorano anche medici specialisti. Ogni consultorio e policlinico “si occupa della gestione dell’assistenza primaria in un’area geografica ben delimitata, della quale periodicamente si studiano le caratteristiche geografiche, sociologiche, demografiche per individuare i principali fattori di rischio derivanti dal territorio”.

Formazione e ricerca 

La formazione universitaria cubana è pubblica e gratuita. Le facoltà di medicina presenti sull’isola sono poco meno di trenta e sono diffuse in tutte le province. Il percorso di studi si articola in 6 anni di cui i primi tre rivolti alle materie di base, il quarto e il quinto a quelle cliniche e l’ultimo alla pratica diretta sul campo. Il fine del percorso universitario è la formazione del medico di medicina generale integrata, che costituisce la prima specializzazione per tutti i medici cubani. Per comprendere le priorità formative del sistema sanitario del Paese, è certamente utile notare che, tra gli esami che hanno il maggior numero di crediti formativi, figurano i corsi di “Promozione della salute”, “Prevenzione della salute” e “Salute pubblica e medicina comunitaria”. Le materie cliniche prevedono la frequenza degli studenti dei reparti ospedalieri e dei centri di assistenza primaria – come i policlinici, seguendo l’idea dei “policlinici universitari” – al fine di permettere ai futuri medici di confrontarsi con le patologie di comune riscontro nella popolazione oltre che con casi specifici e selezionati.

I vaccini cubani 

Tra le strategie adottate da Cuba non è mancata quella vaccinale. Forte di un complesso di ricerca biotecnologica all’avanguardia (anche questo un lascito delle politiche di Fidel Castro che negli anni ’90 lanciò un poderoso piano d’investimenti nella ricerca medica ad alta tecnologia), L’Avana è riuscita laddove ogni ricco Paese europeo ha fallito: progettare e produrre in proprio vaccino anti-Covid. Questi ultimi sono stati realizzati su piattaforme consolidate nel tempo e già conosciute, basate sulle proteine virali isolate e purificate. Se le multinazionali americane si sono lanciate sui grandi profitti dei vaccini sperimentali a tecnologia mRna, Cuba si è concentrata sullo studio di vaccini proteici, ritenendoli più sicuri e in grado di essere prodotti a minor costo.

In tempi concorrenziali con le potenze globali Pfizer, Moderna e AstraZeneca, i ricercatori dell’Avana sono riusciti a progettare e sperimentare cinque diversi tipi di vaccino. Tre di questi hanno superato le fasi di sperimentazione fino all’approvazione definitiva: Abdala, Soberana02 e Soberana Plus. Il primo è stato sviluppato dal Centro per l’ingegneria genetica e la biotecnologia (CIGB) mentre gli altri due sono stati sviluppati dall’Istituto Finlay de Vacunas Cuba. In questo modo, mentre i Paesi occidentali stipulavano costosissimi contratti pieni di clausole secretate con le multinazionali del farmaco, Cuba ha prodotto vaccini a basso costo che sono stati somministrati ad oltre il 90% della popolazione e distribuiti anche fuori dai propri confini.

Al di là dei contorni specifici relativi all’opportunità della campagna vaccinale di massa, l’esperienza cubana ha mostrato anche in questo campo come quella logica privatistica che non sembra neanche possibile mettere in discussione nei Paesi occidentali parta in realtà da un presupposto totalmente falso: non è vero che solo una ricerca scientifica appaltata alle grandi aziende farmaceutiche è in grado di produrre rapidamente farmaci innovativi; può farlo anche la ricerca pubblica, a patto che sia portata avanti in maniera solida e strutturata. Tutto questo è stato possibile in un Paese piccolo, sotto embargo e con un PIL modesto, solo progettando e perseguendo un modello differente.

A ormai 64 anni di distanza da quando un manipolo di guerriglieri, guidati da Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara, presero il potere con la rivoluzione, Cuba è ancora lì – fiera e indipendente al cospetto del gigante vicino a stelle e strisce – a dimostrare che un altro modello di società è possibile. Anche nella sanità.

[di Michele Manfrin]

Il plasma iperimmune.

MATTEO BASSETTI CONTRO LE IENE: "NON SIETE MEDICI, BASTA". Estratto da adnkronos.com giovedì 23 novembre 2023.

 "Siamo di nuovo al metodo Iene. Ieri sera è andato in onda un servizio in cui dicono che io sarei contro il plasma iperimmune, per cui entrano dove io sto lavorando", "con una telecamera ti aspettano dietro un angolo e ti fanno vedere degli articoli scientifici". Esordisce così in un video postato su X Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive dell'ospedale policlinico San Martino di Genova, commentando un servizio delle Iene che lo vede protagonista. 

"La domanda che io mi pongo è questa: loro dicono che io nel libro li ho attaccati sul plasma iperimmune. E in effetti Le Iene mi pare che di cantonate ne abbiano prese parecchie. A Stamina, il metodo che si è rivelato altamente inefficace, hanno dedicato 21 puntate […]. Dopodiché, loro spingevano sull'utilizzo del plasma iperimmune nelle forme gravi" di Covid.

"[…]i servizi delle Iene di quel periodo erano su gente che arriva veramente disperata, all'ultimo stadio in terapia intensiva e gli davano il plasma iperimmune e resuscitava. Non è così. Il plasma iperimmune in quel tipo di pazienti non funziona e lo ha chiaramente dimostrato uno studio italiano, che io ho citato e che si chiama studio Tsunami. Dopodiché sono state fatte altre pubblicazioni […]". 

"Ma attenzione […] perché il plasma iperimmune non è […] un farmaco a costo zero. Ci vogliono donatori, bisogna organizzare e il tutto non è così semplice. Le Iene la devono piantare di fare continue invasioni di campo", incalza Bassetti, rimarcando nel commento al post: "Sbagliando non si impara…". "Lascino fare ai medici i medici", invita infine nel video. "Quando sono entrati nelle questioni sanitarie, almeno in un paio hanno preso delle grandi cantonate. Dopodiché - conclude - questo modo di inseguire la gente mentre sta lavorando sinceramente lo trovo veramente di cattivo gusto".

LE IENE: LA RISPOSTA DELLA TRASMISSIONE AL DOTT. MATTEO BASSETTI. Da iene.mediaset.it giovedì 23 novembre 2023.  

«Caro Prof. Bassetti, non siamo medici (come lei reclama) ma non siamo stupidi e in questi mesi abbiamo parlato con tanti medici che non la pensano come lei. Ha passato due anni a sostenere che il plasma iperimmune non funzionava, e adesso deve ricredersi. 

E fortunatamente dichiara (cosa che non ha mai fatto prima) che se usato entro i primi 5 giorni “può avere un ruolo”. Anche gli antibiotici se non li si usa per tempo e nel giusto modo non servono a nulla. 

Adesso lei puntualizza: “Ma attenzione, il plasma iperimmune non è, come viene detto, un farmaco a costo zero”. Caro professore, non c’è niente che costa zero. Sicuramente costa 10 volte meno di una cura monoclonale prodotta da una multinazionale farmaceutica. 

Il plasma iperimmune è stato donato dalle persone guarite, che hanno prodotto anticorpi che sono serviti a guarire altre persone. Il costo di questo procedimento è 80/100 euro a sacca. Per una cura completa servono mediamente 4 sacche.

Il Prof. Bassetti dice: “Ci vogliono donatori, bisogna organizzare e non è così semplice”. Anche per andare a comprare un’aspirina in farmacia bisogna organizzarsi. Lasci fare ai medici dell’ospedale pubblico di Padova, che si sono organizzati benissimo e che hanno distribuito plasma iperimmune a 1500 esseri umani, non andando contro la scienza, curando un sacco di persone e disobbedendo a chi in questi anni di covid li ha combattuti da giornali e reti televisive unificate. Fortunatamente oggi il virus sembra essere molto meno aggressivo, ma alla prossima pandemia, che nessuno si augura, questo sistema di cura dovrà esser preso in considerazione più seriamente. Lascio di seguito i link degli articoli sul funzionamento del sangue iperimmune pubblicati dalle più importanti riviste scientifiche.

Covid, la ricerca conferma: il plasma iperimmune salva i pazienti immunocompromessi. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 21 gennaio 2023.

L’utilizzo del plasma iperimmune sembra essere “associato a benefici relativi alla mortalità negli individui immunocompromessi e affetti da Covid-19″: a suggerirlo sono i risultati di uno studio recentemente pubblicato sulla rivista JAMA Network Open, condotto con l’obiettivo di valutare le “esperienze cliniche” dei pazienti Covid immunodepressi e trattati con il plasma convalescente. Gli autori del lavoro scientifico, precisamente una revisione sistematica ed una meta-analisi, hanno esaminato tutta una serie di studi e casi clinici in cui i pazienti Covid presentavano una immunosoppressione primaria o secondaria (cioè ereditaria o meno), cercando di fare luce sull’impatto della trasfusione del plasma convalescente in qualsiasi dosaggio. Ebbene, il trattamento con plasma convalescente è risultato essere legato ad una diminuzione del rischio di mortalità nei pazienti immunocompromessi, nonostante il fatto che questi ultimi siano stati sottoposti al trattamento “relativamente tardi”.

L’efficacia delle terapie a base di anticorpi per gli individui immunocompetenti si basa sulla somministrazione precoce con dosaggio sufficiente” e “questo principio è stato convalidato dall’esperienza del plasma convalescente Covid-19”, si legge infatti nello studio, il quale però ricorda che in tal caso i pazienti immunocompromessi sono stati trattati con il plasma iperimmune mediamente ben 17 giorni dopo l’insorgenza dei primi sintomi ed 11 giorni dopo il ricovero ospedaliero. Per questo, dunque, il plasma convalescente potrebbe a maggior ragione rappresentare un’arma fondamentale per sconfiggere il Covid negli individui immunodepressi. Del resto, come sottolineato all’interno dello studio, “l’efficacia del plasma convalescente nei pazienti immunocompromessi e che hanno riportato sintomi per settimane o mesi apre la strada all’ipotesi che esso mantenga l’efficacia clinica fino a quando il ricevente non è sieronegativo e non vi è alcun danno parenchimale irreversibile”.

Certo, bisogna ricordare che lo studio è caratterizzato da alcuni limiti, motivo per cui “l’ipotesi di un significativo effetto benefico del plasma convalescente sulla mortalità nei pazienti immunocompromessi non può essere definitivamente dimostrata con i dati attuali”. Tuttavia, attualmente già si può parlare della presenza di “elementi molto forti” che “supportano l’efficacia” del plasma iperimmune nel ridurre la mortalità nei pazienti Covid immunocompromessi: un dato di fatto, quest’ultimo, alquanto rilevante, visto che “i pazienti immunocompromessi hanno un rischio maggiore di morbilità e mortalità associati alla malattia da Covid-19 perché presentano meno frequentemente risposte anticorpali ai vaccini”. Non solo, poiché anche il trattamento con anticorpi monoclonali – “ampiamente utilizzato per trattare il Covid-19” – sembra ormai essere sempre meno efficace. “Le evoluzioni del SARS-CoV-2 sono state associate a varianti resistenti agli anticorpi monoclonali e ad una maggiore virulenza e trasmissibilità del virus”, si legge infatti nello studio, in cui viene poi sottolineato che pertanto ultimamente “l’uso terapeutico del plasma convalescente è aumentato sulla base del presupposto che lo stesso contenga anticorpi potenzialmente terapeutici in ottica SARS-CoV-2 che possono essere trasferiti passivamente al ricevente del plasma”.

Il ricorso al plasma iperimmune, dunque, a quanto pare ultimamente sta iniziando ad essere rivalutato dopo che in passato esso non era stato molto considerato. A tal proposito non si può non fare riferimento all’Italia, dove finora la terapia basata sul plasma convalescente non è mai stata presa sul serio tra la stampa nazionale che a più riprese l’ha affiancata al concetto di “teoria cospirazionista” e le istituzioni che l’hanno ridimensionata. Ad aprile 2021, infatti, uno studio promosso dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e dall’Istituto superiore di sanità (ISS) aveva sminuito il ruolo terapeutico del plasma convalescente con l’AIFA che, pur parlando dell’ipotesi di dover “studiare ulteriormente il potenziale ruolo terapeutico del plasma nei soggetti con Covid lieve-moderato e nelle primissime fasi della malattia”, sottolineava che la ricerca non avesse “evidenziato un beneficio del plasma in termini di riduzione del rischio di peggioramento respiratorio o morte nei primi trenta giorni”. A risultati differenti e meno incerti, però, è poi giunto uno studio pubblicato nel marzo 2022 sul New England Journal Of Medicine, dal quale è emersa una valutazione positiva degli effetti del trattamento con il plasma dei guariti in pazienti nelle prime fasi della malattia. Le evidenze in favore del plasma iperimmune, dunque, negli ultimi tempi si stanno moltiplicando, e la terapia sempre più si sta rivelando un importante mezzo con cui combattere il Covid-19.

In Italia il pioniere della sperimentazione del plasma iperimmune è stato il dottor Giuseppe De Donno. L’ex primario dell’ospedale Carlo Poma di Mantova subì pesanti attacchi volti a screditarlo quando difese le cure basate sul plasma all’inizio della pandemia, trattato come un santone nel dibattito pubblico per aver affermato di esser riuscito ad azzerare la mortalità tra i suoi pazienti Covid con una cura a bassissimo costo come quella a base di plasma. Si ritrovò addirittura i carabinieri dei NAS in corsia. Nel giugno 2021 si dimise dalla carica in ospedale e il 28 luglio 2021 si suicidò. Questa nuova ricerca riporta alla mente la sua vicenda e le sue parole amareggiate quando, parlando del boicottaggio delle cure a base di plasma e dalla denigrazione della sua professionalità di medico, affermò: «un giorno la comunità scientifica dovrà rispondere ai cittadini di questo».

[di Raffaele De Luca]

Il Molnupiravir.

Molnupiravir: la costosissima e celebrata pillola anti-Covid non funziona. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 29 Dicembre 2022

Il farmaco Molnupiravir non riduce la frequenza dei ricoveri o dei decessi legati al Covid-19 tra gli adulti vaccinati più vulnerabili: è quanto emerge da uno studio che inevitabilmente ridimensiona il ruolo della costosissima pillola della società farmaceutica Merck, che negli scorsi mesi – sulla base di dati assai scarsi – era stata celebrata sui principali media e da molti dei virologi più in vista come una cura quasi miracolosa. Il lavoro, recentemente pubblicato sulla rivista The Lancet, con l’obiettivo di fare luce sugli effetti del molnupiravir nei pazienti vaccinati a rischio ha precisamente coinvolto oltre 25mila soggetti positivi al Covid e con sintomi iniziati da non più di 5 giorni, gran parte dei quali aveva ricevuto almeno tre dosi di un vaccino anti-Covid. I partecipanti, di età pari o superiore a 50 anni oppure pari o superiore a 18 anni ma con “comorbidità rilevanti”, sono stati divisi in due gruppi: ad uno sono stati somministrati 800 milligrammi di molnupiravir due volte al giorno per 5 giorni in aggiunta alle “cure abituali”, mentre all’altro sono state date solo queste ultime. Ebbene, in seguito ad un monitoraggio durato 28 giorni è emerso che i gruppi hanno sperimentato un tasso simile di ricoveri e decessi, essendo gli stessi stati registrati in “98 (1%) dei 12.525 individui del gruppo delle cure abituali” ed in “105 (1%) dei 12.529 partecipanti” appartenenti al gruppo a cui è stato somministrato anche il molnupiravir.

Certo, gli individui che hanno ricevuto il molnupiravir hanno avuto tempi di recupero più rapidi rispetto a quelli trattati solo con le cure abituali, ma con risultati assai più modesti di quelli sbandierati dai comunicati aziendali. Nell’ottobre 2021, infatti, Merck aveva diffuso un comunicato contenente promettenti risultati: dimezzamento di ricoveri e decessi assumendo 4 pillole al giorno per 5 giorni, con trattamento da effettuare nei primi giorni dall’infezione. Così, le manifestazioni di entusiasmo dei virologi più in vista non erano tardate ad arrivare, con il factotum della gestione pandemica americana Anthony Fauci che – ad esempio – aveva parlato di «dati impressionanti». Eppure tali dati erano tutt’altro che solidi come facemmo notare, dopo averli analizzati, su L’Indipendente in un articolo pubblicato ad ottobre 2021 – tra l’altro la sperimentazione era stata sospesa prima di essere completata, basandosi sulla metà dei volontari inizialmente previsti.

Puntualmente stanno emergendo dati che mettono in dubbio l’efficacia del molnupiravir, i cui benefici sembrerebbero essere stati gonfiati da una sperimentazione poco rigorosa. Certo, si potrebbe obiettare che lo studio recentemente pubblicato sul The Lancet abbia ad oggetto quasi esclusivamente soggetti vaccinati con tre dosi mentre nel comunicato della società non viene menzionato lo stato vaccinale degli individui sottoposti alla sperimentazione, ma si tratterebbe di una critica futile. Pur volendo escludere i risultati emersi dallo studio attuale, l’entusiasmo generale creatosi in seguito alla diffusione dei dati aziendali non può infatti essere giustificato visto che i proclami inizialmente fatti sull’efficacia del molnupiravir erano stati smentiti già nel dicembre 2021, quando i dati completi degli studi presentati alla FDA (Food and Drug Administration) per l’approvazione del farmaco avevano suggerito che lo stesso fosse “meno efficace di quanto inizialmente pensato”. A riportarlo era stato un articolo pubblicato sulla rivista Nature, in cui veniva specificato che i risultati mostravano come il farmaco avesse “ridotto il rischio di ricovero da Covid-19 del 30%”, e non del 50% come osservato inizialmente da Merck.

Lo studio attuale è quindi una conferma dei dati molto meno esaltanti del previsto. Come detto, però, nonostante già in passato fosse facile comprendere che i dati dell’azienda dovessero essere presi con le pinze, la reazione di diversi virologi non era stata certo misurata. Eppure, le zone d’ombra legate ai dati sbandierati erano diverse, con questi ultimi che avrebbero dovuto essere analizzati criticamente da esperti e media non solo a causa dell’elevato costo della pillola (700 dollari a trattamento) ma anche in virtù dell’atteggiamento ben differente adottato nei confronti di altre cure. Basterà citare la terapia basata sul plasma convalescente, a più riprese affiancata dalla stampa nazionale al concetto di “teoria cospirazionista” ma rivelatasi poi efficace nel ridurre il “rischio di progressione della malattia che porta al ricovero in ospedale”. A sottolinearlo uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), il quale precisava anche che il plasma convalescente non avesse “limiti di brevetto” e fosse “relativamente poco costoso da produrre”: un dettaglio che, alla luce di quanto detto, non può passare inosservato. [di Raffaele De Luca]

Covid: l’AIFA sospende la costosissima pillola “sponsorizzata” da Fauci e Bassetti. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 13 marzo 2023.

L’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha deciso di sospendere l’utilizzo del medicinale antivirale molnupiravir per “la mancata dimostrazione di un beneficio clinico in termini di riduzione della mortalità e dei ricoveri ospedalieri”. Le zone d’ombra sulla reale efficacia del farmaco erano evidenti sin dall’inizio, tanto che su L’Indipendente pubblicammo già ad ottobre 2021 un articolo intitolato “I punti oscuri della nuova (costosissima) pillola anti-covid in approvazione”. A distanza di un anno e mezzo il molnupiravir, celebrato da diversi virologi – tra cui Anthony Fauci e Matteo Bassetti – come una soluzione rivoluzionaria contro il Covid-19, si è dunque rivelato inutile. Poco male per la società farmaceutica Merck che nel frattempo ha venduto dosi, pagate dagli Stati con fondi pubblici, per circa 6 miliardi di euro.

Lo scorso 24 febbraio, il Comitato per i medicinali a uso umano dell’Agenzia europea del farmaco (EMA) ha formulato un parere negativo sulla bontà del molnupiravir. Così, dopo due settimane, la Commissione tecnico-scientifica dell’AIFA ha deciso di sospendere la pillola utilizzata per il trattamento del Covid-19. Nel rendere pubblica la decisione, l’ente italiano ha puntualizzato che “non sono stati rilevati particolari problemi di sicurezza collegati al trattamento”. Al danno non si è aggiunta la beffa, dal momento in cui un farmaco costato circa 700 dollari a trattamento si è “soltanto” rivelato essere privo di benefici clinici. Una conclusione giunta a distanza di oltre un anno dall’approvazione avvenuta a dicembre 2021 che sostanzialmente conferma i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet, e rilanciato in un articolo de L’Indipendente, in cui si ridimensionava il ruolo della costosissima pillola della società farmaceutica Merck.

La pillola anti-covid si era presentata con non pochi punti oscuri, come scritto in un precedente articolo de L’Indipendente. Nell’ottobre 2021, infatti, Merck aveva diffuso un comunicato contenente promettenti risultati: dimezzamento di ricoveri e decessi assumendo 4 pillole al giorno per 5 giorni, con trattamento da effettuare nei primi giorni dall’infezione. Estasiati, i virologi – tra cui Matteo Bassetti e il factotum della gestione pandemica statunitense Anthony Fauci – iniziarono a parlare di «dati impressionanti» e di un «risultato straordinario». Peccato che, al di là di comunicati stampa e dichiarazioni, i dati difettassero di solidità. Il comunicato sull’efficacia divulgato dalla casa farmaceutica si basava sui risultati preliminari di uno studio di fase 3, ultima tappa prima dell’eventuale approvazione. Gli studi di fase 3 prevedono di dividere i soggetti partecipanti in due gruppi: uno da trattare con il farmaco, l’altro con il placebo o altri farmaci già in uso. Nel caso specifico si è scelto di confrontare il molnupiravir con il placebo. Dallo studio è emerso che il farmaco fosse efficace al 50% in quanto il 7,3% dei pazienti trattati con esso è stato ricoverato, mentre il 14,1% dei pazienti che hanno ricevuto il placebo è stato ricoverato o è morto. Tuttavia, già la scelta di comparare il molnupiravir al placebo (una sostanza farmacologicamente inerte) nonostante vi fosse la possibilità di confrontarlo, ad esempio, con i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), che la stessa Aifa (Agenzia italiana del farmaco) consiglia per il trattamento del Covid, potrebbe averne amplificato l’efficacia.

In seguito a tali risultati, lo studio venne interrotto anticipatamente. I risultati diffusi si basano così sulla valutazione dei dati provenienti da 775 pazienti, poco più della metà dei 1500 pazienti inizialmente previsti per la sperimentazione. «Il risultato positivo ha indotto i ricercatori a interrompere il test, per non somministrare ai volontari un placebo in presenza di un’alternativa efficace», dichiarò Merck per giustificare l’interruzione della sperimentazione. La storia recente mostra come una ricerca terminata in anticipo possa dare risultati anche molto diversi da quelli che poi si riscontrano sul campo. A insegnarlo è la vicenda del remdesivir, antivirale sviluppato in origine contro il virus Ebola e successivamente proposto come cura anti-covid. In quel caso i test furono interrotti in anticipo per la medesima ragione e il remdesivir fu autorizzato all’uso. Peccato che un test più ampio svolto direttamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ne abbia poi mostrato la sostanziale inefficacia.[di Salvatore Toscano]

Estratto dell'articolo di Antonio Rapisarda per “Libero quotidiano” il 22 giugno 2023.

Sulla stagione del Covid se ne sono dette di ogni ma che la causa di tanti decessi fosse da addebitare in qualche modo proprio alla destra italiana e a Fratelli d’Italia in particolare – unico partito sempre all’opposizione in quella fase – è davvero troppo. 

A stabilirlo non solo la logica e la cronaca spicciola degli avvenimenti ma anche il Tribunale di Roma che ha condannato chi, in diretta televisiva, ha pensato bene di puntare il dito contro coloro che non avevano alcun numero in Parlamento per adottare una benché minima decisione sul tema. Si tratta del giornalista-divulgatore Alessandro Cecchi Paone che dovrà risarcire adesso i danni (quantificati in 20mila euro) alla reputazione e all’immagine del partito di via della Scrofa. 

Tutto è nato nel corso di una delle diatribe andate in onda nei mesi di pandemia: la trsamissione in questione era Zona Bianca del 14 luglio del 2021. Il tema della puntata? Il Green pass. La discussione in studio è partita dalla lettura di un tweet di Giorgia Meloni, ai tempi leader dell’opposizione, sul lasciapassare verde. In base a questo Cecchi Paone affermava che la responsabilità dei 130mila morti e la perdita di dieci punti del Pil fosse attribuibile «anche» a quella che veniva liquidata polemicamente come «destra no vax». Incluso proprio Fratelli d’Italia.

In soldoni la tesi del giornalista televisivo era che Meloni & co avessero avuto un orientamento ostile, a suo avviso del tutto gratuito e immotivato, alle restrizioni imposte dal governo Draghi per fronteggiare il Covid. «Hanno continuamente chiesto di aprire», spiegava in diretta facendo intendere che ciò avrebbe favorito la diffusione del virus e le terribili conseguenze sulla popolazione. 

Tesi rigettata in toto durante il procedimento da FdI, secondo cui la posizione tenuta in quel frangente dai suoi dirigenti era sì favorevole alla riapertura delle attività ma solo se dotate di misure di contenimento del rischio Covid (rilevando, oltretutto, come nella prima fase dell’epidemia il partito era favorevole alla chiusura generalizzata, quando l’allora governo Conte 2 tentennava). Non solo. Rispedite al mittente, ossia a Cecchi Paone, anche le altre accuse: da quella di aver fatto propaganda contro l’uso delle mascherine a quella più odiosa, la fantomatica contrarietà ai vaccini. I dubbi dei meloniani, invece, si riferivano all’obbligo. Ragion per cui la posizione non era assimilabile in nulla a quella della No vax.

Alla luce di tutto questo è partita la richiesta di risarcimento. Il Tribunale, analizzando la puntata, ha verificato che ciò che ha dichiarato Cecchi Paone riguardo Fratelli d’Italia su chiusure, mascherine e vaccinazioni, non risponde alla realtà:

Silvana De Mari radiata dall'albo dei medici: «Ho consigliato l'olio di fegato di merluzzo contro il Covid». Simona De Ciero su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

La decisione per aver dispensato consigli medici antiscientifici 

Silvana De Mari,  sospesa dall'ordine dei medici di Torino nel 2021 per essersi rifiutata di vaccinarsi contro il Covid, è stata radiata dell'albo. Una decisione  che arriva non solo per via del suo rifiuto al vaccino ma - così si legge sulle motivazioni dell'atto notificato il 6 giugno scorso - per aver più volte dispensato consigli medici antiscientifici. 

Sui social

«Con infinita fierezza comunico che in data 6 giugno mi è arrivata la comunicazione della decisione della commissione per gli iscritti all’Albo dei Medici Chirurghi della provincia di Torino sulla trattazione del mio procedimento disciplinare: radiazione dall’Ordine dei Medici - commenta la donna sui social -. Per tutto il tempo della cosiddetta pandemia ho fatto affermazioni, anzi esternazioni come scrivono i colleghi, che hanno salvato migliaia o forse decine di migliaia di persone. Ho consigliato l’olio di fegato di merluzzo: pochi mesi fa è stata confermata dall’università di Oslo la sua azione prodigiosa nel prevenire l’infezione Covid 19 o almeno nel diminuire la gravità».

Chi è

Silvana De Mari, 66 anni, è un medico e blogger torinese. Molto discussa e conosciuta al pubblico per le sue posizioni anti-gay e antiscientifiche. Durante tutte le fasi della pandemia, si è schierata apertamente con i No Vax rifiutandosi di vaccinarsi e fino ad essere sospesa dall'Ordine dei medici. In passato De Mari è stata anche imputata di diffamazione (e condannata in appello nel 2022) ai danni del circolo Lgtb Mario Mieli, che si era costituito parte civile. Aveva detto: «Nessuno nasce gay». E ancora: «Si guarisce come da una malattia»

Aggressione a Conte a Massa: l'ex premier colpito al volto da un no vax. Edoardo Semmola su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.  

In piazza per un evento elettorale, il leader del M5S è stato colpito al volto da Giulio Milani, che inveiva per le misure di contenimento durante la pandemia 

Era appena arrivato a Massa per un evento elettorale quando - nel pomeriggio di oggi, 5 maggio - il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte è stato aggredito da un no vax: Conte stava stringendo le mani ai sostenitori tra la folla e l'uomo, avvicinandosi con la scusa di volergli stringere la mano, lo ha colpito sul volto iniziando a inveire contro le misure di contenimento durante l'emergenza pandemica.

L'ex premier a caldo

L'aggressore, Giulio Milani, che si definisce un ex attivista pentastellato ma il Movimento 5Stelle ha subito smentito, è stato allontanato dalle forze dell'ordine. La notizia è riportata dallo stesso M5s in una nota. «Il dissenso è legittimo, ma questa manifestazione violenta esula dal contesto democratico», ha dichiarato in seguito l'ex premier.

«Quando ci si assume una responsabilità di governo si prendono decisioni difficili in momenti di grande difficoltà per l'intero Paese, come accaduto durante la pandemia - ha poi aggiunto Conte - Non si può accontentare tutti nonostante si lavori al bene di tutti. Il signore che mi ha aggredito, che è un no vax convinto, ha dimostrato con il suo gesto violento che questo tipo di derive sono fatte da persone irresponsabili. Se avessimo seguito le loro indicazioni probabilmente oggi saremmo una comunità completamente distrutta. Il dissenso è legittimo, ma questa manifestazione violenta esula dal contesto democratico».

La telefonata del ministro Piantedosi

Subito dopo l'aggressione, il primo a chiamare il leader grillino è stato il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi: per sincerarsi delle sue condizioni ed esprimergli solidarietà

Giorgia Meloni

«Esprimo solidarietà al presidente del M5s, Giuseppe Conte - è il commento del presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Ogni forma di violenza va condannata senza esitazione. Il dissenso deve essere civile e rispettoso delle persone e dei gruppi politici». 

L'aggressore

«Ma quale sganassone, è stato uno schiaffo pedagogico. Da ex elettore M5S, ex militante deluso, ed ex rappresentante di lista...» sono state le parole raccolte dall'Adnkronos di Giulio Milani, 52 anni, editore, no vax e candidato alle comunali per «Massa insorge. Marco Lenzoni sindaco», l'uomo che ha alzato le mani sull'ex presidente del Consiglio. «Non ho aggredito Conte, ho semplicemente usato il minimo della forza possibile. Il mio è stato un buffetto, per notificargli il mio disprezzo morale. Mio e di milioni di persone». Il suo disprezzo per Conte lo motiva così: «Ha tradito gli elettori facendo accordi con chiunque pur di avere poltrone e ha trascinato l'Italia in guerra dando sostegno al governo Draghi. Per non parlare dei provvedimenti anticostituzionali varati dal suo governo durante la pandemia. Lui e Speranza sono alla sbarra con l'accusa di epidemia colposa. Dovremmo interrogarci su di lui, più che su di me».

Milani si autodefinisce «un editore, gestisco una casa editrice, sono un intellettuale. Ripeto: il mio è stato uno schiaffo pedagogico. La violenza l'ha fatta lui con i suoi Dpcm».

Il presidente della Camera

Il Presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana ha subito espresso «la più ferma condanna per quanto avvenuto a Massa e la mia solidarietà all'Onorevole Giuseppe Conte. La violenza non può e non deve mai entrare nel perimetro della democrazia». 

Le altre reazioni

Immediate le reazioni da ogni parte politica. «Solidarietà a Giuseppe Conte per la vile aggressione subita da un no vax durante una manifestazione a Massa. La violenza ingiustificata è da condannare sempre e comunque» scrive su Twitter Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera.

Sempre su Twitter anche l'ex premier e segretario del Pd, Enrico Letta: «Tutta la mia vicinanza e solidarietà a Giuseppe Conte per l'aggressione che ha subito oggi a Massa»

«Solidarietà al leader del M5S Giuseppe Conte per la grave aggressione subita oggi a Massa. Un atto vile che va condannato senza se e senza ma. La dialettica politica passa innanzitutto per il rispetto e il rifiuto di ogni forma di violenza» fa seguito il segretario di +Europa Riccardo Magi.

Dopo di lui anche il senatore Lucio Malan, presidente di Fratelli d'Italia a palazzo Madama: «Solidarietà a Giuseppe Conte da parte mia e del gruppo di Fratelli d'Italia al Senato per l'aggressione di cui è stato vittima durante una manifestazione a Massa. La violenza va respinta in modo netto, sempre, da qualsiasi parte provenga». 

Sempre sui social anche il  presidente del Consiglio regionale della Toscana Antonio Mazzeo: «Solidarietà a Giuseppe Conte, aggredito a Massa da un no vax proprio nel giorno in cui l'organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che il Covid 19 non è più un'emergenza mondiale. Se abbiamo sconfitto la pandemia è stato grazie ai vaccini, alla scienza, alla ricerca e alla responsabilità di tante persone, non certo ai deliri no vax. Esprimere dissenso è legittimo, ma non esiste giustificazione per chi pensa di esprimere le proprie idee con la violenza. Al Presidente Conte va la vicinanza di tutto il Consiglio Regionale della Toscana».

Anche Simona Bonafé, deputata del Pd, si unisce nello stigmatizzare l'accaduto: «L'aggressione a Giuseppe Conte è un fatto gravissimo da condannare senza se e senza ma. È un atto che va stigmatizzato con forza da tutte le forze politiche, anche da quelle che nel corso della pandemia hanno alimentato, a scopo propagandistico ed elettorale, le posizioni no-vax». 

 Schiaffo a Giuseppe Conte, parla il suo aggressore Giulio Milani. Christian Campigli Il Tempo il 05 maggio 2023

Non fosse drammatico, sarebbe ridicolo. Perché, quando un cittadino crede di poter “educare” un politico con la violenza, l'intero meccanismo della democrazia denota una stortura molto pericolosa. L'aggressore di Giuseppe Conte, preso a schiaffi a Massa durante la campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale e per l'elezione del nuovo sindaco, ha parlato con l'agenzia di stampa AdnKronos. “Ma quale sganassone, è stato uno schiaffo pedagogico. Da ex elettore M5S, ex militante deluso, ed ex rappresentante di lista”. Parole sfrontate, di chi non appare minimamente pentito, quelle pronunciate da Giulio Milani, l'uomo che ha alzato le mani sull'ex presidente del Consiglio. Milani, che sulla propria pagina Facebook si auto proclama come Responsabile Ufficio Stampa del Cln (Comitato di Liberazione Nazionale), cerca di ridimensionare le accuse. “Non ho aggredito Conte, ho semplicemente usato il minimo della forza possibile. Il mio è stato un buffetto, per notificargli il mio disprezzo morale. Mio e di milioni di persone”.

Un gesto che, al di là della forza impartita alla mano, denota un odio profondo verso il leader del Movimento Cinque Stelle. “Ha tradito gli elettori facendo accordi con chiunque pur di avere poltrone e perché ha trascinato l'Italia in guerra dando sostegno al governo Draghi. Per non parlare dei provvedimenti anticostituzionali varati dal suo governo durante la pandemia. Lui e Speranza sono alla sbarra con l'accusa di epidemia colposa. Dovremmo interrogarci su di lui, più che su di me”. Milani non sembra minimamente preoccupato dall'ipotesi, tutt'altro che remota, che l'Avvocato del Popolo possa sporgere denuncia. “In tal caso spiegherò le mie ragioni in tribunale. I giornali titolano che sono un no vax, ma io sono un editore, gestisco una casa editrice, sono un intellettuale. Ripeto: il mio è stato uno schiaffo pedagogico. La violenza l'ha fatta lui con i suoi Dpcm”.

ANTI FAKENEWS. Sbatti il mostro no-vax in prima pagina. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 2 maggio 2023.

Durante il triennio pandemico, si è cercato prima di indurre l’opinione pubblica a sostenere l’equiparazione tra coloro che dissentivano dalla narrazione pandemica e criticavano le misure liberticide ai pazzi (si pensi per esempio alle sparate di Galimberti), poi di creare un frame sui manifestanti, screditandoli come violenti ed estremisti di destra. Mettendo mano all’ingegneria sociale e alla propaganda, l’opera di criminalizzazione e patologizzazione del dissenso ha modellato una cornice valoriale negativa sui dissidenti, etichettandoli come “negazionisti” e “no vax”, associandoli inoltre a elementi legati alla violenza, al complottismo, al fanatismo. Questo frame è stato progressivamente rafforzato e riempito di contenuti sempre più negativi, ai limiti del grottesco. I media hanno così diffuso l’identikit del “no vax”, descrivendolo in modo farsesco, come un ignorante, un bifolco, un mentecatto, un paranoico, un estremista, un complottista che s’informa solo su internet e persino con un “disagio abitativo”. 

Nell’arco dell’ultima settimana, due casi di cronaca nera sono stati abilmente sfruttati degli organi di stampa per indurre surrettiziamente nell’opinione pubblica la percezione che esista una minaccia rappresentata dai “no vax” e che costoro siano collegati ad atti di violenza. Partiamo dall’omicidio della psichiatra Barbara Capovani. L’aggressore, Gianluca Paul Seung, ex paziente della vittima, è affetto da turbe psichiche e disturbi della personalità ed è noto da tempo agli investigatori come persona «di elevata pericolosità». Ha inoltre una fedina penale costellata di numerosi precedenti per molestie e violenze, anche carnali, come riporta il Corriere Fiorentino. Scorrendo le centinaia di post pubblicati da Seung sulla pagina Facebook da lui creata, Associazione Adup (ovvero Associazione difesa utente psichiatrico), è stato trovato materiale per definirlo “delirante complottista” e “fervente no vax”. I post sulla pagina sono effettivamente farneticanti, ma si è voluto strumentalizzare il contenuto rinvenuto sui social per creare l’associazione omicida-complottista-no-vax. Queste etichette sono state forgiate appositamente per screditare chiunque non si allinei alla narrazione del pensiero unico e nel calderone del “complottismo” ci può finire chiunque, una persona equilibrata, rea semplicemente di esercitare il proprio pensiero critico, così come un paranoico, affetto da turbe psichiatriche.

Ad aprire la danze nel campo del framing è stata l’Ansa che in una prima agenzia di stampa, volta a delineare il profilo dell’omicida, ha focalizzato l’attenzione sui «messaggi complottisti di vario genere». A seguire La Stampa che ha insistito sui «post deliranti su Facebook». Seguendo la corrente, Open ha scritto che Seung «A dicembre si era presentato a La Nazione per denunciare da No vax la “vendita di vaccini tossici”», dettaglio assolutamente ininfluente rispetto alla natura e alla dinamica del reato. 

Il colpo da maestro è arrivato però da Matteo Bassetti che in un tweet ha sfruttato l’omicidio di Pisa per suggerire tendenziosamente un’associazione implicita tra l’aggressione e la galassia del complottismo: il paziente psichiatrico, scrive Bassetti era un «esponente del mondo complottista, negazionista e no vax». «Sono anni – continua la virostar – che noi sanitari chiediamo di essere tutelati maggiormente dai continui attacchi violenti». Insinuando tra le righe che lui e i colleghi debbano continuamente difendersi dagli assalti di orde di complottisti e no vax.

Pochi giorni dopo, un altro caso di cronaca ha offerto l’assist per rafforzare l’operazione di framing. Si tratta dell’omicidio di Manuel Di Palo da parte di Filippo Giribaldi, portuale della Culmv. Un crimine avvenuto per gelosia, come spiega il Corriere. Nessuna matrice di stampo politico o legata al dissenso. Eppure, i media, da Open a Il Gazzettino hanno insistito sul fatto che Giribaldi fosse un «leader no vax», «membro dell’associazione No vax “Libera piazza”». Il Corriere dedica, per esempio, ampio spazio a delineare l’attivismo di Giribaldi tra le fila del movimento no vax: «Sempre in prima fila ad arringare la folla. In un video del 2021 lo si vede mentre fa gli onori di casa per il gemellaggio con il leader dei no vax di Trieste Stefano Puzzer, che in piazza era stato acclamato come una star». Anche questo, un dettaglio ininfluente per la dinamica del crimine, ma utile per completare la “mostrificazione” del personaggio, funzionale semmai ad altre narrazioni complementari che hanno lo scopo di accentuare il legame con l’area del dissenso. E insinuare che i no vax siano dei pericolosi criminali. E perché no, dei pazzi da curare. [di Enrica Perucchietti]

Covid, uno studio certifica le discriminazioni subite dai non vaccinati. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 23 aprile 2023.

Durante gli anni pandemici, gli individui sottopostisi al vaccino anti-Covid hanno discriminato i non vaccinati: a provarlo è uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, che fa luce sul trattamento riservato a questi ultimi nel corso dell’emergenza sanitaria. Coinvolgendo oltre 15.000 persone appartenenti a 21 paesi, il lavoro scientifico ha infatti dimostrato che i soggetti vaccinati hanno messo in campo “atteggiamenti discriminatori nei confronti degli individui non vaccinati” praticamente ovunque. Ad eccezione di Ungheria e Romania, infatti, i ricercatori hanno trovato in tutti i paesi analizzati prove a sostegno della discriminazione da parte delle persone vaccinate, che hanno riservato ai non vaccinati un trattamento uguale (o anche peggiore) a quello generalmente dedicato agli immigrati, ai tossicodipendenti ed agli ex detenuti.

Gli atteggiamenti discriminatori – espressi tramite forme come “l’affettività negativa” ed il sostegno alla “rimozione dei diritti politici” – sono inoltre stati attuati in maniera maggiore nei paesi “con norme cooperative più stringenti”, coerentemente con alcune “precedenti ricerche sulla psicologia della cooperazione” secondo cui anche nel campo delle vaccinazioni gli individui reagiscono negativamente contro i cosiddetti “free-riders”, ovverosia coloro che beneficiano dei frutti della cooperazione senza partecipare alla stessa. In tal caso, ciò di cui avrebbero beneficiato i non vaccinati sarebbe stato il “controllo dell’epidemia”, con gli individui vaccinati che avrebbero “contribuito” al suo perseguimento e di conseguenza reagito tramite “atteggiamenti discriminatori nei confronti dei percepiti free-riders (ovvero gli individui non vaccinati)”.

Eppure, la decisione di non vaccinarsi può basarsi su diverse motivazioni, non riconducibili alla semplice volontà di non cooperare. In tal senso, nello studio viene menzionata “una recente revisione” relativa ai “paesi ad alto reddito”, dalla quale è emerso che “anche se gli stereotipi negativi sono statisticamente veri, è improbabile che catturino adeguatamente le motivazioni complete di ogni individuo”. Una persona non vaccinata, infatti, può rifiutarsi di sottoporsi alla vaccinazione per svariate ragioni: ad esempio, il non vaccinato potrebbe avere determinate “condizioni mediche”, una “immunità da precedenti infezioni”, “esperienze passate negative con le autorità sanitarie” o “considerazioni etiche sull’equità dei vaccini”.

L’odio nei confronti dei non vaccinati, dunque, sarebbe in tali casi ingiustificato, anche se in realtà lo sarebbe pur non tenendo conto di quanto appena detto. Infatti, mentre gli individui vaccinati hanno generalmente discriminato i non vaccinati, pare che questi ultimi non si siano comportati allo stesso modo. In tal senso, nello studio si legge che non vi sono prove secondo cui gli individui non vaccinati si sarebbero rifatti ad atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone vaccinate, e solo in Germania e negli Stati Uniti vi sarebbe una sorta di astio. In questi due paesi, infatti, è stata riscontrata “una certa antipatia nei confronti degli individui vaccinati”, anche se comunque non sono emerse “prove statistiche a favore di stereotipi negativi o atteggiamenti di esclusione” da parte dei non vaccinati.

Un dettaglio importante, soprattutto se si considera che gli atteggiamenti discriminatori da parte dei vaccinati sono risultati “culturalmente diffusi”, essendo i 21 paesi inclusi nello studio situati in tutti i continenti abitati. È proprio per questo, dunque, che non si può non porre la lente di ingrandimento sui politici: “alcuni di essi hanno giustificato politiche severe contro i non vaccinati usando una retorica altamente moralistica”, e la stessa potrebbe aver giocato un ruolo chiave nel fenomeno discriminatorio. “Sebbene la comunicazione moralistica delle responsabilità collettive possa essere una strategia efficace per aumentare le vaccinazioni, essa può avere conseguenze negative non intenzionali suscitando pregiudizi”, si legge infatti nello studio. Un problema, quest’ultimo, non da poco: basterà ricordare che in tal modo le società potrebbero uscire dalla pandemia “più divise” di quanto erano, e dunque non a caso nello studio viene sottolineato che i risultati emersi “offrono anche una lezione per le altre sfide globali”. In tal senso, “poiché la condanna morale viene spesso spontaneamente attivata tra il pubblico durante una crisi”, le autorità ed i politici dovrebbero placare le “animosità sociali” anziché alimentarle: la speranza, dunque, è che la pandemia funga da lezione, essendosi rivelato potenzialmente dannoso l’atteggiamento istituzionale adottato in questi anni.

[di Raffaele De Luca]

Covid, assolto Leonardo Facco: incitare alla disobbedienza non è reato. Stefano Baudino su L'Indipendente l’8 aprile 2023.

Assolto perché “il fatto non costituisce reato“. È questo il verdetto del Tribunale di Forlì sul caso dello scrittore Leonardo Facco, cui venivano addebitate espressioni ritenute offensive contro le istituzioni statali in tema di green pass e campagna vaccinale. Facco era accusato di “Vilipendio della Repubblica e delle istituzioni costituzionali e delle Forze Armate” (art. 290 c.p., poi derubricato e archiviato per difetto di querela) e “Istigazione a disobbedire alle leggi” (art. 415 c.p.). Facco, nota voce del Movimento libertario, fin dalla fase iniziale della pandemia si era schierato contro la gestione sanitaria della lotta al Covid, invitando i cittadini a disobbedire ad alcune misure pandemiche e a sabotarle pacificamente. Posizioni che gli erano valse il processo che oggi vede la fine con la completa assoluzione.

Emettendo nei suoi confronti una richiesta di decreto penale di condanna a due mesi di reclusione – convertiti però in una pena pecuniaria di 4500 euro -, la Procura di Forlì aveva fatto riferimento a due episodi, entrambi avvenuti nella cornice delle manifestazioni della campagna No Paura Day. A Cesena, il 3 aprile 2021, davanti a 150 persone Facco aveva detto: «Resistere… resistere… disobbedire… di più… ci hanno dichiarato guerra… boicottare, dobbiamo boicottare tutti questi covidioti… bisogna sabotare, bisogna sabotare… l’importante è non aggredire le persone, non far del male agli individui… ma il fatto che un giorno un centro vaccinale non funzioni più non è un gran male per nessuno». Poi, intervenendo a Cesenatico il successivo 18 ottobre, lo scrittore libertario aveva affermato: «Scegliamo strategicamente un sacco di posti in tutta Italia dove i No Paura Day possono nascere e così altre associazioni… dove ci sono le strisce pedonali, dove passano i camion, quelli che devono portare le cose e ci mettiamo in 500 in ogni punto, 500 ne voglio in ogni punto. E lo facciamo! E lo facciamo in massa! In massa dobbiamo farlo!».

Ad accogliere con entusiasmo la sentenza, un nutrito gruppo di sostenitori di Facco, che si sono riversati festanti sulle scalinate del Tribunale. A margine dell’udienza, lo scrittore ha parlato alla folla: «Io vi ringrazio di cuore, perché questa è veramente la vittoria di ognuno di voi», ha detto. Successivamente, ha rilasciato una dichiarazione a un cronista: «Si è dovuti venire in un’aula di Tribunale per ribadire un concetto fondamentale: quello di garantire a tutti la libertà di espressione, di critica, e anzi di più, di resistenza. Oggi vince la libertà, quella libertà che è incarnata in ciascuno di noi». A esprimere soddisfazione anche il legale dello scrittore, Alessandro Fusillo, che su Twitter ha scritto: «Facco assolto dal tribunale di Forlì. Disobbedire non è reato. La libertà di parola ha trionfato. Grazie a tutti quelli che sono venuti a sostenerci!». [di Stefano Baudino]

(ANSA il 10 febbraio 2023) Tossicodipendenti, per pochi euro o per qualche dose di droga, si sottoponevano alla vaccinazione contro il Covid-19 con documenti falsi per permettere a dei 'no vax' di ottenere il Green pass. E' quanto emerso da un'inchiesta della Dda della Procura di Catania su indagini dei carabinieri del comando provinciale su una presunta banda di rapinatori. Militari dell'Arma stanno eseguendo un'ordinanza del Gip nei confronti di 17 indagati, nove dei quali destinatari di una misura cautelare.

Tra loro anche 'fabbricanti' di armi artigianali che venivano vendute a criminali locali. Il provvedimento, eseguito da oltre cento carabinieri del comando provinciale di Catania, ipotizza, a vario titolo, i reati di rapina aggravata, sequestro di persona, fabbricazione, porto e compravendita di armi clandestine, falso materiale, cessione di stupefacenti e ricettazione.

 Dall'indagine, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catania, è emerso come gli indagati, oltre ad aver commesso tre cruente rapine a mano armata in esercizi commerciali di San Giovanni La Punta, fabbricassero anche armi clandestine perfettamente funzionanti, che venivano vendute a criminali del luogo per circa mille euro ciascuna.

L'attività investigativa ha poi portato alla luce un articolato sistema criminoso, in cui tossicodipendenti, per pochi euro o qualche dose di sostanza stupefacente, muniti di documenti falsi, venivano convinti a farsi vaccinare più volte, per procurare a 'no vax' la certificazione 'Green pass'. Per una delle "cavie", è stata infatti accertata la somministrazione di tre dosi di vaccino in meno di un mese, a grave rischio per la propria salute.

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per repubblica.it il 31 gennaio 2023.

"Camila Giorgi? Certo, era mia paziente insieme al padre Sergio, alla madre Claudia e ai fratelli Amadeus e Leandro. Francesca Calearo, in arte Madame? Mai vista prima". Due ore e mezza di incidente probatorio davanti al pubblico ministero per la dottoressa Daniela Grillone Tecioiu, medico di base attorno a cui ruota l'inchiesta sulle false vaccinazioni aperta dalla Procura di Vicenza. Un'inchiesta con indagati del calibro della cantante che tra pochi giorni si esibirà sul palco del festival di Sanremo o della tennista reduce dagli Australian Open.

 Ma se dell'atleta marchigiana la dottoressa ha saputo snocciolare fatti e circostanze, anche dopo il riconoscimento fotografico avvenuto davanti al magistrato, per quel che riguarda l'artista la deposizione è stata più sfumata. Del resto, Daniela Grillone Tecioiu l'aveva detto anche in sede di interrogatorio. "Io conoscevo i genitori di Francesca Calearo, non lei direttamente".

Centinaia di indagati

Ma il nome della cantante figura tra quelli di altre centinaia di persone da tutta Italia, tra cui anche molti rappresentanti delle forze dell'ordine, dipendenti delle professioni sanitarie e, più in generale, della pubblica amministrazione. Tutti devono rispondere del reato di falso ideologico. Gli indagati dalla Procura di Vicenza sono 23 ma l'elenco dei clienti dello studio di Creazzo che faceva falsi vaccini per ottenere Green Pass validi è molto più lungo.

 Dalla banca dati dell'Usl 8 di Vicenza Francesca Calearo risulta vaccinata il 10 novembre 2021 anche se poi, al culmine della polemica, era stata proprio lei ad ammettere tutto sul suo profilo Instagram, scaricando sostanzialmente la colpa sui genitori da tempo sostenitori della medicina alternativa. Madame aveva confessato di non essersi mai immunizzata contro il Covid e anche se dopo 24 ore dopo aveva eliminato il post, per la Procura quella vale come una confessione. Si andrà dunque a dibattimento e le confessioni saranno inserite nel fascicolo processuale.

 (...)

Andrea Priante per corriere.it il 6 gennaio 2023.

«Sono profondamente sconvolta e pentita per le mie azioni». Inizia così la lunga confessione di Daniela Grillone, 57 anni, la dottoressa vicentina arrestata lo scorso febbraio con l’accusa di aver finto di vaccinare centinaia tra medici, infermieri, imprenditori, ma anche vigili, agenti… E Vip.

 Due nomi su tutti: l’atleta marchigiana Camila Giorgi, una delle più forti tenniste italiane, e la cantante Madame (al secolo Francesca Calearo) che tra poche settimane è attesa a Sanremo e che mercoledì su Instagram aveva annunciato di aver già iniziato a completare le vaccinazioni «necessarie per me e utili per gli altri», senza però chiarire la sua posizione riguardo al possibile utilizzo di green pass falsi. Post che l’artista vicentina giovedì ha rimosso per lasciare «che l’indagine faccia il suo corso». Nel frattempo lei, Giorgi e altre ventidue persone (compresi mamma, papà e fratelli della tennista) sono indagate per falso ideologico.

 «Non sono una no vax ma ebbi effetti collaterali»

La procura ha fissato per le prossime settimane l’incidente probatorio durante il quale verrà sentita nuovamente la dottoressa Grillone (avvocato Fernando Cogolato) ma anche quello che viene considerato il suo «successore», il nefrologo Erich Goepel Volker, 64 anni di Malo, difeso dall’avvocato Massimo Malipiero.

 Nel frattempo per la prima volta è possibile ricostruire la vicenda attraverso le prove raccolte dagli investigatori a carico dei due dottori: le intercettazioni, le testimonianze e, soprattutto, le confessioni rese da Grillone. È proprio lei a raccontare l’origine di tutto. «Non sono un soggetto appartenente all’ideologia no vax» spiega al pm. «Credevo effettivamente nell’utilità del vaccino. Purtroppo dopo le due dosi che mi sono auto-somministrata ho visto che sono comparse sul mio corpo delle piaghe e ho avuto pesanti effetti collaterali».

La sua conversione sarebbe maturata dopo aver parlato con un medico-chirurgo no vax: «Mi ha convinta che la reazione fosse conseguenza delle dosi (…) Mi ha chiesto di eseguire su di lei un vaccino fasullo (…) e ha chiesto di mandarmi alcuni conoscenti che non volevano vaccinarsi, molti dei quali avevano patologie che secondo lei erano potenzialmente avverse alla somministrazione. E io ho accettato».

 La più grande «fabbrica» di vaccini fasulli scoperta finora in Veneto, ha avuto inizio così: Grillone dice che la dottoressa le manda «una trentina» di pazienti. Ma le voci si spargono in fretta. «Coloro che venivano vaccinati falsamente, a loro volta chiedevano di fissare appuntamenti per parenti e amici, e così il numero dei soggetti cresceva…».

 «Il vaccino gettato nel water»

In poco tempo la situazione le sfugge di mano: i no vax arrivano da ogni parte d’Italia e davanti al suo studio cominciano a formarsi lunghe code al punto che suo marito (finito pure lui sotto inchiesta) si rivolge a un servizio di vigilanza privata «al fine di disciplinare l’ingresso dei pazienti». Lei incontra tutti, e il prezioso siero «veniva da me gettato nel water».

 «Sta venendo gente in borghese...»

La situazione è talmente caotica che le sue segretarie, il 17 dicembre 2021, vengono intercettate mentre discutono sul fatto che «sta venendo gente in borghese (intendendo appartenenti alle forze dell’ordine, ndr)… io non so se lei si rende conto, stanno raccogliendo le prove!».

Sono preoccupate: «Lei vive in un altro mondo… non gliene frega un c. della salute di nessuno (…) Si crede Dio onnipotente, è megalomane, vuole essere adulata». Raccontano che, all’interno dello studio, Grillone «tiene dei comizi (…) A mia madre le ha detto che sono morte dieci persone con reazioni avverse! Queste sono le puttanate che racconta».

 Quando la collega dice che «vive nel suo mondo e tutto il mondo gira intorno a lei», l’altra la corregge: «È tutto che gira intorno ai soldi… perché davanti ai soldi lei non ha neanche riguardato la sua salute…». Di fronte al pm, Grillone prima nega («Non ho mai chiesto soldi, ma spesso i pazienti mi hanno portato dei regali»), ma poi si corregge: «In ogni caso potevano lasciare anche dei soldi ma solo spontaneamente, io non chiedevo».

 «Calearo? Il nome non mi dice nulla»

Intanto nel suo studio arrivano i Vip. A dirla tutta, la dottoressa neppure sa chi sia Madame: quando il pm le chiede della cantate vicentina, risponde che «Francesca Calearo non mi dice nulla, non è una mia paziente e quindi desumo che, come tutti gli altri, è venuta solo per ottenere la certificazione fasulla all’anticovid».

 Le mostrano gli elenchi sequestrati, e allora dice che probabilmente è una delle pazienti inviatele dal marito di un’orafa di Grumolo delle Abbadesse «che conosco da trent’anni» e che ha finto di vaccinare assieme alla figlia, ma solo con la prima dose perché «poi hanno contratto il Covid». Alla fine ammette che Madame «se risulta nell’elenco sicuramente non l’ho vaccinata, e quindi si tratta di falsa attestazione anche perché non c’era motivo che un paziente non mio venisse in studio solo per vaccinarsi».

Invece ricorda bene Camila Giorgi: «La famiglia Giorgi è in cura da molto tempo presso di me… in particolare Camila soffriva del cosiddetto “gomito del tennista” (…) Poco prima dell’inizio dell’estate Camila era venuta chiedendo la possibilità di ottenere delle false attestazioni di tutti i vaccini obbligatori, nonché del vaccino Covid». La dottoressa fissa quindi degli appuntamenti «per l’estate e per l’autunno. Posso confermare con assoluta certezza che nessuno dei vaccini nei confronti della famiglia Giorgi sono stati effettivamente somministrati. In quel caso non ho ricevuto alcun pagamento».

 Le segnalazioni dell’Usl alla questura

L’attività illecita dura qualche mese, fino a quando i vertici dell’Usl di Vicenza segnalano alla questura quella dottoressa che registra «non meno di 140 dosi ogni quattro giorni, arrivando addirittura a 193 dosi tra il 25 e il 29 ottobre 2021». L’azienda le «taglia» la disponibilità dei vaccini e allora Grillone indirizza i pazienti dal collega Erich Goepel che, spiega al pm, «mi risulta essere un no vax convinto». Ma pure lui viene smascherato dalla polizia. A quasi un anno dall’arresto, entrambi i medici sono tornati a esercitare in attesa del processo. Per Madame, Camila Giorgi e gli altri «pazienti», invece, i guai sono solo all’inizio.

Il tribunale dei medici attacca Madame: «Fuori da Sanremo!» Per fortuna Amadeus ha ricordato ai media che in questi giorni le stanno riservando una piccola gogna che «dare un giudizio con il panettone in bocca su una cosa così seria è poco serio». Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 29 dicembre 2022

La Federazione italiana di medicina generale (Fimmg) chiede di escludere la cantante Madame dalla scaletta del concertone di Capodanno che si terrà al Circo Massimo perché accusata dalla procura di Vicenza di aver falsificato il suo green pass.

Lo fa per bocca del suo segretario romano Pier Luigi Bartoletti che intervistato da La Repubblica si dice scandalizzato dall’invito rivolto alla giovane artista: «Senza entrare nella vicenda giudiziaria dico soltanto che gli australiani quando Djokovic faceva il furbo non lo hanno fatto entrare, mentre noi ai furbi no vax concediamo il concerto di Capodanno», tuona Bartoletti,

Non si capisce per quale bizzarro motivo un dirigente del più importante sindacato dei medici di base debba dire la sua sulla presenza di una cantante a un evento musicale.

Opinioni buttate giù a ruota libera e naturalmente «senza entrare nella vicenda giudiziaria», che agli occhi del censore in camice bianco deve essere un fastidioso orpello, di certo irrilevante ai fini della sentenza morale che lui ha già emesso dopo aver letto qualche titolo di giornale. Madame è colpevole e per questo non deve cantare! Né per la fine dell’anno, né al prossimo Festival di Sanremo che la vede inclusa nella lista dei big.

Per fortuna il conduttore e direttore artistico Amadeus ha ricordato ai media che in questi giorni le stanno riservando una piccola gogna che «in questo momento dare un giudizio con il panettone in bocca su una cosa così seria è poco serio. C’è un’indagine in corso e si è innocenti finché non si viene dichiarati colpevoli». Che debba essere uno showman a ricordare al circo mediatico i principi del garantismo e dello Stato di diritto dovrebbe far riflettere. Ma poi: anche se Madame fosse colpevole perché mai dovrebbe smettere di svolgere il suo mestiere?

Quello messo in piedi dal segretario della Fimmg è l’ennesimo, improvvisato tribunale della morale, uno dei tanti del nostro paese dove spuntano come funghi per giudicare, ieri un politico, oggi un’artista, domani chissà chi. Tribunali che non nessuno ha nominato e che, non avendo competenza specifica su nulla, si sentono in diritto di esprimersi su tutto, dispensando giudizi e chiedendo punizioni esemplari,

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 28 dicembre 2022.

[…] Domanda, da vaccinati e vaccinisti convinti, ma contrari ai vaccini forzati a pena di multe, discriminazioni e nuovi reati: ma com' è possibile che, in un Paese democratico come l'Italia, chi non si fa due o tre punture senza fare nulla di male a nessuno (i contagi da Covid vengono sia dai Vax sia dai No Vax) passi per un delinquente, mentre criminali conclamati scorrazzano indisturbati nelle istituzioni, nella vita pubblica e sui media, magari discettando di riforme del fisco e della giustizia? […]

Andrea Priante per corriere.it il 27 dicembre 2022.

 L’ha fatto «per tutelare la loro salute», perché spesso erano pazienti «con patologie e allergie» per i quali la vaccinazione poteva essere controindicata. In questi mesi, la procura di Vicenza ha interrogato per cinque volte la dottoressa Daniela Grillone Tecioiu, 57 anni, medico di base con studio a Vicenza, specializzata in medicina estetica e ozonoterapia. E per cinque volte lei, assistita dall’avvocato Fernando Cogolato, ha provato a indossare la maschera della paladina dei malati, spiegando di aver «agito in questo modo, per prevenire danni maggiori».

L’ha fatto per i pazienti, assicura, per proteggerli dalle possibili controindicazioni del siero anti-Covid. E per quelle finte vaccinazioni che consentivano di ottenere il green pass, lo scorso anno si sono rivolte a lei centinaia di persone. Anche da fuori regione. Anche Vip. Due nomi su tutti: la cantante vicentina Madame (al secolo Francesca Calearo, 20 anni) che tra meno di due mesi è attesa a Sanremo, e l’atleta marchigiana Camila Giorgi, 30 anni, una delle più forti tenniste italiane. Entrambe, sono ora indagate per falso ideologico.

La spiegazione alle telecamere

Le giustificazioni rese di fronte al sostituto procuratore Gianni Pipeschi sono coincise con una confessione piena da parte della dottoressa che era stata arrestata a fine febbraio assieme al marito Andrea Giacoppo, e con quello che viene considerato il suo «successore», il nefrologo Erich Goepel Volker, 64enne di Malo che da novembre 2021 era medico di medicina generale da supplente in uno studio di Fara Vicentino. Entrambi i dottori, nel frattempo sono tornati in libertà e, in attesa dell’eventuale processo, hanno ottenuto dall’Usl la possibilità di tornare a esercitare.

Che la donna stesse collaborando con gli inquirenti (al contrario di Goepel che, assistito dall’avvocato Massimo Malipiero, si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere) era evidente da quando, il mese scorso, le telecamere dell’emittente locale Tva Vicenza l’avevano ripresa mentre spiegava candidamente: «Sono stati fatti dei vaccini falsi, solo però a dei colleghi miei, infermieri ecc, che avevano patologie, che stavano per morire se facevano un vaccino… Erano disperati». Per questo si rivolgevano al suo studio, perché «tutti gli altri colleghi si sono rifiutati di fare loro un’esenzione». Quanti pazienti hanno ottenuto in questo modo il green pass? «Non sono stati tanti, alla fine saranno stati sì e no trecento vaccini».

Gli indagati vip

Gli investigatori, dopo aver acquisito dall’Usl l’elenco dei pazienti immunizzati da Grillone, hanno incrociato i dati con le dichiarazioni rese durante gli interrogatori. E da lì si è aperto il nuovo filone investigativo che per ora vede indagate quindici persone per falso ideologico. Tra loro ci sono medici, infermieri e promotori farmaceutici. Ma anche la vicentina Madame (la 57enne era già il suo medico di base) e Camila Giorgi, vincitrice del Canada Open 2021 e seconda italiana di sempre (dopo Flavia Pennetta) e attuale numero uno del tennis femminile azzurro.

Non solo, con l’atleta sono indagati – con le stesse accuse – anche i suoi due fratelli Amadeus e Leandro, la mamma Claudia Fullone e il padre-allenatore Sergio Luis Giorgi. Tutti hanno ricevuto l’avviso di garanzia in vista della richiesta, avanzata dalla procura di Vicenza, di un incidente probatorio che si svolgerà nelle prossime settimane: gli inquirenti vogliono sentire di nuovo, ma stavolta davanti a un giudice, la dottoressa Daniela Grillone, così che le sue dichiarazioni potranno tornare utili anche in un eventuale processo.

Sanremo a rischio?

Per ora nessun commento né da parte della tennista (che domani incontrerà i suoi avvocati per decidere come replicare alle accuse, che se si rivelassero fondate potrebbero innescare pesanti provvedimenti dalla Federazione italiana tennis) e neppure dalla cantautrice vicentina per la quale ora si discute sull’opportunità della sua partecipazione a Sanremo, dove è attesa con il brano «Il bene nel male»: non essendo sotto contratto con la Rai, la tv pubblica non può applicare il codice etico ma la direzione artistica del Festival potrebbe prendere posizione nei prossimi giorni.

È probabile che quei quindici indagati siano soltanto i primi nomi a finire nel mirino degli inquirenti, tra quelli presenti nel lungo elenco di pazienti che si sono rivolti a Grillone e (ma in questo caso la lista sarebbe molto più breve) al suo collega Erich Goepel Volker. Oltre ai camici bianchi, infatti, a chiedere l’intervento dei due medici di base per eseguire una falsa vaccinazione ci sarebbero decine di appartenenti alle forze dell’ordine.

Madame vaccino, che libidine il disagio radical chic. La cantante regina di fluidità nella bufera per l’indagine sui falsi vaccini. Giornali in imbarazzo. Max Del Papa il 27 Dicembre 2022 su Nicolaporro.it.

Di questo passo, salta fuori un Madamgate, tipo Qatar. Anche perché, vedi caso, la faccenda, tanto per cambiare, si gioca tutta a sinistra. Riassunto della puntata precedente: una apprendista cantante, certa Francesca Calearo da Vicenza, in arte Madame, 20 anni, viene pompata secondo lo schema classico di questo business miserabile, alla Maneskin: poca sostanza, tanta tracotanza, compreso il vezzo di maltrattare i fan (i fan? Madame ha i fan?), “che cazzo volete, non vedete che sto mangiando”. Secondo la regola di Eugenio Finardi: “La gente si innamora sempre della gente convinta”. E vagamente stronza. Tu tiratela come fossi la Callas, e i pirla ci crederanno.

Vale anche nel giornalismo, oh, se vale… Questa Madame fa la non allineata, la non binaria e in due anni mette in fila due Sanremi, come tutti quelli iscritti fin da piccoli alla società dello spettacolo di regime, però col cipiglio: oh, io sono bisessuale, non facciamone una cosa, eh. No, guarda, stai facendo tutto tu, tipo la Lucarelli con le palette o la Murgia con la complessità cristiana. Poi viene fuori che la medica della Madame finisce in galera perché fingeva di vaccinare i pazienti, forse compresa la Madame, non binaria anche in senso sanitario e perciò indagata. Sai, quando le piccole ribelli escono fuori come le più conformiste. Ma ci arriviamo tra un attimo.

Oggi, e siamo all’attualità fresca come un uovo di giornata, si viene a sapere che la signorina è stata assoldata dal comune di Roma per il solito spettacolo di piazza di fine anno insieme ad altri ribelli quali la ribollente Elodie, una che quanto a finezza c’è solo da consolarsi (anche lei pare abbia preso a umiliare i fan, dall’alto dei suoi 4 tormentoni penosi), Franco 126, Sangiovanni (eh?) e tutta la pletora dei falsi indie, tutti belli pilotati, indottrinati, conformizzati. E qui scatta la libidine, perché nel frattempo è emersa la storia della Madame. E la farsa è splendida, venendo la festa organizzata da una amministrazione del partito che del regime vaccinale ha fatto la sua ragione di sopravvivenza, fin che gli è riuscito. Ma come, tu sei il partito degli sgherri di Draghi, quello che solo oggi ammette che le sue alchimie servivano a ricattare i cittadini – dopo averlo negato per quasi due anni: si chiama cialtronaggine – e poi tiri dentro una che potrebbe essersi vaccinata per finta?

Difatti l’imbarazzo, come si usa dire in figuredemmerda come questa, è palpabile. Bocche cucite in comune, cucita a doppio ricamo quella della Madamin. Per forza, che deve dì? E, questa volta, passare da martire traumatizzata, bullizzata, ghettizzata, insomma fregarli tutti, è complicato. Business for dummies, cretinetti che la difendono a prezzo di umiliare la loro intelligenza.

Francamente, si fatica a seguire la logica di chi dice: ah, c’era la dittatura, lei ha fatto solo che bene. Davvero? Ma così è troppo facile. Il regime si combatte denunciandolo: cercare di fregarlo con mezzucci squallidi significa non combattere il regime, ma rafforzarlo a tutto scapito dei povericristi che, magari, si ritrovarono ricattati e senza via d’uscita. C’è chi si è compromesso, nell’informazione, pochissimi, nello spettacolo, meno ancora; c’è chi, dopo essersi sierato, è uscito allo scoperto, prendendosi minacce e maledizioni ma senza rinunciare a raccontare effetti collaterali e disastri accessori. C’è chi si è messo frontalmente dalla parte del torto, siccome tutti gli altri posti erano occupati (vero Pelù, Svacco Rossi, e tutta l’armata Brancaleone dei cosiddetti artisti piddini plurimascherati e plurisierati, almeno a loro dire?). E poi ci sono le Madamette che, se confermate le accuse, pare facessero le furbette: avrebbe porto la spalla alla patria, ma per finta, non ha detto una parola contro un sistema del quale pare non fosse convinta, però l’ha sfangata o almeno così credeva (a margine: se era irregolare già l’anno scorso, la sua partecipazione a Sanremo, trasformato per l’occasione in un hub vaccinale con tanto di spot del ciambellano di regime Amadeus e vergognosi siparietti del compare Fiorello, è stata o non è stata truffaldina?).

No, signori belli: la signorina Calearo da Vicenza non si è salvata le chiappe meritoriamente: ha preso in giro tutti noi e tutti voi che magari vi state sputtanando da due anni per combattere, nel vostro piccolo, un andazzo di stampo cinese. Non è neppure vero che la ragazzina non ci speculi: sulla faccenda del gender in apparenza non si è spesa fino alla militanza, essendo consigliata da volpini & volponi, ma non ha mai perso occasione per parlare di sé, di sé e ancora di sé, secondo la regola aurea dell’egolatria social, ma sempre, comunque e in ogni luogo con implicazioni ferroviarie, cioè sono non binaria, ho la fidanzata, non facciamone un dramma, come nella scena dei dentisti neri in “Scappo dalla città”.

Non ha praticato la militanza di partito, ma ha esasperato la propaganda personale così da farsi adottare idealmente dal Partito. Difatti la prendono dappertutto, Sanremo, Primomaggio e Capodanno. Certo, con ribelli così chi ha bisogno dei conformisti. Solo che a questo punto il Sanremo è a rischio: in modo grottesco, perché la punizione è sproporzionata al fatto, questo è certo. Ma siamo, restiamo nel moralismo di sinistra che ha sostituito il Dio della complessità cristiana, in cui non ha mai creduto, con l’idolo, il totem, la siringa: dunque, se bestemmi in chiesa, cioè a Sanremo, i mammasantissima in Rai e altrove si trasformano seduta stante in talebani. Lo stesso, par di capire, per il concertone di San Silvestro, officiato sempre dagli stessi e al servizio degli stessi. Ma chi si vota alla causa piddina, lo deve sapere: questi sono spietati, ti infilano ovunque ma se caschi in disgrazia, se ti fai beccare, non ti hanno mai conosciuto. Funziona se ti chiami Panzeri, perfino se ti chiami Soumahoro e sei moro, o meglio, morto al mondo per loro. Figuriamoci se non funziona per una che si crede Janis Joplin. Tutto va mal, Madame la marchesa. Max Del Papa, 27 dicembre 2022

Lo strano silenzio dei radical chic, l'incubo Covid e Madame: quindi, oggi...Quindi, oggi...: l'assemblea della Juventus, Mattarella senza Covid e il Qatargate. Giuseppe De Lorenzo su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

 Lele Adani racconta di aver avuto un accordo "verbale” con la Rai per commentare la finale dei mondiali in Qatar qualora non ci fosse stata l’Italia. E spiega come mai alla fine è andata diversamente. Sintetizzo a modo mio: è cambiata la direzione Rai, hanno comunque mandato in onda quell’orrore che chiamano Bobo Tv, quindi meglio tenerseli amici per il futuro. Forse sono stato un po’ brusco, ma il senso dell’auto-celebrazione odierna di Adani (“sono un signore”, “Se sei giusto e semini comportamenti corretti, riceverai correttezza”) è questo: meglio farseli amici che nemici.

- L'assemblea degli azionisti della Juventus, riunita all'Allianz Stadium, ha approvato il bilancio 2021/2022, chiuso con una perdita di esercizio di oltre 238 milioni di euro. Mi spiegate quale azienda resterebbe in piedi e, soprattutto, quale potrebbe permettersi di pagare i propri “operai” una decina di milioni all’anno di salario?

- Piccola segnalazione al Corriere: in questo Paese c’è avversione al pagamento delle imposte per due motivi. Primo, perché sono troppo alte. Secondo, perché non forniscono servizi adeguati. E se papà spreca risorse in prebende inutili e bonus a pioggia, sarà permesso ai figli almeno di dissentire?

- Basti pensare a due delle tasse più odiose. Quella di successione e l’Imu. La prima va letta così: dopo aver pagato le imposte sul reddito, crepi e lo stato come ultimo saluto ti sottrae soldi tuoi già tassati. La seconda è simile: dopo aver acquistato un bene, e averci pagato l’Iva, lo Stato si cucca altri euro per il solo fatto di possedere quel bene. E poi mi volete dire che non ci sarebbe di che lamentarsi?

- In Cina milioni di casi Covid e forse pure migliaia di morti. A Malpensa obbligo di tampone allo sbarco. Qualcuno chiede almeno 5 giorni di quarantena per i cinesi. La domanda è: perché siamo così preoccupati se siamo protetti dal vaccino?

- Fa bene il governo a mantenere la barra dritta sulla dicitura padre e madre sulla carta di identità. In fondo, a meno di affitti di utero o di spermatozoi, non c’è alternativa alla biologia: si nasce dall’unione di un uomo e di una donna. La cosa mi pare fattuale.

- Fatemi capire: una delle “prove" dell’inchiesta sul Qatargate sarebbe un video che mostra come una valigia nelle mani di Panzeri “sembra più piena” di quando era entrata qualche ora prima. E quindi se ne deduce che dentro ci fossero dei soldi. Spero per i pm belgi ci sia dell’altro, perché questa “prova” reggerebbe in aula da Natale a Santo Stefano.

- Sia chiaro, non sto dicendo che Panzeri, Kaili e il marito siano innocenti. Però tutto questo rimestare nelle ipotesi e nelle supposizioni di certi giornali, sempre abili a leggere le carte dell’inchiesta, mi ricorda metodologie da prima e seconda Repubblica italiana che non mi piacciono per nulla. Tipo, leggete qui. Scrive Repubblica: “Gli inquirenti sottolineano un elemento: i biglietti aerei sono stati emessi da una agenzia di viaggio di Doha. Una circostanza che fa supporre che siano stati quindi pagati dal governo qatarino”. “Fa supporre” mi pare un tantino vago.

- Si dice che l’evasione sottrae al Fisco 100 miliardi di euro all’anno. Visto come li usa, siamo sicuri di volerli affidare allo Stato?

- Mattarella torna negativo al Covid. Bene, siamo felici per lui. E nulla ora potrà esimerci dall’ascoltare l’ottavo predicozzo natalizio del Capo dello Stato a reti unificate.

- La cantante Madame è solo indagata per falso ideologico a causa delle presunte false vaccinazioni per ottenere il green pass. Essendo solo all’inizio, è innocente. Quindi la sua partecipazione a Sanremo non deve essere in discussione. Punto.

- Resta il fatto che la notizia sia di quelle dirompenti: parliamo in fondo della trasmissione più vista della Tv nazionale, una sorta di rito collettivo. Eppure, chissà come mai, una partecipante indagata all'interno di un'inchiesta per falsi greenpass non merita per il Corriere neppure un richiamino in prima pagina. Lo stesso dicasi per La Stampa, che non riporta proprio la notizia, e Repubblica, che nasconde un pezzettino invisibile nell’angolo basso di pagina 31. Il silenzio dei radical chic - così amanti della fluidità di Madame - è di quelli imbarazzanti: avessero indagato qualcun altro, un Djokovic qualunque, l'avrebbero sotterrato di critiche.

- Franceschini, re delle correnti del Pd, sale sul carro della Schlein che con le correnti non voleva aver nulla a che fare. E nel benedire la candidata, dice al rivale: “La generazione del Pd mia e di Bonaccini ha guidato il partito ai vari livelli dal 2007 ad oggi e ora è giusto che lasci il passo”. Ma soprattutto invita Elly a “cambiare tutto”. Ecco: io inizierei a cambiare da chi è stato segretario dem, sottosegretario e ministro più volte negli ultimi anni. Ovvero rottamerei per primo Dario Franceschini.

- Mi fa però godere “come un riccio appena nato” (cit. Tik Tok) l’atteggiamento della stampa tutta, di Amadeus, del Festival e di tutto il resto nei suoi confronti. Da due giorni, tutti zitti. Nessun pezzo scandalizzato se non qualche cronaca colorita sul suo essere “fuori dagli schemi”. A questo serve essere “nel sistema”, capite? Questa rubrica ricorda infatti il trattamento riservato a Novak Djokovic che scelse di non vaccinarsi. Lo trattarono da appestato, da infame, da reietto. Eppure tra chi come Novak decide di non immunizzarsi alla luce del sole, pagandone le conseguenze, e quelli che per restare nei palazzi ovattati “dei buoni” hanno cercato di esibire un finto green pass, beh: non ho dubbi. Molto meglio Djokovic.

- Va bene, Amadeus ha ragione. È vero che Madame è innocente finché non viene dichiarata colpevole. Però allora questo principio lo dobbiamo applicare a tutti, non solo alla Messa di Sanremo. Un politico viene inquisito per corruzione? Lo si lasci candidare. Un manager viene indagato per aver intascato delle mazzette? Che nessuno osi chiederne le dimissioni. Voglio dire: mi spiegate perché Eva Kaili dovrebbe stare in carcere e invece Madame a cantare a Sanremo? Dal punto di vista legale, sono nella stessa identica posizione.

La Notorietà

Francesco Le Foche.

Massimo Galli.

Alberto Zangrillo.

Matteo Bassetti.

Anthony Fauci.

Andrea Crisanti.

Fabrizio Pregliasco.

Roberto Burioni.

Ilaria Capua.

Antonella Viola.

La Notorietà.

Marco Zonetti per Dagospia Il 6 marzo 2023.

Mentre infuria la guerra tra il presidente della Regione Lombardia Luciano Fontana e il microbiologo e ora senatore Pd Andrea Crisanti, abbiamo scoperto un dato interessante attinto dal documento riservatissimo pervenuto a Dagospia e relativo al monitoraggio Rai-Ipsos sul grado di notorietà di un migliaio di personaggi più o meno famosi.

 Ora, in materia di Covid e di misure per contrastarlo, si sarebbe pensato che nel caso di un esperto chiamato in Tv a informare i cittadini, la "notorietà" fosse l'ultima caratteristica da rilevare e che si privilegiassero le competenze o l'autorevolezza. E invece, nell'aprile 2021, quando si era da poco insediato il Governo Draghi e a Viale Mazzini regnava ancora l'assetto giallo-verde M5s-Lega con Marcello Foa presidente e Fabrizio Salini Ad, la Rai procedette a monitorare il livello di "riconoscimento" di alcuni biologi, infettivologi, epidemiologi. In una parola, le "virostar" che prima facevano il bello e il cattivo tempo su ogni canale televisivo e che adesso, all'allentarsi dell'emergenza, sono chiamate in televisione in veste di "tuttologi".

Il più riconosciuto risultò essere Matteo Bassetti, seguito da Massimo Galli e Roberto Burioni (strano trovarlo "solo" al terzo posto, visto il suo imperversare sui social da anni, ma tant'è). In quarta posizione, piuttosto distaccato, il suddetto Andrea Crisanti, mentre Antonella Viola si piazzava quinta con una percentuale del tutto inferiore.

Per qualche motivo oscuro non furono invece mai rilevati Pierluigi Lopalco, Fabrizio Pregliasco, Maria Rita Gismondo e Ilaria Capua. Forse perché, nel giugno 2021, con l'avvento del nuovo CdA Rai e la carica di amministratore delegato assegnata a Carlo Fuortes, il monitoraggio della notorietà delle "virostar" parve di fatto cessare.

Di seguito, i cinque nominativi con le relative percentuali di "riconoscimento".

 Matteo Bassetti 49

Massimo Galli 43.6

Roberto Burioni 40.7

Andrea Crisanti 25.3

Antonella Viola 10.6

Da tgcom24.mediaset.it Il 6 marzo 2023.

In Usa la sottocommissione sulla pandemia di Covid della Camera dei rappresentanti ha dichiarato di disporre di "prove" secondo cui l'immunologo di riferimento della Casa Bianca, Anthony Fauci", "indusse" la scrittura di un articolo scientifico per confutare la teoria relativa all'origine della pandemia nel laboratorio cinese di Wuhan.

 L'accusa non è nuova: Fauci, nella veste di direttore dell'Istituto nazionale di allergologia e malattie infettive Usa, avrebbe fatto leva sulla concessione dei fondi pubblici per la ricerca per distogliere l'attenzione dal laboratorio cinese, dove si svolgevano ricerche sul coronavirus da lui personalmente autorizzate.

Francesco Le Foche.

"Mi hai dato la terapia sbagliata". E il paziente massacra Le Foche. Dopo averlo accusato di aver sbagliato cura, il 36enne ha assalito a mani nude il medico, trasportato in codice rosso in ospedale. Sconcerto dell'ordine dei medici. Federico Garau il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Arriva da Roma la notizia di un ennesimo episodio di aggressione commesso nei confronti di Francesco Le Foche. Si tratta, purtroppo, di un fenomeno in costante aumento, che sta destando non poche preoccupazioni fra i camici bianchi. In questo caso, pare che la vittima sia stata presa di mira da un ex paziente, furioso per la terapia che gli era stata somministrata. Il professionista si trova ora ricoverato in gravissime condizioni.

Cosa è successo

Secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa, l'aggressione si è verificata nel corso del pomeriggio di ieri, giovedì 5 ottobre. Le Foche si trovava nel suo studio medico sito in via Po, a breve distanza da Villa Borghese, nel centro di Roma, quando un giovane ha fatto irruzione, scagliandosi contro di lui. Il 36enne, affetto da un problema alla colonna verticale, ha sostanzialmente accusato il dottore di aver sbagliato la terapia per trattare la sua patologia e di avergli prescritti dei farmaci errati.

La situazione è in breve degenerata, arrivando a un'aggressione fisica in piena regola. Il medico è stato picchiato con violenza dal 36enne, tanto da riportare lesioni gravi. Sono stati ovviamente contattati i soccorsi e al loro arrivo gli operatori sanitari del 118 hanno subito compreso la complessità della situazione.

Le Foche è stato quindi caricato in ambulanza e trasportato in codice rosso al pronto soccorso del Policlinico Umberto I, dove, al termine degli esami strumentali di controllo, gli sono stati diagnosticati un trauma cranico facciale, una frattura del setto nasale e una frattura del pavimento orbitario di sinistra. La furia del 36enne, che lo ha attaccato a mani nude, la ha praticamente ridotto in fin di vita.

Il medico si trova ancora ricoverato all'Umberto I, e la sua prognosi è riservata.

L'arresto

Il 36enne è stato identificato e fermato dagli agenti del commissariato Salario, incaricati del caso. Accusato di tentato omicidio, il soggetto è stato tratto in arresto. Interrogato dagli inquirenti, il giovane ha spiegato di avere un'infezione alla colonna vertebrale e di essere stato curato male dal dottore.

Sconcerto dell'ordine dei medici

"Siamo sconcertati per la grave aggressione ai danni del collega Francesco Le Foche. C'è davvero uno sgomento ogni volta che ci troviamo di fronte ad episodi del genere, quando i professionisti dedicano la loro vita per lenire le sofferenze e le malattie. Ma mi pare di capire che in questo momento prevale la cultura dell'immortalità, la rimozione della malattia e della morte. Si crede che i medici possano fare tutto, ma non abbiamo il potere taumaturgico, non facciamo miracoli", ha dichiarato uno sconvolto, Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, ai microfoni di AdnKronos. "In un Paese civile quello che è accaduto alla psichiatra Barbara Capovani (la dottoressa uccisa da un ex paziente, ndr) non dovrebbero accadere e ripetersi. Un po' tutti dovremmo avere un maggior rigore anche nei confronti della malattia mentale, perché tutelare un medico è tutelare la salute", ha concluso.

Estratto dell’articolo di Alessia Marani per “Il Messaggero” sabato 7 ottobre 2023.

Professore Francesco Le Foche, innanzitutto, come sta?

«Diciamo che sto abbastanza bene, in volto e sulla testa così così: ho avuto una frattura zigomatica di sinistra e la sutura dell'occhio interno, ma dal collo in giù, insomma, credo sia tutto a posto. Sto rispondendo al telefono per dire a tutti che non sto per morire...».

[...] 

Allora che cosa è successo?

«A dire il vero di quei momenti esatti non ricordo niente, ho un buco di un paio d'ore. Sono arrivato in ospedale in stato di incoscienza e sono stato sottoposto anche alla tac senza che me ne rendessi conto. L'aggressore lo conosco perché è stato un mio paziente. Lo avevo visitato tre o quattro volte a studio per una spondilodiscite (un'infezione alle vertebre, ndr). E la terapia era andata a buon fine. Ma...». 

Ma?

«Un mese fa mi aveva ricontattato telefonicamente più volte. Aveva il cane malato e pretendeva che lo curassi come avevo fatto con lui. Era evidente che quel ragazzo avesse dei disagi mentali anche solo per avanzare una simile richiesta. Io gli rispondevo che doveva rivolgersi a un veterinario. Lui insisteva: "Eh no dottore lei può...". È un paziente psichiatrico che probabilmente farà uso anche di stupefacenti». 

E poi che cosa è successo?

«Il cane, sebbene seguito effettivamente anche da bravi veterinari che gli avevano detto che non si poteva fare nulla, è morto. E forse, questa è l'unica spiegazione che mi do per il gesto dell'altro pomeriggio. Il motivo per cui è entrato nel mio studio non lo so, ma l'unico elemento di discordanza tra noi è il fatto che io mi fossi rifiutato di curare il suo cane.

[...] questo giovane deve essere andato fuori di testa, non controllato da terapie. So che con lui c'era anche la mamma, una donna perbene, forse lasciata sola come tante altre mamme a combattere con i disagi psichiatrici dei figli». 

Non ricorda nulla del pestaggio?

«No, devo essere stato travolto da colpi fortissimi. Quel ragazzo mi aveva detto di essere un pugile e un buttafuori. Ha un fisico prestante, è altissimo: un energumeno che si è scagliato contro di me che peso appena 63 chili. Poteva ammazzarmi».

[...]

Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani e Clarida Salvatori per corriere.it sabato 7 ottobre 2023. 

Massacrato da un ex paziente, un pugile e buttafuori di 36 anni, perché pretendeva che gli curasse il cane, poi morto. Il professor Francesco Le Foche, 66 anni, immunologo noto in tv durante l’emergenza Covid, è ricoverato da giovedì scorso in prognosi riservata al Policlinico Umberto I: lo aveva curato con successo fino a qualche settimana fa per una spondilodiscite (un’infezione alla colonna vertebrale, ndr).

Mauro Renato M., però, si è ripresentato nel suo studio al quartiere Salario, a Roma, accompagnato dalla madre: «Era convinto di avere un’altra infezione, inesistente, e accusandomi di non aver fatto nulla per il suo animale», spiega lo stesso immunologo picchiato e colpito al volto da una vaschetta di vetro per le caramelle.

Le Foche, fino a pochi giorni fa dirigente del day hospital di immuno-infettivologia proprio all’Umberto I, prima di andare in pensione, e docente all’università La Sapienza, non è in pericolo di vita, ma per il trauma cranico facciale rischia di perdere la vista dall’occhio sinistro. Ha riportato anche la frattura del naso. Il pugile, con problemi psicologici, è stato invece arrestato dalla polizia: 36 anni, ha precedenti per detenzione abusiva di armi, ricettazione, furto, danneggiamento, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. È accusato di tentato omicidio ed è stato portato nel carcere Regina Coeli dopo la convalida del gip.

A dare l’allarme, poco prima delle 18, è stata la segretaria. [...] Un poliziotto fuori servizio si è precipitato nello studio e ha accompagnato fuori il 36enne, salvando forse la vita a Le Foche. «Gli abbiamo detto di stare calmo», spiega ancora il portiere. E per fortuna è bastato. Il pugile si è consegnato senza reagire anche agli agenti della prima volante arrivata sul posto. [...]

Alessia Marani per il Messaggero - Estratti il 10 ottobre 2023.

Se Francesco Le Foche, l'immunologo che giovedì è stato massacrato di pugni nel suo studio di via Po da un 36enne ora in carcere, è vivo lo deve a lui. 

A Manuel Basile, 39 anni, agente scelto di polizia che quel pomeriggio, libero dal servizio, passava in strada e attirato dalle urla che provenivano dal pian terreno del palazzo è entrato fermando l'aggressore. 

Non ha usato la forza, ma le parole per distrarlo e calmarlo aspettando l'arrivo dei colleghi delle volanti. «Quell'uomo voleva ucciderlo», ne è sicuro il poliziotto che si è rivelato tale solo dopo. 

(...) Ho sentito delle grida di terrore provenire da un androne, mi sono precipitato all'interno e davanti ai miei occhi si è spalancata una scena molto, molto forte: un energumeno era piegato su un uomo, il medico, a terra privo di sensi. Gli prendeva la testa e gliela sbatteva con forza contro il pavimento. Intorno c'erano una donna, la segretaria e degli altri pazienti, quasi tutti anziani».

A quel punto lei cosa ha fatto?

«Ho pensato al modo migliore per mettere in salvo tutti quanti, le persone che erano lì e l'uomo a terra. Ho gridato con tutta la voce che avevo in gola "Ma che cavolo fai?". Lui si è girato verso di me, mi ha guardato e allora io ho iniziato a parlare. Gli dicevo: "Ma ti rendi conto, perché lo hai fatto?". E quello farfugliava qualcosa, a proposito di una visita che non era andata come pensava o qualcosa del genere, ma blaterava anche cose senza senso». 

Le ha parlato del suo cane malato? Pare che dal professore avesse preteso delle cure per l'animale.

«Non mi pare mi abbia parlato di cani, ma era in confusione. A me interessava solo fargli perdere la morsa sul professore». 

E come ci è riuscito?

«Ha percorso 4/5 metri e mi è arrivato davanti, col suo viso fronte al mio.

Lui è grosso ma anche io non sono piccolino. Ci siamo guardati negli occhi e gli ho detto "dai ora vieni fuori con me, parliamo meglio"».

Che cosa vi siete detti?

«Ho capito dal suo fisico che era uno sportivo, io sono laureato in Scienze motorie e conosco le varie discipline. Gli ho chiesto quale attività facesse e lui ha iniziato a parlarmi della boxe, di un incontro importante che aveva vinto quando era più ragazzo. Nel frattempo era stato chiamato il 112». 

Quanto tempo è durata la conversazione?

«Non saprei quantificare in minuti dei momenti in cui la mia adrenalina, nonostante la calma mostrata, era a mille. Ne ho viste tante nel corso della mia carriera, sono stato anche in strada, ma quella scena nello studio, mi creda, è stata choccante. La responsabilità in quei frangenti era tanta». 

Alla vista dei suoi colleghi in divisa come ha reagito l'aggressore di Le Foche?

«Ha ricominciato ad agitarsi, "adesso rientro e lo finisco", ha detto. Ma fortunatamente è andato tutto bene. Prima, però, è arrivata l'ambulanza che ha preso il dottore per portarlo in ospedale. Ho continuato a parlare a una certa distanza con il 36enne per impedire che ostacolasse i soccorsi». 

Le Foche non ricorda l'aggressione, non ha chiara la memoria da quando è stato colpito a quando si è risvegliato al policlinico Umberto I. Per fortuna non è in pericolo di vita e le sue condizioni migliorano. Ha detto di essere ben consapevole che il 36enne, boxeur e buttafuori, con precedenti e con dei disagi psichiatrici, avrebbe potuto ammazzarlo. Vi siete sentiti in questi giorni?

«Sì, il professore mi ha telefonato e mi ha ringraziato. "Se non ci fosse stato lei, sarei morto", il suo commento. Sapere dall'ospedale che era vivo è stato un sollievo enorme. Quella sera sono rimasto a dormire a Roma da un collega per l'agitazione. Il giorno dopo non mi è sembrato vero di avere riportato a casa anche me stesso, riabbracciando mia moglie e mio figlio di tre anni». 

Insomma, nello studio di via Po non ha pensato nemmeno per un attimo a usare la forza o un'arma?

«Avrei compromesso la situazione, mettendo in pericolo gli altri. La mia indole mansueta, poi, mi ha permesso di tranquillizzarlo».

Estratto dell’articolo di Camilla Mozzetti per “Il Messaggero” il 9 ottobre 2023.

«Mi hanno fatto una revisione del globo oculare e sembra che l’occhio stia un po’ meglio, per ora hanno eseguito due interventi. Nei prossimi giorni sarò sottoposto a un’altra operazione sul pavimento orbitario sinistro e speriamo bene, confido in un miglioramento graduale». Il professor Francesco Le Foche, 66 anni, immunologo aggredito da un suo ex paziente, risponde al telefono dal policlinico universitario Umberto I di Roma dove, da giovedì pomeriggio, è ricoverato. 

Fin da subito tiene a precisare di non provare rancore per quell’uomo, Renato Mauro Morandi classe 1987, pregiudicato, che lo ha selvaggiamente picchiato. E questo in ragione della sua professione: «Essere un medico - dice - di per sé equivale a perdonare». Aggiunge di essere grato al poliziotto che è intervenuto, salvandogli la vita, e di essere convinto di come, in Italia, sia necessario ripristinare l’educazione al rispetto della medicina. […]

Giovedì pomeriggio era in studio, aveva svolto delle visite ma dell’aggressione non ha memoria?

«No, assolutamente. Mi sono risvegliato in ospedale». 

Il suo aggressore è stato fermato e trasferito ai domiciliari. Sabato mattina si è barricato in casa quando la polizia lo è andato a prendere per sostenere l’interrogatorio davanti al gip. L’arresto è stato convalidato e l’uomo è stato trasferito in carcere.

«È un soggetto clinicamente psicolabile».

Come ha iniziato ad averlo in cura?

«Aveva avuto dei problemi con una collega in un altro ospedale romano e non voleva più andare a curarsi lì. Portava un busto poiché affetto da una spondilodiscite (un’infezione della colonna vertebrale che interessa il disco e le vertebre adiacenti. Può essere specifica, provocata dai microrganismi della tubercolosi, o aspecifica causata da batteri comuni ndr) per cui l’ho trattato, è andata bene. 

La malattia di cui era affetto può avere delle ricadute ma non era questo il caso. Lui, in base a quanto mi ha riferito la collega, pare avesse fatto un prelievo e i neutrofili erano alti perché aveva assunto del cortisone per dei dolori alle mani e il cortisone fa aumentare i neutrofili. Si è preoccupato ed era andato in escandescenza». […]

Quante volte l’ha visto prima dell’aggressione?

«L’avrò visto due o tre volte, mesi fa». 

E poi?

«Mi ha chiamato varie volte per il cane. Aveva un cane malato e me lo voleva far vedere. Gli risposi che non ero un veterinario ma lui insisteva: “Lei ha salvato me, deve salvare anche il cane, lo so che può fare tutto”. Io non mi sono messo a curare l’animale naturalmente. Mi ha mandato anche delle foto su WhatsApp». 

Quindi quest’uomo non ce l’aveva con lei per delle terapie o delle diagnosi improprie?

«No assolutamente, è stato sempre sui generis ma molto gentile, sia lui che la madre. In particolare la mamma. Ho sempre avuto l’impressione, incontrandola, che fosse una persona perbene, però...».

Però vittima del figlio?

«Esatto». […] 

Prova rancore, risentimento?

«No, mi dispiace per come sta, per un soggetto che ha un’evoluzione umana così stravolgente, che non lo fa vivere». 

A quest’uomo è stato diagnosticato un disturbo bipolare. Ma secondo lei, da medico, persone del genere non dovrebbero essere seguite?

«Assolutamente sì. Credo però sia difficile seguire un soggetto così perché tende a eludere, anche con me è stato incostante. Non l’ho sentito per mesi durante la terapia». […] 

Un pensiero per il poliziotto che è intervenuto fra l’altro fuori dal servizio.

«È una persona fantastica che mi ha salvato la vita, gli sarò sempre riconoscente. Gli ho mandato un messaggio per dirgli che vorrei incontrarlo al più presto per ringraziarlo e per abbracciarlo».

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “La Repubblica – Edizione Roma” il 9 ottobre 2023. 

«Io da qui non esco». Si è barricato dentro casa per evitare la convalida dell’arresto. Mauro Renato Morandi, l’ex pugile di 36 anni accusato di tentato omicidio per aver picchiato l’immunologo Francesco Le Foche, ha provato fino all’ultimo ad evitare la cattura. Approfittando dell’assenza della madre 80enne, che era uscita a fare la spesa, l’uomo, che ha dei disturbi psichici, si è chiuso dentro la sua abitazione di Rocca Priora, rifiutandosi per oltre un’ora di aprire la porta ai poliziotti che erano venuti a prenderlo per portarlo a piazzale Clodio.

Dopo una lunga trattativa, gli agenti sono riusciti a entrare nell’abitazione. L’arresto del 36enne è stato convalidato. E dai domiciliari, l’uomo ora è stato trasferito in carcere fuori Roma. L’accusa nei suoi confronti è quella di tentato omicidio per l’aggressione di giovedì scorso. […]

Massimo Galli.

Concorsopoli, l’infettivologo Massimo Galli rinviato a giudizio. Il Domani 03 ottobre 2023

Secondo l’accusa avrebbe favorito un suo pupillo per il posto da professore di seconda fascia. Lui si difende, dicendo che era tutto regolare. Il dibattimento si apre a metà dicembre

È stato rinviato a giudizio l’infettivologo Massimo Galli, ex primario dell’ospedale Luigi Sacco di Milano e fra i protagonisti delle fasi più drammatiche della pandemia. Il caso è quello che vi avevamo raccontato anche su Domani e riguarda uno dei filoni dell’inchiesta milanese sui presunti concorsi pilotati per posti da professore e ricercatore alla Facoltà di medicina alla Statale di Milano.

Per Galli l’accusa è di falso e per un’imputazione alternativa tra turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Insieme a lui dovrà rispondere delle accuse anche Agostino Riva, suo ex collaboratore, poi risultato vincitore del concorso. Il dibattimento inizierà il 13 dicembre.

Due professori universitari hanno invece deciso di patteggiare una pena inferiore a sei mesi, convertita in una sanzione pecuniaria di poco più di 8mila euro. Per loro l’accusa era solo di falso perché avrebbero sottoscritto un verbale nell’ambito della procedura di selezione.

LA DIFESA

Il concorso sotto la lente degli inquirenti è del 2020 e si riferisce a un ruolo di professore di seconda fascia in malattie cutanee, infettive e dell’apparato dirigente. Secondo l’accusa, Galli sarebbe intervenuto sul verbale di valutazione dei candidati, facendosi guidare – sempre secondo l’accusa – dallo stesso Riva nell’indicazione dei punteggi.

Galli, che è innocente fino a prova contraria, ha rilasciato dichiarazioni davanti al giudice per rivendicare la correttezza del suo operato e per rivendicare la correttezza del suo operato. Anche la persona che era risultata penalizzata dal concorso aveva in passato espresso «massima stima» per Galli.

Galli nel pollaio. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2023. 

Faccio un tifo spudorato per l’innocenza di Massimo Galli, l’infettivologo allergico alla simpatia appena rinviato a giudizio per una ordinaria storiella o storiaccia di concorsi pilotati. Dopo averlo saputo, ho acceso una candela sotto una sua foto (in cui esibisce il classico sguardo corrucciato) e ho cominciato a mormorare «fa’ che non sia colpevole… fa’ che non sia colpevole…» Perché, se lo fosse, chi li terrebbe più? Non solo i No Vax, ma in genere tutti coloro che diffidano di chi si impanca a maestro di morale. E se c’è uno che, negli anni della pandemia, si è issato su quella cattedra senza neanche il supporto salvifico di uno strato di ironia, questi è il professor Galli.

Sarà il suo carattere, o il mestiere di barone universitario che sembra fatto apposta per instillare in chi lo esercita un irrefrenabile senso di superiorità. Sta di fatto che ogni volta che Galli appariva in televisione con la scorta immancabile della sua autostima, io mi sentivo in colpa per qualcosa.

Qualunque precauzione prendessi, non era mai abbastanza. E quando cercavo una parola di comprensione, ricevevo solo rimproveri e previsioni funeste, impartite in nome di una Scienza che perdeva ogni aspetto benevolo per trasformarsi in divinità implacabile.

Al contrario di Socrate, Galli una cosa sola sapeva: di sapere tutto. Ogni dubbio per lui era un nemico, ogni obiezione un oltraggio. Un uomo così non può avere debolezze. Signori della Corte, siate magnanimi: non fate a Galli ciò che Galli ha fatto a noi.

Alberto Zangrillo.

Vittorio Feltri, Alberto Zangrillo? "Quanto guadagna per resuscitare i morti". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 maggio 2023 

Desidero raccontarvi una bella storia che finora è rimasta inspiegabilmente sotto silenzio. Mi riferisco alla vicenda mirabile di Alberto Zangrillo, un primario medico di alto livello non solo fisico ma soprattutto professionale. Egli è specializzato come un certo Gesù nell’arte rara di resuscitare i morti, nel senso di malati gravi che nel loro futuro prossimo sarebbero destinati ad arricchire il cimitero. Tanto per fare un esempio clamoroso, questo è il dottore che ultimamente ha salvato le penne a Silvio Berlusconi, che, dato per spacciato, si è rimesso a 86 anni in piedi grazie alle cure ricevute al San Raffaele di Milano dove Zangrillo compie i suoi prodigi.

Preciso che lo stipendio del medico in questione, che lavora dalla mattina alle 6.30 fino al tramonto e, per assurdo, in casi di urgenza, si sbatte anche di notte, è tutt’altro che principesco: circa 4 mila euro. Da notare che giustamente la categoria cui egli appartiene in questo momento è in crisi profonda proprio a causa del trattamento che subisce: a parte le paghe ridicole inadatte a gente che si è laureata in una disciplina faticosa da apprendere, i dottori sono trascurati negli ospedali e nei pronto soccorso, dove spesso vengono perfino aggrediti. In più sgobbano come muli e se per caso sbagliano, oberati come sono, vengono denunciati e devono pagare per colpe che non hanno.

Ciò precisato, torniamo a Zangrillo, fratello del ministro, il quale è giustamente considerato un fenomeno non soltanto per le sue eccellenti prestazioni, ma anche per la sua umanità. Ha rimesso e rimette in sesto un sacco di poveri cristi che parevano destinati a rimanere in stato orizzontale per l’eternità. Non bastasse tutto ciò, quest’uomo eccezionale si dedica anche allo sport, infatti è presidente del Genoa, squadra gloriosa del calcio antico e lo scorso anno retrocessa in serie B. Ebbene grazie al suo soccorso miracoloso da pochi giorni la cosiddetta Lanterna è stata promossa con largo anticipo in serie A. Un miracolo in più particolarmente apprezzato dai numerosi tifosi liguri.

Guarire chi è afflitto da morbi gravi è un merito notevole, ma rinvigorire una equipe di pedatori è una operazione prodigiosa. Per concludere questo articolo aderente alla realtà, voglio rivolgere al presidente della Repubblica, Mattarella, una preghiera: nomini Alberto senatore a vita. Se c’è qualcuno che merita simile riconoscimento, questo è proprio Zangrillo. Un uomo speciale.

Matteo Bassetti.

Estratto dell’articolo di Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” domenica 24 settembre 2023.  

Professore, con questo libro si farà altri nemici?

«Lo so benissimo. […] La scienza non è come la politica, se una cosa è giusta ma non piace alla maggioranza delle gente la devi sostenere lo stesso. […]». Quelli da cui guardarsi, per Matteo Bassetti, sono i Pinocchi in camice, titolo dell’ultimo libro (Piemme Edizioni) di uno degli infettivologi più noti della stagione del Covid, docente universitario e primario al San Martino di Genova. 

Chi sono i «pinocchi»?

«Medici, pseudo-medici, farmacisti, infermieri... Ma il pinocchio è anche il paziente che si fa fregare, quello che va su Google, quello che crede cosa gli dice il cugino, che pensa che con la dieta miracolosa dimagrisce, che spende un capitale per i farmaci omeopatici». 

Sono tanti quelli si presentano in studio dopo aver già consultato «dottor Google»?

«Moltissimi, credo almeno un terzo. Sono convinti di sapere già quello che hanno. La gente è suggestionata e la rete ha un effetto devastante soprattutto sulle persone più anziane e con una bassa scolarizzazione».

Sostiene che siamo vicini a un «punto di non ritorno».

«Bisogna subito regolamentare la rete. Le sembra giusto che se digitiamo la parola vaccini non viene fuori l’Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, o il ministero della Salute, ma dieci siti di associazioni no vax. Perché sono più cliccati e l’algoritmo di Google li porta su. È assurdo, così devastiamo le professioni, in particolare quella medica». 

Di Covid parla solo nel capitolo finale.

«Ho voluto fare un libro d’inchiesta perché siamo arrivati al paradosso che un medico che segue il metodo scientifico scaccia i pazienti». 

Fa l’esempio degli antibiotici.

«L’Italia è uno dei paesi che li usa peggio. La gente pensa che sia la panacea di tutti i mali, e molti colleghi tante volte non hanno il coraggio di dire no. Il risultato è che nei nostri ospedali vediamo delle infezioni causate da super batteri, ormai inattaccabili dagli antibiotici che abbiamo a disposizione. Pensate ai danni fatti con il Covid». 

[…] Sul Covid qualche sassolino dalle scarpe se lo toglie?

«Come l’accusa di non aver fatto autopsie. Falso. Il primo lavoro scientifico è stato realizzato a Bergamo nel marzo 2020. O sull’origine della pandemia. Ma quali complotti, non è stata altro che una zoonosi, una patologia proveniente dal mondo animale». […] 

123 medici contro la virostar Bassetti: chiesto l’avvio di un procedimento disciplinare Iris Paganessi su L'Indipendente il 14 luglio 2023.

Per Matteo Bassetti il long covid si sta manifestando sotto forma di accuse e procedimenti disciplinari. Recentemente – in aggiunta alla condanna a risarcire i famigliari dell’ex premio Nobel Luc Montagnier – la virostar è stata accusata di aver propagandato la sicurezza e l’efficacia dei vaccini anti Covid-19, in una lettera firmata da 123 colleghi e indirizzata a Alessandro Bonsignore, presidente dell’Ordine della provincia di Genova. I medici chiedono che Bassetti, direttore della clinica malattie infettive del San Martino di Genova, venga sottoposto a procedimento disciplinare per aver commesso una lunga serie di violazioni in questi anni di emergenza sanitaria.

“A partire – così si legge nella richiesta dei 123 firmatari – dal primo paragrafo del giuramento, per cui il medico deve esercitare la professione in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento, contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione e di curare ogni paziente con scrupolo ed impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l’eliminazione di ogni forma di diseguaglianza, nella tutela della salute”.

Tra le accuse principali dei 123 firmatari, i vari attacchi della virostar a quei medici che “volevano informare i loro pazienti sui vantaggi e svantaggi della inoculazione, definendoli cattivi maestri” e gli insulti ai colleghi che “in scienza e coscienza trattavano i loro pazienti con farmaci tradizionali poi rivelatesi estremamente efficaci (antinfiammatori, idrossiclorochina, cortisonici, eparina) alla pari di stregoni, esaltando allo stesso tempo le linee guida ministeriali (paracetamolo e vigile attesa), violando il principio che obbliga un medico a non farsi condizionare dalla burocrazia o da conflitti d’interesse“.

Inoltre, Bassetti è stato accusato di aver “propagandato la sicurezza e l’efficacia di un farmaco tutt’ora in via di sperimentazione (BionTech-Pfizer e Moderna)”, oltre ad aver “offeso e denigrato illustri medici (Luc Montagnier per primo e per questo è stato condannato)”. Ma anche di aver “prestato la propria immagine per pubblicità non di natura sanitaria (Facile Ristrutturare), ledendo il decoro dovuto alla figura del medico”.

Al vaglio dell’Ordine dei medici di Genova, tuttavia, oltre alle violazioni di cui è accusato Bassetti, si sta prendendo in considerazione anche la composizione del gruppo dei 123 firmatari. Secondo quanto affermato in sede dell’Ordine, infatti, “Tra i nominativi ci sono alcuni riconoscibili come medici, tanti altri sconosciuti, chi si presenta come medico ma di cui non abbiamo certezza, di moltissimi non sappiamo dire se siano fittizi o reali”. Bonsignore, che ha definito le argomentazioni dei firmatari “tipiche della galassia No vax”, ha inoltre spiegato che “l’esposto è arrivato per lo più con un testo unico, da un grande numero di mail private”, il che farebbe pensare a un’azione organizzata.

La replica dell’infettivologo non si è fatta di certo attendere. In un tweet ha ringraziato i 123 “laureati in Medicina” che lo hanno denunciato all’Ordine dei medici di Genova per essersi fatti (a suo dire) “un gigantesco autogol”. “Grazie a quello che hanno scritto contro di me contro la medicina dell’evidenza, contro i vaccini, contro l’operato mio e di molti colleghi e a favore di farmaci e protocolli non approvati per la cura del Covid – scrive – hanno fornito a me e al mio avvocato la documentazione per denunciarli uno per uno ai loro rispettivi Ordini”. E ancora: “Finché si parla al bar o nei comizi è un conto, non quando lo si fa per iscritto… Verba volant scripta manent… Grazie davvero a tutti i 123! Non pensavo davvero si potesse arrivare a tanta bassezza scientifica, culturale e deontologica!!”

RINGRAZIO MOLTO I 123 LAUREATI IN MEDICINA CHE MI HANNO SEGNALATO E DENUNCIATO ALL’ORDINE DEI MEDICI DI GENOVA. GRAZIE A QUELLO CHE HANNO SCRITTO CONTRO DI ME, CONTRO LA MEDICINA DELL’EVIDENZA, CONTRO I #VACCINI , CONTRO L’OPERATO MIO E DI MOLTI COLLEGHI E A FAVORE DI FARMACI E…— MATTEO BASSETTI  JULY 12, 2023 [di Iris Paganessi]

Estratto da open.online il 7 aprile 2023.

L’infettivologo Matteo Bassetti è stato condannato a risarcire gli eredi dello scienziato Luc Montagnier per averlo insultato durante un dibattito a Sutri, nel Viterbese, con il sindaco Vittorio Sgarbi.

 Gli eredi del premio Nobel puntavano a ottenere un risarcimento di 500mila euro, ma il giudice del Tribunale civile di Genova ha parzialmente accolto la richiesta condannando Bassetti al pagamento di 6mila euro.

 I fatti risalgono all’agosto 2021 […]. Nel corso del suo intervento, Bassetti si è spinto a definire Montagner «un rincoglionito con problemi di demenza senile». Un’espressione che per il giudice non lasciava dubbi, considerandole «offensive e lesive dell’onore e della reputazione del ricorrente, in quanto dirette a screditarne il valore come persona.

Nel caso concreto, le frasi del prof. Bassetti – ha aggiunto il giudice – avendo indiscutibilmente quale destinatario il professore Montagner secondo quanto si evince dal contenuto complessivo del discorso, erano volte a offendere personalmente il ricorrente, denigrandolo non per le teorie sostenute in relazione ai vaccini, bensì per la sua condizione umana di anziano».

 Per quanto soddisfatto per il ridimensionamento del risarcimento deciso dal giudice, Bassetti attraverso il suo legale, Rachele De Stefanis, si è lamentato di non aver ricevuto finora la stessa tutela da parte della giustizia: «Se il metro di valutazione fosse stato questo anche per tutti i personaggi che mi hanno insultato e diffamato in questi due anni, adesso sarei milionario.

Dico solo che sto aspettando da un anno e mezzo l’esito della querela a Paragone. Tutto tace… – dice l’infettivologo citato dal Secolo XIX – due pesi e due misure». […]

Covid: Bassetti dovrà risarcire gli eredi del premio Nobel Luc Montagnier. Iris Paganessi su L'Indipendente il 7 Aprile 2023

Matteo Bassetti è stato condannato a risarcire i famigliari dell’ex premio Nobel per la medicina Luc Montagnier con una somma di 6.000 euro a causa delle dichiarazioni offensive, pronunciate durante un evento pubblico a Sutri (Viterbo) nell’agosto 2021, in cui si dibatteva sull’origine della pandemia e sui vaccini anti-Covid. In quella occasione, alla virostar italiana venne chiesto cosa ne pensasse delle dichiarazioni del Nobel che, già nell’aprile 2020, aveva dichiarato che parte del genoma del sars-CoV-2 sarebbe stato manipolato in laboratorio. Il virus – spiegò Montagnier – sarebbe il risultato di un lavoro di biologi molecolari, realizzato con una precisione e una minuziosità «da orologiai». Questa dichiarazione costò al virologo francese (allora 87enne) parecchi attacchi personali, tra cui quello di Bassetti che lo definì addirittura «un rincoglionito con problemi di demenza senile».

Secondo il giudice del Tribunale civile di Genova, queste frasi sono state “gravemente lesive dell’onore e della reputazione del ricorrente, specificando che erano volte a ledere personalmente il professore Montagnier e a screditarne il valore come persona”, non per le teorie sostenute riguardo all’origine del virus, ma per la sua condizione umana di anziano. Oltretutto, negli ultimi mesi, gli indizi sulla possibile fuoriuscita dal laboratorio di Wuhan del Sars-Cov 2 si sono moltiplicati, rivelando che l’ipotesi di Montagnier fosse tutt’altro che da scartare.  Il giudice ha quindi parzialmente accolto la richiesta dei famigliari di Montagnier, che inizialmente ammontava a 500.000 euro, condannando Bassetti ad un risarcimento di 6.000 euro. 

Il virologo italiano, attraverso il suo legale, ha espresso l’intenzione di continuare la battaglia legale, affermando che questa condanna si sarebbe dovuta applicare anche agli haters che lo hanno insultato e diffamato negli ultimi due anni. «Se il metro di valutazione fosse stato questo anche per tutti i personaggi che mi hanno insultato e diffamato in questi due anni, adesso sarei milionario.» Ma la battaglia legale potrebbe non finire qui, visto che il virologo starebbe valutando l’idea di presentare ricorso in appello per il caso Montagnier.

Per mesi chiunque si sia permesso di sollevare un’ipotesi alternativa a quella ufficiale sull’origine “naturale” del sars-coV-2 è stato denigrato, perseguitato e ridicolizzato. Nel caso di Montagnier i media scrissero che la “comunità scientifica” smentiva il Premio Nobel e che le sue dichiarazioni erano “fantasiose”. La Repubblica titolava: “Coronavirus, perché la teoria del complotto (complice il Nobel Montagnier) a volte ritorna”, il Post parlava di “teorie infondate”, i fact-checkers di Open lo accusavano di disinformazione, mentre Il Riformista lo definiva un’icona dei No Vax e dei cospirazionisti.

Poi la teoria della nascita in laboratorio si è fatta strada fino ad essere definita «probabile» da una commissione d’inchiesta del Senato americano. Adottando il metro di giudizio applicato verso Bassetti molti altri dovrebbero probabilmente risarcire la famiglia del premio Nobel francese, deceduto l’8 febbraio 2022 pochi mesi prima di compiere 90 anni. [di Iris Paganessi]

Anthony Fauci.

Estratto dell’articolo di Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 18 giugno 2023.

«Non è ironico che io abbia contribuito per più di mezzo secolo a salvare milioni di vite e che ci siano lì fuori persone da cui mi devo difendere?». Anthony Fauci ha 82 anni, una moglie – Christine Grady, esperta in Bioetica – che lo rassicura, dopo la lectio magistralis e la laurea honoris causa ricevuta dal rettore dell'Università di Siena Roberto Di Pietra: «Il discorso era perfetto», e una serie di agenti federali si aggirano nei corridoi del rettorato per garantire la sua sicurezza.

La galassia No Vax si è data appuntamento qui, in uno dei centri del sapere più antichi del mondo, per cercare di rovinare la visita di Fauci al Biotecnopolo diretto dal professor Rino Rappuoli, di cui sarà consulente, e la grande festa organizzata dall'Università per il Graduation day. Ma non è riuscita a ostacolare nulla. Del resto, lo scienziato non è tipo da desistere davanti a una protesta. «Negli Stati Uniti hanno arrestato due persone armate che stavano venendo da me. Per fortuna non ce l'hanno fatta». 

I suoi nonni paterni erano di Sciacca, in Sicilia, quelli materni di Napoli, lei è nato e cresciuto a New York, ma dice di sentirsi italiano.

«Totalmente. Nel quartiere dove sono cresciuto, a Brooklyn, quando a 10 anni giocavo per strada, il 99 per cento dei miei amici aveva genitori appena arrivati dal vostro Paese, o nonni che lo avevano fatto qualche anno prima. Era come camminare per queste strade Sono cresciuto dentro questa cultura». 

Si è dimesso pochi mesi fa dal Nih, l'istituto nazionale di sanità americano. Come mai?

«Ci ho lavorato per 54 anni e mi sono dimesso il 31 dicembre scorso. […] Già tempo fa avevo deciso che avrei voluto passare almeno due anni lontano dai doveri del governo federale, per fare cose che quando servi il Paese non puoi fare, come scrivere un memoir».

Lo sta scrivendo?

«Sì, volevo farlo prima di essere troppo vecchio […] ».

[…]

Nella sua lectio sul Covid ha citato Yogi Bera: "Non è finita finché non è finita".

«Sono preoccupato per l'integrità dei Paesi democratici. Quando puoi mentire spudoratamente, quando le persone considerano le verità alternative qualcosa di normale, quando puoi dire qualsiasi cosa contro ogni evidenza senza alcuna conseguenza, le persone sono confuse, la scienza non basta a convincerle».

Per questo ha contraddetto Donald Trump in diretta, senza preoccuparsi delle conseguenze?

«Ho dovuto farlo perché quel che diceva era completamente falso. "Non preoccupatevi, il Covid non vi farà niente, prendete l'idrossiclorochina". Non c'era alcun fondamento scientifico in quelle parole, smentirle era una mia responsabilità di fronte agli americani e di fronte al mondo». 

Così è diventato un bersaglio.

«Da allora un enorme numero di persone di estrema destra mi ha identificato come nemico. In quel momento avevo pensato: magari mi licenzia, ma devo parlare. E sa qual è il bello? Trump non mi ha licenziato, ha continuato a comportarsi come se gli piacessi, "Ehi Anthony amico mio", ma nel frattempo i suoi uomini cercavano di screditarmi. Solo quando ha perso le elezioni anche per lui sono diventato il "bad guy"».

[…]

In molti Paesi, anche in Italia, è stata la destra a osteggiare le misure più dure contro la pandemia.

«C'è una questione economica. Negli Stati Uniti i repubblicani avevano come priorità salvare l'economia, non salvare vite. Poi c'è un altro aspetto: l'estrema destra è intrisa di libertarismo. "Non puoi dirmi di vaccinarmi, di indossare una mascherina, di non frequentare luoghi affollati, faccio quello che voglio". L'individualismo portato all'estremo ha eroso il principio di autorità».

[…]

«Cattiva informazione e disinformazione sono i nemici della salute pubblica. Non dobbiamo lasciare che accada di nuovo, dobbiamo trovare delle contromisure. I social media diffondono fake news alla velocità della luce, le persone si affidano solo alle loro echo chambers, che siano Fox News o una chat on line, e la cattiva politica ci salta su: vede un gruppo di persone pronte a credere a qualsiasi cosa contro ogni evidenza e le usa per i suoi interessi. È esattamente quello che ha fatto Trump».

[…]La Cina non è stata e non è trasparente.

«Certamente no. Ho a che fare con la Cina da decenni e quel che mi colpisce è che sono opachi anche quando non hanno niente da nascondere».

In questo caso hanno responsabilità da nascondere?

«Questo davvero non lo so».

Estratto dell’articolo di David Wallace-Wells tradotto da Anna Bissanti per “la Stampa” il 30 aprile 2023.

Era un incarico impossibile, forse. Fare di un uomo il volto della sanità pubblica nel pieno di una pandemia senza precedenti, in un Paese litigioso come gli Stati Uniti, dove ci sarebbero state delusioni e insoddisfazioni, e dove si sarebbe andati sul personale. Ciò nonostante, nel dicembre scorso, quando Elon Musk ha scherzato su Twitter rivolgendosi a lui scrivendo «Incriminate Fauci», si è avuta la sensazione che si profilasse un'inversione di tendenza contro colui che ha ricoperto quel ruolo fondamentale per i primi tre anni della pandemia.  […]

Naturalmente, sono stati commessi errori e ci sono stati passi falsi, compresi alcuni fatti da Fauci: quando ha definito «piccolissimo» il rischio per il Paese nel febbraio 2020, per esempio; oppure quando, in un primo tempo, ha sconsigliato di indossare le mascherine, spostando poi lentamente la sua attenzione verso le goccioline di saliva che si diffondono in aria; o quando ha minimizzato il rischio di quelle che all'inizio, nell'estate del 2021, sono state chiamate «infezioni intercorrenti». 

[…] Tre anni fa, nel marzo 2020, lei e molti altri avvertirono che il Covid avrebbe potuto provocare centomila o duecentomila morti in America, perorando la causa di interventi alquanto drastici nel nostro modo di vivere la quotidianità. All'epoca lei pensò che "lo scenario peggiore" di più di un milione di morti fosse alquanto improbabile.

Invece, eccoci qui, a tre anni di distanza e, pur avendo fatto molto per cercare di fermare la diffusione del virus, abbiamo superato 1, 1 milioni di morti. Che cosa è andato storto?

«Qualcosa chiaramente è andato storto. Non so esattamente che cosa. Ma il motivo per cui sappiamo che è andato storto è che siamo il Paese più ricco al mondo e su base pro capite abbiamo avuto risultati peggiori rispetto a quasi tutti gli altri Paesi. Non c'è ragione per cui un Paese ricco come il nostro debba avere 1, 1 milioni di morti. È inaccettabile».

Come lo spiega?

«Il dissenso era palpabile, anche solo quando si cercava di far passare un messaggio coerente su come seguire fondamentali principi di sanità pubblica. So che tra le persone ci saranno sempre divergenze di opinione e pareri contrastanti circa il bilancio tra costi e benefici delle restrizioni o dell'uso delle mascherine. Ma quando si hanno controversie importanti su cose come le vaccinazioni diventa tutto più complicato». 

[…] Dall'Election Day del 2020 in America si è registrato il triplo delle morti rispetto a prima. Rispetto ad altri Paesi simili, inoltre, rispetto a prima abbiamo avuto risultati nettamente peggiori da quando sono iniziate le vaccinazioni.

«Beh, sì, è vaccinato soltanto il 68 per cento del Paese. Se ci si mette in classifica insieme ai Paesi sviluppati e a quelli in via di sviluppo, la nostra prestazione è davvero scadente. Non rientriamo nemmeno nei primi dieci Paesi al mondo, ma ci collochiamo molto più in basso. Per altro, ci sarebbe da chiedersi, poi, perché abbiamo "stati rossi" non vaccinati e stati blu vaccinati? Perché le percentuali di mortalità tra i repubblicani sono più alte rispetto a quelle tra i democratici e gli indipendenti? […]».

Se si torna indietro nel tempo, però, e si va al febbraio 2020, lei ha detto che il virus era a basso rischio e non voleva mettere in gioco la sua credibilità per quello che avrebbe potuto rivelarsi un falso allarme. Vorrebbe aver detto con maggior energia che il virus era una minaccia reale e immediata e che dovevamo alzare le nostre difese all'istante?

«Sì, in retrospettiva penso che avremmo dovuto farlo, sicuramente. Analizziamo, però, quello che sapevamo all'epoca. Non conoscevamo queste cose a gennaio 2020. Non eravamo pienamente consapevoli di trovarci alle prese con un virus estremamente trasmissibile e che si stava chiaramente diffondendo con modalità senza precedenti e di cui non avevamo esperienza alcuna. 

Così all'inizio il virus ci ha ingannati e confusi sulla necessità di usare le mascherine e di arieggiare gli ambienti e di vietare le interazioni sociali». 

I contagi asitomatici…

«Per me sono i contagi asintomatici ad aver cambiato drasticamente la situazione. Se ne fossimo stati consapevoli fin dall'inizio, la nostra strategia nell'affrontare i focolai in quelle prime settimane sarebbe stata diversa. Ecco, quando le persone mi chiedono se avremmo potuto fare di meglio, sì, naturalmente avremmo potuto. Se avessimo saputo molte delle cose che sappiamo adesso, di sicuro avremmo fatto le cose diversamente». 

Ma con il senno di poi e con quello che sappiamo oggi, se avessimo adottato a metà febbraio le politiche che abbiamo adottato a metà marzo, la situazione sarebbe diversa oggi? La pandemia è stata molto lunga. Agire più rapidamente nei primi mesi avrebbe potuto cambiare la risposta generale?

«Non lo so. È plausibile che non ci troveremmo nella stessa situazione. Ma saremmo riusciti a fermare l'economia? Il Paese lo avrebbe accettato in presenza di una manciata soltanto di casi e di un morto? Non sto dicendo che questo sia un motivo per non farlo: se avessimo saputo quello che sappiamo oggi, probabilmente avremmo dovuto farlo. Ma, con pochi casi, non so se saremmo riusciti a fermare il Paese». […] 

Abbiamo sbagliato, quindi, a presumere che dopo un certo numero di contagi e di vaccinazioni la malattia sarebbe scomparsa?

«Dipende da quello che si intende dicendo "scomparire". Per alcune persone tenere a un livello relativamente basso i contagi nella comunità, così che la malattia non sconvolga la società, significa scomparire. Per altre persone significa altro: beh, sì, c'è ma non dà fastidio più di tanto. Attenzione, però: non è stato completamente fuori luogo pensare di poter essere protetti dal contagio, e che anche se ci si contagiava il titolo non sarebbe stato sufficientemente alto da trasmetterlo a qualcun altro.

Poi abbiamo scoperto qualcosa di stupefacente. Abbiamo osservato che il titolo del virus nelle persone contagiate e asintomatiche e quello di un virus nel naso di una persona contagiata sintomatica era il medesimo. Come mai? Che cosa è successo? È stata una grossa sorpresa. Quindi avevamo torto, ma non perché non avessimo interpretato correttamente i dati che avevamo davanti. 

Non avevamo mai raccolto dati così. All'inizio ignoravamo che il 50-60 per cento dei contagi sarebbe stato asintomatico. Scoprirlo è stato stupefacente. Quando ho visto quei dati, mi sono detto: "È completamente diverso. Siamo alle prese con una malattia che non abbiamo mai visto prima"».

Pensa che l'esperienza della pandemia – e la possibilità, per quanto remota, della fuga da laboratorio – dovrebbe modificare il nostro modo di valutare i rischi e i vantaggi di tutto questo settore di ricerca?

«È indispensabile che l'intero iter che coinvolge il contributo scientifico e quello della comunità sia trasparente dall'inizio alla fine. Questo tipo di ricerca scientifica consente di manipolare un virus o un agente patogeno per acquisire una determinata funzione che renda possibile la realizzazione di un vaccino.

Quindi, prima di tutto dobbiamo adoperarci per far capire meglio alla gente che cosa è il "guadagno di funzione". Quando Rand Paul mi stato chiesto se avessi finanziato la ricerca a Wuhan, ho risposto "assolutamente no". E' meglio definire con precisione di che cosa stiamo parlando». […]

Andrea Crisanti.

Un nuovo caso per Crisanti. Il super ortodosso del Covid che nessuno vuole difendere. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2023.

Visto su un aereo quando era positivo, scoppia la polemica. Ma non era lui

«Le critiche? Il prezzo da pagare per la mia integrità», diceva nel maggio scorso, prima che tutti i vertici istituzionali indagati dalla Procura di Bergamo alla luce della sua consulenza sulla mancata zona rossa all’inizio del Covid — da Giuseppe Conte ad Attilio Fontana — finissero prosciolti uno dopo l’altro, con un monumento vivente del garantismo di sinistra, l’avvocato Guido Calvi, che sottolineava «l’errore grave del consulente Crisanti che ha indotto la Procura a seguirlo».

A lui è come se non toccasse, come sempre. Anzi, rimarcava, «ho lavorato in scienza e coscienza, senza guardare in faccia nessuno», come a menar vanto di essere un neo parlamentare del Pd che aveva fatto indagare anche il centrosinistra.

Evidentemente la maledizione del non guardare in faccia, o quantomeno del non farlo bene, dev’essergli tornata indietro, visto che tre giorni fa il microbiologo Andrea Crisanti, da anni custode iper oltranzista dell’ortodossia di tamponi e mascherine in caso di Covid, è stato visto a bordo di un volo Ita Airways Roma-Venezia un giorno dopo aver scritto su X di avere contratto il virus, tra l’altro «con carica virale altissima».

Piccolo spoiler: non era lui. «Non sono ancora morto eppure ci sono già le mie apparizioni in giro. Mi vedono ovunque, anche quando non ci sono», scandisce una volta preso coscienza di essere finito in un piccolo cortocircuito kafkiano, fatto di aerei presi e persi, testimonianze oculari, quotidiani locali e tantissima confusione («Una giornalista mi ha chiesto se fossi a bordo dell’aereo per Venezia e ho risposto di sì, pensando che si riferisse al volo Londra-Venezia che ho preso lunedì, prima di sapere di aver contratto il Covid, quando avevo soltanto dei sintomi, infatti avevo la mascherina... Ho capito solo dopo che mi chiedevano conto di un volo di giovedì Roma-Venezia, ma a quell’ora ero col medico che firmava un certificato, chiedete ad Alitalia, a Ita o come si chiama adesso, agli aeroporti, a chi vi pare»).

Tosta, tostissima, difendersi una volta che hai ragione ma a difenderti non trovi più nessuno. Anche perché Crisanti, di amici, non deve averne più parecchi. Il sodalizio con il governatore veneto Luca Zaia, iniziato nei giorni successivi ai primi contagi a Vo’, è finito peggio di un divorzio con carte bollate, con reciproci scambi di accuse, esposti in Procura (sempre by Crisanti), qualche dirigente indagato e tanta, tantissima amarezza. Con la sinistra che l’ha candidato nella circoscrizione estero (col Pd) ed eletto al Senato forse va anche peggio, a causa di quella consulenza per la Procura di Bergamo che ha messo in discussione i dispositivi anti Covid del governo giallorosso alla luce di un errore, così l’aveva chiamato l’avvocato Calvi, su una raccomandazione dell’Oms confusa per un vincolo.

Crisanti, comunque, non si cura di loro. Guarda e passa, come ha fatto sempre. Il vento delle polemiche sembra non scalfirlo mai, al limite viene respinto dall’onnipresente mascherina. Come dimostrò l’acquisto, a fine pandemia, dopo due anni di risse televisive e non sul Covid, di una clamorosa villa palladiana del ’500 in provincia di Vicenza, valutata due milioni ma — assicurò lui — «pagata molto meno (…), che comunque aprirò anche alle scuole». A proposito delle aperture, il microbiologo rimane convinto della necessità di starsene chiusi in casa in caso di contagio, per questo ha criticato l’abbassamento della guardia da parte del governo Meloni. Anche adesso, nel dicembre 2023. Lui l’ha fatto. Ma in giro l’hanno visto lo stesso.

Estratto da open.online venerdì 28 luglio 2023. 

Il medico Agostino Miozzo è stato dal 5 febbraio 2020 al 15 marzo 2021 membro del Comitato Tecnico Scientifico sull’emergenza Coronavirus con le funzioni di coordinatore. Da pochi giorni la sua posizione nell’inchiesta su Covid-19 della procura di Bergamo è stata archiviata. 

Le accuse erano di epidemia e omicidio colposi. E lui oggi scrive una lettera al Foglio per parlare dell’inchiesta. «Potrei dire che giustizia è fatta, i magistrati hanno espresso il loro parere che, come auspicavamo, ha reso giustizia del lavoro fatto in quei terribili mesi e, ovviamente, non ha avuto da parte nostra alcuna colposa responsabilità criminale e omicida. Ora torno a essere un uomo pulito, senza l’onta di un sospetto devastante: aver contribuito a dare la morte a 57 persone e non aver fatto ciò che era necessario fare per salvarne 4.148», esordisce.

[…] Poi fa «qualche considerazione» sulla procura e sul consulente, che chiama “Sig. Crisanti”. Si tratta dello scienziato Andrea Crisanti, oggi parlamentare del Partito Democratico. 

La procura, secondo Miozzo, «ha lavorato per tre anni, impiegato enormi risorse umane, tecniche per produrre un atto di accusa che si è dimostrato non solo giuridicamente insostenibile, ma decisamente impreciso e ricco di macroscopici errori. Anche dal punto di vista finanziario sarebbe interessante sapere quale è stato il costo di questa inchiesta ivi compreso il costo dell’eventuale compenso percepito dal consulente Crisanti.

[…] Miozzo dice che la procura ha affermato di considerare il processo necessario “per pagare un tributo ai tanti morti della pandemia”. Poi va all’attacco: «È difficile, caro direttore, leggere un capo d’imputazione predisposto da un pool di cinque magistrati e da un numero imprecisato di collaboratori in tre anni di lavoro, dove tra le morti contestate compaiono quelle di persone che a oggi sono vive e vegete, dove alcuni sono morti prima del periodo incriminato, dove altri sono morti per cause non note e nemmeno riconducibili al Covid (pag. 32 della sentenza di archiviazione); e dove per ultimo sono citate riunioni del Comitato tecnico-scientifico mai avvenute». 

Poi se la prende direttamente con Crisanti: «È raro vedere uno scienziato esprimersi con argomenti così superficiali, scorretti, oserei dire cinici. Uno che nella vita professionale si è sempre occupato di zanzare e che diventa improvvisamente epidemiologo, virologo, infettivologo, emergenziologo e in questa veste di tuttologo si propone ai media».

[…] Miozzo paragona Crisanti a Mago Merlino. E lo accusa: «Io, coordinatore del Cts, in quelle frenetiche settimane che ci hanno travolto non ho mai avuto il piacere di sentire da questo signore ipotesi e suggerimenti utili a risolvere le disperate richieste che ci pervenivano dal territorio, nei momenti nei quali mancavano le bombole di ossigeno, non si trovavano sul mercato mondiale le mascherine, non c’erano i respiratori, i farmaci». E gli chiede di dimettersi da senatore. 

Perché il mandato lo ha «conquistato tradendo la fiducia dei suoi elettori e illudendo centinaia di parenti delle vittime nella ricerca d’improbabili capri espiatori alla tragedia avvenuta. Torni a occuparsi di zanzare, sig. Crisanti, l’unica cosa che forse sa fare con qualche margine di successo, e magari torni a fare il suo mestiere all’Imperial College, il suo vecchio incarico all’ospedale sarà così finalmente destinato a un collega di questo nostro disastrato sistema sanitario».

Covid, Andrea Crisanti pubblica sui social i messaggi di tre anni fa: «Così cominciammo a combattere la pandemia». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2023.

A 36 mesi dai primi casi, il virologo ricostruisce i contatti con i collaboratori: «Se l'uno per cento è contagiato è una enormità»

Immaginate la scena. Sono le 18.06 del 21 febbraio 2020. Il venerdì che avrebbe cambiato le vite di tutti, anche se in quel momento ancora nessuno lo sa. Siamo a bordo di un aereo diretto a Melbourne, in Australia. Carrellata. Qualcuno dorme, altri indossano la mascherina perché le notizie che arrivano dalla Cina non sono rassicuranti. 

Il primo messaggio

Dal finestrino, si scorge l’oceano. Il wi-fi è acceso, c’è chi ne approfitta per giocare, chi per scrivere un’email. Zoom sulla tasca di un passeggero. Vibra. Lui sfila il telefonino, per vedere chi gli scrive. Il tizio ha gli occhiali, è stempiato. Diciamo che in questo film nessuno ha l’aspetto di un divo di Hollywood. E infatti davanti alle telecamere non c’è mai stato: sta andando a un convegno perché fa il microbiologo, ha insegnato parassitologia all’Imperial College di Londra e nell’ambiente si è guadagnato una certa fama per i suoi studi sulle zanzare. Dirige l’Unità operativa complessa di Microbiologia e virologia dell’Università di Padova. Altra zoomata, stavolta sullo schermo del telefonino. È il messaggio di una sua collaboratrice. Scrive: «Due pazienti ricoverati a Schiavonia da una decina di giorni, uno del 1943 ricoverato in terapia intensiva con grave insufficienza respiratoria, l’altro del 1952 ricoverato in medicina. Nessuno dei due ha storia di viaggi o ha riferito contatti con altri casi». 

Adriano Trevisan il primo morto

Ora il film potrebbe proseguire a migliaia di chilometri di distanza, nell’ospedale del Padovano dove meno di quattro ore dopo uno dei pazienti muore. Si chiamava Adriano Trevisan, aveva 78 anni e abitava a Vo’. È il primo decesso per Covid riconosciuto in Italia. Ne seguiranno, dati del 21 febbraio, altri 188mila solo nel nostro Paese. Ad analizzare il tampone fatto all’anziano e ad avere la conferma che fosse stato infettato dal coronavirus, è proprio il laboratorio diretto dal tizio sull’aereo, Andrea Crisanti, che martedì - a tre anni esatti dall’inizio della pandemia – ha pubblicato sui social le chat scambiate in quelle ore coi suoi collaboratori. 

«Dobbiamo capire»

Nel frattempo gli sono successe un sacco di cose: è diventato famoso, uno dei virologi-star della tivù, ha litigato col governatore Luca Zaia, si è dimesso dall’Università e oggi siede in Parlamento. «Ho conservato i messaggini - spiega Crisanti - perché sono una testimonianza in presa diretta di quei momenti concitati. Capimmo subito che eravamo a un punto di non ritorno». Torniamo al film. 25 febbraio, ore 2.42 del mattino. Crisanti è salito sul primo volo di rientro, sta per fare scalo a Doha. I suoi collaboratori sono ancora al lavoro («Abbiamo fatto 4 notti consecutive di 13 ore»), gli scrivono che il numero di contagiati in Veneto cresce e stanno cercando di verificare con chi sono venuti in contatto. «Ci sono pazienti del pronto soccorso e malattie infettive. Tutti dipendenti (degli ospedali, ndr) e pazienti di Schiavonia, Dolo e Mirano, Venezia, Abano...». Lui impartisce le direttive: «Dividili per categorie, dobbiamo capire che sta succedendo».

«Ne abbiamo troppi»

Ma lo staff è in difficoltà, da tempo il laboratorio è sotto-organico. «È impossibile - spiega la collaboratrice, non abbiamo il tempo di vedere le schede (dove i pazienti raccontano con chi sono entrati in contatto, ndr) stiamo processando 1600 campioni». Crisanti insiste, ha capito che ricostruire la catena di contatti è l’unica speranza di interromperla. Dice che se anche una minima parte fosse stata contagiata, rappresenterebbe un numero gigantesco: «Abbiamo le schede? Dobbiamo analizzarle. L’1 per cento sarebbe un’enormità...». E infatti è già troppo tardi. Due giorni dopo chiederà a Zaia di effettuare un secondo giro di tamponi e il governatore, intuendo il potenziale dell’idea, acconsentirà. Da lì, nasce il «modello Vo». Il resto del film lo conosciamo tutti: è la più grave pandemia dei tempi moderni. Ora Crisanti si guarda indietro. «Furono giorni impegnativi. E i miei collaboratori, lo si capisce dai messaggi, erano distrutti dalla fatica ma lottarono come leoni».

La guerra dei virologi sopravvive al Covid. Palù: «I dati di Crisanti sono inattendibili». Storia di Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2023.

Uno dei grandi punti interrogativi che ci ha lasciato il Covid riguarda i suoi effetti nel lungo periodo. In attesa di capire come stanno davvero le cose, e ci vorranno anni, possiamo placare le nostre ansie con una prima voce da mettere in lista. È la guerra tra virologi, che sembra sopravvivere anche alla pandemia, almeno alla sua fase più drammatica e sempre toccando ferro. Perché se mascherine e tamponi non fanno più parte della nostra vita quotidiana, questa disfida scientifica con forti venature di battibecco da talk show è ancora viva. E purtroppo lotta insieme a noi.

L’ultima coda, almeno per ora, parte dall’inchiesta della Procura di Padova sull’affidabilità dei test rapidi acquistati dalla Regione Veneto nel 2020. Nell’ottobre di quell’anno Andrea Crisanti — allora ordinario di Microbiologia all’Università di Padova, oggi senatore del Pd — aveva presentato un esposto in cui sosteneva che quei tamponi antigenici fossero poco affidabili. Una mossa che aveva innescato uno scontro senza esclusione di colpi con il governatore del Veneto, Luca Zaia. E che si basava su uno studio condotto dallo stesso Crisanti la cui tesi di fondo era che quei test avessero favorito la diffusione del virus anziché ostacolarla.

Dalle carte dell’inchiesta emerge però il giudizio su quella ricerca firmato da un altro virologo, Giorgio Palù, anche presidente dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. Ed è un giudizio più che severo perché liquida senza appello lo studio dell’ex professore di Padova: «Non può in alcun modo essere assunto né come dato scientifico né come opinione di esperto». E cosa sarebbe, allora? «Trattasi in realtà — scrive Palù nel suo parere — di informazione inattendibile e non scientifica».

Una battaglia campale, nella guerra dei virologi. Ma non è stata certo l’unica su questo terreno. Contro lo studio del professor Crisanti era già intervenuto Massimo Clementi, professore emerito di Microbiologia e Virologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. E anche la sua era stata una bocciatura senza appello, visto che aveva parlato di «lavoro imbarazzante», di «prima parte che definirei ingenua» di «mancanza di elementi di supporto». Come ha raccontato al Gazzettino, era stato lo stesso Clementi a condividere le sue perplessità con il governatore Zaia, fornendo carburante allo scontro di cui sopra. Ma del resto, nella guerra dei virologi, c’è anche chi Crisanti l’aveva difeso. Come Fulvio Ursini, già direttore del Dipartimento di chimica biologica dell’Università di Padova, che aveva parlato di «mancanza di rispetto, non solo della persona, quanto dell’operare scientifico stesso». Fine del botta e risposta.

Già alla fine del 2021, quando il Covid era di sicuro più preoccupante di oggi, un sondaggio del Censis diceva che quasi la metà degli italiani era contraria alla presenza dei virologi in tv. L’altra metà, evidentemente, era favorevole. Da allora, per fortuna, le cose sono migliorate ma l’effetto collaterale della guerra dei virologi continua a farsi sentire. E rischia di degenerare nella sindrome dell’ultimo dei giapponesi. Lo stesso Clementi aveva detto qualche tempo fa: «Il virologo del domani non sarà nei talk show ma al lavoro sull’interfaccia uomo-ambiente-animale, dove si sviluppano le malattie». Speriamo.

Fabrizio Pregliasco.

Dagospia il 15 febbraio 2023. Da “Un Giorno da Pecora – Rai Radio1"

Fabrizio Pregliasco chiede la mano della sua ‘storica’ compagna Carolina in diretta a Un Giorno da Pecora. Ospite del programma di Rai Radio1, condotto da Giorgio Lauro oggi insieme all’attrice Claudia Gerini, il virologo, da poco uscito sconfitto dalle elezioni regionali, nelle quali si era candidato per il c.sinistra, in Lombardia, ha rivelato di voler fare entro l’anno il ‘grande passo’: “la mia fidanzata non era d’accordo con questa candidatura, lei mi sostiene e mi supporta da vent’anni. Per questo dico che ora è arrivato il momento di sposarci”.

La sua è una richiesta ufficiale allora? “Si – ha risposto senza esitare a Un Giorno da Pecora - Carolina è una donna straordinaria, vivere con lei mi dà tanta gioia ed è un grande regalo. Per questo le chiedo: mi vuoi sposare?” La richiesta ha stupito un po’ tutti, conduttori compresi, ma non l’interessata, che subito dopo è stata raggiunta telefonicamente dal programma per dare l’attesa risposta: “sono senza parole, certo che rispondo di sì!", ha detto felice Carolina Pellegrini.

Non me lo aspettavo, io però dico di sì, lo sposo, a patto che non faccia più il birichino: deve dormire di più mangiare meglio, non è più un ragazzino". A quando l’anello per il matrimonio? “Ho già speso tanto per la campagna elettorale, quasi diecimila euro…”, ha risposto il virologo, nonostante la sua compagna avesse affermato poco prima di “aspettarsi un regalo appena tornato a casa”. A risolvere il problema ci ha pensato Claudia Gerini, che ha chiosato: “non si preoccupi, a Roma c’è molta scelta, glielo do io qualche buon consiglio su dove acquistarlo…”

Roberto Burioni.

Il Bestiario, il Burioncello. Il Burioncello è un animale leggendario, sostenitore della dittatura scientifica, che insulta chi non la pensa come lui. Giovanni Zola il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Il Burioncello è un animale leggendario, sostenitore della dittatura scientifica, che insulta chi non la pensa come lui.

Il Burioncello è un essere mitologico, creato artificialmente nei laboratori di “Che tempo che fa”, che per esistere deve creare un nemico immaginario. Anche a questa curiosa creatura è applicabile il principio del “quarto d’ora di celebrità”: il tempo a sua disposizione sarebbe già scaduto, ma si agita come un’anguilla spiaggiata per far durare più a lungo possibile la popolarità costruita sul dramma e la paura di tante persone. Così al Burioncello non basta sostenere le proprie tesi, egli ha un bisogno innato di stigmatizzare chi, pur non essendosi pronunciato in senso contrario, difende la propria libertà di scelta. Un po’ come quel bambino viziato e antipatico che si portava via il pallone se i compagni di gioco non lo lasciavano vincere.

Il miglior nemico immaginabile del Burioncello è l’attuale numero uno del tennis mondiale che si è azzardato, non solo di scegliere liberamente di non ricevere il siero non ancora sperimentato, ma anche di vincere proprio là dove solo un anno prima era stato trattato come un pericoloso criminale. Apriti cielo. Il Burioncello rosicone – che aveva previsto la fine della carriera del tennista - ha scatenato il suo livore: “Campione con la c minuscola”, “Cavernicolo”, “Cretino no vax”. Se solo il campione avesse avuto la possibilità di controbattere avrebbe chiesto: “Il Burioncello chi?!”

Il punto è che il Burioncello è un potenziale dittatore devoto al dio della scienza. La particolarità del dio della scienza è che produce documenti e ricerche che nel tempo si contraddicono. Succede che se il 13 marzo 2021 il Burioncello ci convince che “Molti sostengono che i vaccini impediscano la malattia e non l’infezione. Non è vero. Il vaccino Pfizer, in uno studio gigantesco, ha dimostrato di essere in grado di impedire l’infezione con un’efficacia del 90%”, il 13 ottobre 2022 scopriamo che, come ammesso dalla stessa Pfizer: “Negli studi di fase 3 i vaccini non sono stati valutati per la loro capacità di ostacolare il contagio”. Non colpisce che il dio della scienza evolva, stupisce che le affermazioni vengano divulgate come verità assolute. D’altra parte non c’è migliore pubblicazione scientifica di quella che sostiene il proprio preconcetto ideologico e il proprio business. Ma il Burioncello è risoluto nelle sue affermazioni e sostiene che il plurale di “valigia” è “valige”. E chi siamo noi per contraddirlo e soprattutto chi siamo noi per credergli ancora.

Ilaria Capua.

Estratto dell’articolo di Paola Pica per il “Corriere della Sera” il 21 febbraio 2023.

Bologna, via Beniamino Andreatta, 21 febbraio 2023, ore 18. È il giorno dell’annuncio, la data da ricordare come un nuovo inizio nella sua vita di scienziata. Possiamo dire «bentornata in Italia prof»?

 «Possiamo! Torno in Italia e soprattutto torno in Europa, l’ufficializziamo nel corso di un incontro alla Johns Hopkins Sais Europe University, l’università americana che ha una sede a Bologna dal lontano 1955 e con la quale avvio una collaborazione sui temi ai quali mi dedico da anni, la salute globale. Detto in inglese, l’incarico è di Senior fellow of Global Health».

 Sono passati quasi sette anni dall’arrivo in Florida dove ha diretto dal 2016 il Centro di eccellenza One Health. Sette anni dall’ addio al Dipartimento di Scienze Biomediche di Padova che dirigeva, e alla Camera dei deputati dove era stata eletta con Mario Monti. […]

C’è più Italia o più Europa in questa scelta?

«L’Europa ha bisogno di raccogliere energie positive, ha bisogno dei suoi cittadini e io credo abbia bisogno dei suoi ricercatori. [...] L’Italia, da parte sua, è in un momento nodale con grandi risorse a disposizione che vengono dal Pnrr. Un’opportunità di crescita scientifica e tecnologica per il Paese che non si ripeterà più. L’Italia oggi è un avamposto in Europa. E poi è il mio Paese».

 Ha fatto dunque pace con l’Italia? Il film del 2021 «Trafficante di virus» tratto dal suo libro racconta dell’errore giudiziario che ha travolto l’esistenza sua, della sua famiglia, degli amici e dei colleghi. Quasi dieci anni dopo come vede quella tragica esperienza che l’ha spinta ad emigrare in Florida?

«Una delle grandi sfide della vita è quella di riuscire a trasformare gli eventi peggiori in opportunità». […]

Quanto è alta l’aspettativa di nuove scoperte?

«La ricerca può volare alto! Dagli studi sulle banche dati possono emergere mondi inesplorati. Così come è stato con il microscopio che ci ha aperto gli occhi sull’invisibile, c’era un intero universo che non si poteva vedere e in esso la risposta a tante delle nostre domande».

 C’è una speranza per l’Italia di veder tornare altri «cervelli» oltre al suo?

«Mi piacerebbe essere d’ispirazione per altri e mi muove il desiderio di restituire qualcosa di quello che ho imparato. L’Italia della ricerca deve poter richiamare talenti per rilanciarsi in una dinamica internazionale».

 Ci tolga infine una curiosità: ma suo marito Richard, «Rich» per chi ha seguito la vostra storia, che a dispetto di tutto è sempre rimasto al suo fianco nonostante le difficoltà, verrà a vivere a Bologna?

«Ahimè è più complicato del previsto... ( ride ). Siamo caduti vittime della Brexit! Non è così semplice per un “extracomunitario” e suddito di Sua Maestà ottenere la cittadinanza italiana. Richard ha sostenuto e passato l’esame dopodiché bisogna attendere anni... Ma questo è un altro degli intoppi inimmaginabili delle famiglie cittadine del mondo...».

Antonella Viola.

DAGOREPORT il 2 maggio 2023.

All’inizio delle comparsate su giornali, social e tv che il Covid le aveva reso possibili, Antonella Viola se l’era presa con due personaggi che, a suo dire, non avevano i titoli per fare i docenti universitari: Piero Angela e Angela Vettese. 

Dimenticando, nel caso del primo, che l’università italiana prevede anche la cattedra in Comunicazione scientifica (Sps08) e, nel secondo, quella in critica d’arte (LArt04) e che, pertanto, parlare in tv di scienza o fare critica d’arte su un giornale non era altro che l’azione quotidiana di un possibile studioso della materia. 

Lei, in compenso, è da tre anni che si sollazza sui giornali e nell’editoria in materie assai lontane da quello che è il suo raggruppamento disciplinare. E ora, dopo un libro sulla filosofia di vita ne arriva uno sulle scelte alimentari per allungare la vita. 

Il vino fa male, questo ce lo ha già detto (sebbene sia stata sorpresa berlo), ma nel nuovo libro, “La via dell’equilibrio.  Scienza dell’invecchiamento e della longevità” (Feltrinelli, 170 pagine), si passa al racconto in prima persona.

La professoressa di Patologia Generale (non Virologia) con “sincerità” parla di sé, del suo corpo e del suo stile di vita. Se restare giovani è il desiderio universale, lei (53 anni) ha l’indicazione personale per invecchiare bene: “E’ necessario ascoltare il proprio corpo” (questa è, indifferentemente, da Recalcati o da Grande fratello vip). 

“Esiste un legame molto stretto fra infiammazione e invecchiamento, è stato coniato un neologismo per descriverlo: inflammaging, che deriva dalla fusione di inflammation (infiammazione) e aging (invecchiamento)”.

Lungo la vita si accumula del danno, scrive, e per ovviare a questo inedito inconveniente la Viola appassita propone il digiuno intermittente. Raccontando la sua esperienza, ovviamente in prima persona: “Da un paio di anni ho iniziato a inserire nella mia routine alimentare ore di digiuno - rivela - dapprima 16, e questa è diventata un’abitudine che seguo almeno 4 giorni a settimana, per poi allungare ogni tanto a 20 o 24. 

Dopo l’asportazione della tiroide e la successiva menopausa, ho visto, come accade a molte donne, il mio corpo cambiare. La circonferenza della vita ha cominciato a crescere come mai era accaduto prima... Avevo provato diete, mi ero comprata il tapis roulant ma non riuscivo in nessun modo a sentirmi quella di prima... il mio metabolismo era cambiato. Ed era necessario un approccio nuovo. Conoscevo bene il digiuno intermittente... E così ho iniziato a digiunare 16 ore al giorno, ogni giorno, ma ho anche smesso di bere ogni tipo di bevanda alcolica e modificato la mia alimentazione. Nel giro di 4 mesi avevo perso 11 kg ed ero tornata nella mia solita taglia” (non dice quale).

Ecco, la Viola appassita in menopausa è mejo di un trattato scientifico. Ci vuole intermittenza e rigore: “Da allora, bevo solo un bicchiere nelle occasioni speciali e cerco di inserire 16 ore di digiuno almeno 4 volte a settimana. E mi sento così in forma che ho ripreso ad allenarmi”. I lettori ora fremono per un libro sul sesso in menopausa scritta da quella che un giorno in tv disse: “io qui rappresento la Scienza”.

Estratto dell’articolo di Giuliano Aluffi per repubblica.it il 2 maggio 2023. 

Il mio corpo che cambia non è solo una bella canzone dei Litfiba, ma una presa di coscienza che fatalmente, a un certo punto della vita, tocca tutti. È capitato così anche all’immunologa Antonella Viola, che ha fatto ricorso alla scienza per riconoscere i primi segni dell’età e adottare sia la giusta filosofia che i rimedi più opportuni: quelli - dalla dieta, al sonno, all’attività fisica - che oggi consiglia nel nuovo saggio "La via dell’equilibrio: scienza dell’invecchiamento e della longevità" (Feltrinelli).

[…] […] Se io dico che a 40 anni una persona è di mezz’età, sembra strano: invece è assolutamente così, perché l’aspettativa di vita è intorno agli 80 anni. Quindi 40 anni è la mezza età, eppure per noi i quarantenni sono ancora quasi dei ragazzi. Questo perché il concetto di invecchiamento, insieme all’aspetto biologico, ha una componente culturale. 

E il mio libro cerca di muoversi su questi due fronti. Noi invecchiamo, cosa significa invecchiare, a che età si diventa vecchi. E quali sono gli aspetti a cui prestare attenzione. Invecchiare significa, da un punto di vista biologico, diventare fragili: quindi aumenta il rischio di malattie e di morte. Però noi siamo più spaventati da segni come i capelli bianchi e le rughe, che in realtà non ci rendono più fragili, ma sono solo un cambiamento. Siamo molto presi da tutto questo e siamo meno attenti a ciò che accade nel nostro corpo". 

E il suo libro vuole aiutarci a rimediare a questa miopia?

"Io cerco di scrivere libri “politici”, ovvero che possano far crescere il livello di consapevolezza nel lettore, e quindi anche nel cittadino, così che possa cambiare i propri comportamenti. Scrivo perché penso che ci siano degli argomenti importanti sui quali il cittadino consapevole può fare la differenza. 

Un libro sull’invecchiamento è importante perché la popolazione sta invecchiando, e questo significa grandi problemi per la gestione della sanità. Un Paese che invecchia è un Paese che ha bisogno di più sanità e soprattutto di una sanità diversa rispetto a un Paese giovane. D’altro canto le risorse per questa richiesta sempre maggiore di sanità non ci sono. E quindi come fare? L’unica risposta è una longevità sostenibile. Noi viviamo sempre di più ma trascorriamo gli ultimi 20-30 anni in malattia, e questo è insostenibile sia dal punto di vista personale che collettivo. Perciò dobbiamo cercare di invecchiare nel modo migliore possibile […]". 

[…]  Veniamo al libro: lei racconta di una dieta che le ha permesso di perdere 11 chilogrammi in 4 mesi…

"In Italia è nota come “digiuno intermittente”, ma la traduzione corretta sarebbe “Dieta a tempo ristretto”, nel senso che prevede una finestra di 6-8 ore nella quale si mangia, e digiuno per il resto del giorno. Diversi trial clinici mostrano gli enormi benefici di questa pratica. Si basa sugli orologi biologici del nostro corpo e li riallinea. Il principale che abbiamo, l’orologio biologico centrale, segue la luce solare. Ma c’è anche un orologio biologico sensibile ai nutrienti. E quando mangiamo di notte, c’è un disallineamento: l’organismo riceve sia il messaggio: “È buio, devi dormire”. Che quello opposto: “Ti stai nutrendo, devi stare sveglio”. E il corpo patisce".

" […] Nel mio caso, se smetto di mangiare alle 16, a mezzanotte sono con gli occhi aperti e i crampi allo stomaco. E l’insonnia fa molto peggio del mangiare. Quindi io ho modificato la dieta cenando verso le 19.30, saltando la colazione e pranzando verso le 13. Però questo vuol dire che io e mio marito durante la settimana lavorativa non mangiamo mai insieme: lui fa colazione e io no, io ceno e lui no, a pranzo siamo entrambi al lavoro… Però ci rifacciamo nel fine settimana, dove mangiamo normalmente". 

A proposito di insonnia: la tempesta che si è scatenata per le sue dichiarazioni sul vino le ha tolto il sonno?

"Guardi, io sono molto tranquilla perché so di avere ragione, nel senso che ho la scienza ufficiale, e in particolare l’Oms, dalla mia parte. Poi se qualcuno si diverte a scimmiottarmi per avere un po’ di visibilità in più, non mi interessa. […]". 

Ha notato anche una componente sessista negli attacchi ricevuti?

"C’è stata. Ancora oggi nel nostro Paese ad alcuni uomini dà fastidio che una donna sia ascoltata e abbia il coraggio di parlare senza chiedere il permesso. Poi c’è stata anche una componente politica: non scordiamoci che tutto è partito da un post di Salvini. La politica che si deve schierare dalla parte del Prodotto Interno Lordo. Scioccamente si pensa che negare la verità porti a un guadagno economico per il nostro Paese. 

La realtà non è questa: si potrebbe spiegare al consumatore la verità, lasciandolo poi libero di scegliere. Come è stato per le sigarette: quel mercato non è morto, semplicemente oggi tutti sappiamo che il fumo fa male, ma ci sono persone che fumano liberamente. La stessa cosa si farà un giorno per l’alcol, ma ci vorrà tempo, perché gli interessi economici sono tanti.  […]”". […]

Antonella Viola, l'ultimo libro: «L’alcol del vino è cancerogeno, falso dire che due bicchieri non fanno male. Io digiuno 16 ore al giorno». Francesca Visentin su Il Corriere della Sera il 29 aprile 2023 

Alimentazione, salute, attività fisica: «Come invecchiare bene e prevenire le malattie. Il mio digiuno? Quattro volte la settimana» 

«Ho 53 anni e sto invecchiando. Non me lo dice solo il calendario, ma anche e soprattutto il mio corpo che cambia. Dentro e fuori. Da qualche giorno ho un paio di occhiali nuovi e mi accorgo di non poterne più fare a meno per lavorare al computer». Inizia così il nuovo libro di Antonella Viola La via dell’equilibrio. Scienza dell’invecchiamento e della longevità (Feltrinelli, 170 pagine). Lo sguardo sul tempo che passa parte da sé, poi si addentra tra ricerca biomedica, epigenetica, stili di vita, per spiegare che «quando si tratta di capire perché invecchiamo e come possiamo tutelare la nostra salute, l’unica voce affidabile che abbiamo a disposizione è quella della scienza». 

A tratti un memoir

Un saggio che alterna informazioni scientifiche, al racconto in prima persona di Antonella Viola, immunologa, biologa, professoressa di Patologia Generale a Scienze Biomediche all’Università di Padova, che con sincerità parla di sé, del suo corpo e del suo stile di vita. A tratti un memoir. E se restare giovani è il desiderio universale, per «invecchiare bene» è necessario ascoltare il proprio corpo. Proliferano teorie, diete e manuali che catechizzano su come mantenersi in forma, ma fermare l’orologio biologico resta ancora un sogno. Perché invecchiamo? Come si determina l’età biologica? Si può vivere a lungo? L’invecchiamento espone a un rischio maggiore di sviluppare malattie, rende più vulnerabili. Eppure, fa notare Antonella Viola, non tutti i segni legati all’invecchiamento sono deleteri. I capelli bianchi non rappresentano un problema di salute, né ci rendono meno forti. Lo stesso vale per le rughe. «Spesso impieghiamo più tempo e risorse a tentare di nascondere questi segni innocui, piuttosto che a mantenere i muscoli forti o il cuore sano». Viola invita a riflettere: trovare l’equilibrio significa concentrarsi sulla prevenzione e sui segni disfunzionali, imparando a non respingere il tempo, ma ad accoglierlo. 

«La scienza conferma che il vino fa male»

«Non possiamo combattere contro il tempo. È una guerra persa in partenza - si legge nel libro - . Però possiamo imparare ad abitare meglio il nostro corpo... il punto non è fare di tutto per allungare gli anni di vita, ma invecchiare in modo sano». Dalla storia della persona più longeva mai esistita, la francese Jeanne Calment, che visse fino a 122 anni e 164 giorni  (età record) e morì nel 1997, al ruolo del microbiota e dell’infiammazione silente nel determinare invecchiamento e stato di salute: il saggio analizza la ricerca della longevità e le teorie dell’invecchiamento dal punto di vista della scienza. Con focus su cibo, salute e attività fisica. Viola, in tema di salute, torna anche sul tema della nocività del vino, che tante polemiche aveva suscitato. «Dire che un paio di bicchieri di vino al giorno non fanno male è falso e pericoloso - ribadisce - . L’etanolo, l’alcol che si utilizza in tutti i tipi di bevande alcoliche, è cancerogeno». E ne chiarisce i motivi secondo scienza. Sottolineando che nelle donne il rischio associato al consumo di alcol è maggiore che negli uomini. «Uno studio inglese ha calcolato che su 1000 donne e 1000 uomini che consumano in media una bottiglia di vino a settimana, 14 donne e 10 uomini svilupperanno un tumore a causa dell’alcol... Non a caso, già nel 1988 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro e l’Organizzazione mondiale della sanità hanno inserito l’etanolo nella lista dei carcinogeni di primo livello».

«Ho imparato come digiunare per riprendere la forma fisica»

Anche sesso e genere incidono sull’aspettativa di vita. Viola dedica un capitolo al gender gap (divario di genere) collegato alla longevità. «Il 90% dei super-centenari, cioè le persone che raggiungono i 110 anni di età, appartiene al genere femminile». L’ipotesi è che le differenze siano di natura prevalentemente biologica e che il gender gap sia in realtà un sex gap, cioè una differenza dovuta al sesso biologico. Parlando di salute, ruoli fondamentali hanno infiammazione e microbiota, la popolazione microbica dell’intestino. «L’infiammazione non è solo una questione di tessuto adiposo ma anche e soprattutto di interazioni tra noi e i microbi che vivono nel nostro corpo». La fibra alimentare, contenuta nei cibi di origine vegetale, potenzia l’effetto di barriera, migliorando il benessere dell’intestino e di tutto il corpo. Al contrario, lo zucchero (anche il fruttosio) e l’etanolo agiscono negativamente. «Esiste un legame molto stretto fra infiammazione e invecchiamento, è stato coniato un neologismo per descriverlo: inflammaging, che deriva dalla fusione di inflammation (infiammazione) e aging (invecchiamento)». Lungo la vita si accumula danno, percepito dal sistema immunitario, che genera infiammazione. Tra i molti temi trattati, Viola analizza anche il digiuno intermittente. E racconta la sua esperienza: «Da un paio di anni ho iniziato a inserire nella mia routine alimentare ore di digiuno - rivela nel libro - dapprima 16 – e questa è diventata un’abitudine che seguo almeno 4 giorni a settimana – per poi allungare ogni tanto a 20 o 24. Dopo l’asportazione della tiroide e la successiva menopausa, ho visto, come accade a molte donne, il mio corpo cambiare. La circonferenza della vita ha cominciato a crescere come mai era accaduto prima... Avevo provato diete, mi ero comprata il tapis roulant ma non riuscivo in nessun modo a sentirmi quella di prima... il mio metabolismo era cambiato. Ed era necessario un approccio nuovo. Conoscevo bene il digiuno intermittente... E così ho iniziato a digiunare 16 ore al giorno, ogni giorno, ma ho anche smesso di bere ogni tipo di bevanda alcolica e modificato la mia alimentazione. Nel giro di 4 mesi avevo perso 11 kg ed ero tornata nella mia solita taglia. Da allora, bevo solo un bicchiere nelle occasioni speciali e cerco di inserire 16 ore di digiuno almeno 4 volte a settimana. E mi sento così in forma che ho ripreso ad allenarmi».

Viola, il marito dell’immunologa e il tattoo d’amore: «Il vino? Un bicchiere io me lo concedo». Francesca Visentin  su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2023 

Il chimico e la biologa: «Amore a prima vista. La polemica sul vino che fa male? Lo dice l'Oms. Se leggo i libri di mia moglie? Faccio da cavia...» 

Una rosa tatuata sul bicipite e una frase che racchiude il loro amore: «Solo per pazzi». Marco Cattalini, 57 anni, marito di Antonella Viola, biologa, immunologa, professoressa di Patologia generale all’Università di Padova, quel tatuaggio dedicato a lei ha scelto di farlo a 50 anni. «Nei nostri primi anni insieme, Antonella mi aveva consigliato di leggere Il lupo della steppa di Herman Hesse - rivela - poi è diventato una delle nostre letture preferite. La frase che ho voluto per il tatuaggio è riferita a quel libro e alla nostra storia. È un po’ il nostro motto». Laureato in chimica industriale, specializzato in sistemi di protezione dalla corrosione, spesso in giro per il mondo con la sua società di consulenza, Marco Cattalini ha conosciuto Antonella Viola nel 1994, un anno dopo sono andati a convivere e nel 1998 si sono sposati. Insieme da 28 anni, hanno due figli e molte passioni in comune, tra cui uno stile di vita sano, come raccontato da Antonella Viola nel suo nuovo libro «La via dell’equilibrio» (Feltrinelli). 

Marco Cattalini, è lei la parte fitness della coppia? 

«Antonella direbbe “il più fissato”. Faccio molto sport, ma per stare bene. In gioventù arti marziali, adesso kettlebell che si pratica con sfere di ghisa, bilanciere e allenamento a corpo libero, per me è stata una medicina. Fino al 2013 soffrivo molto per lo schiacciamento delle vertebre della schiena, non dormivo, non riuscivo a piegarmi, mi riempivo di antidolorifici. Poi ho scoperto questo sport, ho imparato a farlo nel modo giusto. Oggi sto bene, riesco a sollevare 160 chili da terra senza sforzo e senza dolore. Ho preso anche due brevetti da istruttore, per mettermi alla prova, una sfida con me stesso». 

Quanto si allena ogni giorno?

«Mi alzo alle sei e vado a fare una camminata veloce di circa un’ora, cerco di non perdere l’alba che mi piace molto. Poi a casa mi alleno 20 minuti, quindi abbondante colazione, o dolce con muesli e yogurt, o salata con uova e verdure. Non c’è niente di rigoroso, faccio solo quello che mi fa stare bene. Andando avanti con l’età si perde la forza nei muscoli, allenarsi aiuta a mantenerla. La necessità di restare in forma è nata dopo la morte di mio padre, si è spento dopo anni che era costretto a letto, non aveva mai fatto sport né seguito un’alimentazione sana. Ha vissuto male gli ultimi anni, ogni volta che ci penso l’angoscia mi porta ad aggiungere una serie di ripetizioni all’allenamento… La mia disciplina sportiva arriva dagli Usa, ma centri della scuola StrongFirst ci sono in tutta Italia, si basa proprio sullo sviluppo della forza muscolare». 

Anche lei digiuna come sua moglie Antonella Viola? 

«Ho iniziato il digiuno intermittente dal 2016, molto prima di mia moglie. Salto la cena quasi ogni sera. L’ultimo pasto lo faccio verso le 15, poi basta, digiuno fino alla mattina dopo. È un’abitudine che mi fa stare molto bene. Se mangio dopo una certa ora mi sento appesantito e non riesco a dormire». 

Cene con gli amici? 

«Ho spesso eventi sociali per lavoro, in quel caso ceno, poi magari salto la colazione la mattina dopo. Con mia moglie e con la famiglia ceniamo e pranziamo insieme ogni weekend». 

Riuscite a conciliare gli orari di pranzi e cene tra i vostri rispettivi digiuni? 

«Non capita spesso che mangiamo insieme. Ma di solito se Antonella cena di sera mentre io digiuno, le faccio compagnia bevendo una tisana o lei fa compagnia a me alla mattina, mentre faccio colazione. Nessuna forzatura, ognuno deve imparare ad ascoltare il proprio corpo e fare quello che ci fa stare bene. Io ad esempio non riesco a portare avanti una dieta, preferisco mangiare quello che mi piace a pranzo e poi digiunare la sera. In occasioni speciali però festeggio a tavola come tutti». 

Non sono troppe rinunce?

«Nessuna sofferenza, vivo una vita gaudente, piena di allegria e gioia». 

Le affermazioni di Antonella Viola sul vino che fa male hanno suscitato polemiche a non finire. Anche lei non beve vino?

«Antonella ha riportato quanto da tempo dice l’Organizzazione mondiale della sanità. E l’Oms ha dimostrato con studi scientifici che il vino fa male. Chi dice il contrario mente sapendo di mentire. Io ogni tanto un bicchiere di vino me lo concedo, ma non è un’abitudine quotidiana. Lo faccio solo in casi eccezionali e se ne vale la pena. Anche nello sport mi sono reso conto che se bevo un bicchiere di vino la performance crolla». 

Come siete organizzati nella routine della famiglia? 

«Non esistono ruoli definiti, ci siamo sempre sentiti complementari e intercambiabili in casa e con i nostri figli. Ci sono stati momenti in cui Antonella lavorava di più e io stavo più in casa e viceversa. È la nostra famiglia, una responsabilità di entrambi, ognuno di noi fa il massimo. Siamo sempre complici in tutto, ci sosteniamo a vicenda». 

Come vi siete conosciuti? 

«Era il 1994, Antonella stava facendo il dottorato a Padova, ci hanno presentato amici comuni. È stato amore a prima vista, è scoccata subito la scintilla. Lei stava per partire per la Svizzera, aveva un incarico a Basilea, io l’ho seguita e abbiamo vissuto lì per 5 anni». 

Antonella Viola ha subito anche critiche, attacchi di haters e minacce. Tutto questo si riflette nella vostra vita di coppia? 

«Antonella ha sempre il coraggio della verità e una grande onestà intellettuale e professionale, che ammiro profondamente. Ogni angoscia e preoccupazione l’abbiamo condivisa. Io di solito cerco di sdrammatizzare. I sette mesi sotto scorta a causa delle minacce non sono stati facili, anche se abbiamo conosciuto persone meravigliose, gli uomini della scorta. Gli haters spargono fango ma restano nascosti. Accompagno spesso Antonella in eventi pubblici e presentazioni di libri, ho sempre e solo visto enormi dimostrazioni di affetto verso di lei, da parte di tutti. Incontra tanta gente che le vuole bene». 

Legge i libri che scrive Antonella Viola? 

«Faccio da cavia. Lei è una grande divulgatrice, parla di scienza in modo che tutti possano capire. Leggo le prime stesure, se le capisco io vuol dire che le capiranno tutti». 

Desideri per il futuro? 

«Io e Antonella non ci annoiamo mai. La nostra vita va bene così. Se proprio dovessi esprimere un desiderio, vorrei un mondo meno “piccolo”, dove non si spargano cattiverie a caso, senza conoscere. E magari quando vado in pensione mi piacerebbe aprire una palestra…». 

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 30 gennaio 2023.

Non ce la toglieremo facilmente dai pixel. Fedele all’incoerenza per cui, a inizio pandemia, criticava gli scienziati presenzialisti, ora che l’emergenza è finita Antonella Viola è in televisione persino più di prima. Facendo cadere, disdicevolmente, le barriere tra competenza e onniscienza (s.m.: «Boriosa presunzione di sapere tutto»), ed è diventata una tuttologa. Quando perdi l’autorevolezza devi guadagnare in visibilità. Poi, immaginati: da Covidologa a vinologa è facile come bere un bicchiere d’acqua.

 Contro l’immunologa Antonella Viola, come si diceva del virus quando scattò il lockdown, «Sarebbe necessario adottare delle misure di contenimento, prima che sia troppo tardi».

 Del resto, prestissimo, è diventata una delle attrazioni irrinunciabili del grande circo dell’Italia dello Zoom. Presenza fissa da remoto, Antonella Viola – un cliché prima che un’immunologa, un brand più che una divulgatrice – è perennemente sugli schermi. Diva e vegeta. I virus hanno bisogno di un ospite per replicarsi, le televisioni dei virologi come ospiti.

E così Antonella Viola ha fatto il giro delLa7 chiese, da Omnibus a Piazzapulita, dal mattino a sera orario continuato - charme, vademecum igienico-sanitari, buon senso comune e sociologia spicciola - non disdegna la Rai, passa spesso in radio; è attivissima su Facebook, collabora con i giornali, partecipa a festival, è intervistata, pubblica libri, arriverà un podcast.

 Tecnicamente è una biologa, neanche medico, ma mediaticamente è specializzata in Virologia, e va bene; in Cronaca bianca, rosa e nera (dalla sanità ai femminicidi), in Politica (in quota televisiva Pd), Esteri (è esperta di geopolitica e guerre), Economia (parla volentieri di accise e Mes), Cultura (chi non può parlare di Cultura?), Hobby (più o meno tutti), Sport (sì, parla anche di quello), Salute (a parte la cazzata sul vino), Programmi tv (in buona parte occupati da lei) e Tempo libero, di cui evidentemente abbonda. Le manca il Meteo e l’Oroscopo, campi peraltro che con la Scienza, a volte, condividono l’inaffidabilità. Biologa affidabile, affabile, cortese, molto suscettibile, perfezionista e spavalda per nascondere l’insicurezza – sarà un po’ la sindrome di medico mancato, un po’ l’ossessione per la messa in piega sempre perfetta – Antonella Viola è stata la prima dose di scienziati inoculata in tv.

Poi, detronizzata dal ritorno della normalità, si è dovuta, purtroppo, reinventare. E persino Aldo Grasso, suo adepto del prime time, si è ricreduto: «Quando l’ho sentita esaltare Santoro e Lerner come miti della sua giovinezza televisiva mi è caduto un mito. Ho capito che ormai aveva imboccato la strada dell’opinionismo».

 Non è un’opinione ma un fatto, Antonella Viola parla di cucina, sesso, gender, Qatargate, ricostruzione della Sinistra. Lilli Gruber chiede ad Antonella Viola cosa ne pensa di Eugenia Roccella e della linea Meloni sull’aborto. A Dimartedì Antonella Viola disputa di fascismo e del pericolo che l’Italia diventi come l’Ungheria. Antonella Viola che sostiene, contro l’Accademia della Crusca e il Cerimoniere di Palazzo Chigi, che è un errore usare l’articolo «il» da parte del Presidente Meloni.

Antonella Viola che discute di crisi energetica a Otto e mezzo. Antonella Viola, ormai inarrestabile, dice la sua sulle concessioni balneari, poi spiega le ragioni dell’escalation del conflitto ucraino, quindi è chiamata a commentare la cattura di Matteo Messina Denaro. E comunque l’immunologa Antonella Viola che parla del caro benzina non si può sentire.

 (...) Momenti cult. Quando il suo acerrimo concorrente Matteo Bassetti, a Report, ha ricordato che Antonella Viola «fa un mestiere importantissimo, ma non è un medico». Quando, a Fuori dal coro, Mario Giordano ha brindato alla professoressa Antonella Viola che ha detto: «Chi beve vino ha il cervello più piccolo», Cin cin.

 Quando Daniele Capezzone, a Controcorrente, ha informato la professoressa Viola che nonostante Winston Churchill avesse un regime alcolico abbastanza duro ha sconfitto i nazisti, vinto la guerra mondiale e preso un Nobel. Ma in fondo la «variante Viola» è stata individuata dai media e dal grande pubblico soltanto tre anni fa. Farà a tempo a vincere anche quello.

Pfizer Italia entra nelle scuole e nelle università con progetti “contro la disinformazione”. Iris Paganessi su L'Indipendente venerdì 29 settembre 2023.

Pfizer Italia ha lanciato un progetto contro la “disinformazione” nelle scuole superiori e nelle università italiane, a rivelarlo è stato – in una intervista rilasciata a Italpress – il direttore della comunicazione del colosso farmaceutico, Biagio Oppi. Il progetto è già definito ed inizierà nei prossimi giorni. L’obiettivo, secondo Oppi, è andare «al di là di fare debunking, quindi di smentire le notizie, operando alla radice» per «portare strumenti per una migliore alfabetizzazione medico-scientifica di studenti e professori». Sarà quindi direttamente una delle maggiori multinazionali del settore a formare le nuove generazioni italiane sulla corretta informazione scientifica, con un progetto che si è premurato di mettere nel mirino anche i futuri operatori dell’informazioni, visto che le lezioni organizzate da Pfizer si svolgeranno anche «nei corsi di giornalismo e nelle facoltà di Scienze della comunicazione».

Il progetto, che prenderà il via ad ottobre, è stato lanciato in collaborazione con la Fondazione Golinelli (realtà bolognese che, da statuto, si occupa di promuovere conoscenza, innovazione e cultura attraverso attività di educazione e formazione) e Fondazione Media Literacy (che opera nei campi dell’educational e dell’informazione, in particolare nelle scuole secondarie superiori). La notizia ancora non trova comunicazioni ufficiali in merito, a parte le dichiarazioni del responsabile comunicazione di Pfizer non è presente alcun comunicato ufficiale né da parte dell’azienda farmaceutica, né da parte delle fondazioni che collaborano al progetto. Per questo  L’Indipendente ha contattato tutti i soggetti coinvolti per capirne qualcosa in più. A risponderci è stato un addetto della Fondazione Media Literacy, che ha confermato il progetto, specificando che fino ad ora non è stato reso pubblico su richiesta della stessa Pfizer e che maggiori dettagli verranno resi noti in seguito alla conclusione del Festival digitale popolare – evento che si terrà sabato 7 ottobre a Torino – durante il quale il Dottor Oppi presenterà ufficialmente il progetto. 

Al momento, quindi, non sono pubblici né i nomi delle scuole, né la tipologia degli istituti (solo privati o anche pubblici?) in cui il progetto prenderà piede, né tanto meno la data ufficiale di inizio. Di certo, per ora, c’è solo che la multinazionale del farmaco produttrice del principale vaccino contro il Covid – e dal curriculum tutt’altro che immacolato – dopo aver finanziato generosamente ed in modo occulto enti “indipendenti” per fare campagna in favore della vaccinazione e dopo aver distribuito laute donazioni anche a medici, ricercatori, associazioni e università in tutta Italia, avrà libero accesso anche alle cattedre degli istituti scolastici e universitari italiani. 

[di Iris Paganessi]

La bufala degli 857 mila morti per “malori improvvisi” secondo l’Istat e Iss. Enrica Perucchietti su L'Indipendente giovedì 10 agosto 2023.

Sempre più studi scientifici stanno prendendo in esame l’aumento di patologie correlate all’inoculazione (come pericarditi, miocarditi, Guillain-Barré, ecc.). Per esempio uno studio retrospettivo pubblicato sulla rivista Scientific Reports, prende in esame l’“Aumento degli eventi cardiovascolari emergenziali nella popolazione di età inferiore ai 40 anni in Israele durante l’introduzione del vaccino e la terza ondata di Covid-19”, mentre uno studio condotto dalla Yale University e pubblicato sulla rivista Science Immunology, fornisce nuove informazioni sulla infiammazione cardiaca post-vaccino, un effetto collaterale riscontrato soprattutto tra i giovani maschi che hanno ricevuto i vaccini a mRNA contro il Covid-19. Il Perù, invece, alle prese con aumento vertiginoso di casi di sindrome di Guillain-Barré (il bilancio delle vittime della sindrome è salito a quattro, mentre i casi hanno superato i 180 tra gennaio e luglio), ha rilanciato la possibile correlazione della patologia con il vaccino, già nota ai media e alla politica sin dal 2021.

Oltre ai sempre più numerosi studi sugli effetti collaterali e alle testimonianze delle vittime, spesso dimenticate e abbandonate dalle istituzioni, la cronaca offre quasi quotidianamente casi di sospetti “malori improvvisi” in particolare tra i giovani e sportivi, aumentando nell’opinione pubblica il sospetto di una correlazione tra gli eventi e la vaccinazione.

Dall’inizio delle inoculazioni anti-Covid, il dibattito sugli effetti collaterali e sui malori improvvisi ha polarizzato l’opinione pubblica tra chi preferisce minimizzare i casi, ormai sotto gli occhi di tutti, o deviare l’attenzione su altro (accusando chi ne parla di “complottismo” o di essere “No Vax”), e chi, in maniera altrettanto scorretta e di parte, fa rientrare qualunque morte o malore accidentale in un effetto collaterale da vaccino. Questi ultimi, anche se in buona fede e mossi dalla volontà di convincere gli scettici dei rischi delle vaccinazioni anti-Covid, non fanno altro che ricalcare le stesse modalità dell’evangelizzazione mainstream, mostrando altrettanto fanatismo nel piegare i dati ai propri interessi. Entrambe le fazioni, infatti, ricorrono alle medesime tecniche di manipolazione, sfruttando l’emotività delle persone, alterando i dati e agitando lo spauracchio del pericolo incombente (il Covid da una parte, i malori improvvisi, dall’altra).

Così, si diffondono anche notizie e dati infondati, alcuni persino sfacciatamente errati, che non fanno altro che avvelenare la verità e screditare quei ricercatori e giornalisti che cercano, con fatica e con obiettività, di portare alla luce i dati reali sugli effetti collaterali e sui malori improvvisi. Un esempio di questo atteggiamento ci viene da una tabella che è stata diffusa su Twitter dal noto dottor Mariano Amici e che è divenuta virale sui social: sulla base del principio di autorità – è stata condivisa da un medico – il post è stato visualizzato da migliaia di utenti e condiviso da centinaia di questi, senza che nessuno andasse però a verificare i dati in essa contenuti.

Il tweet in questione non è più disponibile perché, come si legge su Twitter, risulta «eliminato dal suo autore». Lo stesso Amici ha poi ammesso successivamente su Twitter che i dati erano sbagliati, ma non tutti se ne sono accorti se hanno letto la tabella condivisa da altri. 

La tabella mostra una crescita incontrollata ed esponenziale di presunti dati sulla mortalità per malori improvvisi in Italia divisi per anno. Le fonti dei numeri contenuti, si legge nel tweet, sarebbero l’Istituto nazionale di statistica (Istat) e l’Istituto superiore di sanità (ISS). La tabella in questione contiene presunti dati sui “decessi per malore improvviso negli ultimi 5 anni in Italia”: nel 2018 ci sarebbero stati “5.640” malori improvvisi, “7.040” nel 2019, “7.420” nel 2020, “33.000” nel 2021 e “857.000″ nel 2022. Il sottotesto della tabella è chiaro: queste morti sarebbero causate dal vaccino contro il Covid. 

Peccato che, tabelle Istat alla mano, i decessi totali in Italia nel 2022, senza distinzione di causa, siano stati 713.499. È quindi impossibile che nel 2022 le sole morti in Italia per “malore improvviso” siano state più di 857.000, come erroneamente leggiamo nella tabella in questione.

L’Istat, inoltre, non pubblica dati sui malori improvvisi in quanto si avvale della Classificazione internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati (Icd-10) che non contempla alcun codice specifico per le morti causate, appunto, da “malore improvviso”. Per questo motivo anche i dati sui malori improvvisi riferiti agli altri anni presenti nella tabella sono infondati. Inoltre, su Twitter, gli account ufficiali di Istat e ISS hanno smentito ufficialmente di aver mai prodotto e pubblicato i numeri contenuti nel tweet in oggetto.

Non c’è bisogno di diffondere informazioni errate ed evidentemente esagerate, né di alterare o piegare la verità con numeri in eccesso: la realtà è sotto gli occhi di tutti e sebbene richieda tempo, sicuramente più tempo della menzogna, essa smaschera sempre i tentativi di falsificarla. Anzi, sono necessarie la professionalità e la prudenza per non porgere il fianco agli inquisitori digitali e screditare l’intera area del dissenso. Inoltre, è ingenuo e persino ipocrita criticare il “Sistema” e le tecniche di manipolazione se poi si fa ricorso alle stesse tecniche che adotta il potere per plasmare l’opinione pubblica. 

Non è con la forza e neppure con l’inganno che si possono denunciare gli errori della narrazione dominante, né convincere le altre persone a condividere il nostro pensiero. Anche qualora esso sia vero. [di Enrica Perucchietti]

Green pass: il caso Madame e le “bufale” addossate a Meluzzi dalla stampa mainstream. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 5 Gennaio 2023.

Indagata dalla procura di Vicenza per falso ideologico, nell’ambito dell’inchiesta sui falsi green pass, la cantante Madame, al secolo Francesca Calearo, ha rotto il silenzio su Instagram con un lungo post, ammettendo di non essersi sottoposta né a vaccinazione anti-Covid né a quelle tradizionali, in quanto «nata e cresciuta in una famiglia che per vari motivi ha iniziato a dubitare dei medici e della medicina tradizionale». Per correre ai ripari dopo le polemiche che l’hanno travolta nelle ultime settimane, la cantante ha così incolpato le scelte dei genitori che l’avrebbero influenzata e che sono andate «in una direzione ostinata e contraria» rispetto alla scienza. Dopo aver appreso dell’indagine a suo carico si sarebbe rivolta a un infettivologo che le avrebbe prescritto le vaccinazioni ritenute “essenziali”. 

Secondo l’inchiesta de Il Giornale di Vicenza, oltre al nome di Madame, nell’indagine della procura di Vicenza era trapelato anche il nome della tennista di fama mondiale Camila Giorgi. 

Il caso, che ha tenuto banco per giorni sui media, sollevando anche polemiche per la presenza di Madame a Sanremo, ricorda quello di novembre 2021, quando venne indagato dalla Procura di Roma Alessandro Aveni, odontoiatra e medico di base, con lo studio a Colli Albani: i carabinieri sequestrarono nove green pass falsi, tra cui quello di Pippo Franco, anche lui indagato.

Fermo restando che le vicende sugli altri indagati sono ancora da accertare, è interessante sollevare alcune osservazioni.

La prima riguarda l’ipocrisia di quei vip che, come nel caso confermato di Madame, invece di prendere posizione contro l’imposizione del green pass e delle vaccinazioni anti-Covid, hanno preferito tacere e ricorrere a mezzi illegali, pagando per ottenere una certificazione falsa e poter continuare il loro lavoro indisturbati. La loro voce avrebbe potuto sensibilizzare l’opinione pubblica in un momento delicato di compressione dei diritti e delle libertà fondamentali. Hanno preferito invece tacere e adeguarsi, aggirando il sistema.

La seconda è che per continuare a far parte dell’élite politicamente corretta ma feroce e intransigente con chi dissente, ci si deve umiliare pubblicamente, abiurando come un eretico e rinnegando le proprie idee e le proprie scelte. 

La terza considerazione riguarda l’atteggiamento dei media nei confronti di chi ha criticato le misure adottate per il contrasto alla pandemia e ha provato a squarciare il velo di falsità.

Il 15 luglio del 2021 il noto medico, psichiatra e saggista italiano, Alessandro Meluzzi, nel corso di un incontro organizzato da Salute Attiva a San Marino, aveva denunciato alla platea l’esistenza di una rete di finte vaccinazioni: «Buona parte di quelli che si sono vaccinati da una certa sfera in avanti, hanno fatto falsi vaccini. Ve lo certifico perché lo hanno proposto anche a me. Sapete qual è stata la mia risposta che mi ha fatto passare definitivamente per pazzo? Perché non voglio sporcare il mio karma». 

La notizia era stata subito etichettata come una “bufala”, senza neanche il tempo di approfondirne la fondatezza. Meluzzi, dal canto suo, non solo non ha mai smentito le sue dichiarazioni, ma ha confermato ripetutamente questa versione, in svariate interviste e convegni. Invece di interpellarlo e chiedergli spiegazione su quanto esposto, i media mainstream hanno scelto di denigrarlo, continuando quell’opera di criminalizzazione del dissenso che si è consolidata durante la pandemia.

Su tutti è da segnalare Open che ha accusato Meluzzi di mentire e di diffondere «campagne complottiste e No Vax» senza alcuna prova. Dello stesso tenore Libero Quotidiano che in un articolo aveva bollato come «fake news della peggior specie» il suo intervento definendo «tontoloni della rete» coloro che avevano creduto al suo racconto e che «subito sono cascati nella bufala spacciata per atto di denuncia dallo psichiatra e opinionista televisivo».

Alla luce dell’ammissione di Madame, possiamo dire che Meluzzi aveva ragione. 

Eppure, sappiamo che non arriveranno rettifiche o scuse: invece di denunciare le storture del sistema, alcuni mezzi di informazione sembrano più concentrati a imporre all’opinione pubblica una narrazione unica della realtà. Non c’è spazio per il pensiero libero e indipendente né tantomeno per il sospetto, anzi, il dubbio viene additato come il segnale di uno squilibrio paranoico e la coscienza critica diventa sinonimo di “complottismo”.  [Enrica Perucchietti]

Bari, multato per aver lavorato troppo durante il Covid: primario scrive a Mattarella. Policlinico impugna il verbale. Avviata raccolta fondi. E spuntano altri due medici sanzionati. Sanzione di 27mila euro a Vito Procacci, direttore del pronto soccorso: eccesso di straordinari e mancati riposi. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Ottobre 2023

Una multa da 27.100 euro ricevuta dall’Ispettorato del lavoro per aver «durante il drammatico periodo Covid» svolto, lui e il resto del personale, straordinari nel pronto soccorso del Policlinico di Bari andando oltre le ore di lavoro previste dalla legge. A ricevere la sanzione amministrativa il direttore del pronto soccorso, Vito Procacci, che ha preso carta e penna e ha scritto «amareggiato" al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nella lettera Procacci evidenzia che la sua struttura durante il periodo Covid ha salvato «la vita a circa 8600 pazienti, di cui 1600 ventilati meccanicamente».

«Le scrivo - dice - perché oggi, dopo tutto l’impegno profuso da me e dalla mia meravigliosa equipe nel contribuire orgogliosamente a rendere un essenziale servizio ai cittadini, in nome del giuramento di Ippocrate e dell’articolo 32 della Costituzione, le affido tutta l’amarezza, la delusione e lo sgomento per il trattamento ricevuto da uno Stato che amo ma nel quale ad oggi faccio fatica a riconoscermi». "Nei giorni scorsi io e i miei colleghi, direttori di reparti intensivistici, impegnati nel periodo Covid, siamo rimasti allibiti - spiega - nell’aver ricevuto dal locale Ispettorato del Lavoro una pesante e paradossale sanzione amministrativa, che nel mio caso è pari a 27.100 euro. Tutto ciò, per aver adempiuto al nostro dovere ineluttabile di operatori sanitari durante il periodo tragico dell’emergenza Covid». Il verbale imputa ai sanitari «di non aver rispettato all’epoca i riposi prescritti e aver lavorato più delle ore previste (tra l’altro calcolo tecnicamente infondato)».

Procacci annuncia di aver fatto «opposizione» ma «non posso negarle che - scrive rivolgendosi a Mattarella - mi sento profondamente ferito da un Paese che fino a poco tempo fa ci definiva eroi, insignendoci, tra l’altro, di un premio per "aver fatto respirare la Gente di Puglia" e oggi ci chiama trasgressori in un burocratico quanto asettico verbale di sanzione amministrativa». 

IL POLICLINICO IMPUGNA IL VERBALE 

Il Policlinico di Bari ha deciso di impugnare l’accertamento dell’ispettorato del lavoro nei confronti di alcuni primari. Il verbale imputa ai sanitari «di non aver rispettato all’epoca i riposi prescritti e aver lavorato più delle ore previste».

«Proprio nel periodo oggetto della contestazione - replicano dal Policlinico - il personale sanitario era ancora fortemente impegnato nella risposta all’emergenza Covid19. E i pronto soccorso, attivi 24 ore su 24, 7 giorni su 7, sono sempre pronti ad affrontare situazioni d’urgenza, salvando vite di pazienti in condizioni critiche». Queste considerazioni, secondo l’ufficio legale del Policlinico, sono meritevoli di essere meglio esaminate nella successiva fase di impugnativa dell’accertamento. 

Avviata raccolta fondi

«Rivolgo a tutti i medici italiani l'invito a sottoscrivere la lettera inviata dal dott. Vito Procacci al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e contestualmente ad avviare una raccolta fondi a favore del nostro collega Vito che - per avere svolto, insieme alla sua equipe, con entusiasmo, abnegazione e responsabilità il suo lavoro in prima linea in una struttura pubblica - dovrà ora pagare di tasca sua una multa per aver lavorato di più durante il periodo della Pandemia Covid». E’ l’appello lanciato sui social dal professor Loreto Gesualdo, ordinario di nefrologia all’università di Bari e presidente della Fism federazione italiana delle società medico-scientifiche.

«Ci saremmo aspettati casomai un encomio - aggiunge - ed invece, nonostante le difficoltà in cui la sanità é costretta a vivere con carenza di personale e fondi, assistiamo a questa ennesima offesa alla intera categoria. Vito ha dimostrato una straordinaria dedizione al suo lavoro e ora si trova ad affrontare questa ingiustizia. Ma noi non ci arrendiamo!».

«Vogliamo dimostrare il nostro sostegno incondizionato a Vito lanciando una raccolta fondi per aiutarlo. Presto lanceremo una petizione nazionale», conclude Gesualdo.

L'appello di Anelli, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici

«E' una situazione paradossale, che ha dell’incredibile. Io sono testimone diretto della parte dello Stato che ha premiato i medici per la dedizione durante il periodo Covid, mi è stata consegnata dalle mani del presidente della Repubblica una medaglia d’oro. Ora un’altra parte dello Stato multa i medici per aver salvato migliaia di vite». E’ il commento del presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, alla notizia del primario del pronto soccorso del Policlinico di Bari sanzionato dall’ispettorato del lavoro durante l’emergenza Covid per non aver rispettato i riposi del personale. «Ci trovavamo in una fase emergenziale - ricorda Anelli - venivano chiusi interi reparti, cosa avremmo dovuto fare chiudere tutto e lasciare morire? Oggi quell'impegno viene multato, una cosa davvero senza senso. Ho preso contatto con la ministra Elvira Calderone e porterò il caso alla sua attenzione».

SPUNTANO ALTRI DUE PRIMARI SANZIONATI

Oltre al primario del pronto soccorso del Policlinico di Bari, durante il periodo Covid altri due responsabili di reparti sono stati multati dall’Ispettorato del lavoro per i troppi straordinari del personale e il mancato rispetto dei turni di riposo. Come si è appreso da fonti sanitarie, è stata multata i primari di una chirurgia generale e del centro trapianti di fegato, per una sanzione complessiva di 10mila euro che si sommano ai 27mila euro comminati al direttore del pronto soccorso, Vito Procacci, una somma che deve essere pagata in solido con il Policlinico.

Medici ‘eroi del Covid’, colloquio Mattarella-Calderone: stop alle multe per troppo lavoro. Redazione CdG 1947 il 22 Ottobre 2023 su Il Corriere del Giorno.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ha un colloquio telefonico con Il ministro del Lavoro Marina Calderone . "Un'offesa per salvare tante vite umane dal coronavirus siamo rimasti isolati per due anni dalla nostra famiglia. E ora ci ritroviamo pure a pagarne le conseguenze" ha scritto Procacci

L’appello di un medico di Bari si era rivolto con una lettera aperta al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha generato il blocco delle multe per i medici che hanno lavorato “troppo” durante l’emergenza covid, dopo un colloquio tra il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone, ed il capo dello Stato.

L’ispettorato nazionale del lavoro ha sospeso in particolare il procedimento su alcuni medici del Policlinico di Bari, che erano stati incredibilmente multati per aver lavorato oltre il limite consentito nel periodo pandemico. L’azione ispettiva esercitata, si legge in una nota del ministero del Lavoro, è stata avviata dall’ispettorato territoriale a seguito delle segnalazioni effettuate da un’associazione sindacale autonoma per lamentare i mancati riposi e il superamento degli orari massimi di lavoro del personale medico nel corso del 2021.

Mattarella nei giorni scorsi era stato il destinatario di una lettera inviata da Vito Procacci, dirigente del Pronto soccorso dello stesso ospedale barese, sanzionato con una multa di 27.100 euro. “Un’offesa per salvare tante vite umane dal coronavirus siamo rimasti isolati per due anni dalla nostra famiglia. E ora ci ritroviamo pure a pagarne le conseguenze” ha definito Procacci ritenendo ingiusta la punizione per i troppi straordinari.

Lo ha reso noto il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone, che in mattinata ha avuto un colloquio telefonico con il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a cui ha riferito delle attività in corso. Il ministro Calderone inoltre incontrerà al ministero, martedì prossimo 24 ottobre il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei Medici chirurghi e odontoiatri, Filippo Anelli.

La vicenda è finita sotto i riflettori in particolare per il caso di Vito Procacci un medico pugliese, multato per aver lavorato troppo in Pronto soccorso durante l’emergenza pandemica. Ricevuta la richiesta di pagare 27mila euro, il medico ha deciso di scrivere a Mattarella. Direttore del Pronto Soccorso e Medicina d’emergenza e urgenza dell’Azienda ospedaliera universitaria Policlinico di Bari, “una delle più grandi e avanzate strutture di emergenza del nostro Paese – ha scritto il camice bianco a Mattarella – che durante il periodo del Covid è arrivata a salvare la vita a 8.600 pazienti, di cui 1.600 ventilati meccanicamente”.

“Le affido tutta l’amarezza la delusione e lo sgomento – si è sfogato il medico – per il trattamento ricevuto da uno Stato che amo ma nel quale ad oggi faccio fatica a riconoscermi. Nei giorni scorsi io e i miei colleghi, direttori di reparti interventistici, impegnati nel periodo Covid, siamo rimasti allibiti nell’aver ricevuto dal locale Ispettorato del lavoro una pesante e paradossale sanzione amministrativa, che nel mio caso è pari a 27.100 euro. Tutto ciò per aver adempiuto al nostro dovere ineluttabile di operatori sanitari durante il periodo tragico dell’emergenza Covid“.

“Non si può che esprimere enorme gratitudine al Capo dello Stato per la consueta sensibilitá dimostrata anche in questa situazione e grande soddisfazione per la sospensione dei procedimenti nei confronti dei medici multati per aver lavorato troppo nel periodo dell’emergenza Covid”. É quanto afferma in una nota l’assessore alla Salute della Regione Puglia, Rocco Palese, che prosegue: “E’ assurdo che la burocrazia abbia tentato di trasformare i medici da eroi dell’emergenza Covid in trasgressori. La Regione Puglia vigilerá sulla sospensione e sul prosieguo di questo grave ed ingiusto paradosso burocratico“. 

 “Non si comprende come sia potuto accadere che, nonostante la dichiarazione di emergenza da parte del Governo per tutto il periodo della pandemia, siano stati stati assunti provvedimenti che sembravano compatibili con situazioni ordinarie. In quel periodo tutti i medici ed il personale sanitario hanno lavorato notte e giorno affrontando una emergenza imprevista, imprevedibile e sconosciuta ed avendo come unico pensiero quello di salvare vite, non certo quello di guardare l’orologio per rispettare gli orari. Mi auguro che, dopo la decisione della sospensione si arrivi all’annullamento delle sanzioni e che tutti gli organi di competenza tengano conto della straordinarietà e della imprevedibilità di quelle situazioni imprevedibili e decidano di conseguenza” aggiunge l’ assessore Palese.

“In ogni caso la Regione non lascerà da soli i medici in questa situazione e continuerá invece a vigilare, a sostenerli e a lodarli perchè, ad esempio, è proprio grazie ai medici di Pronto Soccorso che si sottopongono a turni massacranti che la Puglia è una delle poche regioni italiane, se non l’unica, che in una situazione di gravissima carenza di medici, non è costretta a ricorrere ai cosiddetti ‘gettonisti’.  Chi lavora ed opera ogni giorno negli ospedali, e soprattutto in contesti come quelli dei Pronto Soccorso in cui si salvano vite umane, é e deve restare un eroe e lo Stato e le Istituzioni tutte devono tenerne conto” conclude Palese .

La notizia della sospensione della procedimento nei confronti dei medici è stata accolta con favore dal ministro della Salute, Orazio Schillaci: “Desidero esprimere la mia soddisfazione per il tempestivo intervento del ministro del Lavoro Marina Calderone che, col conforto autorevole del Presidente Mattarella, ha portato alla decisione dell’Ispettorato nazionale del lavoro di procedere alla sospensione delle sanzioni». Secondo il ministro si tratta di norme che sul piano giuridico «troveranno un fondamento ma non interpretano la necessità e l’emergenza che il mondo e l’Italia ha vissuto“. Schillaci ha aggiunto inoltre di essere pronto, insieme al sottosegretario Gemmato, ad offrire “tutto il nostro supporto per trovare le soluzioni più idonee oerché queste norme vengano rapidamente e le sanzioni annullate“.

Il sottosegretario Gemmato: «Vicenda spiacevole»

Nella mattinata sulla vicenda era intervenuto Marcello Gemmato, sottosegretario alla Salute, coordinatore regionale del partito di Giorgia Meloni in occasione della convention pugliese di Fratelli d’Italia svoltasi a di Bari. “Le sanzioni comminate dall’ispettorato del lavoro ai primari del Policlinico di Bari per i troppi straordinari e i mancati riposi del personale sanitario durante l’emergenza Covid   rappresentano una vicenda spiacevole“. 

“La triste notizia delle sanzioni comminate ai primari del Policlinico di Bari per avere sopportato turni massacranti durante la pandemia COVID mi ha lasciato non poco stupito, come medico e come politico. Ma, fermo restando il rispetto per gli ispettori del lavoro, chiamati a far rispettare le leggi senza possibilità di valutazioni discrezionali, spetta ora al buon senso delle autorità chiamate a valutare i ricorsi che i colleghi medici proporranno appellandosi allo stato di necessità in nome della prestanza del soccorso e dell’assistenza sanitaria in un periodo difficile della nostra vita durante la pandemia COVID” commenta il senatore Ignazio Zullo, capogruppo FdI in Senato della Commissione Sanità.

“I colleghi medici mantengano fiducia nello Stato che confida sui suoi tanti servitori, dai medici e operatori sanitari, compresi gli ispettori del lavoro, per finire alle autorità competenti nella valutazione dei ricorsi. È proprio questa la bellezza della nostra Italia, nei diversi gradi di giudizio e di valutazione secondo competenze e compiti stratificati. Sono altresì convinto che anche il Presidente Mattarella non farà mancare una parola di conforto per una delusione che spero si trasformi in motivazioni sempre più forti nell’essere accanto alla sofferenza. Ai primari del Policlinico esprimo gratitudine e solidarietà con la certezza che tutto si risolverà per il meglio.” conclude il senatore Zullo.

Il primario, Vito Procacci, uno dei tre medici multati, dopo la mobilitazione e il conseguente stop alle sanzioni ha così commentato: “Sono felice e grato alle istituzioni, è una conferma della sensibilità delle istituzioni. Sono grato al Capo dello Stato che è un padre oltre che difensore della Costituzione“.  “Il mio ringraziamento – ha proseguito il dottor Procacci – va anche alla ministra del Lavoro, Marina Calderone. Ora però occorre che le istituzioni accendano i riflettori sulla condizione di grande difficoltà nella quale versa la tutta la Medicina di emergenza-urgenza, non solo pugliese ma italiana. Siamo ridotti al lumicino, gli organici sono ridotti all’osso. Chiedo, quindi, alle stesse istituzioni di avviare una rivisitazione generale del sistema, noi scontiamo pesantemente il peso di carichi assistenziali insostenibili con organici ridotti allo stremo. E nonostante tutto spesso il nostro ruolo non è valorizzato e, a volte, offeso“. Quindi, secondo Procacci, “è necessaria un’azione istituzionale per valorizzare la figura del medico di emergenza-urgenza e degli infermieri che operano nei servizi di pronto soccorso, in modo tale da invogliare sempre più i giovani medici a scegliere questa branca che è la più bella delle medicine, oltre ad essere il più sacro baluardo del diritto alla salute. Le scuole di specializzazione ormai vanno deserte e il rischio serio è di lasciare l’emergenza-urgenza in mano ai gettonisti”.

Covid, 3 anni dal «paziente zero». In Puglia 9mila morti e un milione di guariti. Il 26 febbraio 2020 fu annunciato il primo contagiato: un 43enne di Torricella. Parlano Palese e Lopalco. Alessandra Colucci su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Febbraio 2023

L’annuncio arrivò mercoledì 26 febbraio 2020, fu una notizia scioccante ma non inaspettata: si trattava, in fondo e purtroppo, solo di una questione di tempo. E così toccò al governatore Michele Emiliano comunicare che anche la Puglia aveva il proprio «paziente zero», il primo contagiato da Covid-19, un 43enne di Torricella, nel tarantino, rientrato da Codogno, la «madre» di tutte le zone rosse nell’Italia che, come il resto del mondo, stava iniziando a fare i conti con una tra le più feroci emergenze sanitarie dell’epoca moderna.

Da allora sono trascorsi esattamente tre anni e, dopo, quel primo caso, la nostra regione ne ha contati in totale 1624416, con 1606817 guarigioni, 9618 persone che non ce l’hanno fatta e 13762340 test eseguiti complessivamente (dati aggiornati al 17 febbraio).

Attualmente, i numeri sono decisamente più confortanti: gli attualmente positivi in Puglia sono 7981 (182 nuovi casi su 4159 nuovi test al 17 febbraio), con 122 persone ricoverate, 5 in terapia intensiva e 5 che non ce l’hanno fatta.

I tempi dell’emergenza vera e propria, dunque, sono fortunatamente lontanissimi ma c’è chi non potrà dimenticare facilmente le decine di ambulanze in fila per gli ingressi negli ospedali, le strade delle città completamente deserte, le autocertificazioni, la vita di tutti i giorni, con le cose permesse e quelle vietate, scandita dai colori (il temibile rosso, il preoccupante arancione, l’ottimistico giallo, e l’auspicato bianco), le ondate che si sono succedute, una dopo l’altra, e i bollettini quotidiani, con i numeri che salivano costantemente e che sembravano destinati a non calare mai.

Invece, poi sono decisamente calati e oggi l’assessore regionale Rocco Palese – nominato da Emiliano giusto un anno fa – tira un sospiro di sollievo, ribadisce che la fase emergenziale è finalmente terminata ma, allo stesso tempo, fotografa una situazione difficile per la sanità pugliese, spiegando lapidariamente che sì ne siamo usciti, però “ne siamo usciti terremotati”.

La sanità pugliese, come tutti i sistemi sanitari d’Italia, d’Europa e penso del mondo – precisa Palese – rispetto alla situazione della pandemia, dal punto di vista organizzativo e funzionale, ne è uscita molto provata. A causa di questo vero e proprio terremoto, con reparti chiusi, montaggio di posti letto e di rianimazioni dappertutto, centri vaccinali e lockdown, abbiamo sofferto, con una grande fatica e quindi adesso stiamo cercando di rimettere in piedi una efficiente organizzazione, funzionale e strutturale, di tutto il sistema”.

Un sistema che comprende ospedali e distretti, un intero comparto che è stato messo in ginocchio e che ora deve iniziare la ripresa. A detta dell’assessore, “il virus non ha provocato soltanto morti, disgrazie e problemi con i quali, anche se in minima parte, ancora ci si confronta, ma ha provocato anche un effetto molto negativo sull’organizzazione del sistema sanitario regionale e di tutti i sistemi sanitari del mondo, è così ovunque perché ovunque è successo il finimondo”.

Tre anni dopo quei giorni terribili, dunque, se da un lato l’emergenza sanitaria vera e propria è terminata, gli strascichi strutturali si fanno ancora sentire. Palese però rassicura, spiegando che si tratta di un momento transitorio e che la situazione migliorerà. “Piano piano – dichiara – stiamo cercando di tornare, per quanto è possibile, ad avere una situazione efficiente e alla normalità”.

Per quanto riguarda i rischi veri e propri legati all’emergenza, l’assessore è decisamente ottimista: «Stiamo raccogliendo i frutti dell’impegno per le vaccinazioni, i casi Covid sono ridotti, non ci sono più le emergenze e la situazione è abbastanza gestibile, siamo in un contesto endemico che vuol dire che è governabile». I pochissimi ricoveri in rianimazione, “sono casi molto rari, ma, nella quasi totalità, sono persone che non hanno effettuato le vaccinazioni. La situazione resta sotto controllo, ma chi è fragile deve vaccinarsi, perché comunque il virus non è stato annientato”.

IL PUNTO DI LOPALCO 

Il 9 marzo 2020, mentre l’Italia precipitava nell’incubo Covid, il prof. Pier Luigi Lopalco veniva nominato, con decreto del governatore Michele Emiliano, responsabile della struttura speciale di progetto «Coordinamento regionale emergenze epidemiologiche» dell’Aress, incarico che lo avrebbe visto, per mesi, in primissima linea nella guerra al virus.

Professore, qual è il suo ricordo di quei giorni tra le fine di febbraio e i primi di marzo di tre anni fa?

«Ero a Pisa, ricordo benissimo il momento in cui misi i bagagli in auto, per tornare in Puglia con mia moglie. Durante il viaggio, alla radio, sentii l’annuncio del lockdown da parte di Conte».

Come reagì?

«Mi dissi che eravamo all’inizio di un disastro».

Lo capì immediatamente, quindi…

«Ero preoccupato per la Puglia perché, sebbene non avessimo ancora grosse avvisaglie di infezione, sapevo che l’annuncio del lockdown avrebbe portato a quello che poi si verificò dopo poche ore ovvero il rientro tumultuoso di tanta gente che viveva al nord e che avrebbe sicuramente portato qualche caso qui da noi. Sicuramente fu un momento drammatico, avevo capito quali fossero le dimensioni del fenomeno e, tra le altre cose, l’Oms aveva comunque dato in qualche modo l’allarme, ricordo che il direttore generale aveva detto che eravamo di fronte a una minaccia ben più grave del terrorismo. Conoscendo gli stili rassicuranti dell’Oms, sentire quelle parole mi fece capire che fosse una situazione inedita per la storia recente».

Con il senno di poi, tre anni, dopo, quali sono state le scelte giuste e quali non rifarebbe?

«Con il senno di poi si può sempre pensare a qualche correzione, ma nella gestione generale siamo riusciti davvero a fare dei miracoli, con le risorse che avevamo a disposizione».

Quali erano le fragilità?

«Sul piano dell’assistenza la situazione era davvero preoccupante, sul piano ospedaliero eravamo deboli e abbiamo faticato tanto, per mettere su le terapie intensive, è stata una corsa contro il tempo per avere le attrezzature e i dispositivi».

Dispositivi vuol dire che non c’erano mascherine e camici?

«Ricordo drammaticamente una telefonata notturna di un direttore generale che mi chiamò per dirmi che di lì a 24 ore sarebbero finite le mascherine per la terapia intensiva».

Cosa fece?

«Fortunatamente il presidente si stava muovendo con le forniture dalla Cina e arrivarono in tempo».

Quali sono stati, invece, i punti di forza?

«Avere una rete dei dipartimenti di prevenzione molto forte ci ha permesso di mettere in piedi la sorveglianza e il sistema dei tamponi, e poi l’altro punto forte della nostra regione è stata la vaccinazione. Se non avessimo avuto i dipartimenti ben strutturati con persone che avevano un’ottima esperienza non saremmo riusciti a ottenere i risultati».

Rifarebbe la scelta della didattica a distanza?

«Come tutte le altre scelte, è stata obbligata e non voluta. Non avrei mai voluto tenere i bambini a casa. Alcune volte la Puglia è andata anche in controtendenza con le regole nazionali, ma è stato perché altrimenti la diffusione del virus nelle scuole avrebbe portato a una paralisi completa di tutto il sistema di tracciamento. Molte scelte furono frutto della contingenza».

Possiamo dire di essere fuori dall’emergenza?

«Sicuramente siamo usciti abbondantemente dall’emergenza pandemica. Le ultime ondate sono state paragonabili a una brutta influenza, lontanissime, però, della stupidaggine che il Covid sia diventato un raffreddore».

Faremo il vaccino ogni anno?

«Se la situazione in Ue, e quindi in Italia, rimarrà la stessa che abbiamo visto negli ultimi mesi, molto probabilmente quello che succederà sarà una campagna di richiami per le persone a rischio, quindi non per tutta la popolazione, che sarà stagionale ovvero ogni dodici mesi».

Allarme Covid, la Lombardia ricade nel caos delle ordinanze. Controlli a Malpensa ma decade l’obbligo vaccinale per gli operatori e di Green pass per i visitatori nelle strutture sanitarie. CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud l’1 gennaio 2023.

Se arrivi dalla Cina e sbarchi a Milano Malpensa non si scappa: c’è l’obbligo di sottoporsi al test antigenico e, in caso di positività, al molecolare. Segue isolamento fiduciario nel rispetto della normativa. E fin qui tutto come prima e più di prima. L’ordinanza firmata dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, ci riporta ai tempi di Roberto Speranza. È la linea dura, la strategia dettata dalla necessità di tracciare il virus.

LE INCONGRUENZE

Poi, però, entri in una delle tante Rsa lombarde, magari una di quelle finite in prima pagina per l’ecatombe di anziani contagiati, fragili, disabili gravi, e scopri tutta un’altra realtà: la proroga per quanto concerne l’uso delle mascherine Ffp2 degli operatori e dei visitatori ancora non c‘è. E, vista l’importanza di questo dispositivo per il contenimento della Sars-19, non è affatto un dettaglio secondario. Stiamo parlando di servizi residenziali che nel complesso assommano a circa 300mila posti letto. Luoghi in cui lanci un cerino acceso e si sviluppa un incendio di proporzione enormi. Ci siamo già passati.

I voli che arrivano a Milano da Tianjin, dicevamo, vengono dirottati nell’area extra Schengen, e i passeggeri cinesi, ma anche italiani e stranieri, che arrivano per le vacanze di Capodanno, si mettono diligentemente in fila per registrarsi e sottoporsi ai test nelle postazioni recuperate dai magazzini dove erano state riposte. Tutto avviene in modo ordinato. I cinesi, hanno un senso della disciplina che li accomuna ai tedeschi. Le ordinanze non si discutono.

Poi, però, ti accorgi che oggi, giorno di San Silvestro, a mezzanotte e un minuto scade l’obbligo vaccinale per gli operatori e decade l’obbligo di Green pass per i visitatori. Ora, delle due l’una: l’emergenza è finita, come sembra pensando al cessato allarme risuonato nelle Rsa, o continua, come è evidente guardando ciò che in queste ore accade nello scalo milanese e in altri aeroporti italiani? Il disorientamento è totale, e la delibera d’indirizzo della Giunta lombarda non fa che alimentarlo.

SCALO CHE VAI SCREENING CHE TROVI

Il test del tampone per chi atterra è un optional. A Fiumicino, per esempio, chi fino a ieri arrivava dalla Cina veniva accolto con le bandierine tricolore di benvenuto. I tassisti a braccia aperte. Toccano le stesse portiere, respirano la stessa aria, toccano le stesse banconote. Il ministro Schillaci sembra intenzionato a confermare l’obbligo di mascherina negli ospedali almeno fino al prossimo 30 aprile.

Si temono gli effetti della sottovariante Gryphon, codice XBB1.5. Ma si resta in attesa dei dati cinesi per agire. Decifrare, analizzare e decidere in tempi brevi, in certi casi, se si parla di epidemie, è fondamentale. Si pensi all’incertezza che ritardò la classificazione della Zona rossa nella Bergamasca e a quante vite si sarebbero risparmiate anticipando l’ordinanza. Ora il virus è sicuramente molto meno letale. Lo conosciamo meglio. Ma ci risiamo.

RSA COSTRETTE AL FAI-DA-TE: LETTERA AGLI ASSOCIATI

«Gentilissimi – ha scritto in una lettera agli associati Luca Degani, presidente di Uneba-Lombardia – in tema di Green pass non è stata prorogata la norma che faceva decadere l’obbligo di esserne in possesso per i visitatori in ingresso nelle strutture sanitarie e socio sanitarie al 31 dicembre 2022, quindi è decaduto l’obbligo per i visitatori».

«Il ministero – continua Degani – parrebbe orientato a emanare un’ordinanza per quanto concerne l’utilizzo delle mascherine in ospedale e Rsa, ma per ora non risultano testi che lo confermano. Il suggerimento di Uneba Lombardia, e di, eventualmente e autonomamente, sulla base della legge 81, con firma del medico responsabile, disporre il prosieguo dell’utilizzo per operatori e per tutti i visitatori delle mascherine Ffp2 con controllo della temperatura in ingresso». Siamo al fai-da-te.

IN VENETO COVID-HOTEL

In attesa di nuove disposizioni, in Veneto il presidente della Regione Luca Zaia ha fatto riaprire i Covid-hotel. E invita alla calma. «Sulla situazione del Covid, dopo le notizie dalla Cina, non deve esserci panico, ma attenzione – dice Zaia – alla prevenzione con i tamponi all’arrivo negli aeroporti e al sequenziamento dei casi per capire se si tratta di Omicron o di altro. Al momento, le notizie che si hanno parlano di un’infezione che attacca le vie respiratorie superiori e non scende nei polmoni. Siamo, quindi, nell’ambito delle sottovarianti Omicron».

Anche a Napoli, come d’altronde in tutto il resto d’Italia, è scattato il controllo all’aeroporto dei passeggeri provenienti dalla Cina in volo non diretto. Ora ci si sottopone al tampone. «Se troviamo un positivo attuiamo le misure vigenti: il paziente va in isolamento fiduciario, se ci sono estremi di ricovero verrà portato in ospedale» dice Antonio Postiglione, direttore generale per il coordinamento del Sistema sanitario regionale campano.

«Non c’è nessuna situazione emergenziale in atto – assicura Zaia – siamo ben organizzati, con i punti tampone negli aeroporti e i Covid hotel dove ospitare chi dovesse fare una quarantena. Un’organizzazione in Veneto ben rodata e un Piano di sanità pubblica efficace e più volte aggiornato rispetto all’evoluzione della situazione».

«Quella di oggi in Cina – ha aggiunto il governatore veneto – è per certi versi prevedibile. I cinesi sono stati per 2 anni e mezzo praticamente segregati, le vaccinazioni sono state poche, e con un vaccino che si è rivelato poco efficace. Ora è stato dato loro il via libera e le infezioni hanno cominciato a correre. In questo quadro sono molto importanti i tracciamenti che via via ci diranno se si tratta di sottovarianti Omicron, com’è finora, o se avremo a che fare con qualcosa di diverso». Ecco, appunto. Incrociamo le dita.

Laura Berlinghieri per “la Stampa” il 5 gennaio 2023.

Nessuna campagna diffamatoria, nessun tentativo di mobbing messo in atto dal presidente veneto Luca Zaia per "eliminare" Andrea Crisanti, fino al 31 dicembre scorso docente di Microbiologia all'Università di Padova. «Crisanti è stato eletto direttore di dipartimento, è stato primario fino al suo ingresso in politica, non è mai stato disturbato nel suo lavoro. Sarebbe mobbing, questo?».

 A parlare è Stefano Merigliano, fino al 30 settembre scorso presidente della Scuola di Medicina di Padova. È stato intercettato dalla Procura mentre era al telefono con Roberto Toniolo, direttore generale di Azienda Zero, braccio operativo della Regione in ambito sanitario.

 «Una telefonata con un collega, di fronte a esternazioni di Crisanti non certo educate e consapevoli. Molte delle quali borderline nella loro verità». Ora Merigliano schiva ogni accusa. Pur faticando a non dipingere uno scenario accademico nel quale, evidentemente, la figura di Crisanti era vista con ostilità. Un passo indietro.

 La storia inizia con la denuncia che Crisanti sostenne avere ricevuto dalla Regione, per il contenuto di un suo articolo scientifico sulla bassa sensibilità dei test rapidi. «Non un articolo pubblicato su una rivista scientifica, ma postato su un sito» precisa Merigliano. La questione, in ogni caso, è che la denuncia in realtà non esisteva.

 «Il rettore gliela chiese, ma Crisanti non la esibì». La telefonata (intercettata) con Toniolo risale proprio a questo periodo. «Facci vedere le carte. Perché se è un esposto o una denuncia, per carità. Sennò finalmente anche la gente si rende conto che (Crisanti, ndr) sta per far scatenare una guerra contro il nulla» uno stralcio delle parole di Merigliano - che parlava col dg di Azienda Zero, ma evidentemente immaginava un dialogo con Crisanti - captate dalla Procura.

 «Il Senato accademico stava preparando una mozione a difesa di Crisanti. Io chiamai Toniolo, chiedendogli una carta che eventualmente smentisse l'esistenza della denuncia». Cosa che Toniolo effettivamente fece, scatenando l'ira di Zaia, veicolata attraverso l'ormai celebre frase: «È un anno che prendiamo la mira a questo. Sono qua a rompermi i coglioni da 16 mesi, stiamo per portarlo allo schianto e voi andate a concordare la lettera per togliere le castagne dal fuoco al Senato accademico, per sistemare Crisanti».

Zaia non poteva sapere che quella telefonata al dg di Azienda Zero sarebbe stata intercettata. «Né io sapevo della sfuriata di Zaia. Mio padre è stato rettore dell'Università di Padova per 12 anni, io sono un fedele servitore dello Stato. Se ho fatto fallire una guerra di religione tra istituti, ne sono orgoglioso. Da parte mia non c'è stata mediazione, né ero a conoscenza di piani strategici per "uccidere" Crisanti. Le mie sono state telefonate istituzionali. E se Toniolo fosse stato un manovratore nelle mani di Zaia, la reprimenda che ha ricevuto non si spiegherebbe».

Smentite, che però aiutano a costruire l'atmosfera di diffidenza che si era instaurata all'interno dell'Università intorno alla figura di Crisanti. «C'era chi aveva visioni differenti dalle sue - riguardo alle sue parole, ai suoi atteggiamenti, alle sue modalità di rapportarsi -, ma è parte della libertà che lui tanto invoca. Crisanti ha dichiarato pubblicamente che Zaia è un delinquente e ha fatto morire 1.600 persone.

 Mi sembra normale che questo non sia stato accettato da tutti i docenti. Ma il mobbing è altra cosa. E poi, chi conosce i fatti sa che molte delle sue affermazioni sono parziali e personalistiche». Ad esempio? «Quando uscirono i primi vaccini a mRna, lui dichiarò pubblicamente che erano dannosi, non testati e non li avrebbe mai fatti. Salvo poi diventare paladino della profilassi».

 Eppure, fu proprio Merigliano il più stretto collaboratore di Crisanti nel suo progetto più famoso: «Potrei dire di essere il coautore del "progetto Vo'», ammette lui, «anche più di Crisanti, visto che tutti i tamponi li ho fatti io e tutti i volontari li ho coordinati io. Mentre Crisanti a Vo' non è venuto neanche per fare una puntura. Ma questa cosa non la scriva...».

 Intanto, Crisanti, l'ormai ex docente di Microbiologia, continua con le sue "bordate" al presidente del Veneto. Ora parlando anche nelle vesti di parlamentare. «Un presidente di Regione che utilizza i quattrini dei contribuenti e tutte le leve del potere per danneggiare un privato cittadino, perché non fa più parte della sua squadra? Io credo che il buon governo non possa fare a meno della critica. Se non esiste opposizione, non esiste democrazia».

(ANSA il 2 gennaio 2023) - "A partire da oggi lascio l'Università di Padova". Lo ha detto all'ANSA il sen. Andrea Crisanti, che all'Ateneo padovano ricopriva il ruolo di docente ordinario di microbiologia. La decisione, ha proseguito Crisanti, è legata all'indagine sui tamponi rapidi della Procura di Padova, e alla diffusione di alcune intercettazioni telefoniche che lo riguardano. Senza voler entrare nel merito, Crisanti ha aggiunto di volere "essere libero di prendere ogni decisione che mi riguarda, visto anche - ha concluso - che vi sono molte intercettazioni che riguardano anche altri docenti dell'Università".

Otto De Ambrogi per mowmag.com il 2 gennaio 2023. 

Zaia? Dichiarazioni di una gravità senza precedenti. Lo inseguo fino alla fine del mondo per inchiodarlo su qualsiasi responsabilità che ha nei miei confronti. Questo regime di intimidazione in questa Regione deve finire”: parola di Andrea Crisanti, virologo che secondo le cronache sarebbe stato preso di mira dal governatore leghista per le sue prese di posizione sulla gestione della pandemia di Covid. Una “faida” di cui ha deciso di occuparsi anche Report.

In un’intercettazione Luca Zaia avrebbe detto: “Sono qua a rompermi i coglioni da 16 mesi, stiamo per portarlo allo schianto e voi andate a concordare la lettera per togliere le castagne dal fuoco al senato accademico, per sistemare Crisanti”. 

La questione è quella dei test rapidi acquistati dal Veneto (e da altre cinque regioni), riguardo ai quali è partita un’inchiesta su esposto del virologo, convinto della non idoneità dei tamponi a scopo di screening, in quanto l’affidabilità sarebbe stata dal 70% e non del 90% come attestato dal produttore. 

Penso che siano – dice a MOW Crisanti riguardo alle dichiarazioni di Zaia – di una gravità senza precedenti. Da una parte la Regione ignora una valutazione tecnica fatta dall’Università di Padova e dall’altra accetta come giustificazione per l’acquisto di più di 200 milioni di tamponi una giustificazione che non esiste (falsa) e allo stesso tempo si accanisce per 18 mesi come dice lui [Zaia] stesso per schiantare una persona che fa servizio pubblico ai cittadini. Bel presidente di Regione che abbiamo”. 

Cos’è cambiato nei rapporti rispetto all’inizio della pandemia?

Evidentemente a un certo punto le verità scomode danno fastidio, punto. 

Pensa che andrà avanti anche sul piano giudiziario?

Io lo inseguo fino alla fine del mondo per inchiodarlo su qualsiasi responsabilità che ha nei miei confronti. 

Una cosa che l’ha segnata…

È una questione di rispetto degli altri cittadini, perché quello che ha fatto a me probabilmente lo fa e l’ha fatto ad altri, e questo regime di intimidazione in questa Regione deve finire.

E il fatto che nel frattempo lei abbia trovato casa politica all’opposizione rispetto a Zaia, nel Pd?

È ininfluente, qui è un problema di etica, non è un problema politico. Accolgo con sgomento queste dichiarazioni. Perché poi non sono solo queste le dichiarazioni, perché chiaramente io ho fatto accesso agli atti e ci sono ben altre dichiarazioni in cui si dimostra che lui è l’orchestratore di una campagna di diffamazione e discredito nei confronti tra le altre cose di una persona che lavora per la Regione e che tra le altre cose ha preso delle posizioni proprio per salvaguardare la Regione stessa.

Evidentemente se fosse stato preso sul serio lo studio che ho fatto e che poi è stato pubblicato su Nature, chiaramente avrebbero dovuto riflettere sugli ordini che stavano facendo e gli appalti per 200 e passa milioni di euro. 

Questi praticamente hanno accettato come giustificazione la dichiarazione di Rigoli (direttore della microbiologia di Treviso incaricato di confermare l'idoneità clinico-scientifica dei tamponi, ndr) che non ha fatto nessuno studio, ed erano addirittura consapevoli che non l’aveva fatto. 

L’alternativa a questo tipo di tamponi qual era?

Per fare lo screening bisognava fare i molecolari, punto. E questo era sia nelle direttive della commissione europea sia addirittura nei foglietti illustrativi dei test, che dicevano chiaramente che i test andavano fatti per diagnosi e non per screening, perché non avevano valore predittivo negativo sufficiente. In Veneto questi tamponi sono stati usati come screening per le rsa. E nel Veneto nella seconda ondata nelle rsa c’è stata una strage.

(ANSA il 2 gennaio 2023) - "L'accusa non mette assolutamente in dubbio l'utilità e l'attendibilità dei test rapidi antigenici oggetto delle indagini. Test utilizzati ancora oggi a livello internazionale. Allo stesso modo va ricordato che le indagini preliminari hanno evidenziato come il solo interesse del dottor Roberto Rigoli emerso in questa vicenda sia stato quello di perseguire il bene pubblico, in una situazione di grande tensione ed urgenza determinata dall'emergenza sanitaria, e che non sia stata prodotta alcuna falsa documentazione, elemento riconosciuto dalla stessa Procura durante la prima fase dell'udienza preliminare".

Lo sostiene in una nota l'avv. Giuseppe Pavan, legale di Rigoli, ex coordinatore delle Microbiologie del Veneto coinvolto nell'inchiesta padovana sui cosiddetti tamponi rapidi anti Covid, sperimentati dal Veneto tra la prima e la seconda ondata del virus. Le precisazioni giungono a poche ore dalla messa in onda stasera, nell'ambito della trasmissione Report di Rai3, di un servizio dedicato alle intercettazioni che chiamerebbero in causa, tra gli altri, lo stesso Rigoli, accusato di falso in atto pubblico per aver mentito sull'efficacia dei test, senza verificarne l'idoneità tecnico scientifica. . 

"Rispetto al fulcro dell'imputazione, ovvero di aver comunicato con una e-mail di avere compiuto un'indagine sulla 'sensibilità' dei test rapidi che erano stati offerti ad Azienda Zero-Regione Veneto, è necessario spiegare - chiarisce il legale - che un'indagine sull'efficacia dei tamponi rapidi antigenci non solo non era stata richiesta, come già risulta negli atti, ma nemmeno era possibile e necessaria, essendo i prodotti marchiati e certificati CE/IVD.

Ricordiamo che per tale indagine occorre un tempo minimo di 12 mesi di sperimentazione scientifica". Per il legale, "nella specifica situazione di cui stiamo parlando si dovevano invece riscontrare in maniera documentale le caratteristiche tecniche del prodotto e, visto che sarebbero stati utilizzati da personale esterno alle microbiologie, è stato ritenuto corretto anche testarne la praticità nell'utilizzo. Questo è stato fatto.

Al dottor Rigoli è stato infine riconosciuto, da molte persone, anche nel corso delle indagini preliminari, di avere svolto durante la pandemia un importante ruolo di coordinamento di tutte le microbiologie del Veneto, con significativi risultati a vantaggio della tutela della salute pubblica". Il procedimento penale, che coinvolge con Rigoli anche Patrizia Simionato, ex dg di Azienda Zero, si trova ancora nella fase della richiesta di rinvio a giudizio.

Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 2 gennaio 2023.

«È malvagio…Zaia è malvagio…non c’è altra spiegazione…». 

Professor Crisanti, addirittura scomodiamo la malvagità? Sono mesi che lei e il governatore del Veneto vi attaccate pubblicamente.

«Le persone possono essere in disaccordo su aspetti tecnici e avere opinioni politiche diverse, ma pensare che un presidente della Regione utilizzi tutta la sua forza e le sue leve per danneggiare in maniera illecita chi sta cercando di metterlo sulla giusta strada… A me pare di una gravità inaudita. Cosa siamo diventati, la Repubblica delle banane? Se fossimo in Inghilterra Zaia sarebbe costretto a dimettersi».

Intanto si è dimesso lei, dalla cattedra di Microbiologia dell’Università di Padova. Perché questa decisione, e perché ora?

«Nelle carte dell’inchiesta padovana sui tamponi rapidi comprati dal Veneto, nata da un mio esposto, sono venute fuori delle circostanze inaspettate che secondo il mio avvocato configurano reati.

 Voglio avere quindi le mani libere per tutelarmi legalmente senza mettere in imbarazzo l’Ateneo, che collabora con la Regione. Da quando sono stato eletto al Senato sono in aspettativa, però era opportuno lo stesso dimettermi». […]

 Breve riassunto della “faida dei tamponi”: la procura di Padova ha chiesto il processo per Roberto Rigoli, il coordinatore di tutte le unità di Microbiologia del Veneto, che nell’autunno 2020 ha dato l’ok all’acquisto di migliaia di tamponi rapidi sulla base di un test di efficacia che, stando ai pm, non aveva mai fatto.

Lei aveva denunciato che quei tamponi funzionano solo in 7 casi su 10. Era partita così l’indagine. Nelle intercettazioni depositate agli atti e rivelate da Report, Zaia, non indagato, dice di avere Andrea Crisanti “nel mirino” e di volerlo “mandare a schiantare”. Il gip deciderà se rinviare a giudizio Rigoli e la direttrice di Azienda Zero, la centrale regionale degli acquisti.

«Inseguirò Zaia fino alla fine del mondo per inchiodarlo su qualsiasi responsabilità che possa avere nei miei confronti. Questo regime di intimidazione nel Veneto deve finire.

 Ho fatto l’accesso agli atti dell’inchiesta e si capisce che Zaia è l’orchestratore della campagna di diffamazione e discredito. Io stavo solo cercando di salvaguardare la Regione, informando che era una follia utilizzare i tamponi rapidi per lo screening durante la seconda ondata di Covid».

 Perché parla di campagna di diffamazione?

«Il mio studio sui tamponi è dell’ottobre 2020. L’ho fatto non per iniziativa personale, ma su indicazione dell’Unità di crisi dell’ospedale di Padova.

 La Regione già da qualche mese aveva emanato delibere con le quali annunciava divoler utilizzare in modo diffuso i test antigenici. Anche dalla semplice lettura del bugiardino si capiva che erano sconsigliati per lo screening dei pazienti in entrata negli ospedali e nelle rsa per anziani.

 All’unità di crisi, quindi, ho proposto uno studio su tutti i pazienti del pronto soccorso, per testare l’efficacia dei tamponi rapidi: è venuto fuori che hanno una sensibilità del 70 per cento, insufficiente per avere adeguato valore predittivo negativo, cioè la probabilità di identificare come negativo un negativo vero. Ho cercato di spiegarlo e di avvertire i vertici della Regione».

Come? Con chi ne ha parlato?

Ho scritto una pec al direttore generale della Sanità veneta Luciano Flor e alla dottoressa Francesca Russo della Prevenzione. Nessuna risposta. I risultati del mio studio sono finiti sul Mattino di Padova e a quel punto Flor ha chiesto a Cattelan e Cianci, che avevano collaborato con me allo studio, di scrivere una lettera con cui si dissociavano dalle conclusioni. Ma so per certo che Cianci è stato forzato a scriverla».

 Come fa a dirlo?

«Ho la registrazione in cui lo ammette. Dal momento in cui la lettera è stata resa pubblica, sono cominciate le azioni di screditamento. Allora io ho pubblicato il mio studio, e l’Azienda Zero mi ha querelato per diffamazione! Era dai tempi di Galileo che non si vedeva uno scienziato denunciato da un’entità pubblica per una ricerca». 

Per quella querela si è mosso anche il Senato Accademico dell’università.

«Che ha preso le mie difese [….]»

 Eppure all’inizio della pandemia eravate in sintonia.

«L’ultima volta che ho sentito Zaia era il maggio del 2020. Mi aveva mandato dei messaggini perché era contento del fatto che il Veneto fosse stato il primo ad azzerare il numero dei decessi da Covid».

 Il modello Veneto, appunto. E poi cos’è successo?

«Il rapporto si è incrinato quando ha attribuito il merito della gestione alla dottoressa Russo, dimenticandosi di ciò che avevo fatto io. Evidentemente gli facevo ombra, preferiva circondarsi di gente che politicamente la pensa come lui».

Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 2 gennaio 2023.

[...] «Sono qua a rompermi i coglioni da sedici mesi, stiamo per portarlo allo schianto e voi andate a concordare la lettera per togliere le castagne dal fuoco al Senato accademico, per sistemare Crisanti!», sbottava (Zaia, ndR) al telefono coi suoi un anno fa, ignorando che l'interlocutore era intercettato. 

La strategia del governatore per screditare Crisanti [...] è contenuta nelle carte dell'indagine di Padova su quella maxi commessa da 148 milioni di euro. Le rivela la trasmissione Report di Sigfrido Ranucci, questa sera, con un servizio di Danilo Procaccianti. Al quale Zaia non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

Per riannodare i fatti bisogna partire dall'indagine padovana, nata dall'esposto di Crisanti nel novembre 2020, nel quale è allegato lo studio sui test antigenici Abbott Panbio. Secondo il microbiologo (oggi senatore del Pd) sono efficaci solo nel 70% dei casi e non nel 90, come invece attestato dal produttore.

 Durante la seconda ondata pandemica il modello Veneto si perde: 1.600 morti in più rispetto alla media nazionale, riferisce Report. Per capire se ciò possa essere stato causato anche dal ricorso diffuso agli antigenici, i pm indagano e scoprono che Roberto Rigoli, direttore della microbiologia di Treviso incaricato di confermare l'idoneità clinico- scientifica dei tamponi, non ha svolto il compito.

Lui sostiene di aver provato il kit Abbott «su alcuni soggetti il cui risultato era già noto» e che la corrispondenza «è sovrapponibile nella totalità dei campioni esaminati», quindi ha dato l'ok alla fornitura: due affidamenti diretti da 2 milioni di euro. Ma la procura di Padova non gli crede.

 A luglio ha chiesto il rinvio a giudizio per Rigoli, definito da Zaia «l'Elon Musk del Veneto », e per Patrizia Simionato, direttrice generale pro tempore di Azienda Zero, centrale regionale per gli acquisti. Il gip non ha ancora deciso. Agli atti, le telefonate di Zaia con Roberto Toniolo di Azienda Zero.

Il governatore riteneva di poter confutare le conclusioni dello studio di Crisanti, ma una mossa di Toniolo manda all'aria la strategia. Il direttore di Azienda Zero scrive all'Ateneo specificando che contro Crisanti non è stata inoltrata alcuna denuncia (si tratta infatti di un esposto), proprio nel momento in cui il Senato accademico sta valutando una mozione in favore dello scienziato. «Siete andati a togliergli le castagne dal fuoco...», si rammarica Zaia il 14 maggio 2021. «È un anno che prendiamo la mira a questo... Adesso fa il salvatore della patria».

La guerra infinita Zaia-Crisanti: bugie, insulti e depistaggi. Cosa dice l’inchiesta sui tamponi rapidi. Le carte della procura di Padova dopo l’esposto del microbiologo. La mediazione di Merigliano , la lettera del dg di Azienda Zero e l’ira del presidente: «Passa per salvatore, voglio che si schianti». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 2 Gennaio 2023

Dice che Crisanti gli ha «rovinato la vita attaccandolo all’infinito» anche se secondo lui i test rapidi «sono stati molto utili (...) una salvezza per i medici e per contenere la diffusione del contagio». È il 7 maggio del 2021 e il medico trevigiano Roberto Rigoli - ex responsabile delle microbiologie del Veneto nonché braccio destro del governatore Luca Zaia nella lotta alla pandemia - si sfoga al telefono senza sapere che il senso delle sue parole finirà in un brogliaccio della Guardia di finanza di Padova. È sotto pressione: ha capito che lo scontro col microbiologo dell’Università di PadovaAndrea Crisanti - divenuto nel frattempo uno dei virologi italiani più in vista - rischia di arrivare al punto di non ritorno. E intuisce che presto potrebbe essere chiamato a rispondere del perché nel 2020 - mentre il numero dei morti cresceva e il vaccino era ben lontano dall’essere realizzato - sostenne l’efficacia della prima generazione dei tamponi antigienici. Rigoli diceva di averne verificato l’elevatissima capacità di rilevare il Covid mentre per Crisanti avevano untasso di fallibilità così elevato da rischiare, al contrario, di favorire la diffusione del virus. Ma per il trevigiano il punto era un altro: intercettato il 12 maggio 2021 spiegava che, anche se «ci beccava otto volte su dieci... è molto meglio di zero su zero».

L’inchiesta

Per raccontare la maxi inchiesta della procura di Padova sull’impiego dei test in Veneto – e quindi su una delle principali risposte che la Regione mise in campo per contrastare la pandemia – occorre partire proprio dal clima di paura che si respirava in quei mesi tra lockdown, conferenze stampa quotidiane e tabelle che mostravano i numeri impressionante dei decessi. Rigoli (difeso dall’avvocato Giuseppe Pavan) ora è indagato assieme alla vicentina Patrizia Simionato (avvocato Alessandro Moscatelli) che all’epoca era la direttrice generale di Azienda Zero e che oggi guida l’Usl polesana. Il pm Benedetto Roberti li accusa di falso ideologico e del reato di «turbatalibertà di scelta del contraente»: in pratica, col loro comportamento, avrebbero pilotato l’acquisto di due grosse partite di tamponi da parte della pubblica amministrazione. Su Rigoli pende anche l’accusa di depistaggio.

Crisanti e la Abbott

L’indagine, inizialmente, non li riguardava. Nell’autunno del 2020 è Crisanti a presentare un esposto: due pagine e diversi allegati per dire che ha testato l’efficacia dei test rapidi prodotti dalla multinazionale Abbott e che in realtà essi non offrono adeguate garanzie di efficacia. Il 29 marzo 2021 viene sentito dagli investigatori e va all’attacco: punta il dito contro il fatto che «in ambito di Regione si è continuato fino a tutt’oggi a utilizzare i tamponi rapidi nelle strutture ospedaliere e nelle Rsa per il tracciamento del personale» nonostante «abbia effettuato degli studi che mi hanno portato a convincermi che non vengono rilevate le varianti del virus». La procura decide quindi di mettere sotto inchiesta per frode la Abbott, ordina una serie di perquisizioni e i finanzieri piazzano un localizzatore nell’auto della principale manager italiana della multinazionale, ma anche in quella di Rigoli. È chiaro che il pm vuole capire la natura dei rapporti tra il medico che spinge per l’impiego di quei tamponi e l’azienda che li produce. E qui, a scanso di equivoci, va detto che non emerge nulla di losco.

I bandi e l’accusa

Il 29 maggio 2021 Rigoli viene sentito dagli investigatori, e spiega che gli affidamenti diretti «sono stati portati a termine da Azienda Zero» in favore di Abbott e che «il sottoscritto è intervenuto solamente per valutare che fossero rispettati i requisiti di sensibilità e specificità indicati dalla Comunità Europea». E in quella «valutazione» sta il nodo di tutto. Perché è sulla base della presunta verifica sull’efficacia dei test condotta da Rigoli, che Azienda Zero a fine agosto 2020 approva l’acquisto diretto di 200 mila tamponi rapidi Abbott per un costo di 900 mila euro. E il 14 settembre 2020 ne ordina altri 280 mila, per 1,26 milioni di euro. Ma la procura è convinta che quella valutazione non sia mai stata fatta. Il 9 giugno 2021 Rigoli viene nuovamente sentito: dice di aver testato i tamponi rapidi su 92 pazienti entrati nel pronto soccorso di Treviso e promette di portarne le prove. In realtà il 30 giugno è costretto ad ammettere che non riesce più a trovare la documentazione. Ma il problema è un altro: per la procura il medico spiega di aver utilizzato quei tamponi tra il 2 e il 29 agosto 2020 (e inizialmente - salvo poi rimangiarsi tutto - lo conferma anche l’allora primario del pronto soccorso) ma i finanzieri convocano i referenti di Abbott che spiegano come «l’utilizzo e la commercializzazione in Italia» di quei test sia avvenuta «solo a far data dal 28 agosto 2020». Come poteva Rigoli averne a disposizione un centinaio già all’inizio del mese? Lui nega tutto ma da qui nasce l’accusa di depistaggio alla quale risponderà in un eventuale processo: per il medico e la dg Simionato il 6 febbraio riprenderà l’udienza preliminare.

Zaia e l’accusa

Su questa brutta storia dei bandi di Azienda Zero e della presunta menzogna di Rigoli, entra la politica. Che tra Crisanti e Zaia non corra buon sangue, si sa da ormai due anni, quando entrambi provarono a intestarsi il successo del «modello Vo», con il tamponamento di massa degli abitanti del piccolo Comune padovano. Lo scontro è così accesso che perfino Rigoli se ne rammarica: «Si è perso il senso del confronto scientifico», si sfoga. Parlando al telefono, senza sapere che l’interlocutore è intercettato, Zaia spiega di avere in mano la relazione di un importante virologo («Me l’ha fatta gratuitamente») la cui teoria «smonta totalmente quella di Crisanti», anzi «lo smonta come un carciofo» perché definirebbe inadeguato lo studio del microbiologo: «la prima parte è scolastica» mentre la seconda «è palesemente artefatta per arrivare a una conclusione che non sta in piedi».

L’inchiesta di Report

La sera del 2 gennaio la trasmissione Report ha reso pubbliche altre intercettazioni del presidente: «Sono qua a rompermi i c. da sedici mesi, stiamo per portarlo allo schianto e voi andate a concordare la lettera per togliere le castagne dal fuoco al Senato accademico, per sistemare Crisanti!». A innescare la furia di Zaia è una lettera inviata da Roberto Toniolo, successore di Simionato in Azienda Zero, all’Università di Padova. Il Senato Accademico preparava una presa di posizione ufficiale in difesa di Crisanti, visto che la Regione aveva annunciato l’intenzione di querelarlo. A cercare una mediazione, attraverso Toniolo, è il responsabile della scuola di medicina Stefano Merigliano: vuole avere garanzie che la denuncia non sia stata presentata «perché se no anche la gente si rende conto che sta per far scatenare una guerra contro il nulla». Toniolo concorda («Non ne vale la pena») e fa pervenire una lettera in cui dice che non c’è alcuna querela, spingendo quindi lo stesso Crisanti a chiedere al Senato accademico di sospendere ogni iniziativa. Quando Zaia lo scopre si arrabbia: «Sono sedici mesi che prendiamo le misure a questo... abbiamo materiale e tutto e noialtri facciamo una lettera così (...) cioè questo qua fa il salvatore della Patria (...) tra un po’ ci diamo un bacio in bocca e vedrai che lui adesso farà un’intervista dicendo “no, ma vogliamoci bene”. E io faccio la parte del mona cattivo».

Fin troppo rapidi. Report Rai PUNTATA DEL 02/01/2023 di Danilo Procaccianti

Collaborazione di Andrea Tornago

Ricerca immagini di Alessia Pelagaggi e Silvia Scognamiglio

In Veneto durante la seconda ondata della pandemia è accaduto il disastro.

Ci sono stati 1600 morti in più rispetto alla media nazionale. Cosa è successo? Avevano puntato tutto sui tamponi rapidi, era il test di riferimento anche per gli operatori sanitari e per le Rsa, contrariamente alle indicazioni dell’OMS e anche a uno studio del prof. Crisanti. Dopo la nostra inchiesta dello scorso anno si è mossa la procura di Padova e ha chiesto il rinvio a giudizio di quello che per il governatore Zaia era l’Elon Musk del Veneto, il dottor Roberto Rigoli: sostanzialmente nella gestione della seconda fase della pandemia aveva preso il posto del professor Crisanti come braccio destro di Luca Zaia. I magistrati scoprono che a giustificare appalti milionari per i tamponi rapidi, ci sarebbero attestazioni scientifiche false. Nel corso delle indagini spuntano anche intercettazioni imbarazzanti. 

POSIZIONE DOTTOR ROBERTO RIGOLI Rispetto alla posizione del Dottor Rigoli, a integrazione di quanto da lui dichiarato nel corso dell’intervista fatta da un collega alcune settimane fa, chiediamo di dare conto integralmente di questa nota. L’accusa non mette assolutamente in dubbio l’utilità e l’attendibilità dei test rapidi antigenici oggetto delle indagini. Test utilizzati ancora oggi a livello internazionale. Allo stesso modo va ricordato che le indagini preliminari hanno evidenziato come il solo interesse emerso in questa vicenda sia stato quello di perseguire il bene pubblico, in una situazione di grande tensione ed urgenza determinata dall’emergenza sanitaria, e che non sia stata prodotta alcuna falsa documentazione, elemento riconosciuto dalla stessa Procura durante la prima fase dell’udienza preliminare. Rispetto al fulcro dell’imputazione, ovvero di aver comunicato con una e-mail di avere compiuto un’indagine sulla “sensibilità” dei test rapidi che erano stati offerti ad Azienda Zero – Regione Veneto, è necessario spiegare che un’indagine sull’efficacia dei tamponi rapidi antigenci non solo non era stata richiesta, come già risulta negli atti, ma nemmeno era possibile e necessaria, essendo i prodotti marchiati e certificati CE/IVD. Ricordiamo che per tale indagine occorre un tempo minimo di 12 mesi di sperimentazione scientifica. Nella specifica situazione di cui stiamo parlando si dovevano invece riscontrare in maniera documentale le caratteristiche tecniche del prodotto e, visto che sarebbero stati utilizzati da personale esterno alle microbiologie, è stato ritenuto corretto anche testarne la praticità nell’utilizzo. Questo è stato fatto. Al dottor Rigoli è stato infine riconosciuto, da molte persone, anche nel corso delle indagini preliminari, di avere svolto durante la pandemia un importante ruolo di coordinamento di tutte le microbiologie del Veneto, con significativi risultati a vantaggio della tutela della salute pubblica. Avvocato Giuseppe Pavan

FIN TROPPO RAPIDI di Danilo Procaccianti Collaborazione di Andrea Tornago Ricerca immagini di Alessia Pelagaggi e Silvia Scognamiglio Immagini di Cristiano Forti Montaggio e grafica di Monica Cesarani

LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Il dottor Rigoli che – io lo dico sempre – è un po’ il nostro Elon Musk del Veneto…Se esistono i test rapidi sul mercato nazionale è perché lui ha avviato la sperimentazione ante litteram, prima di tutti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’Elon Musk del Veneto, il dottor Roberto Rigoli, all’epoca coordinatore delle microbiologie della regione, è sotto inchiesta della Procura di Padova, che ha chiesto il rinvio a giudizio per turbativa del mercato, falso e depistaggio. Avrebbe attestato il falso quando ha affermato di aver effettuato un’indagine tecnico-clinico-scientifica sull’efficacia dei tamponi rapidi poi acquistati dal Veneto nel settembre 2020.

DANILO PROCACCIANTI Dottor Rigoli buongiorno. Che ha combinato con questi tamponi rapidi…? Volevo sapere perché l'accusa insomma è di…

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA Di aver falsificato.

DANILO PROCACCIANTI Falso ideologico, frode processuale.

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA No, lei sa perfettamente che quelli erano kit…aspetti perché

DANILO PROCACCIANTI Prego, prego.

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA Non sto bene, benissimo, quindi…

DANILO PROCACCIANTI No no, stia tranquillo, infatti…

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA Sono kit certificati CE IVD quindi praticamente io non dovevo valutare la sensibilità e la specificità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma li hanno valutati bene? Buonasera e buon anno. Insomma, lo scorso anno in aprile ci eravamo occupati della gestione della pandemia in Veneto. Se nella prima ondata erano stati bravi, grazie anche al tracciamento e all’utilizzo dei tamponi molecolari, nella seconda ondata era accaduto il disastro. Hanno contato 1600 morti in più rispetto alla media nazionale. Cosa è successo? L’attenzione cade sull’utilizzo dei tamponi rapidi, che nel piano sanitario regionale erano stati inseriti come test di riferimento per chi doveva entrare negli ospedali, per gli operatori sanitari, e anche per chi doveva entrare nelle Rsa, nelle residenze per anziani. La nostra inchiesta aveva suscitato l’attenzione della Procura di Padova e al termine delle indagini hanno chiesto il rinvio a giudizio dell'Elon Musk veneto. Perché sospettano che a giustificare gli appalti milionari per i tamponi rapidi ci sia alla base un’attestazione falsa. E durante le indagini sono spuntate fuori anche delle intercettazioni imbarazzanti per il presidente Luca Zaia che però, lo specifichiamo subito, non è indagato in questa vicenda. Il nostro Danilo Procaccianti con la collaborazione di Andrea Tornago.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nell’inchiesta di Report dello scorso anno, eravamo rimasti colpiti dall’abuso di test antigenici da parte del Veneto che era capofila di altre sei regioni per una maxi-fornitura di tamponi rapidi per un valore di 148 milioni di euro.

LUCIANO FLOR – DIRETTORE GENERALE SANITA’ REGIONE VENETO 2020- 2022 Il Veneto era la capofila per l'acquisto ma non per la valutazione, perché la valutazione è stata fatta dagli esperti professori di microbiologia di sei regioni diverse. Anche questi sono tutti degli incapaci per il professor Crisanti? Io non credo sia così.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO In realtà il manager della sanità veneta, Flor, riferisce una circostanza non vera. Le altre Regioni non hanno fatto una valutazione scientifica sui tamponi rapidi. La Lombardia ci scrive che le ha aderito all’appalto limitandosi ad esaminare la documentazione tecnica predisposta da Regione Veneto. In sintesi, le altre regioni sono andate a rimorchio del dottor Rigoli che garantiva l’attendibilità dei tamponi rapidi affermando di averli testati.

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA Abbiamo già visto, abbiamo fatto i lavori noi, sui test rapidi, sulla sensibilità e la specificità del metodo, che è elevato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Addirittura, il 24 agosto 2020 esce una nota ufficiale della Regione Veneto in cui si afferma che i test rapidi sarebbero stati validati dall’istituto Spallanzani insieme all’ospedale di Treviso dove allora lavorava Roberto Rigoli. Peccato che dallo Spallanzani nulla sanno di uno studio insieme a Treviso.

ENRICO GIRARDI – DIRETTORE SCIENTIFICO ISTITUTO SPALLANZANI Noi abbiamo trovato questo lavoro fatto su un test coreano ed è stato anche pubblicato. Però questo lavoro non è stato fatto con Treviso.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dalla documentazione esclusiva in nostro possesso emergerebbe la prova documentale sul fatto che il dottor Rigoli avrebbe detto il falso. Il 14 agosto invia una mail ad Azienda Zero, la struttura della sanità veneta che si occupa degli acquisti. Scrive: “Si manifesta che i prodotti in questione sono da ritenersi idonei per un'attività di screening ad ampio raggio”. Ancora il 28 agosto in un’altra mail Rigoli scrive: “Ho provato il kit Abbott su alcuni soggetti il cui risultato era già noto in biologia molecolare e la corrispondenza è sovrapponibile nella totalità dei campioni esaminati. Le chiedo di procedere immediatamente all'acquisto di 200.000 test”. Questo parere, secondo la procura, sarebbe fasullo perché in un interrogatorio un dipendente della Abbott afferma che i tamponi “vennero consegnati brevi manu al dottor Rigoli Roberto, che fino a quel momento non aveva mai visto, provato e visionato il prodotto”. Siamo al 28 agosto 2020.

DANILO PROCACCIANTI Però lei a un certo punto scrive “quando si doveva fare l'acquisto, ho provato questi test”, in realtà la procura dice “lui non li ha mai provati”.

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA No, vedremo se li ho provati, perché io sostengo che li ho provati, ma non in numero sufficiente per fare la sensibilità e la specificità. Noi che…dove l'abbiamo provato abbiamo provato proprio la confezione, abbiamo visto se c'era il materiale.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La difesa del dottor Rigoli è piuttosto confusa. Interrogato dagli investigatori della Guardia di Finanza una prima volta il 26 maggio 2021 dice: “Nessun test è stato eseguito per validare i dati dichiarati dall'azienda produttrice”. Poi a giugno ritratta e in un altro interrogatorio afferma: “Preciso che a partire dagli inizi del mese di agosto dell'anno 2020, dopo aver ricevuto dalla Abbott alcuni prodotti campione ‘in prova’, il pronto soccorso da cui dipendevo ha provveduto ad utilizzare i prodotti "Panbio - test/ tamponi antigenici rapidi". Ma come faceva ad averli in prova dai primi di agosto se gli sono stati consegnati il 28 agosto?

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA No, no, ma beh…a parte che al momento non ricordavamo niente poi abbiamo ricostruito tutto…

DANILO PROCACCIANTI Perché appunto è una questione delicata, insomma, ci sono milioni di euro spesi, di soldi pubblici.

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA Guardi c'è il processo quindi risponderò al processo con l’avvocato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La Regione Veneto, sulla base di un parere che la procura definisce fasullo, avrebbe proceduto a due affidamenti diretti per l’acquisto di test rapidi dell’azienda Abbott, per più di due milioni di euro. A firmare tutto è stata la dottoressa Patrizia Simionato, allora direttore di Azienda Zero, che per la procura sapeva del parere fasullo di Rigoli.

DANILO PROCACCIANTI Dottoressa…non fa una verifica se il dottor Rigoli ha fatto veramente i test o meno?

PATRIZIA SIMIONATO - DIRETTORE GENERALE ULSS 5 POLESANA Guardi, guardi, le ripeto: non ho nulla da dichiarare, la ringrazio, lasciatemi appunto lavorare, non ho nulla assolutamente da dire. Sarà fatta chiarezza nelle sedi opportune.

DANILO PROCACCIANTI Però parliamo di soldi pubblici, dovete dare conto in qualche modo.

PATRIZIA SIMIONATO - DIRETTORE GENERALE ULSS 5 POLESANA Non ho nulla da dire, nelle sedi opportune si darà conto, grazie.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il Veneto ha puntato sulla validità dei tamponi rapidi al punto che nel proprio piano di sanità pubblica dell’ottobre 2020 li ha indicati come test di riferimento anche per gli operatori sanitari e per chi doveva accedere nelle Rsa, contravvenendo alle indicazioni dell’Oms.

DANILO PROCACCIANTI “Attenzione”, lei disse, “questi, 3 su 10 non funzionano”.

ANDREA CRISANTI – SENATORE PD E PROFESSORE UNIVERSITA’ DI PADOVA Significa che praticamente questo filtro c'ha delle maglie molto larghe e praticamente fa entrare in contatto persone vulnerabili con persone positive in grado di infettarli. Guardi che in Veneto durante la seconda ondata sulle Rsa è stato veramente un disastro.

DANILO PROCACCIANTI Quando Crisanti dice “questi sbagliano”, appunto “ne beccano 7 su 10”, a quel punto lei lo sapeva, perché non ha detto “sì, è vero”?

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA No, a parte il fatto che l'ha detto dopo…

DANILO PROCACCIANTI Però lei poteva dire in quanto medico, in quanto esperto, dire “sì è vero questi ne beccano 7 su 10”.

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA Ma io non potevo dirlo perché non l'ho provato, non l'ho provato perché? Perché il kit era marchiato CE/IVD.

DANILO PROCACCIANTI A un certo punto ne avete fatti tanti di tamponi, si capiva se ne beccavano 7 su 10.

ROBERTO RIGOLI – DIRETTORE SERVIZI SOCIO SANITARI ULSS 2 MARCA TREVIGIANA Vabbè, io credo di averle spiegato tutto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non deve darle a noi le spiegazioni il dottor Rigoli ma ai veneti. La seconda ondata, probabilmente anche per l’utilizzo inappropriato dei tamponi rapidi, è stata un disastro, con il 13,2% di deceduti di tutta Italia e la mortalità più alta tra le grandi regioni, 1600 morti in più rispetto alla media nazionale.

NINO CARTEBELLOTTA – PRESIDENTE GIMBE Un tasso diciamo grezzo di mortalità di 159 per 100.000 abitanti rispetto a quello nazionale di 105 fa accendere una spia rossa. E bisogna porsi la domanda: perché in quel periodo in Veneto c'è stata una mortalità così elevata? Trovare un link diretto tra l'utilizzo del tampone rapido e l'eccesso di mortalità richiederebbe una disponibilità e soprattutto una granularità dei dati, anche per contesti penso per esempio alle Rsa, che noi oggi non abbiamo.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ed è proprio questa correlazione che oggi le procure Venete stanno cercando, visto che sono sommerse di esposti dei parenti delle migliaia di anziani morti nelle Rsa venete.

MARCO BONALDI Quindi la domanda unica è: i tamponi funzionavano o non funzionavano? Perché si sono adeguati a questi invece di fare i tamponi molecolari? Avremmo risparmiato un po' di vecchietti, insomma, in poche parole.

ANDREA CRISANTI – SENATORE PD E PROFESSORE UNIVERSITA’ DI PADOVA L'uso dei tamponi rapidi come strumento di screening in una situazione in cui avevano un basso valore predittivo, sicuramente hanno contribuito alla diffusione del virus in ambienti protetti, tipo per esempio le Rsa. E sicuramente la diffusione e la mortalità sono due parametri che sono uno in relazione all'altro, cioè più si aumenta la diffusione, più aumenta la mortalità.

DANILO PROCACCIANTI Sono stati comprati centinaia di migliaia di test rapidi su un test, almeno secondo l'accusa della Procura fatta dal suo successore, diciamo così, il dottor Rigoli, fasullo.

ANDREA CRISANTI – SENATORE PD E PROFESSORE UNIVERSITA’ DI PADOVA Se questo fosse vero, sarebbe di una gravidanza senza precedenti, perché significherebbe che la Regione ha ignorato uno studio su 1500 casi e allo stesso tempo ha preso per buono quello che effettivamente non era uno studio, secondo la procura? Quindi penso che siamo di fronte a una situazione, a mio avviso, di una gravità etica senza precedenti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se il parere è falso lo giudicheranno i magistrati. Quanto invece sia etico, invece, spetterà alla coscienza di ciascun protagonista a giudicarlo. Quello che è un fatto è che il Veneto ha utilizzato il doppio dei tamponi rapidi rispetto alle altre regioni. Il dottor Rigoli aveva testato l’attendibilità paragonandola a dei tamponi molecolari. Però un dipendente della Abbott ai magistrati dichiara: ”Ho portato io personalmente i kit dei tamponi rapidi al dottor Rigoli alla fine di agosto”. Cioè dopo la data in cui il dottor Rigoli aveva certificato la bontà di quei tamponi. E dietro a Rigoli, dietro al Veneto si sono infilate anche altre regioni: la Lombardia, Lazio, Friuli Venezia-Giulia, Provincia autonoma di Trento, per una fornitura da 148 milioni di euro di tamponi rapidi. Alla luce di tutto questo hanno qualcosa da dire oggi? E poi sull’attendibilità di questi tamponi rapidi si era espresso anche il professor Crisanti, che era stato il consulente nella gestione della prima ondata del Veneto, e aveva anche redatto uno studio: “Attenzione – dice il professor Crisanti – questi tamponi rapidi hanno un’attendibilità, una sensibilità del 70% e non del 90%” come dichiara la ditta, inoltre è sconsigliabile utilizzarli per entrare nelle Rsa, nelle residenze per anziani, perché succederebbe un disastro. Invece la Regione Veneto tira dritto, fa finta che questo studio non esista, ce lo ammette poi candidamente anche il dottor Flor, che è il direttore generale della sanità in Veneto, a margine di un’intervista.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO C’è una cosa che in Veneto ha funzionato bene durata la seconda ondata della pandemia: la repressione totale del dissenso, da qualsiasi parte arrivasse, a cominciare dai medici.

MEDICO REGIONE VENETO (al telefono) Li considerano come dei soldatini che devono dire sempre sì, anche se magari questo va contro la buona pratica medica. E soprattutto, se tu ti esponi mediaticamente vieni messo nel libro nero e fucilato al momento.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quando ad aprile dello scorso anno ci eravamo occupati della gestione della seconda ondata della pandemia in Veneto, per esempio, avevamo dato conto anche di un’anomalia sui tracciamenti. Per aver sottolineato questa cosa pubblicamente è arrivata una querela per diffamazione a Carlo Cunegato, esponente del movimento politico “Il Veneto che vogliamo”.

CARLO CUNEGATO – PORTAVOCE REGIONALE MOVIMENTO IL VENETO CHE VOGLIAMO Zaia ci denuncia. Però con i soldi pubblici! Noi abbiamo in mano una delibera per cui Azienda Zero, quindi con i soldi della sanità pubblica, un politico denuncia un altro politico. E alla fine tutto quanto è stato archiviato. Quindi Zaia perde e noi vinciamo. Ma in realtà Zaia vince noi perdiamo! Perché Zaia non ha speso un euro, e noi invece dobbiamo pagare l'avvocato. È stato denunciato Crisanti! Era dal tempo di Galileo che non veniva denunciato uno scienziato per aver pubblicato uno studio, sui tamponi. Questa è una cosa folle, no?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nei confronti del professor Crisanti era stata messa in atto una vera e propria strategia per intimidirlo, denigrarlo e attaccarlo in ogni luogo. Soprattutto dopo il suo studio sui tamponi rapidi che contrastava la strategia regionale.

DANILO PROCACCIANTI “Scartoffie”, “due paginette”, “non è un vero studio”, “lo studio non c'è”.

ANDREA CRISANTI Lo studio è stato fatto ed è stato pubblicato su Nature Communications che è una delle riviste più prestigiose al mondo. Lo studio esiste.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Mentre da una parte, per utilizzare i test rapidi, si prendeva per buono lo studio dell’Elon Musk veneto, il dottor Rigoli, basato, secondo la procura, su attestazioni false, dall’ altra in Regione attaccano uno studio pubblicato da una rivista prestigiosa che alla fine, lo stesso direttore generale della sanità veneta è costretto ad ammettere, avrebbe messo a rischio l’appalto per i tamponi rapidi della Abbott.

LUCIANO FLOR DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE VENETO 2020-2022 (FUORI ONDA) Detto inter nos la ditta ci fa causa e ci chiede i danni, quindi meglio dire “lo studio non c’è”. Cazzo, glielo dico sette volte e non capisce…Perché pensi che io mi sono affrettato a dire che lo studio non c’è? Ora lui, cazzo, è un puro, è un ingenuo. Non riesce a star zitto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Lo studio di Crisanti preoccupava molto il presidente Zaia, che viene intercettato nel procedimento che riguarda Rigoli. In queste intercettazioni che Report vi mostra in esclusiva, Zaia è nervoso perché “Con la Procura di mezzo hanno scritto che muore la gente per i tamponi”, e vorrebbe che si cambiassero le conclusioni dello studio di Crisanti, e dice: “Dopo che l’hanno cambiata, io dopo li denuncio (...) perché è la prova provata che hanno tentato di ‘fregarmi’”.

LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Danilo, ciao!

DANILO PROCACCIANTI Presidente buongiorno, che ci dice?

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Non faccio niente, ti ringrazio, buon lavoro. Ho già fatto 32 minuti, più che sufficienti.

DANILO PROCACCIANTI Vabbè però abbiamo dato atto…

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Ascoltami in streaming.

DANILO PROCACCIANTI Ma almeno qualcosa su questa querela?

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Quale querela?

DANILO PROCACCIANTI A Crisanti, c’è l’appello degli scienziati.

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Chi ti ha detto che c’è una querela? Ciao…

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Infatti, si trattava di un esposto. Il magistrato, nelle intenzioni di Zaia, avrebbe dovuto valutare se nell’intervista che ci aveva rilasciato Crisanti ci fossero estremi per la diffamazione. Quello che Zaia però non aveva calcolato è che l’esposto contro uno scienziato avrebbe scatenato la reazione del senato accademico dell’università di Padova, che aveva preparato una mozione sulla libertà della ricerca e sulla libertà di espressione del professor Crisanti. Per disinnescare la protesta degli scienziati Azienda Zero scrive una lettera all’Università dove si sottolinea che nessuna denuncia contro Crisanti era stata presentata. Una lettera che fa infuriare Luca Zaia.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Zaia che usa parole di fuoco contro Crisanti: “È un anno che prendiamo la mira a questo (…) sono qua a rompermi i coglioni da sedici mesi (…) stiamo per portarlo allo schianto (…) adesso questo qua fa il salvatore della Patria… e io faccio la parte del mona cattivo”.

DANILO PROCACCIANTI Abbiamo letto delle intercettazioni in cui dice “Abbiamo preso la mira da un anno, lo stiamo portando a schiantarsi”.

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Guarda non ho niente da dichiararti, devi scusarmi, devo andare.

DANILO PROCACCIANTI Sembrava una guerra, altro che non c’era niente di personale…

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Ti ringrazio, buon lavoro.

DANILO PROCACCIANTI Perché dice “Da un anno abbiamo preso la mira a questo qua, lo dobbiamo portare allo schianto”.

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Non ne so nulla, sapete voi più di me. Non ne so nulla, non so neanche di cosa stai parlando. Ti do la mia parola d’onore.

DANILO PROCACCIANTI Però io le ho viste, si fidi di me allora.

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO No, non mi fido.

DANILO PROCACCIANTI Perché questa acredine verso Crisanti, visto che lei ha sempre detto “non è nulla di personale”.

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Ma infatti il professor Crisanti ha fatto il suo mestiere, lo ha fatto tutto, ha fatto tutto quello che doveva fare. Non ho altro da aggiungere. Io non commento cose che non conosco e soprattutto vi invito, visto che dovete fare lo scoop anche a ‘sto giro, di prendere tutto il testo, visto che parli di intercettazioni…

DANILO PROCACCIANTI L’ho letto benissimo, lo so a memoria.

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Fatevele dare tutte allora.

DANILO PROCACCIANTI Si lamentava con Toniolo di questa lettera che avevano fatto, quindi…

LUCA ZAIA, PRESIDENTE REGIONE VENETO Basta, basta. La tua libertà finisce dove inizia la mia…fermati, ti offro lo spritz.

DANILO PROCACCIANTI No, grazie.

DANILO PROCACCIANTI Ci sarebbero addirittura delle intercettazioni del presidente Zaia che riferendosi a lei dice: “Da un anno che abbiamo preso la mira a questo, lo dobbiamo… lo stiamo portando allo schianto”.

ANDREA CRISANTI – SENATORE PD E PROFESSORE UNIVERSITA’ DI PADOVA Ma scusi, lei questa cosa come ne è venuto a conoscenza?

DANILO PROCACCIANTI Ci sono delle intercettazioni in un procedimento.

ANDREA CRISANTI – SENATORE PD E PROFESSORE UNIVERSITA’ DI PADOVA Ma guardi, se quello che lei mi dice corrisponda a verità sarebbe una cosa gravissima e sicuramente darò immediatamente mandato ai miei avvocati di procedere senza nessuna esitazione. Sicuramente darebbe una spiegazione, darebbe il contesto giusto per comprendere tutti gli attacchi che la Regione ha fatto nei miei riguardi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il professor Crisanti è stato di parola. Ha presentato le sue dimissioni all’università di Padova. Forse non aveva scelta dopo aver saputo da noi, da Report, i contenuti di alcune intercettazioni in cui il presidente della Regione, Luca Zaia, dichiarava di averlo preso la mira e di augurarsi di portarlo “allo schianto”. Crisanti era stato autore di uno studio dove si dimostrava che 3 tamponi rapidi su 10 potevano dare risultati di falsa negatività. Uno studio ritenuto credibile visto che è stato poi pubblicato sulla rivista più accreditata al mondo dal punto di vista scientifico, Nature. Però confliggeva con la strategia che aveva deciso la Regione Veneto in quel momento, cioè di puntare sui tamponi rapidi. E per questo poi alla fine che cosa ha fatto sostanzialmente la Regione? Ha fatto finta che non esistesse uno studio accreditato, quello di Crisanti, per abbracciare uno studio, quello del dottor Rigoli, che secondo la procura sarebbe invece basato su certificazioni non esistenti, cioè false. E adesso la procura sta anche cercando di capire se esistano delle relazioni tra l’uso dei tamponi rapidi e le morti, troppe, avvenute nelle Rsa. Ora, noi immaginiamo che la scelta della Regione Veneto fosse in buona fede, che servisse per far ripartire un’economia provata dalla pandemia, quella del Veneto, che poi è un motore del Paese. Ma qualcuno in Regione si è chiesto a quale prezzo? E poi bisognerebbe chiedere, capire e anzi fare chiarezza se effettivamente la certificazione del dottor Rigoli è falsa, perché se fosse confermato che è falsa bisognerebbe anche chiedersi se quella è stata una scelta autonoma. Bene, a proposito di chiarezza bisognerebbe anche chiarire se dietro le stragi del ’92- ’93 ci sia stato un patto occulto tra mafia, destra eversiva, servizi segreti deviati e P2 per portare interessi a una struttura politica filoatlantica.

(ANSA il 3 Gennaio 2023) - "Ho scoperto ci sono quattro telefonate mie, io non ero intercettato, mi hanno detto che non potevano essere pubblicate, ma non importa, sono responsabile di quello che dico, e lo confermo. ma la roba straordinaria è che io parlo in veneto e sono tutte in italiano".

Lo ha rivelato stasera Luca Zaia, a proposito delle intercettazioni diffuse da Report, intervenendo a un incontro a Cortina D'Ampezzo. "Non è una battuta - ha aggiunto - perché toni e modalità sono diverse. Al di là delle battute dico al mio dirigente che è un po' che va avanti questa solfa che abbiamo denunciato Crisanti. Non è vero".

Ricordando quindi la polemica e le prese di posizione accademiche contro una presunta censura della ricerca accademica, Zaia ha sottolineato: "Scopro che i miei, senza confrontarsi, fanno due righe e dicono al Senato accademico 'non è vero niente', e la polemica sparisce. Mi son preso settimane di polemiche, insulti, ti fermano da tutte le parti... noi non abbiamo denunciato nessuno, non abbiamo fatto neanche esposti, non sto giocando con le parole.

 Semplicemente dal primo giorno del Covid, 21 febbraio 2020, da un lato abbiamo cercato di 'cristallizzare' la storia di una vicenda che non sapevamo che decorso avrebbe avuto, e soprattutto che esiti avrebbe avuto. Io ho detto subito ai miei 'notificate alle Procure con cadenza regolare la storia di quello che stiamo facendo', perché è tutta una prova sul campo.

 Noi avevamo avevano le mani nude. Io penso che abbiamo mandato bancali di carte in Procura. Tutto quello che veniva fuori, che so, una contestazione, i miei tecnici provvedevano a prendere le dichiarazioni, argomentare scientificamente e mandare alla Procura".

Riguardo all'intercettazione con il direttore di Azienda Zero Roberto Toniolo, Zaia ha precisato che "stavo parlando non con un sicario ma col direttore generale, il quale dipende da me, e gli chiedo perché mandare una lettera nel momento in cui andiamo al 'vedo', perché mi han dato del bugiardo per settimane. Io - ha notato in conclusione - resto lì a far la figura del bugiardo per settimane".

Marco Cremonesi per corriere.it il 3 Gennaio 2023. 

Presidente, ci aiuti a capire partendo dall’inizio. Quando ha conosciuto Crisanti?

«Direi sette o dieci giorni dopo il 21 febbraio 2020, il giorno in cui è partito il focolaio di Vo’ euganeo. Prima di allora non l’avevo mai incontrato, sentito o conosciuto».

Luca Zaia interviene sulla polemica con il microbiologo Andrea Crisanti, oggi senatore del Pd, ma dal settembre del 2019 direttore del laboratorio di microbiologia di Padova. Una polemica che vede sotto inchiesta i dirigenti regionali Patrizia Simionato e Roberto Rigoli per un esposto dello stesso Crisanti.

 Ma quindi Crisanti a Vo’ euganeo c’era o non c’era?

«Alla riunione del 21 febbraio 2020, no»».

 Ma chi ha deciso, allora in quel caso?

«Io quella sera, sulla base di quel paziente, poi diventato il primo morto in Italia, ho deciso in totale autonomia e contro le linee guida dell’Oms che prevedevano il tampone solo per i sintomatici, di fare il tampone a tutti e 3500 abitanti di Vo’e di chiudere il Comune con la zona rossa».

 Se Crisanti allora non c’era, come entra nella vicenda?

«Il professor Crisanti mi chiama dopo una settimana circa, si presenta e mi dice, testuale: “Lei ha creato le condizioni per qualcosa che non esisteva, la chiusura del Comune e i tamponi. Mi finanzierebbe i tamponi a fine quarantena, allora di quindici giorni, che così ci faccio uno studio?”. E io così ho fatto».

 E allora, come mai il rapporto si è degradato?

«Parlo con dispiacere di questa vicenda, perché io il professor Crisanti l’ho coinvolto e ci ho creduto, è indubbio che sia un professionista. Il problema è che si sono susseguite polemiche, problemi, una dichiarazioni forti... Il tutto, puntualmente, sui giornali. Il che, piano piano ha deteriorato la serenità nella squadra. Ha anche distribuito ai giornalisti dei messaggi tra me e lui».

Cosa avrebbe dovuto fare?

«Guardi che lui è stato nominato fin da subito nel Comitato tecnico scientifico per il Covid che riunisce i più autorevoli esponenti della sanità, accademici e non. Lui avrebbe potuto benissimo parlare in quella sede. Anche come luogo di confronto».

 Crisanti però in più occasioni vi ha accusato di aver fatto troppi tamponi rapidi...

«Mi perdoni. Noi siamo la comunità che più ha fatto tamponi nella storia. Certo, i tamponi molecolari sono il gold standard. Siamo arrivati a farne 23 o 24 mila al giorno, con uno stress altissimo per tutta la macchina».

Ma perché allora avete usato i tamponi rapidi?

«Ora, io dico... Avessimo avuto la possibilità di fare i molecolari per tutti, non c’era questione. In un giorno che prendo a caso, abbiamo fatto 24.832 test molecolari e 164.189 tamponi rapidi. E abbiamo trovato 13.094 positivi. Io dico: se tu hai 10 persone in acqua e solo tre salvagenti, agli altri butti una tanica, una corda, quello che hai... Che poi, attenzione: è quello che hanno fatto tutti».

 Mi scusi: ma i tamponi rapidi erano certificati?

«Assolutamente sì, dalle autorità nazionali e internazionali. E sono peraltro quelli che in Italia abbiamo usato tutti».

E la vostra mortalità rispetto alle altre regioni?

«Le rispondo con un articolo del marzo scorso pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet. Ha valutato la mortalità da Covid sul 2020 e 2021: per l’Italia pari 227,4 morti ogni 100mila abitanti. Per il Veneto, 177,5 morti su 100mila, tra i valori più bassi di tutte le Regioni italiane».

 Resta che l’intercettazione che la riguarda è antipatica. O no?

«Guardi, io non ho nulla da nascondere e mi rendo responsabile di ogni cosa che dico. Purché contestualizzata. Tra l’altro, io non ero l’intercettato. A noi tutto è stato notificato come eventuale parte offesa».

E non si è arrabbiato perché le conversazioni sono state rese pubbliche?

«Con rassegnazione, devo prendere atto che sono state diffuse intercettazioni che non potevano esser diffuse. In questo paese, ormai la normalità».

 Ma quel «stiamo per portarlo allo schianto» che cosa significa?

«Significa che lui sosteneva di essere stato denunciato dalla Regione. Ne è partito un dibattito sui giornali molto importante, che ha coinvolto anche il Senato accademico di Padova. Nonostante noi avessimo detto che non era vero, la polemica proseguiva. E dunque, il linguaggio in una conversazione privata può essere stato un po’ forte, ma significa semplicemente quello: che andando a vedere le carte, il professor Crisanti ci avrebbe dovuto dar ragione. Non era una denuncia».

 E perché si è arrabbiato con i dirigenti che hanno precisato che non c’era alcuna denuncia nei confronti di Crisanti?

«Per lo stesso motivo. Se lui andava avanti con il dire che noi lo avevamo denunciato, veniva fuori il problema e si sarebbe visto che non c’era niente. Ma i miei han detto di no, che la denuncia non c’era e dunque tutto si è chiuso».

 Alla procura, dunque, avete mandato un esposto?

«Alla procura non abbiamo mandato un esposto, ma credo bancali interi di materiali. Ovviamente non sul professor Crisanti: ogni volta che sorgevano contestazioni o perplessità sulle scelte dei tecnici di sanità pubblica, abbiamo provveduto a informare l’autorità giudiziaria delle fonti scientifiche a supporto delle scelte. E questo è accaduto sin dal febbraio 2020».

"Parole forti, ma avevamo ragione". Zaia smentisce Crisanti sulle intercettazioni. Il governatore interviene sul caso tamponi e risponde al microbiologo. "Era nel Cts, avrebbe potuto parlare in quella sede". Poi spiega il significato delle sue parole intercettate. Marco Leardi il 3 Gennaio 2023 su Il Giornale.

"Parlo con dispiacere di questa vicenda, perché io il professor Crisanti l'ho coinvolto. Ho creduto in lui". Dopo le polemiche con il microbiologo romano, parla Luca Zaia. Il governatore del Veneto è intervenuto sulla "faida" dei tamponi e sulle relative tensioni con il senatore dem, spiegando la propria versione dei fatti. Il caso, che vede sotto inchiesta i dirigenti regionali Patrizia Simionato e Roberto Rigoli, era partito da un esposto del professore alla procura di Padova e aveva portato alla definitiva rottura dei rapporti tra quest'ultimo e l'esponente leghista.

Zaia e il rapporto con Crisanti

E pensare che - ha spiegato Zaia al Corriere - era stato lo stesso microbiologo a farsi avanti, a interpellare il governatore durante i primissimi momenti della pandemia. In particolare, l'attuale senatore si era interessato al modello di chiusura e tracciamento che il presidente del Veneto aveva adottato "motu proprio" a Vo' Euganeo. "Il professor Crisanti mi chiama dopo una settimana circa, si presenta e mi dice, testuale: 'Lei ha creato le condizioni per qualcosa che non esisteva, la chiusura del Comune e i tamponi. Mi finanzierebbe i tamponi a fine quarantena, allora di quindici giorni, che così ci faccio uno studio?'. E io così ho fatto", ha raccontato Zaia, spiegando come iniziò la collaborazione con lo studioso.

Il rapporto tra i due si sarebbe poi degradato, sino alle attuali tensioni. "Parlo con dispiacere di questa vicenda, perché io il professor Crisanti l'ho coinvolto e ci ho creduto, è indubbio che sia un professionista. Il problema è che si sono susseguite polemiche, problemi, dichiarazioni forti... Il tutto, puntualmente, sui giornali. Il che, piano piano ha deteriorato la serenità nella squadra. Ha anche distribuito ai giornalisti dei messaggi tra me e lui", ha affermato Zaia. Il governatore, al contempo, ha riservato una stoccata al professore, che lo accusò di aver acquistato tamponi rapidi ritenuti poco attendibili nell'esito.

Il caso tamponi rapidi

"Lui è stato nominato fin da subito nel Comitato tecnico scientifico per il Covid che riunisce i più autorevoli esponenti della sanità, accademici e non. Lui avrebbe potuto benissimo parlare in quella sede. Anche come luogo di confronto", ha osservato Zaia. E ancora, sulla questione, il presidente ha aggiunto: "Noi siamo la comunità che più ha fatto tamponi nella storia. Certo, i tamponi molecolari sono il gold standard. Siamo arrivati a farne 23 o 24 mila al giorno, con uno stress altissimo per tutta la macchina". Ricordando la concitazione del periodo, l'esponente leghista ha poi spiegato la decisione di ricorrere ai tamponi rapidi divenuto oggetti di contese. "Avessimo avuto la possibilità di fare i molecolari per tutti, non c’era questione. In un giorno che prendo a caso, abbiamo fatto 24.832 test molecolari e 164.189 tamponi rapidi. E abbiamo trovato 13.094 positivi. Io dico: se tu hai 10 persone in acqua e solo tre salvagenti, agli altri butti una tanica, una corda, quello che hai... Che poi, attenzione: è quello che hanno fatto tutti", ha argomentato Zaia, ribadendo inoltre come quei test fossero certificati dalle autorità nazionali e internazionali.

Le intercettazioni di Zaia

Il presidente del Veneto, poi, non si è sottratto dal commentare un'intercettazione che lo riguardava e sulla quale Crisanti aveva polemizzato nelle scorse ore, definendo l'esponente leghista "malvagio". "Io non ho nulla da nascondere e mi rendo responsabile di ogni cosa che dico. Purché contestualizzata. Tra l'altro, io non ero l'intercettato. A noi tutto è stato notificato come eventuale parte offesa", ha detto Zaia, giudicando peraltro "con rassegnazione" il fatto che quelle intercettazioni non potessero nemmeno essere diffuse.

Di quella conversazione in particolare aveva destato curiosità un passaggio nel quale si parlava di "portare allo schianto" Crisanti. "Significa che lui sosteneva di essere stato denunciato dalla Regione. Ne è partito un dibattito sui giornali molto importante, che ha coinvolto anche il Senato accademico di Padova. Nonostante noi avessimo detto che non era vero, la polemica proseguiva. E dunque, il linguaggio in una conversazione privata può essere stato un po' forte, ma significa semplicemente quello: che andando a vedere le carte, il professor Crisanti ci avrebbe dovuto dar ragione. Non era una denuncia", ha spiegato Zaia.

Infine, una valutazione sul fronte giudiziario. "Alla procura non abbiamo mandato un esposto, ma credo bancali interi di materiali. Ovviamente non sul professor Crisanti: ogni volta che sorgevano contestazioni o perplessità sulle scelte dei tecnici di sanità pubblica, abbiamo provveduto a informare l’autorità giudiziaria delle fonti scientifiche a supporto delle scelte. E questo è accaduto sin dal febbraio 2020", ha chiarito il governatore veneto.

The lockdown files”: le chat rivelate nel Regno Unito svelano l’uso politico del Covid. Michele Manfrin su L'Indipendente il 10 Marzo 2023.

The lockdown files” è il nome dato all’inchiesta condotta dal giornale britannico The Telegraph che ha rivelato una gigantesca mole di messaggi – più di 100.000 messaggi WhatsApp – inviati tra ministri, funzionari e scienziati che mostrano come il governo abbia utilizzato tattiche intimidatorie per forzare la conformità e far passare le restrizioni pandemiche, nonostante i dati scientifici suggerissero altro. Molti dei contenuti rivelati al pubblico riguardano i messaggi intercorsi tra Matt Hancock, Segretario di Stato per la salute e l’assistenza sociale dal 2018 al 2021, altri funzionari governativi e scienziati inglesi. «Spaventiamo a morte tutti con il nuovo ceppo» è il contenuto di uno dei messaggi inviati da Hancock sul finire del 2020, il cui intento era quello di imporre blocchi e restrizioni. Come nel caso italiano, le chat trapelate in Gran Bretagna mettono in risalto che, al contrario di quanto narrato pubblicamente da governo e media dominanti, le decisioni dei politici si basavano più su convenienza politica che su quanto emergeva dall’osservazione scientifica del fenomeno.

Nei primi mesi dell’emergenza pandemica, in un gruppo WhatsApp progettato per una rapida comunicazione tra governo e Dipartimento per la Salute, in cui erano inseriti Chris Whitty, Chief Medical Officer, e Patrick Vallance, Chief Scientific Adviser, e Dominic Cummings, il capo della politica di Downing Street, è stato discusso di come diffondere affermazioni secondo cui il vaccino sarebbe stato sviluppato in poche settimane. Dopodiché, i consulenti dei media di Downing Street si sono chiesti quale fosse il modo migliore per spiegare alla popolazione gli scenari peggiori che si sarebbero potuti verificare, comprese stime che superavano le 800.000 vittime, mentre si preparavano a pubblicare il piano d’azione di Hancock, hanno quindi diffuso informazioni preliminari a un gruppo selezionato di redattori di giornali nazionali e giornalisti specializzati. Fu la prima prova di uno spettacolo che sarebbe ben presto divenuto familiare a tutti, con tanto di conferenza stampa attentamente coreografata, con il Primo Ministro su un podio affiancato da esperti scientifici. All’interno di Downing Street e del Dipartimento della Salute, ansiosi di mantenere il controllo della narrazione, si sono preoccupati del fatto che Boris Johnson fosse troppo cauto nell’imporre restrizioni e hanno discusso del modo migliore per fargli cambiare idea. Lasciare che il virus, ormai in circolazione, facesse il suo corso non è mai stata un’idea balenata e presa in considerazione dalla mente di Hancock. Quando Vallance pubblicamente paventò la possibilità di un approccio contrario a quello di Hancock, quest’ultimo si infuriò letteralmente con Vallance.

Nel giugno 2020, quando il Regno Unito stava uscendo dal suo primo blocco Covid, Hancock e Patrick Vallance, sembravano lieti del fatto che i media non avessero diffuso uno studio sulla diffusione del virus che andava contro le decisioni politiche prese mentre ne avevano pubblicizzato uno che prospettava giorni cupi. «Se vogliamo che le persone si comportino bene, forse non è un male», ha detto Hancock a Sir Patrick, il quale si trova d’accordo, e risponde: «Succhia la loro miserabile interpretazione e consegnala». Simon Case, il Segretario di gabinetto, nel gennaio 2021, in una conversazione in una chat di gruppo sulla narrazione politica da portare avanti, sostiene che il «fattore paura» sarebbe stato «vitale» per portare avanti le politiche restrittive. Case e Hancock hanno poi discusso di quali ulteriori misure sarebbero state efficaci allo scopo dell’intimidazione psicologica sulla popolazione, tra cui l’obbligo di indossare mascherine «in tutti gli ambienti fuori casa». Per Case, la manipolazione condotta con la paura era fondamentale per «aumentare la conformità». In una conversazione con un funzionario pubblico, Damon Poole, consulente per i media di Hancock, ha affermato che la mancata pubblicazione dei dati può essere rivolta a loro vantaggio perché «aiuta la narrazione che le cose vanno davvero male». Hancock, per continuare a mantenere restrizioni e blocchi, ha detto: «Spaventiamo a morte tutti con il nuovo ceppo».

I messaggi WhatsApp pubblicati da The Telegraph mostrano che, già nel novembre 2020, una proposta per sostituire l’isolamento individuale di 14 giorni con uno di 5 giorni era stata discussa e suggerita da Chris Whitty, Chief Medical Officer. Invece di seguire il consiglio del professor Whitty, Hancock ha rifiutato l’idea con la sola motivazione che tale azione avrebbe «implicato che ci stavamo sbagliando». Dunque, una decisione caratterizzata dalla semplice convenienza politica, senza nessuna motivazione di carattere scientifico come invece la classe politica ha ripetuto più volte. Infatti, Hancock ha sempre affermato di essere stato «guidato dalla scienza» quando prendeva decisioni politiche che limitavano la libertà delle persone di svolgere la propria vita quotidiana. Addirittura, nel suo libro di memorie Pandemic Diaries, Hancock ha scritto che stava «spingendo al massimo per ridurre i periodi di isolamento per le persone che risultano negative utilizzando i kit di flusso laterale». Quando l’autoisolamento è stato completamente abbandonato nel febbraio 2022, più di 20 milioni di persone avevano subito la restrizione individuale del dispositivo di quarantena.

Insomma, in Gran Bretagna come in Italia, e certamente non possiamo che dubitare di ogni altro Paese, la scienza è stati piegata e utilizzata dalla politica per giustificare restrizioni delle libertà individuali, la violazione di diritti umani e sociali, le quali hanno anche inflitto un gravissimo colpo all’economia, e che niente avevano a che fare con la realtà ma piuttosto sulla convenienza politica. [di Michele Manfrin]

Propaganda e realtà. Le balle cinesi sul Covid, Xi Jinping annuncia il “miracolo” della sconfitta del virus: ma Pechino nasconde almeno un milione di morti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Febbraio 2023

La gestione del Covid-19 in Cina, caratterizzata dalla strategia ribattezzata “Covid Zero”, è stata “un viaggio straordinario”, un successo. Lo mette nero su bianco il Comitato permanente del Politburo del Partito comunista cinese, presieduto dal presidente Xi Jinping, parole che sono poi ‘filtrate’ dalla riunione tenuta giovedì all’edizione odierna del Quotidiano del Popolo.

La repressione straordinaria prima, e l’abbandono improvviso di ogni misura di prevenzioni oggi, sono secondo il regime di Pechino “un miracolo nella storia umana, in cui una nazione molto popolosa ha attraversato con successo una pandemia”.

Secondo il massimo organismo di vertice del Partito comunista la Cina ha dunque “ottenuto una grande e decisiva vittoria nella sua opera di prevenzione e controllo del Covid-19 fino a novembre 2022”, promuovendo la strategia “Covid Zero” poi brutalmente fatta da parte a seguito delle prime proteste di massa.

Nessun cenno nel resoconto del Quotidiano del Popolo proprio alle proteste dello scorso anno, quando migliaia di cittadini stanchi dei lockdown, degli screening e delle quarantene di massa avevano spinto il governo a fare una repentina quanto clamorosa marcia indietro proprio sulle restrizioni, temendo per la tenuta sociale e l’ordine pubblico del Paese, oltre che per una economia sfinita.

Anzi, il documento del Comitato permanente del Politburo del Partito di cui rende conto il Quotidiano del Popolo sostiene che le misure messe in campo fino alla cancellazione della strategia “Covid Zero” abbiano consentito una “transizione morbida” e in “tempo relativamente breve“, permettendo l’accesso ai servizi medici di oltre 200 milioni di persone, con la cura di 800mila casi gravi e col tasso di decessi “più basso al mondo”.

Secondo Pechino i decessi ufficiali dallo scoppiare della pandemia sono 83.150 decessi: comparati alla gigantesca popolazione, parliamo di 6 morti ogni 100mila abitanti. Per fare un raffronto, in Italia dopo tre anni di pandemia siamo a 311 su 100mila abitanti, negli Stati Uniti 337, in Germania 200 e in Gran Bretagna 307, come sottolinea il New York Times.

Un “miracolo”, lo definisce il regime, che va salvaguardato: per questo, col virus che continua a diffondersi e mutare, il Comitato chiede ancora a tutti i dipartimenti di prestare attenzione e di procedere con la prossima campagna di vaccinazioni.

Nel resoconto della riunione non vi è cenno neanche alla richiesta del direttore generale dell’Oms , l’Organizzazione mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, di “una risposta” sull’origine del Covid-19. “Questo problema – ha detto due giorni fa il numero dell’agenzia Onu – ha una dimensione politica e morale e dobbiamo continuare ad insistere finché non avremo una risposta”.

Ma tornando alla questione numeri, ovviamente i dati forniti da Pechino non tornano. Nella grande ondata di contagi nel Paese nei mesi di dicembre e gennaio, i primi sessanta giorni in cui il regime ha cancellato le restrizioni abbandonando la strategia “Covid Zero”, secondo i modelli degli epidemiologi occidentali circa l’80% della popolazione si è contagiata: i morti soltanto in questo periodo dovrebbero esser stati superiori al milione di persone.

A questo enorme numero va aggiunto un enorme disclaimer: da un lato l’inattendibilità dei dati ufficiali forniti dal regime di Pechino, dall’altro che nel conto dei morti per Covid-19 in Cina non sono inclusi i pazienti deceduti in casa, ma solo quelli passati attraverso gli ospedali, dove ai medici viene “sconsigliato” di riportare il Sars-Cov-2 come causa di decesso.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Estratto dell’articolo di Gianluca Modolo per “la Repubblica” il 14 gennaio 2023.

 […] Con la riapertura dopo tre anni della frontiera, domenica scorsa, tra Cina continentale e Hong Kong, il Porto Profumato sta diventando la meta preferita per venire a farsi somministrare una dose di BioNTech, il vaccino della Pfizer[…].

 Yoyo, 36enne di Pechino, è stata una delle prime sei persone "fortunate", arrivata qui alla Virtus Medical Tower, al 122 di Queen's Road Central, in questa che è già la nuova mecca del turismo vaccinale per i cinesi che sbarcano in città. «Ho tre dosi del cinese Sinovac, ma un siero bivalente come quello che danno qui, da noi non è ancora disponibile». Si è registrata sul sito della clinica privata prima di partire, una visita di routine e poi alla cassa a pagare: 1.800 dollari hongkonghesi, 225 euro.

[…] ci racconta il dottor Che Chung Luk, vicepresidente della Virtus Medical  «[…] Sono già 300 le persone che ci hanno scritto per avere informazioni. […]nelle prossime settimane ci aspettiamo un numero sempre maggiore di persone. Servirà prenotarsi online, vogliamo che tutto sia organizzato al meglio e non creare caos con code fuori dalla clinica che possano provocare assembramenti, […] So anche di compagnie private che stanno organizzando pacchetti per i loro dipendenti: volo, hotel, shopping nelle boutique del centro e dose di vaccino». 

Poco più lontano, verso Causeway Bay, c'è un altro ospedale privato che offre lo stesso servizio. […] Per attirare clienti cinesi, pure la Citic Bank sta offrendo ai correntisti una dose di siero mRna se effettuano un deposito di 4 milioni di dollari di Hong Kong (500mila euro).

 […] Come a Hong Kong, anche a Macao esiste un accordo tra la BioNTech e la Fosun per importare i vaccini. Da quando Pechino ha alleggerito le restrizioni sui viaggi, 998mila cinesi hanno richiesto un permesso d'ingresso a Hong Kong o Macao: un aumento del 147,6%.

[…] Un nuovo studio dell'Università di Pechino sostiene ora che circa 900 milioni di persone sono state contagiate, il 64% dei cinesi. […] E i casi aumenteranno nelle zone rurali in vista del Capodanno, il 21 gennaio. Se nelle grandi metropoli l'ondata sembra essere passata, è proprio nelle campagne che ora la Cina teme un nuovo tsunami di casi. E di morti.

 Per le autorità (che hanno smesso di pubblicare il bollettino quotidiano, d'ora in poi sarà mensile) i morti da Covid, dal 7 dicembre, sarebbero meno di 40. Stime di istituti come Airfinity, invece, dicono che in realtà sono stati già 209mila ed entro fine aprile arriveranno a 1,7 milioni. […]

 Dopo la lite con Pfizer sul prezzo del Paxlovid (2mila yuan a scatola), unico farmaco anti-Covid straniero approvato in Cina, ieri Astra-Zeneca ha firmato un accordo con la cinese Genertec per l'import di un altro farmaco contro il virus: Evusheld.

Da corriere.it il 13 Gennaio 2023.

Circa 900 milioni di persone in Cina sono state contagiate dal coronavirus secondo un bilancio aggiornato all’11 gennaio. Ad aggiungere un importante tassello alla questione del diffondersi del virus e dei veri numeri dei malati nel Paese dello Zero Covid è uno studio citato dalla Bbc e che arriva direttamente dall’Università di Pechino.

 Secondo la ricerca, il 64 per cento della popolazione cinese ha contratto il virus. L’area più colpita è la provincia di Gansu, dove il 91 per cento delle persone sarebbe stato contagiato, seguita da quelle di Yunnan (84 per cento) e Qinghai (80 per cento).

Un importante epidemiologo cinese ha inoltre avvertito che i casi aumenteranno nella Cina rurale durante il nuovo anno lunare. Il picco dell’ondata di Covid dovrebbe durare dai due ai tre mesi, ha aggiunto Zeng Guang, ex capo del Centro cinese per il controllo delle malattie. Decine di milioni di cinesi si muoveranno verso i loro villaggi di origine in vista del Capodanno lunare del 22 gennaio, per festeggiare in famiglia.

 Il rischio ora è che questi spostamenti portino il virus dalle città alle campagne, dove le strutture sanitarie sono carenti. Per ora l’ultima ondata ha investito i grandi centri densamente abitati, come Pechino, Guangzhou, Shanghai e Chongqing, dove il peggio sembra ormai passato.

Secondo le autorità locali, nello Henan, la terza provincia più popolosa del Paese, quasi il 90% degli abitanti è già stato contagiato. Ma nelle regioni interne del Sichuan, dello Shaanxi, del Gansu e del Qinghai le infezioni raggiungeranno il picco solo nella seconda metà di gennaio. Il ministero degli Affari agricoli e rurali lo ha detto chiaramente: le campagne – dove vivono 500 milioni di persone – rappresentano l’anello debole nel controllo dell’epidemia.

 A favorire i contagi, anche la recente riapertura ai viaggiatori internazionali (251.000 gli ingressi solo domenica). La Cina ha smesso di fornire statistiche Covid giornaliere da quando ha abbandonato zero-Covid. Ma gli ospedali delle grandi città - dove le strutture sanitarie sono migliori e più facilmente accessibili - si sono affollati di pazienti Covid. Esperti sanitari internazionali hanno previsto almeno un milione di decessi correlati a Covid in Cina quest’anno. Pechino ha ufficialmente riportato poco più di 5.000 morti dall’inizio della pandemia, uno dei tassi di mortalità più bassi al mondo.

(ANSA il 10 gennaio 2023) - La Cina ha ammesso per la prima volta in modo chiaro l'esistenza di "opinioni diverse" sulla politica draconiana dello 'zero-Covid', nell'ambito di un approccio in fase di cambiamento da tempo: è stato il Quotidiano del Popolo, la voce del Partito comunista, a dare conto della serie di incontri sulla strategia anti-pandemica sfidando la narrativa secondo cui Pechino non era preparata a modificare la sua "guerra di popolo" contro il virus.

Il sito web del quotidiano ha pubblicato un articolo di oltre 9.000 parole per spiegare le discussioni politiche sul Covid-19, fornendo un resoconto delle consultazioni dei leader con esperti medici prima del cambio di politica del 7 dicembre e delle misure adottate in seguito.

 Un'ammissione che è maturata nel mezzo del crescente malcontento quando la variante Omicron sta colpendo senza precedenti la popolazione tra le accuse sulla carenza di medicinali e ospedali e crematori sotto pressione. L'articolo ha raccontato una serie di riunioni tenutesi prima del cambio di politica, comprese le consultazioni con un gruppo di esperti del ;;30 novembre e del primo dicembre, ospitate dalla vicepremier Sun Chunlan.

 Il gruppo era guidato da Zhang Boli, esperto di medicina tradizionale cinese presso l'Accademia cinese di ingegneria, e da Shen Hongbing, direttore del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, includendo anche otto operatori sanitari in prima linea. Gli incontri hanno fatto seguito alle proteste registrate a Pechino, Shanghai, Guangzhou, Wuhan e in altre grandi città a fine novembre contro le misure draconiane della tolleranza zero al Covid.

"Non esiste una risposta pronta alla pandemia di coronavirus", secondo l'articolo, che non ha descritto in dettaglio ciò che è stato detto negli incontri, ma ha sottolineato l'importanza delle consultazioni nel processo decisionale scientifico. Facendo eco alle parole del presidente Xi Jinping nel suo discorso di Capodanno, il Quotidiano del Popolo ha rimarcato che era naturale che "persone diverse abbiano preoccupazioni diverse o abbiano opinioni diverse sulla stessa questione" in un paese di 1,4 miliardi di persone, in quella che è apparsa come un'apparente ammissione sulla natura controversa dello 'zero-Covid'.

(ANSA il 10 gennaio 2023) - La Cina ha registrato domenica oltre 250.000 arrivi internazionali, nel primo giorno di riapertura delle frontiere dopo l'abbandono di gran parte delle politiche restrittive della 'tolleranza zero' al Covid. La cifra, che rimane ben al di sotto dei flussi pre-pandemia, si è attestata per la precisione a quota 251.045 passeggeri in entrata, in base a quanto ha riferito l'agenzia ufficiale Xinhua citando i dati doganali. Nel primo trimestre del 2019, invece, la media giornaliera si era attestata a circa 945.300 arrivi, secondo le statistiche elaborate dalla National Immigration Administration. (ANSA).

(ANSA il 10 gennaio 2023) - La Cina ha interrotto il rilascio dei visti a breve termine ai cittadini sudcoreani come rappresaglia al rafforzamento dei controlli sanitari sui passeggeri provenienti dal Dragone, ritenuti "discriminatori" da Pechino. Lo si legge in una nota dell'ambasciata cinese a Seul, secondo cui le misure decise "saranno adeguate in base all'annullamento delle restrizioni discriminatorie all'ingresso in Corea del Sud nei confronti della Cina".

 Come ritorsione per il rafforzamento dei controlli sanitari verso i passeggeri in arrivo dalla Cina, alle prese con la peggiore ondata di contagi di Covid-19 in tre anni di pandemia, l'ambasciata di Pechino a Seul ha deciso di bloccare il rilascio dei visti d'ingresso di breve periodo ai cittadini sudcoreani.

"L'ambasciata cinese e i consolati sospenderanno l'emissione dei visti di breve periodo ai cittadini sudcoreani", si legge in una nota postata sull'account WeChat della rappresentanza diplomatica, in base "alle istruzioni" ricevute da Pechino. La misura colpirà "i cittadini sudcoreani che visitano la Cina per affari, turismo, cure mediche, transito e per affari privati ;;in generale".

Appena ieri, nel briefing quotidiano, il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin aveva ribadito la promessa sull'adozione di "contromisure reciproche nei confronti di alcuni Paesi che hanno imposto restrizioni di ingresso discriminatorie ai viaggiatori provenienti dalla Cina", esortando gli Stati Uniti "a essere trasparenti e aperti nella condivisione di informazioni e dati sulla variante Omicron XBB attualmente prevalente negli Usa".

Alla fine di dicembre, la Corea del Sud ha annunciato i test anti-Covid per tutti i viaggiatori provenienti dalla Cina, insieme alla limitazione provvisoria dei visti a breve termine ai cittadini cinesi, unendosi al gruppo di Paesi che aveva introdotto restrizioni di viaggio a causa dell'ondata di infezioni nel Dragone e alle accuse di scarsa trasparenza sulla reale situazione sanitaria. I viaggiatori dalla Cina devono fornire un tampone Pcr negativo entro le 48 ore dalla partenza (lo stesso che Pechino continua a richiedere agli arrivi) o un test antigenico rapido effettuato entro le 24 ore, seguito da uno Pcr dopo l'arrivo.

Guido Santevecchi per corriere.it il 10 gennaio 2023.

Non sembra il 2023 ma il 2020. Come per Wuhan tre anni fa, le autorità cinesi hanno avvolto in una cortina di opacità i dati sull’ondata di Covid-19 che sta dilagando. La stampa di Pechino dà risalto alla grande ripresa dei viaggi, decisa dal Partito-Stato che il 7 dicembre si è improvvisamente ritirato dalla trincea di politica sanitaria Covid Zero e l’8 gennaio ha riaperto le frontiere (soprattutto in uscita dalla Cina): «L’afflusso di visitatori cinesi guiderà il boom del turismo mondiale», scrive il Global Times di Pechino nella sua edizione in inglese. In altri articoli vengono citati epidemiologi nazionali che rassicurano: il picco dei contagi sarebbe stato raggiunto il primo gennaio.

Una precisione che si scontra con la mancanza di dati sulle infezioni, sui ricoveri, sui morti. L’Organizzazione mondiale della sanità ha sottolineato che per cercare di valutare la situazione in Cina il Dipartimento Emergenze «si deve basare sull’aneddotica»: significa guardare con sgomento e frustrazione le immagini che circolano da settimane sui social cinesi: hanno mostrato terapie intensive degli ospedali piene e code alle agenzie funebri delle grandi città. «Le autorità di Pechino stanno sottostimando i numeri», ha detto già il 22 dicembre il dottor Mike Ryan, capo delle Emergenze all’Oms di Ginevra.

Per cercare di interpretare la situazione reale, il Washington Post ha realizzato un’inchiesta che utilizza le immagini satellitari riprese dalla società americana Maxar Technologies. Gli occhi satellitari hanno zoomato su crematori e agenzie funebri di sei città sparse nel Paese: Pechino, Nanchino, Kunming, Chengdu, Tangshan, Huzhou. Secondo gli analisti l’attività intorno ai centri mortuari è aumentata in modo abnorme a dicembre.

 Sono state individuate code di auto e carri funebri in attesa di poter accedere alle aree dove vengono inviate le salme per l’operazione di incenerimento. E poi ci sono le testimonianze che si accumulano da giorni: su Weibo (il Twitter cinese) un funzionario di un’agenzia funebre di Chongqing ha scritto che nel suo crematorio «si bruciano 22 corpi al giorno, rispetto ai 4-5 di novembre».

Racconti simili, di bare in attesa nei corridoi delle sale mortuarie degli ospedali, di personale in tute protettive anticontagio impiegato per il trasporto, di crematori affollati, arrivano da tutte le zone urbane della Cina.

 Osservando le foto dall’alto del crematorio del distretto di Tongzhou alla periferia di Pechino, il Washington Post ha notato che tra il 22 e il 24 dicembre il parcheggio è stato ampliato per contenere un centinaio di auto. Il personale dell’impianto funebre in quei giorni avrebbe lavorato ventiquattro ore su ventiquattro per cremare 150 corpi al giorno, secondo un post pubblicato (e frettolosamente rimosso) sul sito del «Quotidiano della Gioventù di Pechino». A ltre voci riferiscono di cinque giorni di attesa per un funerale, di bagarini che chiedevano denaro per accelerare le pratiche. Situazione anormale per un Paese come la Cina che ha il culto dei defunti e delle cerimonie funebri.

 Eppure, secondo i dati comunicati dalla Commissione sanitaria nazionale, in questa ondata di Covid-19 partita verso l’inizio di dicembre, i decessi sarebbero stati solo 40, per un totale dal gennaio 2020 di circa 2.500.

 Com’è possibile, visto che ormai, annunciando che il picco dei contagi è stato superato, le autorità di province come lo Henan (quasi 100 milioni di abitanti) e il Sichuan (oltre 80 milioni) dichiarano che si sono infettati tra l’80 e il 90 per cento dei residenti?

A dicembre le autorità scientifiche di Pechino hanno ristretto la definizione di decesso per Covid: si applica solo ai pazienti morti per polmonite e insufficienza respiratoria. Ma oltre a questo espediente «clinico», è evidente che per non ammettere il fallimento della politica sanitaria dopo tre anni di lockdown, quarantene e tamponi obbligatori, le autorità celano i numeri della mortalità. Basti ricordare che negli Stati Uniti, usciti dall’emergenza grazie ai vaccini, ancora oggi si registrano 2.500 decessi a settimana; in Italia sono circa 100 al giorno, su una popolazione di meno di 60 milioni di abitanti.

 La dottoressa Jiaho Yahui, funzionaria della Commissione sanitaria nazionale, dice che solo l’8% dei pazienti di Covid-19 sviluppano la polmonite e che la maggioranza sono curabili con un trattamento tempestivo. Ma in altre dichiarazioni si legge che nelle città di prima fascia della Cina l’80% dei posti in terapia intensiva sono stati occupati. Mancano completamente informazioni sulle aree agricole, dove le condizioni del sistema sanitario sono sicuramente meno avanzate rispetto a Pechino o Shanghai.

E già l’epidemiologo governativo Zhang Wenhong avverte che un secondo picco di contagi è previsto intorno ad aprile-maggio e potrebbe colpire tra il 25 e il 50 per cento della popolazione. La speranza è che i sintomi causati dall’infezione risultino più lievi, ora che una grande massa di cinesi è stata esposta al contagio.

Covid, la Cina riapre al mondo: abbracci e lacrime dopo 1.016 giorni di «blocco». Guido Santevecchi Online su Il Corriere della Sera l’8 gennaio 2023.

Abbracci di gioia e commozione tra i cinesi agli aeroporti di Pechino, Shanghai, Hong Kong. Nella capitale della Repubblica popolare la zona degli arrivi internazionali era stata spettrale negli ultimi tre anni, i pochissimi voli concentrati tra la notte fonda e l’alba, passeggeri incanalati dai vigilanti sanitari, sottoposti a tampone e subito e comunque inviati in quarantena. Dal 2020 molti dei viaggiatori cinesi si presentavano già sigillati nelle tute protettive, come in un film horror; anche le hostess avevano dovuto lasciare le divise eleganti delle compagnie aeree per indossare gli scafandri bianchi da terapia intensiva.

Ieri invece all’aeroporto di Pechino è andata in scena l’emozione per le riunioni di famiglia allo sbarco dai voli provenienti da Varsavia, Francoforte e soprattutto Hong Kong. Abbracci rinviati per 1.016 giorni: tanto è durato il controllo ossessivo degli spostamenti internazionali da e per la Cina imposto nel marzo 2020 in nome della politica Covid Zero ora abbandonata.

Sorprendente, quasi surreale, la presenza di un gruppo di ragazzine con i teleobiettivi sulle macchine fotografiche che volevano catturare uno sguardo dei sette musicisti della band di K-pop «Tempest», sbarcati da Seul per il primo tour cinese dal gennaio 2020. «È meraviglioso vederli di persona, sono più alti e più belli di come me li immaginavo», ha detto al cronista della Reuters la diciannovenne pechinese Xiny.

L’8 gennaio sarà dunque ricordato come il giorno in cui è finito l’autoisolamento della Repubblica popolare cinese. Chi arriva dall’estero non sarà più chiuso in una stanza di Covid Hotel per una settimana (erano 14 giorni più 7 di osservazione domiciliare, al culmine del «programma di prevenzione»). Ci vorrà tempo perché il traffico riprenda il suo flusso regolare: per tre anni i pochi voli consentiti venivano dirottati lontano da Pechino, per tenere la capitale politica al riparo dai contagi. Ieri al Capital International Airport erano programmati solo otto arrivi internazionali.

Ma le compagnie stanno facendo piani su vasta scala. La concessione più grande fatta dalle autorità riguarda tutti i cinesi: da ieri Pechino ha ripreso l’emissione e il rinnovo dei passaporti per l’estero, oltre ai visti ordinari e ai permessi di residenza temporanea per gli stranieri.

Il grosso del flusso ieri si è concentrato a Hong Kong, che per la chiusura dei viaggi con la Cina continentale ha subito un colpo durissimo alla sua economia basata su turismo e commercio oltre che sull’alta finanza. Nella fase iniziale nell’ex colonia britannica sono consentiti 60 mila arrivi e altrettante partenze al giorno via terra, mare e cielo. L’aeroporto della City è improvvisamente tornato alla routine di affollamento, lunghe code si sono fermate anche ai banchi delle prenotazioni per i traghetti e i treni ad alta velocità. L’approccio di Hong Kong alla riapertura resta cauto, chi entra o esce deve esibire un tampone negativo: questa stessa misura, introdotta la settimana scorsa da una decina di Paesi tra cui Usa e Italia e consigliata dall’Unione europea a tutti gli Stati membri, ha causato una protesta del governo cinese che l’ha definita «irragionevole e non scientifica».

Le scene di confusione festosa negli aeroporti stridono con le immagini che continuano ad arrivare dagli ospedali delle metropoli cinesi, che fanno fronte all’ondata di infezioni dilagata a dicembre. Autorità e stampa statale difendono la gestione dell’uscita precipitosa dalla linea Covid Zero diventata troppo costosa sul fronte sociale ed economico. Pechino sostiene che i ricoveri in terapia intensiva «hanno probabilmente raggiunto il picco» nelle grandi città, con l’80% dei posti letto occupati. Ma il numero dei pazienti potrebbe salire rapidamente nei centri di dimensioni medie e piccole a causa dei viaggi previsti per il Capodanno lunare che cade il 22 gennaio. «Siamo di fronte a una sfida senza precedenti», ha detto alla Cctv nazionale un alto funzionario della Commissione sanitaria centrale. I numeri dei morti restano avvolti nell’opacità della politica cinese. L’Organizzazione mondiale della sanità afferma che la Cina sta «sottostimando i dati sulla mortalità». Un eufemismo per dire che Pechino li nasconde: i modelli occidentali prevedono 1,5 milioni di decessi entro marzo.

Preparazione, resilienza e gradualità: così la Cina ha gestito l’epidemia di Covid-19. Storia di Luca Romano su Il Giornale il 7 gennaio 2023.

Nelle ultime settimane la Cina ha modificato la sua risposta alla prevenzione e al controllo del Covid-19. Dal prossimo 8 gennaio, il governo cinese tornerà a rilasciare passaporti e visti, e saranno allentate le politiche di ingresso nel Paese. Nel frattempo il Covid-19 è andato incontro ad un declassamento, passando da "malattia infettiva di classe A" a "classe B", mentre il nome cinese della malattia è cambiato da "nuova polmonite da coronavirus" a "nuova infezione da coronavirus". Ebbene, la decisione del Paese asiatico ha scatenato le critiche di una parte dei media occidentali, nonché di circoli politici e intellettuali. Critiche che, come vedremo, molto spesso non hanno alcun fondamento scientifico.

Preparazione, resilienza e gradualità: così la Cina ha gestito l’epidemia di Covid-19© Fornito da Il Giornale

La preparazione della Cina

A differenza di quanto non si possa pensare, la Cina non ha abbandonato la Zero Covid Policy dall’oggi al domani, senza preparazione né tabelle di marcia. Eppure c’è addirittura chi ha accusato il governo cinese di non aver adottato misure progressive per prepararsi alla riapertura.

Il punto è che la preparazione può essere valutata solo dai risultati conseguiti sul campo. Nel caso del Covid-19, il riferimento è al numero di vite salvate. Chiedersi, allora, se la Cina è preparata ad una riapertura totale non è la domanda corretta da fare. Il quesito giusto, semmai, è: da quanto tempo la Cina si sta preparando alla riapertura? Risposta: da quando è scattata l’emergenza pandemica.

Sin dallo scoppio della pandemia, la Cina ha preparato i suoi cittadini ad affrontare il virus. La politica Zero Covid Policy, come ha sottolineato CGTN, è stata messa in atto per guadagnare tempo affinché il micidiale ceppo originale, e le successive varianti, diventassero meno letali. "E ora, una volta che il virus diventerà molto meno grave e mite, vogliamo allentare le nostre misure. Avremo sicuramente un aumento dei casi. Tuttavia, il tasso di mortalità e le infezioni gravi diminuiranno notevolmente rispetto al passato", ha affermato Li Guangxi esperto dello State Council’s Joint Prevention & Control Mechanism.

Una politica sanitaria dinamica

Video correlato: Covid, Cina: "L'Ue tratti la nostra situazione in modo obiettivo ed equo" (Dailymotion)

La Cina ha prima gettato le basi per arginare la minaccia provocata dal Covid-19, e poi aspettato il momento giusto per allentare le misure. Con il passare dei mesi il virus è mutato fino a diventare meno grave del ceppo originario. E non è un caso che Wu Zunyou, il capo epidemiologo del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, abbia sottolineato come la percentuale di casi gravi e pazienti in condizioni critiche sia scesa dal 16,47% del 2020 allo 0,18% di oggi.

L'ex direttore della politica economica e commerciale del sindaco di Londra, John Ross, ha fatto notare che nel caso in cui la Cina avesse applicato le politiche sanitarie anti Covid statunitensi, questo modus operandi avrebbe potuto causare la morte di 4,7 milioni di cinesi. Insomma, la Zero Covid Policy si è rivelata una politica sanitaria dinamica, capace di adattarsi ai vari contesti dell’emergenza. In questo modo, la Cina ha limitato i danni e salvaguardato milioni di vite umane.

Il futuro dell’economia cinese

Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ha parlato della situazione economica della Cina. "Attualmente, stiamo adattando le nostre misure di risposta al Covid-19 ai nuovi sviluppi dell'epidemia, in modo da coordinare meglio la risposta all'epidemia e lo sviluppo socioeconomico. Riteniamo che, con gli sforzi congiunti del popolo cinese e con la solidarietà, inaugureremo una nuova fase di sviluppo economico e sociale costante e ordinato", ha aggiunto Mao.

A proposito di economia, la revoca delle restrizioni cinesi non implica un immediato rimbalzo della crescita economica della Cina. Un aumento dei casi di infezione – per altro fisiologico - significa che ci vuole tempo prima che le persone possano tornare nei negozi e nei ristoranti. Gli ultimi dati hanno tuttavia già mostrato la ripresa del mercato dei consumi nel Paese. Dopo il cambiamento nella politica anti Covid, la presenza in alcuni cinema di Pechino è tornata al 75% del livello normale e i commensali hanno registrato oltre l'80% del traffico dei clienti, secondo quanto riferito dall'agenzia di stampa cinese Xinhua.

I consumi diventeranno presto una delle principali forze trainanti per la crescita economica cinese. Wu Chaoming, capo economista del Chasing International Economic Institute, ha affermato che la spesa per consumi pro capite dei residenti cinesi potrebbe passare dall'8% al 12% nel corso del nuovo anno. Sullo sfondo della depressione economica globale indotta dal virus, inoltre, il prodotto interno lordo della Cina è cresciuto a un tasso medio annuo del 4,6% dal terzo trimestre del 2019 al terzo trimestre del 2022, secondo l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Si tratta di un valore ben al di sopra della media mondiale.

Adesso che la Cina ha aggiunto un altro, fondamentale, tassello nella lotta contro il Covid, molti governi hanno imposto controlli ai viaggiatori cinesi in arrivo nei rispettivi Paesi. Il Regno Unito, in particolare, ha agito contro il parere delle proprie autorità sanitarie. La decisione del primo ministro Rishi Sunak di imporre controlli Covid ai viaggiatori provenienti dalla Cina è stata descritta da alcuni esperti sanitari come una manovra puramente politica.

Rita Fatiguso per “il Sole 24 Ore” l’8 gennaio 2023.

La Cina è a un passo dalla tempesta perfetta. La rimozione delle misure anti Covid 19 ha innescato contagi a catena. La cifra ufficiale dei 5.267 morti dall'inizio dell'epidemia non rispecchia la realtà, tanto più che entro il 31 marzo il Governo ha annunciato di voler sostenere finanziariamente il 60% delle cure. 

 La miccia è già esplosa con le migrazioni del Capodanno cinese che, a partire da sabato, durerà 40 lunghi giorni: per la prima volta in tre anni non ci saranno restrizioni agli spostamenti, con il rischio che i focolai si allarghino alle aree più remote del Paese.

 Le frontiere sono state riaperte - venerdì anche quella con Hong Kong - ma la popolazione resta a rischio varianti da Covid 19: appena il 57,9% degli adulti ha un booster, sotto gli ottant' anni solo il 42,3% è vaccinato. Le merci nei porti non arrivano o rimangono bloccate perché le fabbriche decimate dal virus rallentano la produzione e gli ordini restano inevasi. 

 Si delinea così una situazione peggiore di quella della primavera scorsa, con inevitabili ripercussioni a livello di commercio globale e sulle scorte che sta creando un'inversione di tendenza sul traffico dei container e sui costi dei noli. Le quotazioni sono in picchiata e un surplus di vettori-fantasma vaga per tutta l'Asia. 

 A nulla valgono le rassicurazioni degli organi di stampa locali sul fatto che i porti nel 2022 sono rimasti competitivi nonostante la pandemia. Il calo della domanda dall'estero era la prima sfida del nuovo anno, ora l'industria dovrà far fronte ai problemi creati dal Coronavirus, tra cui il numero di container vuoti e la pressione per le cancellazioni delle prenotazioni di merci in aumento a Shanghai e Shenzhen.

Banalmente, le fabbriche non possono funzionare correttamente a causa dei molti lavoratori che hanno contratto il Covid. Dopo il Capodanno lunare si prevedono volumi di traffico bassi con prenotazioni nel migliore dei casi posticipate nella seconda metà di gennaio se non all'inizio di febbraio. 

 Il calo di ordini dagli Stati Uniti è già del 40 per cento. Con metà o tre quarti della forza lavoro infetta e non in grado di lavorare è difficile garantire risultati ottimali, spiega ai clienti preoccupati la società di spedizioni HLS di Hong Kong. Il ritiro, il carico e il trasporto di container finiscono nel tritacarne delle aziende che stanno affrontando l'impatto della nuova ondata di Covid 19.

 Nel porto di Shanghai, leader per container al mondo, le cancellazioni stanno aumentando perché molti lavoratori sono stati infettati. Idem Shenzhen, quarto al mondo, sede dei produttori che forniscono Apple. A Qingdao, il sesto scalo più grande del mondo, è attivo solo un quarto della forza lavoro. 

Secondo MarineTraffic, società che monitora il traffico marittimo, la congestione a Shanghai sembra essere aumentata non appena sono stati tolti gli ostacoli alla mobilità; infatti, durante la prima settimana del 2023 la capacità media della nave misurata in TEU (l'unità equivalente a venti piedi) rimasta in attesa era di 321.989 TEU, vale a dire l'importo più alto registrato dall'aprile scorso. 

 Inoltre, anche la congestione a Ningbo e Qingdao sta crescendo, rispettivamente con 273.471 TEU e 277.467 TEU. I dati di WarehouseQuote che garantisce il deposito merci mostrano, tuttavia, che le scorte sono ancora ai massimi storici. 

Ma fino a quando? La Cina insiste e fa leva sulla resilienza che le ha permesso di salvare in extremis il bilancio del 2022. Guardando al 2023, spiega Wu Jiazhang, esperto di logistica cinese, se i mercati statunitensi ed europei dovessero cedere ancora a causa della recessione, le esportazioni cinesi potrebbero ancora trovare nuovi spazi di crescita dai mercati con l'accordo commerciale Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) e i mercati della Belt and Road. 

La nuova domanda potrebbe derivare dal rapido sviluppo del commercio elettronico transfrontaliero e dalla maggiore efficienza nei porti grazie al miglioramento dell'infrastruttura digitale. In realtà nel bel mezzo di una stagione marittima definita ufficialmente "molto tranquilla" è piombato il dietro front del Governo sullo zero Covid. Di fatto da allora i container vuoti si stanno accumulando nei porti. A Guangzhou, Yantian e Shekou , non li ritirano più perché non si intravede una "prossima spedizione". 

Basterebbe fare un salto indietro, all'anno scorso, quando gli spedizionieri si mettevano in fila tutta la notte per strappare un container vuoto e si scherzava sul fatto che valessero più del loro peso in oro. Il quarto trimestre del 2022 è stato "molto tranquillo", ma con tassi inferiori al 2021 e le quotazioni per TEU sono scese a 1.500 dollari da Shanghai a Danzica e sotto i mille dollari per TEU sul resto delle rotte Cina-Europa. Un naufragio al quale - sembra - possa sottrarsi solo il settore cargo aereo per il quale si prevede un doppio aumento di traffico e costi. 

Pericoli, rischi e minacce: tutto quello che c’è da sapere sul Covid in Cina. Federico Giuliani il 4 gennaio 2023 su Inside Over.

Riflettori puntati sulla Cina. Archiviata l’epoca della Zero Covid Policy, il governo cinese è alle prese con una nuova fase della lotta contro la pandemia. L’ondata di infezioni da Covid che ha attraversato la Repubblica Popolare Cinese potrebbe presto raggiungere il picco in alcune delle più grandi città del Paese, tra cui Shanghai e Pechino. Dall’esterno, si ha la percezione di uno scenario critico. Che cosa sta succedendo oltre la Muraglia? Quali rischi ci sono? Ne abbiamo parlato con Emanuele Montomoli, responsabile scientifico di Vismederi srl e professore ordinario di igiene e sanità pubblica presso l’Università di Siena.

Quanto è grave la situazione Covid in Cina?

Per quello che si percepisce, sembra che ci sia un’ondata abbastanza importante. Le informazioni provenienti dalla Cina sono però molto filtrate e da prendere con le molle. È difficile dire con certezza assoluta cosa sta accadendo. Del resto non sappiamo nemmeno il numero preciso di casi, come sono distribuiti, se sono provocati da una nuova variante o da quelle tradizionali. Lo scenario è difficile da interpretare nella sua interezza.

Quanto bisogna preoccuparsi?

Nonostante lo scenario sia difficile da interpretare nella sua interezza, direi non più di tanto.

Per quale motivo?

In Europa e negli Stati Uniti siamo in un quadro ben definito. La maggior parte della popolazione è pluri vaccinata e molte persone sono anche state contagiate e poi guarite. Tra vaccinazioni e infezioni naturali abbiamo dunque una base immunitaria importante. Anche di fronte ad una variante diversa, dunque, non mi aspetto che questa possa provocare le stragi che abbiamo visto nelle iniziali ondate.

Le proteste in Cina, spiegate

Perché la Cina ha usato misure sanitarie così rigide?

Farmaci e logistica: perché il Covid in Cina può far tremare l’Europa

Qual è il problema della Cina? Perché ci sono così tanti contagi?

Innanzitutto avevano un tasso di copertura vaccinale minore rispetto a quello registrato da noi. Dopo di che hanno realizzato la campagna vaccinale affidandosi ai loro vaccini, che hanno un tasso di efficacia inferiore rispetto a quello dei nostri vaccini. La Cina ha però anche un vantaggio.

Quale?

Il loro vantaggio, che adesso gli si sta ripercuotendo contro, è il poter contare ancora su un monitoraggio strettissimo.

È anche per questo che in Cina si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un cataclisma totale?

Hanno una rete di sorveglianza capillare. In Europa e negli Stati Uniti ormai il monitoraggio non viene quasi più effettuato. In Cina, al netto dell’abbandono della Zero Covid Policy, viene fatto ancora in maniera molto stretta. In questo modo le autorità cinesi rintracciano i casi più evidenti ma anche tutto il sommerso che normalmente non finirebbe nei radar.

A proposito della Zero Covid Policy, a suo avviso ha fatto bene la Cina ad abbandonare questo modello?

Sì. La Zero Covid Policy non aveva senso. In un territorio vasto come la Cina era ed è impossibile controllare una patologia o un virus, pensando di ridurre la minaccia a zero casi. In un contesto mondiale, inoltre, la Cina si sarebbe sempre più isolata per diventare baluardo di un modello di lotta al virus obsoleto, costoso e inefficiente.

Ha senso fare i tamponi ai viaggiatori provenienti dalla Cina?

Dal punto di vista epidemiologico, più controlli ci sono e meglio è. Dal punto di vista umano e morale, dopo anni di lockdown e chiusure, mi rendo conto che un modus operandi del genere possa sembrare eccessivo. Tuttavia non biasimo i governi costretti a monitorare i passeggeri che provengono dalla Cina. Qui serve però una riflessione.

Prego

Dal momento che diciamo che la Cina ha un problema con il Covid è scontato che ripartono controlli e monitoraggi sui viaggiatori che provengono da quel Paese. Quando accendiamo la miccia è lecito aspettarsi decisioni del genere. Leggendo le notizie sulla Cina, anche se parziali e frammentate, come potrebbe un governo non prendere simili contromisure? Pensiamo a cosa potrebbe succedere se, in assenza di monitoraggio, fra 15 giorni dovessimo scoprire l’esistenza di una variante super aggressiva. A quel punto i governi che non hanno effettuato tamponi finirebbero dritti nel tritacarne, accusati di non aver adeguatamente monitorato la situazione.

Esiste la possibilità che un viaggiatore proveniente dalla Cina possa innescare un nuovo focolaio?

Il rischio esiste. Ma non riguarda soltanto un Paese, in questo caso la Cina, e, soprattutto, non lo si azzera facendo i tamponi a chi arriva in Italia dalla stessa Cina. Nel caso in cui oltre la Muraglia dovesse davvero circolare una variante molto aggressiva non basterebbe fare i tamponi solamente a chi viene da lì.

In che senso?

Fare i tamponi soltanto ai viaggiatori che arrivano dalla Cina, e non bloccare, ad esempio, chi viene dalla Cina, ma atterra in Italia dopo aver trascorso dieci giorni in Malesia o in Qatar, non azzera nessun rischio. Sarà questione di pochi giorni o al massimo settimane ma, nell’eventualità – ancora non accertata – che esista una variante pericolosa, prima o poi quella variante arriverà ugualmente anche da noi. Del resto questo virus ha raggiunto tutte le zone del mondo, anche i territori più remoti.

Quanto sta avvenendo in Cina può avere ripercussioni, nel medio e lungo periodo, sulla nostra catena di approvvigionamento farmaceutica?

Sì, ma la questione non riguarda soltanto i singoli farmaci ma anche le materie prime. Nessun Paese al mondo può realizzare qualcosa in ambito farmaceutico in totale indipendenza.

Si spieghi meglio

Immaginiamo che la filiera di un qualsiasi farmaco sia una catena. Ebbene, in questa catena c’è sempre un anello che si chiama Cina. È chiaro che l’urgente bisogno di un farmaco specifico in Cina possa creare un vuoto in Europa. Ma andrei oltre il farmaco. La Cina detiene la partenza di qualsiasi cosa. Restando nel nostro ambito, il vaccino non è formato soltanto dal principio attivo. Per fare vaccini e farmaci servono boccini, disinfettante, siringhe, plastica. Qualcosa di cinese c’è sempre in quello che serve. E in momenti di crisi acuta può rivelarsi problematico.

In Onda, Annunziata lascia a bocca aperta Aprile e Telese: "Perché frotte di cinesi in Italia". Giada Oricchio su Il Tempo il 04 gennaio 2023

Il Covid, la Cina, la volpe e i vaccini: così Lucia Annunziata ha stupito Luca Telese e Marianna Aprile, i conduttori del programma di LA7 “In Onda”. Il tema della puntata è Gryphon, la nuova variante di Sars Cov-2 che sta mettendo in ginocchio la Cina e in allarme l’Occidente. L’Italia è vigile anche se al momento non è prevista alcuna specifica misura di contenimento. La giornalista Rai ha osservato maliziosa: “Ma vi siete domandati come mai non appena si è riaperto tutto frotte di cinesi si sono precipitati in Italia?”, “Vengono a vaccinarsi” ha risposto di getto Marianna Aprile. E ha colto nel segno. Tant’è che la conduttrice di “Mezz’ora in più” ha replicato: “Certamente, ma certamente! In Cina c'è un problema di vaccini”.

L’analista geopolitico Dario Fabbri le ha dato ragione: “È vero, i loro sono meno efficaci”. Annunziata ha poi spiegato che la Cina ha un problema con la verità: “Ha sempre tenuto la volpe sotto il braccio, come direbbe Bersani. Cioè quando dici una bugia è come la coda della volpe che è lunga, quindi si vede, esce da sotto il braccio e si capisce”. Fuori di battuta, l’ex direttrice Rai ha criticato la mancanza di trasparenza da parte del governo di Xi Jinping: “I cinesi non hanno mai condiviso informazioni e questo non va bene. Al momento noi non sappiamo di cosa si tratta, quale variante è, mentre avremmo il diritto di sapere. L’altro problema è che i cinesi hanno mandato in Europa, con i permessi, un sacco di persone”.  

Fabrizio Cicchitto per “Libero quotidiano” il 2 gennaio 2023.

Se si fanno i conti con quello che è accaduto fra il 2019 e il 2020 a proposito del Covid esploso in Cina e poi propagato in tutto il mondo, è forte il dubbio che tutta la vicenda imperniata su Panzeri e il cosiddetto italian job, riguardante in primo luogo il Qatar, sia una sorta di storia di ladri di polli rispetto all'altra molto più grave che riguarda il chinese job per l'appunto sul Covid. Questa infatti coinvolge la salute e la vita di milioni di persone.

Ora, l'Oms ha coperto le responsabilità della Cina fin da quando da lì è partita la pandemia. Adesso sono la stessa Oms e l'ineffabile agenzia Ecde, Agenzia Sanitaria Europea, che cercano nuovamente di coprire le responsabilità cinesi. Entrambe queste strutture, che dovrebbero svolgere un ruolo di controllo, hanno di fatto dato ragione alla Cina, la quale ha protestato per «i test ingiustificati a cui vengono sottoposti i turisti cinesi» vista l'ultima ondata che ha investito il Paese e il timore che possa nuovamente propagarsi oltre i suoi confini.

Questa posizione dell'Oms deriva da un fatto incontestabile: la Cina si è impadronita dell'organizzazione che si occupa di sanità per conto delle Nazioni Unite dal 2006, quando la cinese Margaret Chan è diventata direttore generale e lo è rimasta fino al 2017. L'attuale direttore, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, è stato eletto con il decisivo sostegno cinese: quindi tutti i conti tornano per ciò che riguarda il comportamento ambiguo dell'Oms. Ora il governo cinese, che come detto protesta per il controllo esercitato attraverso i tamponi sui passeggeri degli aerei provenienti da Pechino, ha davvero una faccia di bronzo.

Non c'è ombra di dubbio che il Covid sia nato in Cina nella seconda metà del 2019, e che in una prima fase il governo cinese ha cercato di nascondere l'esistenza dell'infezione sia all'interno che all'estero, provocando la trasformazione di un contagio locale in una pandemia mondiale. Successivamente il governo cinese ha gestito la situazione in modo pessimo, usando nel contempo un proprio vaccino la cui copertura è molto bassa e ripetuti lockdown nelle grandi città.

Provvedimenti, questi ultimi, che alla lunga hanno esasperato la gente, che si è rivoltata ed è scesa in piazza. Allora Xi Jinping ha del tutto ritirato le restrizioni, provocando una nuova esplosione del contagio stesso. Che così in Cina ha raggiunto livelli tali che il governo di Pechino ha deciso di non fornire più le cifre del suo andamento, per cui è fortissimo il rischio che esso si propaghi all'estero senza che nemmeno sia stato verificato l'eventuale sviluppo di pericolose varianti non coperte dai nostri vaccini.

Per dare il senso della pericolosità della situazione c'è il fatto che, avendo giustamente la Regione Lombardia deciso di controllare attraverso ì tamponi i passeggeri provenienti da Pechino e atterrati all'aeroporto di Malpensa, è risultato che la metà di essi era portatrice di Covid. Ecco, il fatto che l'ingiustificata protesta del governo cinese abbia ottenuto la copertura dell'Oms, oltre che dell'Agenzia europea della sanità, mette in evidenza che oltre che Panzeri e il cosiddetto italian job, dovrebbe essere messo sotto un oculato controllo il job dei cinesi, che ha livelli di manipolazione e di pericolosità assai rilevanti.

Federico Rampini per corriere.it il 31 Dicembre 2022.

Abbiamo il diritto di chiedere al regime di Pechino molto più dei tamponi Covid imposti ai suoi viaggiatori in arrivo. Questa pandemia nacque in Cina sul finire del 2019. Colse il resto del mondo impreparato anche perché le autorità della Repubblica Popolare per mesi mentirono, dissimularono, insabbiarono. 

Non fu tanto un’operazione deliberata e pianificata dall’alto di disinformazione, quanto il riflesso automatico dei regimi autoritari che tendono a censurare le cattive notizie che li riguardano; problema aggravato dalla tendenza delle nomenclature periferiche (Wuhan) a nascondere a loro volta i fatti sgradevoli ai vertici supremi di Pechino. 

Non è un caso se i Paesi più efficaci nel contenere la pandemia furono quelli vicini alla Repubblica Popolare (Corea del Sud, Taiwan, Giappone, Singapore) e come tali “allenati” a non fidarsi delle versioni ufficiali del loro grande vicino. Quei Paesi avevano ricevuto un doloroso addestramento nel 2003 con l’epidemia della Sars, perciò arrivarono al test del 2020 più vigili di noi. 

Tra le ingenuità occidentali va pur menzionato che quando Donald Trump decise di bloccare gli arrivi dalla Cina, l’allora candidato Joe Biden lo accusò di «xenofobia», salvo cambiare parere qualche mese dopo. È uno di quei dettagli imbarazzanti che oggi pochi hanno l’onestà di ricordare. Sembra fare il paio con una reazione da Bruxelles che in questi giorni ha definito non necessari i tamponi per i viaggiatori dalla Cina. La stessa nazione che contagiò il mondo a partire dal primo focolaio del 2019-2020, ora rischia il bis con la riapertura repentina delle sue frontiere?

La nostra situazione sanitaria per fortuna è migliorata da allora. Dai vaccini preventivi alle terapie per i malati, dalla conoscenza delle autorità sanitarie al livello di preparazione degli ospedali e del personale medico, viviamo in un mondo che ha imparato molto per proteggersi. Aggiungiamo che molti di noi il Covid lo hanno avuto, proprio perché siamo stati più esposti della popolazione cinese; pur senza arrivare alla mitica immunità di gregge, abbiamo sviluppato delle difese naturali che i cinesi non hanno per via dei loro prolungati e rigidi lockdown. 

Non è cambiato però il problema fondamentale della nostra esposizione alla logica di un regime autoritario: la nomenclatura di Pechino ci informa solo quando vuole, se vuole. Nel 2020 le bugie iniziali di Pechino contribuirono a rendere l’Occidente vulnerabile e a ritardare le nostre reazioni.

Oggi la pubblicazione di dati sui contagi e i morti in Cina avviene secondo criteri opachi, imperscrutabili, pilotati dalla propaganda più che dall’imperativo di informare la cittadinanza e il resto del mondo. Siamo in una situazione in parte prevedibile e inevitabile. Prima o poi la Cina avrebbe dovuto uscire dalla morsa dei suoi lockdown con quarantene estreme. L’uscita dall’emergenza è stata solo accelerata dalle proteste popolari, e dal brutale rallentamento dell’economia. Ma in qualsiasi momento fosse avvenuto, l’esperimento di riaprire le frontiere avrebbe presentato nuovi rischi per il resto del mondo.

Neanche in Occidente abbiamo avuto una transizione perfetta e a rischio zero. Prima ancora di liberalizzare la vita a casa nostra, già gli esperimenti di lockdown e i vari livelli di precauzioni sanitarie (distanziamenti, mascherine) videro l’Occidente muoversi in ordine sparso nell’ultimo triennio, con risposte molto differenziate. 

Perfino all’interno degli Stati Uniti, la pandemia a New York o in California non è stata uguale a quella vissuta in Texas e in Florida. I bilanci sull’efficacia precisa di questa o quella misura sono ancora provvisori e la comunità scientifica continuerà a studiarli per decenni. Il nostro bilancio di morti è stato pesante, nessun sistema sanitario occidentale può dirsi promosso a pieni voti.

L’anomalia cinese rimane però, laddove al mondo si chiede di accogliere masse di turisti e visitatori, senza avere la minima visibilità su quanto accade dentro le frontiere della Repubblica Popolare. La «coesistenza pacifica» tra sistemi politici così diversi è un campo minato e stiamo per affrontare un nuovo test sui gradi di incompatibilità. 

L’esperimento di riapertura è complicato dal clima geopolitico in cui avviene. Vladimir Putin ha appena invitato Xi Jinping a Mosca, per cementare quell’amicizia personale, affinità di vedute, e alleanza economica, che rende la Russia molto meno isolata di quanto vorremmo, e molto più sicura di poter proseguire la guerra. 

Negli ultimi dieci mesi tanti osservatori occidentali hanno voluto cogliere dei segnali di distanziamento di Xi da Putin, spesso esagerando delle differenze di tono che sono sfumature. Mai c’è stata finora una vera divergenza tra Mosca e Pechino, tantomeno una condanna cinese della guerra di aggressione. La futura visita di Xi è stata preceduta da quella del super-falco russo Medvedev a Pechino. La Cina finora ha soltanto evitato di varcare la linea rossa delle forniture belliche alla Russia, però le opera di fatto attraverso il suo Stato-vassallo che è la Corea del Nord.

La gestione del post-pandemia non si può separare da questo contesto. Al G20 di Bali il presidente Biden ebbe un incontro bilaterale con il suo omologo cinese con un intento preciso: to agree to disagree, cioè trovare un accordo sul disaccordo. Pur riconoscendo la rivalità sistemica tra le due superpotenze, si tratta di raggiungere un modus vivendi, concordare delle regole che impediscano all’antagonismo di degenerare in conflitto.

Fra i terreni dove la cooperazione è obbligatoria ci sono due temi globali, il riscaldamento climatico e le pandemie. Xi al G20 è parso consenziente, in linea di principio. Salvo poi riaprire le frontiere ed eliminare le restrizioni lesinando le informazioni al resto del mondo. Attento solo alla gestione della sua immagine interna, con nessun riguardo verso la comunità internazionale. 

I governi occidentali reagiscono alla spicciolata. Perfino la precauzione minima che richiede i tamponi ai viaggiatori in arrivo è stata presa in ordine sparso, con la solita cacofonia. C’è di nuovo un ritardo, sia delle istituzioni europee che del coordinamento transatlantico o in seno al G7. Rischiamo di ripetere lo spettacolo del marzo 2020. Mentre dovremmo presentare un fronte unito nel chiedere a Xi informazioni complete, tempestive, precise e affidabili sull’evoluzione della pandemia dentro i suoi confini nazionali.

Dagospia il 30 dicembre 2022. CINA, L’UNTORE DEL MONDO - XI JINPING HA SBAGLIATO TUTTO SULLA GESTIONE DEL COVID E A PAGARNE LE CONSEGUENZE E’ IL PIANETA - DAI MISTERI SUL LABORATORIO DI WUHAN ALLA FOLLIA DELLA STRATEGIA “ZERO COVID”, LE BUGIE SUI DATI, I VACCINI MENO EFFICACI DI UN SUCCO DI FRUTTA, RISORSE ENORMI DILAPIDATE PER SISTEMI DI QUARANTENA E UN SISTEMA CAPILLARE DI LOCKDOWN - RISULTATO? OGGI LA CINA È IL FOCOLAIO PIÙ GRANDE DEL MONDO…

Gianluca Modolo per “la Repubblica” il 30 dicembre 2022. 

Un cambio di rotta era già nei piani della leadership comunista da mesi, con una riapertura, graduale, a partire probabilmente dalla primavera del 2023. Ma l'ondata di infezioni che ha iniziato a travolgere il Paese a novembre nonostante la strategia della tolleranza zero e le proteste senza precedenti che hanno scosso tutta la Cina un mese fa hanno contributo a dare una accelerata ai piani del Dragone. Una riapertura ora troppo repentina, però, senza una adeguata preparazione.

Pechino non poteva certo sacrificare la tenuta del Partito cercando di fermare un virus, il Covid, che ne stava pericolosamente alimentando un altro: quello della contestazione nelle piazze. In strada a Shanghai a fine novembre qualche coraggioso ha osato pure chiedere le dimissioni del segretario generale Xi Jinping. 

Il secondo aspetto riguarda i numeri ufficiali di contagi e decessi: verso la metà e la fine di novembre c'è il sospetto che le infezioni corressero molto più delle statistiche. Il Partito si era accorto che Omicron era più veloce dei lockdown e delle quarantene: rimodellare e di fatto abbandonare l'utopia dello zero-Covid "con onore", ribaltando la propaganda ufficiale e smettendo di comunicare i dati, era un modo per salvare la faccia dopo tre anni di "guerra del popolo" al virus con costi economici, e sociali, altissimi.

La via verso la riapertura era già stata tracciata, ma Xi ha dovuto premere sull'acceleratore. Le nuove ondate di infezioni di quest' autunno avrebbero potuto essere contrastate solo con chiusure nazionali così dure come quelle imposte ai 25 milioni di residenti di Shanghai per più di due mesi questa primavera. I costi economici sarebbero stati però enormi e il Paese era allo stremo.

Solo che inevitabilmente, con la popolazione che finora non era mai stata esposta massicciamente al virus, con un tasso di vaccinazione tra gli anziani basso, e con i richiami che sono partiti a rilento, il Covid ha trovato praterie qui, in questo che oggi è il focolaio più grande del mondo. Secondo un nuovo studio di Airfinity, appena pubblicato, in mancanza di dati ufficiali certi, i decessi sarebbero 9mila al giorno. 

Dal primo dicembre i morti avrebbero già superato i centomila, i contagiati sarebbero 18,6 milioni. Il primo picco di infezioni, secondo il report, ci sarà il 13 gennaio con 3,7 milioni di casi al giorno. Entro la fine di aprile si prevedono 1,7 milioni di morti.

Tre dosi di un vaccino cinese forniscono una protezione ragionevole contro le malattie gravi e la morte. Ma ancora molte persone sono state vaccinate così tanto tempo fa che l'efficacia del vaccino si sta esaurendo. Con l'aumento dei casi all'inizio di dicembre, la Cina ha intensificato gli sforzi. Il numero medio di dosi somministrate è passato da meno di 1 milione al giorno a oltre 3 milioni il 21 dicembre. Troppo in ritardo, però.

Perché il Paese in tutto questo tempo non si è preparato meglio, invece di spendere risorse enormi per sistemi di quarantena, tamponi quasi quotidiani obbligatori e un sistema capillare di lockdown? Per gran parte della pand emia la Cina è riuscita a controllare il virus cullandosi in un falso senso di sicurezza. Poco è stato fatto invece per prepararsi all'inevitabile ondata che sarebbe arrivata quando il Paese avrebbe posto fine alle restrizioni. Il tasso di vaccinazione tra gli anziani è ancora basso: soltanto il 40% degli over 80 ha tre dosi.

A differenza del resto del mondo, la Cina ha iniziato le sue campagne negli scorsi anni al contrario: prima le persone in età lavorativa. A questi si aggiungono gli altri problemi che affliggono il sistema sanitario cinese, come la carenza di posti letto per le unità di terapia intensiva. E l'ostinazione a non voler approvare l'importazione di vaccini a tecnologia mRNA. Nelle prossime settimane milioni di persone torneranno nelle loro città per il nuovo anno lunare. Diffonderanno il virus nelle aree rurali con sistemi sanitari poco efficienti. È probabile che si verifichino più ondate. Per quanto la situazione sia grave oggi in Cina, il vero banco di prova deve ancora arrivare.

Lorenzo Lamperti per “la Stampa” il 30 dicembre 2022.

Tre morti, un morto, zero morti. I dati ufficiali rilasciati quotidianamente fino a qualche giorno fa dalle autorità cinesi sulle vittime da Covid-19 mostravano una situazione rassicurante. Le autorità sanitarie hanno dichiarato ieri che l'ondata di contagi «ha già raggiunto il picco» in alcune città. La realtà appare diversa. Secondo Airfinity starebbero morendo ogni giorno circa 9 mila persone contagiate dal virus. 

Un numero raddoppiato rispetto a quello di una settimana fa e che porta la società di dati sanitari britannica a stimare un picco di casi di 3,7 milioni per il 13 gennaio e addirittura 1,7 milioni di morti entro aprile. Le autorità smentiscono previsioni così drammatiche, ma negli ospedali e nelle farmacie cinesi la situazione è spesso fuori controllo. A Nanchino, il Drum Tower Hospital ha la metà dei medici e infermieri positivi.

A Pechino diversi centri sportivi precedentemente utilizzati come centri di quarantena sono stati riadattati a pronto soccorso. In diversi video circolati sui social si vedono pazienti, molti dei quali anziani, coricati su barelle o lettini in atri affollati o vicino ad ascensori e aree pubbliche. 

Audio e altre testimonianze su WeChat raccontano di «flussi interminabili» di pazienti. Secondo Reuters, a dicembre le gare d'appalto indette dagli ospedali per l'acquisto di ventilatori sono state da due a tre volte più alte rispetto ai mesi precedenti. Grandi preoccupazioni anche per le province rurali, dove le struttura sanitarie sono più carenti. In tutto ciò, molti cinesi guardano all'estero per i vaccini. Il turismo vaccinale che si è creato nell'ex colonia portoghese di Macao potrebbe ripetersi altrove su scala maggiore.

Da gennaio le autorità riprenderanno a rilasciare e rinnovare passaporti. Negli scorsi tre anni venivano approvati solo viaggi d'affari urgenti e soggiorni di studio. Già in molti progettano viaggi che potrebbero avere non solo scopi turistici o di business ma anche sanitari, con la prenotazione di vaccini oppure l'acquisto di medicinali che in questo momento sono difficili da reperire nelle farmacie cinesi prese d'assalto dalla fine delle restrizioni. 

C'è chi immagina che si tratti di una valutazione fatta anche dal governo quando ha deciso di riaprire i confini. Il flusso internazionale di cittadini cinesi potrebbe portare a nuove tensioni politiche (con potenziali rischi di sinofobia verso i singoli come già accaduto a inizio 2020), soprattutto tra Cina e Stati Uniti. Ieri, Pechino ha chiesto di attenersi a «criteri scientifici» sui test d'ingresso imposti in diversi Paesi a chi proviene dalla Cina. Ma c'è anche chi intravede un'opportunità.

La Thailandia sta per esempio prendendo in considerazione l'ipotesi di offrire gratis la vaccinazione anti Covid ai turisti cinesi, per incentivare un flusso che ha sempre rappresentato un'entrata fondamentale per le casse statali. Se la proposta sarà approvata, la spesa per l'acquisto dei vaccini sarà a carico del ministero della Salute. In cambio, la prospettiva stimata da Bangkok di ricevere circa 5 milioni di turisti cinesi nel 2023.

(ANSA-AFP il 30 dicembre 2022) - Pechino insiste sul fatto che i dati pubblicati dalla Cina sui decessi per Covid-19 sono sempre stati trasparenti, riferiscono i media statali. Il rilascio di tutte le informazioni sui virus da parte di Pechino è stato fatto "nello spirito di apertura", ha detto un alto capo della Sanità in una conferenza stampa tenuta dal Consiglio di Stato cinese e citata dall'agenzia di stampa Xinhua. 

Un ente nazionale per il controllo delle malattie ha affermato che venerdì ci sono stati circa 5.500 nuovi casi locali e un decesso. Ma con la fine dei test di massa e il restringimento dei criteri per ciò che viene considerato come un decesso da Covid, si ritiene che quei numeri non riflettano più la realtà. Alcuni esperti stimano che potrebbero esserci fino a 9.000 morti al giorno.

"La Cina ha sempre pubblicato informazioni sui decessi e sui casi gravi di Covid-19 nello spirito di apertura e trasparenza", ha affermato Jiao Yahui della Commissione nazionale per la salute (Nhc) ai giornalisti. Jiao ha detto che la Cina conta i decessi per Covid-19 solo come casi di persone morte per insufficienza respiratoria indotta dal virus dopo essere risultate positive al test dell'acido nucleico, piuttosto che altri paesi che includono tutti i decessi entro 28 giorni dai test positivi. "La Cina è sempre stata impegnata nei criteri scientifici per giudicare i decessi di Covid-19, dall'inizio alla fine, che sono in linea con i criteri internazionali", ha affermato Jiao.

L'attacco del Global Times. Restrizioni in tutto il mondo, la Cina grida al sabotaggio: “Sporco trucco politico, ci diffamano”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

Preoccupa in tutto il mondo la fine della strategia Zero covid in Cina e il boom di contagi le cui dimensioni sono impossibili da cogliere. E a correre ai ripari sono Paesi in Asia come in Europa, gli Stati Uniti e l’Italia che ha previsto i tamponi obbligatori per tutti gli arrivi. E Pechino però non ci sta: è una specie di contrattacco quello scagliato dalle pagine del Global Times, il tabloid del partito del Partito Comunista cinese che afferma come “un piccolo numero di Paesi e regioni, come Usa e Giappone, vede la riapertura della Cina come un’altra possibilità per diffamare Pechino”.

Il giornale agita l’accusa di uno “sporco trucco politico” per “sabotare i tre anni di sforzi cinesi nella lotta al covid e per attaccare il sistema”. Dedicato all’Italia un passaggio, l’unico Paese che al momento in Europa ha imposto i tamponi obbligatori all’arrivo. E il Global Times attacca: “Sta imponendo test obbligatori per i viaggiatori che arrivano dalla Cina, eppure il suo governo ha detto che non è stata trovata alcuna nuova mutazione nei recenti arrivi”. Solo questa mattina il ministero della Salute ha diramato una nuova circolare in cui si definiva imprevedibile l’andamento della pandemia e in cui si delineava il piano da adottare in caso di peggioramento della situazione con mascherine al chiuso, smart-working, diminuzione di eventi di massa e accelerazione delle quarte dosi.

L’Unione Europea ha comunque invitato i Paesi membri a restare vigili considerati i pochi datti diffusi da Pechino e la bassa copertura vaccinale che è stata conseguita nel Paese. Sono questi gli aspetti più preoccupanti della situazione a oggi insieme, insieme con il timore della diffusione di nuove varianti. Secondo il Financial Times ci sarebbero stati 250 milioni di nuovi casi nei primi venti giorni di dicembre, il 18% della popolazione avrebbe dunque contratto il Covid. La versione di Pechino parlava di poco più di 60 mila contagiati e di appena otto decessi nell’ultimo mese.

Fuori dall’Europa sono stati diversi i Paesi ad adottare provvedimenti. Come il Giappone, gli Stati Uniti, l’India e Taiwan. A far scattare l’allarme lo stop della quarantena annunciato da Pechino a partire dall’8 gennaio. Preoccupa inoltre la data del 22 gennaio, quando si terrà il Capodanno lunare cinese.

La maggior parte dei Paesi in tutto il mondo ha accolto con favore l’iniziativa della Cina di aprirsi ai viaggiatori di tutto il mondo e di incoraggiare i cinesi a viaggiare all’estero, dopo che la battaglia contro il Covid-19 è entrata in una nuova fase” e “tuttavia, un piccolo numero di Paesi e regioni hanno imposto restrizioni di viaggio agli arrivi dalla Cina”, continua ancora l’editoriale del Global Times. “La Cina non ha mai smesso di monitorare le varianti prevalenti e non lascerà mai che nuove varianti non vengano segnalate”.

L’articolo inoltre cita le parole di un esperto che ha affermato. “È possibile che un’ondata di infezioni possa portare all’emergere di nuove varianti. Tuttavia, il recente aumento dei casi in Cina è solo una goccia nell’oceano rispetto al conteggio globale, ed è più probabile che la Cina debba affrontare nuove varianti provenienti dall’estero piuttosto che il contrario. Quindi le misure restrittive di quei Paesi, mirate solo agli arrivi dalla Cina, sono discriminatorie”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da milano.corriere.it il 30 dicembre 2022.

Si conferma vicino al 50 per cento il tasso di positività tra i passeggeri atterrati a Malpensa giovedì 29 dicembre con un volo proveniente dalla Cina. A comunicarlo l’assessore lombardo al Welfare, Guido Bertolaso, che ha reso noti i risultati dello screening sulle persone sbarcate nello scalo aeroportuale e che sono partite da Tianjin: «Sono 26 i tamponi risultati positivi ai 56 passeggeri. Ora, come per i restanti campioni del 26 dicembre, proseguiremo le analisi per il sequenziamento, augurandoci di trovare ancora varianti già presenti in Italia». 

Bertolaso: tamponi fino a gennaio

«Lunedì 2 gennaio — ha continuato Bertolaso — avremo i risultati del sequenziamento e potremo saperne di più. L’azione proseguirà fino alla fine di gennaio quando il campione raccolto sarà sicuramente più significativo. Questa è un’operazione di sanità pubblica per cercare di comprendere cosa arriva dal Paese asiatico, perché l’esperienza ci ha insegnato che anche in un campione modesto può prevalere una variante aggressiva e più contagiosa».

I Covid Hotel

Per quanto riguarda i Covid hotel, l’assessore ha fatto sapere che «al momento nessuno dei passeggeri positivi ha avuto l’esigenza di usufruirne: tutti avevano a disposizione un alloggio dove poter osservare l’isolamento». In particolare sono state individuate due strutture da mettere a disposizione qualora ce ne fosse bisogno. Una, già attiva, si trova a Monza, il B&B Hotel Milano-Monza, l’altra residenza è a Pogliano Milanese ed è in fase di contrattualizzazione.

Da repubblica.it il 30 dicembre 2022.

Gli ospedali e le pompe funebri cinesi sono sotto pressione per l’ondata crescente di COVID-19 che sta colpendo la Cina. Nel video ottenuto da Reuters le immagini dei malati curati in strada su letto e con ossigeno, perché gli ospedali sono stracolmi. Reuters ha verificato  in modo indipendente la posizione del video dalle strutture visibili sullo sfondo e  corrisponde  all’ospedale  Zhongshan affiliato alla Fudan University dalle mappe di Baidu.

Dopo aver tenuto i suoi confini quasi chiusi per tre anni, imponendo un regime rigoroso di blocchi e test incessanti, il 7 dicembre la Cina ha bruscamente invertito la rotta verso la convivenza con il virus e un'ondata di infezioni è scoppiata in tutto il paese. 

La società di dati sulla salute  inglese Airfinity stima che i morti di Covid in Cina siano  9.000 al giorno, dal 1° dicembre hanno probabilmente raggiunto quota 100.000, con infezioni per un totale di 18,6 milioni. Leggi: la situazione in Italia, i provvedimenti del Governo.

Rodolfo Parietti per “il Giornale” il 30 dicembre 2022.

Diceva Oscar Wilde che "quando gli dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere". L'aforisma non fa una grinza. Con la Cina, è semplicemente perfetto. Per mesi, mentre la Grande muraglia del lockdown teneva segregate milioni di persone, si è fatto il tifo perché riaprisse la Fabbrica del mondo. 

Da quei cancelli aperti dipendeva quali piega avrebbe preso il 2023, già segnato, ancor prima di nascere, dalle stigmate della recessione e dalla furia iconoclasta con cui le banche centrali stanno rottamando aiuti e tassi a buon mercato. L'euforia del 7 dicembre scorso, quando le rigide misure contro il Covid sono state allentate, è scemata, fino a scomparire, con l'aumento esponenziale dei contagi.

Un'incertezza che si mischia alla paura di ripiombare nell'incubo di un remake pandemico su amplissima scala e in una nuova depressione mondiale, è il tratto distintivo di questa coda d'anno. Nessun conforto arriva da Oriente, dove la situazione economica cinese racconta di un Paese, di fatto, ancora in piena paralisi. 

L'ultimo sondaggio compiuto dalla People' s Bank of China (Pbc) è drammatico e inquietante. Oltre la metà delle imprese interpellate lamenta danni da Covid; l'Ism di manifattura e servizi è sceso sotto la soglia dei 50 punti, a indicare una conclamata contrazione dell'attività. 

Mentre ristoranti, palestre, hotel e altri servizi cittadini sono a corto di liquidità, cresce la sfiducia fra i cinesi che temono di perdere il posto di lavoro e vedono crollare le prospettive di reddito. La sindrome da trincea è già scattata: in vista di tempi bui, si consuma di meno e dei risparmia di più. Con tanti saluti a quella ripresa della domanda interna, falcidiata dalle clausure draconiane, che dovrebbe costituire una colonna portante di una Cina non più solo sorretta dall'export. 

Poi, c'è il buco nero del settore immobiliare. Appena il 14% del campione ha confidato alla Pbc di attendersi un aumento dei prezzi delle case e solo il 16% ha dichiarato di volersi impegnare nell'acquisto di un immobile da qui ai prossimi tre mesi. Non potrebbe essere diversamente. I default di Evergrande, Sunac e China Resources Land hanno lasciato una voragine finanziaria - e di credibilità - difficile da colmare, malgrado le sei maggiori banche statali cinesi si siano dichiarate disponibili a offrire più di 925 miliardi di yuan (circa 125 miliardi di euro) per sostenere i promotori immobiliari.

Il quadro fatto di recente da S&P Global è da sprofondo rosso: mutui per un controvalore pari a 2.400 miliardi di yuan (320 miliardi di euro) sono a rischio di insolvenza, soprattutto a causa di edifici mai completati che hanno acuito la percezione di un segmento economico totalmente affidabile. E questo "sciopero delle rate" potrebbe far collassare del 33% la vendita di case, mettendo ulteriormente all'angolo gli sviluppatori e in seria difficoltà il settore bancario.

Nonostante tutto ciò, il "liberi tutti" di inizio dicembre ha provocato un'ebbrezza collettiva ai limiti dell'ubriacatura, con vaticini sulla crescita economica 2023 che oscillano dal 5,2% dell'Economist al +6% di PwC e con attese di pronte revisioni al rialzo delle stime (finora caute) di Fondo monetario internazionale (+4,4%) e Banca Mondiale (+4,3%). Con "Gryphon", l'ultima variante del Covid che già sempre svolazzare per il mondo, forse tanto ottimismo prematuro verrà meno. Per cui, val la pena di non dimenticare il "grifun" di De Andrè, quello che gira sempre attorno alla testa degli imbecilli.

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 29 Dicembre 2022.

Ci sono contraddizioni e tempi sconcertanti nel cambiamento di linea sanitaria da parte delle autorità di Pechino: per quasi tre anni, erano bastate poche decine di contagi per imporre lockdown a intere città, fino allo spegnimento totale del focolaio. Era la politica «Covid Zero», che tenendo chiuso il Paese inseguiva la cancellazione del coronavirus dal territorio nazionale. 

Ora che secondo stime filtrate dal governo della Sanità cinese i positivi sono esplosi a oltre 250 milioni (il 90% asintomatico, pare), il Partito-Stato ha annunciato la fine di ogni controllo, restrizione, tracciamento. A partire dall'8 gennaio, i cinesi potranno tornare a viaggiare nel mondo, per turismo o affari, senza dover scontare fino a due settimane di quarantena sorvegliata al ritorno. Liberi tutti e allarme internazionale. Al quale Pechino risponde rispolverando la frase usata già nel gennaio 2020: «Bisogna comportarsi in modo scientifico, per garantire sicurezza nella circolazione delle persone». La stessa motivazione scientifica invocata quando è stata la Cina a chiudersi al mondo.

Xi Jinping aveva definito il «Covid Zero» una «guerra popolare». Senza sconfessare quella formula, il 7 dicembre ha ordinato la ritirata dalla prima linea dell'intransigenza sanitaria. Ancora l'11 novembre, con meno di 10.000 positivi su una popolazione di 1,4 miliardi di abitanti, erano sottoposte a restrizioni nei movimenti e nelle attività industriali e commerciali 48 città della Repubblica popolare. Un costo sociale ed economico altissimo, che ha quasi azzerato la crescita della Cina.

In quei giorni, gli epidemiologi avvisavano Pechino che nel «Covid Zero» erano state bruciate enormi risorse, senza preparare una «strategia d'uscita» dall'emergenza, da fondare anzitutto sui vaccini. Il 23 novembre scoppiò una rivolta nella cosiddetta iPhone City di Zhengzhou, dove 200 mila operai erano costretti a lavorare in regime di quarantena. Poi una tragedia a Urumqi: dieci persone uccise nel rogo di un palazzone sigillato per il lockdown.

Tra il 26 e il 27 novembre, migliaia di cittadini scesero in strada da Shanghai a Pechino, gli studenti protestarono nelle università: non sopportavano più la vita sospesa, il lavoro danneggiato, l'impossibilità di viaggiare Per fermare il coronavirus si rischiava il virus della contestazione sociale. 

Ora si dice che già a fine novembre i contagi stessero correndo molto più di quanto le autorità di Pechino hanno mai ammesso. Il sospetto è che Xi abbia pianificato la ritirata dal «Covid Zero» dopo essersi resi conto che il fronte era stato scavalcato dall'ondata di infezioni. Si minimizzano i numeri dei decessi, per confermare che il Partito ha agito «scientificamente»: in tre anni, secondo la Cina ci sono stati 5.245 decessi, rispetto agli oltre 6 milioni nel mondo.

Giovanni Viafora per corriere.it il 29 Dicembre 2022.

Andrea Fenn, toscano di Prato, 36 anni, fondatore e Ceo di Fireworks, azienda di soluzioni tecnologiche e marketing per il mercato cinese. Da 13 anni vive a Shanghai, dove fa anche il ricercatore alla Laidan University. Ha sposato una cinese, parla mandarino. 

In Italia è tornata la preoccupazione per il Covid (e si testano i passeggeri in arrivo dalla Cina). Ma lì la situazione com’è?

«Nelle ultime due settimane, dopo la riapertura veloce e quasi inaspettata da parte del governo, c’è stata una crescita velocissima dei casi. E questa cosa ha preso tutti di sorpresa. Fino al 5 dicembre eravamo tutti obbligati a fare test giornalieri. Improvvisamente sono stati aboliti. C’è stata confusione all’inizio su cosa si dovesse fare. E oggi i contagi sono letteralmente esplosi».

Avete una misura ?

«Nei giorni in cui le autorità avevano annunciato la riapertura erano state diffuse delle stime sul raggiungimento del picco nelle varie località. Per Shanghai era stata indicata la data del 15 gennaio; ma l’impressione è che quell’apice sia stato già abbondantemente superato. L’Istituto per il Commercio Estero (l’ICE, ndr) mi ha detto pochi giorni fa che si parla di 15 milioni di casi accertati nelle ultime due settimane».

In tutta la Cina?

«Macché! Solo a Shanghai. Parliamo di oltre il 60 percento della popolazione. Un numero incredibile. Ma secondo la mia personale osservazione siamo ben oltre l’80 percento». 

Cioè?

«Noi in azienda siamo circa 60 persone, di queste hanno il Covid in 57. Solo due ragazzi non ce l’hanno avuto, sono quelli che vanno in giro spruzzando disinfettante ovunque. Ma lo prenderanno anche loro comunque». 

E lei?

«Io non ce l’ho al momento. Ma perché l’ho preso quest’estate quando sono tornato per la prima volta in Italia. Il Covid mi aspettava in aeroporto con il cappello e la scritta “benvenuto”. Essendo “vergine” dal punto di vista del virus, me lo sono preso subito. E non è stata una passeggiata, anche per me che sono sano. Comunque chi al momento a Shanghai non ha il virus o è asintomatico o se l’è già preso. Anche se in questo caso parliamo di una percentuale infinitesimale». 

In che senso?

«Perché in Cina il Covid non ha praticamente mai circolato. Mai. C’è stata una capacità incredibile del governo di contenere la diffusione della malattia. Mentre nel resto del mondo morivano i nonni e i parenti di tutte le persone che conoscevamo, noi abbiamo vissuto in un’isola felice». 

Scusi, ma le immagini di Wuhan le abbiamo viste tutti...

«Wuhan, appunto. Ma nel resto della Cina abbiamo vissuto in una sorta di apertura completa, con poche restrizioni interne. Il blocco totale era ai confini. Birmania, Thailandia... E naturalmente nella regione Ovest della Cina (dove vivono gli Uigiuri, ndr). Ma lì il governo univa l’utile al “dilettevole”, se vogliamo dire così: ovvero, usare il Covid per controllare la popolazione».

Poi però cosa è successo?

«Che è iniziata una sorta di fase 2. L’annus horribilis. Che ho vissuto personalmente. Da febbraio-marzo 2022. Con il lockdown nelle grandi città, Shanghai in primis all’insegna della strategia zero-covid. All’inizio le maglie erano larghe: io ho avuto la fortuna di non essere chiuso in casa, perché come sempre in Cina ci sono delle valvole di sfogo spesso tollerate. Ma poi c’è stato un giro di vite tremendo». 

Si spieghi.

«Da marzo in poi, compresa tutta l’estate. Una chiusura strettissima. Dovevamo testarci tutti dalla mattina alla sera. Per molte attività era richiesto addirittura un test al giorno per entrare. Senza alcuna eccezione. Poi il tracciamento, pervicacissimo. La Cina ha utilizzato un sistema basato sulla tecnologia e sui big data, in cui ha aiutato molto il fatto che le piattaforme social che si usano qui siano tutte prodotte e gestite da cinesi. Il sistema di tracciamento, che in Italia ha fallito, in Cina ha funzionato perfettamente».

A che costo?

«È stato oppressivo, la gente ha iniziato ad aver paura di scannerizzare il proprio qr code nei luoghi pubblici e privati per paura di essere indicato come contatto stretto (close contact) oppure addirittura come contatto stretto secondario (secondary close contact). Per cui eri costretto a stare in casa, oppure ad andare in uno degli alberghi indicati per l’isolamento. O peggio ancora ad andare in un centro Covid». 

E a lei è capitato?

«Mia moglie ad un certo punto è stata definita close contact e doveva finire in un centro Covid. Che vi raccomando... Non piacevole: una sorta di ospedale da campo, non pensato per trascorrere un soggiorno piacevole. Per fortuna siamo riusciti ad evitarlo, grazie ad una grande battaglia con i distretti, spinta anche dal fatto che fossi uno straniero. Ci siamo fatti 7 giorni chiusi in casa». 

Ma perché allora questa apertura improvvisa?

«Onestamente non ho capito. La narrazione era che l’apertura sarebbe arrivata dopo il congresso del partito comunista di novembre. E così è stato. Ma doveva essere graduale, come aveva prospettato anche JP Morgan. Invece è stata improvvisa. O almeno così noi la percepiamo».

La Cina nasconde i dati? Ci sono prove che il governo ha taciuto alcune verità durante la prima ondata, che potevano aiutare il mondo a contrastare il contagio.

«In Cina la percezione è che tante cose non siano ad appannaggio delle persone normali. È un fatto che esiste da sempre. L’intera struttura della società è i basata sull’asimmetria delle informazioni. Lo sviluppo economico cinese è la conseguenza dell’asimmetria delle informazioni. Per dire: poche persone sanno per esempio che un certo settore si sta per liberalizzare e si buttano a fare affari. Che i dati non siano quelli totali lo sanno tutti. Non esiste persona in questa nazione che creda che quello che venga detto non sia altro che la verità. Da un certo punto di vista quindi questa domanda per noi non ha senso. Ma noi non sappiamo neanche tutte le cose che il governo fa effettivamente. Se c’è stata una politica, una pianificazione». 

Lei si è vaccinato?

«Certo, con il vaccino cinese, l’unico che nei due anni è stato a disposizione. Salvo rare eccezioni di supermanager occidentali che si facevano mandare Pfizer dagli Stati Uniti o dalla Germania. Ma sono state eccezioni, appunto. Io ho fatto quello cinese». 

Non è che abbia funzionato molto...

«Difficile dirlo. La campagna vaccinale è effettivamente finita nel 2020/21, nell’ultimo anno praticamente non si è vaccinato nessuno. Perché in realtà la Cina aveva contenuto il virus in maniera talmente efficace che non c’è stato più bisogno di vaccinarsi. Lo sforzo si è spostato dalla vaccinazione al contenimento. Anche se questa in realtà è la colpa che molti analisti ora imputano al governo cinese. Ma non sappiamo come sarebbe andata diversamente».

Che significa?

«Che forse la politica del governo non era una follia. L’idea era che non ci si potesse permettere che in una nazione come la Cina un virus di cui si sapeva poco girasse incontrollato. Perché parlando di mortalità, è vero che oggi ci sono le file davanti ai becchini e che non si trovano i respiratori; ma non ci sono i morti agli incroci delle strade, cosa che sarebbe successo forse con una variante più grave. Ma non lo sappiamo». 

Non si trovano i respiratori?

«E neanche antivirali, il Paxlovid. Al nonno di mia moglie, che è finito in ospedale, il respiratore l’abbiamo comprato su internet. In Cina tutto si può comprare su internet. Si creano subito mercati paralleli, aree grigie. È un mondo complesso». 

In Italia c’è timore per le nuove varianti. Lì il virus che manifestazione sta dando? È una malattia che torna a colpire i polmoni?

«C’è una complicanza polmonare. L’esperienza diretta è che sia un’influenza molto pesante, non è una cosa che in due giorni sei al lavoro. Ed è una cosa che in persone che hanno problemi pregressi o anziani ha un impatto importante. Il nonno di mia moglie ha 97 anni. Dei miei 57 dipendenti con il Covid, al momento uno solo accusa complicanze».

Da “Il Sole 24 Ore” il 28 dicembre 2022.A partire dall’8 gennaio la Cina riprenderà l’emissione di nuovi passaporti ai propri residenti, sospesa dall’agosto 2021 salvo i casi di urgenza, e il rilascio di permessi di viaggio per Hong Kong, interrotto a inizio 2020.

 La decisione, annunciata ieri dall’Autorità nazionale dell’Immigrazione, a poche ore dalla clamorosa eliminazione del periodo di quarantena per l’ingresso in Cina, sancisce la definitiva apertura del gigante asiatico al mondo esterno dopo quasi tre anni di misure draconiane anti Covid accompagnate dall’invito pressante al miliardo e mezzo di abitanti a rimanere nel Paese.

E con l’apertura delle frontiere è tornata la paura che la pandemia possa avere una fiammata in seguito ai viaggi da un paese ad altissima circolazione: molte autorità sanitarie hanno quindi reintrodotto i test molecolari all’arrivo dalla Cina, anche in Italia, a Malpensa. 

Le novità hanno infatti provocato un immediato aumento di interesse dei cinesi per le destinazioni turistiche: la piattaforma di viaggi Ctrip ha registrato un incremento di dieci volte delle ricerche di popolari mete oltre frontiera, con in testa Macao, Hong Kong, Giappone, Thailandia e Corea del Sud; i dati di un’altra piattaforma, Qunar, hanno evidenziato un balzo di sette volte delle ricerche di voli internazionali mentre Trip.com ha detto che le prenotazioni di aerei per l’estero ieri segnavano +254% rispetto al giorno precedente, quello dell’annuncio della fine della quarantena.

Finora, infatti, pur non esistendo un divieto di recarsi all’estero, i viaggi sono stati di fatto disincentivati dalla necessità di rimanere isolati per giorni al rientro a casa, regola che cadrà appunto l’8 gennaio. 

L’apertura improvvisa della Cina nel momento in cui il virus dilaga senza freni preoccupa gli altri Stati e quindi il Giappone ieri ha per primo deciso di istituire nuovi controlli, stabilendo che da venerdì chiederà un tampone negativo ai viaggiatori in arrivo dalla Cina.

Il premier Fumio Kishida ha sottolineato che quanti avranno un test positivo saranno messi in quarantena per sette giorni in apposite strutture e i campioni prelevati verranno usati per sequenziamenti genomici. La massiccia diffusione di Sars-Cov-2 rischia infatti di creare nuove varianti. Per ora invece Bruxelles non prevede di introdurre test ma, ha detto un portavoce della Commissione, «se la situazione epidemiologica lo richiedesse, le misure relative al Covid-19 potrebbero essere reintrodotte in modo coordinato e seguendo un approccio basato sulle persone».

Nel frattempo, alcune autorità sanitarie si sono mosse: è già operativo e lo sarà fino al 30 gennaio a Malpensa lo screening con tampone molecolare di chi atterra da un volo proveniente dalla Cina. La procedura è stata richiesta dall’Ats dell’Insubria. 

Va detto che nelle scorse settimane, con le prime aperture, la paura del contagio ha frenato in Cina i movimenti interni, stando ai dati raccolti dall’agenzia Bloomberg. I 3,6 milioni di viaggi sulla metropolitana di Pechino, giovedì scorso, erano del 70% al di sotto il livello dello stesso giorno del 2019 e la congestione del traffico su strada il 30% del livello di gennaio 2021. Lo stesso drastico calo si è osservato in altre metropoli quali Chongqing, Guangzhou, Shanghai, Tianjin e Wuhan.

Gli economisti prevedono che al crescere di contagi e decessi - la società britannica Airfinity stima un milione di casi e 5mila morti al giorno - la produzione cinese tornerà a soffrire come nel periodo dei lockdown, per i rallentamenti causati dalle malattie dei dipendenti. Un segnale predittivo di quanto potrebbe presto verificarsi è stato fornito ieri dai dati sui profitti industriali. 

Nei primi 11 mesi del 2022 hanno registrato un declino del 3,6% rispetto all’anno precedente; a ottobre il calo relativo ai primi dieci mesi era stato del 3 per cento. Intanto alcuni marchi annunciano riduzioni di produzione: Tesla protrarrà nell’anno nuovo il calo di lavoro alla fabbrica di Shanghai ferma dal 20 al 31 gennaio e la cinese Nio taglierà i veicoli in consegna nel quarto trimestre.

(ANSA il 28 dicembre 2022) - I sospetti si accentrano sulla sottovariante XBB.1.5 del virus SarsCoV2, nota anche come Gryphon: potrebbe essere questo recente membro della famiglia Omicron fra le cause dell'impennata dell'epidemia di Covid-19 in Cina, accanto al rilascio delle misure di restrizione. Si tratta al momento solo di un'ipotesi, dice all'ANSA il virologo Francesco Broccolo, dell'Università del Salento, ma le coincidenze sono molte.

La stessa sottovariante, fra le ultime arrivate dell'ormai vastissima famiglia della variante Omicron, sembra infatti collegata al recente aumento dei ricoveri per Covid-19 negli Stati Uniti e in particolare a New York, dove la sottovariante XBB.1.5 è aumentata del 140% nell'ultimo mese registrando un tasso di ricovero ospedaliero Covid più alto, superiore rispetto a quello dell'ondata di Covid dell'estate 2021, dovuta alla variante Delta. 

"E' vero che in Cina si è passati in breve tempo da una politica di restrizione severa a un'apertura improvvisa, ma è anche vero che la popolazione ha ricevuto un vaccino, il Sinovac, con una somministrazione pari a 241 dosi per 100 abitanti, pari a quella del Regno Unito", osserva. 

Il vaccino si è dimostrato efficace al 66% nel proteggere dal contagio, dell'88% dai ricoveri, del 90% contro le forme gravi della malattie e dell'86% contro i decessi, secondo i dati recentemente pubblicati sul New England Journal of Medicine. Se la situazione dei vaccini non basta a spiegare l'incremento dell'epidemia in Cina, non è sufficiente nemmeno la fine delle restrizioni: "sta accadendo qualcosa di molto importante, il numero decessi per Covid è incontrollabile e finora - osserva Broccolo - si è solo accennato alla possibilità che circolino una o più nuove varianti".

Da leggo.it il 28 dicembre 2022.

Covid, ora è allarme contagi sui voli dalla Cina: all'aeroporto milanese di Malpensa, dei 120 passeggeri che viaggiavano sul volo Pechino-Milano atterrato nello scalo alle 18.55 del 26 dicembre, 62 sono risultati positivi al covid, pari al 52%. Sull'altro volo arrivato a Milano da Pechino nel giorno di Santo Stefano, la percentuale di positivi è stata del 38% (35 su 92 passeggeri). Nel pomeriggio il ministero della Salute ha reso obbligatorio il tampone per chi sbarca dalla Cina. 

Sono «numeri che - ha commentato l'assessore al welfare di Regione Lombardia, Guido Bertolaso - devono far riflettere». Anche se il tampone per chi proviene dalla Cina e atterra a Malpensa «non è obbligatorio ed è a pagamento (20 euro quello antigienico e 90 il molecolare, ndr), nessuno si è rifiutato di farlo», ha precisato Bertolaso. Rispetto alla condizione di chi è arrivato dal paese asiatico ha aggiunto che «tutti questi passeggeri non presentavano sintomi particolari. Non mostravano visibilmente sintomi di malattia».

Ministero: obbligo tampone per chi arriva da Cina

Da sabato 24 dicembre a oggi, il Ministro della Salute Orazio Schillaci ha seguito con attenzione l'esito dell'esecuzione dei tamponi sui passeggeri in arrivo a Malpensa provenienti dalla Cina e ha raccomandato il sequenziamento di tutte le varianti che possono emergere dai tamponi, rende noto il ministero. 

«Ho disposto, con ordinanza, tamponi antigenici Covid-19 obbligatori, e relativo sequenziamento del virus, per tutti i passeggeri provenienti dalla Cina e in transito in Italia». Lo annuncia il ministro della Salute, Orazio Schillaci. «La misura - spiega - si rende indispensabile per garantire la sorveglianza e l'individuazione di eventuali varianti del virus, al fine di tutelare la popolazione italiana. Riferirò più dettagliatamente nel corso del Consiglio dei ministri convocato oggi».

(ANSA il 28 dicembre 2022) "Ho disposto, con ordinanza, tamponi antigenici Covid 19 obbligatori, e relativo sequenziamento del virus, per tutti i passeggeri provenienti dalla Cina e in transito in Italia. La misura si rende indispensabile per garantire la sorveglianza e l'individuazione di eventuali varianti del virus al fine di tutelare la popolazione italiana. Riferirò più dettagliatamente nel corso del Consiglio dei Ministri convocato oggi". E' quanto dichiara il Ministro della Salute, Orazio Schillaci.

 Da adnkronos.com il 28 dicembre 2022.

L'ondata covid in Cina spaventa. I contagi, nel paese da cui è partita la pandemia nel 2020, sono in rapido aumento dopo l'abbandono delle restrizioni. Il tema finisce sotto i riflettori e cattura l'attenzione anche degli esperti in Italia. "E' necessario non farsi trovare impreparati rispetto a quello che potrebbe succedere", avverte il virologo Fabrizio Pregliasco, commentando all'Adnkronos Salute il ritorno del tampone molecolare per la ricerca di Sars-CoV-2 all'aeroporto di Milano Malpensa, per tutti i passeggeri/operatori provenienti dal Paese asiatico.

"E' giusto il potenziamento dei controlli rispetto ai viaggiatori in arrivo dalle aree interessate", afferma il docente dell'Università Statale di Milano, che sollecita anche "l'incremento della sorveglianza virologica, con monitoraggio e sequenziamento virale". Perché la situazione cinese "magari è qualcosa che non avrà conseguenze - ragiona Pregliasco - però una diffusione così ampia e veloce, in un contesto in cui tante nuove varianti possono emergere, va tenuta assolutamente a bada con interventi istituzionali e internazionali", precisa il medico. Il suo invito è a "mantenere alta l'attenzione, con un ruolo che deve essere anche dell'Europa e dell'Organizzazione mondiale della sanità", auspica.

Il tutto "proprio per non farci trovare impreparati - ripete Pregliasco - in un'ottica di 'pre-occupazione', senza isterismi o negatività e sempre con un richiamo all'importanza della vaccinazione. Stiamo sereni e tranquilli, riprendiamo la nostra vita perché abbiamo battagliato per anni - conclude - ma restiamo vigili".

 "La situazione Covid in Cina a me preoccupa moltissimo: sono un miliardo e mezzo di persone e, con un virus che contagerà probabilmente il 50% circa della popolazione, si pensi a quanti giri farà questo patogeno. Il rischio è di avere un 'fuoco di ritorno' delle persone che viaggeranno e arriveranno qua e che magari potranno portare delle varianti più contagiose, anche se speriamo non più pericolose. Del resto, però, se una variante è resistente alle vaccinazioni è automaticamente più pericolosa e mi auguro che tutto questo non succeda", dice Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive del policlinico San Martino di Genova.

"Ci vuole, a mio avviso, un intervento urgente da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e di tutto il mondo per dare una mano alla Cina in questo momento, mandare dei vaccini che funzionano e dei farmaci, degli antivirali. Credo sia arrivato il momento di farlo, perché il mondo è globale e, se le cose vanno male in una parte del globo, rischiano di ritornarci indietro in forma anche peggiore", conclude.

"La Cina paga un prezzo per aver fatto una strategia diversa da tutto il resto del mondo, quella dello 'zero Covid', in accoppiata con un vaccino inefficace", è la riflessione del virologo Massimo Clementi. "Zero Covid e un vaccino non efficace come quello che hanno fatto i Paesi occidentali - spiega all'Adnkronos Salute - e adesso la Cina paga un prezzo di infezione, ma non è chiaro ancora quanto alto in termini di malattia grave. E speriamo che questo non determini un cambiamento genetico del virus", dice l'esperto che ha diretto per anni il Laboratorio di microbiologia e virologia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. 

Il pericolo di una nuova variante, che nasca sull'onda dell'elevata circolazione del virus in una popolazione da 1,5 miliardi di persone, c'è. Ma se dovesse succedere, "finché la variante rientra nell'ambito della famiglia Omicron non credo che ci sia un grosso rischio", evidenzia Clementi.

"Il problema della Cina è che è tutto un po' sfumato dal fatto che non capiamo bene" la situazione, osserva lo specialista. "Perché prima c'è questa volontà draconiana di perseguire Zero Covid e adesso, improvvisamente con uno schiocco di dita, tutti liberi. Questo oggettivamente sembra un po' singolare. Ci sono delle motivazioni, ovviamente: si sono accorti che l'approccio ha isolato la Cina, anche economicamente. Tutto questo, però, non è avvenuto in un momento soltanto, è avvenuto nel tempo. Ed è un po' singolare - conclude Clementi - che per un Paese così grande ci sia una decisione così improvvisa" di virare le politiche anti-Covid dalla chiusura totale all'apertura.

Stretta sul Covid. Tampone obbligatorio per i voli dalla Cina: a Malpensa è positivo quasi uno su due. L’Inkiesta il 29 Dicembre 2022.

Ordinanza firmata ieri dal ministro della Salute Orazio Schillaci. In Lombardia i test volontari, su richiesta dell’assessore Guido Bertolaso, erano iniziati già a Santo Stefano: «Tra i tamponi positivi, sono stati scelti i 15 con la carica virale più alta e sottoposti al sequenziamento» per scoprire la presenza di nuove varianti del Covid 19

Sembra di tornare indietro nel tempo, al 2020. Quando il resto del mondo cominciò a blindarsi, illudendosi di poter evitare l’arrivo del virus ancora misterioso proveniente dalla Cina. Succede di nuovo, mentre nel Paese che ha all’improvviso abbandonato la politica «Covid Zero» i contagi da Sars-CoV-2 sono esplosi. L’allarme è scattato negli Stati Uniti, dove dal 5 gennaio si volerà dalla Cina solo con tampone negativo preventivo. E l’Italia ha fatto un passo simile con un’ordinanza firmata ieri dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, che prevede tamponi antigenici obbligatori e relativo sequenziamento del virus a campione per tutti i passeggeri in arrivo dagli scali della Repubblica popolare e in transito in Italia. Misura che per il ministero si rende indispensabile «per garantire la sorveglianza e l’individuazione di eventuali varianti».

«La Lombardia ci ha visto lungo, forse perché è stata la Regione che ha pagato il prezzo più alto nella prima ondata», dice al Corriere Guido Bertolaso, assessore al Welfare lombardo, rivendicando con orgoglio di essere stato il primo a (ri)proporre il tampone anti-Covid a chi arriva da Pechino. Il test è tornato a Malpensa il 26 dicembre. Ora il ministro della Salute Orazio Schillaci l’ha reso obbligatorio in tutti gli aeroporti.

A quasi tre anni da quel 2020, «oggi sarebbe imperdonabile un ritardo o una scarsa attenzione verso i segnali che riceviamo dall’Oriente», dice. L’avvio dello screening è stato comunicato solo martedì, mentre i test sono cominciati a Santo Stefano. «È stata una mia decisione», spiega Bertolaso. «Ho scelto di avviare l’attività di testing senza diffondere l’informazione perché volevo capire se ci trovavamo di fronte a un problema vero oppure no: una prudenza per evitare di diffondere preoccupazioni eccessive. Dopo aver proposto il tampone ai passeggeri dei primi due voli, abbiamo subito comunicato i risultati. Devo dire che la nostra non è stata un’iniziativa azzardata né sbagliata: sono emersi 97 positivi su 212 testati, quasi uno su due».

Sono «turisti cinesi o residenti in Italia, ma di origine cinese. Il 75 per cento di loro era diretto verso una meta non lombarda, il 16 per cento invece a Milano o nell’hinterland. Nella maggior parte dei casi hanno un’età compresa tra i 16 e i 65 anni». Sintomi? «Pochi o assenti». Ora si trovano «in isolamento ed è stato avviato il tracciamento dei loro contatti stretti». E si attendono i risultati del sequenziamento: «Tra i tamponi positivi, sono stati scelti i 15 con la carica virale più alta e sottoposti al sequenziamento».

Intanto, l’ambasciata cinese a Roma, interpellata dall’agenzia Ansa, già si raccomanda che «le misure di prevenzione all’epidemia siano appropriate, senza sfavorire i normali scambi tra le popolazioni».

I visitatori positivi dovranno rispettare l’isolamento fiduciario e impegnarsi a restare a casa se asintomatici o con pochi sintomi per sette giorni. Ricovero per i più gravi come prevede la Regione Lazio. I giorni scendono a 5 con le norme inserite nella legge sui Rave party, cui seguirà una circolare del ministero.

Il rischio per gli italiani sembra inferiore rispetto alle prime ondate pandemiche. Gran parte della popolazione è protetta da almeno tre dosi di vaccini efficaci, in grado di ridurre il rischio di malattia grave. Da noi la variante Omicron, pericolosa per i cinesi, immunizzati malamente con vaccini poco funzionanti, circola da un anno, con tutte le sue sotto varianti simili quindi poco minacciose.

Il mondo comunque sta alzando le barriere. Oltre che negli Stati Uniti e in alcuni Paesi Europei l’allarme si diffonde in tutti i continenti. Alcuni governi hanno già adottato provvedimenti restrittivi: in Giappone (colpito da un’ondata di contagi e un numero di morti mai registrati prima), come in India e Malesia le autorità sanitarie si sono allineate sulla linea dei tamponi obbligatori. Così anche a Taiwan.

La Francia è pronta «a studiare tutte le misure utili da applicare» in collaborazione con i partner europei. In Italia l’opposizione chiede a Schillaci di riferire in Parlamento. L’ex ministro della Salute Roberto Speranza attacca: «Fallita la politica Meloni di fingere che il Covid sia finito e che dei vaccini si possa fare a meno».

Cina, il nuovo esperimento sul Covid tiene il mondo col fiato sospeso. Xi Jinping ha allentato la politica “zero Covid”ma si sta prendendo rischi molto grossi. Federico Rampini / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Il mondo intero deve tenere il fiato sospeso per il nuovo esperimento che si aperto sul Covid. Xi Jinping ha finito per piegarsi alle richieste popolari e ha cominciato ad allentare la politica “zero Covid”. Ma si sta prendendo rischi molto grossi. Smentisce se stesso (aveva promesso di mantenerla completamente immune dal contagio) ma ora per rendere ‘normale’ la vita dei cinesi deve esporli. Noi abbiamo avuto lockdown, tanti morti, buoni vaccini: ci stiamo avvicinando ad una sorta di immunità collettiva fatta di vari aspetti. I cinesi hanno pessimi vaccini, una popolazione poco esposta alla malattia perché sottoposta a lockdown rigidissimi e un sistema sanitario malconcio. Si parla già di pronto soccorsi oberati, di obitori dove arrivano numeri inusitati di salme. Il regime farà di tutto per nascondere che il Covid uccide anche su scala di massa: questo consentirà all’economia cinese un ritorno alla produzione normale? 

Bertolaso: «Ho aspettato a parlare dei test per evitare il panico. Analisi su 15 campioni per riconoscere le varianti». Sara Bettoni su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.

L'assessore al Welfare della Regione Lombardia ha introdotto per primo gli screening in aeroporto per chi torna dalla Cina. «Uno su due positivo. Visti i risultati non è stata un'iniziativa sbagliata»

«La Lombardia ci ha visto lungo, forse perché è stata la Regione che ha pagato il prezzo più alto nella prima ondata». Guido Bertolaso, assessore al Welfare dall’inizio di novembre, rivendica la scelta di aver (ri)proposto per il primo il tampone anti-Covid a chi arriva dalla Cina.

Il test è tornato a Malpensa il 26 dicembre, a tre anni dalla comparsa ufficiale del Covid in Italia. Ora il ministro della Salute Orazio Schillaci l’ha reso obbligatorio in tutti gli aeroporti.

«Direi che l’esperienza conta. Lo dico da uomo abituato a gestire le emergenze. Non posso che valutare positivamente la decisione del ministro Schillaci di imporre l’obbligo. Un’iniziativa che va nella direzione della tutela della salute dei cittadini e che ci permetterà di monitorare l’evoluzione della “situazione Covid”».

Quando è salito il livello d’allerta?

«Le informazioni che circolavano sulla Cina erano allarmanti. Per capire che cosa stesse davvero succedendo, abbiamo deciso di controllare i passeggeri che arrivavano da lì. Abbiamo informato il governo, che ha preso in considerazione il nostro lavoro. Si sta facendo un buon gioco di squadra».

Diversamente dal rimpallo di responsabilità che si è visto in passato. Ora l’Italia ha imparato?

«Forse gli altri. Io ho sempre pensato che si debba collaborare nelle emergenze: bisogna analizzare i fatti, immaginare lo scenario peggiore e adottare tutte le misure per evitarlo».

Nel 2020 non è andata così?

«Le incertezze nella prima ondata sono giustificabili, anche se non ci possiamo dimenticare alcuni personaggi del governo che dissero: “La mascherina? Io non la metto”. La seconda poteva essere gestita meglio: lì forse qualche responsabilità c’è. Oggi sarebbe imperdonabile un ritardo o una scarsa attenzione verso i segnali che riceviamo dall’Oriente».

L’avvio dello screening è stato comunicato solo martedì, mentre i test sono cominciati a Santo Stefano. Perché non dirlo subito?

«È stata una mia decisione. Ho scelto di avviare l’attività di testing senza diffondere l’informazione perché volevo capire se ci trovavamo di fronte a un problema vero oppure no: una prudenza per evitare di diffondere preoccupazioni eccessive. Dopo aver proposto il tampone ai passeggeri dei primi due voli, abbiamo subito comunicato i risultati. Devo dire che la nostra non è stata un’iniziativa azzardata né sbagliata: sono emersi 97 positivi su 212 testati, quasi uno su due».

Identikit dei contagiati?

«Turisti cinesi o residenti in Italia, ma di origine cinese. Il 75 per cento di loro era diretto verso una meta non lombarda, il 16 per cento invece a Milano o nell’hinterland. Nella maggior parte dei casi hanno un’età compresa tra i 16 e i 65 anni».

Sintomi?

«Pochi o assenti».

Ora dove si trovano?

«In isolamento ed è stato avviato il tracciamento dei loro contatti stretti».

A quando gli esiti delle analisi?

«Questione di ore. Tra i tamponi positivi, sono stati scelti i 15 con la carica virale più alta e sottoposti al sequenziamento. Appena disponibili, comunicheremo i risultati al ministero».

Timori?

«Mi auguro che non emergano varianti nuove e più aggressive».

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pd è morto. I liberaldemocratici si sono venduti per qualche briciola”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 29 Marzo 2023

Capigruppo, Schlein esclude completamente i liberaldemocratici, che ora si disputeranno qualche briciola nella segreteria. Sua maestà Elly non si si prende solo i voti di Conte, ma anche la sua bandiera”. A dirlo Andrea Marcucci, esponente di spicco di Base Riformista e già alla guida del gruppo dem a Palazzo Madama.

Nessuno dimentica quando ha lasciato il posto da capogruppo alla Malpezzi e le critiche sul metodo adottato. Da allora a oggi cosa è cambiato?

La vicenda che mi ha riguardato ha avuto altre dinamiche, diciamo di carattere più personale e mi riferisco a chi le ha fatte, Enrico Letta. La nuova segretaria, invece, corona un traguardo raggiunto, dimenticandosi che non ha vinto nel voto degli iscritti e che nelle primarie il suo competitor ha preso circa il 47 per cento.

Schlein, con queste scelte, compatta il partito o lo divide ulteriormente?

Schlein esclude completamente i liberaldemocratici, che ora si disputeranno qualche briciola nella segreteria. È stata stabilita la netta prevalenza dell’origine socialdemocratica sulle altre che pure hanno fondato il Pd. Mi riferisco a quella liberaldemocratica appunto e a quella popolare.

La segretaria avrà possibilità di recuperare lasciando anche qualche casella a mozioni, che pur essendo minoritarie, sono importanti, come nel caso di Base Riformista?

Mi pare che sia una operazione del tutto residuale, una sorta di opposizione di sua maestà, senza alcuna pretesa.

Il problemi del Pd si risolvono con la solita spartizione di poltrone?

Le poltrone non c’entrano, il Pd si è sempre retto, dal Lingotto in poi, sull’equilibrio delle culture di provenienza. Io sono stato un fondatore del Pd e la mia esperienza precedente era stata nel Pli, Rutelli veniva dai Radicali, poi dai Verdi e dalla Margherita, Fassino dai Ds. Ricordo, con rimpianto, che al Pd di Veltroni aderì anche Valerio Zanone, mio antico maestro.

Il Pd sta confermando nei fatti di essere un partito di sinistra. La sorprende il fatto che ruba voti soprattutto al M5S e non alle destre?

Ottimo prendere i voti dei 5 Stelle, questo è certamente un fatto positivo, ma io ho paura che il Pd assuma anche le bandiere di Conte. Un partito di opposizione dovrebbe pensare costantemente a come vincere le prossime elezioni e nel frattempo costruire un programma alternativo di governo.

Con questo tipo di partito e con questa linea un pò autoritaria, non si rischia la scissione. Sono aumentati o diminuiti i mal di pancia rispetto a qualche giorno fa?

Non faccio previsioni, parlo di me. Certo è evidente che abbia un forte disagio. La segretaria prima o poi uscirà dalla vaghezza e si esprimerà sui contenuti, che attualmente mi sembrano affrontati in modo del tutto superficiale.

Il nuovo partito di Renzi e Calenda, ad esempio, non potrebbe essere il pilastro per dare uno scossone al campo moderato?

Trovo che sia un fatto salutare la nascita di un partito unico dei liberali e dei popolari. Con un Pd spostato a sinistra e con Forza Italia così in difficoltà, è chiaro che si apra un grande spazio politico.

La necessità in questo momento è avere dei partiti identitari?

Il Pd è stato il tentativo di andare oltre e di mischiare le origini e le culture. Questo è stato il suo forte, la capacità di parlare ad un elettorato interclassista, stando attento alla crescita economica, ma anche ai disagi della società.

A suo parere, quanto durerà la cosiddetta “luna di miele” dovuta alla vittoria delle primarie. Sarà davvero lei l’anti Meloni?

Le lune di miele ormai durano poco, bisogna entrare nel vivo dei problemi e dare delle risposte anche dall’opposizione. Vedremo.

Su alcuni temi caldi, come quello dei migranti, più volte ha manifestato sostegno alla Meloni, pur bocciando le iniziative della Lega. Su temi come questo l’opposizione dovrebbe collaborare con chi è al governo?

La Meloni sta incassando una serie di brucianti sconfitte in Europa, dai migranti alle auto green. Sui diritti, i passi indietro sono tanti e preoccupanti. Non credo in una opposizione ideologica, ma in una concreta, al servizio del Paese. Comunque mi sembra un esecutivo di scarso livello e pessimo, anche oltre le previsioni.