Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
L’AMMINISTRAZIONE
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’AMMINISTRAZIONE
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Insicurezza.
La Burocrazia.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Viabilità e Trasporti.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Disuguaglianza.
Il Welfare: Il Sistema Pensionistico ed Assistenziale.
I Patronati.
Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Il Reddito di Cittadinanza.
Lavoro saltuario: il Libretto di famiglia.
Il Lavoro Figo.
Il Lavoro corto.
Il Lavoro umile.
Il Lavoro sottopagato.
Alternanza scuola-lavoro.
Il Licenziamento.
I Martiri del Lavoro.
Alti e Bassi.
Il Dna.
La Cura.
La Cura Digitale.
La Politerapia.
L’omeopatia.
Il Tumore.
La SMA Atrofia Muscolare Spinale.
La SLA Sclerosi Laterale Amiotrofica.
La Sclerosi Multipla.
Il Diabete.
La pressione alta.
Il Cuore.
Il Fegato.
La Sterilizzazione.
La Disfunzione Erettile.
L’Ernia inguinale.
Il Fibroma e le Cisti ovariche.
L’Eclampsia.
La sindrome del bambino scosso.
Cefalea ed Emicrania.
L’Insonnia.
CFS/ME (Sindrome da Stanchezza Cronica).
Fibromialgia.
L’Astenia.
La Podofobia.
L’Ictus.
Longevità e invecchiamento.
La Demenza Senile. L'Alzheimer.
Il Parkinson.
L’Autismo.
La sindrome di Pandas.
Sindrome di Gilles de la Tourette.
Lo Stress.
Lo Svenimento.
Cinetosi: mal d’auto.
L’Insolazione.
La Vista.
L’Udito.
I Dolori.
Il Mal di pancia.
Malattie virali delle vie aeree.
I cattivi odori.
Il Respiro.
L’Asma.
L’Acetone.
L’Allergia.
La Vitiligine.
L’Epilessia.
La Dermatite.
La Scarlattina.
La Setticemia.
Formicolio alle mani.
La sindrome autoinfiammatoria VEXAS.
La Psoriasi a placche.
Il Colesterolo.
Effetti del Parto. Diastasi addominale.
Malattie sessuali.
La Dieta.
Bulimia, anoressia, binge eating: quali sono i disturbi alimentari più diffusi.
Il Soffocamento.
Il Movimento.
L’Artrosi.
Osteoporosi.
Piedi piatti.
La Scoliosi.
INDICE QUARTA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Covid ed il Fallimento del Sistema Sanitario Nazionale.
Il Covid e le sue Varianti.
Le Origini del Covid.
Lo stigma dei covidizzati.
Io Denuncio.
Io Ricordo.
Protocolli sbagliati.
Morti per…morti con..
Vaccini e Cure.
I No Vax.
Gli Esperti.
Le Fake News: le Bufale.
Cosa succede in Puglia.
Cosa succede in Lombardia.
Cosa succede in Veneto.
Cosa succede nel Regno Unito.
Cosa succede in Cina.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’AMMINISTRAZIONE
TERZA PARTE
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Disuguaglianza.
Antonio Giangrande: Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.
LA POVERTA’
Esser povero conviene
“Chiedi e ti sarà dato”
Disse Gesù se ti sorviene
“Cercate e troverete” ha annunciato
“Bussate e vi sarà aperto” è l’andirivieni
Se hai fame sarai saziato
Tanto qualcun altro interviene
Non hai un tetto troverai un casato
Il lavoro non lo cerchi e non viene
Tanto qualcun altro è tartassato
Da imprenditore lo Stato tutto si trattiene
Da operaio non vieni pagato
Tutto è gratis senza catene
Mantenuto, finanziato ed esentato
La ricchezza l’onestà non tiene
I ricchi son ricchi perché han rubato
Questo dogma si mantiene
Il povero è onesto nato
Ma non tutti la povertà contiene
I veri poveri han tentato
Se non hai qualcuno che interviene
Non a tutti vien donato
Esser comunisti è un bene
Tutto è mio e non viene dato.
Antonio Giangrande (scritta il 19 gennaio 2023)
Antonio Giangrande: Michela Murgia, l'ultimo delirio: "Il momento della lotta di classe", ecco come vuole impoverirci tutti. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. Marx e Saviano, ecco i riferimenti ideologici di Michela Murgia. Lo ha esplicitato ieri lei stessa al Festivaletteratura di Mantova. «Le battaglie femministe oggi sono vitali, così come quelle Lgbt e contro la razzializzazione delle persone. Ma la lotta di classe, più trasversale di altre, è quasi assente. Spero ci sia un movimento forte che si batta contro le differenze economiche». La sinistra riscopre dunque il suo odio anti-ricchi. Insieme al disprezzo per la famiglia. «Saviano», continua la Murgia, «ha detto che le mafie finiranno quando finiranno le famiglie. Mi chiedo anche io se sia possibile ripensare la società, mettendo in discussione il concetto di famiglia».
La povertà è fame: sei impossibilitato a sfamare te e la tua famiglia.
La povertà è solitudine: non puoi avere una famiglia.
La povertà è emarginazione: non puoi avere amici.
La povertà è sporcizia: sei impossibilitato a lavarti e ad adottare le più elementari forme di igiene.
La povertà è vivere senza un tetto o in abitazioni insalubri.
La povertà è vivere con vestiti logori e sporchi.
La povertà è malattia: sei impossibilitato a curare te e la tua famiglia.
La povertà è ignoranza: non puoi far studiare te e i tuoi figli per migliorare il futuro.
La povertà è sopraffazione: non puoi difenderti da accuse penali infamanti.
La povertà è staticità: non puoi viaggiare per fuggire.
La povertà è non avere potere e non essere rappresentati adeguatamente.
La povertà è mancanza di libertà e di dignità.
La povertà è silenzio: nessuno ti scolta, anche se hai tanto da insegnare.
La povertà assume volti diversi, volti che cambiano nei luoghi e nel tempo, ed è stata descritta in molti modi.
La povertà è una situazione da cui la gente vuole evadere con qualsiasi mezzo e compromesso.
La povertà è essere indifeso, quindi vittima di sopraffazione ed ingiustizie altrui.
Per capire come si può ridurre la povertà, per capire ciò che contribuisce o meno ad alleviarla e per capire come cambia nel tempo, bisogna vivere la povertà. Dato che la povertà ha tante dimensioni, deve essere osservata mediante una serie di indicatori; indicatori dei livelli di reddito e di consumo, indicatori sociali ed anche indicatori della vulnerabilità e del livello di accesso alla società e alla vita politica. Una forte incidenza della povertà si associa al basso titolo di studio o al basso profilo professionale e, come è naturale, anche, per i casi di disoccupazione.
Odiare i poveri è una parte integrante della nostra società malata. A partire dagli anni Settanta è diventato di moda prendersela con le forme di welfare e accusare chi ne usufruisce di non avere voglia di lavorare o di essere un truffatore. Proprio come avvenuto di recente con l'abolizione del reddito di cittadinanza. Roberto Ciccarelli su L'Espresso il 28 novembre 2023
Insultare i poveri, il catalogo è ricco: miserabili, debosciati, buoni a nulla, lazzaroni, residui umani, abbrutiti, feccia. Questa non è solo cronaca nazionale. È una storia globale che dura da secoli e ha riscosso un grande successo mediatico, e tra i politici, a partire dagli anni Settanta. (…)
Questa è la storia delle welfare queens, le «regine del welfare». Il nomignolo infamante emerse nel corso degli anni Sessanta negli Stati Uniti dalle colonne del Reader’s Digest e di Look, riviste scandalistiche specializzate in storie sensazionali di madri che «sfruttavano il sistema». Fu adottato, e trasformato in un’arma politica, da Ronald Reagan nella sua prima campagna presidenziale nel 1976. Qualcosa era accaduto nel frattempo. Due anni prima Linda Taylor, processata per rapimento di bambini e sospettata di omicidi non provati, fu accusata di avere usato due pseudonimi per ottenere 23 assegni sociali.(...)
Dalla sua storia criminale è stato estratto un dato secondario, ma centrale per una delle più feroci, e riuscite, battaglie contro l’idea di Stato sociale negli Stati Uniti. Il messaggio era: rubare i soldi dell’assistenza sociale ha la precedenza sui rapimenti e sugli omicidi.(...) Da allora questa forma dell’odio dei poveri ha fatto una lunga strada. Si è incarnato nel fantasma del panico morale che gioca sulle ansie razziste senza evocarle direttamente e ha colpito altri soggetti: non solo lo stereotipo di una donna nera indolente che vive della generosità dei contribuenti, ma anche di tutte le sfumature della povertà che, attraverso i generi, e le appartenenze nazionali, si riproduce nella zona grigia tra il lavoro povero e la deprivazione economica o culturale. In Italia la strategia dell’insulto è stata usata in maniera percussiva sin da quando è stato introdotto il reddito di cittadinanza.
I beneficiari del sussidio che avessero rifiutato le offerte di lavoro – al tempo il governo Conte 1 ne aveva prospettate addirittura tre, oggi quello Meloni l’ha ridotta ad una – avrebbero perso il sussidio. Ma prima ancora di entrare in questo circuito infernale, mai ancora iniziato in Italia, i beneficiari del reddito sono stati sottoposti a una cura preventiva fatta di insulti. Il 16 settembre 2018 l’allora vicepremier e ministro del lavoro Luigi Di Maio (Movimento 5 Stelle) parlò del «divanista»…
Più contundente è stata l’idea di definire il reddito di cittadinanza come un “metadone di Stato”. L’espressione è diventata una consuetudine lessicale diffusa in Fratelli d’Italia prima di arrivare al governo. La pronunciò la prima volta Giorgia Meloni il 5 settembre 2021 a Napoli. Lo stigma era basato su un’atroce equivalenza: chi è povero è un drogato, in quanto drogato è malato, il povero malato è una patologia sociale. Per curarla bisogna recidere le cause, cioè lo Stato equiparato a uno spacciatore di eroina. L’eroina era associata, in maniera allucinatoria, al reddito di cittadinanza. L’insulto si regge su un’equivalenza aberrante ed è il frutto dell’ignoranza. Il metadone previene i gravi problemi correlati all’assunzione di oppiacei e serve a contrastare la dipendenza.
L’espressione è stata invece usata in senso opposto: non allunga la vita, ma porta alla morte. La metafora tossicologica del reddito di cittadinanza è stata una forma dell’odio di classe. Lo Stato non deve rendere dipendenti i poveri, ma disintossicarli eliminando la dose mensile del sussidio. Lo stesso sussidio va elargito alle imprese che però non sono considerate «tossicodipendenti». Oggi l’insulto ha raggiunto il risultato: confermare il fatto che le imprese sono soggetti giuridici più reali delle persone in carne ed ossa. E che lo Stato sociale, quando non è uno spacciatore di sussidi ed è “in salute”, mette i poveri al servizio del mercato. Il loro benessere dipende dalla capacità di realizzare profitti da parte degli imprenditori.
Estratto dell’articolo di Elena Tebano per corriere.it mercoledì 29 novembre 2023.
Non ci sono più i ricchi di una volta, ed è un problema per tutti. Perché tradizionalmente i più ricchi sapevano che la loro ricchezza era un privilegio mal visto e nei periodi più difficili erano disposti a rendere qualcosa alle società in cui vivevano, per pareggiare almeno in parte i conti. Oggi non è più così e il rischio è la destabilizzazione della società contemporanea.
È la tesi di un editoriale del New York Times firmato dall’italiano Guido Alfani. Si tratta di un «guest essay», uno degli articoli di opinione che il grande quotidiano americano fa scrivere a firme esterne alla sua organizzazione quando vuole aprire il dibattito in corso su temi rilevanti. Alfani insegna Storia economica all’Università Bocconi di Milano […]
«A partire dal XV secolo, e a partire dalle aree economicamente più sviluppate dell’Europa, come l’Italia centro-settentrionale, ai ricchi fu assegnato un ruolo sociale specifico: fungere da riserva privata di denaro a cui la comunità poteva attingere nei momenti di maggiore necessità» spiega Alfani.
Erano considerati come «granai privati di denaro» per usare l’espressione coniata dall’umanista toscano Poggio Bracciolini nel suo trattato del 1428 De avaritia («Sull’avarizia»): così come le autorità accumulavano riserve pubbliche di cibo a cui attingere nei momenti di carestia, le comunità avevano bisogno dei ricchi («molti individui avidi» li definiva Bracciolini) per attingere ai loro patrimoni nei momenti di difficoltà collettiva.
Esempi di questo meccanismo sono i prestiti forzosi imposti da Venezia ai suoi cittadini più ricchi dopo la peste del 1630 durante la guerra contro l’Impero Ottomano nel 1645-69, ma anche i «Liberty Bond» emessi negli Stati Uniti nel 1917-18 per finanziare la partecipazione alla Prima guerra mondiale. La tassazione progressiva è un’altra forma di applicazione di questo principio, secondo cui chi ha molto o moltissimo deve aiutare di più gli altri. Un principio che però adesso secondo Alfani è in crisi.
Nonostante la crisi del debito e la pandemia di Covid infatti in Europa e in Nord America non c’è stato un aumento significativo della tassazione sui grandi patrimoni e negli Stati Uniti i propositi del presidente Joe Biden di farlo sono largamente falliti. Anzi, durante la pandemia di Covid le disuguaglianze sono aumentate, e Alfani ipotizza che «l’eccezionale resilienza dei ricchi alle recenti crisi sia stata ottenuta in modo tale da rendere la società nel suo complesso meno resiliente», visto che l’alto debito pubblico accumulato durante la pandemia in molti Paesi peserà soprattutto sui più poveri.
«I ricchi di oggi, la cui ricchezza è stata in gran parte preservata dalla Grande Recessione (quella della crisi del debito, ndr) e dalla pandemia di Covid-19, si sono opposti alle riforme volte a sfruttare le loro risorse per finanziare politiche di mitigazione di ogni tipo. Si tratta di uno sviluppo storicamente eccezionale.
Contribuire a pagare il conto delle grandi crisi è stata a lungo la principale funzione sociale attribuita ai ricchi dalla cultura occidentale. In passato, quando i più ricchi sono stati percepiti come insensibili alle difficoltà delle masse, e soprattutto quando sono sembrati trarre profitto da tali difficoltà (o sono stati semplicemente sospettati di farlo), la società è diventata instabile, portando a disordini, rivolte aperte e violenza antiricchezza» scrive Alfani […]
La diseguaglianza non è un destino (considerazioni tra immaginario e realtà). Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico, su L'Indipendente sabato 7 ottobre 2023.
Parlare della diseguaglianza sembrerebbe parlare del destino: ognuno ha il suo e niente si può cambiare. Sappiamo però che non è così e che ciascuno di noi è sempre davanti a delle scelte. E che quindi anche la diseguaglianza è un motore narrativo, è un potenziale, deficitario sì, ma pur sempre un potenziale che egualmente può produrre una spinta, una scintilla, avrebbe detto James Hillman. Un paradosso insomma che dovremmo caricare di aspettative anche se le condizioni oggettive sembrerebbero condannarci alla ripetizione, all’identico senza mutamenti, a un tutto preordinato. (Chi ha curiosità romanzesche può leggere il racconto Il destino è maldestro della Antologia della letteratura fantastica curata da Ocampo e Casares, ed. it. Editori Riuniti).
Per portare avanti il ragionamento mi servirò di due fonti, apparentemente molto lontane tra di loro. La prima è rappresentata dalle fiabe con protagonisti i fratelli e l’altra dall’opera di James Hillman, in particolare dagli scritti sull’anima e sul concetto di dàimon, il responsabile della scintilla a cui ho accennato. Ma mi servirò anche della psicologia popolare, come la chiamava Jerome Bruner, quella che per esempio ha fissato, quale requisito speciale, le umili origini per personaggi illustri, scienziati, santi, sportivi, personalità politiche: tutti in qualche modo avvantaggiati, nell’opinione corrente, dal provenire da famiglie disagiate, da contesti di indigenza, da classi sociali marginalizzate. Una caratteristica che si ritiene li accrediti di particolari meriti. Se ne ricava l’impressione che la diseguaglianza avrebbe delle eccezioni quando si verificano queste condizioni, eccezioni particolari che confermano tuttavia la regola secondo la quale chi proviene da contesti privilegiati parte sicuramente favorito.
Nel patrimonio folklorico sono ricorrenti, in tutto il mondo, le fiabe cosiddette a triplicazione, quelle che per intenderci vedono la presenza di tre fratelli, messi alla prova dal padre, fiabe analizzate dal grande studioso russo Vladimir Propp all’inizio del Novecento. Di norma i primi due fratelli che, sulla carta, sarebbero i più dotati, partono da casa molto convinti ma poi incorrono in cadute maldestre, danno fiducia a persone sbagliate, non obbediscono al divieto loro imposto di non seguire certi sentieri o attraversare zone impervie. Può anche succedere che il primogenito decida autonomamente di andare a fare fortuna come se l’iniziativa fosse per lui dovuta. Avendo poi fallito nell’impresa sarà il secondo a lasciare la casa di famiglia; egli però, finito ad esempio nella casa di un tipo di cui voleva fare il servitore, non si era accorto che si trattasse di un mago che lo avrebbe ingannato. Il terzo fratello, invece, quello ritenuto meno dotato, ma che era invece “un po’ più furbo”, come diceva la fiaba, riuscì a superare gli inganni e a catturare e portare a casa uno speciale bastone magico che al comando faceva uscire denari a palate dal fondoschiena di un asino, il famoso asino cacadenari di tutto il folklore europeo.
La fiaba citata è di origine piemontese ma la storia e il meccanismo dei tre fratelli è comune al folklore di tutto il mondo e mostra, in modo popolaresco, l’infondatezza di certe regole sociali – la primogenitura – e la prevalenza delle doti dell’astuzia su quelle del puro e semplice potere, anche magico. Insomma, come racconta una fiaba birmana, “se un uomo usa il cervello, la fortuna deve arrivare”, a proposito di un povero anziano, abbandonato dalla famiglia, che escogitò uno stratagemma per riconquistare l’interesse dei parenti (Fiabe birmane, a cura di G. Ferraro, Arcana editrice 1989).
Esiste dunque un aspetto magico, di cui tener conto nella valutazione delle vicissitudini della fortuna, qualcosa che non attiene semplicemente ai fattori economici e che investe invece la complessità della nostra identità e il nostro modo di stare al mondo. Come in quell’altra fiaba piemontese (Fiabe piemontesi, a cura di G.P. Caprettini, Donzelli 2002) dove il potente re morente sembrava potesse essere guarito dall’indossare la camicia di un uomo contento, un uomo che cantava allegro sotto un gelso, il quale però affermò di non possedere nessuna camicia speciale. Evidentemente si trattava di qualcos’altro, dell’anima e del daimon forse, e dunque della “forza del carattere”, come avrebbe detto James Hillman.
A questo proposito, in sue opere fondamentali, come Il codice dell’anima, Hillman, il grande continuatore di Jung, ha preso in esame la vita di illustri personaggi come l’attrice Judy Garland, Pablo Picasso, Gandhi mostrando gli effetti nello sviluppo della propria vita incontrati da chi ha seguito il proprio dàimon, quel fuoco interiore, quella energia invisibile, di origine mitica secondo Hillman, che ci spinge a superare gli ostacoli e che orienta e carica il nostro destino, sottraendolo al determinismo di una semplice derivazione da antenati, precursori, condizionamenti oggettivi, del DNA ecc. ecc. , richiedendoci di fare un lavoro sulla nostra persona per sottrarla al meccanismo determinista dei dati di realtà ritenuti insuperabili, dando ad esempio la voce al puer dei nostri sogni, alla fantasia creativa che va oltre l’immediatezza e risale agli archetipi.
Tuttavia, parlare di diseguaglianza, inevitabilmente, a mio parere non evoca soltanto questi quadri potenziali che ci aiuterebbero a superare i condizionamenti imposti, a uscire dai confini di una fattualità che ci vorrebbe imprigionare. Parlare di diseguaglianza significa evocare forme di discriminazione. L’orizzonte così si carica non più soltanto di funzioni inconsce ma di quella propensione del potere, che lo stesso Hillman ha affrontato suggestivamente in un suo studio, e che a mio parere attiene strettamente alla svolta economicista che alla nostra società è stata impressa dall’avvento delle macchine nell’Ottocento e anche dai conseguenti processi democratici. Il lavoro, in effetti, e anche il mancato lavoro, è il luogo di partenza della discriminazione, anzitutto per il fatto che certi valori intrinseci della persona, il suo potenziale, le sue cariche creative e immaginifiche, i suoi dati di personalità, vengono conculcati dalla richiesta di prestazioni che trascurano le attitudini e le aspirazioni; al contrario, esse vorrebbero essere definite prematuramente una volta per tutte, quando ad esempio la scuola determina quali debbano essere gli orizzonti a cui può aspirare l’allievo.
Diciamo allora che la diseguaglianza non è unicamente questione sociale, di origine e appartenenza a un ceto e a un contesto ma è connessa alla mancata reciprocità nell’operare umano, nella trascuratezza a cui vengono sottoposte le persone più disagiate, alla mancanza di interlocutori adeguati ai bisogni. La diseguaglianza allora si misura nella vita quotidiana, nella disponibilità ad esempio dei servizi sanitari, nella mancata informazione sulle caratteristiche e le proprietà dei prodotti che vengono consumati, a cominciare da quelli alimentari. Così la diseguaglianza dal tema della discriminazione sulle reali attitudini e capacità arriva al problema della disinformazione lentamente scivolando sugli orizzonti della formazione.
La scuola in effetti è il luogo nel quale ciascuno di noi, se ne è stato consapevole, ha misurato la diseguaglianza, la difformità di trattamento a partire ad esempio dalla valutazione del proprio studio e lavoro, quando essendo richiesta l’acquisizione di un sapere, veniva messa in secondo piano l’attitudine, il daimon. Chiediamoci perché certi o certe insegnanti e docenti sono rimasti impressi in modo favorevole (o sfavorevole) nella nostra mente, quella mente allora intransigente, se vogliamo, con cui commisuravamo i propri desideri rispetto ai rapporti in famiglia o nella crescita di ciascuno di noi.
Vorrei in conclusione collegare, in quanto semiologo, la diseguaglianza alla crescita, alle molteplici capacità cioè di dare senso ai segnali che produciamo e che ascoltiamo o vediamo, alla constatazione della straordinaria varietà degli input che riceviamo e del loro differente potenziale, anche perché le tecnologie sono spietate nel rilevare difformità e deficit, oppure genialità, oppure automatismi. Intelligenze e sensibilità estremamente varie e variabili che rischiano di confluire poi tutte nel collo stretto di quell’imbuto dove la mutevolezza e la diversità dei soggetti, delle condizioni umane, delle aspirazioni e delle aspettative finiscono per essere amministrate in modo univoco, inesorabile, come se le alternative fossero soltanto patologiche o minacciose. Bloccando il destino di ognuno nell’adeguazione a standard naturalizzati, rendendo la diseguaglianza una moneta di scambio, piccola o grande che sia, ma pur sempre una moneta, come i dieci centesimi o i due euro che stanno nel nostro portafoglio, diseguali ma sempre monete, strumenti dello stesso meccanismo.
Riprendiamoci invece altre unità di misura: il nostro dàimon, la nostra fantasia, le nostre storie, il nostro spirito, la nostra anima, la nostra sensibilità, la nostra immaginazione. Nella dimensione cioè dove le differenze sono questioni di dignità non soltanto di calcolo.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
La Povertà ed il Metadone di Stato.
Giorgia Meloni a Dritto e Rovescio di Rete4 il 9 settembre 2021.
Del Debbio: Ha definito il reddito di cittadinanza una sorta di Metadone di Stato”. Senta cosa gli ha risposto Giuseppe Conte interpellato dal nostro Angelo Macchiavello.
Giuseppe Conte: E’ un’espressione volgare, veramente offensiva. Il Reddito di Cittadinanza ha ridato dignità ai cittadini. Se usiamo questo linguaggio, togliamo dignità ai cittadini.…
Giorgia Meloni: Ma guardi non so cosa ci sia di volgare agli occhi dell’ex presidente del Consiglio. Può essere un’espressione che lui considera irrispettosa, ma non verso i cittadini, ma verso di lui. Verso il Movimento 5 Stelle. Verso chi ha voluto il reddito di Cittadinanza. Guardi, io ho detto una cosa molto precisa. Ho detto che il principio del Reddito di Cittadinanza in rapporto alla povertà è lo stesso principio che si usa con il Metadone in rapporto ad una persona tossico dipendente. Perché che cosa fa il Metadone. Il Metadone non risolve il problema di quella persona: la mantiene in quella condizione, perché non dia fastidio allo Stato. Col Reddito di Cittadinanza la mentalità è esattamente la stessa: io non risolvo il problema della povertà di quella persona trovandole un lavoro, dandole la possibilità di migliorare la sua condizione. No, io la mantengo in quella condizione, serva di una politica che sono costretto a votare, perché magari mi dà la paghetta, senza poter mai migliorare. Diceva, l’ho detto tante volte, diceva il premio Nobel per l’economia Amartya Sen che la povertà non è semplicemente la mancanza di soldi. La vera povertà è l’impossibilità che tu hai di migliorare la condizione nella quale ti trovi, che è data dal contesto che ti circonda. Quando io, ad esempio, sentì dire dall’allora ministero dell’economia per il Sud che la soluzione che il Governo aveva individuato era il Reddito di Cittadinanza, io non ci sto. Perché non ci sto a dire al Mezzogiorno d’Italia che quelle persone non possono migliorare la loro condizione. Che non ci sarà mai un investimento infrastrutturale, che non ci sarà mai uno sviluppo vero. Che non ci sarà mai una crescita; una possibilità di competere ad armi pari. No, tutti a 300, 400, 500 euro col Movimento 5 Stelle, rimanendo esattamente lì dove si è. Questo è lo stesso principio del Metadone di Stato.
Aggiungo io, Antonio Giangrande, Metadone di Stato è anche il considerare mafiosi tutti i cittadini meridionali e per gli effetti tutte le imprese meridionali. Le informative amministrative antimafia artefatte che precludono l'esercizio delle imprese del Sud solo per il sentore di mafiosità, dovuto a mille fattori non delinquenziali. Gli annosi procedimenti giudiziari antimafia di alcuni Pm mediatici, che spesso risultano dei bluff. La distruzione metodica del tessuto produttivo meridionale, nell'interesse delle imprese del Nord, porta desertificazione lavorativa e assoggettamento all'assistenzialismo che perdura la povertà. Senza impresa non c'è lavoro.
Estratto dell’articolo di Elisa Forte per “la Stampa” il 5 giugno 2023.
[…] Nel Paese i senzatetto sono quasi 100mila. L'Istat a fine 2021 ne ha censiti 96.197. Sono perlopiù uomini (67%), italiani (62%) e con un'età media di 41 anni. Impietoso il confronto con il resto della popolazione: in media si muore a 84 anni, le persone senza dimora a circa 47.
Le cause? Le condizioni di salute precarie (37%). Il 23% del totale in Italia vive a Roma (22mila). Milano ne conta 8.541, Napoli 6.601 (con la quota di donne più elevata), Torino 4.444.
È una strage invisibile solo per chi si gira dall'altra parte. I morti l'anno scorso sono stati 393. Più di uno al giorno. I corpi (e le croci) disseminati per strada, sui marciapiedi, sulle panchine, tra i cartoni-giaciglio sono visibili ed esposti.
Sono scandalosi. Secondo l'osservatorio della Fiopsd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora) "le morti sono raddoppiate". È il bilancio più pesante degli ultimi 3 anni: l'incremento è del 55% rispetto al 2021 e dell'83% rispetto al 2020. […]
Estratto dell’articolo di Danilo Ceccarelli per “la Stampa” il 5 giugno 2023.
[…] Qui sono in molti ad aver sentito parlare del progetto del governo, che in vista delle Olimpiadi di Parigi del prossimo anno vuole sgomberare l'Île-de-France dai senzatetto mandandoli in provincia. A metà marzo è stato chiesto alle prefetture di tutta la Francia di creare nuovi centri di "accoglienza temporanea regionali", dove trasferire i senzatetto della regione parigina, in gran parte migranti, prima di ricollocarli nel "tipo di struttura che corrisponde alla loro situazione". […]
L'iniziativa ha sollevato un polverone. Le opposizioni di sinistra e diverse associazioni l'hanno giudicata disumana, denunciando un'operazione di facciata per rendere Parigi più attraente agli occhi di tutto il mondo una volta che si accenderanno i riflettori delle Olimpiadi.
Il ministro delle Politiche abitative, Olivier Klein, garantisce che l'obiettivo è quello di smaltire il sovraffollamento nei centri della capitale e che la concomitanza con i Giochi è solo un caso.
[…] «Li vogliono cacciare lontano per nascondere la miseria!», tuona Hervé. Lui la strada la conosce bene perché ci ha vissuto per sette mesi una ventina di anni fa dopo essersi separato dalla moglie. Oggi si è rifatto una vita e fa il volontario quando non lavora come netturbino.
«Vogliono mostrare una Parigi senza problemi, ma non ci riusciranno perché non possono certo obbligare la gente ad andarsene», spiega il 60enne in un momento di pausa, mentre Hamid accanto a lui continua ad urlare e a scherzare con la gente in fila. […]
Antonio Giangrande: Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.
Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.
Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.
Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.
Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.
Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.
Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.
«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».
Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".
Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".
Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".
Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.
I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.
I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.
Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.
Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.
Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».
Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).
Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?
La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.
Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.
Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.
CI STANNO PORTANDO NELLA GIUSTA DIREZIONE? Mariano Amici il 2 Settembre 2023
CONTINUIAMO A FAR MATURARE LE COSCIENZE.
Per entrare in riflessione leggete questo racconto emozionante di un’ Italia ormai scomparsa pubblicato da Eraldo Pecci
“A metà degli anni Sessanta c’era lavoro, crescita, ottimismo. La gente lavorando acquisiva certezze e benessere. Ci si costruiva la casa, si comprava prima la Vespa e poi la si cambiava con l’auto, il frigorifero, la televisione. E d’estate si cominciava a potersi permettere la vacanza in riviera. Noi abitavamo al mare e, visto che arrivava gente, ci organizzavamo per accoglierla. Quei tre mesi di lavoro erano detti “la stagione” ed era normale che si iniziasse a farla anche da bambini.
Io cominciai nel giugno del 1965 quando avevo da poco compiuto dieci anni. Barista con mio fratello Maurizio. Lui era “grande”, di anni ne aveva ormai quattordici. Orario di lavoro dalle 8 alle 13 e dalle 19 alle 22.30-23. Cento o centocinquanta lire al giorno, non ricordo bene, la paga. Mi sentivo utile e importante. Anche se mi ci voleva la cassetta vuota della Coca-Cola sotto i piedi perché altrimenti non arrivavo all’altezza giusta per fare i caffè o per disporre le cose sul bancone. Riempivo i frigoriferi tutte le sere prima di andarmene, controllavo le cose da ordinare ai fornitori, preparavo piattini, tazze, cucchiaini, bicchieri, zucchero, nei vassoi che i camerieri avrebbero solo dovuto portare per servire i clienti. Pulivo e lucidavo le mensole con su gli alcolici e gli amari, davo lo straccio e preparavo tè, camomille e perfino cocktail. Si iniziava da apprendisti e grazie all’aiuto e alla pazienza dei più grandi in poco tempo si apprendeva davvero.
Che bello era, ogni tanto, ritrovarsi con gli amici, che lavoravano a loro volta, a mangiare una pizza e pagare il conto con le mance guadagnate! Che bello era conoscere gente di ogni parte d’Italia e d’Europa! Imparare parole di altre lingue. Avere le chiavi di casa in tasca e l’impressione di non pesare sugli altri. E tutte le notti depredare il frigorifero e lasciare comunque qualcosa a Maurizio se rientrava dopo, come lui faceva con me se rientravo più tardi io. Qualunque fosse la sequenza, il mattino la mamma trovava regolarmente il frigo vuoto. Bei tempi, belle sensazioni.” -Eraldo Pecci (Ci piaceva giocare a pallone)
«Abbiamo perso tutto», in coda al Banco dei pegni. E c'è chi si vende gli autografi di Maradona e Platini. Nicolò Fagone La Zita su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023.
Lo spaccato di una società in ginocchio. I clienti abituali: «Torneremo finché avremo beni in casa». Un addetto allo sportello: «Ciò che mi sorprende è la presenza in costante aumento della classe media»
«Sono in coda per provare a vendere i bracciali che hanno regalato ai miei figli per la comunione. Mi piange il cuore, alcuni di questi oggetti sono ricordi importanti, ma non posso fare altro. Cosa racconterò ai miei figli? Che la mamma li ha ceduti in un momento di difficoltà, oppure fingerò di averli persi. Quando sarà il momento valuterò. Per ora hanno ancora 12 e 15 anni».
Indebitati durante la pandemia
Vittoria, 43 anni, è una delle tante torinesi in coda al banco dei pegni. Qualcuno si rivolge ad «Affide», in piazza della Repubblica, altri a «ProntoPegno», in via XX Settembre. Facce stanche, sguardi bassi, poca voglia di parlare. I vetri temperati delle vetrine nascondono l’identità di chi è all’interno perché la privacy, in certi casi, vale ancora di più. Molti sono clienti abituali, e chiedono alla persona presente allo sportello dove sia il collega che li aveva serviti l’altra volta.
«Tiriamo avanti»
Hanno iniziato a recarsi al monte dei pegni dai tempi del Covid, e da lì non hanno più smesso. «Sarà così finché avrò ancora beni a disposizione — racconta Alberto, 58 anni — prima della pandemia io e mia moglie gestivamo un ristorante, ma gli aiuti dello Stato sono stati tardivi e insufficienti. Abbiamo perso quasi tutto. La banca ci ha pignorato la casa, perché non siamo riusciti a stare dietro al mutuo. Adesso siamo in affitto e ci arrabattiamo con lavori saltuari».
Oro, argento, orologi
Quasi tutti, all’interno della stanza completamente bianca e spoglia, fissano ossessivamente il ticket che si stacca all’entrata, dove è indicata la precedenza di chi è in attesa. Lo sguardo vola rapido tra il biglietto che si ha tra le mani e il monitor, che viene aggiornato ogni qualvolta qualcuno esca. Difficile stabilire un identikit di chi è in fila, i profili sono eterogenei. Giovani, anziani, avvocati, liberi professionisti, dipendenti, la crisi e l’inflazione non risparmiano nessuno. E per contrastarle si porta di tutto, soprattutto oro, argento, gioielli e orologi.
La disperazione
La tensione è tangibile, c’è sconforto e disperazione. Ma questa è una soluzione veloce: si entra e nel giro di massimo 20-25 minuti si ha un prestito, senza grossi problemi, con una polizza da tre a nove mesi. Nessuno chiede che lavoro si fa, se si hanno debiti, quale situazione si vive. Clienti che difficilmente avrebbero un prestito in banca possono contare su un’ultima ancora di salvataggio. Per il riscatto del bene in pegno si vedrà, l’importante è avere liquidità oggi, subito, nell’immediato. Cercando di ottenere il più possibile rispettando i limiti di legge, che fissano a 4 mila 999 euro 99 centesimi la quota massima per il pagamento in contanti.
In fila
In coda gli accenti si mischiano: nord, sud, estero, lo spaccato è quello di una società in ginocchio. E qualcuno cerca di sbancare il lunario anche con un po’ di fantasia: «Queste due firme sono gli autografi di Maradona e Platini — sottolinea Sergio, 62 anni — vediamo quanto me li valuteranno». Ma una volta arrivato allo sportello, il suo tentativo va in fumo: «Mi spiace, ma non ritiriamo questa tipologia di oggetti» dice l’addetto. «Peccato — risponde Sergio — vorrà dire che li venderò su internet. Magari torno domani con un paio di tappeti». «No no, lasci stare, non prendiamo neanche quelli», aggiunge il dipendente, per lo scoramento di Sergio.
«Eppure una volta non era così — commenta un’anziana — anzi ricordo che si portava praticamente di tutto. Vent’anni fa potevi persino mettere in pegno le zanne di elefante, ora questi centri fanno gli schizzinosi».
I dati di Affide
D’altronde è dal 1500 che in Italia esistono i banchi dei pegni, prestiti assicurati in cambio di beni personali. Ma tra chi è in coda c’è anche qualcuno che si limita a rinnovare il prestito, nella speranza di poterlo riscattare quando le cose si sistemeranno. Secondo i dati forniti da Affide, infatti, nel 95 per cento dei casi i clienti riescono a riappropriarsi del bene consegnato all’azienda.
Il caso di Mattia
Difficilmente però sarà il caso di Mattia, 28 anni, laureato in filosofia: «Lavoro come cameriere — spiega — ma un contratto da mille euro al mese oggi non basta più. Sto per cedere un bracciale che mi aveva regalato la mia ex, non credo che riuscirò a riscattarlo ma voglio tenermi la porta aperta. Da un compro oro otterrei di più, ma voglio essere ottimista».
Carlo e il funerale da pagare
Carlo invece, 32 anni, è impegnato a consegnare i beni del padre per potersi permettere il suo funerale. «Mi ha cresciuto nel migliore dei modi — racconta con fierezza — ma nell’ultimo periodo si era indebitato. Sto dando in pegno i suoi orologi per pagare l’agenzia funebre e rinunciare all’eredità, visto che lo Stato per chiudere la pratica mi chiede 700 euro. Mio figlio ha appena quattro mesi, e dovrà fare lo stesso quando sarà maggiorenne. Un’assurdità». Il padre, però, ha avuto il tempo di «conoscere il nipote, e almeno per questo sono felice».
Il dipendete
La giornata al banco dei pegni finisce alle 16.15. Ma prima di abbassare la saracinesca, anche uno dei dipendenti vuole dire la sua: «Facendo questo lavoro tocchi con mano la realtà quotidiana — racconta — e rispetto al periodo del Covid registriamo meno persone, ma i flussi rimangono continui. Ciò che mi sorprende è che è sempre più presente la classe media. Persone con un lavoro normale, vestite bene, che però fanno fatica ad arrivare alla fine del mese. E così sono disposti a sacrificare, a tempo, oggetti che tengono in cassaforte da una vita. Vengono qui per nascondere le apparenze».
(ANSA il 28 Marzo 2023) Da decenni la nostra società ha vissuto grandi trasformazioni e al contempo l'area della povertà è cresciuta in maniera molto importante: nel 2021 circa due milioni di famiglie si trovano in una situazione di povertà assoluta, ossia più del doppio rispetto al 2005". E' quanto emerge dal rapporto della Fondazione Cariplo sulle disuguaglianze.
"Da anni assistiamo a una frammentazione crescente che crea un divario di futuro e di prospettiva di vita: è in questo spazio che perdiamo il potenziale umano di tanti ragazzi, di tanti lavoratori, di tanti cittadini del domani", evidenzia il presidente delle'Ente, Giovanni Fosti. "Davanti a questo la Fondazione Cariplo, che da sempre investe sulle potenzialità delle persone e sui legami di comunità, vuole mettersi in dialogo - rileva Fosti - con gli altri soggetti che possono contribuire al contrasto della disuguaglianza".
Dal rapporto peraltro emerge che oggi in Italia solo l'8% dei giovani con genitori senza un titolo superiore ottiene un diploma universitario contro il 22% della media Ocse. "Se vogliamo scardinare la dinamica dove chi ha poche opportunità è destinato ad averne sempre meno - prosegue Fosti - non possiamo attendere che siano proprio queste persone a prendere l'iniziativa, ma dobbiamo deliberatamente e tenacemente andare a cercarle. In altre parole, siamo convinti che davanti a questa disuguaglianza di possibilità sia necessario passare da un atteggiamento di attesa a uno di iniziativa", sostiene il presidente della Fondazione Cariplo.
Estratto dell’articolo di Paolo Foschini per il “Corriere della Sera” il 29 Marzo 2023
«Un cazzotto nello stomaco», lo ha definito il cardinale Matteo Zuppi. È il primo Rapporto sulle disuguaglianze in Italia , realizzato da Fondazione Cariplo […] nel 2005 avevamo 1,9 milioni di poveri e oggi ne abbiamo più di cinque e mezzo, mentre la forbice tra loro e i ricchi anziché stringersi si allarga.
[…] Il rapporto è stato presentato a Milano con la partecipazione tra gli altri di Gian Paolo Barbetta per Fondazione Social Venture, Giordano Dell’Amore Evaluation Lab, di Enrica Chiappero dell’Università di Pavia, commentato a caldo dall’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina e dal presidente di Generali Italia Andrea Sironi.
Questa prima edizione è focalizzata sul momento di origine delle disuguaglianze, quello della formazione, i cui meccanismi appaiono oggi sempre più inadeguati a permettere il funzionamento dell’ascensore sociale: i figli dei laureati si laureano o perlomeno ci provano, gli altri sempre meno. «La retorica del merito — ha scandito Zuppi — è oggi più che mai fuori luogo perché sono i punti di partenza che creano opportunità o meno.
Il merito va dato a tutti».
E non farlo, ha proseguito il cardinale presidente della Cei, è una violazione della Costituzione: «È compito della Repubblica — ha ripetuto il cardinale citando l’articolo 3 — rimuovere gli ostacoli sociali che impediscono il pieno sviluppo della persona». […]
Estratto dell’articolo di R.E. per “la Stampa” il 29 Marzo 2023
«Per combattere la povertà e le disuguaglianze in Italia è necessario che qualcosa venga fatto a livello di Governo e di pubblico». A dirlo, in maniera diretta e senza giri di parole, è l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, intervenuto ieri alla presentazione del rapporto sulle disuguaglianze della Fondazione Cariplo: «È un cazzotto nello stomaco» ha aggiunto il banchiere. […]
In tal senso il numero uno di Intesa Sanpaolo rileva come il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) «da realizzare è una priorità assoluta per il nostro Paese. Se questo succede tutte le istituzioni private […] possono contribuire a fare in modo che da questo percorso si possa generare una forte mitigazione delle disuguaglianze». […]
Antonio Giangrande: Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.
Gennaio, tempo di notifica delle cartelle esattoriali inviate il 31 dicembre, per impedirne la prescrizione quinquennale. Gennaio tempo di scoperte e di sorprese.
Il “No Profit” paga Imu e Tasi dei locali dove svolge la sua attività.
Intervento del Sociologo storico, dr Antonio Giangrande, autore, tra gli altri, anche del saggio UGUAGLIANZIOPOLI e relativi aggiornamenti annuali.
L’Italia è il Paese del foraggiamento a pioggia, dove tutti chiedono e dove tutti ottengono. Eppure si trascura quel mondo fatto di centinaia di migliaia di associazioni di volontariato: il cosiddetto “No Profit”.
Mondo che supplisce a tutte quelle mancanze statali a sostegno dei diritti inalienabili dei cittadini.
La Costituzione, appunto, prevede la tutela del Principio di solidarietà e di Uguaglianza, ma, come sempre in questa Italia, tutti i principi costituzionali vengono sempre calpestati. Per inciso con l’intercalare: vanno a farsi fottere.
Il “No Profit”, proprio per sua stessa definizione, non produce reddito. La sua attività si basa sull’opera di milioni di volontari che, gratuitamente, prestano la loro opera materiale ed intellettuale.
Il Volontariato, non producendo reddito, va da sé, logicamente, non può acquistare nulla per sé, né essere proprietario di alcunché.
La sede legale è spesso sita presso un locale messo a disposizione gratuitamente dal presidente dell’associazione, o da un suo componente, o da terzi benefattori.
Quindi di quel locale con il COMODATO si ha l’UTILIZZO e non il POSSESSO.
Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), in ossequio alla Costituzione prevedeva la dicotomia Utilizzo e Possesso, prevedendo l’esenzione dell’Imu/Tasi sia per i possessori sia per gli utilizzatori, se diversi dai proprietari. In questo caso viene premiato il COMODATO D’USO a fini solidaristici.
Invece, i Comuni hanno pensato bene di non distinguere i possessori dagli utilizzatori, inquadrando l’esentato in una sola figura: ossia il proprietario deve essere l’utilizzatore.
A tal riguardo si riporta, a titolo esemplare, la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5(Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, che recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”. Regolamento adottato dai Consiglieri Mario De Marco, sindaco, Enzo Tarantini, assessore al ramo, Antonio Minò, Daniele Petarra, Antonio Baldari, Vito Maggiore, Pietro Giangrande e Cosimo Derinaldis, presidente del Consiglio. Il Funzionario del servizio ragioneria, Antonio Mazza, esprimeva parere favorevole.
La casistica riporta i casi in cui vi sia l’utilizzo indiretto di un beneficiario. Prendendo in esame solo i casi in cui i beni ecclesiastici, di per sé esentati, vengono utilizzati da terzi, con le stesse finalità solidaristiche. Non si parla di possessori privati che prestano i loro beni gratuitamente alle associazioni di Volontariato.
Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell’Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992, prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l’esenzione solo a quei “No Profit” che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.
Va da se che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA’ O USUFRUTTO, e non COMODATO.
Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.
Con riferimento agli Enti non commerciali, la Legge di Bilancio 2020 non modifica la precedente agevolazione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i) del D.Lgs. 504/1992, ovvero per tali enti prevista l’esenzione dal pagamento dell’Imu qualora ricorrano i seguenti requisiti:
· L’immobile sia posseduto e/o utilizzato da enti non commerciali di cui all’art. 73 co 1 lettera c) del TUIR;
· Lo stesso sia destinato, in via esclusiva, allo svolgimento, con modalità non commerciali, di una o più delle attività elencate all’art. 7, co1 lett. a) del D.lgs. 504/1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive).
Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1 comma 759 “Sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: g) gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità' non commerciali delle attività' previste nella medesima”. Con questa enunciazione la legge di Bilancio 2020 sembra discostarsi dai principi previsti dal legislatore del 1992.Ma la vera novità è introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 nell'art. 1 comma 777 che prevede la possibilità per i Comuni di prevedere l’esenzione del pagamento IMU sugli immobili dati in comodato d’uso gratuito alle associazioni, a prescindere dall’attività svolta dall’ente.
Art. 1 comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)
e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad ente non commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi istituzionali o statutari”.
Questo significa la possibilità di un’esenzione del pagamento IMU sugli immobili che spesso il presidente e / o altri dirigenti cedono a titolo gratuito. Ricordiamo che la scelta in merito a questa esenzione viene rimandata ai comuni, quindi sarà fondamentale verificare i regolamenti comunali e, se ce ne sono le condizioni, fare pressione affinché il Comune si muova in tal senso.
Degna di nota è la citazione del Comune di Falconara, in nome del vice sindaco Raimondo Mondaini, con delega al Bilancio. Comune che tra i primi, con merito, ha previsto l’esenzione IMU per quegli immobili ceduti gratuitamente alle associazioni di volontariato.
Quando il Legislatore ha configurato l’ipotesi di esenzione da Imu e Tasi per la platea degli enti non commerciali lo ha fatto con riferimento agli immobili che vengono direttamente utilizzati nella loro attività “istituzionale”.
In particolare, è l’articolo 9, comma 8, D.Lgs. 23/2011 a disporre che si applica all’Imu l’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 504/1992 recante disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili “destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.
Con il D.L. 16/2014, invece, al fine di assimilare il trattamento della Tasi a quello dell’Imu, l’articolo 1, comma 3 del citato decreto rende applicabili alla Tasi quasi tutte le esenzioni applicabili all’Imu, tra le quali certamente spicca quella riservata agli enti non commerciali, stabilendo che “Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (Tasi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d’appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell’applicazione della lettera i) resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni”. E nel richiamo alla lett. i) dell’articolo 7 D.Lgs. 504/1992 c’è proprio la citata esenzione prevista per gli enti non commerciali ai fini Imu. Dr Antonio Giangrande
Antonio Giangrande: IMU e ONLUS ad Avetrana. Comodato e Proprietà del Volontariato.
Disuguaglianza ed Estorsione tra i No Profit più deboli presso tutte le Avetrana d’Italia.
Il Possesso e l’Ipocrisia della Politica. La Violazione dei principi costituzionali nel silenzio dei media e del Volontariato d’Elite. Una questione non di poco conto.
La denuncia pubblica del saggista Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte Le Mafie ONLUS, già iscritto presso la Prefettura di Taranto nell'elenco delle Associazioni Antiracket ed Antiusura. Associazione che non riceve sovvenzionamenti pubblici o privati.
Ed a quanto pare nemmeno risposte dagli Uffici preposti dei Ministeri interpellati del Walfare e delle Finanze.
Oggetto: chiarimento ed interpretazione.
Riferimento: Il presidente di una associazione di volontariato - onlus – ente non commerciale deve pagare l’Imu-Tasi, essendo usufruttuario di un immobile dato in comodato gratuito, presso il quale si è eletta sede legale dell’associazione e per il quale locale l’associazione se ne fa uso gratuito?
La legge stabilisce il no. L’alta giurisprudenza e la burocrazia impone il sì.
Di questo si fa forte il Comune di Avetrana, nella persona del Dr Mazza, che ha voluto precisare: “difenderemo gli interessi comunali in ogni stato e grado del giudizio. L’eventuale costituzione in giudizio comporta il pagamento del contributo unificato. Inoltre, la parte che perde in giudizio può essere condannata al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, maggiorate del 50% a titolo di spese del procedimento di mediazione".
Cosa è l’Imu? L'IMU, Imposta Municipale Propria, è il tributo istituito dal governo Monti nella manovra Salva-Italia del 2011 e si paga a livello comunale sul possesso dei beni immobiliari. È operativa a decorrere dal gennaio 2012, e fino al 2013 è stata valida anche sull'abitazione principale. L'ICI (Imposta comunale sugli immobili) era la vecchia tassa applicata al possesso dei beni immobiliari prima dell'arrivo dell'IMU, a partire dal gennaio 2012. L'IMU in buona sostanza ne ha replicato i regolamenti e i sistemi di calcolo. La tassa sulla proprietà della prima casa:
prima del 2012: non si pagava più dal 2007, quando si chiamava ICI
2012: IMU con 0,4% di aliquota standard. Detrazione di 200 euro + 50 euro per ogni figlio
2013: mini IMU di gennaio, la differenza fra l’IMU calcolata con aliquota allo 0,4% e con quella del comune. Niente detrazioni. In discussione l’eliminazione di questo conguaglio.
Dal 2014: Tasi con aliquota standard allo 0,1%, detrazioni 200 euro + 50 euro per ogni figlio.
Cos’è il Volontariato? Il Volontariato è quell’insieme di sodalizi che operano sussidiariamente nei vari campi dei servizi pubblici, laddove lo Stato non vuole o non può operare. A favore del Volontariato sono previste delle agevolazioni fiscali e dei sostegni economici a ristoro di progetti inclusivi ed accoglibili. Da questo quadro d’insieme, però, sono osteggiate le piccole realtà solidaristiche, spesso non incluse nel grande sistema della solidarietà partigiana, foraggiata dalla politica amica. I grandi nomi, sponsorizzati con partigianeria dai media e sostenuti economicamente dalla politica, non hanno difficoltà ad acquistare gli immobili dove hanno la sede locale o dove operano. Le miriadi piccole realtà, distribuite sul territorio e con maggior valore per l’intervento di prossimità, non hanno sostentamento e quindi si sorreggono con le liberalità degli associati. Gli immobili dove operano sono dati in comodato dagli stessi membri del sodalizio.
Qual è il sostegno al Volontariato? 5XMille; Finanziamento pubblico di progetti per ogni ramo di intervento; donazioni private
Quali sono e agevolazioni ed esenzioni fiscali al Volontariato? I benefici fiscali per le organizzazioni di volontariato e le onlus (Da ipfonlus.it). Oltre che dalla legge istitutiva, sono stati riconosciuti, a favore delle organizzazioni di volontariato, numerosi vantaggi anche da parte di una serie di altri provvedimenti legislativi, fra i quali assume particolare rilievo il decreto legislativo 460/97, relativo al riordino ed alla disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus). Tali vantaggi sono estesi alle organizzazioni di volontariato, in forza di esplicito rinvio con il quale vengono considerate Onlus le organizzazioni di volontariato, purché iscritte nei registri regionali. I benefici riconosciuti con il suddetto decreto possono essere suddivisi in due parti: agevolazioni ed esenzioni.
Agevolazioni. Le agevolazioni riguardano:
le imposte sui redditi;
le erogazioni liberali;
l’imposta sul valore aggiunto;
le ritenute alla fonte;
l’imposta di registro;
le lotterie, le tombole, le pesche e i banchi di beneficenza.
È il caso di fare qualche accenno su ognuna di esse. Le agevolazioni ai fini delle imposte sui redditi riguardano il solo reddito di impresa e non si riferiscono ad altre categorie reddituali che concorrono alla formazione del reddito complessivo.
Per le erogazioni liberali, il decreto legislativo pone, da una parte, le persone fisiche e gli enti non commerciali e, dall’altra, le imprese. I primi possono detrarre dall’imposta lorda le erogazioni liberali in denaro, fatte a favore delle organizzazioni di volontariato, per un importo fino a quattro milioni di lire.
Per le imprese è prevista una serie di deduzioni che riguardano:
– le erogazioni liberali in denaro per un importo non superiore a quattro milioni di lire o al due per cento del reddito di impresa dichiarato;
– le spese relative all’impiego dei lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato, utilizzati per prestazioni di servizi a favore delle organizzazioni di volontariato, nel limite del cinque per mille dell’ammontare complessivo delle spese per prestazioni di lavoro dipendente;
– la cessione gratuita alle organizzazioni di volontariato, in alternativa alla usuale eliminazione dal circuito commerciale, di derrate alimentari, di prodotti farmaceutici e di beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa.
Le disposizioni relative all’imposta sul valore aggiunto (Iva) prevedono una serie di agevolazioni per prestazioni effettuate da organizzazioni di volontariato o a favore delle stesse organizzazioni. Esse attengono a:
– divulgazione pubblicitaria;
– cessioni di beni-merce;
– trasporto di malati o feriti con veicoli all’uopo equipaggiati;
– educazione dell’infanzia e della gioventù e didattica di ogni genere anche per la formazione, l’aggiornamento, la riqualificazione e la riconversione professionale. In esse sono comprese anche le prestazioni relative all’alloggio, al vitto ed alla fornitura di libri e materiali didattici come pure le lezioni relativi a materie scolastiche e universitarie impartite da insegnanti a titolo personale;
– attività socio sanitarie, di assistenza domiciliare o ambulatoriale, in comunità, in favore di persone svantaggiate, rese dalle organizzazioni di volontariato sia direttamente sia in esecuzione di appalti,
convenzioni e contratti in genere.
Le organizzazioni di volontariato inoltre, non sono soggette all’obbligo di certificazione dei corrispettivi mediante ricevuta o scontrino fiscale.
Per quanto riguarda la ritenuta alla fonte, non viene applicata la ritenuta del quattro per cento a titolo di acconto sui contributi corrisposti alle organizzazioni di volontariato dagli enti pubblici. Inoltre, la ritenuta sui redditi di capitale corrisposti alle organizzazioni di volontariato viene considerata a titolo di imposta anziché di acconto.
Relativamente all’imposta di registro, occorre distinguere fra Onlus e organizzazioni di volontariato. Per quanto riguarda le prime, è da sottolineare che tutti gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e gli atti traslativi o contributi di diritti reali immobiliari di godimento, compresa la rinuncia ad essi, destinati ad essere utilizzati nell’ambito delle attività statutarie, deve essere corrisposta, per la registrazione, la cifra fissa di lire 250 mila.
Per quanto concerne le organizzazioni di volontariato, occorre fare riferimento alla legge-quadro la quale prevede la totale esenzione dall’imposta di registro. Con l’autorizzazione dell’Intendenza di finanza e previo nulla osta delle prefetture, le organizzazioni di volontariato possono effettuare lotterie, tombole, pesche e banchi di beneficenza, con le seguenti limitazioni:
per le lotterie è previsto che la vendita di biglietti deve riguardare il solo territorio della provincia. I biglietti vanno staccati da registri a matrice in numero determinato. L’importo complessivo di ogni lotteria non può superare i 100 milioni di lire;
per le pesche e i banchi di beneficenza, le operazioni sono limitate al territorio del comune in cui esse hanno luogo. Il ricavato complessivo non può superare i 100 milioni di lire.
Esenzioni. Le esenzioni riguardano:
l’imposta di bollo;
le tasse sulle concessioni governative;
l’imposta sulle successioni e sulle donazioni;
l’imposta sostitutiva;
l’imposta sull’incremento di valore degli immobili e della relativa imposta sostitutiva;
l’imposta sugli spettacoli;
le raccolte pubbliche occasionali di fondi;
i contributi per lo svolgimento convenzionato dell’attività.
Anche su ognuna di esse si ritiene utile fare qualche accenno.
Sono esenti dall’imposta di bollo:
gli atti, i documenti, le istanze, i contratti, le copie anche se dichiarate conformi, gli estratti, le certificazioni, le dichiarazioni e le attestazioni poste in essere oppure richieste dalle organizzazioni di volontariato.
Sono esenti dalle tasse sulle concessioni governative
tutti gli atti ed i provvedimenti concernenti le organizzazioni di volontariato.
Sono pure esenti dall’imposta sulle successioni e sulle donazioni i trasferimenti a favore delle organizzazioni di volontariato.
Agli immobili acquistati a titolo gratuito, anche per causa di morte, non si applica l’imposta sull’incremento di valore. Lo stesso trattamento è riservato all’imposta sostitutiva di quella comunale sull’incremento di valore degli immobili.
L’imposta sugli spettacoli non è dovuta per le attività spettacolistiche svolte occasionalmente dalle organizzazioni di volontariato in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione. Per ottenere l’esenzione è necessario dare comunicazione, prima dell’inizio della manifestazione, all’ufficio accertatore territorialmente competente.
Sono da considerarsi attività spettacolistiche:
– gli spettacoli cinematografici e misti di cinema e avanspettacolo, comunque ed ovunque dati, anche se in circoli e sale private;
– gli spettacoli sportivi di ogni genere, ovunque si svolgano, nei quali si tengano o meno scommesse;
– gli spettacoli teatrali; le esecuzioni musicali di qualsiasi genere, escluse quelle effettuate a mezzo di elettrogrammofoni a gettone o a moneta; i balli, le lezioni di ballo collettive, i veglioni e altri trattenimenti di ogni natura ovunque si svolgano e da chiunque organizzati; i corsi mascherati e in costume, le rievocazioni storiche, le giostre e tutte le manifestazioni similari;
– gli spettacoli teatrali di opere liriche, balletto, prosa, operetta, commedia musicale, rivista, concerti vocali e strumentali; le attività circensi e dello spettacolo viaggiante;
– gli spettacoli di burattini e marionette ovunque tenuti;
– le mostre e le fiere campionarie;
– le esposizioni scientifiche, artistiche e industriali, rassegne cinematografiche riconosciute con decreto del Ministero per le finanze e altre manifestazioni similari di qualunque specie.
Il Ministro delle finanze può stabilire, con proprio decreto, quando le suddette attività sono da considerarsi occasionali.
Le raccolte pubbliche occasionali di fondi non concorrono alla formazione del reddito delle organizzazioni di volontariato anche se esse avvengono mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione.
Anche in questo caso, il Ministero delle finanze può stabilire, con proprio decreto, condizioni e limiti atti a definire occasionali le predette attività.
Non concorrono alla formazione del reddito i contributi corrisposti alle organizzazioni di volontario da amministrazioni pubbliche per lo svolgimento convenzionato di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali.
Altre agevolazioni
Tutti i vantaggi e le esenzioni finora segnalati sono riconosciuti dalla normativa nazionale. Ci sono, però, alcuni tributi che sono di pertinenza di comuni, provincia, regioni e province autonome. Per essi, i predetti enti possono prevedere la riduzione oppure, addirittura, l’esenzione. (Da ipfonlus.it)
IMU e ONLUS. Qual è la discrepanza tra Norme, Principi Costituzionali e pratica burocratica?
Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:
a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonchè dai comuni, se diversi da quelli indicati nell'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all'articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali;
(…)
i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).
Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1, comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)
e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad ente non commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi istituzionali o statutari”.
Questa è una Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.
Questa è una interpretazione EVOLUTIVA E’ necessario interpretare una disposizione normativa non solo facendo riferimento al contesto passato in cui è stata emanata ma anche a quello attuale in cui è in vigore.
Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza del 10.03.2020, n. 6752. E' bene al riguardo rammentare che l'attività ermeneutica, in consonanza con i criteri legislativi di interpretazione dettati dall'art. 12 preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale; il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 241651 , Cass. 21/5/2004 n. 97002 , Cass. 13/4/2001 n. 3495) secondo cui all'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione logica, può darsi rilievo nell'ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione. Alla stregua del ricordato insegnamento, l'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.
L’Intenzione del legislatore è chiara, ma racchiusa in quella deleteria delega agli enti locali, che sistematicamente disapplicano lo scopo ed i principi della legge.
Inoltre la mancata applicazione dell’art. 1, comma 777, della legge 160/2019 comporta la violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’ampia discrezionalità concessa ai singoli Comuni circa la possibilità di esentare da IMU – o meno – gli immobili concessi in comodato unita all’assenza di criteri univoci utili a garantire un trattamento di eguaglianza nei confronti degli enti interessati, potrebbe portare disparità di trattamento - verso gli immobili concessi in comodato - per i diversi contribuenti che risiedono all’interno di un raggio territoriale limitato a pochi km di distanza l’un l’altro, ovvero ad eventuali calcoli di convenienza tra le parti nello svolgere le proprie attività in territori comunali con immobili ad “esenzione garantita” a favore del comodante, verso il quale sarebbe auspicabile un chiarimento sia a livello legislativo, oltre che di prassi, al fine di evitare il proliferarsi di eventuali contenziosi nei confronti dei Comuni interessati a non concedere il beneficio agevolativo di esenzione in parola.
Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell'Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992, prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l'esenzione solo a quei "No Profit" che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.
Va da sè che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA' O USUFRUTTO, e non COMODATO. Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.
A tal riguardo, di contro, la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”.
Giunte di destra e di sinistra si sono succedute. Ma ad Oggi le Avetrana di tutta Italia non hanno nessuna intenzione di allargare le magie dell’esenzione.
Sul tema è intervenuta anche la giurisprudenza che, discostandosi dai principi previsti dal legislatore, ha circoscritto l’ambito applicativo dell’esenzione ai soli immobili che risultano posseduti ed utilizzati allo stesso tempo dall’ente non commerciale.
Con le ordinanze 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 co. 1 lett. c) del DLgs. 15.12.97 n. 446, in relazione all’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 30.12.92 n. 504. Secondo la Consulta, tale disposizione non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dalla richiamata lett. i), in quanto “l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate”.
La Corte di Cassazione, in più sentenze, ha espressamente subordinato il riconoscimento del diritto all’esenzione alla duplice condizione soggettiva che l’ente non commerciale possieda ed utilizzi l’immobile; e tale orientamento troverebbe fondamento nella “costante giurisprudenza di questa Corte” che in materia duplice condizione “dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito”.
Chiarimenti sono pervenuti anche dall’Amministrazione finanziaria. La circolare Min. Economia e Finanze 26.1.2009 n. 2/DF si è limitata a richiamare le ordinanze della Corte Cost. 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, ravvisandovi elementi atti a sostenere che l’esenzione “deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività … elencate” alla lett. i) dell’art. 7 co. 1 del DLgs. 504/92. Nello stesso senso si è espressa anche la ris. Min. Economia e Finanze 4.3.2013 n. 4/DF che ha ritenuto applicabili all’IMU le sopra richiamate sentenze della Corte costituzionale, oltre alla Cass. 30.5.2005 n. 11427.
Di senso opposto ed in ossequio ai principi previsti dal legislatore, si è conformata la giurisprudenza prevalente successiva. Si sta formando in giurisprudenza un indirizzo per cui l’esenzione da Imu e Tasi non spetta solamente ai soggetti che utilizzano direttamente l’immobile per il soddisfacimento dei propri fini istituzionali, ma anche a coloro che concedono in uso gratuito lo stesso immobile a realtà che lo utilizzano nel perseguono delle medesime finalità istituzionali del soggetto concedente.
Con riferimento al vincolo dell’utilizzo “diretto” dell’immobile, quale requisito inderogabile per riconoscere l’esenzione, recente giurisprudenza sta mettendo in crisi tale concetto, riconoscendo il beneficio anche nei casi in cui lo stesso immobile sia stato concesso in comodato a soggetti che, a loro volta, lo utilizzano per il perseguimento dei propri fini istituzionali, anch’essi meritevoli di tutela. L’esenzione spetta anche per gli immobili in comodato.
La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013. Nella risoluzione 4/DF del 4.3.2013, il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente. Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 letera i del D.lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto.
In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.
A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione.
Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.
Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.
D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.
Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.
È infatti con la sentenza n. 3528/2018 che la suprema Corte di Cassazione ha stabilito che gli enti non commerciali non sono esonerati dal pagamento delle imposte locali per il fatto di essere accreditati o convenzionati con la pubblica amministrazione. La sottoscrizione di una convenzione con l’ente pubblico, quindi, non garantisce che l’attività venga svolta in forma non commerciale e che i compensi richiesti siano sottratti alla logica del profitto. In tutte queste situazioni, pertanto, al fine di valutare l’esenzione, si dovranno verificare con molta attenzione le caratteristiche dell’attività svolta dall’ente non commerciale, non essendo sufficiente limitarsi alla verifica dell’esistenza di una convenzione con la pubblica amministrazione. In sintonia con l’ultima sentenza citata anche l’ordinanza n. 10754/2017 con la quale, sempre la Cassazione, ha affermato che le scuole paritarie sono soggette al pagamento dei tributi locali, e quindi non godono dell’esenzione, se l’attività non viene svolta a titolo gratuito o dietro richiesta di una somma simbolica.
In condizioni normali, dopo l’istanza in autotutela, rigettato, e dopo il reclamo-ricorso, rigettato, si potrebbe agire in giudizio presso la Commissione Tributaria Provinciale, ove si ponesse fiducia nel giudice illuminato e preparato sicuri della vittoria. Però il Comune di Avetrana, nella persona del Dr Mazza ha voluto precisare: “difenderemo gli interessi comunali in ogni stato e grado del giudizio. L’eventuale costituzione in giudizio comporta il pagamento del contributo unificato. Inoltre, la parte che perde in giudizio può essere condannata al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, maggiorate del 50% a titolo di spese del procedimento di mediazione".
Ciò significa che trovato il giudice illuminato a Taranto, ritrovato un ulteriore giudice illuminato a Bari, per forza di cose ci ritroviamo a Roma dove gli ermellini si guarderebbero bene a rinnegare i loro precedenti.
Quindi il novello Davide “Antonio Giangrande”, pur in una famiglia di avvocati e con pochezza di risorse, contro il Golia “Comune di Avetrana”, con risorse comunali illimitate, pur nella ragione, soccomberebbe.
Gli avversari troppo forti, quali sono la burocrazia e la giurisprudenza.
Il legislatore inane, che in assenza di una politica rappresentativa degli interessi diffusi, che non afferma i suoi principi e metta fine a questa sperequazione, favorisce l’intimazione, l’oppressione e l’omertà.
Ergo: Dr Antonio Giangrande, paga, subisci e taci!
Dr Antonio Giangrande
La destra avanza e la sinistra latita...La povertà aumenta: triplicata in 18 anni, dov’era la sinistra? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Marzo 2023
Monsignor Zuppi, che è il capo della Conferenza dei vescovi italiani (cioè, per capirci: non è il capo del partito comunista), intervenendo all’incontro nel quale la Fondazione Cariplo ha presentato il suo rapporto sulla disuguaglianza (la fondazione Cariplo è emanazione di una banca lombarda. Cioè: non è di origini bolsceviche) ha riassunto il suo pensiero leggendo il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione Italiana. Il quale dice così: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Monsignor Zuppi dice che questo articolo non è per niente rispettato dalla politica e dal potere. E dice che parlare di “merito” prima che questo articolo abbia ottenuto di essere rispettato è cosa senza senso. Perché si può parlare di prevalenza del merito solo in una società che abbia assicurato non dico l’eguaglianza, ma quanto meno la compatibilità tra le condizioni di partenza del giovane e della persona che si presenta alla gara sociale. Ebbene – ha osservato Zuppi, leggendo il rapporto della Cariplo – queste condizioni di partenza sono sempre più lontane. Perché il rapporto della Cariplo ci informa che negli ultimi venti anni (anzi, 18) la povertà in Italia è quasi triplicata. Cioè, per essere precisi, non è aumentata la povertà, è aumentato il numero dei poveri che è passato da un po’ meno di due milioni nel 2005 (1 milione e 900 mila) a oltre 5 milioni e mezzo oggi. È un dato sconcertante.
Anche la ricchezza, naturalmente, è aumentata, ma è aumentato anche il tasso della sua concentrazione. Non è aumentato, cioè, di molto il numero dei ricchi, perché gli ascensori sociali sono fermi, ma è aumentata la quantità della ricchezza concentrata in poche mani. Questa ricchezza, evidentemente, è stata sottratta alla parte più debole della popolazione. E così monsignor Zuppi ha posto sul tappeto un tema del quale da tanto, tanto tempo non si parla più: l’uguaglianza. Parola magica e maledetta, che – appunto – è scritta anche nella Costituzione, ma che da diverso tempo, qui in Italia (ma forse in tutto l’occidente), è stata scritta nel libro nero delle parole proibite. Il concetto di uguaglianza è stato equiparato all’idea della società comunista, che appiattisce le differenze, e quindi cancella l’iniziativa privata, e quindi abbatte la produzione di ricchezza, la concorrenza, il mercato, e alla fine anche il pluralismo e le diversità culturali. E dunque la libertà. E dunque è un male.
Ma forse l’uguaglianza della quale parla Zuppi non è esattamente questo. Cioè, non è un motore della dittatura e dell’autoritarismo. È solo la legittima aspirazione ad avere una società popolata da donne e uomini, vecchi e giovani, molto diversi tra loro sul piano culturale, etico, e anche economico, pienamente liberi, ma che vivono in uno Stato che garantisce a tutti – tutti – di vivere in condizioni di dignità, di serenità, di non indigenza. Non credo che Zuppi ambisca a radere al suolo il mercato. Forse però immagina un mercato che disponga della distribuzione delle ricchezze, ma con dei limiti che sono poi limiti naturali: e cioè non abbia il diritto di far funzionare i propri meccanismi alimentandosi con la povertà di un settore minoritario ma consistente della società.
Tutto qui. Niente di straordinario. Si tratta semplicemente di stabilire una griglia di diritti che permetta l’esprimersi della libera concorrenza ma senza porre la libera concorrenza al di sopra dei diritti individuali e collettivi. Non c’è bisogno di ricorrere a Marx, a Lenin. a Gramsci: basta scorrere i testi di alcuni discorsi e scritti di un papa mite e moderato come Giovanni Battista Montini, cioè Paolo VI. Il quale nel 1967 scrisse un’enciclica molto famosa, che fu stampata in centinaia di migliaia di copie in un libricino esile e con la copertina di cartoncino giallo, intitolata Populorum progressio. In questa enciclica era possibile leggere la seguente frase (oggi assolutamente scandalosa): “La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario.“
Dopo quella enciclica nel nostro paese ci fu effettivamente una spinta a ridurre, attraverso il riformismo, le diseguaglianze e a ridurre anche la povertà. Negli ultimi trent’anni quella tendenza si è invertita: mentre l’Italia cresceva sul piano della sue ricchezze, le diseguaglianze, anziché diminuire ed attenuarsi, sono aumentate fino a raggiungere il livello attuale che è assolutamente insopportabile e che ci porta molto lontano dalla Costituzione. Quali sono le cause di tutto questo?, si è chiesto monsignor Zuppi. Io penso di poter dire una cosa lapalissiana. Il motivo di questa degenerazione è stato il rovesciarsi dei rapporti di forza in politica. Fino agli anni Ottanta la politica italiana era bilanciata dalla contrapposizione e dalla lotta tra una borghesia, in parte illuminata e moderna, e una classe operaia (un movimento operaio) molto forte sia sul piano numerico e sociale sia su quello della sua rappresentanza politica. Il sindacato era un pilastro dell’architettura sociale.
La sinistra godeva di un eccezionale prestigio e di una forte capacità di influenza sul potere politico e persino su settori importanti dello schieramento conservatore. In questo clima tutte le riforme che furono realizzate furono riforme che non avevano come scopo essenziale quello di rendere più libero il capitalismo, ma quello di migliorare le condizioni economiche di vita, e i diritti, delle classi più deboli.
A metà degli anni Ottanta, e poi soprattutto nei Novanta, la situazione si capovolge. Il riformismo diventa uno strumento per chi vuole ridurre i diritti dei più deboli, e immagina che l’interesse del paese, quindi l’interesse generale, coincida con l’interesse delle classi dominanti e sia del tutto subalterno alle necessità del sistema produttivo.
Paolo VI è morto da molto tempo. Le tendenze sociali della Chiesa, con Wojtyla e poi con Ratzinger, si rinsecchiscono, e si avvitano tuttalpiù nel caritatismo. Il movimento operaio scompare, la borghesia illuminata lascia al suo posto la borghesia conservatrice, la sinistra – che aveva sprigionato per due decenni la sua egemonia politica – si inchina al liberismo e al giustizialismo. Il liberismo e il giustizialismo diventano i padroni dell’intera macchina politica. Piegandola ai propri interessi o al proprio fondamentalismo. Il giustizialismo prende il posto della lotta sociale, danneggiando pesantemente l’economia, ma senza nessun vantaggio per la giustizia sociale. L’assalto alla politica (alla Casta, come viene definita con disprezzo dalla stampa borghese) porta immediatamente a una riduzione della democrazia, e dunque del conflitto, e dunque del potere dei ceti più deboli.
In queste condizioni, ogni crisi economica si scarica interamente sugli ultimi. E questa discesa sociale è accompagnata dalla nuova ideologia della destra, costruita tutta sulla caccia agli ultimi che vengono contrapposti ai penultimi e cioè al ceto medio. La costruzione di una forte opinione pubblica xenofoba e in parte razzista è parte integrante di questa operazione politica, alla quale la sinistra, sbandata, non sa rispondere. Balbetta. Talvolta denuncia. Rinuncia al conflitto, si affida alla magistratura.
Nasce così il crollo di civiltà al quale assistiamo. E che ha portato al trionfo della destra radicale, che oggi ha conquistato il governo, e al degrado sociale denunciato dalla Cariplo. Non credo che si possa porre riparo a questa frana, senza una ripresa della sinistra, e un suo ritorno al pensiero e all’azione. La Chiesa fa quel che può. Rabbercia qualche squarcio. Non può fare di più.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Antonio Giangrande: A.D. 2014. MORIRE DI DENTI, MORIRE DI POVERTA’, MA I DENTISTI SI SCAGLIANO CONTRO ANTONIO GIANGRANDE.
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, uniinfezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo. Dr Antonio Giangrande
La vita dei senzatetto con 10 euro al giorno: «Mio figlio lavora qui, finge di non conoscermi. Giuro che mi rialzerò». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023
Sotto i portici di Torino, tra gelo, coperte e cellulari nascosti nelle mutande. Antonino: «Prima ho finito gli amici, poi i soldi». Cristina: «Vorrei andare al mare con il mio nipotino». È raddoppiato in 3 anni il numero di chi vive per strada: tanti tra i 40 e i 60 anni
«I o nella vita una cosa l’ho capita, che la gente è cattiva». Cristina aveva un figlio, un marito, una casa, un impiego, e ora non ha più niente. Uno schiocco di dita. «Ci vuole tanto così, basta un attimo». Chissà quando è successo. Quando si è rotto il ghiaccio sotto ai piedi di una esistenza normale. Quale è stata la disperazione che ti ha obbligato a convincerti che questo strato di cartone sopra al marmo freddo e queste coperte che non bastano mai sono stati davvero una scelta, e non un vicolo cieco. «Se cadi, sono contenti, e gli piace lasciarti a terra, li fa sentire fortunati». Cristina è considerata la decana dei portici. Quando parte per i suoi viaggi senza destinazione, nessuno occupa il suo posto sotto all’insegna luminosa del negozio Mont Blanc. Se un nuovo arrivato ci prova, trova sempre qualcuno pronto a fargli cambiare idea, con le buone o con le cattive. Ma lei non fa mai caso a quel che le succede intorno. Tutto il suo mondo e i suoi ricordi stanno dentro un sacchetto da supermercato, oggetti sparsi alla rinfusa, che lei estrae per esibirli come fossero una prova, non è sempre stato così, anche io sono stata come voi, anche io sono stata felice. «Ho pure un nipotino, lo sa? Guardi la foto, come è bello». È una donna impegnata a conservare la propria dignità, che per prima cosa mostra le sue unghie pulite e il suo astuccio per la toilette agli estranei che la stanno disturbando. «Stavo per andare a letto» dice con la sua voce da cantilena piemontese. E ci aggiunge un sorriso che richiede complicità. Ma è difficile ricambiarlo.
Le strade del lusso
Notte di inizio febbraio. Tira un vento gelido, uno sguardo al telefonino rivela che siamo già sottozero, tra due ore si scenderà a -4. Per tutte queste persone accampate tra via Roma e Galleria San Federico magari è normale. Però fa proprio tanto freddo, da battere i piedi sul selciato dove loro invece dormono, o almeno ci provano. Gli articoli sui clochard all’addiaccio sono come le strenne natalizie, riservano sempre poche sorprese, quando arriva la stagione si guarda e si scrive, poi finisce lì, fino al prossimo inverno. O al prossimo dolente ritratto sul morto senza nome dimenticato da tutti. Torino ne è una capitale, a malincuore. Oltre 2.200 persone senza casa, una ogni cinquecento abitanti. Negli ultimi tre anni sono raddoppiate. Via Roma e i suoi portici sono il cuore commerciale della città, una passerella a cielo aperto. Tutte le sere intorno alle 19.30 è come se avvenisse un passaggio di consegne tra il popolo di sopra e quello di sotto. Gli ultimi pendolari corrono verso la stazione di Porta Nuova, i turisti rientrano in hotel, pregustando le cene, la partita in televisione, il calore di una casa. Le strade del lusso si svuotano. Come dal nulla, spuntano decine di persone, che attendevano solo il momento per sistemare il loro giaciglio, le loro cose chiuse nei sacchetti, ammassati in carrelli della spesa sbilenchi. All’ultimo censimento fatto dei vigli urbani, un mese prima della pandemia, si contavano nel giro di poche centinaia di metri circa 250 «senza fissa», come li chiamano gli operatori sociali, lasciando cadere dalla definizione quel «dimora» ormai inutile. Quando la trasformazione è compiuta, il contrasto tra le vetrine illuminate dei negozi alla moda e quelli che ci dormono fuori non potrebbe essere più violento.
Sacchetti e riviste
«È una vita che consuma, che ti spegne come una candela. Ma hanno fatto più male i dispiaceri». Ogni tanto Cristina fugge, non solo dal freddo di questi marmi, ma da un dolore al quale non riesce a dare un nome. Sale su un treno interregionale che la porta in Liguria, e poi verso il mare, su fino alla Costa Azzurra. «Immagino di fare le vacanze con mio nipote, che oggi dovrebbe avere sette anni. Ma poi mi viene in mente che non so neppure più dove abita, che forse non saprei riconoscerlo. E torno indietro». Scende per ultima e fa incetta di giornali e libri dimenticati dagli altri passeggeri. Tira fuori da un altro sacchetto una guida di Nizza, un libro in francese di Anna Politkovskaja, giornali vecchi di qualche giorno. «Cerco di tenermi aggiornata, di capire qual è il nostro futuro. Vivere per strada non significa mica essere privi della propria dignità». Ma a cominciare dai verbi sempre coniugati al passato, tutto in lei induce al rimpianto. Dal balcone di casa sua vedeva i soldati della caserma di fronte che ogni sera uscivano a suonare il silenzio. Suo marito era un tecnico della Fiat. Poi cosa è successo, Cristina? «La gente muore, la gente che resta delude. Chi è più debole sta male. Io non ce l’ho fatta, non ho retto. Ma un giorno mi rialzerò. Sono qui di passaggio. Appena trovo una casa, mi sistemo».
In cerca di un riparo
Nessuno dice di essere qui per restare. La rientranza nel portico del cinema Lux è uno dei luoghi più riparati. È già passata mezzanotte quando una voce chiama da sotto un cumulo di coperte. Antonino, 44 anni, un tempo artigiano decoratore a Moncalieri. Problemi con le droghe, una denuncia durante il lockdown per avere aggredito un carabiniere. Una fidanzata che non ne poteva più di lui. Prima sono finiti gli amici, poi i soldi. La solitudine è sempre l’inizio della discesa. Fino a Natale racconta di essere stato ospite del dormitorio di Rivoli. «Ma lì comandano gli africani. E poi qui si sta meglio, almeno non hai obblighi». Giaccone, cuffia di lana, scarpe ai piedi, telefonino e portafoglio nascosti nelle mutande. La notte si dorme poco. I piccioni disturbano, il mal di schiena morde, ogni tanto qualcuno prova a rubare qualche oggetto al proprio vicino di giaciglio. Antonino conosce tutto e tutti, vita, morte e miracoli. Ma racconta di essere arrivato in Galleria San Federico appena tre mesi fa. «È più facile “scollettare” con i passanti che trovare un lavoro. Per fare la spesa al Lidl mi bastano dieci euro al giorno. Tanto alle 22.10 arrivano sempre i volontari con il cibo caldo. Se fai passare troppo tempo finisce che ti ci abitui. Ancora qualche giorno e me ne vado».
Nel mondo di sotto
La foto di denuncia fa sempre il suo effetto, anche se negli anni ha perso ogni significato. La prospettiva di via Roma è una lunga fila di rudimentali fagotti, i sacchi a pelo sono merce rara, uno per ogni rientranza di negozio, illuminati dalle insegne dei marchi più famosi e di prestigio. Ma non c’è causa e non c’è effetto. Non è il consumismo altrui che trasforma una donna o un uomo in un clochard. È come se le crisi economiche degli ultimi anni avessero ridisegnato la mappa del cosiddetto disagio sociale, definizione quasi rassicurante coniata per nascondere la nostra paura dell’abisso, della povertà estrema, che non sembra ma è lì a un passo. Non ti accorgi del piano inclinato, e ci scivoli sopra. Nel gennaio del 2020 uno studio dei Servizi Sociali del Comune aveva tolto qualunque patina da scapigliatura e di ribellione al destino di chi dorme per strada. Più della metà dei senza tetto era di nazionalità italiana e aveva un’età compresa tra i quaranta e i sessant’anni. I giovani, solo stranieri, quasi tutti dell’Europa dell’Est, perché il Covid ha cambiato ancora una volta tutto obbligando intere comunità all’esodo. Anche nel centro di Torino è come se il mondo di sotto fosse diviso in due. Agli italiani vanno gli anfratti più riparati, conservati talvolta con l’aiuto dei volontari che forniscono lucchetti e catene per fissare il proprio bagaglio. Quelli in galleria, quelli dove c’è una qualunque sporgenza che protegge e rende più tollerabile il freddo. I rumeni appena giunti da Satu Mare, centomila abitanti ai piedi delle montagne di Transilvania, dormono dove capita insieme ai loro cani. Antonio, uno di loro, chiede aiuto. Accanto a lui c’è una sua anziana parente, Adeliana, che trema in modo vistoso. Il suo unico riparo è un lenzuolo usa e getta di tessuto sintetico, di quelli che si usano nelle case di riposo. «Da noi non c’è niente. Quando arriva la neve grande, veniamo da voi».
Verso la stazione
Alle 4.20 si alzano quasi tutti. A quell’ora apre l’atrio della stazione e il suo bar interno. Esiste un patto tacito con i vigili urbani, niente bisogni in strada, altrimenti i commercianti protestano e arriva la nettezza urbana che carica sui camion la spazzatura e i giacigli. L’unica toilette è quella del parcheggio sotterraneo in piazza CLN, ma è lontana. Molti clochard usano i pannoloni, che al mattino gettano nei cestini pubblici. Mentre seguiamo il piccolo gruppo che attraversa piazza San Carlo, si sveglia Massimo, che ha preso residenza vicino allo storico Caffè Torino. Il suo unicorno appoggiato ai piedi del materassino da yoga sul quale dorme è l’esca che usa per attirare le elemosine. Con la barba bianca incolta e lo sguardo buono, è diventato un elemento del paesaggio. Ex operaio, un figlio trentenne che lavora in un bar poco distante. «Abbiamo il patto che fingiamo di non conoscerci». Trecento euro per la pensione di invalidità, affetto da depressione bipolare. «La verità è che abbiamo tutti problemi mentali. Altrimenti chi si lascerebbe andare in questo modo?». Fino a qualche mese fa puliva le stalle in un maneggio, poi non ce l’ha più fatta. «Non avere un tetto è un lavoro a tempo pieno. Ma sono ottimista, tra poco me ne andrò da qui». Anche lui sente il bisogno di ripeterlo, in primo luogo a se stesso. Perché una piccola speranza di futuro vale più di una casa. Come per Cristina, che cerca solo qualcuno che le voglia bene. Come per Antonino, che aspetta l’aiuto di un amico perduto. Contano i giorni, e sono qui da anni.
Lettere al Riformista. La storia di Federico, uscito dal carcere e diventato un senza tetto: “Ha pagato tutto ma suo figlio finge di non conoscerlo”. Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Febbraio 2023
Non sempre chi sbaglia, finisce in carcere e sconta per intero la pena, salda il suo debito con la giustizia, poi viene perdonato e riabilitato alla vita. Anzi questo è forse un lusso di pochi: lo stigma dell’essere un “ex detenuto” accompagna tanti a vita. Lo sa bene Luigi Mollo, corso di laurea in scienze politiche relazioni internazionali diritti umani presso l’Università degli studi di Padova, progetto Università in carcere. Un giorno gli è capitato di fare la conoscenza di un senza tetto, Federico (nome di fantasia), ex detenuto che ha scontato per intero la sua pena. Ma il ritorno alla vita da uomo libero non è stata una gioia incontenibile come tanti si aspetterebbero. Anzi, dall’uscita del carcere è iniziata la sua discesa verso gli inferi. La sua storia è emblematica e lo ha molto colpito. Ecco perché ha deciso di scrivere una lettera al Riformista per raccontarla. Riportiamo di seguito le sue parole.
Nella vita ho capito che gli uomini hanno poca intenzione di perdonare gli errori nonostante c’è chi come me che li ha pagati tutti innanzi la legge. Vi racconto la storia di Federico (nome di fantasia), 47 anni, problemi con le droghe e una denuncia per aggressione ad un carabiniere diventata poi condanna definitiva. Aveva un figlio, una casa, un impiego, e in un attimo, uno schiocco di dita, si è rotto il ghiaccio sotto i suoi piedi ed è caduto nelle gelide acque della detenzione, distruggendo definitivamente la sua esistenza.
Ora dopo aver pagato il suo debito, vive sotto i portici della mia città, come letto uno strato di cartone sopra al marmo freddo, e coperte che in questa stagione non bastano mai. Mi dice in un amaro sorriso che era più confortevole il materasso che aveva nella sua cella, ed io noto un sacchetto ove sta dentro tutto il suo mondo e tutti i suoi ricordi, oggetti sparsi alla rinfusa che estrae esibendo come fossero una prova tangibile della sua esistenza e, con voce ferma e seria mi dice: “vedi che non è sempre stata così la mia vita, anche io sono stato felice”.
Mi accorgo che è un uomo impegnato a conservare la propria dignità, mani e viso puliti, qualche libro ordinato per terra, telefono e portafoglio nascosti nelle mutande. Parla a ruota libera con me che sono un perfetto sconosciuto e mi dice che tutti non ne potevano più di lui, e che la solitudine è stato il suo inizio verso la discesa; la notte dorme poco, il mal di schiena morde e ogni tanto qualcuno prova a rubargli qualche oggetto di poco valore. Racconta che la sera i volontari passano sempre con cibo caldo e in quel momento esce dalla sua solitudine e per un attimo sente ancora le attenzioni di qualcuno che non lo ha dimenticato, aggiunge anche che esiste ormai un patto con la polizia locale, che non interviene se si lascia il portico privo di spazzatura, altrimenti i commercianti poi protestano.
Mi turba profondamente quando mi rivela che il figlio lavora in un negozio non distante dal suo riparo, e che tra i due vige un patto di non conoscersi, due singoli elementi nel paesaggio circostante. Uscire dal carcere, ritrovarsi senza un tetto diventa un lavoro a tempo pieno, finisci per contare i giorni e poi resti in quelle condizioni per anni. A mio avviso, l’uscita dal carcere non è automaticamente un approdo felice, assomiglia a un’odissea prolungata e conosce le sue tempeste, come una vela spezzata e solo ricucita, esposta ai venti amici o nemici dell’aiuto o dell’ostilità sociale.
Se solo si potesse tornare al secondo prima di commettere l’errore, ma il tempo corre in avanti e non può tornare indietro. Il dopo-carcere è uno stigma pesante, perché si sale la china con il passo di chi è ferito. La recidiva la si costruisce giorno per giorno nell’ozio di una cella. Le misure alternative sono una speranza in cui credere, e solo un uomo giusto le può concedere ad un uomo sbagliato, mira ad evitare danni di questo tipo, migliora la condizione psicologica inflitta dalla privazione della libertà. Rossella Grasso
Homeless, popolo in crisi: crescono italiani e donne. «I servizi non bastano mai». Giulio Sensi su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023
Aumenta il numero di chi vive in strada o si adatta a soluzioni d’emergenza. I senza dimora concentrati nelle metropoli. FioPsd: «Bisogna superare le politiche emergenziali». L’impegno del Terzo settore
Fanno notizia quando muoiono di stenti o di freddo per strada, ma per ogni vita persa ce ne sono migliaia salvate da enti e associazioni che si prendono cura degli invisibili. Roma è la capitale dei senza dimora: quasi un quarto di tutti quelli che in Italia non hanno un tetto sotto cui dormire vivono nell’area metropolitana capitolina. «In città sono circa ottomila - racconta Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio - e un terzo di loro vive nelle strutture del Comune o della rete delle parrocchie e associazioni, un altro terzo dimora in alloggi impropri e di fortuna. Un terzo sta per strada». Non sono soli, ma stanno aumentando. «Tante cose migliorano - aggiunge D’Angelo - sul versante dei servizi e dell’accoglienza anche grazie a una nuova sensibilità delle amministrazioni e all’aumento del 42 per cento dei posti letto in strutture più piccole e disseminate sul territorio. Negli ultimi cinque anni la Sant’Egidio ha strappato dalla strada, accompagnandole, più di 300 persone. Ma la crisi cronica che stiamo vivendo ne sta spingendo molti altre nella spirale della povertà».
Non esiste un numero preciso dei senza dimora in Italia: l’ultima stima dell’Istat, datata 2021, è di oltre 96mila, ma nel computo ci sono anche quelli che pur non avendo una abitazione fissa non vivono comunque in condizioni di indigenza e possono tornare ogni sera sotto un tetto dignitoso, magari da parenti, amici o in strutture mobili. Nel 2015, il dato più recente specificatamente dedicato ai senza dimora in condizioni di marginalità, la stima fatta sempre da Istat con il supporto delle associazioni era di oltre 50mila.
Una parte consistente è composta da stranieri con o senza permesso di soggiorno, ma gli italiani sono in forte crescita. «È allarmante - spiega Caterina Cortese, responsabile dell’Osservatorio di FioPsd, la federazione nazionale in cui sono riunite circa 146 realtà che si occupano del fenomeno - l’aumento delle donne in genere e dei giovani problematici fuoriusciti da percorsi istituzionali che hanno perso rapporti con le famiglie di origine. E sta crescendo il numero degli italiani: oltre a quelli che hanno una storia di marginalità risalente nel tempo, c’è un’accelerazione dello scivolamento di nuclei che con la perdita del lavoro e poi della casa si ritrovano per strada». «La nostra stima - spiega la presidente di FioPsd, Cristina Avonto - è una crescita del 30 per cento rispetto al 2015. C’è una quota di cronicizzati, ma ciò che inquieta è la facilità maggiore con cui si scivola in basso. Assistiamo ad uno sfaldamento delle reti di tenuta: la perdita del lavoro, una malattia, una rottura familiare portano più facilmente le persone per strada. Il reddito di cittadinanza ha permesso a tanti di accedere ad alloggi dignitosi. E la presidente sottolinea: «Certo, è giusto ridiscuterlo, ma ricordandoci che è stato fondamentale per molti».
Le parole d’ordine delle associazioni sono «housing first»: prima la casa, poi ricostruire una vita dignitosa. I servizi non bastano mai, specie nelle grandi città come Roma e Milano, ma funzionano e danno assistenza insieme alle tante associazioni e ai volontari. L’Italia, a livello nazionale e locale, non è indietro nelle politiche di contrasto al fenomeno, ma a parere delle associazioni serve un cambio di passo e un lavoro di squadra per rendere accessibili le abitazioni. «Rischiamo - aggiunge Avonto - di tornare alle politiche emergenziali. Panini, docce, mense sono importanti, ma non bastano, servono politiche più strutturali e di lungo periodo e il mantenimento dei fondi di contrasto alla povertà che permettono sui territori di fare interventi efficaci».
Con prezzi di affitto più accessibili almeno una parte del problema si potrebbe risolvere. «Cosa che a Milano - commenta Alessandro Pezzoni di Caritas Ambrosiana - è quasi impossibile. Le abitazioni sono ancora poche, troppo poche, e continua a prevalere l’offerta del solo posto letto. Stiamo lavorando alla costruzione di interventi più ampli per accompagnare le persone, che peraltro vivono spesso condizioni di precaria salute mentale e di dipendenze, a ricostruire la propria vita. Caritas, come molte altre realtà, cerca di fare un lavoro di attivazione della comunità: non vogliamo creare ghetti, ognuno di loro ha certo fragilità, ma anche potenzialità e risorse da mettere in gioco».
Un’impresa a volte quasi impossibile, che richiede tempi molto lunghi e la riattivazione dei legami sociali. A Bologna Piazza Grande sperimenta l’approccio del lavoro di comunità per costruire un contesto sociale che riaccolga le persone emarginate. Gestisce cento appartamenti e ad oggi ha accolto 73 persone che hanno ritrovato un tetto e una vita grazie al progetto housing first. La presidente della cooperativa sociale, Ilaria Avoni, spiega: «Lavoriamo su due fronti. Da una parte l’empowerment delle persone per cambiare la loro condizione, dall’altra la necessità di andare oltre l’assistenzialismo e il superamento dell’idea del singolo servizio per coinvolgere la comunità. Associazioni e volontari partecipano all’animazione delle strutture, contribuendo a ricostruire una socialità che quando viene meno è spesso una delle cause della perdita di tutto».
In Italia 2 milioni di famiglie in povertà assoluta: ricchezza nelle mani di pochi. di Redazione Buone Notizie su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.
Allarme anche per il nostro Paese nel rapporto dell’Oxfam: «I super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di una ricchezza equivalente a quella dal 60% degli italiani più poveri»
Sempre più ricchi: pochi. E sempre più poveri: tanti. La «disuguaglianza non conosce la crisi» è la sintesi del rapporto di Oxfam - organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze – presentato al World Economic Forum che si è aperto oggi a Davos in Svizzera e proseguirà fino a venerdì sul tema «La cooperazione in un mondo frammentato». Disuguaglianze in tutto il mondo. Ma anche in Italia, dove « i super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di un ammontare di ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri». A conti fatti nel nostro Paese «due milioni di famiglie vivono in povertà assoluta». Un dato preoccupante, accompagnato da una forte «disuguaglianza dei redditi netti, che colloca l’Italia tra gli ultimi paesi nella Ue».
L’allarme
I bilanci generali dei cinque Continenti che vengono presentati al vertice di Davos – in cui sono previsti oltre 450 panel con 2.700 partecipanti provenienti da 130 Paesi, fra cui 52 capi di Stato o di governo - sono un chiaro campanello d’allarme. Un dato su tutti: «Dal 2020 l’1% più ricco – si legge nel rapporto di Oxfam - si è accaparrato quasi il doppio dell’incremento della ricchezza netta globale rispetto alla quota andata al restante 99% della popolazione mondiale». Una forbice che si allarga: «Le fortune dei miliardari aumentano di 2,7 miliardi di dollari al giorno, mentre almeno 1,7 miliardi di lavoratori vivono in Paesi in cui l’inflazione supera l’incremento medio dei salari».
Le percentuali italiane
Ma torniamo all’Italia che deve fare i conti con un sempre crescente divario. Le cause? All’inizio la pandemia, poi la crisi dell’energia, l’impennata dei prezzi, il tasso d’inflazione mai così alto da 35 anni. E le previsioni che indicano un peggioramento della situazione in tema di disuguaglianza. «Tra il 2020 e il 2021 è cresciuta la concentrazione della ricchezza in Italia: la quota detenuta dal 10% più ricco degli italiani (sei volte quanto posseduto alla metà più povera della popolazione) è aumentata di 1,3 punti percentuali su base annua a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 20% più povero e di un calo delle quote di ricchezza degli altri decili della popolazione. La ricchezza nelle mani del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41,7% della ricchezza nazionale netta) a fine 2021 era superiore a quella detenuta dall’80% più povero dei nostri connazionali (il 31,4%)».
I super ricchi
Così i super ricchi, come viene indicato dall’Organizzazione sui dati relativi 2021, detengono patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani): una ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri. «Nonostante il calo del valore dei patrimoni finanziari dei miliardari italiani nel 2022, dopo il picco registrato nel 2021, il valore delle fortune dei super ricchi italiani (14 in più rispetto alla fine del 2019) mostra ancora un incremento di quasi 13 miliardi di dollari (+8,8%), in termini reali, rispetto al periodo pre-pandemico». E in tema di povertà assoluta «stabile nel 2021 dopo un balzo significativo nel 2020, questa interessa il 7,5% delle famiglie (1 milione 960 mila in termini assoluti) e il 9,4% di individui (5,6 milioni di persone). Un fenomeno allarmante che ha visto raddoppiare in 16 anni la quota di famiglie con un livello di spesa insufficiente a garantirsi uno standard di vita minimamente accettabile».
Gli interventi e il governo
«L’aumento dell’incidenza della povertà è stato attenuato, nell’emergenza, dagli interventi pubblici di supporto alle famiglie, ma le prospettive di arretramento sono forti alla luce dei fattori correnti di rischio per l’economia italiana come gli impatti del conflitto russo-ucraino e la crescita dell’inflazione – ha commentato Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia -. Le misure di sostegno alle famiglie devono proseguire ed essere indirizzate meglio verso le famiglie in condizioni di maggior bisogno. È inoltre indispensabile abbandonare il regime transitorio del Reddito di Cittadinanza per il 2023, riformando l’unica misura strutturale di contrasto alla povertà di cui disponiamo». Intanto crollano i salari per oltre 6 milioni di dipendenti privati, a tal punto che gli adeguamenti non copriranno l’inflazione. E dal governo «arrivano misure ancora insufficienti. Se il dilagare del lavoro povero rappresenta una caratteristica strutturale del mercato italiano, destano preoccupazione le iniziative già messe in campo e le intenzioni del nuovo Esecutivo>, ha concluso Maslennikov.
Ogni giorno in Italia muore un senza fissa dimora. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 9 gennaio 2023.
Sono 387 le persone senza dimora morte in Italia nel corso del 2022, più di una al giorno, per la quasi totalità uomini, per due terzi stranieri e con una età media di 49 anni. Quattro quelle che si contano già nei primi giorni del 2023. Di alcune di loro conosciamo il nome, il cognome e il Paese d’origine, di centinaia di altre è impossibile accertarne l’identità. Corpi invisibili che finiscono nell’oblio e che di anno in anno, diventano sempre di più. Nel 2021 i decessi sono stati 251, nel 2020 invece 212, quasi la metà di quelli registrati nei mesi appena trascorsi. «I dati, purtroppo, confermano la costante di un morto al giorno, una dimensione della tragedia mai vista in questi anni», ha commentato Michele Ferraris, responsabile della comunicazione della Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora (Fio-Psd).
La maggior parte delle vittime viene ritrovata per strada (46,8%), in sistemazioni di fortuna (29,7%) e in stazione (9%). Si muore anche in ospedale (12,2%), e nei boschi, campi, pinete, fiumi e mare o in automobile, così come nei sottoscala, parcheggi, cavalcavia e case abbandonate. Le cause che portano alla morte sono diverse: molti sono stroncati da un malore, altri finiscono investiti da un’auto o dal treno. «In genere si muore in situazioni in cui non ci si troverebbe mai, se non si vivesse in strada e se non si fosse per questo psicologicamente o fisicamente molto provati» dice il responsabile. Nel restante dei casi, le vittime muoiono dopo aver subito una violenza, o per overdose. Succede anche che la morte sopraggiunga per annegamento o per suicidio. Infine c’è l’ipotermia. In generale, anche se non è così facile stabilire con certezza quali siano state le ragioni primarie che hanno portato alla morte, circa il 60% dei decessi avviene per via di incidenti, violenza e suicidio, mentre il restante 40% per motivi di salute.
Al contrario di quanto solitamente si tende a pensare, non è vero che tutti i senza dimora muoiono uccisi dal freddo. In realtà si contano vittime tutti i mesi, anche se è chiaro che le basse temperature portano maggiore sofferenza (e certo, talvolta anche la morte) e sono nemiche di chi non ha la garanzia di avere un tetto sotto cui ripararsi. «I piani freddo dei comuni sono in grado di ammortizzare i decessi» ha proseguito Ferraris. Si tratta di un progetto, portato avanti dai servizi sociali dei comuni, attivato annualmente quando le temperature si fanno rigide. Prevede, tra le altre cose, la predisposizione di posti letto in strutture come scuole o palestre, che possono anche rimanere aperte tutto il giorno, e maggiori uscite delle Unità Mobili. «Sicché i numeri di marzo e settembre, oppure di gennaio ed agosto, sono simili». Certo, non è facile trovare posto per tutti, soprattutto in città più piccole che non hanno a disposizione grossi edifici come quelli di Torino o Milano.
Secondo i dati Istat (terzo Censimento permanente della popolazione e delle abitazioni, autunno 2021), in Italia le persone senza dimora sono poco più di 96mila, il 38% delle quali è di nazionalità straniera e in prevalenza maschile (212,4 uomini ogni 100 donne) con un’età media tra i 41 e i 45 anni per gli italiani e di 35 per gli stranieri. Un incremento, rispetto a 7 anni fa, di circa il 20% o forse più, principalmente perché «sono aumentate le situazioni di grave povertà soprattutto legate ai nuclei familiari. Chi era al limite della sopravvivenza ha risentito molto degli aumenti delle bollette o dell’inflazione alimentare». E in mancanza di un sistema che attutisca il più possibile tali traumi, il rischio che queste cifre continuino ad aumentare è piuttosto ampio. «Si può iniziare col dormire in macchina, poi subentrano depressione e altri problemi di salute. Si innesca così un ciclo negativo che travolge tutti gli aspetti della vita», dice Ferraris.
Secondo gli ultimi dati, i più aggiornati, messi a disposizione dall’Istat l’estate scorsa, nel 2021 in Italia vivevano in povertà assoluta – condizione definita tale quando non si raggiunge la spesa minima mensile, soggetta a variabili, per beni e servizi considerati necessari per mantenere uno standard di vita accettabile – circa 5,6 milioni di persone, cioè il 9,4% di tutta la popolazione. Il triplo rispetto a quindici anni fa, quando la povertà assoluta riguardava il 3,1% dei cittadini.
Eppure, povertà o meno, teoricamente il diritto ad avere una casa (almeno quello) dovrebbe essere garantito a tutti. La carta sociale dell’UE, all’articolo 31, recita proprio queste parole: “Tutte le persone hanno diritto all’abitazione”, che questa sia “vivibile” e che rispetti la dignità di ogni cittadino dell’Unione. Nella carta si legge inoltre che uno degli obiettivi principali dei Paesi dovrebbe essere quello di prevenire e ridurre fino ad eliminare completamente lo status di “senza tetto”, garantendo ad esempio la presenza sul territorio di alloggi economicamente accessibili a tutti. Ad oggi, in Italia, il prezzo medio di un affitto (tralasciando la grandezza e le condizioni dell’abitazione) si aggira attorno ai 538 euro. Una cifra non propriamente definibile alla portata di tutti. [di Gloria Ferrari]
Giusy, l'ex negoziante del centro di Milano, in fila alla mensa dei poveri per un pasto gratuito: «Non vivo con 600 euro». Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 31 Dicembre 2022.
Aveva una vetrina in piazza Cordusio e vendeva articoli da regalo: «Salutavo tutti i giorni Giorgio Strehler». Poi l'affitto insostenibile e la precarietà, fino alla coda al «Pane quotidiano»
Anche oggi si è mescolata alla babele di lingue, fragilità, ruvidità, rassegnazioni e furbizie che ogni mattina si mette in coda per un pacco viveri. Non lo fa tutti i giorni ma è comunque una presenza assidua, conosciuta dai volontari e anche dai dirigenti dell’Opera Pia «Pane quotidiano», che offre cibo a chiunque si presenti ai cancelli. «Giusy e basta», si presenta, e accetta di raccontarsi per non dispiacere ai volontari che gliel’hanno proposto e perché è consapevole che la sua storia non merita di rimanere tra pochi. «Si deve sapere che una persona che ha sempre lavorato, arriva alla pensione in queste condizioni».
Classe 1947, nativa di Lipari, Eolie, Sicilia, ma parlata assolutamente milanese come tanti immigrati bambini. A Milano è arrivata quando aveva 3 anni, in pieno boom economico. Non sa dire neanche lei se da quel treno, finalmente fermo sotto le arcate della Stazione centrale, è scesa in braccio a papà o mamma passando dalla porta o se invece, come raccontano le immagini di allora, anche lei è stata trasferita da un abbraccio all’altro attraverso un finestrino nella calca di valigie di cartone. Però ricorda quando iniziò a lavorare: 11 dicembre 1969, un giorno prima della mostruosa esplosione in piazza Fontana. È la tipica figlia di quell’immigrazione e di quella città, che dava opportunità e prospettive a tutti. E lei, tra i nebbioni e le luci di piazza Duomo — dove la dattilografa della pubblicità luminosa della carta carbone Kores ripeteva i suoi gesti all’infinito — ha trovato la sua vita, l’ha potuta costruire fino a mettersi in proprio, altra cosa molto ambrosiana: titolare di un negozio. Ma mica una bottega di periferia, no: una vetrina nientemeno che in piazza Cordusio, il salotto delle banche con vista su maschio del Castello Sforzesco e sulla guglia della Madonnina.
«Vendevo articoli da regalo» racconta modificando inconsapevolmente sguardo, timbro di voce e postura. Sembra di vederla dietro il suo bancone di piccola imprenditrice abituata a incrociare uomini incravattati e frettolosi che non chiedevano lo sconto e signore ingioiellate che dedicavano tanto tempo alla scelta del regalo e che lo sconto alla fine lo chiedevano. Fuori da quel negozio c’era Milano. E che Milano: «Salutavo tutti i giorni Giorgio Strehler, perché il suo teatro era proprio lì di fronte, e parlavo con sua moglie Andrea Jonasson, eravamo come vicine di casa, e c’era Renato De Carmine, l’attore, gran bell’uomo...». Erano anni belli, per lei e per Milano.
Poi racconta di quando si è ritrovata il conto corrente bloccato «perché era la banca di Michele Sindona». Le cose cambiano. «L’affitto del negozio continuava ad aumentare e non ci stavo più dentro» e allora la decisione di rimettersi in gioco nel mondo che cambiava: «Sono stata co.co.co, co.co.pro. e tutta quella roba lì, con il risultato che oggi mi ritrovo con una pensione da poco più di 600 euro. Mi dica lei come si fa a vivere a Milano con 600 euro? E meno male che mi è rimasta la casa».
Così anche lei viene al «Pane quotidiano» a riempire le borse con quel che c’è: oggi, per esempio, pasta, pane, frutta, formaggio magro, tiramisù confezionato, tutta roba donata da aziende o privati, che a conti fatti consente di limare le spese alimentari di 150-200 euro al mese. Sono i calcoli che, nella stessa coda di Giusy, fanno anche il pensionato Giovanni — che invece l’accento pugliese non l’ha perso affatto — e la giovane sarta ucraina Ludmila, in fuga dalla guerra con i suoi due splendidi bambini, la mamma dello Sri Lanka, casalinga per badare al figlio disabile, e le centinaia di persone che vengono da altri mondi, non sanno chi erano Strelher e Sindona ma conoscono l’indirizzo del «Pane quotidiano».
Milano, folla mai vista alle mense dei poveri: a Natale diecimila persone in coda. Elisabetta Andreis e Giampiero Rossi su Il Corriere della Sera il 28 dicembre 2022
La onlus Pane quotidiano: «Numeri impressionanti, iniziamo a fare fatica a reperire gli alimenti». A chiedere un pasto molte persone con una casa ma in difficoltà economica tra affitti, bollette e libri di scuola dei figli
Non erano neanche le 7 del mattino di sabato scorso, vigilia di Natale. Faceva freddo, era ancora buio. Eppure più di duemila persone erano già lì, ferme, a formare una lunga coda in attesa che i volontari aprissero il cancello del «Pane quotidiano» di viale Toscana, che ogni giorno distribuisce aiuti alimentari a chiunque si presenti per riceverli.
La pasta, il sugo, il latte, il panettone: verso le 11 in tanti avevano già in mano il loro piccolo «regalo» alimentare. E sabato, vigilia di Natale, a mettersi in coda per quel pacco sono state quasi 2.200 persone. E alla sede di viale Monza di «Pane quotidiano» anche di più. Numeri record replicati anche nel giorno di Natale. Si sono visti anche tanti i bambini al seguito delle mamme, come succede quando le scuole sono chiuse, mentre secondo gli operatori sono pochissimi i clochard che partecipano: in coda si mettono soprattutto persone che la casa ce l’hanno ma si dibattono in difficoltà economiche tra affitti, bollette, libri di scuola dei figli e quindi limano le uscite alla voce pranzo e cena. E allora arrivano così, con il buio, da tutti i quartieri della città. «Numeri impressionanti — dice l’amministratore delegato di Pane quotidiano, Luigi Rossi — e iniziamo a fare fatica a reperire gli alimenti: le aziende stanno più attente ad avere pochi eccessi di produzione, ci regalano meno rispetto alla domanda che è esplosa».
Nel 2022, complessivamente, sono andate a chiedere aiuto al Pane quotidiano 1,3 milioni di persone. E le cifre-spia della povertà milanese andrebbero completate con gli accessi a tutte le mense aperte a chi ne ha bisogno (a partire da quella dell’Opera San Francesco) e dalla distribuzioni di pacchi viveri e aiuti d’ogni sorta che si ramifica nell’area metropolitana attraverso associazioni, istituzioni, Ong e reti di volontariato. «Il tema della povertà alimentare è appesantito da quello sopravvenuto della povertà energetica — spiega Luciano Gualzetti, direttore della caritas Ambrosiana — e in questo periodi di feste tradizionali affiorano più visibilmente anche le difficoltà di chi si ritrova anche con relazioni familiari spezzate o rarefatte».
Povertà, fragilità e solitudini. «E gli operatori dei nostri centri d’ascolto segnalano anche maggiori difficoltà nell’intercettare nuove fasce di bisogno, quelle che coinvolgono persone che lavorano, ma in condizioni precarie e sottopagate, e che non hanno mai fatto ricorso a sostegni solidali. È un tema affrontato anche dall’arcivescovo Mario Delpini nel discorso di Sant’Ambrogio, che ha parlato della città che non è alla portata di per tutti per i suoi costi e da parte nostra — conclude Gualzetti — abbiamo cercato di anticipare questa situazione avviando il progetto della “bolletta sospesa”, ma diversi segnali ci fanno temere che l’ondata di persone rimaste indietro possa crescere».
Anche il Comune prosegue con l’attività della sua rete di distribuzione di aiuti alimentari. Il 16 dicembre è stato chiuso il bando per il nuovo dispositivo di finanziamento delle associazioni impegnate su questo fronte. Sono arrivate 22 offerte che sono al momento al vaglio della commissione e si stima che ciascun progetto possa portare all’acquisto di 40/50 tonnellate di aiuti alimentari per un equivalente di circa 45mila pacchi in totale. Al momento sono attivi cinque hub (Isola, Gallaratese, Lambrate, Santa Croce e dentro al mercato agroalimentare) e l’obiettivo è aprirne uno in ogni municipio. E resta operativo anche il «Piano freddo» promosso da Palazzo Marino. Nel frattempo il Comune di Legnano ha offerto sistemazione in due appartamenti all’uomo che insieme alla compagna e due figlie vive da mesi in auto, mentre i servizi sociali di Milano stanno cercando nuovamente di convincere i due ragazzi che vivono alla stazione di San Donato a rivolgersi alla rete di accoglienza.
Stato di indigenza. Solo in Italia il welfare è così squilibrato a favore di chi ha già di più. Gianni Balduzzi su L’Inkiesta il 28 Dicembre 2022
Nel nostro Paese sono insufficienti le misure legate al reddito per aiutare chi ha più figli o il pagamento di un affitto, o le borse di studio per consentire a chiunque di frequentare l’università
Da quando è stato ideato, il welfare ha una funzione precisa: sollevare dalla povertà gli strati più indigenti della popolazione, dando a essi i servizi essenziali (basti pensare alla salute) e fornire loro quelle opportunità che con i propri mezzi non potrebbero avere, in termini di istruzione e formazione. Un investimento fatto per poter mettere pienamente a frutto il capitale umano di una nazione. In Occidente il welfare si è sviluppato in modo diverso da Stato a Stato, mantenendo però questa impostazione ideale. Si è tradotto in assegni familiari, sussidi di disoccupazione e di povertà, pensioni, congedi parentali.
L’Italia invece è lo Stato dove il welfare premia chi ha già di più, soprattutto se dividiamo i trasferimenti statali, che del welfare sono parte importantissima, tra quelli che vengono erogati in base al reddito (e a volte il patrimonio) e quelli che non dipendono da questa variabile.
Alle famiglie che fanno parte del 10 per cento con i guadagni più bassi vanno mediamente 246,7 euro al mese, 7,9 volte in più di quelli percepiti dal 10 per cento più facoltoso. In Spagna e Germania il gap è molto più ampio, rispettivamente di 24,9 e 162 volte. In Francia è simile all’Italia, 7,4 volte, ma i nuclei del decile di povero prendono ogni mese molto di più, 462,3 euro.
Sono però i sussidi che non dipendono dalle entrate quelli che creano un vero e proprio squilibrio a favore dei più ricchi. Al punto che il 10 per cento con i redditi mensili più alti (6.044,5 euro) percepisce ben 579,9 euro al mese di trasferimenti di questo tipo contro i 59,5, quasi 10 volte meno, del decile in maggiore difficoltà, quello con soli 399 euro di entrate mensili. Da nessun altra parte accade qualcosa di simile. E se non vi è un equilibrio sostanziale come in Germania, in ogni caso il vantaggio di chi ha già di più, come in Spagna, è decisamente inferiore.
Il caso italiano sarebbe peculiare anche se ci fermassimo al nono decile, quello delle famiglie in cui entrano 3.872,3 euro mensili.
Aggregando i due tipi di trasferimento emerge bene come l’Italia rappresenti un’eccezione per quanto poco va agli ultimi e ai penultimi e, soprattutto, per quanto ricevono invece i primi. Così la differenza tra quanto percepito da una famiglia media, 228,2 euro al mese, e da quella che si può definire povera, 296,7, è minima. Nei Paesi Bassi si va da 452,1 a 877,9, in Francia da 305,4 a 595,6, in Germania da 221,9 a 342,8.
È anche interessante notare come in alcuni Paesi il welfare verso un nucleo familiare “normale” sia più generoso di quello che in Italia riguarda i soli indigenti.
In campo economico nei confronti tra Stati si dovrebbero usare i dati relativi, non assoluti. Ma anche confrontando i trasferimenti con il reddito originario dei diversi decili, prima di sussidi o tasse, risulta come i nostri poveri prendano meno di quelli dei principali Paesi UE, e al massimo come quelli spagnoli. Le famiglie che costituiscono il 10 per cento più povero ricevono dallo Stato un ammontare che corrisponde al 76,7 per cento di quanto entra loro in tasca. In Francia, Germania, Paesi Bassi tale percentuale è superiore al 100 per cento. Con i più ricchi, cui arriva una somma uguale al 9,5 per cento del reddito, il nostro welfare è, invece, più generoso, visto che nei Paesi già citati i trasferimenti sono per loro intorno al 2 per cento delle entrate.
È chiaro, una causa importante di questi dati risiede nel grande peso del nostro sistema pensionistico. Sono le pensioni che arrivano, nel caso dei decili più ricchi, a comporre più di un terzo delle entrate, mentre hanno un ruolo più piccolo per i poveri, tra i quali, come si sa, ormai ci sono pochi anziani. Ai più facoltosi va quindi anche una porzione importante di quella parte degli assegni pensionistici che costituisce un vero e proprio benefit sociale. È il caso, per esempio, del trattamento di reversibilità (che in Italia non viene negata neanche a chi ha entrate altissime).
Vi sono anche altri sussidi e bonus che di fatto vanno anche verso chi non è indigente, dalla Naspi per chi perde il lavoro alla cassa integrazione, dall’assegno di invalidità a quello unico per i figli.
Anche se oltre una grande generosità verso i più ricchi a caratterizzare il nostro welfare è soprattutto una scarsa attenzione verso gli ultimi, nonostante il Reddito di Cittadinanza. Sono insufficienti, soprattutto se confrontate con quelle presenti altrove, le misure legate al reddito per aiutare chi ha più figli o il pagamento di un affitto, o le borse di studio per consentire a chiunque di frequentare l’università.
Il risultato finale è che siamo davanti a un welfare meno efficace, perché non riesce ad abbattere il tasso di povertà, già alto di base, dell’Italia, come fanno i nostri principali partner. Da uno del 40,3 per cento senza alcun intervento, si scende a uno del 20,3 per cento.
In media nella Unione europea si va dal 35,7 per cento al 16,2 per cento, in Francia dal 36,7 per cento al 12 per cento, meno di un terzo, in Germania dal 32,8 per cento al 14 per cento. Nei Paesi Bassi cala meno perché la base di partenza è molto inferiore, mentre la Spagna presenta numeri molto simili ai nostri. E sono proprio i trasferimenti, sia quelli legati che quelli non legati al reddito, ad apparire poco incisivi: anche senza di essi il tasso di povertà salirebbe poco, al 23,6 per cento o 23,2 per cento. Altrove, per esempio nella solita Francia, il gap sarebbe maggiore.
È come dire che questi bonus, sussidi, assegni, fanno poco per abbassare la percentuale di italiani in stato di indigenza. Il grosso, invece, è responsabilità o merito delle solite pensioni.
Questi numeri spiegano quindi perché su una misura come il Reddito di Cittadinanza, forse l’unica, con i suoi mille difetti, mirata solo ai più poveri, vi sia stata e vi sia tanta attenzione da parte di quella porzione di italiani povera e impoverita. E allo stesso tempo perché le pensioni, sempre più importanti come fonti di reddito, sembrino così intoccabili. Sicuramente siamo davanti a squilibri che non sono solo iniqui, ma soprattutto dannosi per la tenuta sociale e per il futuro della nostra economia.
Il capitale umano potenziale è sempre più scarso visto il declino demografico. Come possiamo utilizzarlo appieno se non diamo opportunità ai tanti giovani che si trovano proprio nei primi decili di reddito, quelli più poveri, se sprechiamo risorse limitate trasferendone di più a quanti tali opportunità le hanno già?
Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 27 dicembre 2022.
Al nome non ha neanche pensato. «Che senso aveva? Tanto sapevo che non lo avrei tenuto. Come si fa a tenere un neonato in questa situazione?». Il bambino nel frattempo è diventato adottabile, perché non è stato riconosciuto. Ma sembra già lontano dai suoi pensieri, costantemente occupati dalle piccole necessità in un orizzonte che si estende al massimo alla giornata in corso. È nato prematuramente il 2 dicembre, all'ospedale di Melegnano, pochi chilometri a sud di Milano.
E lì è rimasto, quando lei, la madre, è tornata al suo rifugio precario alla stazione della metropolitana di San Donato, alle porte della città: tre ombrelli aperti più uno rotto, una coperta militare dal colore indefinito, un po' di cartoni, un carrello della spesa. Lì l'aspettava il suo inseparabile compagno, perché è lì che insieme vivono da aprile, indifferenti al via vai di autobus e persone, che a loro volta sembrano indifferenti alla miseria di quel giaciglio.
Lei non ha ancora 24 anni, lui ne ha 29. Vengono entrambi da un piccolo centro vicino a Cagliari, da dove sono sostanzialmente fuggiti prima della pandemia: «Niente nomi, per favore, non vogliamo che ci riconoscano». Dai loro racconti zigzaganti nel tempo e nella logica - orfani di troppi dettagli - affiorano due giovani esistenze in equilibrio instabile lungo la linea di galleggiamento, prima di scivolare nel degrado, fuori dal campo di tutti i radar sociali. Randagi e fantasmi, ma sempre insieme. «Non abbiamo documenti e quindi non possiamo fare niente», spiegano prima uno e poi l'altra.
Lui rimanendo accucciato sotto gli ombrelli-tenda, lei in piedi lì davanti, in una sorta di moto perpetuo di gambe, braccia, mani annerite e testa ondeggiante, liberando qualche sorriso quando racconta i dettagli più dolorosi. «Dovremmo andare a rifare tutto nel nostro Comune di residenza - dice la ragazza in un accento inconfondibile - ma chi ce li ha i soldi per andare fino in Sardegna? Qualcuno dice che mi pagherebbe il biglietto, ma io non credo che una persona normale poi ci paghi anche il ritorno e in Sardegna non ci vogliamo restare, perché lì non c'è proprio niente per noi».
Eppure ci sono ricordi di nonne e mamme, e poi anche loro hanno vissuto da «persone normali». O almeno così dicono i loro ricordi del periodo di permanenza in Germania. «Michael lavorava come pizzaiolo dentro una fabbrica della Volkswagen, e io facevo lavoretti in nero, stavamo bene». Ma poi arriva un buco nero, quantomeno nella memoria, perché il racconto conduce in un carcere tedesco.
«Avevamo dei debiti - taglia corto la ragazza - però lì in prigione ti danno tutto e pure un po' di soldi». Poi il foglio di via e l'approdo a Milano. «In centro ci mandavano sempre via, qui va bene e se fa troppo freddo andiamo a dormire giù in metropolitana, ma alle 5 del mattino ti cacciano. Nei dormitori non ci andiamo perché ci separano».
Le loro giornate sono senza ore: un giro in centro per «raccogliere qualche soldo», un passaggio al supermarket per comprare soprattutto birra da 9 gradi a pochi centesimi e un vermouth che costa meno di un euro e mezzo a bottiglia. «Serve per stare qui», sogghigna, e arrossisce lievemente tra un piercing e l'altro quando ammette tacitamente di usare qualche sostanza, ogni tanto: «Ma quella è roba che costa».
Sui cartoni che fanno da materasso è adagiato anche un libro: «Io leggo sempre, mi piacciono i thriller e si trovano libri gratis in giro», racconta e rievoca la sua «formazione artistica» e confida ridendo nervosamente il suo grande sogno: «Fare l'anatomopatologa, sin da piccola disegnavo benissimo i corpi umani». Ma il sorriso si fa amaro un istante dopo, quando allontana persino l'idea di rimettere in carreggiata la sua vita, che a 24 anni le sembra già persa: «Vorrei un lavoro, ma chi se la prende una come me?».
Dai ricordi ingarbugliati spunta anche un passato di sofferenza psicologica, «ero seguita dai servizi psichiatrici in Sardegna», e anche una prima gravidanza: «Ho fatto un'interruzione volontaria di gravidanza, firmò mia madre perché ero minorenne. E pure questa volta l'avrei fatta se mi fossi accorta di essere incinta - dice tutto d'un fiato - ma da tre anni non avevo più il ciclo, quindi proprio non mi sono resa conto». Quel giorno e quel bambino senza nome sembrano già lontani nelle sue parole. Il passato non ha spazio. C'è da pensare a come arrivare a sera, quando si rintaneranno insieme al riparo dei tre ombrelli.
“Vorrei un lavoro, ma chi se la prende una come me?” Vive in strada a 24 anni, Sabrina rinuncia al bimbo appena nato: “Non poteva vivere con me al gelo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Dicembre 2022
Il piccolo è nato prematuramente ai primi di dicembre all’ospedale di Melegnano a Sud di Milano. La sua mamma e il suo papà hanno deciso di non riconoscerlo: Sabrina e Michael, rispettivamente 24 e 29 anni, si amano ma non hanno un tetto sotto cui dormire. Vivono in strada e per questo motivo hanno deciso di rinunciare al loro bimbo appena nato: “Come si fa a tenere un neonato in questa situazione?”, raccontano al Corriere della Sera. E sperando per lui un futuro migliore della vita di stenti che gli avrebbero potuto offrire i due giovani genitori naturali, hanno fatto sì che potesse essere adottato.
Appoggiati in un rifugio improvvisato nella stazione della metropolitana. Così vivono i due su un letto fatto di cartoni e degli ombrelli aperti come tetto. Invisibili al viavai di persone che passa di là. Il Corriere racconta che i due vengono da un piccolo centro vicino Cagliari. Per un periodo hanno vissuto in Germania, una vita “normale” fatta di casa e lavoro. “Lui lavorava come pizzaiolo dentro una fabbrica della Volkswagen, e io facevo lavoretti in nero, stavamo bene”, racconta lei. Poi qualcosa è andato storto e i due sono finiti in carcere. “Avevamo dei debiti – racconta la ragazza – però lì in prigione ti danno tutto e pure un po’ di soldi”.
Poi il foglio di via e sono finiti a Milano. “Non abbiamo documenti e quindi non possiamo fare niente”, spiegano. Raccontano di una vita alla giornata, come bloccata e sospesa nel nulla senza possibilità di sbocchi. “Dovremmo andare a rifare tutto nel nostro Comune di residenza — dice la ragazza — ma chi ce li ha i soldi per andare fino in Sardegna? Qualcuno mi dice che mi pagherebbe il biglietto, ma io non credo che una persona normale poi ci paghi anche il ritorno e in Sardegna non ci vogliamo restare, perché lì non c’è proprio niente per noi”.
Così se ne stanno nella metro alternando qualche giro in centro cercando di racimolare qualche soldo e qualche bicchiere per sopportare il freddo. Sabrina racconta del suo grande sogno: “Fare l’anatomopatologa, sin da piccola disegnavo benissimo i corpi umani”. Ma il sorriso si fa amaro un istante dopo, quando allontana persino l’idea di rimettere in carreggiata la sua vita, che a 24 anni le sembra già persa: “Vorrei un lavoro, ma chi se la prende una come me?”. Racconta di un passato buio e di sofferenza psicologica. Era seguita dai servizi psichiatrici in Sardegna. Racconta anche di essere ricorsa all’interruzione volontaria di gravidanza quando era ancora minorenne. “E pure questa volta l’avrei fatta se mi fossi accorta di essere incinta – dice- ma da tre anni non avevo più il ciclo, quindi proprio non mi sono resa conto”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Neonato nato a dicembre ricoverato in terapia intensiva. Famiglia con due bimbe vive da mesi in auto, lo sfogo di Ignazio: “La gravidanza di mia moglie sul sedile posteriore, io lavoro non rubo”. Redazione su Il Riformista il 26 Dicembre 2022
“Da mesi vivo in questa situazione e nessuno fa niente. Mia moglie è incinta e dormo in macchina con le mie due bambine piccole. Io lavoro, non rubo“. E’ lo sfogo in un video pubblicato sui social di Ignazio che con la sua famiglia vive in auto da diversi mesi a Legnano, in provincia di Milano.
La moglie Milena ha trascorso quasi l’intera, travagliata, gravidanza nella vettura di famiglia, dormendo sui sedili posteriori arrivando a partorire lo scorso 6 dicembre il piccolo Ethan, nato con una paralisi alle corde vocali e ricoverato in terapia intensiva in un ospedale pediatrico di Milano.
Il calvario della giovane famiglia milanese è iniziato lo scorso aprile quando papà Ignazio, manovale con contratto a termine, ha perso il lavoro e non è riuscito più a pagare fitto e bollette. Da allora, insieme alla moglie incinta e alle due figlie di 7 e 8 anni, ha trovato prima una sistemazione in un magazzino di un amico, dove dormivano su materassi gonfiabili, poi negli ultimi mesi è stato costretto a vivere con le sue tre donne in auto in un parcheggio.
Alle figlie ha raccontato “che era come quando andavamo in campeggio e dormivamo in tenda. La piccola però, che è quella più birichina delle due, non ci ha mai creduto”. Poi lo strazio: “Pensavo che questa situazione sarebbe durata pochi giorni ma ad oggi siamo ancora senza un tetto sulla testa e mio figlio sta lottando per uscire dall’ospedale“.
I primi a rendersi conto del dramma della famiglia di Ignazio sono stati i volontari dell’associazione Il Sole nel Cuore che opera a Legnano. “Appena abbiamo saputo della situazione drammatica in cui era costretta a vivere la famiglia ci siamo attivati per dar loro aiuto. Li abbiamo trovati una notte in un parcheggio, con le bambine al fianco della mamma incinta e completamente rannicchiata. In tanti anni di volontariato e aiuto a famiglie in difficoltà”, spiega Valeria Vanossi, presidente dell’associazione, “non mi era mai capitato di vedere una situazione del genere”.
Nonostante la vicinanza dell’associazione, la famiglia di Ignazio non è ancora riuscita a trovare una casa a causa delle inadeguate economiche che hanno impedito per il momento privati e agenzie pubbliche di concedere loro un’abitazione.
Da qualche giorno l’associazione Il Sole nel Cuore sta pagando loro un albergo: “Non volevamo passassero le feste e il Natale senza una casa”, spiega Valeria Vanossi, “ora però anche per noi diventa difficile continuare a sostenere questa spesa, per questo chiediamo un intervento all’amministrazione per dare definitivamente alla famiglia di Ignazio una casa”.
Il Welfare: Il Sistema Pensionistico ed Assistenziale.
L’Assistenza ai non autosufficienti.
Le Pensioni.
L’assistenza a 3,5 milioni di non autosufficienti oggi è una vergogna: ecco cosa cambierà. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 07 giugno 2023
L’assistenza a 3,5 milioni di anziani non autosufficienti che vivono in casa è la vergogna d’Italia, che complessivamente coinvolge 10 milioni di persone considerando anche i familiari e gli operatori sociosanitari dedicati. Un problema che però non è mai stato in cima all’agenda politica di nessun governo. Finalmente dopo 26 anni dal primo tentativo, 17 proposte finite nel nulla e a tre anni dal suo annuncio, il 23 marzo 2023 viene approvata la riforma (Legge 33) su pressione della società civile con il Patto per la non autosufficienza che raggruppa 50 associazioni. L’Austria l’ha fatta nel 1993, la Germania nel 1995, il Portogallo nel 1998, la Francia nel 2002, la Spagna nel 2006. Vediamo cosa cambierà e quali sono i passaggi che ancora mancano per aiutare davvero chi oggi fa una vita d’inferno (qui il Dataroom del maggio 2022 dedicato al percorso tortuoso della riforma).
A chi bisogna rivolgersi: prima e dopo la riforma/1
Prendiamo i tre principali aiuti di competenza statale che vengono erogati dall’Inps: l’invalidità civile per chi è cieco, sordo o ha un’ autonomia limitata che serve per accedere ai benefici economici come le pensioni, ma anche per l’esenzione dal ticket, le protesi e gli ausili; l’indennità di accompagnamento per chi non è in grado di alzarsi, lavarsi e vestirsi da solo che dà diritto a 527 euro al mese; e i benefici collegati alla legge 104, cioè i permessi o i congedi per chi ha un familiare disabile a carico.
Oggi è necessario fare ogni volta una domanda diversa che vede un’odissea tra sportelli e commissioni anche se l’ente che li eroga è sempre lo stesso
Esempio che può sembrare paradossale: una invalidità civile al 100% non dà automaticamente diritto all’indennità di accompagnamento che è sempre indipendente dal reddito. Così dopo avere fatto la trafila all’Inps per ottenerla, per avere anche i 527 euro mensili bisogna: rivolgersi al medico di famiglia che fa una certificazione; inviarla all’Inps per ottenere un codice identificativo; fare una visita medica all’Asl; presentare la domanda (via web o patronato). Il caso viene poi esaminato da una commissione presieduta da un medico Inps che rilascia il verbale di indennità civile; segue infine la compilazione del modulo AP70 che consente di ricevere dalla stessa Inps l’indennità di accompagnamento (qui il Dataroom del maggio 2021 dedicato all’odissea tra sportelli e uffici).
Con la riforma ci sarà l’introduzione di una Valutazione nazionale unica che garantisce l’accesso in simultanea a tutte le prestazioni di competenza statale di cui un non autosufficiente ha diritto in base alla sua gravità: la VNU sarà eseguita da parte di équipe comparabili alle attuali commissioni Asl che avranno una sede facilmente identificabile.
Assistenza domiciliare: prima e dopo la riforma/2
Oggi per gli aiuti di competenza locale che sono l’infermiere a casa (assistenza domiciliare integrata, conosciuta Adi), l’accesso a strutture semidiurne, le protesi e pannoloni bisogna fare ancora altre domande a commissioni diverse anche se il referente è sempre l’Asl; e per i voucher per l’assistenza domiciliare del Comune (Sad) è necessario rivolgersi ai Servizi sociali. Invece con la riforma la Valutazione nazionale unica sarà trasmessa in via informatica alle Unità di Valutazione Multidimensionale locali, ossia a presidi territoriali a cui il cittadino potrà rivolgersi per attivare i servizi necessari senza ulteriori adempimenti, documenti o nuove valutazioni. Per l’anziano non autosufficiente vuol dire finirla di peregrinare tra i vari sportelli. E questo non costa un euro in più.
Aiuti economici: prima e dopo la riforma/3
Oggi un anziano con demenza che deve essere monitorato h24 a causa dei suoi problemi comportamentali riceve gli stessi soldi di chi ha bisogno di aiuto nelle attività di base della vita quotidiana come alzarsi, lavarsi e vestirsi. Con la riforma sarà dato di più a chi ha più bisogno partendo dalla cifra minima di 527 euro al mese. Inoltre in alternativa potrà scegliere al posto dell’indennità di accompagnamento di farsi pagare la badante assunta regolarmente e in questo caso la cifra che riceverà dovrà essere più alta (la somma è ancora da definire). Il numero di badanti oggi oscilla intorno al milione: il 40% è occupato regolarmente, mentre il 60% è irregolare. Il beneficiario potrà sempre modificare l’opzione scelta.
Cosa manca
Ma non è ancora finita. Perché gli anziani non autosufficienti possano avere un’assistenza adeguata sono necessari almeno altri due passaggi fondamentali. Uno: entro gennaio 2024 devono arrivare i decreti attuativi altrimenti la riforma resta solo sulla carta. Due: vanno definiti i nuovi importi per l’assegno di invalidità e per pagare la badante. E qui invece servono i soldi che dovranno essere stanziati a partire dalla Legge di bilancio 2024. Oggi, comprese le case di riposo, la spesa è di 21 miliardi l’anno. I dati Eurostat ci dicono che in media spendiamo 270 euro l’anno per un non autosufficiente contro una media Ue di 584. La stima è che servono 5-7 miliardi aggiuntivi a regime.
Con il Pnrr l’Ue ci darà 2,72 miliardi di euro per contribuire ad assistere a casa con l’assistenza domiciliare integrata di qui al 2026 altri 806.970 non autosufficienti (il 10% degli over 65 contro il 6,2% di oggi pari a 858.722). Ma oggi l’80% riceve tra 1 e 3 accessi mensili di un infermiere, evidentemente insufficienti. Bisognerà dunque riformare l’assistenza domiciliare dell’Asl integrandola con quella dei Comuni. I nostri nonni, mamme, papà, zie valgono meno di quelli del resto d’Europa? Se la risposta è no, presidente Meloni, ministra Calderone e ministri Giorgetti e Schillaci, trovate i soldi e intestatevi questa riforma.
La storia degli interventi pensionistici degli ultimi decenni. Pensioni, le promesse da marinai dei populisti a caccia di soldi o di voti. La storia degli interventi pensionistici degli ultimi decenni, tranne poche eccezioni, può essere sintetizzata come un pendolo tra riforme “rigoriste” (a caccia di soldi) e riforme “clientelari” (a caccia di voti). Tommaso Nannicini su Il Riformista il 19 Novembre 2023
Secondo alcune teorie sul “populismo”, la sfiducia degli elettori verso la politica tradizionale mette in discussione il principio cardine della democrazia rappresentativa per cui i cittadini delegano ai politici alcune scelte di fondo durante il loro mandato. Ed è lì che si inserisce la politica populista, prendendo impegni rigidi (commitments) sulle cose da fare. Taglieremo i parlamentari. Daremo a tutti un reddito di cittadinanza. Aboliremo la Fornero e manderemo tutti in pensione prima. Faremo il blocco navale, così nessuno cucinerà curry nei pianerottoli dei vostri condomini. Quello che queste teorie non dicono, però, è cosa succede quando questi impegni si sciolgono come neve al sole. La fiducia verso la politica tradizionale risale? Oppure arrivano nuovi populisti con altre promesse, non si sa perché più credibili di quelle che si sono appena rivelate illusorie?
In attesa di conoscere la risposta, non c’è dubbio che i populisti di casa nostra abbiano perso ogni credibilità in materia di pensioni. Non c’è politica pubblica dove il divario tra le loro promesse e la realtà sia altrettanto gigante. La storia degli interventi pensionistici degli ultimi decenni, tranne poche eccezioni, può essere sintetizzata come un pendolo tra riforme “rigoriste” (a caccia di soldi) e riforme “clientelari” (a caccia di voti). E la destra, Lega in testa, si è sempre buttata come un avvoltoio sulla seconda sponda, quella dove c’erano voti da blandire. Col risultato finale che il nostro sistema pensionistico non è equo né tra generazioni (visto che i costi della sua sostenibilità sono stati scaricati sui più giovani), né all’interno delle generazioni (visto che i più fragili sono lasciati soli di fronte a un’età di pensionamento che aumenta anche quando non hai un lavoro o quel lavoro diventa troppo faticoso). L’ultima legge di bilancio si inserisce nel solco. Ma a sorpresa (visto il commitment di Lega e compagnia sulle pensioni), nel pendolo tra esigenze di cassa e spese facili a fini elettorali, fa prevalere le prime, con buona pace delle promesse. Fa prevalere l’esigenza di far cassa. Anche troppo, se si pensa che ci sono esigenze sociali, dagli anziani in difficoltà ai giovani senza contributi continuativi, che richiederebbero interventi forti.
L’ennesima quota, francamente, ce la potevamo risparmiare. Non è che una misura ingiusta come quota 100 diventa giusta se la trasformi in versione bonsai, tagliuzzandola di anno in anno fino ad arrivare a questa nuova versione di quota 103, ulteriormente ridotta nella sua generosità per via dell’estensione del ricalcolo contributivo. Le poche risorse disponibili dovrebbero essere usate per aiutare chi è in difficoltà di fronte all’allungamento dell’età pensionabile, come chi non ha un lavoro, ha una disabilità o si prende cura di un familiare, non chi fa un lavoro per niente gravoso e ha una storia contributiva robusta, che non gli fa temere niente per la pensione (e purtroppo sono questi ultimi i tipici beneficiari di quota 103).
In verità, altre due misure contenute in legge di bilancio sembrano andare in questa direzione, quella giusta, ma lo fanno senza metterci risorse adeguate. La prima è la cancellazione del vincolo di 1,5 volte la pensione sociale per accedere alla pensione di vecchiaia (con quel vincolo, infatti, qualcuno rischiava di non poter andare in pensione fino a 71 anni). Ora, però, per completare questo intervento servirebbe una misura per tutelare i soggetti deboli, soprattutto giovani, che col contributivo rischiano di avere una pensione da fame. La seconda misura è il rifinanziamento dell’Ape sociale (la misura introdotta dal governo Renzi per le categorie svantaggiate, che dimostra una formidabile resilienza venendo rifinanziata con ogni legge di bilancio, a prescindere dalle maggioranze, perché va incontro a una domanda di equità). Anche qui però le risorse sono poche. Per tutelare i soggetti fragili, servirebbe un’Ape sociale più estesa e ben finanziata.
Insomma, quando si parla di pensioni, dal pendolo tra rigorismo e clientelismo – e dalla guerra tra cacciatori di soldi e cacciatori di voti – non usciremo mai, a meno che non cambi il modo in cui ne parliamo. In un libro edito dal Mulino che ho curato insieme a Michele Faioli (“L’uguaglianza è una cosa seria. Come riformare pensioni e welfare”), cerchiamo di farlo cambiando prospettiva e parole d’ordine. Non perché sostenibilità finanziaria, flessibilità in uscita e consenso elettorale non siano importanti. Ma perché sono strumenti, non obiettivi. Una riforma in grado di consegnarci pensioni sostenibili perché giuste dovrebbe basarsi su altro: su un concetto di equità non solo attuariale ma sociale, di “giustizia previdenziale”. E dovrebbe farlo all’interno di un welfare universalistico che, a fronte del progresso tecnologico, protegga tutti e tutte: dipendenti e autonomi, disoccupati e precari, giovani e adulti. Tommaso Nannicini
Estratto dell’articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera - Dataroom" lunedì 6 novembre 2023.
Il principio è noto e antico: con i contributi del mio lavoro oggi pago chi sta prendendo la pensione, e domani ci dovrà essere qualcuno che lo farà per me. Se questo equilibrio si spezza, le casse dell’Inps e degli altri enti previdenziali saltano.
L’attenzione dei governi è concentrata su come far reggere sul lungo periodo il sistema previdenziale […. E a livello Paese chi è in difficoltà deve essere aiutato da chi sta meglio.
Ma dove si collocano i margini di questo equilibrio? […] l’ultima analisi del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali di Alberto Brambilla (sul 2021) dal titolo «La Regionalizzazione del Bilancio Previdenziale italiano», e che Dataroom ha potuto leggere in anteprima, sposta lo sguardo andando a vedere come stanno le cose dentro le singole Regioni. I risultati mostrano una radiografia impietosa. […]
[…] Delle scorse settimane il dibattito su «Quota 104» (63 anni e 41 di contributi), poi saltata su pressing della Lega. Ora l’ipotesi è di nuovo «Quota 103», ma con l’introduzione di un tetto all’assegno. Ancora una volta […] si affronta il problema pensioni come se fossimo un Paese omogeneo dove a Milano e a Napoli ci sono le stesse opportunità, dove le problematiche della Calabria sono assimilabili a quelle delle Marche.
In pratica ogni volta che si riforma il sistema per garantirne la sostenibilità di medio-lungo termine, si tira dritto senza mai andare a vedere cosa succede Regione per Regione.
[…] Immaginiamoci […] una bilancia: su un piatto ci sono i contributi versati da lavoratori e datori di lavoro, dall’altro la spesa per le pensioni. La bilancia sta in equilibrio, secondo dati ormai consolidati, se il tasso di copertura è almeno del 75%: spendo 100, incasso 75, e al momento sui numeri generali lo è. Oggi il totale dei contributi versati all’Inps e alle altre casse previdenziali ammonta a 200,3 miliardi, le uscite per pagare le pensioni a 248,99 miliardi. C’è un buco da 48,68 miliardi. Vuol dire che il tasso di copertura nazionale è pari all’80,45%.
Ma se guardiamo dentro le singole Regioni tutto cambia. Ecco come. […] Il tasso di copertura è del 75% solo in 9 Regioni che sono: Trentino-Alto Adige (unica regione pienamente autosufficiente, 103%); Lombardia (99%), Veneto (93%), Lazio (90%), Emilia-Romagna (87%), Friuli-Venezia Giulia (78%), Valle d’Aosta e Toscana (76%) e Marche (75%). In Calabria è del 50%; in Molise del 57%; in Puglia del 60%; in Sicilia del 61%. E la lista continua: Basilicata 62%; Sardegna 63%; Liguria 65%; Umbria 66%; Campania e Abruzzo 68%; Piemonte 73%.
[…] Andiamo a scoprire adesso cosa c’è dietro i buchi. E ci concentriamo su tre voci su tutte. La prima: le pensioni integrate al minimo che sono 2,5 milioni con una spesa di 6,4 miliardi. Sono quelle che scattano quando abbiamo versato contributi sufficienti, ossia versati per almeno 15-20 anni (come prevede la legge per prendere la pensione), ma che non raggiungono il minimo per avere una pensione da 563,74 euro al mese (nel 2021, anno di riferimento dei dati, il valore è di 515,58 euro). La differenza ci viene integrata.
Al Nord, dove vivono quasi 27,5 milioni di persone, ce ne sono poco più di un milione: vuol dire una ogni 26 abitanti, con 2,9 miliardi di spesa. Al Centro, dove abitano in quasi 11,8 milioni, ce ne sono 484.438: l’incidenza è di 1 una ogni 24 abitanti per un totale di 1,2 miliardi di spesa. Nelle Marche una ogni 18 abitanti e in Umbria una ogni 19.
Al Sud le pensioni integrate al minimo sono 966.116 con oltre 19,9 milioni di abitanti: una ogni 21 abitanti con una spesa totale di 2,3 miliardi. In Molise una ogni 13 abitanti, in Basilicata una ogni 15, in Calabria una ogni 17 e in Sardegna una ogni 19.
[…] La seconda: gli assegni sociali che sono 816.701 per quasi 5 miliardi di spesa. Ci vengono versati quando non abbiamo pagato i contributi neanche per 15-20 anni. I requisiti: 67 anni d’età, residenza in Italia, e limite di reddito annuo che per il 2023 è fissato a 6.542,51 euro. L’assegno sociale è di 503,27 euro al mese per 13 mensilità. Al Nord la spesa è di 1,2 miliardi con un assegno ogni 143 abitanti; al Centro di 995,5 milioni con un assegno ogni 73 abitanti; e al Sud di 2,7 miliardi con un assegno ogni 43 abitanti. In Sicilia ce n’è uno ogni 37 abitanti; in Campania uno ogni 40.
[…] La terza: l’invalidità previdenziale che scatta quando c’è una riduzione di 2/3 della capacità lavorativa e almeno 5 anni di versamento dei contributi (3 nel quinquennio precedente alla domanda). Le pensioni di invalidità sono 974.813 e valgono per 12, 5 miliardi. A livello nazionale ce n’è una ogni 61 abitanti. Al Nord una ogni 88, al Centro una ogni 57, nel Mezzogiorno una ogni 44 (la frequenza, dunque, è doppia rispetto al Nord).
Dettaglio regionale: in Campania una ogni 51 abitanti, in Puglia una ogni 39, in Sicilia una ogni 55. Impietoso il confronto con Lombardia e Veneto, dove ce n’è una rispettivamente ogni 110 e 102 abitanti.
[…] Evidentemente non possono essere fatte generalizzazioni, né messi all’indice i singoli individui. Ma dai numeri emerge in modo inconfutabile che qualcosa non va: le marcate differenze a livello regionale tra la diffusione di pensioni integrate al minimo, assegni sociali e pensioni di invalidità previdenziale sono indicatori di un sistema dove, in mezzo a chi davvero ne ha bisogno per sopravvivere, c’è chi paga e chi se ne approfitta.
Per portare il sistema pensionistico in equilibrio è dunque necessario correggere anche le storture a livello regionale. Vuol dire intervenire sulle politiche regionali del lavoro: il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni al Nord è del 75%, contro il 52% del Mezzogiorno. Vuol dire fare investimenti sulle infrastrutture strategiche (trasporti, energia e insediamenti produttivi) che stanno oggi penalizzando anche Piemonte e Liguria. Vuol dire attivare un controllo sistematico sull’evasione contributiva: può essere che così tante persone in 40 anni di lavoro non siano riuscite a versare per incassare il minimo? E infine vuol dire correggere la piaga delle invalidità: nulla spiega la ragione per cui in Campania, Puglia o Sicilia ci siano più invalidi che nelle altre regioni.
Estratto dell’articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” il 18 luglio 2023.
Viaggi, biglietti aerei, ma, per qualcuno, anche incontri con escort e consulenze remunerative. Era il prezzo della corruzione pagato agli ex vertici dell'Enpapi la cassa previdenziale degli infermieri - che, in cambio, avrebbero utilizzato i fondi dell'ente per realizzare investimenti finanziari e operazioni immobiliari pregiudizievoli e svantaggiose per gli iscritti.
Operazioni che, secondo l'accusa, avrebbero scavato un buco da 40 milioni di euro nelle casse dell'istituto e, dall'altro lato, foraggiato il conto in banca degli imputati. Una condotta che, secondo la Corte dei conti, non avrebbe solo contribuito a danneggiare l'Enpapi e i soci, ma avrebbe anche procurato all'ente un gigantesco danno di immagine. Per questo, i giudici contabili hanno condannato l'ex presidente Enpapi, Mario Schiavon, a pagare 247.347 euro, il doppio dell'importo delle mazzette percepite.
La condanna penale a suo carico, intanto, è diventata definitiva: 2 anni e 11 mesi di reclusione, incassati con il patteggiamento. Il giudice ha parlato di «un vero e proprio sistema corruttivo, fondato sul sistematico mercimonio delle pubbliche funzioni, che vedeva coinvolti i vertici dell'ente, i quali ricevevano notevoli somme di denaro da parte di imprenditori e professionisti quale compenso per incarichi di consulenza loro conferiti dalle società di gestione dei fondi nei quali l'Enpapi aveva effettuato investimenti».
[…] L'inchiesta penale e quella contabile, però, sono solo la punta dell'iceberg. La vera partita si gioca davanti al Tribunale civile, dove pende una causa da 250 milioni di euro, avviata dall'ente di previdenza in rappresentanza degli iscritti. Secondo i denuncianti, infatti, l'Enpapi non sarebbe stata danneggiata solamente dal punto di vista dell'immagine e per le tangenti, ma soprattutto dal punto di vista patrimoniale, a causa di operazioni svantaggiose e investimenti "tossici" […]
I privilegi assurdi che rendono insostenibili le pensioni. Trattamenti di favore a chi non li merita. Finti malati. Errori burocratici. Oltre allo squilibrio strutturale, una miriade di casi surreali aggravano i costi: ecco alcune storie. Sergio Rizzo su L'Esprresso il 19 Maggio 2023
L’insegnante Franca Maria Lucentini è baciata dalla fortuna. Per ben dodici anni, dal 2006 al 2018, incassa all’inizio di ogni mese la pensione da ex insegnante e alla fine di ogni mese il regolare stipendio da insegnante. Che cosa sia esattamente accaduto non sono riusciti a scoprirlo nemmeno i giudici della Corte dei Conti, cercando di ricostruire la sconcertante vicenda.
Intendiamoci: le responsabilità sono chiare. C’è una dirigente della scuola Giovanni Paolo II di Belpasso, 27 mila abitanti in Provincia di Catania, che a quanto pare non ha spedito il modello D con il quale si comunica all’amministrazione che una insegnante se ne va in pensione. E c’è una funzionaria che dovrebbe seguire la pratica, accertandosi che tutto vada per il verso giusto, ma se n’è dimenticata. Questo, almeno, viene appurato.
Ma la ricostruzione dei fatti non spiega come sia stato possibile che per dodici anni nessuno si sia posto il problema di un dipendente statale che figura contemporaneamente in servizio e in pensione. Il problema avrebbe potuto sollevarlo la protagonista. Mettetevi però nei suoi panni: quanti l’avrebbero fatto, pur sapendo che la cosa non sarebbe rimasta priva di conseguenze? Nella fattispecie la questione non riguarda più l’insegnante Franca Maria Lucentini, deceduta all’inizio del 2019. Bensì i suoi eredi ai quali lo Stato chiede i soldi indietro. Anche se dovrebbe farseli dare da qualcun altro, e non soltanto, come hanno sentenziato il 14 novembre 2022 i magistrati della sezione d’appello della Corte dei Conti, dalle presunte responsabili del pasticcio alla scuola di Belpasso. Una di loro l’ha detto chiaramente ai giudici, che non hanno potuto non condividere le sue rimostranze sulla «incomprensibile mancanza di controlli protrattasi per ben dodici anni, durante i quali gli enti pagatori della pensione e dello stipendio non hanno riscontrato la macroscopica irregolarità». Sembra impossibile che nessuno abbia notato non soltanto l’anomalia di pensionato che continua a ricevere lo stipendio, ma pure l’assurdità che lo Stato paghi uno stipendio a una signora fino ai 78 anni. Ben oltre la massima età pensionabile di chiunque.
Per questa serie di inconcepibili negligenze non ci sono colpevoli. E i magistrati che scrivono la parola fine non possono che archiviare la storia accompagnandola con l’aggettivo «surreale». Che ben si adatterebbe a episodi e circostanze decisamente più pesanti per i conti pubblici.
Svetta su tutte un norma sbocciata nello stesso decreto del 1973 che partorisce l’abominio delle pensioni baby, con la quale viene istituito il «trattamento previdenziale privilegiato».
È una maggiorazione dell’assegno pensionistico, che può essere concessa ai dipendenti pubblici vittime di infortuni o malanni causati dal loro lavoro. Oltre, naturalmente, a quello che viene definito «equo indennizzo». Il minimo sindacale, per chi deve rischiare la vita tutti i giorni come i poliziotti e i carabinieri. Se non fosse per quel vizio, ahimè tutto italiano, che trasforma in occasioni per gli approfittatori anche le iniziative nate con le migliori intenzioni.
Perché c’è stato un lungo momento durante il quale le pensioni privilegiate fioccavano. C’entrava forse anche il fatto che la commissione incaricata di accertare la dipendenza delle malattie da cause di servizio fosse composta in maggioranza, com’è ancora oggi, da medici delle forze armate o di polizia. Sono 23 su 35 membri. Nulla però giustifica la folle decisione di estendere la possibilità di ottenere la pensione privilegiata anche ai 670 mila dipendenti della sanità. Per loro è andata avanti fino al 2011, quando la riforma Fornero l’ha riservata esclusivamente a militari e forze dell’ordine. Ma l’effetto trascinamento è lungo. Le cause vanno avanti per anni, e fra ricorsi e controricorsi capita che la pensione privilegiata arriva anche dopo dieci anni o forse più. Nel 2021 l’hanno ancora ottenuta ben 152 sanitari, per un importo medio di ben 4758 euro mensili.
Che cosa ha prodotto quella legge lo dicono chiaramente i dati dell’Inps. Le pensioni di inabilità vigenti alla fine del 2021 sono più di 206 mila. E siccome gli assegni pensionistici del pubblico impiego sono circa 3 milioni, significa che più o meno uno statale su quindici si è infortunato o ammalato per colpa del lavoro.
Non mancano episodi di spudorata sfrontatezza. Dicembre 2021: la Corte dei Conti dell’Emilia-Romagna condanna l’assistente capo C. F. in servizio presso la polizia di frontiera a pagare 39 mila euro di danni erariali al ministero dell’Interno. Il Nostro ha la lombosciatalgia: causa di servizio. Così grave che la commissione medica è costretta a dichiararlo «non idoneo permanente ai servizi operativi di polizia» per i quali è richiesto «pieno possesso dell’efficienza fisica e quindi la capacità di effettuare corsa, salti, trattenere e bloccare persone, essere esposti al rischio di colluttazioni». Non può fare il poliziotto di strada, né portare il cinturone con la pistola. Un chilo e mezzo, troppo pesante. Può però giocare a tennis a livello agonistico: non è forse un tesserato della Federazione italiana tennis? Ma è anche musicista. Suona il basso, e con il suo complesso fa anche concerti, regolarmente pubblicizzati sulla sua pagina Facebook. Tennis e concerti, magari anche nella stessa giornata. Alla faccia della lombosciatalgia. Finisce agli arresti domiciliari, però non ci sta. Ammette, sì, di aver partecipato a un paio di tornei di tennis. Ma argomenta che la «spondilodiscoartrosi lombosacrale con voluminosa ernia lombare posteriore» di cui è affetto non è incompatibile con dritto, rovescio, servizio e volee. Misteri della medicina…
E siccome per i malanni non c’è prescrizione, ecco che qualcuno avanza la pretesa di pensione privilegiata per causa di servizio dopo cinquant’anni. Non è uno scherzo: lo racconta una sentenza emessa dalla Corte dei Conti nel 2021. È il 21 agosto del 1962, i Beatles hanno appena cominciato a strimpellare, due settimane prima è morta Marilyn Monroe e il governo razzista del Sudafrica ha spedito in carcere Nelson Mandela. Il signor Sempronio è un giovanotto e sta andando in macchina al mare. A un certo punto la strada impazzisce e si ritrova all’ospedale. Ha la commozione cerebrale, una frattura al cranio e anche una lieve paralisi facciale. Poteva andare peggio, per l’incidente che è stato. Un mese a letto e il Nostro si rimette in sesto. Dopo una botta del genere almeno mi risparmieranno il servizio militare, pensa. Invece si sbaglia. A luglio del 1963 lo spediscono sotto le armi. Poi però un ricovero dopo l’altro all’ospedale militare, e la naja finisce a novembre.
Ma non finisce la storia. Nel luglio 2013, esattamente cinquant’anni dopo essere stato arruolato, il signor Sempronio presenta la richiesta di equo indennizzo e pensione privilegiata perché la leva avrebbe aggravato le sue menomazioni fisiche causate dall’incidente dell’agosto 1962. Aggravamento riscontrabile nei «segni di ipertensione endocranica e di irritazione meningea da postumi di trauma cranico». La domanda viene respinta, ma lui fa ricorso e nel 2021 la Corte dei Conti gli dà ragione. E riapre la partita, mentre il signor Sempronio (il nome è ovviamente di fantasia) si avvia a tagliare il traguardo degli ottant’anni. Mai dire mai.
Estratto dell'articolo di Alessandro Camilli per blitzquotidiano.it il 9 maggio 2023.
Domandare, chiedere la risposta del sentir comune, della pubblica opinione, della gente, dei media, dei talk-show televisivi e di strada: come stiamo messi noi italiani a pensioni? La risposta sarà: poche, maledette e tardi.
Poche le pensioni erogate? In Italia ogni 111 stipendi percepiti sono in pagamento 100 pensioni. Per chi non lo sapesse (pochi, i più proprio non lo vogliono sapere) dai contributi che vengono dagli stipendi in essere si dovrebbero pagare le pensioni in essere. La differenza, ed eccome se differenza c’è, ce la mette lo Stato, la cassa pubblica. Questa differenza tra entità dei contributi pagati e prestazioni erogate sta aumentando, aumentando, aumentando…[...]
Sono già 29 su 107 le Province (la politica e il giornalismo amano tanto la parola territori) dove i pensionati sono più numerosi di coloro che sono al lavoro. Al sud di Italia ma non solo al Sud. Comunque campione è la Calabria, registra 100 pensioni pagate ogni 67 persone che lavorano.
Eppure l’idea generale è che nulla importi o comunque significhi e comporti che i pensionati diventino sempre di più e i lavoratori in attività sempre di meno. Anzi la pulsione sociale e il cruccio politico è quello di mandare in pensione più gente possibile e il più presto possibile. Tanto la differenza tra contributi e pensioni ce la mette lo Stato… Adesso ce la mette in effetti, con le tasse. [...]
La crescente, montante differenza tra soldi versati per la Previdenza e soldi versati dalla Previdenza quindi non dalle tasse. E allora da dove? Dal diritto naturale alla pensione, garantito e finanziato dalla volontà popolare. La pensione come risorsa naturale inesauribile e pubblica, un po’come l’acqua e l’aria. La pensione come variabile indipendente dai contributi, dal bilancio, dalla cassa, dal numero dei lavoratori, dalla demografia, da tutto…A proposito di demografia, inquietante l’assonanza e l’interazione tra la diminuzione, irreversibile, del rapporto tra nascite e morti e la diminuzione del rapporto tra lavoratori in attività e pensioni erogate.
Previdenza imprevidente, l’allarme di Sergio Rizzo sul futuro delle pensioni. FERRUCCIO DE BORTOLI su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2023
In un saggio, edito da Solferino, Sergio Rizzo lancia un forte allarme per il dissesto crescente dei conti dell’Inps. Il sistema è una bomba a orologeria difficile da disinnescare
Quando l’Italia era giovane e sfrontata, sicura di conquistare il futuro con la stessa facilità con cui si era lasciata alle spalle la guerra, con le sue ferite e le sue macerie, la sostenibilità della previdenza era l’ultima delle preoccupazioni. Eravamo poi uno dei Paesi più popolati al mondo. Oggi siamo uno dei più anziani. Il declino demografico è largamente sottovalutato. Si scopre, leggendo Il Titanic delle pensioni di Sergio Rizzo (editore Solferino), che fino al 1945 il sistema pensionistico era a capitalizzazione, cioè i contributi venivano versati in un fondo e poi investiti. Un po’ come fanno i fondi pensione oggi. Quelli che non riusciamo a far decollare per irrobustire il secondo pilastro della previdenza, visto che il primo, quello obbligatorio, ansima da tempo. L’Italia non era ancora stata liberata del tutto che un decreto luogotenenziale (1° marzo 1945) del governo Bonomi apriva alla ripartizione. Ovvero le prestazioni cominciarono a essere pagate anche con i contributi versati da chi era al lavoro.
Gli anziani allora erano pochi, le famiglie se ne facevano carico più facilmente. E non solo perché le pretese erano modeste. Perdurava il riflesso di una civiltà contadina nella quale le famiglie convivevano nelle cascine, si davano una mano reciproca in condomini affollati di bimbi verso i quali c’era più tolleranza di oggi. La forte immigrazione interna, dal Sud verso il Nord, dall’Est — che non era ancora il Nord Est industriale e ricco di oggi — verso l’Ovest del triangolo industriale, ne rivoluzionò composizioni e abitudini. Il saldo migratorio cambierà di segno solo nel 1975, quando l’eccezionale sviluppo del dopoguerra rallenterà inesorabilmente. Fino ad allora erano più gli italiani che cercavano lavoro all’estero, riversando le loro rimesse ai parenti rimasti in patria, degli stranieri immigrati da noi.
Un sistema pensionistico a ripartizione non creava apparentemente alcun problema in un’Italia con tante persone al lavoro e relativamente poche in quiescenza. La previdenza divenne però, con il passare degli anni, un formidabile strumento di welfare reale e di immediato consenso politico. Nel 1969, il governo Rumor scelse definitivamente il sistema a ripartizione. Le pensioni di anzianità consentivano già di lasciare il lavoro con 35 anni di contributi, indipendentemente dall’età. Nel 1973 arrivò la versione più audace, quella delle baby pensioni che consentivano di ritirarsi anche con meno di 35 anni.
«Una follia costata alla collettività — scrive Rizzo — 250 miliardi, per non parlare dell’impatto sulla scuola pubblica risultato devastante». Cominciò, in quel decennio disgraziato, l’assalto corporativo al sistema pensionistico che ne avrebbe minato la sostenibilità. Ma chi mai avrebbe potuto opporsi al riconoscimento di contributi figurativi a favore di servitori dello Stato, di categorie disagiate, del grande bacino dei lavoratori agricoli, vaste categorie di votanti? O, in seguito, all’utilizzo del pensionamento anticipato per risolvere grandi crisi aziendali?
L’amara realtà che emerge dal pamphlet di Rizzo è che il concorso di colpa è stato, salvo poche eccezioni, pressoché generale. Non sempre l’essere bipartisan è un merito. In materia pensionistica, sia a livello statale ma in particolare nelle Regioni, l’uso di leggine ad hoc, provvedimenti su misura per pochi privilegiati — politici, sindacalisti — emendamenti dell’ultima ora, è stato così ricorrente dall’essere diventato, anche in tempi recenti, una pratica abituale. Con molti che volgevano e volgono lo sguardo altrove. Ogni categoria (giornalisti compresi) ha le sue colpe.
La riforma Dini del 1995 — che non a caso come quella Fornero del 2012 venne dopo una violenta crisi finanziaria — trasformò gradualmente il sistema in contributivo con assegni commisurati all’entità dei versamenti. Se all’Italia del secolo scorso, che pure cominciava a fare meno figli e a non aver più voglia di svolgere alcuni lavori umili, si poteva perdonare una sottovalutazione della bomba nascosta con miccia a lenta combustione, a quella di oggi non si può perdonare più nulla. Bisogna però avere il coraggio — come scrive Sergio Rizzo — di dire tutta la verità. Senza nascondere la testa sotto la sabbia e rinviare quella verifica statistico-attuariale sulla sostenibilità del sistema pensionistico che per legge dovrebbe essere fatta ogni tre anni. E non illudere più, con false promesse — come la fallimentare quota 100 — gli italiani.
Il sistema pensionistico in un Paese sempre più anziano — età media 48 anni, era meno di 30 anni nel 1950 — non regge. Lo segnala molto bene, con scenari inquietanti, l’ultimo Documento di economia e finanza (Def) che può essere riassunto così: solo con una forte immissione di immigrati regolari si può allargare la platea contributiva e innalzare il tasso di natalità. Com’è avvenuto in Germania e in Svezia. Non bastano gli asili nido. E non si potrà continuare a lungo — come si è fatto con la riduzione del cuneo — a scaricare sulla fiscalità generale una quota crescente di contributi, peraltro evasi in forma massiccia. L’Inps ha crediti contributivi largamente superiori ai 100 miliardi, che si è arrivati anche al punto di «rottamare». Per non parlare delle truffe (in particolare in agricoltura), dello scandalo dei falsi invalidi (la Sicilia ha il primato dei ciechi), della montagna di cause nelle quali l’Inps soccombe quasi in un caso su due.
Il quadro è desolante. Apparentemente senza soluzione di fronte a un lavoro che cambia e spesso è intermittente, precario. L’evasione fiscale e contributiva non è più tollerabile, basterebbe non assecondarla per avere risultati apprezzabili. Separare l’assistenza dalla previdenza farebbe emergere costi collettivi e individuali oggi invisibili o rimossi. Rizzo è favorevole a un sistema a capitalizzazione non solo per il secondo pilastro ma anche per il primo. Una marcia indietro di 80 anni. Ma soprattutto un bagno di umiltà in un Paese che si illude di poter vivere ancora a lungo al di sopra delle proprie possibilità.
Il volume e gli incontri
Il libro di Sergio Rizzo Il Titanic delle pensioni. Perché lo Stato sociale sta affondando è pubblicato da Solferino (pagine 220, euro 16,50). Si tratta di un’analisi delle condizioni critiche in cui si trova il sistema previdenziale italiano, che si avvia verso il dissesto.
Sergio Rizzo presenterà il suo libro il 15 maggio nell’ambito del Prospero Festival di Monopoli (ore 21) con Vincenzo Magistà, direttore di Tele Norba. Il 19 giugno si terrà un altro incontro al Circolo dei lettori di Torino (ore 18), dove Rizzo dialogherà con Elsa Fornero.
Nato a Ivrea nel 1956, Sergio Rizzo è stato a lungo una firma del «Corriere della Sera» e poi vicedirettore di «Repubblica». Con Gian Antonio Stella ha pubblicato il bestseller La casta (Rizzoli 2007). Per Solferino nel 2022 ha pubblicato il saggio Potere assoluto
Bergamo, professoressa in pensione spiega agli amici la storia del Duomo di Città Alta: multa da 1.333 euro per esercizio abusivo della professione. Rosanna Scardi su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2023
La comandante della polizia locale: «Stiamo intensificando l'attività di contrasto delle guide non autorizzate»
Stava illustrando le bellezze di Città Alta, a Bergamo, a un gruppo di visitatori, tutti soci di un’associazione senza scopro di lucro, quando è stata avvicinata da agenti della polizia locale che le hanno chiesto i documenti. I vigili volevano verificare che fosse iscritta al registro delle guide turistiche della Lombardia. Ma non lo era. La donna, Rosita Corbetta, è un'insegnante in pensione, ex docente di arte alle scuole medie di Missaglia, nel Lecchese, membro del direttivo dell'Università per tutte le età di Casatenovo. Quando è stata multata dai vigili la professoressa stava spiegando i particolari degli arazzi e delle tarsie del coro di Santa Maria Maggiore, ma per la legge non lo può fare, è esercizio abusivo della professione. Ed è stata multata. Gli agenti hanno redatto il verbale che prevede una sanzione da 1.333 euro. La storia è stata raccontata da Bergamonews.
Il fatto è successo lo scorso 28 marzo, di pomeriggio. A segnalare la donna alla polizia locale sarebbe stata una guida turistica autorizzata. I vigili l'hanno sorvegliata per un quarto d'ora, poi si sono avvicinati e le hanno chiesto i documenti. La donna ha provato a difendersi, spiegando che si trattava di una lezione privata, a titolo gratuito, per un gruppo di amici. Ma nonostante le spiegazioni è scattata la sanzione. La donna, insieme all'Università per tutte le età, ha detto che farà ricorso.
La comitiva dell'Università per tutte le età di Casatenovo multata a Bergamo il 28 marzo
«Siamo esterrefatti – commenta Samuele Baio, presidente dell’Università per tutte le età che faceva parte della comitiva -. La professoressa tiene lezioni per i nostri soci; in questo caso, anziché guardare delle diapositive, abbiamo voluto vedere sul posto le meraviglie di Bergamo. Mai avremmo immaginato di venire multati. Tanto più che la professoressa aveva compiuto un sopralluogo nei giorni precedenti e le era stato detto solo che non si poteva parlare nella Basilica».
«Abbiamo intensificato l'attività di contrasto delle guide non autorizzate, anche in sinergia con le guide della nostra città», ha spiegato a Bergamonews la comandante della polizia locale, Gabriella Messina. Quest'attività è stata incrementata dai vigili dall'inizio dell'anno, in concomitanza con l'avvio dell'esperienza della Capitale della Cultura.
Le Pensioni. Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 7 marzo 2023.
Quando la guardia di finanza ha sequestrato 40 milioni di euro tra partecipazioni e ville sparse in tutta Italia, è emerso un mondo dietro al quale il denaro dell’Enpapi, l’istituto previdenziale degli infermieri, sarebbe stato utilizzato per restaurare appartamenti privati, acquistare voli aerei per assistere alla finale di Champions League o pagare signorine con cui trascorrere notti brave.
Era il 2019 e in quell’indagine venivano contestati diversi reati poi giudicati dal tribunale di Milano. A Roma tuttavia è andato avanti il processo in cui l’ex direttore generale dell’Ente, un imprenditore e un avvocato sono accusati di aver ostacolato la vigilanza sui conti dell’istituto. E adesso la sentenza: l’allora Dg Marco Bernardini dovrà scontare 8 anni di carcere, mentre il legale Piergiorgio Galli è stato condannato a 4 anni di reclusione e l’impresario Giovanni Conte è stato condannato a 7 anni e 6 mesi e solo per un episodio relativo alla compravendita di un immobile a Potenza.
(...)
Favori in cambio di altri favori, come un aereo che da Venezia portava fino in Germania “ per assistere alla partita di Champions League in programma a Berlino il giorno 6 giugno 2015”, quella disputata tra Juventus e Barcellona e terminata con gli spagnoli che portarono a casa la coppa dalle grandi orecchie. Tra gli altri vantaggi anche l’organizzazione “ in almeno 19 occasioni ( tra gennaio 2018 e febbraio 2019), di incontri con ragazze”, pagate “ tra 500 e 800 euro ad evento” e con le quali alcuni indagati, trascorrevano “la serata o la nottata in ristoranti o alberghi in diverse località”.
(…).
Le balle sulle pensioni. Edoardo Sirignano su L’Identità il 19 Gennaio 2023
“Trenta anni di balle sulle pensioni”. A dirlo Giuliano Cazzola, economista, politico ed ex sindacalista.
Quale è stato il primo vero provvedimento a riguardo?
Quello del governo Amato del 1992. Dimostrò che si poteva cambiare qualcosa. Fino ad allora gli uomini andavano in pensione a 60 anni e le donne a 55. Nel 1995, poi, ci fu la riforma Dini, intervento di carattere strutturale. Il suo limite era una fase di transizione troppo lunga rispetto alle esigenze di sostenibilità. Solo il primo governo Prodi nel 1998, in vista dell’ingresso nella moneta unica, rese ancora più uniforme il sistema, avviando un’omogeneità dei trattamenti tra pubblico e privato. Nel 2011, poi, ci fu la Fornero, che, nei fatti, chiuse il cerchio.
Quest’ultima, però, ha generato non poche polemiche…
Pur essendo apprezzata in tutto il mondo, in Italia è stava vittima di una campagna menzognera di disinformazione. A seguire solo piccole e grandi controriforme, lontane dai veri obiettivi di sostenibilità. Vediamo adesso cosa ci proporrà Meloni.
Come siamo messi rispetto al resto d’Europa?
Se ci paragoniamo alla Francia, facciamo bella figura. Il problema di Macron non è solo quello di elevare l’età pensionabile, ma anche di superare la frammentazione dei fondi e delle casse. Pensi che noi nel 1992 avevamo 47 regimi diversi, dispersi in una pletora di enti. Oggi i trattamenti, in Italia, sono uniformi tra pubblico e privato, mentre esiste un solo ente l’Inps, che ha incorporato tutti gli altri, tranne le casse dei liberi professionisti.
Chi è stato il primo a parlare di riforma, che poi non si è fatta?
Il primo a provarci fu Gianni De Michelis, ministro del governo Craxi. Fu il primo a rendersi conto che il sistema non avrebbe retto. Presentò degli emendamenti, a nome del governo, al testo su cui stava lavorando una Commissione parlamentare, presieduta da Nino Cristofori. Ma finì la legislatura. In quella successiva, non si riuscì a far nulla, se non appesantire il sistema con le pensioni d’annata e con un onere di 25mila miliardi di lire.
Ci può fare un riepilogo delle corbellerie sul tema pensioni…
La maggiore è ormai divenuta luogo comune, ovvero che dopo la riforma Fornero i lavoratori non possono più andare in pensione se non all’età di Matusalemme. I dati dimostrano che in Italia i percettori di un trattamento anticipato sono 6,5milioni, mentre i pensionati di vecchiaia (per tre quarti donne) sono 4,2milioni. La discriminazione di genere non deriva da norme diverse, ma da differenti condizioni di lavoro. Altra balla presentare i pensionati come poveri. I dati dicono il contrario. Errore lo commette pure chi confonde le pensioni (23 milioni) con i pensionati (16,5 milioni). Il pianto, poi, sui pensionati al minimo, ai quali il sistema e i contribuenti destinano tutti gli anni circa 21 miliardi per integrare la pensione a calcolo, è davvero assurdo. Stesso discoro vale per la mancanza di flessibilità. Ci sono più vie d’uscita del Delta del fiume Po. Menzogna, infine, la separazione tra previdenza e assistenza.
Perché sull’argomento, non si è ancora riusciti a trovare una quadra?
La denatalità e l’invecchiamento della popolazione pesano e non poco sul mercato del lavoro. Tra una ventina di anni mancheranno da 5 a 6 milioni di persone in età di lavoro. Ecco perché e necessario un flusso ordinato ed integrato di stranieri. È dal 2014 che gli stranieri non riescono più a colmare il saldo demografico negativo. Da allora abbiamo perduto 1,4 milioni di persone residenti, di cui 900mila nel Sud.
Il governo ha la possibilità di fare una riforma vera?
Con le posizioni in campo di taluni partiti della maggioranza, come la Lega, ne dubito. Poi anche le posizioni dei sindacati sono fuori mercato. La sola speranza sta nel fatto che il governo è sotto osservazione da parte dei mercati in materia di pensioni. Meloni ha dimostrato, in generale. di esserne consapevole. Occorrerà, comunque, rendersi conto della vera emergenza quella demografica. Quanto può reggere una situazione in cui diminuiscono quelli che pagano ed aumentano quelli che incassano? I trend demografici non si invertono in breve tempo.
Cosa ne pensa delle novità introdotte dal governo Meloni?
Un pasticcio che però non procura eccessivi danni, perché con una mano nega ciò che riconosce con l’altra. In sostanza introduce una pensione anticipata flessibile (quota 103), ma la rende impraticabile e non conveniente, attraverso le condizioni per avvalersene.
Quali i punti di forza e di debolezza?
Il punto di forza l’ho già indicato. Quello di debolezza sta nella sua iniquità. Pensi che per anticipare di qualche mese il pensionamento di 41mila lavoratori (maschi) si è massacrata opzione donna (da 20mila a meno di 3mila) e si è ridotta, per due anni, la perequazione automatica all’inflazione (nel momento in cui è in crescita) a 3,3milioni di pensionati.
Quella sinistra che da anni dice di battersi sul tema doveva collaborare di più ?
Su questo tema la sinistra è divisa, tra l’area riformista che tutto sommato le riforme le ha fatte stando al governo e quella che oggi è pentita di ciò che ha fatto. E attribuisce al contagio liberista i motivi della sua sconfitta.
Pensioni: le menzogne dei politici. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.
«Con la crescita zero il Paese invecchia. Tra un po’ avremo un pensionato a carico di ogni disoccupato». La vignetta di Altan è vecchia, ma la provocazione sta diventando realtà. Il principio su cui si regge il sistema previdenziale lega a doppio filo il numero di lavoratori a quello dei pensionati: con i contributi del mio lavoro oggi pago chi sta prendendo la pensione, domani ci dovrà essere qualcuno che lo farà per me. Se questo equilibrio si spezza, le casse dell’Inps e degli altri enti previdenziali saltano. Su 36 milioni di italiani in età da lavoro oggi i dipendenti (sia a tempo indeterminato sia a tempo determinato) e gli autonomi sono 23 milioni. Da questo numero è escluso chi è in cassa integrazione o inattivo da oltre 3 mesi. Invece a incassare la pensione di anzianità, vecchiaia, sociale, invalidità e infortuni sul lavoro, sono 16 milioni. Con questi numeri fino a quando sono garantite le pensioni ai livelli di oggi? Vediamo che cosa ci aspetta e cosa innesca il continuo cambiamento delle regole per abbassare l’età pensionistica. Il decimo rapporto «Il Bilancio del Sistema Previdenziale italiano» redatto dal Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali di Alberto Brambilla e presentato stamattina, 18 gennaio, alla Camera dei deputati, parla chiaro. Dataroom l’ha potuto leggere in anteprima.
La situazione attuale
Secondo i calcoli ormai consolidati, per consentire al sistema pensionistico di reggere devono esserci tre lavoratori ogni due pensionati: è il «rapporto attivi/pensionati» espresso tecnicamente dal tasso di 1,5. Oggi siamo a 1,42. Il conto è fatto sugli ultimi dati disponibili comparabili, quelli di fine 2021: i lavoratori sono 22 milioni e 884 mila contro 16 milioni e 98.748 pensionati. La differenza tra il tasso di 1,5 e quello di 1,42 sembra minima, ma non lo è: vuol dire che nel 2021 per avere una condizione in perfetto equilibrio ci dovrebbero essere 1 milione e 264.122 lavoratori in più, oppure 842.748 pensionati in meno. Invece ci sono entrate contributive per 208 miliardi e 264 milioni, mentre la spesa pensionistica è di 238 miliardi e 271 milioni. Un buco di 30 miliardi. Sul 2022 invece c’è il numero di occupati (23 milioni), ma manca ancora quello dei pensionati.
Come siamo arrivati fin qui
Il saldo negativo tra entrate contributive e spesa pensionistica non è una novità, tant’è che negli anni i disavanzi patrimoniali hanno dovuto essere coperti con interventi legislativi. Nell’ultimo decennio si possono distinguere due momenti. Il primo è quello che va dal 2012 al 2018, e che vede una diminuzione costante del numero dei pensionati: dai 16 milioni e 668.584 del 2011 ai 16 milioni 4.503 del 2018. È l’effetto della riforma Fornero scattata a gennaio 2012 (qui il provvedimento, art. 24) che innalza l’età per la pensione di vecchiaia da 65 a 67 anni, e pone come requisiti per la pensione anticipata 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Fino ad allora bastavano 35/36 anni, a patto di avere compiuto i 60/61 anni («Quota 96»). Il secondo momento è quello che va dal primo gennaio 2019 al 31 dicembre 2021 e vede una risalita del numero di pensionamenti: dai 16 milioni 4.503 ai 16 milioni e 98.748. Il motivo principale è l’entrata in vigore di «Quota 100», approvata dal governo Conte I su spinta del leader della Lega Matteo Salvini e che prevede la possibilità di andare in pensione a 62 anni e con almeno 38 anni di contributi. Tra il 2019 e il 2021 hanno utilizzato «Quota 100» in 379.860 con una spesa di 11,84 miliardi. Ma con lo smaltimento delle domande arretrate la stima è che si arriverà a 450 mila, con un anticipo medio di pensionamento rispetto alla Fornero di 2 anni e mezzo.
Occupazione in ripresa e morti da Covid
Con il tasso all’1,42 abbiamo visto che il numero di pensionamenti resta troppo elevato rispetto al numero di lavoratori. E questo si verifica nonostante nel 2021 l’occupazione sia in netta ripresa, e il numero di pensionati diminuisca in modo significativo anche per le morti da Covid. Da un lato con 22 milioni e 884 mila lavoratori si torna ai livelli pre-pandemia, con il numero di contratti a tempo determinato costante negli anni (intorno al 17%). Dall’altro lato, il numero di prestazioni previdenziali con durata quarantennale, erogate cioè a persone andate in pensione nel lontano 1980 o ancor prima, è passato da 423.009 a 353.779: le 69.230 prestazioni eliminate sono da imputare prevalentemente al Covid che ha colpito soprattutto gli over 80.
Quota 102 e Quota 103
Allo scadere di «Quota 100», il governo Draghi introduce «Quota 102» (qui il provvedimento, art. 1 comma 87): l’età per andare in pensione con 38 anni di contributi passa da 62 a 64 anni. La stima è che in totale nel 2022 le richieste accolte sono cinquemila con un anticipo medio di 27 mesi e un costo a regime di circa 42 milioni di euro. Con la legge di Bilancio 2023 i criteri cambiano di nuovo, e spunta «Quota 103»: il governo Meloni riporta l’età per la pensione anticipata a 62 anni, ma stavolta con 41 di contributi (qui il provvedimento, art. 1 comma 283). La nostra aspettativa di vita è tra le più elevate a livello mondiale e, tirate le somme, l’età effettiva di pensionamento in Italia è 63 anni, mentre la media europea è di 65 anni. Oggi la spinta politica italiana è quella di abbassare l’età pensionabile per favorire le assunzioni dei giovani. Vediamo se si trova riscontro nei fatti.
Lavoro dipendente: più pensionati, meno assunzioni
Calcoliamo quanti under 29, tra il 2015 e il 2021, sono entrati nel mercato del lavoro per ogni lavoratore anziano uscito. Il conto prende in considerazione il numero di nuovi pensionati Inps tra i lavoratori dipendenti e le assunzioni di giovani fino a 29 anni nel settore privato. Risultato: il rapporto è uguale o superiore a 1 solo per un anno, il 2017, quando per ogni nuovo pensionato vengono assunti 1,7 giovani. I dati più bassi sono registrati nel 2015 (0,30) e nel 2019 (0,37). Nel 2021 il rapporto sale a 0,88: 212.045 under 29 assunti contro 239.602 nuovi pensionamenti.
L’ostacolo maggiore per le nuove assunzioni è la mancanza dei profili professionali di cui necessitano le imprese. Non viene soddisfatta quasi la metà della domanda: ad esempio ad inizio gennaio 2023 su un totale di 152.540 figure richieste il 48% non è stato reperito. In particolare considerando le competenze più difficili da reperire, ovvero operai specializzati, tecnici in campo informatico e ingegneristico, farmacisti e biologi, su oltre 44 mila richieste il 64,6% non è stato trovato (qui il documento). Infine un dato molto preoccupante: tra i ragazzi fra 16 e i 24 anni che non studiano, lavora solo il 17,5% contro il 32,7% della media Ue. Di fronte all’inesorabilità dei dati emerge tutta l’irresponsabilità politica: incapace di creare le condizioni per aumentare i posti di lavoro, preferisce accontentare chi vuole smettere di lavorare, spacciandola come soluzione per liberare spazio a vantaggio dei giovani. E le conseguenze di un minore incasso si spalmeranno su tutti i cittadini.
Ecco a chi finisce la metà delle nostre pensioni. Quasi la metà dei pensionati italiani è "coperta" dal denaro versato da chi guadagna una cifra superiore a 35mila euro lorde l'anno: ecco il meccanismo derivato dalle pensioni di assistenzialismo. Alessandro Ferro il 6 Gennaio 2023 su Il Giornale.
In attesa della tanto desiderata riforma del sistema pensionistico, un allarme è stato lanciato dall'Osservatorio di Itinerari Previdenziali: poco meno della metà di chi non fa più parte del mondo del lavoro riceve dall'Inps pensioni di assistenza che vanno a gravare enormemente sulle spalle dei contribuenti.
Quali sono i numeri
Su poco più di 16 milioni gli ex lavoratori, circa 7 milioni e 277mila di loro sono assistiti: come scrive Libero, di questa fetta ben definita il 44% riceve prestazioni del tutto assistenziali, il 56% fa invece parte degli invalidi di lavoro. Negli ultimi anni (2008-2021), i numeri dell'assistenzialismo sono esplosi passando dai 54 miliardi di euro nel 2008 a ben 144 miliardi nel 2021 a cui bisogna aggiungere altri 11 miliardi per le assistenze sociali tra i Comuni. Questi numeri dimostrano che il denaro impiegato nella spesa sociale ha raggiunto quello stesso delle pensioni ma che, se queste ultime sono il frutto dei contributi che hanno versato i lavoratori nel corso del tempo, le spese per l'assistenza sono totalmente finanziate dai contribuenti che hanno un guadagno maggiore di 35mila euro lordi ogni anno.
Povertà in aumento
La notizia negativa è che nel corso degli anni la forbice tra spese assistenziali, redditi, Irpef e Pil si è allargata a dismisura con la prima voce che è cresciuta a un ritmo elevatissimo. Nonostante questi esborsi, il tema su chi vive in povertà non è diminuito: se nel 2008 erano circa 2,11 milioni i poveri assoluti, nel 2019 questo numero è più che raddoppiato passando a più di 4,5 milioni prima dell'arrivo della pandemia che ha peggiorato le cose. Insomma, vengono sborsate cifre incredibili sugli assegni sociali ogni anno a italiani e stranieri (circa 4,18 miliardi) mentre il computo complessivo per gli invalidi è di circa 18,2 miliardi. L'Osservatorio ricorda che a queste cifre bisogna mettere quasi 22 miliardi di euro che vanno a incrementare le pensioni minime e quelle sociali.
I pensionati degli enti pubblici
Tra i numeri in rosso spiccano anche quelli per gli ex dipendenti pubblici ai quali sono destinati poco più di 14 miliardi di euro tra oneri, quattordicesime, pensioni ex Inpdap e anche le perequazioni. Altri 5,6 miliardi vanno a vari Fondi tra cui compaiono quelli per le Ferrovie dello Stato, gli Spedizionieri doganali e quelli per i porti di Trieste e Genova. Tirando le somme, sono quasi 92 i miliardi destinati all'assistenzialismo: come abbiamo visto sul Giornale.it, adesso avremo a che fare con la nuova Quota 103 e la rivalutazione delle pensioni con circa 48 miliardi in più nell'arco di 10 anni.
Il direttore dell'Osservatorio, Alberto Brambilla, ha anche posto l'accento su un altro discorso: intervistato da Libero, ha spiegato che in Italia esistono circa 900mila pensionati sociali di cui l'Inps e il Fisco non conoscono nemmeno le generalità ma che potrebbero ricevere 600 euro mensili, una pensione quasi simile a quella di un artigiano che ha pagato le tasse e riceve circa 800 euro. "In questo modo stiamo favorendo 4,5 milioni di pensionati che non hanno mai pagato le tasse, quasi il 30% dei 16 milioni di pensionati totali: sono stati mantenuti prima e vengono mantenuti anche adesso".
I Patronati.
Patronati, tutti i servizi legali e i costi. I patronati erogano dei servizi specifici molto spesso a titolo gratuito. Tuttavia, quando è necessario il supporto di un avvocato, questo va pagato dal cittadino che se ne avvale. Ecco cosa sapere e come comportarsi, anche quando il giudice liquida le spese. Giuditta Mosca il 3 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Cosa fanno gli avvocati dei patronati
Quanto costano gli avvocati dei patronati e chi li paga
La liquidazione delle spese legali
I patronati affiancano i cittadini per risolvere problemi di natura lavorativa e previdenziale. Caf e patronati sono diversi tra loro, anche se i termini sono diventati ormai interscambiabili. Ci sono questioni che possono richiedere l’intervento di avvocati, di norma consigliati dagli stessi patronati in virtù di una collaborazione rodata che è sinonimo di affidabilità.
I casi in cui il cittadino può avere bisogno del supporto di un avvocato sono diversi: si va dalle dispute di natura lavorativa fino a quelle con l’Inps quando, per esempio, non riconosce un’indennità di accompagnamento.
L’assistenza fornita dai patronati (e anche dai Caf) è di norma gratuita, quando è necessario avvalersi di un avvocato, questo ha diritto a un compenso.
Cosa fanno gli avvocati dei patronati
Gli avvocati dei patronati si prefiggono di supportare i cittadini che si rivolgono ai patronati laddove questi ultimi non sono in grado di risolvere un problema. I più classici sono le difficoltà dei dipendenti nell’ottenere che il datore di lavoro versi tutti i contributi previdenziali dovuti, dispute per ottenere il Tfr oppure contenziosi con l’Inps in materia di invalidità o di altre prestazioni non erogato in modo corretto.
Tutte questioni che non possono essere risolte per via amministrativa e richiedono di adire un giudice, l’intervento di un avvocato è quindi imprescindibile.
Quanto costano gli avvocati dei patronati e chi li paga
Quando erogano servizi ai cittadini, i patronati vengono pagati dallo Stato il quale, a seconda di un tariffario, riconosce un importo per ogni attività svolta. A titolo di cronaca, si tratta di importi che di norma variano dai 35 euro ai 175 euro.
La cosa cambia quando occorre un avvocato il quale, pure se raccomandato da un patronato, va pagato dal cittadino. Il costo dell’avvocato varia ovviamente a seconda della complessità del caso e, in ogni caso, andrebbe pattuito prima di conferirgli il mandato, chiedendo un preventivo scritto dettagliato, ossia un preventivo nel quale figura ogni singola attività che l’avvocato svolgerà e il prezzo per ognuna di queste.
In alcuni casi i patronati hanno dei tariffari già pronti e ciò significa che i costi sono già stati concordati con gli avvocati di cui si avvalgono.
Non di rado, a fronte di specifici casi, gli avvocati dei patronati agiscono a titolo gratuito esigendo però un compenso a fronte dell’esito positivo della causa e, allo stesso modo, è opportuno pattuire tale compenso anticipatamente.
Quale che sia la formula per il pagamento, è bene tenere presente che l’avvocato agisce come professionista e quindi emetterà una parcella per il suo lavoro.
La liquidazione delle spese legali
Emettendo una sentenza o un decreto, un giudice può liquidare l’onorario dell’avvocato. Ciò succede, per esempio, quando condanna la parte soccombente a pagare le spese legali.
Tuttavia, le spese accordate dal giudice all’avvocato potrebbero essere inferiori a quelle pattuite e, in questo caso, il cittadino dovrà versare la differenza. Per esempio, se un avvocato pattuisce un compenso di 1.000 euro e, con la propria sentenza, il giudice impone alla parte soccombente di pagare le spese legali per 800 euro, il cittadino dovrà versare la differenza di 200 euro per arrivare a saldare l’intero onorario.
Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Il Bestiario, lo Scioperigno. Giovanni Zola il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.
Lo Scioperigno è un leggendario animale che mobilita lo sciopero quando il governo aumenta lo stipendio ai lavoratori
Lo Scioperigno è un leggendario animale che mobilita lo sciopero quando il governo aumenta lo stipendio ai lavoratori.
Lo Scioperigno è un essere mitologico che ripete urlando sempre lo stesso discorso da decine di anni tanto che lo stesso discorso ascoltato oggi potrebbe essere lo stesso di un qualsiasi 1968. Lo Scioperigno è un animale con abitudini particolari e alquanto curiose: capace di andare in letargo anche per anni, al suo risveglio si mette a gridare come una scimmia urlatrice con un terribile mal di denti. Gli etologi hanno rilevato che tale rituale non è casuale, ma a seconda del governo in carica, lo Scioperigno decide se starsene a dormire nella sua tana o scioperare tenacemente con mobilitazioni permanenti organizzate prevalentemente durante i weekend di pioggia per rendere più drammatica la lotta di classe.
Lo Scioperigno sa bene che la crisi internazionale odierna metterebbe in difficoltà qualsiasi esecutivo a causa di una coperta corta, ma con quello attuale, lo Scioperigno è particolarmente aggressivo come un orso trentino. Così, anche se con fatica, sono state trovate risorse per i lavoratori e le famiglie, lo Scioperigno insiste nella sua lotta furiosa contro i mulini a vento. Occorre essere intellettualmente onesti: fa piacere vedere lo Scioperigno, animale che sembrava in via d’estinzione – soprattutto durante il Biennio pandemico - rianimarsi improvvisamente agitandosi, ma senza cambiare nulla come nella sua natura intrinseca, dimostrando che l’habitat che lo valorizza al suo meglio è di fatto quello di stare all’opposizione. E per questo glielo auguriamo ancora e ancora.
Anche le pro loco festeggiano. Dal punto di vista folcloristico non possiamo che ringraziare lo Scioperigno che con i suoi raduni colora le piazze come solo una sapiente armocromista da 300 euro all’ora saprebbe fare. Crea importanti punti di socializzazione dove i lavoratori possono lamentarsi in compagnia, ma anche ballare e divertirsi grazie ai momenti di intrattenimento musicale in stile rave party organizzati dai centri sociali e rifocillarsi grazie alle bibite e ai panini portati dai seguaci dell’attuale Inviato Speciale per il Golfo Persico.
Anche grazie allo Scioperigno redivivo, ancora una volta, vince l’italietta delle contrapposizioni che dimostra come sia più importante il potere rispetto al “bene comune”, che dimostra che l’ideologia è il male del mondo e che dimostra infine che a perdere, alla fine dei conti, sono sempre i lavoratori.
"Avvocata e ingegnera". La lezione di Ambra Angiolini a Murgia & Co. Lasciando di stucco i radical chic del Concertone, l'attrice tira una bordata alle ultrà dello schwa che ogni giorno storpiano la lingua italiana. Giorgia Fenaroli il 2 Maggio 2023 su Il Giornale.
Parole, parole, parole. Soltanto parole. Mina già lo cantava nel 1972, ma la lezione del brano sembra essere tornata utile sul palco del concertone del Primo Maggio. Ieri da piazza san Giovanni, a Roma, la conduttrice Ambra Angiolini si è scagliata contro quelle che in fin dei conti sono solo parole. "Avvocata, ingegnera, architetta: tutte queste vocali in fondo alle parole saranno armi di distrazione di massa?", ha detto l'attrice e cantante, lasciando forse di stucco la stuola di radical chic che gioivano nel vederla alla conduzione del carrozzone del Primo Maggio per la sesta volta. "Le parole ci fanno perdere di vista i fatti. E i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione", ha detto snocciolando i dati.
Persino l'ex valletta di Non è la Rai sembra esserci accorta della contraddizione portata avanti da chi - Michela Murgia, Laura Boldrini e compagne in primis - vorrebbe farci credere che sia sufficiente non una parola, ma una sola vocale a cambiare tutto. Da chi non vede l'ora di storpiare la lingua italiana, facendola passare come una grande "conquista", convinti che tanto basti a risolvere finalmente la questione femminile e dare alle donne quello che meritano. Poco importa se poi, nella realtà, le donne continuino a essere pagate meno dei loro colleghi uomini o trovino più difficoltà a entrare nel mondo del lavoro: almeno potranno fregiarsi del gagliardetto di farsi chiamare avvocata, medica, sindaca.
"Non lo diceva già la Costituzione nel 1948 che la donna doveva avere gli stessi diritti dell’uomo nell’art. 36? Che ce ne facciamo delle parole?", ha detto Ambra. Dal palco rosso per eccellenza, l'attrice ha tirato una bella bordata alle femministe "de sinistra" che pretendono di sapere cosa è meglio per tutte, impartendo una lezione ai fan della lingua di genere: le battaglie da combattere sono altre e ben più importanti di una vocale a fine parola.
E se è vero che la lingua descrive la società, è anche vero che di certo non basta mettere una "a" alla fine della parola per cambiare il mondo. È solo un contentino che allontana il dibattito dalle cose serie. Oltre a creare una comprensibile irritazione nell'opinione pubblica, le femministe causano anche l'effetto opposto rispetto a quello che vorrebbero raggiungere: è di pochi giorni fa il sondaggio della Fondazione Bruno Kessler secondo cui farsi chiamare "avvocata" testimonia una minore affidabilità rispetto al maschile (e neutro) "avvocato". Ambra lo ha capito e non risparmia una frecciata finale ai cultori del politicamente corretto: "Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali in fondo alle parole al femminile, ma ridateci il 20% di retribuzione. Pagate e mettete le donne in condizione di lavorare. Uguale significare essere uguale. E finisce con la e".
Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2023.
Bando ad asterischi e schwa, no all’articolo davanti al nome (la Meloni, la Schlein), e no alle reduplicazione retoriche (i cittadini e le cittadine, le figlie e i figli), sì invece al plurale maschile non marcato «inclusivo», e soprattutto ai nomi di professione declinati al femminile (avvocata, magistrata, questora): l’Accademia della Crusca risponde così al quesito postole dal comitato pari opportunità del consiglio direttivo della Corte di Cassazione sulla scrittura negli atti giudiziari rispettosa della parità di genere.
[…]
Intanto, niente asterischi o schwa: «È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (”Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…). Lo stesso vale per lo scevà o schwa».
Poi, in una lingua come l’italiano che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, «lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti» non è per l’Accademia della Crusca «la reduplicazione retorica, che implica il riferimento raddoppiato ai due generi» (come in «lavoratrici e lavoratori», «impiegati e impiegate»); ma é «l’utilizzo di forme neutre o generiche (per esempio sostituendo “persona” a “uomo”, “il personale” a “i dipendenti”), oppure (se ciò non é possibile) il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare».
E sempre il maschile non marcato si può usare quando ci si riferisce «in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta», ad esempio «il Presidente del Consiglio». Per il resto, l’Accademia suggerisce di «far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile»,
[…]
Estratto dell'articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” il 3 maggio 2023.
Era difficile condurre un Primo Maggio e riuscire a fare solo cose profondamente di destra, ma Ambra Angiolini – incredibile a dirsi – ce l’ha fatta. Probabilmente, se accanto a Biggio ci fosse stata Daniela Santanchè, avremmo avuto un Primo Maggio più spostato a sinistra, ma ormai è andata. La conduzione inizia subito in maniera un po’ stonata.
La conduttrice che parla di alternanza scuola-lavoro e di come sia stato ingiusto rubare il futuro a un giovane di 18 anni (Lorenzo, morto in alternanza scuola lavoro) che doveva solo andare a scuola. Considerato che Ambra ha iniziato a lavorare a Non è la Rai a 14 anni dalle 11 del mattino fino alle sei del pomeriggio, sarebbe stato più interessante ascoltare la sua esperienza più che la sua predica, ma poi sono saliti sul palco i genitori di Lorenzo con la loro incrollabile dignità e il momento è stato toccante.
Tra una canzone e l’altra, sotto la pioggia battente, è poi il turno del fisico Carlo Rovelli, il quale sul palco dice quello che ribadisce da tempo, e cioè che è contrario alla guerra: “Lo sapete che in Italia il ministro della Difesa è stato vicinissimo a una delle più grandi fabbriche di armi del mondo? Il ministero della Difesa deve servire per difenderci dalla guerra, non per fare i piazzisti di strumenti di morte”.
(...)
Diamo a tutti la possibilità di parlare ma anche a tutti quella di rispondere e questa risposta è mancata. È un’opinione del professor Rovelli”.
Ha fatto bene a chiarire questo ultimo passaggio perché pensavamo che sul palco Rovelli avesse portato un’opinione di Ornella Vanoni e invece era proprio sua, pensate che cosa bizzarra, ma detto ciò, la parte davvero anomala della precisazione è quel “ci dovrebbe essere un contraddittorio”. E certo, ogni volta che qualcuno esprime un’opinione su qualcun altro deve esserci anche l’altro. Un po’ macchinoso come metodo.
Quindi ogni volta che in tv qualcuno cita Biden bisogna organizzare uno skype con la Casa Bianca. A questo punto se si cita Mussolini urge una seduta medianica in diretta per fargli dire anche la sua. Il ministro Crosetto poi fa molta fatica a trovare un pulpito da cui controbattere, pover’uomo.
E infatti, con immensa fatica, oggi su tutti i giornali del paese è stata riportata la sua risposta, della serie: “Rovelli faccia il fisico. Gli mando un abbraccio pacifico e lo invito a pranzo”. Tra parentesi, quando Fedez lanciò la sua invettiva da quel palco non ricordo la conduttrice Ambra pronta a cazziarlo perché mancava la controparte. Al Corriere della Sera che il giorno dopo le ha chiesto come mai avesse preso le difese di Crosetto, ha risposto: “È una questione di umanità”.
Quindi esprimere un’opinione senza che l’oggetto dell’opinione sia presente è disumano. Io sto scrivendo questo articolo senza che Ambra sia seduta accanto a me, spero possa tollerare la mia dose di disumanità.
E poi, siccome non era già abbastanza a destra, Ambra si sposta ancora un po’ più a destra. Per parlare di donne e lavoro le è parsa una buona idea leggere delle card con dei testi scritti sopra da qualcuno che poteva essere a) Giorgia Meloni b) Hoara Borselli c) Giorgia Meloni e Hoara Borselli a quattro mani. Il concetto sintetizzato era: inutile parlare di desinenze, accapigliarci per un avvocatO anziché avvocatA se tanto quando si parla di lavoro i nostri diritti sono ancora calpestati. Torniamo a occuparci della ciccia anziché parlare di vocali. Pagateci il giusto stipendio e tenetevi le vocali.
Insomma, secondo Ambra Angiolini le parole non sono importanti, basta il giusto stipendio. In effetti potremmo continuare a chiamare i lavoratori di colore “ne*ri”, l’importante è che ricevano il giusto salario. O ignorare la questione identità di genere e continuare a usare le desinenze maschili pure riferendoci a chi si sente donna e viceversa (e però Ambra non perde occasione per indossare il maglioncino o la spilletta arcobaleno).
Nessuno le ha mai spiegato che l’inclusività passa prima di tutto attraverso il linguaggio, e che la prima forma di discriminazione e di rivendicazione del predominio maschile è proprio questa resistenza a consegnarci la nostra identità. Eppure fu proprio lei, anni fa, a raccontare quanto una parola di Aldo Grasso la ferì a morte, a spiegare alla sua generazione quanto le parole scrivano la realtà. Definiscano. Facciano vivere o sparire.
Insomma, davvero un brutto primo maggio quello di Ambra Angiolini, ma di sicuro IL presidente Meloni sarà contento. O contenta.
Decida Ambra.
Apriti schwa. Concertone e Domenica In, la grande festa degli scandali scemi del Nuovo Asilo Italiano. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Maggio 2023
Siamo arrivati a dare peso alle parole di chi non vive di parole proprie, fino al punto di far partire l’inquisizione digitale contro le attrici che dicono cose banali
Comincerei dagli attori, e formerei due file ordinate. Da una parte chi non ha studiato niente, al massimo ha appreso da “Shakespeare in love” che una volta i ruoli femminili li interpretavano i maschi, e parla degli attori come fossero persone intellettualmente rilevanti. Dall’altra chi rimpiange i tempi in cui venivano sepolti in terra sconsacrata, e si chiede con sconforto come siamo diventati una società che domanda pareri a gente pagata per esprimersi con parole altrui.
Tra domenica e lunedì, grande festa alla corte degli scandale du jour, e tutta a base di attori, cioè appunto di gente che si è scelta un mestiere che le garantisca di non dover mai pensare a cosa dire. Ma questo non basta, nell’epoca in cui, pur di posizionarci dalla parte dei giusti, siamo disposti anche a prendercela con chi non vive di parole proprie.
“Domenica In” ospita una coppia di attori. Sono marito e moglie, hanno fatto un film insieme, sono piuttosto bellocci. Non credo d’aver mai visto un film con lei, lui invece l’ho visto quando copulava con Rosy Abate in quel capolavoro kitsch che era “Squadra Antimafia”, serie di Canale 5 (parlando di Canale 5 da viva).
Mara Venier lo tratta come fosse Marlon Brando, ne loda la credibilità e il non essersi mai venduto (della signora invece lodano tutti in coro l’onestà intellettuale, qualunque cosa significhi). Del film che sono venuti a presentare lui fa la regia. Trascrivo le prime parole che ne dice: «Non è un film di caccia, “La caccia” è un titolo che rappresenta un po’ una sorta di metafora della vita, nel senso una caccia a volte anche contro sé stessi, contro le proprie anime».
A quel punto noialtre sul divano pensiamo «figlio mio, meno male che sei belloccio», sua moglie e la Venier invece si guardano e sospirano quant’è intelligente, un po’ tipo i Ferragni quando il figlio scarabocchia un foglio e volano i «bravissimo, amore!».
L’intervista prosegue con un lessico da non madrelingua. La coppia racconta d’un bisticcio perché al figlio un compagno di calcio aveva fatto fallo, lui dice «una cosa goliardica», non faccio in tempo a chiedermi cosa diavolo penserà voglia dire «goliardica», quando lei dice del marito «non mi aspettavo questo suo randagismo che a me piace molto perché io adoro essere gestita», e ci vuole fantasia a immaginare cosa intenderà mai con «randagismo» (autoritarismo? perentorietà? dogmatismo?).
È a quel punto che arriva lo scandale du jour, che mostra i due caratteri classici della dinamica degli scandale du jour: dici una cosa di cui nessuno si sarebbe scandalizzato dieci anni fa ma che può riempirci le giornate social oggi; nessuno di coloro che partecipano alla conversazione capisce come va il mondo (e infatti con la frase su RaiPlay ci fanno il titolo dell’intervista) e quindi l’inquisizione spagnola arriva, come sempre, inaspettata.
La frase dell’attrice riguarda la spartizione dei lavori domestici tra lei e il marito: «Io non tollero l’uomo che si mette a fare il letto, a dare l’aspirapolvere, non lo posso proprio vedere, sono antica in questo, rispetto i ruoli, non mi piace, mi abbassa l’eros, me lo uccide». Se fossimo una società di adulti, tratteremmo questa frase come ciò che è: l’affermazione di una che ha del personale di servizio in casa.
Siccome siamo un collettivo di dodicenni pronti a tutto per prendersi i cuoricini, ci costerniamo e ci indigniamo e americanizziamo la questione: non sei un’attrice che dice delle cose a caso in un programma della domenica pomeriggio, sei un modello comportamentale, e stai dicendo alle donne a casa che devono fare da serve ai loro mariti.
E le donne a casa ti ascolteranno, diamine, perché se c’è una cosa che accomuna le donne emancipate e quelle meno emancipate è che vivono come le attrici in tv dicono loro di vivere. (Il martedì, la poverina dovrà scusarsi. Scusarsi perché non le fa sangue che il marito passi l’aspirapolvere. Pensa se avesse detto che le piace farsi legare al letto, che espiazione le toccherebbe).
Il lunedì, per completare la ricreazione, il concerto del primo maggio viene condotto da un’altra attrice, che a un certo punto fa la sua brava tirata sul lavoro femminile e sul divario salariale. Che è un lamento propagandistico anche quello da cuoricini facili. Certo che ci saranno eccezioni, che sono appunto eccezioni; ma perlopiù esistono i contratti collettivi nazionali e non prevedono che io possa pagarti meno se hai le tette.
Perlopiù, i dati sul divario salariale che propagandisticamente vengono citati sono il risultato di comparazioni che non tengono conto dei ruoli: in generale le donne guadagnano meno degli uomini perché in generale le donne scelgono di fare le professoresse e lavorare diciotto ore a settimana e non di fare i cardiochirurghi e stare in sala operatoria dodici ore di fila.
La conduttrice sceglie – come chiunque stia su quel palco e non voglia farsi linciare – di dire che il divario salariale esiste, ma per farlo osa aggiungere un dettaglio, così la linceranno comunque ma per aver mancato di rispetto a un totem più piccino. La conduttrice dice che insomma, basta con questa scemenza delle vocali finali, paghiamo la donna che fa l’ingegnere quanto l’uomo, invece di preoccuparci che la chiamino «ingegnera». Apriti schwa.
Su Instagram una comica si mette le orecchie da persona seria e le fa la lezioncina: una volta, cara te, non c’era la parola «attrice» perché il tuo lavoro lo facevano gli uomini, se non ti suona «medica» è perché non sei abituata alle femmine con lavori di responsabilità. (Mistero misterioso perché in questi casi nessuna chieda la vocale giusta per la muratora che così spesso rischia la vita sulle impalcature).
Su Twitter, una tizia che in bio ha un ruolo nella segreteria Schlein e molti cancelletti le dice perentoria che non solo è molto grave non volersi occupare delle vocali, ma pure che «non si tratta col patriarcato». Signora, il patriarcato ci ha dato la pillola. Signora, il patriarcato per la mia liberazione – e pure per la sua – ha fatto parecchio più dei cancelletti.
Anzi, sa che le dico? Il patriarcato ci ha dato pure i cancelletti, cancelletti che oggi – in una società che ha risolto questioni quali i diritti dei lavoratori, l’acqua potabile, la sanità e la scuola gratuita, e altre bazzecole che nella vostra delirante abolizione delle gerarchie sono rilevanti quanto il 41 bis per gli uomini che non sparecchiano – ci permettono d’intrattenerci per interi pomeriggi posizionandoci dalla parte dei buoni e dei superiori.
Superiori a un’attrice che non vuole che il marito rifaccia i letti, e a un’altra che chiama «avvocato» gli avvocati con le tette. Avvocati con le tette nessuna delle quali vuol essere chiamata né col femminile italiano – avvocatessa – né con quello in neolingua (avvocata). Ma sono donne, e quindi non sanno ciò che vogliono: noi che siamo dalla parte dei buoni le costringeremo a non farsi chiamare avvocato e a non sparecchiare, e ancora una volta avremo salvato il mondo.
«Ambra Angiolini ha ragione: provocano noi donne sulle vocali, e poi ci ignorano sui numeri». Beatrice Dondi su L'Espresso il 3 maggio 2023.
La distrazione di massa del monologo della conduttrice sul palco del Primo Maggio è l’arma impugnata da chi di quella desinenza (Avvocata, Architetta) non sa che farsene. E che alle donne nega senza fatica quel 20 per cento di retribuzione
Le parole sono importanti, ce l’ha insegnato Nanni Moretti, e lo abbiamo imparato sulla nostra pelle, giorno dopo giorno. Sì, le parole sono importanti. Ma alla fine le azioni lo sono almeno altrettanto. E purtroppo, accade spesso, l’attenzione riservata a quelle parole appunto importanti rischia di fagocitare tutte le altre attenzioni, come un aspirapolvere alla massima potenza che porta via tutto, dai riccioli di polvere di Stephen King al senso profondo delle battaglie di cui quelle parole dovrebbero essere il vestito.
Così è successo che incautamente Ambra, conduttrice del concertone del Primo Maggio, si sia lasciata andare a un monologo sul lavoro delle donne che anziché far sobbalzare gli astanti per il suo contenuto ha fatto indignare per la riflessione sul linguaggio.
Non è che stiamo sbagliando battaglia? Ha detto Ambra dal palco di San Giovanni «Negli ultimi tempi ci stiamo infatti accapigliando se una donna viene chiamata direttore d'orchestra o direttrice, avvocato o avvocata, come se il cambiamento (culturale e sociale) passasse solo da una qualifica. Tutte queste vocali in fondo alle parole sono, saranno armi di distrazione di massa?».
E qui la questione comincia a farsi seria. Perché ciascuna donna pretende a ragione la desinenza corretta, ci mancherebbe. E non è certo una concessione, si chiama molto semplicemente lingua italiana. Ma il problema su cui riflettere, scatenato dalla provocazione di Ambra è un altro. La distrazione di massa intravista da Ambra è l’arma impugnata da chi di quella desinenza non sa che farsene, è il punteruolo di chi i diritti delle donne li vede come una fase accessoria, un bigodino su una testa arruffata. E protesta contro queste “fissazioni al femminile” ben sapendo che la reazione (sacrosanta) arriverà puntuale. E a questo punto certo sì che ci si distrae. Se Meloni chiede di farsi chiamare Il Presidente è perché così è certa che per giorni si dibatterà su questa inezia, e non sul fatto che La presidente sino a oggi ai diritti delle donne non ha dedicato neppure una virgola. Si perdono di vista i fatti appunto e i fatti sono «che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione».
Certo, quando Ambra chiude il suo monologo proponendo lo scambio, « riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20 per cento di retribuzione» fa un certo effetto. Nessuna donna vuole uno scambio perché non si cede un diritto in cambio di un altro. I diritti sono tali proprio perché sono per tutti. Ma fa ancora più strano che non si sia scatenato un putiferio su quel 20 per cento, che non è una parola, è un numero ma fa male da morire. Perché è vero che senza le parole non siamo, come ha scritto giustamente Loredana Lipperini su La Stampa. Ma la polemica è sempre portata avanti da chi pensa che uno stipendio ridotto solo a causa del nostro sesso non sia un tema. Tanto alla fine, meglio farci scaldare sulle vocali, così sulle consonanti in busta paga si può prendere tempo.
Estratto dell'articolo di liberoquotidiano.it l'1 maggio 2023.
Che abbia inizio il Concertone del Primo maggio. Come da sei anni a questa parte a condurlo su Rai 3 ci pensa Ambra Angiolini. A lei - e non solo - vanno le critiche di Nicola Porro. […] senza mai citarla, ecco che prende di mira chi ne è al timone.
Premettendo che la vita di ognuno di noi è scandita da cerimonie più o meno importanti, quelle più insopportabili - a detta di Porro - sono due: il 25 aprile e il 1° maggio. Per lui, infatti, si tratta di "due gigantesche rotture di co***ni, io raderei al suolo con il Napalm il calendario in quei giorni perché penso che siano il concentrato della retorica delle stro***te e della follia collettiva". In particolare, per l'occasione della festa del Lavoro, "vorrei catapultarmi a Chicago o a Detroit dove il primo maggio non si festeggia e dove la disoccupazione è al 3,5 per cento".
In Italia, invece, "le persone che pensano bene devono dire le cose che ti aspetti". Da qui la frecciata a "chi conduce il concertone" che per la carriera è "meglio di Sanremo" e se ci arrivi "hai svoltato". La Angiolini era "una ragazzina che veniva teleguidata da un vecchio regista sulla tv di Berlusconi". Ora - conclude col dente avvelenato, "sali sul palco del concertone e sei redenta!".
Trent'anni tra comizi e provocazioni. Quando gli artisti diventano pasdaran. Come sempre, il Concertone del Primo Maggio è una fucina di polemiche e per la conduttrice Ambra Angiolini "è giusto che sia così". Paolo Giordano il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.
Come sempre, il Concertone del Primo Maggio è una fucina di polemiche e per la conduttrice Ambra Angiolini «è giusto che sia così». Giusto o non giusto, da decenni il palco di piazza San Giovanni è la tribuna ideale per comizi, provocazioni, campagne elettorali e autopromozioni. Ha iniziato Elio con le sue Storie Tese già nel secondo anno di questo evento, ossia nel 1991, quando interrompono il classico Cassonetto differenziato per il frutto del peccato e cantano una versione distorta di Cara ti amo elencando i nomi dei super politici di allora, da Andreotti a Cossiga. Risultato: la Rai interrompe lo show e il grande Vincenzo Mollica si precipita sul palco per intervistare Ricky Gianco. Due anni dopo tocca ai Litfiba, che attaccano Giovanni Paolo II per le scelte della Chiesa su preservativo e aborto: Come mai il Papa parla sempre di sesso - urla Pelù - non dovrebbe essere metafisico?». Apriti cielo. Dieci anni dopo, nel 2003, Daniele Silvestri è più politico e se la prende con Silvio Berlusconi: «Se c'è una guerra di cui vorrei parlare è quella che il nostro governo sta dichiarando alla magistratura italiana». Il mondo politico si azzuffa, l'esibizione viene tolta da YouTube e da allora per qualche anno il Concertone andrà in differita di venti minuti, non si sa mai.
Nel 2007 ci pensa il presentatore Andrea Rivera a vestire i panni del provocatore chiedendo al Vaticano perché erano stati concessi i funerali ai dittatori Pinochet e Franco ma non a Piergiorgio Welby (che aveva scelto l'eutanasia in Svizzera). In poche parole, in questi trent'anni il concerto dei sindacati al Primo Maggio ha progressivamente ridotto la propria ricerca musicale per alzare il profilo delle polemiche. Dici Concertone e pensi alle polemiche, più che alla musica. Nel 2013 fu annunciata la partecipazione di Fabri Fibra ma l'associazione Dire (Donne in rete contro la violenza) gli rinfaccia i testi «sessisti e misogini» e lui viene cancellato dalla lista dei partecipanti due settimane prima di salire sul palco. Curioso pensare che i brani di Fabri Fibra non sono mai stati censurati o cancellati da nessuna piattaforma, da nessuna radio e da nessun'altra tv...
Nel 2014 Piero Pelù se la prende con «il non eletto, ovverossia il boy scout di Licio Gelli». Si era a ridosso delle elezioni europee, Renzi prese il 40 per cento dei voti, vinse la causa e Pelù lo risarcì con 20mila euro. Costavano di più i due Rolex che Sfera Ebbasta indossò sul palco nel 2014 celebrando la festa dei lavoratori. Lui non chiese scusa: «Se vi basta un outfit Gucci per rovinarvi la serata, vuol dire che avete un problema molto più grosso da risolvere».
La Rai lo ha avuto nel 2021 con Fedez che se la prese con il senatore della Lega Andrea Ostellari in merito al disegno di legge Zan sulla omotransfobia. Denunce. Minacce. Telefonate registrate. Ma poi Fedez sale sul palco e sbeffeggia la Lega senza problemi. Insomma il Concertone è come i social: pieno di polemiche ma poi tutto finisce lì.
Lo sconcerto del Primo maggio: se la cantano e se la suonano. Di Nicola Boscolo Pecchie il 2 Maggio 2023 su culturaidentita.it
L’armamentario è collaudato da tempo: qualche bandiera del Che, qualche falce, qualche martello, qualche bandiera rossa…per la verità ultimamente convertite in un’armocromia più multicolor, più da bandiera della pace, anche se finchè la stringi in mano urli le peggior cose a chi, più che legittimamente, governa. Ciò che non è cambiato sono le offese, l’antagonismo a tutti i costi, la voglia di avere sempre e per forza qualcuno con cui prendersela. Non è cambiato, anzi è dato in rialzo, il buonismo imperante delle belle parole, sciorinate da prezzolati oratori, preoccupati loro e solo loro di salvare il pianeta intero.
Ma quest’anno più che di un concerto si è trattato di uno sconcerto per un Governo che si convoca il 1 maggio e che vuole rendere omaggio alla festa con provvedimenti se si vuole discutibili, opinabili, ma pur sempre provvedimenti. Piaccia o no!
Si può criticare il sostanziale abbattimento del cuneo fiscale? Si può contestare ciò che altri governi precedenti, anche di centro sinistra, potevano fare e non hanno fatto? E’ discutibile la riforma del Reddito di Cittadinanza? Ma si può affermare che il precedente provvedimento favoriva il lavoro? Si possono obiettare le misure sulla sicurezza o quelle sul contributo per l’assunzione di disabili? Si obietta che voucher e cambio delle causali del contratto a tempo determinato portano precarietà, ma è anche vero che portano flessibilità. E comunque si può opinare sulle singole misure, sicuramente implementabili, ma che il lavoro sia stato messo al centro è innegabile.
Che poi l’abbia fatto un governo di destra rubando la scena sul lavoro alla sinistra effettivamente è sconcertante. E’ tutto uno sconcerto…quando il governo di destra fa il governo di sinistra e quando il governo di destra fa il governo di destra, ma sì dai, è la solita retorica di sinistra che se la suona e se la canta e che non so se veramente arrivi a quei giovani che sono in piazza e che almeno loro sono riusciti a scroccare un concerto senza sconcertarsi.
Dagospia il 2 maggio 2023. Il post su Facebook di Marco Ardemagni
Fatemi gli auguri, sono passati dieci anni.
E ancora aspetto il saldo della fattura.
Roma, concerto del Primo Maggio, eravamo stati scritturati Filippo Solibello ed io per una cifra leggermente superiore all'abituale (ma niente di faraonico) per fare da valletti a Geppi Cucciari, ma fondamentalmente l'avremmo fatto anche a rimborso spese, per allegria, per sostenere i lavoratori. Tra gli autori Luca Bottura supportato come spesso dalla valida Linda Ovena
Curiosamente in tanti anni di carriera l'unica fattura che non mi è stata saldata è quella per il Concerto dei sindacati, nella giornata della Festa dei Lavoratori.
Non sto a dire quanti guai poi mi vennero da quella partecipazione, a partire dall'attacco di pollinosi che mi prese sul palco (Roma era già in fiore, Milano no: un occhio clinico lo può notare anche dalla foto) ma questo è un altro discorso.
So che il problema del mancato pagamento ha toccato tanti altri, compresi molti che fanno lavori più duri del mio, come gli attrezzisti o i fonici, anche in edizioni precedenti, basta cercare in rete. Eppure i sindacati (i soliti tre) se ne sono sempre impipati, per dirla all'antica.
Chissà, magari Maurizio Landini, o PierPaolo Bombardieri o Luigi Sbarra hanno voglia di fare una piccola indagine interna per cancellare questa vergogna, perché penso sia brutto non pagare chi lavora per i lavoratori (a meno che non ci si accordi prima, e l'avremmo anche fatto).
Non so i miei compagni di disavventura, ma, a questo punto, io sarei anche dell'idea di devolvere l'eventuale saldo, comprensivo di interessi, alla raccolta fondi dell'Unicef per i bambini dell'Ucraina anche a parziale compensazione per l'imbarazzante discorso di Carlo Rovelli. Mi tratterei soltanto l'IVA che l'agenzia delle entrate ha preteso in anticipo sul saldo mai avvenuto e le spese di viaggio.
Che ne dite?
Antonio Giangrande: Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".
Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.
Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?
Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.
Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.
«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?
Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.
Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;
Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;
Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;
Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;
Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;
Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;
Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;
Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;
Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».
Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.
Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.
In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.
Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.
A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.
Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.
Lo sfruttamento minorile in Italia è ancora una realtà che colpisce 336 mila bambini. Gloria Ferrari su L'Indipendente l'1 maggio 2023.
In Italia quasi 1 minore su 15, tra i 7 e i 15 anni – per un totale di 336 mila persone – ha avuto almeno un’esperienza lavorativa. Tra i ragazzi della fascia d’età 14-15 anni, che hanno dichiarato di svolgere o aver svolto un’attività, il 28% è stato impiegato in lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e per il benessere psicofisico, “percepiti dagli stessi intervistati come tali, perché svolti in orari notturni o in maniera continuativa durante il periodo scolastico”. È quanto emerge dal report Non è un gioco, un’indagine sul lavoro minorile radicato nel nostro territorio redatta da Save The Children, che mette in luce quanto e come in Italia la legge in materia venga più volte violata. Il nostro ordinamento, infatti, prevede che gli adolescenti possano iniziare a lavorare a 16 anni, dopo aver superato cioè l’obbligo scolastico. Invece per quasi un 14-15enne su 5 l’attività è cominciata prima di aver superato tale soglia anagrafica, con un impiego quotidiano (1 su 3 lo fa durante i giorni di scuola) che a volte scavalca le lezioni (il 4,9% salta le lezioni per lavorare), rischiando di “compromettere i loro percorsi educativi e di crescita”. In realtà più della metà dei minori che ha dichiarato di aver lavorato durante l’ultimo anno o in passato, ha iniziato dopo i 13 anni, mentre il 6,6% prima degli 11 anni.
Un processo tra l’altro su cui è difficile intervenire per via della “mancanza nel nostro Paese di una rilevazione statistica sistematica sul lavoro minorile, che non consente di definirne i contorni e intraprendere azioni efficaci di contrasto al fenomeno”.
Tuttavia l’indagine dell’organizzazione ci ha permesso di avere un quadro più chiaro e di individuare i settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile. Tra questi c’è la ristorazione (25,9%), la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), seguiti dalle attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), dalle attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%). Con l’avanzare della tecnologia sono però emerse nuove forme di lavoro, anche queste terreno fertile per lo sfruttamento dei più piccoli. Questi sono impiegati nel lavoro online (5,7%) per realizzare contenuti per social o videogiochi, o ancora per il reselling – fenomeno per cui un prodotto molto ricercato, di solito in edizione limitata, viene rivenduto a prezzo maggiorato – di scarpe cellulari e così via.
I motivi e le cause che spingono ragazzi e ragazze a cominciare a lavorare sono diversi, e rispecchiano esigenze spesso opposte. Più della metà lo fa per avere soldi per sé, il 33% invece per offrire un aiuto economico ai genitori, mentre per il 38% si tratta di un’esperienza fatta per il piacere di farla. Save the Children ha riscontrato che in molti casi “il livello di istruzione dei genitori, in particolare della madre, è significativamente associato al lavoro minorile”. Infatti la percentuale di genitori senza alcun titolo di studio o con la licenza elementare o media è significativamente più alta tra gli adolescenti che hanno avuto esperienze di lavoro, “un dato che deve far riflettere sulla trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione”.
Ma quali sono le cause principali del lavoro minorile? Come già accennato, c’entra il contesto familiare e socioeducativo in cui i ragazzi vivono, a partire dalla condizione di povertà ed esclusione sociale – basti pensare che sono quasi un milione e mezzo i minori che vivono in povertà, cioè il 14% del totale. Ragazzi che potrebbero portarsi dietro questa condizione anche negli anni a venire. I dati dicono che nel 2022 i ‘NEET’ (cioè i giovani under 30, in età da lavoro, che non studiano, non sono impiegati e non sono inclusi in nessun percorso di formazione) erano il 19% della popolazione di riferimento, con un valore in Europa secondo solo a quello osservato in Romania.
«Molti ragazzi oggi in Italia entrano nel mondo del lavoro dalla porta sbagliata: troppo presto, senza un contratto, nessuna forma di tutela, protezione e conoscenza dei loro diritti e questo incide negativamente sulla loro crescita e sul loro percorso educativo», ha commentato Raffaela Milano, Direttrice del Programma Italia-EU di Save the Children. Un fenomeno di cui le istituzioni dovrebbero essere più consapevoli, per poi farsene carico. [di Gloria Ferrari]
I multischiavi del lavoro. Giovanni Vasso su L'Identità il 30 Aprile 2023
di GIOVANNI VASSO
Povero lavoro. E poverissimi lavoratori. Lo ha detto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, da Reggio Emilia, ha lanciato un serissimo monito sul lavoro e sulla dignità.
Ma c’è un giudice del lavoro. Non a Berlino, per fortuna, ma a Milano. Che ha sanzionato, come incostituzionale, la paga oraria addirittura inferiore ai quattro euro all’ora che era stata riconosciuta a una donna, padovana, assunta come guardiana di un magazzino per la grande distribuzione. Lavorava a fronte di un salario da 3,96 euro l’ora. In un mese, anche mettendocela tutta, non riusciva a superare la soglia della povertà individuata dall’Istat nella cifra di 840 euro. Guadagnava, infatti, circa 640 euro ogni mese. E la beffa era che quella somma era perfettamente in linea con un regolare contratto nazionale, controfirmato da sindacati importanti come Cgil e Cisl. Il giudice ha disposto l’applicazione di un altro contratto, legato a servizi di portierato, e ha ingiunto all’impresa di rifondere alla sua dipendente 372 euro, lordi, per ogni mese di lavoro. Non è mica la prima volta che un giudice, in Italia, stanga i datori di lavoro troppo avidi che approfittano di contratti poco generosi nei confronti dei dipendenti. Era già successo nel 2016, ad agosto, quando un vigilante piemontese, finito a lavorare per qualcosa come 4,40 euro all’ora, chiese e ottenne dal tribunale un “aumento” rispetto a un contratto nazionale regolarmente sottoscritto dai sindacati.
La beffa, in questi casi, è che spesso e volentieri si tratta di contratti applicati da società che nascono cooperative, quindi con una precisa ragione sociale (che, in teoria, sarebbe quella di fornire condizioni migliori di lavoro ai suoi soci) e che finiscono poi per diventare società di capitali, talora addirittura Spa. La beffa nella beffa è che queste aziende lavorano, spesso e volentieri, a strettissimo contatto con il pubblico. E limano, al massimo, sugli emolumenti e sui salari riconosciuti ai loro dipendenti per rientrare nella logica dei massimi ribassi delle gare d’appalto. Insomma, un cane che si morde la coda.
Accade, per esempio, anche nell’edilizia. I guardiani sono pagati, mediamente, tra i sette e gli otto euro l’ora, con una paga base conteggiata tra i 4,38 e i 4,93 euro l’ora. Nel campo sociosanitario le cose non vanno meglio. Per le badanti, per esempio, il salario orario minimo è tra i 4,83 euro e gli 8,57 euro.
Il contratto di lavoro Multiservizi, attualmente, prevede (dopo lo scatto del 2022) una paga oraria minima di circa 6,7 euro. Che aumenterà a sette euro a luglio di quest’anno. Tra un anno saranno aggiunti altri quattro centesimi. Poco, pochissimo. Ma regolare, tutto a norma di legge. E di concertazione.
È evidente che in questa vicenda si inserisce il tema del salario minimo. Una paga fissa, sotto la quale non si può scendere, per attuare il dettato dell’articolo 36 della Costituzione. Quello che, al di là della retorica, stabilisce che la remunerazione deve garantire una vita dignitosa al lavoratore. Sarebbe la soluzione, secondo chi ne propugna l’inserimento nell’ordinamento giuslavoristico nazionale, ai problemi di lavoro povero, di contratti ingenerosi. Infatti, il tema è che l’Italia, a differenza della Germania dove vige questa norma, si è preferito (da sempre) puntare forte sulla contrattazione collettiva. Solo che, si capisce, qualcosa è andato storto. Al 30 giugno dello scorso anno erano stati depositati al Cnel qualcosa come 1.010 contratti collettivi nazionali di lavoro. Una marea di scartoffie, sottoscritti (talora) da un pugno di imprese e da decine e decine di sigle concertative di ogni tipo, di ogni nome, di ogni dimensione.
Dalla Triplice fino ai sindacati di dimensioni molto minori. A essere cattivi, si direbbe quasi più fogli di carta che lavoratori effettivamente assunti. Si questi, ben 940 afferiscono al settore privato. E, tra loro, ben 563 (poco meno del 60%) già scaduti da tempo. Intanto, nelle more (come si dice in burocratese) di prosegue a dare valenza a quelli scaduti. E perciò l’Italia si presenta, in Europa, come il Paese in cui le retribuzioni sono le più depresse in tutto il Vecchio Continente, rispetto agli aumenti dei prezzi e del costo della vita. Non dall’inizio della crisi energetica, nemmeno dalla pandemia in poi: ma da qualche decennio. Forse per la Bce, che propugna la necessità di fermare gli aumenti degli stipendi per frenare l’inflazione, il nostro Paese potrebbe anche rappresentare un modello. Ma la realtà è che, ovunque, i lavoratori stanno meglio che in Italia. Almeno in termini di trend.
Il Reddito di Cittadinanza.
Antonio Giangrande: I cinquestelle, nel loro totale giustizialismo, inesperienza, imperizia, non aiutano i poveri con il reddito di cittadinanza.
Il loro sistema di sostegno populista aiuta i nullatenenti ritenuti in apparenza onesti, non i poveri, non gli emarginati.
Se, per esempio, un disoccupato riceve dai genitori in eredità un vecchio rudere, che per il fisco valuta più dei limiti di valore dai pentastellati stabiliti, non ha diritto al reddito di cittadinanza, sempre che non rinuncia all’eredità.
Non può accettarlo e cederlo. Se lo vende supera il reddito previsto o la giacenza in banca.
Se, per esempio, una vittima di ingiustizia o oggetto delle circostanze, si ritrova emarginato e bisognoso, ad esso il reddito di cittadinanza è escluso, tanto da reindurlo al crimine per campare.
La rivolta (inutile) dei fannulloni. Ancora proteste contro l’abolizione del reddito di cittadinanza. Gli ex percettori minacciano e si dicono pronti a tutto pur di riprendersi la paghetta di stato. E il lavoro? Beh, la parola a loro è sconosciuta. Michel Dessì l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.
I fannulloni non perdono tempo per protestare. Ogni occasione è buona per fare caciara, perfino la visita del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Caivano. Nonostante si sia recata lì dopo lo stupro di gruppo nei confronti di due bambine, loro, i fannulloni, i nullatenenti, i mantenuti dallo Stato, ne hanno approfittato per sghignazzare, deridere e insultare il premier. Che cattivo gusto. Per carità, il dissenso è sempre lecito purché ci sia rispetto. Non solo per la persona contestata, ma anche e soprattutto per il luogo. In questo caso il parco verde di Caivano teatro di orrore e di violenza. Ma si sa, i fannulloni (alcuni di quelli presenti ovviamente) non hanno nessun senso di rispetto, di vergogna. Nessun pudore. Vogliono i soldi, i nostri soldi. Soldi regalati loro dal Masaniello Giuseppe Conte (con tanto di buco nella casse dello Stato da oltre 15 miliardi) che soffia sul fuoco della protesta. "Ridateci il reddito", dicono loro a favore di telecamera.
Ai percettori, anzi, agli ex, non va proprio giù che il governo abbia mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale e cancellato il sussidio grillino con un colpo di spugna. Gli aiuti da ora in poi li riceveranno solo i veri bisognosi, i cittadini che non hanno alcuna possibilità di lavorare. Il piano è già partito. Ovviamente i fragili continueranno a ricevere l'assegno. Più che giusto, è dovere dello Stato aiutare i suoi "figli" bisognosi. Questo, però, non significa regalare soldi a pioggia senza controlli come accaduto in questi anni. "Come faremo ora ad andare avanti?", dicono gli ex mantenuti in protesta convinti di essere esauditi. Magari con il lavoro? Peccato, però, che per molti di loro la parola lavoro sia sconosciuta. Allora li aiutiamo noi!
LAVORO: occupazione retribuita e considerata come mezzo di sostentamento e quindi esercizio di un mestiere, di un'arte, di una professione. Vivere del o con il proprio lavoro; non ha altra fonte di reddito che il proprio lavoro; chiedere, cercare, trovare lavoro. Ci auguriamo che lo facciano perché la musica è cambiata. Come la disoccupazione già scesa al 7,6%. Lo dice l'Istat.
Copia-incolla. Il governo Meloni ricicla la piattaforma grillina per trovare lavoro ai percettori del reddito. Lidia Baratta Linkiesta il 9 Agosto 2023
Il progetto preso in mano da Massimo Temussi all’Anpal Servizi è lo stesso avviato da Mimmo Parisi. Pure il team di informatici che sta sviluppando il software è rimasto lo stesso, coordinato da Stefano Raia e Maurizio Sorcioni. Mentre il guru del Mississippi, voluto da Di Maio, ha fatto causa e chiede il risarcimento dopo essere stato commissariato da Draghi
Un anno fa, nel pieno della campagna elettorale estiva, Meloni e alleati promettevano l’abolizione del reddito di cittadinanza in preda alla propaganda anti-grillina, anti-sussidi, anti-divano.
Un anno dopo, la realtà è ben diversa. Non solo il sussidio esiste ancora: gli hanno cambiato nome e cifre, che sono più basse, ma non hanno certo eliminato gli assegni. E anche la piattaforma Siisl, Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa, quella che – secondo la ministra Marina Calderone – da settembre farà magicamente trovare un lavoro ai percettori ritenuti occupabili, è la stessa a cui stavano lavorando Luigi di Maio e il suo guru del Mississippi Mimmo Parisi. Proprio la stessa: quella che avrebbe dovuto chiamarsi “Italy Works” (dal nome della app Mississippi Works che Parisi aveva creato negli States).
Il progetto della piattaforma preso in mano da Massimo Temussi, il sardo consulente della ministra messo a capo di Anpal Servizi, è quello avviato da Mimmo Parisi. Pure il team di informatici e dirigenti che sta sviluppando la piattaforma è rimasto quello di Parisi, coordinato da Stefano Raia e Maurizio Sorcioni. Un copia-incolla, con qualche sfumatura di destra.
Anche con l’uscita di Mimmo Parisi, all’Anpal non hanno mai terminato il lavoro sulla piattaforma, scontrandosi con la annosa questione della interoperabilità dei dati provenienti da fonti e regioni diverse. A dimostrazione del fatto che, contrariamente da quel che dicevano Di Maio e alleati e che va dicendo ora la ministra Calderone, una piattaforma non si fa in qualche mese.
E in effetti la piattaforma, che dovrebbe entrare a regime a settembre, ancora non è pronta. I percettori del reddito considerati occupabili, quelli a cui è stato tagliato il reddito con un sms, da settembre potranno entrare nel servizio di Sostegno alla formazione e al lavoro. Riceveranno un assegno di trecentocinquanta euro, ma a patto di iscriversi alla Siisl e partecipare ai corsi di formazione proposti da un catalogo.
Le Regioni, che sulle politiche attive del lavoro hanno la competenza, la piattaforma ancora non l’hanno vista. Qualche mese fa, nel corso di una Conferenza Stato-Regioni, Raia mostrò agli assessori regionali alcuni “pezzi”. Poi il nulla, dicono.
L’idea di partenza, tramandata dai Cinque Stelle a Fratelli d’Italia, è quella di incrociare i dati di chi cerca lavoro con gli annunci delle imprese che cercano i lavoratori, riuscendo però a fare una analisi predittiva sui fabbisogni del mercato del lavoro, territorio per territorio. In modo da indirizzare il soggetto percettore del reddito al corso di formazione giusto, che poi dovrebbe quindi fargli ottenere un impiego.
Almeno questo è lo schema sulla carta. Si chiama “targhetizzazione”, che però sembra funzionare ben poco. Come sottolineano gli esperti di politiche attive, la letteratura dal 2003 mostra che dove sono state realizzate piattaforme del genere i risultati sono stati spesso modesti, quasi mai utilizzate da operatori e utenti. E la missione appare ancora più difficile con i fatiscenti centri per l’impiego italiani, che non certo pullulano di annunci di lavoro da parte delle imprese italiane.
L’ipotesi, dunque, dovrebbe essere quella che le agenzie per il lavoro private, ben inserite nei tessuti produttivi e che Calderone conosce bene, introducano le loro vacancy nella futura piattaforma. «Ma a quale costo?», si chiede un esperto di politiche attive che preferisce restare anonimo. «Perché le agenzie private dovrebbero aiutare l’attore pubblico?». E ancora: «Questa rischia di essere la piattaforma degli “sfigati”. Quale impresa inserisce delle vacancy solo per i percettori del reddito? Le grandi imprese vanno su Linkedin e Indeed a cercare i dipendenti, non certo sulla Siisl».
Insomma, l’impressione è che Meloni e colleghi stiano vendendo la luna, ripetendo l’errore degli avversari grillini e poggiando su centri per l’impiego che sono gli stessi di prima, scarsamente digitalizzati e con operatori senza competenze specifiche in materia. Di certo, nei vecchi uffici di collocamento non ci sono molti psicologi, quelli che – dicono gli esperti – servirebbero per capire quali corsi di formazione far fare ai beneficiari del reddito, con bassi titoli di studio, spesso da lungo tempo al di fuori del mercato, per i quali andrebbe preparato anche un servizio di accompagnamento nelle aziende.
Risultato: in pochi si fidano delle doti magiche della piattaforma decantate da Calderone e Meloni. Tanto che alcune regioni, le più virtuose, nel frattempo si sono fatte la propria. La Regione Lombardia, ad esempio, ha sviluppato nei mesi scorsi una propria applicazione di incrocio domanda-offerta. Anche Veneto, Toscana e Friuli Venezia Giulia hanno già i propri servizi nelle politiche attive e certo non ci rinunceranno per il software di Calderone.
Si prospetta, insomma, un altro buco nell’acqua da milioni di euro dopo il flop di Parisi. Il prof del Mississippi, intanto, esautorato e commissariato dal governo Draghi prima della scadenza del suo mandato dopo una gestione disastrosa dell’Anpal, ha fatto causa all’agenzia chiedendo la retribuzione intera pattuita inizialmente per tre anni di contratto. Di Maio gli aveva venduto la presidenza di Anpal come oro colato, ha raccontato agli amici una volta rientrato negli Stati Uniti. Ma aveva omesso di dirgli che nella legislazione italiana sono le Regioni ad avere competenza sulle politiche attive. Calderone, almeno, questo dovrebbe saperlo. E sa che che la sua piattaforma, a meno di un miracolo, non funzionerà.
Reddito fallito. Lo diceva il programma dei grillini. Francesco Maria Del Vigo il 2 Agosto 2023 su Il Giornale.
Nel mondo velocissimo e bulimico e trasformista della politica, cinque anni sono un'immensità. Per i grillini ancora di più
Nel mondo velocissimo e bulimico e trasformista della politica, cinque anni sono un'immensità. Per i grillini ancora di più. Ripescare il programma elettorale grillino del 2018, quello che portò il Movimento alla vittoria elettorale e alla nascita del governo giallo-verde, è un'esperienza straniante. Innanzitutto perché la versione dettagliata è praticamente introvabile: totalmente sparita dal sito ufficiale del Movimento o, quantomeno, abilmente occultata. D'altronde uno dei pilastri del mondo pentastellato era la trasparenza assoluta, la casa di vetro. Per gli altri, non per loro. Sul sito del ministero dell'Interno, tuttavia, è ancora reperibile la versione in 20 punti del programma politico (foto) del movimento, con firma autografa dell'allora leader Luigi Di Maio. Tra le tante corbellerie promesse e alcune, purtroppo, mantenute giova rileggere il capitolo dedicato all'emolumento che ha reso famosi e vittoriosi i grillini. Già il titolo, un lustro dopo, sembra quanto meno ossimorico: «Reddito di cittadinanza: rimettiamo il paese al lavoro». È evidente a tutti come la regalìa M5S abbia, al massimo, rimesso il paese sul divano. Nel programma esteso il provvedimento viene spiegato più nel dettaglio: «È una misura attiva rivolta al cittadino al fine di reinserirlo nella vita sociale e lavorativa del paese. Garantisce la dignità dell'individuo e solleva il paese dalla profonda crisi occupazionale ed economica». Qui è ancora più evidente quanto il reddito sia stato spacciato come una misura attiva per incentivare l'occupazione. Quattro anni dopo, con una spesa di 35 miliardi e persino i navigator rimasti senza lavoro, possiamo affermare con certezza che, stando ai parametri posti dallo stesso Movimento, il reddito di cittadinanza nella funziona attiva è totalmente fallito. Così è rimasto per quello che è: un gigantesco voto di scambio, calcificatosi in una elefantiaca prebenda assistenzialista. E in una pericolosa arma di ricatto.
Estratto dell’articolo di Pasquale Napolitano per “il Giornale” l'1 agosto 2023.
La battaglia di Beppe Grillo contro la povertà gli frutta 25mila euro al mese. Euro più, euro meno. Una battaglia sacrosanta, insomma. Quella somma sarebbe […] il compenso che il comico genovese, ritornato negli ultimi due giorni a fare da megafono al M5S, porterebbe a casa grazie al contratto di consulenza stipulato nel 2022 con il capo politico Giuseppe Conte.
Una consulenza per svolgere attività di comunicazione, in bilico quest’anno per le casse vuote del M5S, rinnovata poi nel gennaio del 2023 per un altro anno. Il contratto prevede un compenso di circa 300mila euro l’anno. Suddiviso per 12 mesi, frutterebbe a Grillo 25mila ogni 30 giorni.
Una montagna di soldi che fa a pugni con le crociate portate avanti da Grillo. A cominciare da quella di questi giorni contro il governo Meloni dopo la rimodulazione del reddito di cittadinanza. Anche ieri, il fondatore del M5S ha lanciato la sua invettiva, puntando sulla questione dei salari in Italia.
Grillo ha pubblicato in un tweet con la lista degli stipendi medi netti in diversi Stati del mondo. L’Italia, con i suoi 1.724 dollari, è al 31esimo posto [...]. L’immagine è accompagnata da un «No comment».
Certo che lui, problemi di salario minimo, non ne ha. Domenica il garante del M5S aveva condiviso sui suoi social un articolo del suo blog sul tema del salario minimo. [...] Due uscite in 24 ore. Grillo si guadagna il pane. [...] Il via libera alla consulenza è arrivato dopo un lungo braccio di ferro.
Grillo è chiamato a svolgere «attività di supporto nella comunicazione con l’ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della Scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche». In cambio il Movimento versa nelle casse della società del comico una somma pari a 300mila euro l’anno.
Con il conto corrente rimpinguato ogni mese con 25mila euro, il comico ha tutto il tempo per dedicarsi alla povertà (degli altri). E nel frattempo, tra un post e l’altro, Grillo ha ripreso anche la tournée con lo spettacolo L’Altrove. Prossima tappa in Calabria, aspettando il bonifico di Conte.
[...] Per fine agosto sarebbe in programma una grande manifestazione contro l’esecutivo. Il sogno è riproporre una mobilitazione stile vaffa-day. E magari con un Grillo in piazza. C’è solo un nodo da sciogliere: il cachet sarà extra o rientra nei 300mila euro?
"La povertà non va in vacanza". Quei comizi ipocriti della sinistra chic. Grillo intasca una consulenza da 300mila euro l'anno dal suo partito. Fratoianni si gode la doppia indennità in famiglia, come Franceschini. Pasquale Napolitano il 4 Agosto 2023 su Il Giornale.
«La povertà non va in vacanza», attacca un'agguerrita Elly Schlein. Intestandosi la battaglia contro il governo Meloni sul salario minimo e reddito di cittadinanza. Come darle torto. I poveri il mare lo vedranno solo in cartolina. Al contrario, i «paladini» degli ultimi il relax se lo concederanno eccome. Grazie a vitalizi, consulenze d'oro e doppio stipendio in famiglia da parlamentare. Chi da Capalbio. Chi opterà per il fresco di Cortina. E chi nella residenza estiva di Marina di Bibbiona (dove nacque il governo Pd-M5s). Tutti, archiviate le fatiche politiche, scapperanno in terre e ville isolate. Attenzione: la battaglia contro la povertà non si ferma. Una premessa: guadagnare bene non è una colpa. Appare però singolare che a condurre la crociata in Parlamento in difesa delle famiglie disagiate siano proprio coloro che hanno trasformato le istituzioni in un centro per l'impiego familiare.
Il colmo ieri in Aula: Aboubakar Soumahoro, il pupillo di Angelo Bonelli, che non si era mai accorto degli affari sui migranti fatti da moglie e suocera, si è scagliato contro la maggioranza di centrodestra dopo il rinvio della discussione sul salario minimo. È evidente come la «guerra» di Conte, Schlein, Fratoianni e Bonelli su reddito di cittadinanza e salario minino sia tutta ideologica e demagogica. L'obiettivo è la difesa di un totem. Nulla più. Piero Fassino si alza a Montecitorio e sventola il cedolino: 4700 euro (stipendio da parlamentare) sono pochi. Omette però di dire che al suo stipendio va aggiunto il vitalizio della moglie: Anna Serafini, parlamentare per ben 20 anni. Dal 1987 al 2007. Prima della riforma la moglie di Fassino percepiva un assegno di 6411 euro. Con il taglio dei vitalizi avrà subìto un leggero ritocco. Al Nazareno la moglie di Fassino la ricordano bene per il famoso «lodo Serafini»: una deroga al limite delle due legislature per consentirle la terza (quarta e quinta) candidatura. Almeno Massimo D'Alema, beccato con barca e casa popolare, ebbe la decenza di vendere il suo veliero Ikarus e lasciare l'appartamento di un ente previdenziali. Comunisti d'altri tempi.
E che dire di Giuseppe Conte, il «fortissimo punto di riferimento della sinistra moderna». Urla contro condoni e rottamazioni. E poi non si accorge (al pari di Saumahoro) che compagna e suocero hanno inseguito freneticamente gli sconti fiscali grazie alla pace fiscale e alle rottamazioni cavalcate da Salvini. E l'avvocato non si sarà accorto nemmeno che di poveri non c'era traccia a Cortina, località scelta per rigenerarsi nelle pause natalizie. Nel Movimento, Conte è in buona compagnia: il suo mentore, Beppe Grillo, è infuriato per l'abolizione del reddito di cittadinanza. Una furia che gli frutta 25mila euro al mese: 300mila in un anno. È la «consulenza francescana» che Grillo si pappa per scrivere due post sulla povertà.
Il mito di tutti i poveri d'Italia è Nicola Fratoianni: un comunista vero. Di quelli duri e puri, che alla prima occasione si è portato (con lui) in Parlamento la moglie Elisabetta Piccolotti. Doppia entrata. Doppio stipendio da parlamentare. Povertà (in famiglia) azzerata. Ditelo a Fassino come si fa per arrivare a fine mese. Fratoianni non è il solo. Dario Franceschini, mente dell'ascesa di Schlein al timone del Pd, è stato più scaltro. Lui se ne è andato al Senato. La moglie, Michela Di Biase, l'ha piazzata alla Camera. Furbata. Doppio stipendio e casa in Sardegna garantita. I poveri possono dormire sonni tranquilli. Con questi «paladini» resteranno in povertà tutta la vita.
Ieri contro, oggi a favore. Le giravolte sul reddito di cittadinanza del Pd: da ‘sciocchezza’ e ‘pagliacciata’ ad ‘accanimento contro la povera gente’. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Agosto 2023
Sul reddito garantito la storia riserva sorprese, a guardarci dentro. La Cgil era scettica. “Lavoro per tutti, non carità pelose”, dicevano i duri e puri del sindacato. E la contrarietà del Pci pesò fino a bandirla dai programmi sul welfare del Pds, Ds e Pd. Almeno fino al 2017, quando fu nelle more del governo di Paolo Gentiloni, sospinto dal Pd guidato da Matteo Renzi, a lavorare su una misura inclusiva di contrasto della povertà.
Anche lì, “la Cgil minacciò di incatenarsi se soltanto ci avessimo pensato e il M5S non era arrivato alla lettera S nella lettura del dizionario”, ricorda con ironia il senatore di Iv, Davide Faraone. Fu con Renzi e Gentiloni che alle misure sperimentali SIA (Sostegno per l’Inclusione Attiva) – che nel 2015 raggiunse i 7 miliardi di spesa – e all’Assegno di disoccupazione (ASDI) venne fatta seguire una unica misura, il REI, che lo sostituisce dal gennaio 2018. La legge delega voluta allora dal Pd per il contrasto alla povertà seguiva il Dl 15 settembre 2017, n.147. In quel momento c’era Matteo Renzi, a guidare il Nazareno.
Il ministro del Lavoro e delle politiche sociali era Giuliano Poletti. E il Pd non era ancora diventato l’alter ego del Movimento Cinque Stelle. L’attenzione alle politiche di inclusione era alta, ma non demagogica. Nel 2019 il Pd si schiera contro il Rdc, criticandolo in più occasioni. La proposta del Pd era quella di potenziare il reddito di inclusione e di non mischiare la lotta contro la povertà con le politiche attive per il lavoro. La deputata Dem Roberta Nardi nel 2018 depositerà il testo di una proposta di legge per istituire il Lavoro minimo garantito. Altroché reddito. Altroché divano. E non era, questa, la posizione dei soli riformisti del Pd.
Si veda, nel novembre 2018, l’intervista con Il Sole 24 Ore Francesco Boccia – all’epoca deputato del PD, oggi capogruppo al Senato del partito – aveva definito il reddito di cittadinanza una “sciocchezza”. “La priorità è creare lavoro e accompagnare chi lo ha perso verso un nuovo impiego. La risposta alla povertà è il reddito di inclusione, che va rafforzato”, aveva dichiarato Boccia.
Antonio Misiani, oggi responsabile economico della segreteria Dem, era impietoso: «Il reddito di cittadinanza penalizza le famiglie con disabili e anche quelle numerose, dove è maggiore il tasso di povertà». Anche l’ex segretario del PD Zingaretti è stato tra i critici del reddito di cittadinanza.
A novembre 2018, ospite a Omnibus su La7, Zingaretti – che alcuni mesi dopo sarebbe salito alla guida del partito – aveva dichiarato: “Invece di questa pagliacciata sul reddito di cittadinanza, che nessuno sa cos’è, mettiamo i soldi sul reddito di inclusione, che amplia la base e fra qualche mese porterebbe gli assegni nelle case degli italiani”.
Quando il Reddito di cittadinanza arrivò in Parlamento, il Pd votò contro.
Nel corso della discussione, il perché della netta ostilità Dem sul Rdc lo aveva ben spiegato il senatore dem Edoardo Patriarca: “Nel provvedimento al nostro esame il bene che proponete è confuso e intriso di una burocrazia asfissiante. Vi è una sequenza di procedure e di tempistiche irrealizzabili. E a pagare saranno i poveri”. “Non è un diritto per tutti – scandiva Patriarca – e state creando un’aspettativa che produrrà ancora più delusione ed incertezza: le persone e le famiglie fragili tanto evocate nei vostri interventi non meritano illusioni e false speranze. Proprio non le meritano e non se lo possono neppure permettere”.
Allora era il Pd, ancora nei suoi panni e senza la crisi di identità che lo travolgerà ai giorni nostri, a dire che “povertà sociale e povertà di reddito vanno distinte: la povertà di reddito si combatte con l’occupazione, producendo lavoro, mentre la povertà sociale si combatte con la presa in carico. Sono due percorsi diversi”, sentenziava Patriarca, con il collega Tommaso Nannicini (un altro dei ‘padri’ del Rei) a dirla apertamente: “Continuate a confondere contrasto alla povertà e tutela della disoccupazione. Può accadere che un povero non sia occupabile e può accadere che un disoccupato non sia povero. Entrambi hanno bisogno di una garanzia del reddito e di servizi, ma diversi”.
“Lo stesso Maurizio Martina, che era diventato Reggente del Pd, ribadirà la sua contrarietà: “La strada giusta è il rafforzamento del Rei”.
Passano gli anni. E arrivano le conversioni, le inversioni a U. Prima che il Pd perdesse completamente la bussola, consegnandosi con le mani alzate a Grillo e a Conte.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Estratto dell’articolo di Francesco Specchia per “Libero quotidiano” l'1 agosto 2023.
[…] la coerenza […] degli indomiti dirigenti del Pd sul reddito di cittadinanza. Controordine.
È bastato che la segretaria del Pd Elly Schlein a In Onda su La7, dichiarasse che l'sms inviato dall'Inps per comunicare la sospensione del reddito di cittadinanza fosse a un «livello di cinismo che ricorda i licenziamenti collettivi fatti via sms dalle aziende, ma stavolta è lo Stato che lascia senza prospettiva le famiglie»; che i suoi uomini si schierassero in falange, e cavalcassero la stessa protesta del Movimento 5 Stelle. […] Eppure, se Giuseppe Conte ei suoi – i veri creatori del reddito - levano legittimamente gli strali verso il governo, dal Pd e dai sindacati il «contrordine, compagni» suona talmente paradossale da assumere quasi fascino letterario. Quasi.
Prendete, per esempio, Nicola Zingaretti. In piena campagna elettorale per diventare il nuovo leader del Nazareno dichiarava nel febbraio 2019: «Bisogna investire per creare lavoro vero, altrimenti il reddito di cittadinanza diventa reddito di sudditanza». Questo perché «fare il reddito di cittadinanza senza investire sul lavoro è una vergogna che pagheremo tutti».
Di più. Un anno prima, all'Omnibus di Gaia Tortora lo Zinga aveva inveito contro il governo Conte: «Invece di mettere soldi su questa pagliacciata del reddito di cittadinanza che nessuno sa cos'è, mettiamola sul Rei, sul reddito di inclusione». Dopodiché, con straordinario tuffo carpiato, l'ex segretario Pd, il 27 maggio del 2022 si rimangiava tutto: «Eliminare il reddito di cittadinanza? Questo accanimento contro la povera gente non mi sorprende ma mi colpisce”.
Cioè: per Zinga il Rdc ieri era pagliacciata, oggiè dovere morale. Tra l'altro, il Rei è una delle fonti d'ispirazione della nuova misura rimodulata dal governo Meloni ma transeat. Anche Francesco Boccia, Mazzarino di Schlein, […] spiegava nel novembre 2018 al Sole 24Ore come quel fosse reddito «una grande sciocchezza: aumentare solo il lavoro nero. In Campania ho incontrato cittadini che stanno per divorziare al fine di avere diritto all'assegno. Il tema vero è come creare nuovo lavoro e come aiutare chi lo ha perso a ritrovarlo».
[…] Antonio Misiani, oggi responsabile economico della segreteria Dem «Il reddito di cittadinanza penalizza le famiglie con disabili e anche quelle numerose, dove è maggiore il tasso di povertà». […] Ora, invece, il taglio a quello stesso reddito calpesta la dignità dei 169mila percettori che ne rimarranno privi.
Per non dire dell'ondivaga fermezza dei sindacati. Il 9 febbraio 2019 scendevano in piazza a Roma, per contestare le politiche economiche del governo Conte 1. Il segretario Cgil aveva il solito scatto populista: «Il reddito di cittadinanza è un ibrido che mescola la lotta alla povertà con le politiche per il lavoro. Il rischio è che non affrontino bene né l'una né l'altra, perché la povertà si combatte dando lavoro». Insomma: «Il lavoro lo crei facendo gli investimenti pubblici e questo governo (del M5S, ndr) li ha tagliati. Stanno sbagliando e, così facendo, vanno a sbattere». Landini era anche quello che, inoltrandosi nella specifica funzione dei navigatori, la sbertucciava, «un capolavoro di intelligenza». […]
Idem, per la segretaria che alla Cgil l'aveva preceduto, Susanna Camusso. La quale Camusso […] nel 2018 sostiene a Fanpage: «No al reddito di cittadinanza! Quelle risorse venivano usate per trovare lavoro»; per ritrattare nel 2022: «La modifica al reddito di cittadinanza è punitiva per la povertà». In realtà, l'avversione di Pd e sindacati annessi verso la misura dei 5 Stelle aveva una sua ratio. L'Espresso del 30 ottobre 2018 sotto la gestione del Gruppo Repubblica aveva un sondaggio tombale: «Per gli elettori del Pd il reddito di cittadinanza è peggio del condono fiscale». […]
Estratto dell’articolo di Luca Monticelli per “la Stampa” domenica 30 luglio 2023.
Dopo il messaggio sul cellulare che ha scatenato le polemiche, Fratelli d'Italia apre un nuovo fronte evocando la costituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui «mancati controlli» dell'ex presidente dell'Inps Pasquale Tridico, una ipotesi che scatena la rabbia dell'opposizione. «Non riusciranno a intimidirci con il loro tentativo di bullismo istituzionale» attacca il leader del M5s Giuseppe Conte.
Mentre la polemica infuria, l'Istituto di previdenza prova a rassicurare le persone che ad agosto non riceveranno più il reddito di cittadinanza. «Non abbandoniamo nessuno», spiega l'Inps che annuncia un piano per gestire in sinergia con i centri per l'impiego e i servizi sociali i nuovi strumenti: l'Assegno di inclusione e il Supporto per la formazione. Il primo sarà un sostegno simile al reddito ma rivolto solo ai nuclei con figli minori, disabili o ultrasessantenni ed entrerà in vigore a gennaio del 2024. Il secondo garantirà agli occupabili un sostegno di 350 euro per un anno.
Oltre alle 169 mila famiglie già informate con un sms, da qui alla fine dell'anno arriveranno dall'Inps altri 80 mila avvisi. Le stime del governo ipotizzano che alla fine saranno 213 mila i nuclei che perderanno il vecchio reddito di cittadinanza e non saranno presi in carico dai servizi sociali, dovendo ripiegare a settembre sul sussidio da 350 euro al mese. L'Inps, invece, ha dei numeri diversi e su 250 mila sospensioni conta di recuperarne la metà grazie ai servizi sociali, che però scontano un deficit di personale. La Cgil, infatti, lancia l'allarme «bomba sociale al Sud».
Come stabilito dalla legge di bilancio varata a dicembre dal governo Meloni, i nuclei familiari senza figli minori, disabili o over 60, scaduti i primi sette mesi del 2023, non percepiranno più il reddito di cittadinanza, il cui assegno poteva arrivare al massimo a 780 euro al mese, ma che mediamente si aggirava sui 571 euro. Le 169 mila famiglie che hanno già ricevuto l'sms o l'email che ricorda loro la fine del sussidio a partire da agosto, sperano di essere prese in carico dai servizi sociali.
La metà di queste persone, sostiene l'Inps, sono in una situazione di disagio sociale (tossicodipendenti o con problemi abitativi) e potranno essere inserite in un progetto di recupero, perciò manterranno il sussidio. Gli altri, i cosiddetti occupabili, dovranno andare nei centri per l'impiego e firmare il Patto di servizio personalizzato per essere avviati al lavoro. […] Entro dicembre, però, l'Inps spedirà altre 80 mila comunicazioni […]
Le politiche attive sono la grande falla del reddito di cittadinanza, tuttavia anche l'esecutivo di centrodestra non sembra avere un disegno chiaro di come far funzionare la macchina per consentire agli occupabili di trovare un impiego. […]
[…] Fratelli d'Italia replica mettendo sul tavolo l'istituzione di un'altra commissione d'inchiesta (pochi giorni dopo il monito del presidente Sergio Mattarella, secondo cui delle commissioni d'inchiesta si sta abusando). «Il reddito di cittadinanza si è rivelato una misura assistenzialista, nata con uno scopo demagogico, scritta male, attuata peggio, il che ha comportato enormi danni all'erario», spiega il capogruppo alla Camera Tommaso Foti che aggiunge: «Riteniamo necessaria la costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta, limitando la responsabilità a Tridico per non avere consapevolmente attivato i controlli per non far perdere consenso elettorale e personale ai suoi mandanti».
Reddito di cittadinanza, i numeri. Chi lo ha preso, quanto è costato, quanti hanno truffato lo Stato. Barbara Massaro su Panorama il 31 Luglio 2023
Introdotto nel 2019 come azione simbolo del governo a guida Movimento 5 Stelle il sussidio di Stato ha interessato milioni e milioni di cittadini ed è costato decine di miliardi. Truffe comprese
Il Reddito di Cittadinanza fa discutere ed ha fatto discutere fin dalla sua introduzione. Era il 2019; il Governo gialloverde lo approva nel 2019. era uno dei simboli del Movimento 5 Stelle. Una misura che ha interessato milioni di famiglie, milioni e milioni di cittadini con un costo di diversi miliardi anni dopo anno. ed oggi, nel momento in cui il Governo Meloni ha stabilito la prima stretta per gli "occupabili" aumentano le proteste. I Numeri dei redditi concessi 2019: I nuclei beneficiari di almeno una mensilità di RdC/PdC (pensione di Cittadinanza) sono stati 1,1 milioni, per un totale di 2,7 milioni di persone coinvolte. 2020: i nuclei sono stati 1,6milioni, per un totale di 3,7 milioni di persone coinvolte. 2021: i nuclei beneficiari di almeno una mensilità sono risultati quasi 1,8 milioni per un totale di poco meno di 4 milioni di persone coinvolte 2022: si è registrata una flessione: 1,7 milioni di nuclei interessati per un totale di 3,7 milioni di persone 2023: la stretta del governo Meloni amplifica il calo: da gennaio a giugno 2023 c’è stata la presenza di 1,3 milioni di nuclei e 2,8 milioni di persone. La stragrande maggioranza delle persone che ha ottenuto il RdC risiede al sud. Prima tra tutte la provincia di Napoli
Dal 2019 ad oggi il reddito di cittadinanza è costato allo stato quasi 30 miliardi di euro. Nel 2019 la spesa è stata di 3,8 mld. Nel 2020 la spesa è stata di 7,2 mld Nel 2021 la spesa è stata di 9 mld Nel 2022 la spesa è stata di 8 mld Nel 2023 (gennaio-giugno) la spesa è stata di 4,3 mld L’importo medio mensile erogato è crescente nel tempo; complessivamente è aumentato del 12%, passando da 492 euro nell’anno 2019 a 551 euro nel 2022, e 566 attualmente. Il differenziale assoluto tra Sud/Isole da un lato e Nord dall’altro è stabilmente superiore a 100 euro al mese, mentre quello tra RdC e PdC oscilla attorno ai 300 euro al mese. La spesa media mensile è di circa 587 milioni. Le truffe I controlli della Guardia di Finanza sono cominciati immediatamente ed hanno avuto risultati sorprendenti e danni alle casse dello stato da centinaia e centinaia di milioni di euro
I DATI. Puglia, fiato sospeso per l’esercito di beneficiari del reddito di cittadinanza. Sono circa 136.000 i nuclei familiari beneficiari, circa 320.000 per l’esattezza le persone coinvolte, con un importo medio mensile inferiore ai 600 euro. REDAZIONE PRIMO PIANO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Luglio 2023
La Puglia è tra le regioni dove il reddito di cittadinanza è particolarmente diffuso: sono circa 136.000 i nuclei familiari beneficiari, circa 320.000 per l’esattezza le persone coinvolte, con un importo medio mensile inferiore ai 600 euro. Molti di loro, circa la metà, non hanno mai avuto contatti con i Centri per l’impiego dove un navigator avrebbe dovuto tentare di connetterli al mondo del lavoro. Ma tanti altri, quelli non «occupabili» grazie al Rdc hanno avuto la possibilità di una esistenza più dignitosa. Ecco perché la Cgil ha parlato di «bomba sociale» che potrebbe esplodere dopo la cancellazione definitiva dell’assegno voluto e introdotto dai 5 Stelle.
Preoccupata la segretaria generale Cgil Puglia Gigia Bucci che ha confermato il gran numero di telefonate giunte nelle sedi del sindacato da parte di persone che hanno ricevuto l’sms con l’annuncio della sospensione dell’assegno. «Saremo invasi da richieste di aiuto» ha detto Bucci. Sarà così per tutte le organizzazioni sindacali.
Più modesti i numeri per quanto riguarda la Basilicata. Qui nel 2022 sono stati oltre 26.000 i beneficiari, per un numero complessivo di 13.600 famiglie. La media dell’importo mensile calcolato dall’Inps è di 500 euro. Tra i lucani che beneficiano del Rdc oltre 8.000 sono stati indirizzati ai servizi per il lavoro, come ha evidenziato l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. La quasi totalità dei beneficiari ha sottoscritto un patto per il lavoro. Di questi, la metà presenta un alto rischio di disoccupazione di lunga durata.
Anche in Basilicata la Cgil è mobilitata: «È indispensabile la programmazione di un incontro urgente con il Prefetto, l’Anci, l’assessore alle attività produttive e i vertici dell’Arlab - scrivono Vincenzo Esposito, segretario generale Cgil Potenza, e Giuliana Pia Scarano, segretaria generale Fp Cgil Potenza - al fine di mettere in asse le azioni volte ad affrontare la grave emergenza che ci aspetta ed evitare che gli operatori di Cpi e Assistenti sociali, in quanto punti di prossimità con l’utenza, restino soli ad affrontare questa gravissima situazione sociale».
La timida difesa di Tridico sul reddito grillino: "Non pagati 11 miliardi di euro". Francesca Galici il 30 Luglio 2023 su Il Giornale.
Mentre FdI ipotizza l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sul lavoro di Tridico per il Rdc, lui si difende e critica la nuova misura
Fratelli d'Italia, per tramite di Tommaso Foti, ha avanzato la possibilità di costituire una commissione parlamentare di inchiesta per esaminare gli errori commessi nel sistema del Reddito di cittadinanza, con particolare riferimento a Pasquale Tridico, ai tempi presidente dell'Inps. "Il gruppo parlamentare di Fratelli d'Italia ritiene sempre più necessaria la costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta, limitando la responsabilità a Tridico per non avere consapevolmente attivato i controlli, al fine di non far perdere consenso elettorale e personale ai suoi mandanti", ha detto Tommaso Foti.
L'ex direttore ha trovato spazio su La Stampa per articolare la sua difesa, che appare debole e poco credibile per le argomentazioni che vengono portate da Tridico: "C’è stata una narrazione volutamente fuorviante. Sotto la mia gestione ho creato una direzione antifrode che non è mai esistita prima". Ma Fratelli d'Italia non sindaca su questo aspetto ma sui numeri delle truffe che sono state compiute nel corso degli anni e che hanno causato un enorme danno all'erario dello Stato. Ma l'ex direttore dell'ente previdenziale continua a sostenere che il Reddito di cittadinanza "è stata la misura più controllata di sempre. I controlli preventivi e successivi hanno evitato mancati esborsi del reddito a circa tre milioni di domande tra il 2019 al 2022, per un valore di 11 miliardi di euro non pagati".
Ma per tre milioni di domande non meritevoli che sono state intercettate, quante sono state quelle che sono passate? Nelle parole di Tridico esiste una omissione che è quasi un'ammissione su un meccanismo che ha mostrato diversi punti di debolezza, che sono stati utilizzati dai truffatori, che ben ne conoscevano le criticità per usarle a proprio favore. Di punti deboli il Rdc ne aveva tanti sui quali non si è intervenuto in corso d'opera per porre rimedio. E ora che il governo guidato da Meloni è intenzionato a offrire un'alternativa diversa, che non prevede aiuti a pioggia e incondizionati ma solo agli inoccupabili. Un sistema che a Tridico non piace: "L’unico strumento contro la diseguaglianza e di contrasto alla povertà viene abolito e queste persone resteranno senza un sostegno, in un periodo segnato da un’inflazione molto alta. La gran parte di questi duecentomila cittadini è poco scolarizzata".
Lavoro e sussidiarietà. Tutte le truffe del reddito di cittadinanza grillino: dovevano abolire povertà, hanno abolito onestà. Benedetta Frucci su Il Riformista il 7 Maggio 2023
Era il 27 settembre 2018 quando un esultante Luigi Di Maio si affacciava dal balcone di Palazzo Chigi annunciando agli italiani che la povertà era stata abolita. 5 anni dopo quell’annuncio più adatto al Venezuela di Maduro che a una democrazia occidentale, l’unica cosa che il Movimento Cinque Stelle sembra aver abolito è stata l’onestà.
Scopriremo infatti forse solo fra qualche anno quanto davvero è costato agli italiani il reddito di cittadinanza. Eh già, perché ai dati ufficiali relativi alla spesa pubblica destinata alla misura, vanno sommate le truffe emerse e quelle che- potenzialmente- non sono mai state scoperte, nonché i 270 milioni di euro spesi, nel complesso, non solo per retribuire ma anche per formare i mitologici navigator. Ma andiamo con ordine.
Per iniziare, in passivo vanno messi 8 miliardi per il 2022 e circa 20 miliardi nei tre anni precedenti. Poi, si entra in un buco nero, quello degli sprechi e delle truffe, fatto di pochi dati parziali e di tanti casi di cronaca che raccontano di furbetti che si sono avvantaggiati del sussidio, ai danni dei più bisognosi e dei contribuenti che, con il loro lavoro e i loro sacrifici, si sono trovati anche a riempire le tasche di criminali.
Per esempio, considerando la fascia temporale che va dal 1° gennaio 2021 al 31 maggio 2022 la Guardia di Finanza ha scoperto truffe per 288 milioni di euro, di cui 171 milioni effettivamente incassati e 117 milioni richiesti e non riscossi. Le storie di truffe affollano le cronache locali e nazionali. Si va dalle più sostanziose, come quelle emerse grazie al lavoro dei Carabinieri a Napoli per un periodo di 553 giorni che va da giugno 2021 all’ottobre del 2022, per un totale di 15 milioni di euro, 26.488,69 euro ogni giorno, 1.103,69 euro ogni ora. La truffa ha coinvolto 662 persone, fra le quali numerose con precedenti penali perfino per mafia e usura.
O come quelle scoperte di recente a Reggio Calabria, che sono costata ai contribuenti in totale 1 milione e 300000 euro e hanno visto coinvolte 120 persone. Pochi giorni fa, a Bari, un uomo, titolare di una tabaccheria, attraverso finti acquisiti, avrebbe invece riciclato 465.000 euro consentendo così di liquidare il reddito di cittadinanza a oltre 300 cittadini romeni.
La truffa è stata scoperta nell’ambito di un’indagine per falsa residenza degli stranieri. Un caso simile a quello accaduto a Bologna, dove fu scoperta, grazie al senso civico di una dipendente delle Poste, una truffa da 48000 euro che coinvolgeva cittadini stranieri che fingevano di risiedere in Italia ai fini di percepire il famigerato reddito. Ma anche a Roma, con truffe per oltre 200mila euro. Sempre nella capitale, un impiegato in un CAF della periferia est della città è stato trovato in possesso di moduli per l’autocertificazione del reddito dal contenuto totalmente falso. Avrebbe permesso, con questo sistema, a un centinaio di persone di incassare il sussidio senza averne diritto.
A Treviso, una donna riceveva il reddito di cittadinanza mentre si trovava ospite del carcere friulano: poca cosa la somma incassata, 3500 euro, ma significativo l’episodio che dimostra come siano lacunosi e difficili i controlli. Ci sono poi i casi, ancora più odiosi, che coinvolgono Mafia, Camorra e criminalità organizzata. Restando a Roma, è stato scoperto che 61 persone avevano truffato allo Stato mezzo milione di euro. Tra questi, esponenti dei clan Spada e Casamonica. A Cefalù, fra i 117 truffatori scoperto dai Carabinieri, alcuni avevano precedenti per Mafia. Lo stesso è accaduto in Puglia, Calabria, Campania. Il boss Gaetano Scotto, arrestato per Mafia, durante il processo ha dichiarato al GIP di percepire il sussidio perché nullatenente.
Alcuni episodi di truffe, riguardano poi persone salite all’onore delle cronache per omicidi feroci. Pietro Maso, che uccise brutalmente i propri genitori, per un periodo ha incassato il sussidio grillino, ma anche i Fratelli Bianchi, autori dell’omicidio del povero William, a Pomezia, che sconvolse l’Italia. E poi, storie che farebbero sorridere se non si trattasse di sperpero di denaro pubblico, come quella di una signora che viveva ai Caraibi e tornava in Italia solo per incassare il denaro del reddito.
O il caso di Perugia, dove un uomo si fingeva indigente ma aveva un parco macchine da fare invidia a un collezionista: Ferrari, Bentley, Lamborghini, Rolls-Royce. E ancora, solo pochi giorni fa una signora è stata pizzicata con un conto segreto aperto su un sito online di scommesse, contenente 25000 euro. Peccato che fingesse di essere nullatenente. Per poter elencare tutte le truffe legate al reddito di cittadinanza servirebbero cen tinaia di pagine. Eppure, anche da questo breve e non esaustivo elenco si capisce come sia una misura totalmente fallimentare: non ha abolito la povertà come di Maio sosteneva ma ha in compenso aumentato gli sprechi di risorse.
Il problema non risiede di per sé nell’idea di un sussidio che vada ad aiutare chi è oggettivamente inabile al lavoro e si trova in condizioni di indigenza. Combattere la povertà dovrebbe essere una priorità per l’azione di qualunque Governo. Il problema è come la si combatte. Se con i sussidi o con la creazione di posti di lavoro e con l’istruzione. La prima scelta è espressione di uno statalismo totalizzante. Quando Giuseppe Conte, parlando del Superbonus, utilizza l’avverbio “gratuitamente” in realtà sta esponendo un concetto molto chiaro e brutale: rinnega cioè la provenienza del denaro pubblico, che è frutto, per molta parte, delle tasse dei cittadini.
Per cui, si capisce bene come nel creare il meccanismo del reddito di cittadinanza, nessuno fra le fila del Movimento. Cinque stelle si sia preoccupato del fatto che quei denari potessero essere sprecati. In secondo luogo, quello stesso statalismo presuppone che non si debba incoraggiare e sostenere l’individuo nell’emancipazione dallo Stato ma lo si voglia legare indissolubilmente ad esso. La seconda strada che invece lo Stato può scegliere per combattere la povertà, è tipica di chi ha una visione liberale dell’azione pubblica. Punta sul lavoro e sulla scuola e quindi sulla decontribuzione per combattere gli stipendi da fame, sull’attrazione di investimenti e la costruzione di infrastrutture, per creare nuovi posti di lavoro. Chi invece ha una visione da Stato etico, vede nel sussidio la soluzione di tutti i mali.
Nel caso del Movimento Cinque Stelle, il reddito di cittadinanza è stato poi anche un potente mezzo di propaganda elettorale. Durante la campagna elettorale delle ultime politiche, Conte è stato definito il papà del reddito. Ha aizzato le folle contro la sua abolizione. Incassando poi, in termini elettorali, maggiormente laddove c’era un maggior numero di percettori del reddito.
La riforma Meloni, toglie ora, si spera, molti dei problemi che ha generato il sussidio grillino. Al contempo, è necessaria però un’azione potente del Governo nel campo della crescita e una valorizzazione maggiore del Terzo Settore nel sostegno a chi non ce la fa. Due le parole d’ordine: lavoro e sussidiarietà.
Benedetta Frucci
Estratto dell’articolo di Enrico Marro per corriere.it il 16 aprile 2023.
Il testo del decreto legge per la riforma del Reddito di cittadinanza è sostanzialmente chiuso e il provvedimento verrà approvato dal governo in uno dei prossimi consigli dei ministri. […]
Ci sono state delle modifiche ma senza cambiare l’impianto: due misure, una per le famiglie povere, che sostanzialmente conferma il reddito introdotto nel 2019 dal governo Conte 1, e una per i cosiddetti occupabili, ovvero persone single o coppie di adulti abili al lavoro, che prenderanno un assegno ridotto e per non più di 12 mesi: uno strumento pensato più come un ammortizzatore sociale che un’indennità assistenziale.
Garanzia per l’inclusione per le famiglie povere
Il nuovo reddito non si chiamerà più Mia (misura per l’inclusione attiva) come era previsto nella prima bozza ma Gil, Garanzia di inclusione. Potranno chiederlo i nuclei familiari in povertà assoluta al cui interno vi sia almeno un minore o un anziano con almeno 60 anni o un disabile.
Garanzia per l’attivazione lavorativa per gli occupabili
La misura per gli occupabili si chiamerà Gal, Garanzia per l’attivazione lavorativa. Potrà essere richiesta da single o coppie di adulti abili al lavoro, che quindi non fanno parte di famiglie con minori, anziani e disabili che fanno scattare il diritto a chiedere la Gil.
Entrambe le nuove prestazioni scatteranno dal primo gennaio 2024. Per gli abili al lavoro, che da agosto di quest’anno, secondo quanto stabilisce la legge di Bilancio, non riceveranno più il vecchio Reddito di cittadinanza, scatterà una prestazione transitoria per coprire gli ultimi mesi del 2023, si chiamerà Pal, prestazione di accompagnamento al lavoro.
La Garanzia per l’attivazione lavorativa sarà di 350 euro
Come hanno anticipato in questi giorni il Messaggero e il Sole 24 Ore, la nuova indennità per gli occupabili sarà di 350 euro; quindi, non solo più bassa dei 780 euro che in teoria un single può prendere con il Reddito, ma anche rispetto ai 375 euro ipotizzati nella prima bozza. Non solo. Nel caso in cui la famiglia sia composta di due adulti occupabili, il secondo percettore prenderà la metà: 175 euro, per un totale nella coppia di 525 euro.
La Garanzia per l’inclusione sarà di 500 euro (più 280 per l’affitto)
Per le famiglie che invece potranno chiedere l’assegno sostitutivo del Reddito, quelle cioè al cui interno c’è un disabile, un minore o un anziano con almeno 60 anni, l’importo base sarà sempre di 500 euro al mese più l’eventuale parte destinata a coprire l’affitto, fino a 280 euro al mese, per un totale appunto di 780 euro, com’è stato finora, aumentati secondo una nuova scala di equivalenza che tiene conto della composizione familiare. La Gil verrà corrisposta, come l’attuale Reddito, per 18 mesi, rinnovabili dopo una sospensione di un mese, come l’attuale Reddito.
I nuovi limiti di Isee
Resta però, anche nella bozza attuale, la forte riduzione del requisito di Isee per chiedere l’assegno: dai 9.360 euro previsti per il Reddito si scende a 7.200 euro. Per gli occupabili l’Isee è ancora più basso e la Gal, scaduti i 12 mesi, non sarà rinnovabile.
[…] Risparmi per circa 3 miliardi
Con la riforma il governo mira a risparmiare almeno un miliardo il primo anno e due a regime, rispetto ai circa 8 miliardi annui spesi col Reddito (la spesa stimata scenderà a circa 5,3 miliardi). Si fa molto affidamento sulla progressiva riduzione delle domande (già cominciata con l’esaurirsi della pandemia e in seguito all’inasprirsi dei controlli) e sul fatto che per gli occupabili il sussidio di 350 euro potrà durare al massimo 12 mesi non rinnovabili. […]
Gli irriducibili del reddito di cittadinanza: ecco chi lo difende ancora. Lorenzo Grossi il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.
Nonostante il flop della misura voluta quattro anni fa dal Movimento 5 Stelle, c'è chi non demorde e attacca il governo Meloni per averla cancellata
I difensori irriducibili del reddito di cittadinanza non spariscono mai. L'ultimo, in ordine, di tempo è tal Emiliano Fossi, deputato del Partito Democratico e membro della commissione Lavoro della Camera. Il parlamentare dem ha sfruttato la recente notizia del crollo delle domande per il rdc registrato dall'Inps per attaccare il governo Meloni e difendere lo strumento voluto dal Movimento 5 Stelle: "La Destra è riuscita nell'intento di spaventare gli italiani", strepita Fossi. "Il reddito di cittadinanza si è rivelato estremamente utile per conseguire il miglioramento del welfare, per limitare gli effetti negativi della pandemia permettendo alle famiglie più fragili di sopportare il calo di reddito". Ma c'è da dire che il deputato del Pd si ritrova in "buona" compagnia della difesa strenua del reddito.
La strenua difesa da parte dei 5 Stelle
A inizio marzo, infatti, è trapelata l'introduzione di "Mia", la misura di inclusione attiva che metterà in soffitta il reddito di cittadinanza. Da quel momento in poi tante sono state le voci che si sono sollevate pur di non ammettere il fallimento della norma entrata in vigore nel 2019 per volere dei pentastellati. Del resto i dati parlano di un misero 8% di percettori del rdc che ha poi trovato lavoro. Senza contare i numerosi abusi e illegalità, agevolate dal provvedimento, che sono state portate alla luce in questi ultimi mesi. Eppure c'è chi non si arrende e, armato di elmo e scudo, insiste sul fatto di lasciare tutto com'è, ignorando il flop che il reddito si è rivelato. A partire dallo stesso M5s - ça va sans dire -, con Giuseppe Conte che parla di un taglio che "porterà al disastro sociale" e che potrebbe sfociare in vere e proprie "tensioni". A fagli eco c'è naturalmente Beppe Grillo, secondo cui "il governo usa i poveri per fare cassa". Posizioni simili sono state portate avanti anche da Alessandro Di Battista e dall'ex presidente della Camera Roberto Fico.
"Ha agevolato abusi e illegalità". I numeri che smontano il reddito grillino
Non solo Movimento 5 Stelle, però. Anche il Partito Democratico del nuovo corso Schlein si sta battendo a spron battuto in sostegno del reddito di cittadinanza. Oltre a Fossi, infatti, c'è anche l'ex viceministro dell'Economia Antonio Misiani ad alzare la voce: "L'unico dato certo è che il governo Meloni ha tagliato del 20% i fondi contro la povertà dal 2024. Senza soldi, è come fare le nozze coi fichi secchi", si dice certo il senatore dem. La Cgil ha espresso "preoccupazione e perplessità" anche per non essere "stati chiamati su una partita importante che richiederebbe un confronto approfondito" Secondo il sindacato guidato da Landini "la povertà è un fenomeno complesso, non basta la presa in carico dal punto di vista economico. C'è il disagio abitativo, la povertà educativa, ci vuole una presa in carico complessiva". Ma naturalmente, dalla Cigl, manca un contro-proposta concreta.
Il taglio del reddito di cittadinanza
Secondo il presidente dell'Inps, Pasquale Tridico, "è un errore toglierlo a chi non ha il lavoro": questo perché "l'Italia dovrà fare i conti con le direttive della Commissione Europea sul reddito minimo, consentire a coloro che pur non trovando il lavoro perdono il reddito". Infine, tra i critici contro la contro-misura del governo Meloni c'è anche Chiara Saraceno, che ha presieduto il comitato scientifico per la riforma del reddito di cittadinanza durante il governo Draghi. Secondo la sociologa "prevale l'intento punitivo verso i poveri e persistono elementi controversi o inspiegabili". Il taglio del 30% del sussidio ai percettori "occupabili" può essere spiegato da Saraceno solo in questo modo: "Affamare i poveri per spingerli a trovarsi un lavoro. Non voglio crederci". Insomma: la misura di inclusione attiva non è ancora di fatto entrata in vigore, ma le vedove nostalgiche del reddito di cittadinanza restando saldamente in campo, a proteggere una porta oramai rimasta mestamente sguarnita.
Estratto dell'articolo di Paolo Baroni per “La Stampa” l’8 marzo 2023.
Una bella fetta delle famiglie verrà esclusa dalla nuova Mia, la Misura di inclusione attiva che da settembre prenderà il posto del Reddito di cittadinanza, per effetto della drastica riduzione della soglia Isee richiesta per ottenere i sussidi: da 9.360 euro si dovrebbe infatti passare a quota 7.200, tagliando fuori diversi centinaia di migliaia di nuclei; in pratica secondo alcune stime si arriverebbe a 25% del totale, oltre 260 mila nuclei rispetto a 1,035 milioni di famiglie italiane che a gennaio hanno ricevuto l'assegno.
Il governo punta a risparmiare 3 miliardi sugli 8 previsti per il vecchio Rdc e per questo, oltre al taglio orizzontale dei beneficiari («fa cassa e colpisce i poveri» denunciano M5S e Pd), nel mirino sono finiti i soggetti occupabili, il cui assegno base viene tagliato del 25%, scendendo da 500 a 375 euro, e le famiglie con minori. Che rischiano a loro volta un pesante taglio a causa della modifica della scala di equivalenza.
[…] Di conseguenza una madre con due figli minori, che con l'Rdc avrebbe ricevuto 700 euro (500 moltiplicato per 1,4, assegnando un coefficente pari a 1 al primo componente e 0,2 ai figli), con la Mia scenderà a 600 euro (500 euro per la madre e 50 per ogni figlio).
Madre, padre e due figli maggiorenni che con l'Rdc arrivano a 1.050 euro al mese (posto che la scala equivalente ha un tetto massimo di 2,1) calerebbero invece a quota 787,5 euro (375 euro x 2,1) per effetto del taglio del contributo destinato agli occupabili. Per effetto di questi stessi meccanismi una famiglia di 5 persone composta da madre, padre, due figli maggiorenni e uno minorenne, da 1.050 salirebbe invece a 1.100, perché il minore è fuori dalla scala di equivalenza e riceve comunque 50 euro. Se una coppia avesse invece solo due figli minorenni l'importo scenderebbe dai 900 attuali (500 euro per 1,8 ovvero 1 +0,4 +0,2 +0,2) agli 800 euro della Mia (ovvero 500 euro per 1,4 più 100 euro per i due figli).
In pratica con questa manovra il governo si muove nella direzione opposta rispetto a quella indicata dal Comitato scientifico guidato da Chiara Saraceno, che su incarico dell'allora ministro del Lavoro Andrea Orlando a fine 2021 aveva effettuato una valutazione dell'Rdc in vista di un possibile tagliando. Proprio la scala di equivalenza dell'Rdc era giudicata «molto penalizzante» per le famiglie che con questo meccanismo ricevono «un contributo economico non adeguato alle loro necessità», era scritto nel rapporto. [...]
Mia, il nuovo Reddito di Cittadinanza. Che doveva sparire ma resta. Cristina Colli su Panorama il 6 Marzo 2023
Ecco la proposta allo studio del ministero dell'economia con sussidi anche per le persone «occupabili»
Non dovevamo vederci più? E invece no, o meglio non del tutto. Il Reddito di cittadinanza cambia nome e diventa Mia (Misura di inclusione attiva) e ne beneficeranno (a differenza di quanto preannunciato negli ultimi mesi) anche i cosiddetti “occupabili” , cioè coloro che possono lavorare. A cambiare non è però solo il nome. Si preannuncia una stretta: durata tagliata, meccanismo a calare, trattamento diverso tra le due categorie di beneficiari, controlli per i furbetti e coinvolgimento delle agenzie per il lavoro privato. Il nuovo Reddito di cittadinanza sta per arrivare. Ministero del Lavoro e del Tesoro sono alla limatura delle cifre (obiettivo risparmiare 2-3 miliardi di euro, rispetto ai 7-8 spesi per il Reddito) e il decreto-legge dovrebbe arrivare in Consiglio dei Ministri fra quindici giorni. Da settembre 2023 sarà attivo. Partiamo dalla questione beneficiari. La Mia spetterà a due categorie: “non occupabili” (le famiglie povere dove ci sono figli minori, persone con disabilità o anziani over 60) e “occupabili” (cioè famiglie dove non ci sono queste situazioni e c’è almeno un membro tra i 18 e i 60 anni). Gli “occupabili” sono quei 400 mila nuclei per i quali la Legge di Bilancio aveva concesso per il 2023 gli ultimi sette mesi di Reddito di cittadinanza. La Mia con tagli (nell’importo) e limiti (nei tempi) rispetto al Reddito di cittadinanza ci sarà invece anche per loro. La stretta sul sussidio si preannuncia però per tutti. Per i “non occupabili” l’importo base (se si è single) dovrebbe essere di 500 euro al mese, mentre oggi si può arrivare a 780 euro (i 280 euro per l’affitto previsti dal Reddito di cittadinanza sono in forse). Durata? 18 mesi. Per gli “occupabili” si parla di un assegno base di 375 euro al mese. Durata? 12 mesi. Stretta (sempre in nome del risparmio) significa anche basta alla ripetizione senza limiti del sussidio, come avveniva per il Reddito di cittadinanza, ma si dovrebbe applicare l’idea del décalage. I “non occupabili” finiti i primi 18 mesi potranno (con uno stop di un mese) richiedere un’altra Mia che però, dalla seconda volta in poi, durerà 12 mesi. Più dure le regole per gli “occupabili”. Per loro la seconda Mia durerà 6 mesi e la terza si potrà richiesta solo dopo un anno e mezzo. Quindi si dà il sostegno agli “occupabili” , ma incentivando e legando fortemente la richiesta di sussidio alla ricerca di lavoro. Stretta anche sui requisiti di Isee per fare domanda. Il tetto dovrebbe scendere da 9360 del Reddito di cittadinanza a 7200 euro della Mia. Sono due mila euro in meno, che tradotto significa escludere dai beneficiari circa un terzo dei richiedenti attuali. In linea con la politica del governo poi l’importo del sussidio aumenterà in base al numero dei componenti della famiglia. Quindi si prevede un aiuto alle famiglie più numerose. Dovrebbe essere anche corretto il requisito della residenza in Italia, che dovrebbe passare da 10 a 5 anni. Per gli “occupabili” entrano in gioco anche le Agenzie per il lavoro. Con i centri pubblici per l’impiego incroceranno offerta e domanda con una piattaforma online dedicata. Iscrizione obbligatoria e chi percepisce il Mia e rifiuta anche una sola offerta di lavoro congrua (proveniente dalla propria provincia o da una confinante) perderà subito l’assegno. Per i non occupabili resta il percorso con i servizi comunali per l’inclusione. Contro “i furbetti” aumenteranno anche i controlli, ma soprattutto per evitare frodi dovrebbe essere estesa a tutti i tipi di lavoro dipendente la possibilità di cumulare l’assegno con redditi da lavoro stagionale o intermittente fino a 3 mila euro l’anno (oggi possibile per i beneficiari del Reddito). I controlli saranno rafforzati e in caso di non rispetto delle regole il beneficio verrà tolto. Il Reddito di cittadinanza al suo esordio nel 2019 tocco poco più di 1 milione di famiglie e il picco si toccò nel 2021 dopo il Covid con 1,8 milioni, per scendere a gennaio 2023 a 1,1 milioni. Con 550 euro al mese in media la misura è costata circa 8 miliardi di euro all’Italia nel 2022 (8,8 miliardi nel 2021). Bankitalia a fine anno (dicembre 2022 in audizione alla Camera sulla Legge di Bilancio) aveva chiaramente definito il reddito di cittadinanza una tappa significativa nell'ammodernamento del welfare del nostro Paese, senza il quale ci sarebbero stati un milione di poveri in più. Ma aveva chiesto una riforma, per superare le criticità della misura.
Da blitzquotidiano.it il 24 gennaio 2023.
A dicembre hanno ricevuto il reddito di cittadinanza 164.215 famiglie della provincia di Napoli per 422.715 persone coinvolte. Un numero che supera il doppio di quelle di tutta la Lombardia che nello stesso mese sono state 81.115 per 151.433 persone coinvolte. E’ quanto emerge dalle tabelle dell’Osservatorio Inps sul Reddito e la pensione di cittadinanza. Nel mese le famiglie che hanno ricevuto il reddito nel complesso sono state 1.168.722 per 2.483.885 persone coinvolte.
La differenza tra Nord e Sud
Il 65% delle famiglie con l’assegno contro la povertà è nel Sud e nelle Isole (759.767) mentre poco più del 20% risiede al Nord. nel Centro le famiglie coinvolte sono 174.425 pari a quasi il 15% del totale. Nel Mezzogiorno l’assegno medio a dicembre è stato superiore di oltre 100 euro rispetto al Nord con 580,80 euro medi a fronte dei 477,23 del Settentrione.
Reddito di cittadinanza: la scadenza del 31 gennaio
Per non perdere il Reddito di cittadinanza entro il 31 gennaio bisogna rinnovare l’Isee con i dati aggiornati. Ma come si rinnova? Per rinnovare l’Isee si deve compilare la Dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) e presentarla alle Poste, al Comune, a un centro di assistenza fiscale o anche online sul portale dell’Inps. Per avere diritto al Reddito, lo ricordiamo, bisogna avere un Isee inferiore a 9.360 euro.
I numeri monstre del reddito grillino: quanto ci costa davvero. Nel 2022 sono stati spesi per il Reddito e la pensione di cittadinanza quasi 8 miliardi di euro. Il 61% delle famiglie con il sussidio grillino è nel Mezzogiorno. I dati Inps. Marco Leardi il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Solo in un anno, il reddito grillino ci è costato quasi 8 miliardi di euro. Sussidi a pioggia pagati dallo Stato e finiti soprattutto al Sud e nelle isole, dove si concentra il maggior numero dei percettori. Ad attestarlo sono gli Osservatori statistici dell'Inps, in un report di recentissima pubblicazione. Secondo le rilevazioni, nel 2022 i soldi attinti dalle casse pubbliche per pagare il reddito e la pensione di cittadinanza sono stati 7,99 miliardi. Cifre rispetto alle quali ci sarebbe da interrogarsi, se si considera che la misura assistenzialista di contrasto alla povertà non ha quasi mai offerto soluzioni concrete sul piano delle politiche attive.
Reddito di cittadinanza, quanto costa
Ad accedere ad almeno una mensilità del sussidio sono state 1.685.161 famiglie, per un totale di 3.662.803 persone coinvolte. L'importo medio degli assegni erogati è stato di 551,11 euro medi di assegno. Nel Sud e nelle isole sono concentrate la maggior parte dei cittadini beneficiari del sussidio: si tratta - riferiscono i dati Inps - di 1.040.957 famiglie con almeno una mensilità (il 61% del totale di quelle con il sussidio) e di 2.399.875 persone (il 65,5% del totale). In questo caso l'assegno percepito è stato di 583,27 euro medi.
Rdc, a Napoli i sussidi sono il doppio della Lombardia
Nello specifico, a dicembre 2022 sono state 1.168.712 le famiglie che hanno ricevuto il reddito o la pensione di cittadinanza per 549,46 euro medi. Secondo gli Osservatori statistici Inps, le persone complessivamente coinvolte nel mese sono state 2.483.885, con una spesa nel mese di 642,16 milioni di euro. Sempre a dicembre, solo nella provincia di Napoli hanno ricevuto il sussidio 164.215 famiglie, per 422.715 persone coinvolte: oltre il doppio rispetto alla Lombardia, dove nello stesso mese sono state 81.115 le famiglie, per 151.433 persone coinvolte.
Reddito di cittadinanza, chi lo percepisce
Il report dell'Inps restituisce anche l'identikit dei percettori del sostegno statale (reddito o la pensione di cittadinanza). Le famiglie percettrici con un solo componente sono state 541.426: il 46,33% del totale delle famiglie che hanno complessivamente uno dei due sussidi. Ma, se si escludono i nuclei che hanno la pensione di cittadinanza, si vede che le famiglie single con il reddito sono state - a dicembre 2022 - 434.311: quasi il 42% del totale delle famiglie con il sussidio (1.045.992 quelle con il reddito). Stando a quanto monitorato dall'Inps, l'età media di queste persone è di 49,4 anni. L'età media più bassa è stata registrata in Calabria, con 46,8 anni, e quella più alta è in Veneto con 53 anni.
Le polemiche politiche
Dati destinati probabilmente a inasprire le contese sul fronte politico. Al riguardo, ricordiamo le già arroventate parole spese da Matteo Renzi contro il leader pentastellato: "Ciò che sta accadendo al Sud, con le manifestazioni di giubilo di chi percepisce il reddito al passaggio di Conte, costituisce la più scandalosa operazione politica di voto di scambio degli ultimi anni". Conte infatti era stato accusato di aver ottenuto consensi nel Meridione proprio in virtù delle soluzioni assistenzialiste promosse dal suo partito. Al momento i Cinque Stelle proseguono la loro strenua difesa della misura, mentre il governo ha avviato i lavori per sostituire il reddito di cittadinanza con differenti soluzioni. E, dal Pd, Stefano Bonaccini ha osservato: "Serve un Mezzogiorno in cui le politiche non siano solo assistenzialiste".
Nei giorni scorsi, il ministro degli Interni Matteo Piantedosi aveva escluso la possibilità - paventata invece da Conte - che le modifiche al reddito di cittadinanza previste dal governo possano provocare tensioni sociali.
Uski Audino per “la Stampa” il 4 gennaio 2023.
Se in Italia il reddito di cittadinanza fa un passo indietro, in Germania fa un passo avanti. Dal primo gennaio è in vigore una versione riformata del sussidio che vedrà aumentare il contributo mensile di circa 50 euro, crescere le prestazioni e ridurre le sanzioni. In controtendenza con quanto accade in Italia, il governo del socialdemocratico Olaf Scholz ha deciso di spingere sull'acceleratore e riformare il vecchio sussidio introdotto dal governo Schroeder nel 2005 - il cosiddetto Hartz IV - e limarne le criticità.
Perché ora? Le ragioni sono molteplici. La prima è che la misura rientra in un disegno complessivo di sostegno al reddito in un anno caratterizzato da incertezza sul futuro per la guerra in Ucraina, aumento dei costi dell'energia e inflazione.
«Il reddito di cittadinanza riguarda uno Stato sociale all'altezza dei tempi», ha detto il ministro del Lavoro Hubertus Heil. «Si tratta di proteggere in modo affidabile le persone in stato di bisogno. È una questione di solidarietà sociale», ha commentato. Ed è proprio la solidarietà sociale una delle bandiere distintive del partito di maggioranza.
La seconda ragione è che la riforma del sostegno figura tra le principali promesse elettorali dell'Spd, insieme all'innalzamento del salario minimo a 12 euro/ora, entrato in vigore a ottobre. La terza e più prosaica motivazione è che una riforma era necessaria dopo i rilievi della Corte costituzionale.
Nel 2019 l'alta Corte aveva osservato che le multe ai percettori che non rispettavano gli accordi presi con i centri per l'impiego arrivavano a soglie talmente drastiche, con tagli ai contributi fino al 60-100%, da rendere vano il principio stesso del sussidio.
Ora, l'attuale riforma prevede ancora sanzioni ma in modo ridimensionato rispetto al passato. Se non si rispettano gli appuntamenti con il Job Center, se non si frequentano i corsi di formazione o si rifiuta di fare le domande di lavoro, c'è un sistema di richiami. Al primo richiamo si avrà una decurtazione dell'importo del 10% per un mese, al secondo del 20% per 2 mesi, al terzo del 30% per tre mesi.
Oltre non si va e i soldi per l'affitto e le spese accessorie non verranno toccati. Gli importi sono stati aumentati per tutte le categorie di percettori di circa 50 euro al mese, così che un single che prendeva al 31 dicembre 449 euro, dal primo gennaio ne prenderà 502.
La platea dei beneficiari del sussidio attuale è la stessa dei percettori dell'Hartz IV, che a fine 2021 era di circa 5 milioni, riporta Destatis.
Tra questi non solo chi non è in grado di lavorare ma anche i cosiddetti occupabili, senza lavoro o che guadagnano talmente poco da non riuscire a mantenersi. Anche per loro è previsto un sostegno, come l'aiuto di un coach per essere reintegrati nel mondo del lavoro. Il dibattito di questi mesi in Germania è stato uguale e contrario rispetto all'Italia: forti si sono levate le voci delle associazioni per dire che la platea era troppo ristretta o che l'aumento del contributo era troppo basso. Mentre chi sosteneva che con 502 euro al mese, piuttosto che con 449, si è scoraggiati a cercare lavoro ha avuto un'eco ben modesta in un Paese che vede nel 2022 crescere l'occupazione a livelli record con più 589.000 occupati in un anno.
Lavoro saltuario: il Libretto di famiglia.
Libretto di famiglia, chi può usufruirne e cosa c'è da sapere. Ecco le novità su questo strumento introdotte dalla legge di Bilancio. Federico Garau il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.
Con l'approvazione dell'ultima Manovra sono state ampliate dal governo le possibilità di utilizzo del cosiddetto libretto di famiglia, un mezzo che, introdotto per la prima volta nel 2017, si pone l'obiettivo di disciplinare le prestazioni di lavoro occasionale. Tale strumento, precisa l'Inps, può essere usato "dai soggetti che vogliano intraprendere attività lavorative in modo sporadico e saltuario".
In cosa consiste
Si tratta in sostanza di un libretto nominativo prefinanziato, composto da buoni del valore nominale di 10 euro che si possono utilizzare per retribuire attività lavorative di durata inferiore a un'ora. Tale strumento, che viene erogato dall'Inps, può essere ricaricato con versamenti effettuati tramite F24 modello Elide e con causale Lifa, oppure attraverso il "Portale dei pagamenti" dell'Istituto nazionale di previdenza sociale. Il libretto, ovviamente, è rivolto a persone fisiche che non esercitino attività professionali o di impresa.
Vi sono tuttavia dei parametri annuali specifici da rispettare per ambo le parti. Ogni prestatore può elargire alla totalità degli utilizzatori compensi per un importo massimo di 5mila euro in 12 mesi. Ogni utilizzatore invece può percepire, con riferimento alla totalità dei prestatori, compensi per un valore complessivo massimo di 10mila euro l'anno. Qualora tali buoni siano elargiti dal prestatore in favore dello stesso utilizzatore, il tetto annuale degli importi complessivi scende fino a 2.500 euro. Appurato ciò, non è concesso poter ricorrere al libretto di famiglia qualora sia già in atto un rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione continuativa tra le parti contraenti, o nel caso in cui questo rapporto si sia interrotto da meno di sei mesi.
Come anticipato, ogni buono ha valore complessivo nominale di 10 euro: di questi 8 formano il compenso vero e proprio, 1,65 sono destinati alla contribuzione Ivs alla Gestione Separata, 0,25 costituiscono il premio assicurativo Inail, e 0,10 il finanziamento degli oneri gestionali.
Solo alcune specifiche attività possono essere remunerate tramite tale strumento: si tratta, come previsto dalla legge, di piccoli lavori domestici (tra cui anche quelli di giardinaggio e di pulizia/manutenzione), assistenza domiciliare a bambini o persone anziane, ammalate o con disabilità, e insegnamento supplementare privato.
Come ottenerlo
È l'Inps a rilasciare il libretto: per ottenerlo sia il prestatore che l'utilizzatore devono accedere al portale e registrarsi alla piattaforma dedicata al servizio. La registrazione e l'invio dei dati relativi alla prestazione lavorativa possono essere effettuati anche appoggiandosi a Contact Center oppure tramite patronati o intermediari abilitati e in possesso di delega.
Entro il terzo giorno del mese successivo alla conclusione della prestazione, l'utilizzatore ha l'obbligo di comunicare all'Inps i dati identificativi del prestatore, il compenso pattuito, il luogo di svolgimento e la durata della prestazione, l'ambito di svolgimento ed eventuali ulteriori informazioni necessarie a definire la natura del rapporto lavorativo. Entro il giorno 15 del mese successivo alla prestazione, infine, l'Istituto deve erogare i compensi pattuiti al momento della registrazione.
Il Lavoro Figo.
Torino, il ministro Zangrillo agli studenti: «Il posto fisso lo lasciamo a Checco Zalone. I giovani vogliono un lavoro figo» Christian Benna su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023
Il titolare del dicastero della Pubblica Amministrazione è intervenuto all'Università di Torino con una lectio sulla cultura d'impresa
«Il posto fisso non si lascia mai!» Macché. Meglio un lavoro figo, ancorché a tempo determinato. Il ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo, nel suo intervento alla Scuola di Management di Torino, manda in frantumi il monito del senatore Binetto (Lino Banfi) che insegue Checco Zalone lungo tutto il film Quo Vado e che, tra il serio e faceto, è diventato lo slogan della generazione Z che il posto fisso non lo vede neppure con il binocolo . «Il mito del posto fisso sta per essere soppiantato dal mito del lavoro figo, nel senso che oggi i giovani non cercano la stabilità, cercano un virtuoso equilibrio tra l'attività professionale e la loro vita privata», ha detto il ministro Zangrillo, a margine della sua lectio «Pubblica Amministrazione e Cultura d'impresa, la sfida della formazione» presso la School of Management dell'Università.
«Quindi quando cercano il posto di lavoro (McDonald’s intanto assume 100 persone a Torino per rafforzare i team di alcuni dei suoi ristoranti) non si accontentano di un posto fisso - ha aggiunto - vogliono avere un lavoro che sia ben retribuito, capace di valorizzarli, che dia loro delle opportunità di crescita e che sia capace di bilanciare l'aspetto professionale con quello della vita privata. Quindi io direi che il mito del posto fisso lo lasciamo a Checco Zalone», ha concluso.
Il Lavoro corto.
Senza stipendio d’estate, i conducenti di scuolabus non arrivano alla fine del mese. Hanno paghe che consentono a stento la sopravvivenza e in tanti casi arrivano anche in ritardo. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 29 Agosto 2023
950 euro per soli 9 mesi. Nessuno stipendio durante l’estate, quando le scuole sono chiuse. «La prima paga completa, in realtà, la riceviamo a novembre, relativa al lavoro svolto il mese prima», racconta Enrico, autista di scuolabus da 24 anni. «Siamo impegnati tutto il giorno dalle sette di mattina alle cinque di pomeriggio, con un paio d’ore di pausa in tarda mattinata che, però, non sono abbastanza per svolgere un altro lavoro. Portiamo in classe gli studenti delle scuole materne, elementari e medie, abbiamo la loro responsabilità quando sono a bordo, di circa 200 bambini al giorno. E anche quella del mezzo, qualsiasi danno ci viene imputato in percentuale in base al contratto di lavoro. Ma non ci viene riconosciuto niente di tutto questo. Il contratto nazionale a cui facciamo riferimento è quello degli autoferrotranvieri. Non ne abbiamo uno nostro. Oggi, con il costo della vita che aumenta, è impossibile andare avanti a queste condizioni: chiediamo almeno che ci venga pagato lo stipendio durante l’estate. Come giustamente avviene anche per gli altri lavoratori della scuola con contratto a tempo indeterminato. Siamo un servizio essenziale per la cittadinanza».
Come Enrico sono molti gli autisti di scuolabus, in Italia, nelle stesse condizioni. Paghe basse che consentono a stento la sopravvivenza. Che in tanti casi, testimonia la cronaca locale, arrivano anche in ritardo. A Teramo, in Abruzzo, denuncia la Filt Cgil: «I dipendenti della ditta che ha vinto la gara d’appalto con il Comune sono rimasti senza stipendio a ferragosto», quello, però, che aspettavano da giugno. E manca anche il Tfr. Il problema va avanti da tempo, tanto che il Comune ha deciso di non prorogare l’affidamento. Ma i ritardi nei pagamenti delle mensilità si verificavano anche prima, con le altre imprese. Ecco perché Cgil chiede alle istituzioni di valutare la possibilità di riappropriarsi del servizio in modo diretto, facendo marcia indietro sull’esternalizzazione.
«Lo stesso problema c’è anche nelle città di Pesaro e di Fano», spiega Luca Polenta, segretario generale della Filt Pesaro Urbino: «Da molti mesi ormai succede che i dipendenti dalla ditta Scoppio, che gestisce il servizio scuolabus, non ricevono lo stipendio il giorno in cui dovrebbero. Di solito, però, non appena il Comune manda all’azienda la lettera in cui intima di pagare gli stipendi, entro 15 giorni i soldi arrivano ai lavoratori. Così il ritardo medio è di circa 7-10 giorni». Questa volta, però, qualcosa è andato più storto del solito. E circa 40 lavoratori non ricevono lo stipendio da giugno. «È impossibile vivere così», spiega uno di loro che preferisce restare anonimo. «Sto cercando un altro lavoro. Come me anche altri colleghi vorrebbero non tornare a settembre. Così il servizio scuolabus è a rischio e i genitori degli studenti sono preoccupati per chi verrà dopo di noi, se qualcuno verrà».
Mario, nome di fantasia, al contrario di Enrico, ha un contratto a tempo determinato, che scade a giugno. E che oggi anno, grazie alla clausola sociale, gli viene rinnovato con l’inizio della scuola: «Ho uno stipendio di circa 1100 euro per nove mesi l’anno, lavoro 6 giorni su 7 con turni che vanno dalle 4 alle 6 ore a giornata. Durante l’estate percepisco il sussidio di disoccupazione. Quello almeno arriva puntuale», scherza con amarezza.
Lavoro, al Nord si lavora due mesi in più che al Sud. Ma c'è un perché. Il Tempo il 15 luglio 2023.
I lavoratori dipendenti del settore privato del Nord lavorano ufficialmente quasi 2 mesi in più all’anno dei colleghi del Sud e per questo percepiscono una retribuzione giornaliera del 34% più alta. La causa di questa differenza è nel lavoro ‘nero’, con le ore lavorate irregolarmente che non possono essere incluse nelle statistiche ufficiali. A renderlo noto è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre che ha elaborato i dati dell’Inps. “La concorrenza sleale praticata dalle realtà completamente o in parte sconosciute al fisco e all’Inps - viene affermato - mantengono, nei settori in cui operano, molto basse le retribuzioni previste dai contratti. Se queste ultime salissero anche di poco molte imprese regolari subirebbero un incremento dei costi che, probabilmente, le farebbe scivolare fuori mercato”.
Secondo i dati elaborati dalla Cgia nel 2021 il numero medio delle giornate retribuite al Nord è stato pari a 247, al Sud, invece, a 211. Per quanto concerne la retribuzione media giornaliera lorda, nel Nord si è attestata attorno ai 100 euro e in meridione sui 75. Di conseguenza, la paga giornaliera in settentrione è mediamente più elevata del 34% rispetto a quella percepita nel Mezzogiorno. “Al Sud si lavora meno - afferma la nota - perché oltre alla presenza di un’economia sommersa più diffusa che nel resto del Paese che, statisticamente, non consente di conteggiare le ore lavorate irregolarmente, nel meridione c’è poca industria, soprattutto high-tech, e una limitata concentrazione di attività bancarie, finanziarie ed assicurative. Il mercato del lavoro è caratterizzato da tanti precari, molti lavoratori intermittenti, soprattutto nei servizi, e tantissimi stagionali legati al mondo del turismo. La combinazione di questi elementi fa sì che gli stipendi percepiti dai lavoratori regolari siano statisticamente più bassi della media nazionale”.
Nel 2021 la retribuzione media giornaliera più elevata d’Italia è stata erogata ai lavoratori dipendenti del settore privato occupati nella provincia di Milano (124 euro). Seguono quelli di Bolzano (104,8 euro), Parma (103,8 euro), Bologna (103,4 euro), Modena (102 euro), Roma (101,3 euro), Reggio Emilia (100,6 euro), Genova (99,8 euro), Trieste (99,4 euro) e Torino (98,5 euro). Gli stipendi giornalieri più bassi, invece, sono stati pagati a Trapani (67,1 euro), Cosenza (66,8 euro), Vibo Valentia (66,7 euro) e, infine, a Ragusa (66,5 euro). Gli operai e gli impiegati con il maggior numero medio di giornate lavorate durante il 2021 sono stati quelli occupati a Lecco (259,5 giorni). Seguono i dipendenti privati di Vicenza (258,2), Treviso (256,9), Lodi (256,7), Pordenone (256 giorni), Bergamo (255,6 giorni), Padova (255,4), Cremona (254,8 giorni), Reggio Emilia (254,1 giorni) e Modena (252,2 giorni). Le province, infine, dove i lavoratori sono stati «meno» in ufficio o in fabbrica durante l’anno preso in esame sono state quelle di Crotone (200,7 giorni), Lecce (200 giorni), Rimini (199,5 giorni), Agrigento (199,3 giorni) Salerno (198,7 giorni), Foggia (198,4 giorni), Cosenza (196,8 giorni), Trapani (195,6 giorni), Nuoro (193,7 giorni), Messina (193,4 giorni) e Vibo Valentia (177,2 giorni).
Contratti a termine, dimissioni e voucher: quando la flessibilità diventa una trappola. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023
Sono almeno 25 anni che l’Italia punta sui contratti di lavoro flessibili. Nel 1997 Tiziano Treu, ministro nel primo governo Prodi, introduce l’omonimo pacchetto che insieme alla successiva legge Biagi (2003) regolamenta i primi «lavori atipici». Da allora diverse riforme tra cui il Jobs Act di Renzi rendono le regole sempre più agili. Adesso tocca al governo Meloni, che oltre a ridisegnare il sistema dei voucher, è pronto a incentivare ulteriormente i contratti a termine. Non c’è dubbio che in un mercato molto variegato i contratti debbano permettere una certa flessibilità, ma di quanto si sta allungando questo elastico?
Il ritorno dei voucher
I voucher sono buoni a ore con cui si paga il lavoro occasionale: il 75% va in tasca al lavoratore, il resto copre contributi e assicurazioni contro gli infortuni). Ideati nel 2003 dalla riforma Biagi (art.70) per pagare i «lavoretti» di solito svolti in nero, come babysitter, colf, insegnanti privati, raccoglitori d’uva, ed utilizzabili dai «soggetti a rischio di esclusione sociale» (disoccupati, casalinghe, studenti, pensionati e disabili). Dal 2008 la possibilità di pagare con i voucher viene estesa ad altre figure professionali e nel 2012 con la riforma Fornero si allarga a tutti i settori produttivi e a ogni tipo di lavoratore. La richiesta di voucher si impenna: se nel 2008 ne sono emessi poco più di mezzo milione, nel 2015 diventano 134 milioni. Si impenna anche l’abuso, soprattutto nell’edilizia, nel turismo e nel commercio: molte imprese coprono qualche ora con i voucher, e il resto pagato in nero. In pratica con questa modalità evitano di assumere lavoratori utilizzati a tempo pieno spacciandoli come occasionali. Le irregolarità assumono dimensioni tali che nel 2017 il governo Gentiloni decide di abolirli e con il successivo decreto n.50 del 2017 fissa limiti stringenti (libretto famiglia e PrestO). La finanziaria 2023 ne allarga invece l’uso alle imprese che hanno fino a 10 dipendenti a tempo indeterminato (escluse quelle agricole ed edilizie). L’importo orario minimo netto è di 9 euro all’ora, quello giornaliero di 36 euro. La somma che ogni azienda può spendere in voucher è di 10 mila euro all’anno, con l’obbligo di comunicare preventivamente all’Inps l’utilizzo di lavoratori occasionali. Il governo Meloni dichiara che l’estensione della misura servirà a ridurre il sommerso, ma la norma, come si è già visto, è facilmente aggirabile e allontana i lavoratori da contratti stabili. Anche perché le sanzioni per chi viola la legge non sono severe: da un minimo di 500 euro ad un massimo di 2.500.
Contratti a termine
In Italia negli ultimi anni il contratto di lavoro più diffuso è stato quello a tempo determinato. Nel 2021 ne sono stati attivati 7,7 milioni (il 69% del totale) che sono diventati 8,5 milioni nel 2022. Nel terzo trimestre dell’anno scorso oltre il 31% dei contratti a termine sottoscritti aveva una durata massima di un mese e il 46,5% non superava i 90 giorni. Il decreto Dignità del 2018 prevede che dopo un anno di contratto a termine scatti l’assunzione, se invece l’imprenditore intende prolungarlo, il tempo massimo concesso è di 12 mesi, ma deve indicare una causale e pagare uno 0,5% di contribuzione in più. Ora la ministra del Lavoro Marina Calderone in una recente audizione al Senato ha sottolineato come «una rigida tipizzazione legale delle causali possa rappresentare un limite per il sistema imprenditoriale e lavorativo del Paese». Tradotto: questi vincoli devono sparire. Eppure siamo uno dei Paesi dell’Eurozona con più contratti a termine (16,4%), e molto sopra la media Ocse (11,8%).
Occupati, precari e part-time indesiderati
A gennaio gli occupati hanno superato i 23,3 milioni mentre i disoccupati sono 2 milioni. Numeri mai raggiunti negli ultimi 15 anni. Tuttavia fra gli occupati, a crescere sono soprattutto i contratti precari che hanno raggiunto quota 3 milioni (erano 2,3 milioni nel 2008). Allo stesso tempo sono diminuite le ore lavorate pro-capite: venti in meno a trimestre rispetto al 2008, che vuol dire in media anche una paga più bassa. Poi ci sono i contratti part-time indesiderati. Sempre nel 2008 coloro che hanno dovuto accettarli pur preferendo un lavoro a tempo pieno erano 1,3 milioni, nel 2022 sono saliti a 2,7 milioni. L’Italia ha il record del part-time involontario nella Ue: circa l’11,3% del totale dei lavoratori vorrebbe lavorare full time, ma deve accontentarsi di mezza giornata. La media Ocse è del 3,4%.
La trappola della precarietà
Se consideriamo tutte le forme contrattuali atipiche (tempo determinato, collaborazioni, part-time, etc) - spiega l’ultimo studio Censis - queste coinvolgono circa il 21,3% del totale degli occupati, ovvero circa 5 milioni di lavoratori. Un dato che incide sulla crescita complessiva dei contratti di lavoro degli ultimi 12 anni: più 24%. Ma attenzione, dentro ci sono tutte quelle forme che non prevedono un impiego fisso, e che sono aumentati del 33%. Nello stesso arco di tempo gli impieghi standard sono invece cresciuti solo del 4,8%. Alla fine – spiega il rapporto 2022 dell’Inapp (Istituto nazionale per le politiche pubbliche) – il lavoro atipico non è più quello strumento intermedio che serve poi ad ottenerne uno stabile, ma è diventato «una trappola» che ti mantiene precario a vita. Prendendo come riferimento tre trienni (2008-2010, 2016-2018 e 2018-2021) la ricerca dimostra che in linea di massima, solo il 35-40% dei lavoratori alla fine riesce a ottenere un contratto a tempo indeterminato. Se ci focalizziamo sull’ultimo periodo (2018-2021), il 30% resta inchiodato all’impiego precario, mentre i lavoratori che cercano una nuova occupazione dopo aver perso il lavoro sono aumentati del 18%. Una crescita certamente in parte imputabile alla pandemia. Ma c’è un altro dato preoccupante: il 17% è stato completamente espulso dal mercato.
Salari bassi, lavoro povero e boom di dimissioni
L’unico Paese europeo dove gli stipendi sono diminuiti negli ultimi 30 anni (1990-2020) è l’Italia (-2,9%). Il vero crollo però si è verificato nel decennio 2010-2020 quando il salario medio è calato dell’8,3%. E questo perché gli stipendi non sono legati alla produttività, che pur essendo più bassa rispetto al resto d’Europa, è comunque cresciuta del 21,9%.
Le statistiche evidenziano la differenza tra chi ha un lavoro stabile e chi ne ha uno precario. In media un lavoratore a tempo indeterminato nel 2021 ha ricevuto un salario che supera i 26 mila euro all’anno, contro i 9.634 euro di un lavoratore a tempo determinato e i 6.425 di uno stagionale (Qui il documento pag.5). Tra 2010 e 2020 circa l’11,3% dei lavoratori italiani ha avuto una retribuzione sotto i 14.460 euro lordi, mentre l’8,7% del totale vive con uno stipendio che non raggiunge i 10 mila euro l’anno. «Oggi c’è già tanta flessibilità che produce lavoro povero – spiega Franco Scarpelli, professore di Diritto del lavoro all’Università Bicocca di Milano – perché molte imprese ricorrono a contratti a termine cambiando continuamente i dipendenti di fascia medio bassa alla scadenza dei contratti». Salari bassi sono spesso la causa numero uno del boom di dimissioni dell’ultimo triennio. La ricerca della «Fondazione Studi Consulenti del Lavoro» sui primi 9 mesi del 2021 mostra questo: chi si dimette è giovane e con un lavoro a bassa qualificazione. Il 52,9 % ha un contratto a termine e il 37,9% un contratto part-time.
La decisione spagnola
La Spagna è il Paese europeo che da anni ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile. Per uscirne, a inizio 2022, ha introdotto una riforma del lavoro che va nella direzione opposta a quella italiana: forte riduzione dei contrattia termine e limitazione a tutte le forme di esternalizzazione del lavoro. La legge, varata in accordo con sindacati e imprese, ridà centralità ai contratti standard, e per ridurre la precarietà utilizza oltre 2,3 miliardi dei fondi del Next Generation Eu. Risultato: 2,5 milioni di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, crollo del tasso di precarietà di 12 punti (dal 26,1% al 14%) con enorme crescita di posti fissi per donne e under 30.
A febbraio 2023 il governo di Pedro Sánchez, per contrastare l’inflazione, ha alzato anche il salario minimo di 93,3 euro al mese per 14 mensilità. È il caso di evidenziare che per rilanciare l’economia non è necessario comprimere i salari e le garanzie dei lavoratori: nel 2022 l’economia spagnola è cresciuta del 5,5%.
Il lavoro è diventato la nostra malattia. Ridateci il diritto all’ozio. Ray Banhoff su L’Espresso il 06 Febbraio 2023
È un’ossessione radicata in noi come la spada nella roccia. Attendiamo un Artù che ci liberi da questa fobia. Perché senza svago ci atrofizziamo
Basta lavorare, non ha più senso nel 2023. I lavoratori dipendenti italiani sono tra i meno pagati d’Europa e tra quelli che stanno più ore alla scrivania con uno stipendio medio che è circa la metà di quanto guadagna Chiara Ferragni con un singolo post su Instagram: 25 mila euro scarsi contro i 40-80 di un’inserzione dell’influencer. Un anno di sbattimento = Un post. Dopo una notizia così come fai a dire che il lavoro dipendente sia moralmente accettabile? Una Repubblica fondata sul lavoro, sì, ma di noi poveracci.
L’illuminazione l’ho avuta parlando con un’amica. Sua figlia frequenta un asilo nido di provincia, una specie di eccellenza dell’educazione, e l’altra mattina mi ha girato un video montato dalle maestre (montato dalle maestre!) in cui si alternavano immagini dei nanerottoli impegnati in attività come: cantare una canzone con un vero microfono e registrarla, indossare delle pettorine e dipingere con le tempere sporcandosi tutti (che bello sporcarsi), fare dei riposini (paghereste per questo, lo so).
Osservando estasiato quella pace ho pensato: stiamo sbagliando tutto. Penso ai volti devastati dalle occhiaie e ai burnout dei miei coetanei dagli uffici di Palermo alle redazioni e alle agenzie di Roma e capisco: perché relegare queste piccole fughe di svago solo all’infanzia o alla vecchiaia? Dove sta scritto che anche un adulto sano non possa concedersi tempere, riposini e svaghi? È inutile che infiliamo la parola «resilienza» ovunque, se poi non siamo resilienti. L’evento traumatico è la vita adulta! L’ozio è necessario. Serve dare aria al cervello e dedicarsi a sé stessi. Se lavori tutti i giorni dalle 9 alle 18 ti atrofizzi, la tua creatività viene meno, non rendi più. Il lavoro è diventato la nostra malattia, la definizione di chi siamo, c’è gente che invece del buongiorno ha preso l’abitudine di augurarti buon lavoro. Ma vaffanculo.
Fuori c’è il sole e anche noi adulti dovremmo essere filmati mentre ci divertiamo, con degli inservienti che si occupano di noi. Così con la mia amica, che è un’affermata psicoterapeuta, ci siamo messi a fantasticare di creare una struttura per quarantenni esauriti o semplicemente scontenti, dal cassiere senza prospettive di carriera al povero a partita Iva.
Niente locali sanitari o a norma, ma un bel posto affrescato e accogliente rivolto alle persone comuni. Le attività? Nessuna. Si gioca a calcio, si affonda nelle vasche di palline, si chiacchiera. Senza scopo, senza dover migliorare il proprio corpo o l’aspetto fisico, senza essere competitivi o prestanti.
Uno svago che non c’entra niente con quelle missioni paranoiche degli adulti tipo andare in palestra a puzzare e sudare con gli altri per diventare quadrati e non dover più trattenere la pancetta, così come non c’entra con frequentare gli insulsi locali che sono solo dei piccoli lager di networking. Come fanno gli svedesi che lasciano degli slittini nei parchi e alla prima neve, in pausa pranzo, vanno a lanciarsi in discesa anche se hanno settant’anni. Il motivo? Perché li rende felici.
Poi a un certo punto un brivido. Mi sono accorto che l’entusiasmo verso la struttura stava nel fatto che avrei guadagnato da questa attività e che quindi sarebbe diventato il mio lavoro. Lì sì che ho avuto paura. L’idea sbagliata è radicata salda in noi come la spada nella roccia. Aspettiamo un Artù che ci liberi da questa fobia.
Settimana corta: in 18 Paesi si lavora già quattro giorni. Ecco dove. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.
Nel mondo post-pandemia delle dimissioni di massa e dell’ormai endemica carenza di personale, si sta facendo strada la settimana lavorativa di quattro giorni. Nel 2023 in almeno 18 Paesi decine di imprese la stanno attuando o sperimentano progetti pilota. La scommessa prevede che lavorando un giorno in meno, ma a stipendio pieno, diminuisca l’assenteismo e aumenti la produttività. Ne beneficerebbero l’ambiente grazie alla riduzione di CO2, la qualità di vita dei lavoratori e le aziende, che diventerebbero più attrattive per personale qualificato e motivato.
2018: in Nuova Zelanda parte la settimana corta
Tra i primi sostenitori della settimana corta si può annoverare l’economista inglese John Maynard Keynes che nel saggio del 1930 «Possibilità economiche per i nostri nipoti» vedeva l’opportunità «di lavorare solo 15 ore a settimana entro un paio di generazioni». Da allora la politica ha rispolverato periodicamente l’idea di lavorare meno a parità di retribuzione. Nel 1956, l’allora vicepresidente degli Usa Richard Nixon dichiarò che la svolta sarebbe arrivata «in un futuro non troppo lontano». Oggi a rilanciarla concretamente è «4 Day Week Global»: la Ong senza scopo di lucro ha esteso a livello internazionale l’esperimento di «Perpetual Guardian», una società fiduciaria neozelandese con 240 dipendenti che dal 2018 ha adottato con successo la settimana lavorativa di 4 giorni. L’iniziativa prevede che in ogni Paese aderente un gruppo di aziende partecipi a un progetto pilota di 6 mesi basato sul modello «100:80:100»: 100% dello stipendio ai dipendenti che però lavorano l’80% delle ore previste (di solito 32) e si impegnano a raggiungere gli stessi risultati che si conseguirebbero lavorando 5 giorni a settimana.
I test nelle aziende Usa e Gran Bretagna
A inizio 2022 è stato condotto il primo importante test scientifico monitorato dai ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Oxford, del Boston College e coordinato da «4 Day Week Global». Trentatré piccole e medie imprese sparse tra Usa, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Irlanda, Regno Unito, che impiegavano complessivamente 903 dipendenti, hanno deciso di seguire il modello «100:80:100». Alla fine del periodo di prova, su 27 società interpellate, nessuna ha dichiarato di voler tornare alla settimana di 5 giorni. Gli indicatori hanno dimostrato che l’esperienza era stata positiva. In media durante il test i ricavi delle aziende sono aumentati dell’8%, l’assenteismo si è ridotto (da 0,6 a 0,4 giorni al mese) e le dimissioni sono leggermente diminuite. Da giugno a dicembre 2022 un nuovo progetto pilota seguito dagli stessi ricercatori è stato lanciato nel Regno Unito: coinvolte 72 aziende con oltre 3.300 dipendenti. Si tratta di banche, società di marketing, assistenza sanitaria, servizi finanziari e vendita al dettaglio. A metà del periodo di prova l’89% delle imprese ha espresso la volontà di continuare l’esperienza nell’anno successivo. La produttività è migliorata «leggermente» per il 34% delle aziende, «in modo significativo» per il 15%, mentre il 46% ha risposto che è rimasta praticamente la stessa, nonostante tutti lavorassero un giorno alla settimana in meno.
Europa: in corso i progetti pilota
Negli ultimi anni la settimana corta si sta testando soprattutto in Nord Europa. Ha iniziato l’Islanda, che tra 2015 e 2019 l’ha sperimentata nel settore pubblico: le ore lavorative sono passate da 40 a 35 da smaltire in 4 giorni senza alcun taglio di retribuzione. Il test, al quale hanno partecipato circa 2.500 dipendenti, è stato così positivo da essere esteso al settore privato. Oggi nel Paese l’86% della popolazione lavora con l’orario ridotto. Progetti pilota si stanno conducendo in Germania su 150 aziende e in Irlanda su 20. In Lituania dal 2023 chi ha figli sotto i 3 anni e lavora nel settore pubblico può scegliere la settimana corta, e in Scozia a inizio 2022 il governo ha lanciato un fondo di 10 milioni di sterline per finanziare le società che vogliono partecipare all’iniziativa. Nel dicembre 2022 è stata la volta della Spagna che ha finanziato un fondo governativo di 10 milioni di euro destinato a circa 70 piccole e medie imprese. Ognuna di queste aziende, che applicano una riduzione di almeno il 10% dell’orario di lavoro e si impegnano a mantenerlo per almeno 2 anni, riceve dal Ministero dell’Industria fino a 150 mila euro. Infine c’è il Belgio: dal 21 novembre scorso, e per un periodo di 6 mesi, le aziende possono concedere ai lavoratori la settimana corta senza tagli di stipendio, mantenendo però lo stesso numero di ore lavorative, ovvero 36. In Italia per ora solo Banca Intesa ha lanciato in fase sperimentale la settimana corta su circa 200 filiali, accoppiata a 4 mesi di smart working. E come per i dipendenti belgi, lavorando un giorno in meno le ore da passare in ufficio salgono a 9.
Produttività e lavoro
I promotori della settimana corta sostengono che la produttività individuale aumenta con il diminuire dell’orario di lavoro settimanale. Questa scommessa, almeno in Europa, è confermata dalle ultime statistiche dell’Ocse. I Paesi dell’Europa occidentale dove si lavora più ore all’anno (Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) hanno tra i tassi di produttività più bassi. Dall’altra parte i Paesi che lavorano meno ore all’anno (Germania, Danimarca, Austria e Svizzera) presentano tassi di produttività più alti. Inoltre, chi fa la settimana corta – spiegano i ricercatori del Boston College – tende a utilizzare il terzo giorno libero per appuntamenti dal medico o altre commissioni personali che altrimenti dovrebbe stipare in una giornata lavorativa.
Un privilegio non per tutti
Secondo gli esperti il datore di lavoro del XXI secolo non può più trascurare il benessere psicofisico dei propri dipendenti.
Infatti chi beneficia della settimana corta si sente più motivato, prende meno giorni di malattia e sperimenta meno burnout
Potrebbe essere l’inizio di un cambiamento epocale, ma immaginare una società dove tutti lavorano solo quattro giorni resta un’utopia perché esistono impieghi, come nel trasporto pubblico, nei servizi sanitari o d’emergenza, che richiedono una presenza fissa sette giorni su sette. In questi settori, dove ai dipendenti sono richiesti sempre turni più lunghi, applicare l’orario di lavoro ridotto richiede un aumento del personale e di conseguenza l’insostenibilità dei costi.
Lo dimostra l’esperimento fatto tra il 2015 e il 2017 a Göteborg in Svezia: per due anni le infermiere della casa di cura per anziani Svartedalen hanno lavorato 6 ore giornaliere anziché 8, ma in breve tempo il sistema si è rivelato ingestibile economicamente. Inoltre – per i critici - creare una differenza troppo marcata tra i lavori d’ufficio e gli altri impieghi rischia di aumentare le diseguaglianze sociali.
Il Lavoro umile.
Estratto dell’articolo di Serena Coppetti per “il Giornale” l'1 agosto 2023.
Pagati per dormire. Per testare materassi, annusare i cattivi odori dell’aria e anche delle ascelle altrui (si deve a loro se i deodoranti funzionano o meno...).
Stipendiati per mangiare, o solo assaggiare ma di tutto, caramelle, gelati, persino cibo per cani e gatti, per raccattare sott’acqua le palline da golf che finiscono nei laghetti, per spedire feci a domicilio in conto terzi come messaggio tutt’altro che simbolico, oppure ancora, come è successo a Natale, assunti per mangiare biscotti, guardare film, ricevere regali o anche tutto insieme. Al mondo, e l’Italia non fa eccezione, ci sono lavori strani, assurdi, folli, a volte anche parecchio disgustosi ma spesso pure
ben pagati e persino ridicoli. […]
Da ex disoccupati a pionieri Qualche anno fa aveva fatto il giro del mondo la storia di Glenn Berger, ex disoccupato in Florida, che dopo aver perso il lavoro si è tuffato, anzi proprio immerso in una nuova avventura. Caso ha voluto che proprio vicino a casa sua ci fosse un campo pratica da golf. Lui da sub esperto qual è, si è offerto di recuperare le palline da golf finite nei laghetti. Nel giro di un anno, Berger è riuscito a tirare fuori quasi due milioni di palline. Le ha pulite, lavate, lucidate e poi le ha rivendute ad un prezzo super conveniente. Per ogni pallina recuperata chiede 1 o 2 dollari, in 16 anni ha racimolato una cosa come 15 milioni di dollari.
[…] I sommozzatori del golf sono diventati insomma una professione. Come lo è diventata quella del Codista, cioè chi si mette in fila per gli altri, un mestiere anche questo avviato da un (ex) disoccupato
[…]
Era serissimo ad esempio il bando pubblicato lo scorso anno a maggio dall’Agenzia regionale per l’ambiente in Campania per reclutare 100 tecnici olfattivi, cioè «annusa-odori» per dare la caccia a colpi di naso alla causa dei miasmi misteriosi che da anni sono presenti nell'aria della zona di Giugliano, in provincia di Napoli e che in alcuni periodi costringono gli abitanti a tenere le finestre chiuse anche in piena estate. Nasi supersensibili pagati 38 euro (lordi) per tre ore di lavoro. Requisiti, oltre ai 18 anni non avere allergie o malattie nasali, dalla rinite alla sinusite.
L’elenco dei 100 nomi ora è a disposizione del «laboratorio di olfattometria». Nasi speciali anche quelli ricercati dalla Nissan, la casa automobilista, con il compito di annusare i diversi componenti dell’abitacolo della vettura per poi fare un elenco dei buoni e dei cattivi odori e valutare così se l’auto soddisfa i profumati requisiti. Come stabilire invece se un deodorante dura 42 o 70 ore, o per quale pelle è più efficace e quale ph... be’ pare che negli Stati Uniti vengano reclutati annusatori di ascelle, un lavoro per il quale ci vuole un discreto stomaco (oltre che naso) ma capace di fruttare 35mila dollari all’anno.
In alcuni negozi sono comparsi i manichini viventi, ma se si parla di lavoro dei sogni, ce n’è uno per cui basta dormire per candidarsi. Tester di materassi, collaudatore di reti e dintorni, sleepinfluencer: tanti nomi per lo stesso professionista dormiente. L’azienda Emma - The Sleep Company ha appena assunto il suo nuovo ambassador: tre mesi di contratto a 1300 euro per Giorgia Melotto, selezionata tra più di 70 candidature di sonnambuli, dormiglioni, neogenitori alle prese con le notti in bianco, studenti stressati sotto pressione pronti a mettere alla prova il loro sonno.
Niente di troppo eccentrico se si considera l’offerta fatta a Natale scorso da EduBirdie, disposta a pagare mille dollari a testa più le spese per i «Christmas Moodcatchers» «obbligati» a mangiare cenoni di Natale, guardare i film preferiti, ricevere regali (o tutto insieme) per capire come prolungare più possibile l’atmosfera natalizia. «Appetibile», soprattutto per quanto riguarda il salario l’assaggiatore di polpette per cani, umano ovviamente.
Ben diversa la soddisfazione di chi si è aggiudicato l’anno scorso il posto offerto da Candy Funhouse, rivenditore online di dolciumi, tra caramelle gommose, barrette di cioccolato, liquirizie che ha pubblicato l’offerta su Linkedin per un Chief Candy Officer remunerato 80mila dollari per «condurre le riunioni del candy board, essere il capo tester...».
La piattaforma Careermatch.com offriva un’occupazione per viaggiatori sempre con il costume da bagno in valigia. Il collaudatore di scivoli nei parchi acquatici deve controllare altezza, velocità, quantità di spruzzi.
Oltre agli aspetti ludici del mestiere deve valutare efficacia, sicurezza e funzionalità di questi giochi che potrebbero risultare pericolosi per i bambini o per chili prova per la prima volta. Ma anche la fatturazione scivola via veloce: si parla di 23mila euro lordi all’anno. In rete ci sono anche molte bufale.
Non è il caso (anche se ne ha tutto l’aspetto) del sito shitexpress.com: con 15,95 euro si offrono di spedire escrementi a chi si desidera e in totale anonimato. […] Sul sito Indeed ci sono vari altre opportunità. Impossibile non citarne una: il rapinatore legale di banche. Si tratta di militari che testano la sicurezza fisica e informatica delle banche per assicurare che tutti gli impianti di sorveglianza e sicurezza siano funzionanti e utili in caso di rapina. […]
Estratto dell’articolo di Giusy Franzese per “Il Messaggero” il 5 gennaio 2023.
Fino a un po' di anni fa trovare una colf o una badante italiana era quasi un miracolo. Sotto i 40 anni poi neanche a parlarne. Andare a servizio, come si diceva un tempo, era diventata quasi una vergogna. Il Covid ha rivoluzionato anche questo. Nel 2021 oltre ventimila giovani italiani non ancora trentenni, per la stragrande maggioranza donne (83%), hanno accettato di lavorare come collaboratori domestici o come aiuto per gli anziani. Dieci anni fa, nel 2012, non arrivavano a 14.000.
Lo evidenzia il IV Rapporto annuale sul lavoro domestico, curato dall'Osservatorio Domina. Il balzo (+41% rispetto al 2012) è avvenuto proprio nel 2020, quando con il Covid che imperversava lavorare in un ambiente protetto è diventato un vantaggio. Soprattutto - secondo i curatori del rapporto - è cambiato il modo di pensare: ora il lavoro domestico non è più l'ultima spiaggia, ma «un nuovo modo per entrare nel mondo del lavoro».
IL PASSAGGIO Visto il numero di ore settimanali impegnate e le retribuzioni medie l'approccio sembra essere: inizio a guadagnare qualcosa in attesa di un'occupazione diversa. La conferma viene da due dati: il 56% lavora meno di 19 ore a settimana (soltanto il 9% lavora almeno 35 ore a settimana); per la metà di questi giovani la durata del contratto non supera i 6 mesi. E così la retribuzione media annuale si aggira attorno ai 3.600 euro, solo il 6% supera i 10 mila euro. (…)
DAGONEWS il 12 febbraio 2023.
Le società evolvono, si sa, e con esse cambiano le persone e le professioni. Alcune, più che modificarsi, spariscono nell’indifferenza collettiva. Il sito History Defined ha fatto una curiosa lista delle professioni comuni fino a qualche decennio fa e diventate improvvisamente obsolete.
“In questo elenco – si legge sul sito, specializzato in aneddoti storici - verranno illustrati alcuni dei lavori più strani, ma all'epoca necessari, che sono scomparsi, principalmente per via dei progressi tecnologici. Ad esempio, le moderne piste da bowling sono dotate di elaborati sistemi di raccolta delle palle e dei birilli, per cui i ‘pinsetter’ non sono più necessari. Allo stesso modo, con la diffusione della refrigerazione, il mestiere del tagliatore di ghiaccio è diventato un ricordo del passato. In questo articolo verranno illustrate dieci strane professioni che non esistono più. Chissà, forse scoprirete un lavoro che i vostri antenati facevano prima che voi nasceste”.
Dunque, andiamo a vedere la lista.
La sveglia umana
“Ai tempi in cui non c'erano le sveglie, le persone assumevano altri esseri umani per svegliarsi al mattino. Può non sembrare necessario, ma nell'Ottocento era un lavoro piuttosto essenziale. Le "sveglie umane" o "Knocker Uppers" usavano spesso lunghe aste per battere sulle finestre dei loro datori di lavoro o addirittura per sparare piselli contro i vetri delle finestre.
Può sembrare un lavoro superfluo, ma pensateci: anche all'epoca le persone non avevano bisogno di svegliarsi a determinati orari? Dopotutto, si poteva perdere una riunione o un appuntamento importante se si dormiva troppo. Vi immaginate di dover pagare qualcuno per svegliarvi ogni mattina?”
I “pinsetter”
“Se avete giocato almeno una volta a bowling, saprete che le macchine resettano i birilli dopo ogni turno. Ma prima di queste macchine automatiche, c'era una professione dedicata a sistemare manualmente i birilli. I ‘dipendenti’ erano spesso bambini. Si trattava di un lavoro noioso. L'introduzione delle ‘spillatrici’ automatiche nel 1956 da parte della Brunswick Company è stata rivoluzionaria per il settore”. Talmente rivoluzionaria da aver eliminato una professione, togliendo il lavoro a molti operai. Un lavoro peraltro pericoloso, “perché i birilli o le palle da bowling potevano colpirli. Naturalmente, un lavoro del genere oggi viola le leggi sul lavoro minorile, ma allora i tempi erano diversi.
I tagliaghiaccio
“Sapevate che prima dell’introduzione della moderna refrigerazione, le persone tagliavano il ghiaccio da laghi e fiumi per conservare gli alimenti? Nel 1800 il tagliatore di ghiaccio era una vera e propria professione ed era un lavoro pericoloso. Usavano grandi seghe per tagliare i blocchi di ghiaccio, che poi trasportavano nelle case e nelle aziende. Questa professione è diventata rapidamente obsoleta negli anni Venti. È difficile credere che un tempo si facesse questo per vivere, ma dimostra quanto sia cambiata la nostra società in un periodo così breve”.
I raccoglitori di sanguisughe
“Prima della medicina moderna, le sanguisughe venivano utilizzate per il salasso, una pratica medica in cui i medici estraevano il sangue da un paziente per curare varie malattie. Si potrebbe considerare una pratica strana e barbara, ma in realtà questi piccoli vermi erano molto richiesti dai medici. Tanto che c'erano persone che le raccoglievano per vivere.
Questi ‘raccoglitori di sanguisughe’ si recavano spesso in paludi e acquitrini per trovare le sanguisughe. Usavano vecchi cavalli, a cui le sanguisughe si attaccavano, oppure direttamente il proprio corpo per attirarle.
Il “lampionaio”
“Il compito di queste persone era illuminare le strade di notte, proprio come avviene oggi con i lampioni elettrici. Usavano un lungo palo con uno stoppino a un'estremità per accendere l'olio o le candele nei lampioni, per poi tornare a spegnerle al mattino. L'illuminazione manuale dei lampioni iniziò a declinare con l'invenzione delle lampade a gas nel 1814 in Europa e poi, ancora più rapidamente, con l’arrivo della lampadina a incandescenza di Thomas Edison nel 1879. La professione era diventata obsoleta e quasi estinta all'inizio del 1900.”
L’acchiappatopi
Un tempo era una professione comune, soprattutto in Europa, in particolare durante la Peste Nera, quando i ratti costituivano un problema significativo nelle città. Gli acchiappatopi intrappolavano o sparavano agli animali e li consegnavano alle autorità. In alcuni casi, erano anche responsabili dello smaltimento. Ovviamente, questo lavoro li esponeva a malattie, poiché i ratti potevano diffondere malattie. Con l'avvento dei moderni metodi di disinfestazione, questa professione è scomparsa”. E la qualità vita di queste persone si è allungata
Il computer umano
“No, non è un film di fantascienza: c'è stato un tempo in cui le organizzazioni assumevano persone per eseguire calcoli ora gestiti dai computer. Questi ‘computer umani’ erano spesso donne, ritenute più capaci di svolgere questi compiti ripetitivi.
Resurrezionisti
Prima della medicina moderna, si credeva che sezionare i cadaveri fosse il modo migliore per studiare l'anatomia. Tuttavia, c'era un problema: i cadaveri a disposizione legalmente erano molto rari. Quindi, chi aveva bisogno di corpi per i propri studi assumeva dei "resurrezionisti" per rubarli dai cimiteri. Le università dovevano assumere "resurrezionisti" per tenere il passo con la domanda di cadaveri. Il furto di tombe era molto diffuso in Gran Bretagna. Anche se i "resurrezionisti" non erano ben visti dalla comunità per ovvie ragioni, questa professione divenne obsoleta con l'approvazione dell'Anatomy Act nel 1832, che la rese illegale.
I resurrezionisti venivano spesso catturati e accusati di furto di tombe. Con lo sviluppo delle moderne scuole di medicina, questa professione non è più necessaria.
La ragazza delle sigarette
Le “Cigarette Girl” erano un tempo comuni in America, soprattutto nei primi anni del 1900. Andavano in giro per locali pieni di fumatori, come bar e club, a vendere sigarette ai clienti. Di solito indossavano abiti succinti per attirare l’attenzione dei maschi, e vendevano sigarette da una scatola appesa al collo. Con l’arrivo dei distributori automatici, a metà del 1900, questo lavoro è andata progressivamente in declino, per poi sparire del tutto a fine secolo
“Groom of the stool”
Questo lavoro è forse uno dei più strani, una figura intraducibile in italiano (tipo “lo sposo dello sgabello”): un cortigiano che, alla corte inglese, si occupava di assistere il re durante le sue minzioni e abluzioni. In pratica, di aiutarlo a espletare i suoi bisogni e “fornirgli il necessario per andare in bagno”. Forniva asciugamani, acqua e un lavabo, ma non è chiaro se pulisse anche il culo reale. Di sicuro, come racconta “History Defined”, “svuotava anche il vaso da notte e, vista la sua peculiare occupazione, era anche un confidente del capo. La figura divenne famosa sotto Enrico VIII: il re dalle sei mogli aveva un “groom of the stool” che controllava persino i suoi movimenti intestinali, per assicurarsi che fosse in buona salute e, in caso contrario, parlava con i medici per rimediare alla situazione”.
Questi alcuni dei molti lavori spariti nel corso dei decenni, ma quali professioni saranno le prossime a finire in soffitta? “History defined” ne elenca cinque: il cassiere, il bancario, gli autisti di Taxi, l’agente di viaggi e il postino. Staremo a vedere.
Il Lavoro sottopagato.
Estratto dell’articolo di Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” lunedì 30 ottobre 2023.
Gli stipendi degli italiani sono sempre più bassi. Dai dati Ocse il loro potere d’acquisto (i cosiddetti salari reali) è in calo in Italia dal 1990 più che in qualunque altro Paese sviluppato. Solo nell’ultimo anno sono diminuiti del 7%. I partiti di opposizione (ad esclusione di Italia viva) propongono di affrontare il problema con un salario minimo definito per legge a 9 euro lordi l’ora, che tradotti in paga mensile per un dipendente a tempo pieno fanno 1.550 euro lordi su 12 mensilità (circa 1.200 netti).
Le statistiche Istat mostrano che quasi 3 milioni di dipendenti sono sotto, in media, di 804 euro l’anno. Tuttavia, i partiti di governo non ne vogliono sapere.
Dove c’è il salario minimo
Su 27 Paesi Ue, 22 applicano il salario minimo, parametrato al costo della vita e all’andamento del mercato del lavoro. Stessa cosa per 30 su 38 Paesi Ocse. In Germania non si scende sotto i 2.080 euro lordi al mese, in Belgio 1.900, in Francia 1.750, in Spagna 1.250. La paga oraria minima non c’è in Italia, Finlandia, Svezia, Danimarca, Austria.
Secondo i detrattori della misura, il salario minimo potrebbe innescare un meccanismo al ribasso: chi oggi paga meno di 9 euro con un contratto regolare potrebbe ricorrere al nero; chi invece applica un contratto poco sopra i 9 euro l’ora sarebbe tentato di abbandonarlo per passare al salario minimo.
Nella pratica tutto questo nei Paesi europei che già da anni hanno introdotto il salario minimo non è mai avvenuto. Il ricorso al nero invece è una piaga tipica del nostro Paese, e che andrebbe stroncata con maggiori controlli.
La decisione del Cnel
Su richiesta del governo, il Cnel si è espresso sul salario minimo per legge: 39 consiglieri contrari su 62. Per il Cnel è un provvedimento non necessario soprattutto per un motivo: in Italia la contrattazione collettiva è forte e definisce già salari minimi per ogni settore.
In effetti anche la Commissione europea è convinta che un salario minimo contrattato sia meglio di uno definito per legge, tanto che impone il salario legale soltanto ai Paesi dove la contrattazione nazionale copre meno dell’80% dei dipendenti. E da noi la contrattazione fra le parti sociali copre almeno il 95% dei lavoratori: il 92% con contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil e il 3% dai sindacati minori. Ad avere invece il contratto di una sigla pirata, cioè nata apposta per firmare accordi al ribasso, è lo 0,4% dei lavoratori dipendenti. Questi numeri però non dicono tutta la verità.
I contratti sotto i 9 euro
La Fondazione dei consulenti del lavoro, analizzando solo i principali accordi, ha individuato ben 22 contratti di categoria sotto i 9 euro lordi l’ora, firmati da Cgil, Cisl e Uil: c’è il personale delle cooperative e consorzi agricoli con retribuzioni d’ingresso a 8,4 euro; quello dei dipendenti delle imprese di pulizia a 8,1; i dipendenti dell’industria delle calzature a 7,9; del vetro a 7,1. Fino ad arrivare agli addetti della vigilanza pagati 5,37 euro l’ora da un contratto firmato non da sindacati di comodo, ma da quelli confederali con il mondo delle cooperative.
In questo caso è intervenuta la Cassazione, che, con la sentenza del 2 ottobre scorso, ha definito l’accordo non in linea con la Costituzione (articolo 36), perché la retribuzione garantita non ha le caratteristiche di «proporzionalità e sufficienza».
Nella pratica da anni la contrattazione in molti settori non riesce più a negoziare salari decenti. La maggior parte degli accordi al ribasso sono firmati da associazioni delle imprese che fanno riferimento al mondo delle piccole aziende e della cooperazione, ma qualcuno anche da Confindustria. Tutto questo avviene per diverse ragioni intrecciate tra loro, a partire dal fatto che i sindacati in molti settori si sono indeboliti. Dove le aziende sono piccole non riescono nemmeno a entrare: in Italia il 95% delle imprese ha meno di 10 dipendenti.
[…]
Ovviamente chi esce dal «contratto madre» punta a dare ai dipendenti uno stipendio più basso e minori garanzie. È emblematico il caso dell’alimentare: fino a ieri facevano rifermento a Federalimentare 13 associazioni di categoria (i produttori di latte, bevande, acque minerali, di trasformazione, ecc.), e tutte con un contratto unico. Recentemente si sono staccate quelle che rappresentano i produttori di farine, di mangimi e carni, e stanno negoziando un contratto parte. Improbabile che sia al rialzo.
A complicare le cose poi è la nascita di sempre nuove associazioni delle imprese. Ciascuna firma un suo contratto. Così solo nel settore dei servizi ci sono 242 contratti nazionali. Nel metalmeccanico 50. Qui, rispetto al principale, firmato da Federmeccanica, il contratto degli artigiani metalmeccanici paga 480 euro lordi in meno al mese. Eppure a firmare sia l’accordo con Federmeccanica che quello con gli artigiani dell’industria sono sempre Cgil, Cisl e Uil.
I contratti nazionali scaduti
I contratti nazionali vanno rinnovati ogni tre anni. Oggi il 57% è scaduto da tempo, e la percentuale sale addirittura al 96% nei servizi dove sono fuori tempo massimo, tra gli altri, i contratti dei servizi di Confcommercio, Confesercenti, Federdistribuzione (tutti scaduti nel 2019), quello del turismo e dei pubblici esercizi di Confcommercio (scaduto nel 2021). Sono coinvolti in questo ritardo circa 7,5 milioni di dipendenti che devono fare i conti con l’impennata dei prezzi.
I contratti «pirata»
Su quasi 1.000 contratti nazionali, ben 353 sono siglati da sindacati non rappresentati al Cnel. Si tratta di contratti firmati spesso da associazioni di comodo per produrre accordi al ribasso, e riguardano 54 mila lavoratori. Talvolta si tratta di un pugno di aziende che si mettono insieme con il supporto di un consulente del lavoro e di un sindacato compiacente.
[…]
La proposta
Il Cnel dice no al salario minimo ma non spiega come si rilancia la contrattazione. Un’idea ce l’ha invece la Fondazione consulenti del lavoro, si basa sulla misurazione della rappresentanza dei sindacati e delle associazioni delle imprese: definire i settori, prendere per ciascuno l’accordo più rappresentativo per numero di aziende, dipendenti e valore prodotto, quindi applicare la paga minima e le tutele al resto del comparto, vietando accordi peggiorativi.
Nel metalmeccanico vale quello di Federmeccanica, dove il salario d’ingresso è di 10,8 euro l’ora, e sotto non deve andare. Le altre organizzazioni potrebbero contrattare soltanto al rialzo. Ma potrà fare questo un governo sostenuto da piccole e numerosissime associazioni di categoria, premiate anche con un maggior numero di posti dentro al Cnel? È il caso di ricordare che quando i salari sono troppo bassi intervengono i sussidi, poi è necessario integrare pure le pensioni, e tutto finisce a carico della fiscalità generale.
Estratto dell’articolo di Aldo Fontanarosa per repubblica.it il 3 ottobre 2023.
Uno stipendio mensile superiore alla “soglia di povertà” – che l’Istat fissa in 834,66 euro – non è necessariamente legittimo. Al contrario, una retribuzione è sempre ingiusta se non garantisce “un livello di vita dignitoso”; se non permette alle persone di svolgere “attività culturali, educative, sociali”, intanto che mangiano e pagano il fitto.
E’ la Corte di Cassazione – chiamata a giudicare il caso di 8 lavoratrici e lavoratori di una Cooperativa di vigilanza e portierato – a fissare questi importanti principi. L’Istat non basta – dice dunque la Cassazione – per misurare la congruità e legittimità di uno stipendio. Il giudice dovrà far riferimento ad altri parametri economici. In concreto, il salario minimo non dovrebbe distanziarsi troppo da quello medio del Paese.
Ecco la storia del lungo processo. Gli 8 vigilantes fanno causa alla Cooperativa perché guadagnano 930 euro lordi al mese. Somma che garantisce una retribuzione netta di 650,29 euro (per un dipendente a tempo pieno e di livello D).
Chiedono di sapere, gli 8 lavoratori, se queste cifre siano rispettose dell’articolo 36 della Costituzione che garantisce a tutti “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del loro lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.
Nel primo dei tre gradi di giudizio, gli 8 lavoratori vincono la causa. Il giudice di primo grado, tra le altre cose, fa un calcolo molto semplice. Lo stipendio netto (650,29 euro) è inferiore alla soglia di povertà che l’Istat stabilisce in 834,66 euro. Quindi la busta paga è troppo leggera e va integrata.
Nel secondo grado di giudizio, il giudice dell’Appello ribalta il verdetto. Questo giudice fa riferimento allo stipendio lordo mensile dei vigilantes (930 euro), che in effetti è superiore alla “soglia di povertà” dell’Istat. Dunque il giudice considera la busta paga legittima ed equa.
Nel terzo e definitivo grado di giudizio, i giudici della Cassazione si interrogano intanto sul differente approccio. Si chiedono come mai il giudice di Appello abbia preso a riferimento lo stipendio lordo (930 euro) e non quello netto (650,29), come invece avrebbe dovuto. […]
I giudici della Cassazione, infine, affermano che una busta paga può essere illegittima e iniqua anche se rispetta i Contratti collettivi di lavoro. Contratti che i giudici hanno il diritto di sindacare e mettere in discussione.
Questi Contratti sono troppi: ben 946 (calcola il Cnel). E di questi – scrive ancora la Cassazione – “solo un quinto sarebbero stati stipulati da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti”.
Cassazione: i giudici possono modificare i contratti che non garantiscono una vita “dignitosa”. Stefano Baudino su L'Indipendente il 4 Ottobre 2023
Mentre imperversa la battaglia politica sul “salario minimo” e il governo attende le proposte del Cnel per il contrasto alla povertà lavorativa, con una sentenza dirompente la Cassazione ha sancito che i giudici possono disapplicare i contratti collettivi nazionali che prevedano minimi non “proporzionati alla quantità e qualità del lavoro” e “sufficienti ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, arrivando persino a fissare una cifra che risulti adeguata: un “salario minimo Costituzionale”.
La decisione della Cassazione, dunque, smorza la centralità della contrattazione collettiva, “che non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale” nell’individuazione del livello della retribuzione. La Corte indica ai giudici i parametri su cui calibrare la loro decisione: uno stipendio “giusto” deve essere proiettato a “una vita libera e dignitosa e non solo non povera” e, per individuare la somma, occorre basarsi sui contratti collettivi di settori affini. Il limite minimo inderogabile deve essere inquadrato nella soglia di povertà calcolata dall’Istat, ma la Cassazione si spinge oltre, affermando che “l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale” deve essere effettuata “considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale”.
La sentenza 27711/23 della Cassazione scaturisce dalla causa intentata da un dipendente che svolge l’attività di vigilante presso un Carrefour alla cooperativa per cui lavora. L’uomo si era rivolto a un tribunale per chiedere un aumento di stipendio al fine di ottenere una cifra che fosse rispettosa dell’art. 36 della Costituzione: guadagnava solo 830 euro lordi al mese per un lavoro full time (il contratto collettivo nazionale di lavoro della vigilanza privata, infatti, è noto per contemplare le paghe più basse dell’intero universo dei contratti collettivi italiani). Il giudice di primo grado gli aveva dato ragione, sancendo che la sua paga dovesse essere integrata. In appello, invece, si era stabilito che la sua retribuzione non fosse irregolare, poiché rispettava il Ccnl. La Cassazione, però, ha ribaltato il verdetto.
La Cassazione ha sottolineato che l’intervento giudiziale può concernere non soltanto il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il Ccnl della categoria nazionale di appartenenza, “ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”, poiché, “per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”.
Soddisfazione è stata espressa dalle opposizioni, che quest’estate hanno depositato una proposta di legge per un salario minimo di 9 euro lordi all’ora in Parlamento. Riferendosi alla pronuncia della Cassazione, hanno parlato di una sentenza “storica”, intestandosene, di fatto, la bandiera. Ciò che è certo, però, è che il diritto a un “giusto salario” è cosa ben diversa dall’individuazione di un “salario minimo”, che non sempre è sinonimo di liberazione dal lavoro povero. La previsione di un importo così modesto, infatti, sposterebbe ben poco gli equilibri: basti pensare che, nel nostro Paese, l’80% delle lavoratrici e dei lavoratori è coperto da contrattazione collettiva con un salario superiore rispetto a quello ipotizzato. Su tale platea, la norma non produrrebbe sostanzialmente nessun effetto, mentre rimarrebbero irrisolti i veri problemi di fondo: la mancanza di diritti politici e sindacali della comunità del lavoro e il dramma della disoccupazione, frutto delle misere condizioni del mercato del lavoro, in cui domanda e offerta si incrociano sempre meno. [di Stefano Baudino]
Le toghe vogliono decidere pure gli stipendi. Assist della Cassazione sul salario minimo. Per il verdetto i giudici possono stabilire le retribuzioni in base alla Costituzione Esultano Schlein e Conte. Il ministro Calderone: «Già rinnovati molti contratti». Francesco Boezi il 4 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Le opposizioni stappano spumante ideologico per una sentenza della Cassazione. Una pronuncia che apre al salario minimo. In un’Italia in cui la separazione dei poteri non è, almeno per una certa parte politica, un tema così sentito, succede anche questo. In sintesi: il caso esaminato è quello di 8 dipendenti di una cooperativa che si occupa di vigilantes e di portineria. I lavoratori sollevano la distanza tra la contrattazione collettiva che riguarda il loro settore e l’articolo 36 della Costituzione. Quello che per intenderci recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa». In prima istanza, il giudice prende le parti dei lavoratori. Il secondo grado corrisponde a un’inversione di marcia della Corte d’Appello.
Ma la Cassazione conferisce di nuovo la ragione ai dipendenti della cooperativa. E stabilisce che un magistrato può individuare un «salario minimo costituzionale». Il tutto dopo aver fotografato l’esistenza di situazioni da «lavoro povero». Per Pd e compagni diventa una fase di giubilo. La Schlein è tra le prime a prendere posizione: «Arriva dalla Cassazione, con una sentenza storica, una indicazione che conferma la necessità e l'urgenza di stabilire un salario minimo secondo i principi stabiliti dalla Costituzione». Poi ci si mette anche il leader di Azione Carlo Calenda, che si è scoperto un sostenitore di questo tipo di diritti sociali: «Con la sentenza che conferma la necessità di un salario minimo legale, la Cassazione è arrivata dove invece fino a ora il governo ha temporeggiato», incalza.
Il M5S non fa quasi notizia in materia: «Questa pronuncia segna cambio di passo decisivo, perché dice a chiare lettere che da sola la contrattazione collettiva non può bastare», osserva la formazione guidata da Giuseppe Conte. Il tema è questo: la soglia di «dignità» può essere superiore a quanto disposto dal contratto collettivo. E questo principio, per le sinistre, spalanca la legittimità del salario minimo.
Misura che però, secondo il governo e la maggioranza di centrodestra, potrebbe rivelarsi un boomerang sociale. Il premier Meloni ha già motivato il perché: c’è il rischio concreto che gli stipendi alzati siano meno rispetto a quelli abbassati. E questo una volta approvata la misura. In ogni caso, l’esecutivo non è fermo. E sta aspettando il Cnel. «Il salario minimo per legge dimentica la contrattazione che ha dato luogo a una stagione importante di rinnovi», ha fatto presente ieri il ministro del Lavoro Marina Calderone. E dunque - ha aggiunto il titolare del dicastero al Tg4 - bisogna «tenere conto dei giudici quando dicono che la contrattazione da sola non basta. Questo è il lavoro che farà il Cnel». Un lavoro che per il ministro è «a buon punto».
L’intenzione della maggioranza resta quella di migliorare la contrattazione, come specificato in serata dal viceministro del Lavoro e delle politiche sociali Maria Teresa Bellucci.
Se i precari d’Italia incrociassero le braccia, il Paese collasserebbe. Sono gli schiavi moderni per la gioia del Capitale che li vuole schiavi. Dimenticati dalla politica e abituati anche a non protestare. Ray Banhoff su L'espresso il 31 agosto 2023.
Lasciate ogni speranza, o voi precari! Solo così forse continuerete a svilupparvi come una super specie quale ormai siete. Dimenticati dalla politica, perennemente in crisi, tra di voi regna la legge della Natura Matrigna: sopravvive solo il più forte.
L’Italia è la Sparta della vostra stirpe, la giungla biologico-economica in cui vi siete evoluti e siete sopravvissuti. Il mercato ha bisogno di voi, la sacra economia italiana vi sfrutta, ormai anche nel settore pubblico siete in abbondanza, quindi scordatevi di mutare la vostra condizione sociale. Precari siete e precari rimarrete in un sistema di caste che vi vuole schiavi moderni. Non abbastanza schiavi da non avere il cibo, diciamo piuttosto il giusto refill monetario mensile per permettervi di pagare l’affitto, le tasse e le bollette. Le uscite, la vita sociale avete già imparato a ridurle al minimo, accampando scuse per evitare l’imbarazzo di non poter pagare il conto. Tranquilli, potrete vedere le partite (se proprio non avete i soldi per gli abbonamenti digitali, su qualche gruppo Telegram si trova ogni match in streaming pirata).
Producete, consumate, crepate voi eroi moderni necessari al Capitale per perpetuarsi; voi vittime del Mercato, il culto più in voga in questi anni senza dei. Siamo così evoluti ora che siamo quasi pagani, così emancipati, che non ci fa mica troppo dispiacere piegare milioni di esistenze a una vita di stenti. È il progresso, bellezze! Se sei povero è colpa tua; tu che vuoi il salario minimo o il reddito di cittadinanza, tu che non hai voglia di lavorare!
Se da domani tutti i precari d’Italia incrociassero le braccia per una settimana, il Paese collasserebbe. Non funzionerebbe più niente, dalla scuola ai trasporti, passando per la consegna dei pacchi di Amazon, fino ai media. Ma non succede. C’abbiamo ’sta cosa per cui i nostri cugini francesi sono famosi per fare casino ogni volta che viene loro toccato un diritto. Noi no, poiché fare casino potrebbe significare anzitutto lo stigma sociale e la nomea di guastafeste con la conseguente minaccia del «non lavori più», letale per la nostra mentalità; ma, soprattutto, magari vi beccate il penale (o le botte) e tocca prendere un avvocato. Sapete quanto costa un avvocato? Lasciate perdere.
Forse i precari non protestano più perché sono troppo impegnati in un processo evolutivo che li renderà gli esseri perfetti dell’austerità economica. Esseri in grado di vivere con le borse dell’acqua calda sotto il maglione in inverno per risparmiare sul riscaldamento di casa, gente che cambia gestore telefonico di continuo per la tariffa migliore, esperti nella rateizzazione per gli strumenti informatici che usano per lavorare.
Sono troppo presi da questa continua necessità di sopravvivenza. Disabituati alla protesta, completamente scoraggiati dalla possibilità di un cambiamento, consapevoli che la politica deve occuparsi solo dei temi del giorno: il generale che scrive un libro in cui esprime i concetti che tutti i maggiori quotidiani di destra stampano da anni, la psicanalisi di Roberto Mancini che lascia la Nazionale, chi scopa chi nel mondo dei famosi.
In attesa che arrivi una sorta di Che Guevara a salvarvi, voglio solo ricordare una cosa: nella storia i diritti si sono sempre e solo conquistati con la lotta, oggi grande assente forse da riabilitare.
In Italia chi lavora nella cultura guadagna meno di 10 mila euro l’anno. A Firenze i “biblioprecari” protestano: una vertenza contro il bando senza tutele che riassegna i servizi museali della città. Diletta Bellotti su L'Espresso il 16 Agosto 2023.
C’è un sentimento che chiamo “dolore indie”, riprende tutto un modo di provare emozioni, spesso nostalgiche e dolorose, intorno a un mondo, e dunque un’estetica, ormai sbiaditi. Quel mondo che alcuni riconoscono nel ricordo specifico di una libreria di quartiere o di un modo di fare le cose. In questo senso, è bello essere giovani perché si può dire «questo nuovo mondo fa schifo» senza passare per forza per dei boomer nostalgici (magari solo per dei boomer nostalgici in divenire). Si è invece forse solo stati così fortunati da vedere la fine di un’epoca e l’impennata prima dello schianto, anche se non si aveva certo alcun potere di arrestarlo.
Dolore indie è anche quel dolore dolciastro nei confronti di luoghi specifici, come le biblioteche e gli archivi. I luoghi tanto cari all’universo indie ovvero semplicemente posti dove stare a leggere e approfondire gratuitamente. Il dolore indie è quindi il sentimento di perdita verso la fruizione, gratuita o comunque accessibile, della cultura.
In Italia, la metà di chi tutela e cura questi luoghi, guadagna meno di 10 mila euro all’anno (“Mi riconosci”, 2022). Da Firenze, la blasonatissima culla del Rinascimento, si sta lanciando un allarme. Da novembre 2015, l’associazione “Mi riconosci” chiede che le amministrazioni locali e il ministero abbiano la decenza di ascoltare i precari della cultura perché «il sistema non regge più». Il 17 giugno c’è stato un presidio davanti agli Uffizi: la protesta dei lavoratori di Opera è contro il bando da 121 milioni di euro che dopo oltre vent’anni di proroghe deve riassegnare i servizi museali delle Gallerie (Corridoio Vasariano, Giardini Boboli e tutto Palazzo Pitti), della Direzione Regionale Musei della Toscana (tra cui: Archeologico, San Marco, Villa Medicea) e dell’Opificio delle Pietre Dure.
Nonostante la lunghissima attesa, il bando è privo di garanzie per i lavoratori in termini di paga e numero di operatori riassorbiti. Il 16 giugno, i “Biblioprecari”, lavoratori esternalizzati delle biblioteche e degli archivi civici di Firenze, hanno protestato contro un processo di internalizzazione che se privo di tutele, rischia di esodare il personale attualmente in appalto. Il processo, già in corso, ha già visto l’uscita di un concorso per funzionari che non riconosceva l’esperienza dei precari e nell’assunzione di personale amministrativo privo di formazione biblioteconomia che in alcuni casi è stato fatto firmare proprio da chi rischia il posto di lavoro. A seguito di mobilitazioni, scioperi, assemblee sindacali e raccolte firme, sono riusciti a ottenere, il 4 agosto, un incontro con gli assessori al Personale e alla Cultura, Bettini e Giuliani, e con la compagine tecnica del Comune di Firenze. Sicuramente un’apertura formale ma che manca ancora di sostanza.
In quell’occasione, l’amministrazione si è impegnata a valutare tutte le opzioni possibili per un processo di re-internalizzazione che tuteli quanti lavorano. Nell’ascoltare i lavoratori e le lavoratici in lotta, chi negli archivi, chi nelle biblioteche di Firenze, si ricrea l’atmosfera confusa e soffocante degli uffici kafkiani ne “Il Processo”. A., della rete “Biblioprecari”, parla di figure che hanno il potere di fare il buono e il cattivo tempo: burocrati, tecnici e politici. In balia di questo distruttivo battito d’ali, archivisti e bibliotecari battagliano, dal 2020, contro un vuoto politico. Nel vuoto si sentono i cori e le grida? Pare proprio di no.
Nuovo capitale umano. La crescita italiana è trainata dal lavoro (spesso mal pagato) degli immigrati. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 10 giugno 2023.
Le statistiche dimostrano che l’occupazione nel nostro Paese aumenta soprattutto grazie ai giovani stranieri. Ma il Paese non riesce ad approfittare di queste risorse, anzi: blocca loro gli stipendi e nega le forme di welfare
I dati dell’Istat lo hanno certificato. L’aumento insperato del Pil nel primo trimestre del 2023, +1,9 per cento anno su anno, +0,6 per cento sull’ultimo trimestre 2023, ha una causa precisa: una crescita dei consumi che pochi si aspettavano e che da sola vale metà dell’incremento del nostro prodotto interno lordo. Come è stato possibile, visto che il carovita si è mangiato il potere d’acquisto degli italiani? A quanto pare a salvarci è stato l’aumento dell’occupazione.
Mai così tante persone hanno avuto un impiego e gli acquisti in più dei nuovi lavoratori, uniti a una tendenza al risparmio ormai bassissima, hanno compensato i minori consumi di chi un lavoro l’aveva già. Ma chi sono questi nuovi occupati? Intanto sono soprattutto giovani, a differenza di quanto avveniva qualche anno fa, e molti di loro sono stranieri. Nel corso del 2022 il tasso di occupazione di coloro che non hanno la cittadinanza italiana ma lavorano nel nostro Paese è cresciuto molto più di quello degli “autoctoni”. Era mediamente del 57,8 per cento nel 2021 ed è arrivato alla fine dello scorso anno al 60,6 per cento, mentre tra gli italiani è passato dal 58,3 per cento al 60,6 per cento. Questi numeri fanno il paio con quelli sui salari che sono saliti molto meno rispetto all’inflazione. È facile immaginare che ciò sia avvenuto non solo per il mancato adeguamento dei salari già esistenti all’aumento dei prezzi, ma in parte anche per il ricorso a nuovi dipendenti mediamente pagati meno, spesso sottopagati. Quelli di origine straniera, appunto.
Se però allarghiamo lo sguardo molto oltre gli ultimi due anni, scopriamo che in realtà oggi le aziende utilizzano risorse umane con passaporto estero molto meno di un tempo. Al contrario di quanto accaduto tra gli italiani, il cui tasso di occupazione non aveva mai toccato prima il sessanta per cento, nel caso degli stranieri prima della crisi finanziaria del 2008-09 questo era arrivato oltre il sessantotto per cento. Poi era sceso di 9 punti durante il duro periodo tra il 2008-2013, quando il crollo dell’edilizia e di parte dell’industria aveva colpito loro più che proporzionalmente, e non era risalito se non di un 3 per cento con la ripresa successiva. Con il Covid sono stati sempre loro, gli stranieri, a fare da vittime sacrificali: nel 2020, per la prima volta, tra loro la percentuale di quanti avevano un impiego era minore che tra gli italiani.
E l’attuale aumento ha riportato i numeri del 2022 a quelli del 2018-19, ma lontanissimi da quelli di 15-16 anni fa. Rispetto ad allora il loro tasso di occupazione è del 6,6 per cento inferiore, mentre nel caso degli italiani si è avuto un aumento.
Questo è avvenuto soprattutto nel Mezzogiorno, dove la percentuale degli occupati tra gli stranieri è addirittura di più di dieci punti inferiore (dal 61,1 per cento è scesa al 50,3 per cento) ed è persino più bassa che nel 2019 e nel 2013, anno di crisi dopo il quale vi era stata invece al Nord una ripresa occupazionale per tutti.
C’è un’evidente distorsione. Non stiamo impiegando abbastanza nel settore produttivo il segmento che invece numericamente cresce di più. Dal 2002 infatti gli stranieri sono aumentati del 2,83 per cento, mentre gli italiani sono diminuiti del 3,73 per cento, senza contare che la maggior parte dei primi sono in età lavorativa, tra i 20 e i 50 anni.
Lo stesso accade in Europa, a dire il vero. Qui il tasso di occupazione degli autoctoni è di più del dieci per cento superiore a quello degli immigrati extracomunitari. Nella Ue però, a differenza che in Italia, è sempre stato così. Inoltre, diversa è la storia per i comunitari, che sia nel nostro Paese che negli altri del Vecchio Continente, lavorano molto. Sono però, evidentemente, una minoranza tra chi proviene dall’estero.
La ragione di questi numeri la sappiamo: le comunità straniere sono più fragili. Solitamente vivono in aree più povere, i giovani hanno meno possibilità di raggiungere livelli di istruzione superiore, sono più spesso preda dell’economia grigia o lavorano in nero, in alcuni casi prevalgono culture tradizionali che vogliono la donna in casa invece che in fabbrica o in ufficio.
Quando il fenomeno migratorio era all’inizio, come era il caso dell’Italia di 20-30 anni fa, ad arrivare erano quasi solo quanti cercavano ardentemente un impiego, spesso uomini o donne senza famiglia, e tra loro il tasso di occupazione era alto. Però poi, come si è visto, anche nel nostro Paese sono prevalsi meccanismi che hanno portato gli stranieri a rimanere indietro nel mercato del lavoro. Del resto, complice la Bossi-Fini, negli ultimi anni molti più immigrati regolari sono entrati in Italia per ricongiungimento familiare e non per motivi lavorativi.
Tutto ciò però non spiega, se non in parte, il fatto che, al contrario di quanto avviene tra gli italiani, tra gli stranieri l’andamento occupazionale dei laureati è quasi identico a quello dei diplomati. Tra loro la percentuale di quanti hanno un impiego dopo avere preso un titolo universitario è di ben quattordici punti più bassa che tra gli italiani con gli stessi studi.
Questi ultimi numeri fanno pensare a discriminazioni, a una mancata integrazione, a uno spreco di capitale umano. Quale integrazione è possibile, del resto, se nel momento in cui si decide di cambiare una misura di welfare pur controversa come il Reddito di Cittadinanza a essere sfavoriti sono proprio loro, gli stranieri? Banca d’Italia ha calcolato come nel passaggio dal RdC all’Assegno di Inclusione (AdI) solo il 32,5 per cento di loro rimarrà potenzialmente beneficiario, contro il cinquantanove per cento degli italiani. Il motivo è che da un lato vi è una crescita, grazie a un obbligo europeo, di chi è presente nel nostro Paese da cinque e non da dieci anni, dall’altro vi sono due restrizioni che colpiscono particolarmente gli stranieri. La prima è quella che elimina l’assegno per chi ha tra i diciotto e i cinquantanove anni ed è senza figli, provvedimento che impatta di più chi ha un’età media inferiore, come la maggior parte degli immigrati. La seconda è quella che prevede una diminuzione del peso degli affitti pagati nel determinare le condizioni economiche dei richiedenti sussidi statali. Anche quest’ultima variazione affligge di più gli stranieri, essendo questi locatari di un appartamento molto più spesso degli italiani.
A cosa serve ridurre le forme di welfare e assistenza, già striminzite in confronto a quelle presenti in altri Paesi, per chi non ha né una pensione né la cittadinanza italiana, ma che in Italia tanto rimarrà, anche perché magari arrivato molto giovane? Tra l’altro senza pensare, al posto di queste restrizioni, ad alcun investimento nel loro capitale umano, prezioso in un paese che ha smesso di crescere, compreso nelle sue risorse lavorative. Negli ultimi anni in Italia le persone in età di lavoro sono infatti diminuite di ben ottocentomila unità.
Tutti coloro che si sono fatti due calcoli, compreso chi è ideologicamente contro l’immigrazione, sanno che non possiamo rinunciare né a nuovi arrivi né a occuparli di più e meglio, senza sfruttarli. Sarebbe molto produttivo se si cominciasse, se non a dirlo apertamente, almeno ad agire di conseguenza.
"Lavoro da 10 anni e non so cosa sia un contratto". Emanuela, la babysitter da un euro l’ora: “Cercano schiavi, mai chiesto il reddito e resto a Napoli per stare con mamma”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Maggio 2023
Le hanno offerto di lavorare “dal dal lunedì al venerdì dalle 8 del mattino alle 7 di sera, per 400 euro al mese. A conti fatti avrei guadagnato poco più di un euro l’ora. Ho detto al proponente che la sua era un’offerta assurda, e la risposta che ho ricevuto è stata: ‘beh allora resta a casa’?”. E’ diventata virale nel giro di pochi giorni la denuncia social di Emanuela Calzarano, una ragazza napoletana di 28 anni residente nel quartiere di Pianura.
Un duro sfogo quello pubblicato sui social dopo tanti lavori sottopagati e quasi sempre a nero. Diplomatasi dieci anni fa come tecnico-informatico, Emanuela ha lavorato come commessa, segretaria, cameriera. Negli ultimi tempi un problema alla mano le ha impedito di continuare a lavorare in pub e negozi, e ha iniziato a cercare lavoro come babysitter salvo poi rendersi conto che “qui non cercano dipendenti ma schiavi”. Anche perché “con 400 euro al mese come si fa a vivere?” soprattutto oggi “che fare la spesa costa più di un anno fa, e le bollette sono arrivate alle stelle” racconta la 28enne in una intervista al Corriere del Mezzogiorno.
Emanuela racconta di non aver “mai richiesto il reddito di cittadinanza” perché “questi sussidi ci devono essere, ma per chi non può lavorare. Ora che la misura è stata ristretta penso anche che è giusto così. Però alle istituzioni vorrei anche dire: avete ristretto le maglie del reddito di cittadinanza? Va benissimo. Ora però andate anche a controllare che quando uno va a lavorare lo possa fare in condizioni quanto meno decenti. Anche perché – aggiunge- non aspiro a fare la bella vita, vorrei solo una vita normale che mi permetta attraverso il lavoro di poter pagare le mie spese e ogni tanto andare anche in pizzeria».
Un presente e un futuro frustrante per i giovani. Quella di Emanuela, infatti, non è la prima denuncia di offerte di lavoro raccapriccianti, fatte di giornate con turni infiniti in cambio di paghe da fame. “In un supermercato di una grande catena commerciale mi hanno proposto 400 euro al mese per un lavoro a tempo pieno. Mi chiedo dove sono i controlli da parte dello Stato? Perché – prosegue – nessuno fa niente per impedire che si verifichino queste situazioni? Lavoro da 10 anni e non so cosa sia un contratto”.
Contratti-chimera, spesso promessi e mai, realmente, ottenuti. “Quando l’ho chiesto, le risposte che ho ricevuto sono state sempre le stesse: “Lo facciamo tra poco”; “non ti preoccupare”; “poi vediamo”. Ma il contratto non è mai arrivato”.
Poi l’immancabile riflessione sui tanti ragazzi che per sperare in un futuro migliore sono costretti ad andare altrove e su altri, come lei, che decidono di rimanere anche per stare vicini ai genitori: “La mia è una situazione comune a tanti altri miei coetanei. Parecchi miei amici sono andati già via da Napoli. Nonostante mia madre mi dice di partire, di pensare al mio futuro, non ce la faccio a lasciarla sola. Spero che prima o poi qualcosa di buono si possa trovare anche a Napoli: stiamo parlando di una metropoli, non di un paesino”.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Estratto dell’articolo di Paolo Baroni per “la Stampa” il 9 maggio 2023.
Grama, davvero grama la vita dello stagista, al punto che spesso non conviene nemmeno accettare un'offerta o scervellarsi per individuare tra le tante quella più interessante. Perché anche nelle città dove i compensi sono più alti, fra affitto e costo dei consumi, le spese per vivere in trasferta inseguendo il proprio sogno professionale possono anche arrivare a più del doppio del compenso mensile.
Rendendo praticamente impossibile l'impresa dei tanti giovani, e sono migliaia, che in questo modo cercano di imparare in concreto un mestiere nella speranza poi di trovare più facilmente un'occupazione.
Il caso più eclatante è quello di Milano, la città italiana dove tra l'altro è da sempre più alto il numero delle posizioni aperte: a fronte di uno stipendio medio per gli stage di 669 euro al mese bisogna infatti mettere in conto in media 1.299 euro per l'affitto - a riprova che sotto la Madonnina questa voce ha costi esorbitanti - e 207 euro di spese per consumi.
Il totale fa 1.506 euro con uno squilibrio entrate/uscite che sfiora gli 840 euro pari al 125% del compenso. Lo stesso vale per Roma dove pure lo stipendio medio è più alto (792 euro al mese) ma dove il totale delle spese arriva a quota 1.204 euro con uno squilibrio di 412 euro (+52%). Più contenuto, ma sempre in rosso per circa 100 euro, anche lo squilibrio di uno stage a Torino. Al Sud il costo della vita, come è noto, è molto più basso, ma anche le occasioni di stage sono certamente minori.
[…]
Imbarazzante il confronto con tante altre città europee, innanzitutto in termini di stipendio. Manchester è la migliore città europea per gli stagisti, che vanta il maggior numero di opportunità di sviluppo al di fuori del lavoro, con 2.440 workshop ed eventi di networking gratuiti. […]
Estratto dell'articolo di Marina de Ghantuz Cubbe per repubblica.it il 4 maggio 2023.
"Non è lavoro, è sfruttamento". Sara ha quasi trent'anni, cerca un impiego e trova, invece, quella che il segretario della Cgil Roma e Lazio Natale Di Cola definisce "una proposta indegna". Ovvero un contratto part-time che in realtà nasconde molto lavoro in più, in nero. Per aver denunciato tutto sui social, la donna è stata anche insultata: un utente che su Facebook si presenta come Roberto, le ha scritto in privato dandole dell'idiota: "Fatti il culo e la gavetta, morta di fame e di sonno, rimarrai una fallita".
[…] Il contratto che le hanno proposto ha il sapore della truffa: in teoria è a tempo determinato e part-time, prevede 4 ore a settimana di lavoro e 8.100 euro per 14 mensilità. In realtà, racconta Sara, si tratta "di un lavoro 6 su 7, festivi e domeniche incluse, sette ore e mezza al giorno per uno stipendio di 1.000 euro per un totale di circa 200 ore al mese. Ovviamente straordinari non pagati idem i festivi, sia chiaro. Già da qui si può intuire molto. Quasi 5 euro l'ora". L'altra cosa che si può facilmente intuire è che il resto delle ore, quelle da svolgere ma che non sono previste dal contratto, sarebbero state lavorate in nero.
Di qui la rabbia della donna: "Veramente vogliamo continuare a dire che il problema sono i giovani, il reddito, il non voler fare la gavetta, la mancanza di voglia? Davvero? Questo è sfruttamento […]Iniziate a pagare i dipendenti come si deve e vedrete che fila fuori i vostri locali" […]
La busta non paga. Report Rai. PUNTATA DEL 15/05/2023
di Bernardo Iovene
Collaborazione di Lidia Galeazzo e Greta Orsi
Le maggiori aziende della logistica utilizzano lavoratori dipendenti da cooperative e società esterne.
Il costo del lavoro per loro si riduce, addirittura per BRT vale solo l’8%. Le aziende esterne talvolta chiudono dopo due anni e riaprono con un altro nome a danno del lavoratore, che spesso viene pagato poco e perde i diritti dovuti. La Procura di Milano attraverso la GDF ha recuperato 170 milioni di euro di oneri non pagati da BRT, Geodis e DHL, che utilizzavano questo schema impiegando manodopera a basso costo. Ma anche in vari settori della Pubblica amministrazione si aggirano contratti nazionali e livelli di retribuzione e contributi: dai custodi dei musei ai vecchi LSU, lavoratori socialmente utili che avrebbero dovuto essere assunti stabilmente; fino ai magistrati onorari, la cui mancata regolarizzazione rischia di far saltare i soldi del PNRR previsti per il ministero della Giustizia. Infine, l’esempio degli istruttori sportivi: sono decenni che svolgono l’attività professionale presso impianti sportivi pagati come dilettanti senza diritti di ferie, malattie, maternità e contributi.
LA BUSTA NON PAGA di Bernardo Iovene Collaborazione Lidia Galeazzo, Greta Orsi Immagini di Paco Sannino Grafiche di Federico Ajello
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nell’ambito dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018 alla Corte di Appello di Venezia dopo gli interventi dei rappresentanti del Csm, del Ministero, dell’Ordine degli avvocati, dell’Anm e del procuratore, un giudice onorario denunciò di lavorare a nero per lo Stato.
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Dopo vent'anni di lavoro svolto senza la titolarità di diritti che normalmente distinguono un lavoratore regolare da uno in nero.
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Sono un lavoratore a nero dello Stato
BERNARDO IOVENE E fa il giudice
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA E faccio il giudice.
BERNARDO IOVENE Quanto guadagna al mese?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA 1500 euro al mese
BERNARDO IOVENE Non ha i versamenti INPS.
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Non ho i versamenti.
BERNARDO IOVENE Non ha la malattia riconosciuta, non ha niente.
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Non ho nulla. Nulla.
BERNARDO IOVENE Non ha niente?
LUIGI GIGLIO - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI VICENZA Non ho nulla, nulla
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I magistrati onorari sono avvocati che superano un concorso a titoli selezionati dal Consiglio superiore della magistratura, onorario significa temporaneo; infatti, la nomina dovrebbe durare tre anni più uno ma vista la carenza dei togati in migliaia ormai svolgono la funzione da oltre vent’anni, ma a cottimo, senza diritti di ferie, maternità malattia e senza contributi per la pensione.
LISA GUARNIERI - GIUDICE ONORARIA TRIBUNALE DI BOLOGNA Noi veniamo pagati a udienza, ma in realtà lavoriamo molto dietro tutti questi processi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oltre ai giudici onorai ci sono anche i pubblici ministeri denominati viceprocuratori onorari VPO, anche loro lavorano a cottimo, a udienza. BERNARDO IOVENE Cioè oggi In pratica in quest'aula c'era un giudice onorario e un pubblico ministero onorario. Cioè voi mandate avanti questa macchina di 30, 40 processi al giorno da giudici onorari?
ELENA NITTOLI - VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI BOLOGNA Assolutamente sì.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono i giudici di pace che trattano un 1 milione 300mila procedimenti civili, nella sezione penale si occupano di reati come lesioni, minaccia, diffamazione, piccoli furti, danneggiamenti, uccisioni di animali e una marea di piccoli reati che ingolferebbero i tribunali.
BERNARDO IOVENE Da quanti anni lavora?
MARIAFLORA DI GIOVANNI - GIUDICE DI PACE DI CHIETI Io da 27.
BERNARDO IOVENE Lo Stato non le ha mai versato un contributo?
MARIA FLORA DI GIOVANNI - GIUDICE DI PACE DI CHIETI Mai, e io ho lavorato in via esclusiva per lo Stato. Non ho fatto mai nient'altro che questo.
RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA In realtà siamo dei veri e propri lavoratori in nero.
BERNARDO IOVENE Lo stipendio si aggira più o meno.
RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Stiamo parlando di 1200 1.300 euro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I magistrati onorari sono dei semplici avvocati che non hanno però partecipato al concorso in magistratura, ne hanno fatto uno per titoli, sono selezionati dal CSM. Avrebbero dovuto occupare per un breve tempo il ruolo di viceprocuratori o di giudici e invece, a causa dell’ingolfamento della macchina della giustizia, di deroga in deroga sono durati 30 anni. Sono stati retribuiti dal Ministero della Giustizia con un'indennità che però non prevedeva il pagamento delle ferie, delle malattie, e soprattutto i contributi previdenziali. Poi invece c’è la storia dei giudici di pace, la loro è durata 27 anni, fino a che non è intervenuto il Comitato europeo dei diritti sociali, che ha detto: Stato italiano devi pensare a pagare i contributi previdenziali ai giudici di pace, altrimenti vìoli la Carta sociale dei diritti, la carta europea, e dice anche che i magistrati onorari devono essere equiparati nello stipendio a quelli togati perché semplicemente fanno lo stesso lavoro. Su questo ci sono anche sentenze della cassazione che vanno nella stessa direzione, però i governi che si sono succeduti fino a qui hanno fatto spallucce da mercante. E il Ministro Orlando, per esempio, ha tentato anche una riforma però è andata nella direzione opposta, ha tentato di limitare anche le prestazioni nel tempo, due a settimana, uno stipendio lordo di 16 mila euro ma tasse e contributi a carico del giudice onorario. Insomma, alla fine rimaneva sì o no 600 euro di stipendio. Ma la riforma è stata bocciata perché, secondo l’Europa, non rispettava le direttive sul lavoro in merito ai diritti e la retribuzione. L’Europa ha anche avviato una procedura di infrazione. Poi ci ha pensato la Cartabia, nel 2021 ha tentato la stabilizzazione ma a scaglioni e poi non ha equiparato lo stipendio ai togati ma li ha equiparati a semplici funzionari. Ora, se non prendiamo provvedimenti rischiamo delle conseguenze molto serie, molto più di quelle che immaginiamo e insomma le sta sottovalutando queste conseguenze anche l’attuale governo che quando era all’opposizione imbracciava il megafono per urlare più forte i diritti negati ai magistrati onorari. Il nostro Bernardo Iovene.
RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Un grande applauso perché è grazie a Fratelli d’Italia, è grazie al presidente Delmastro (che con quelle parole hanno messo spalle al muro il ministro della Giustizia)
RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Questo sono io. Non so più neanche in quale anno BERNARDO IOVENE E sta passando il Megafono nientemeno che alla Meloni,
GIORGIA MELONI ALLA MANIFESTAZIONE DEI MAGISTRATI ONORARI 23/12/2020 Da tempo abbiamo depositato una proposta banale semplice stabilizzazione per la magistratura onoraria fino alla pensione, trattamento equiparato ai magistrati togati. 4 È questa la domanda alla quale lo Stato non ha mai voluto rispondere. E quando ha risposto come l'ultima volta ha risposto il ministro Bonafede, le cose sono andate anche peggio.
RAIMONDO ORRU – GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Ero proprio fiducioso in attesa che potessero prendere le redini del governo. Oggi questo è avvenuto e diciamo siamo francamente imbarazzati invece dal dover sapere che il Ministero della Giustizia continua a parlare di volontari della giustizia in una sorta di caporalato, nascondendo all'Europa la vera essenza anche della riforma Cartabia.
BERNARDO IOVENE Lei lavora ancora a cottimo?
FABIANA PANTELLA - VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI ROMA Io lavoro ancora a cottimo.
MARIAELENA FRANCONE - GIUDICE ONORARIA TRIBUNALE DI ROMA Non abbiamo previdenza, non abbiamo malattia, non abbiamo al momento nessun tipo di tutela.
BERNARDO IOVENE Lei dovrebbe essere stata assunta.
MARIA PAOLA DI NICOLA - VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI TIVOLI (RM) Io dovrei essere stata assunta fra virgolette e sono fra i colleghi che sono senza compensi per quanto mi riguarda dal 12 gennaio.
PAOLA PIRAS - GIUDICE ONORARIA TRIBUNALE DI ROMA Sono in attesa di una riforma sulla quale ci tengono tutti appesi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'Europa si è espressa chiaramente. L'ultima lettera di messa in mora è del luglio 2022. La Commissione Europea ritiene che continui a esistere disparità di trattamento per i giudici onorari e quindi i magistrati onorari e i giudici togati sono lavoratori comparabili. Quando erano all'opposizione ne hanno chiesto conto all'infinito ai precedenti governi sia Meloni che l'attuale sottosegretario Delmastro, che ha proprio la delega alla giustizia.
ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Comprensibile anche per un ignorante come Bonafede che voi siete dipendenti avete un vincolo di subordinazione e come tali dovete essere trattati. BERNARDO IOVENE Era abbastanza chiaro no, bisogna applicare le sentenze europee, che voi siete equiparate ai magistrati. Rispetto a quello che diceva prima ha cambiato idea?
MARIA FLORA DI GIOVANNI - GIUDICE DI PACE DI CHIETI Sembrerebbe, ci si propone una gestione autonoma di Inps quando noi dovremmo avere la gestione ordinaria dell'Inps come l'hanno i magistrati.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oggi al governo né del Mastro né il presidente Meloni hanno ancora attuato la cosa semplice che pretendevano dai vecchi governi, tengono in vita la riforma Cartabia che da gennaio di quest’anno assume a scaglioni in tre anni i magistrati onorari con il trattamento economico dei funzionari amministrativi, un compenso che la Commissione Europea ha bocciato perché inadeguato.
BERNARDO IOVENE La Commissione Europea dice: dategli lo stesso stipendio dei magistrati…
MONICA CAVASSA – VICEPROCURATRICE ONORARIA PROCURA DI MILANO Di pari anzianità di tribunale perché fanno il Lavoro di magistrato naturalmente
BERNARDO IOVENE Perché fanno il lavoro di magistrati…
MONICA CAVASSA - VICEPROCURATORE ONORARIO PROCURA DI MILANO Esattamente. La legge invece ha inquadrato il magistrato professionalizzato onorario nella figura di funzionario amministrativo di Area tre. BERNARDO IOVENE Che vuol dire per noi umani...
MONICA CAVASSA - VICEPROCURATORE ONORARIO PROCURA DI MILANO Che vuol dire pochi soldi, la legge già è entrata in vigore. Però mancano le linee guida ministeriali per la fattività di questa legge. Il rischio è una procedura di infrazione che costerà all'Italia milioni di euro.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La riforma Cartabia ha previsto anche che i magistrati onorari prenderanno sempre la stessa cifra di stipendio, senza scatti fino a 70 anni.
RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Perché non si prevede alcun aggiornamento Istat. La cosa incredibile è anche questa.
BERNARDO IOVENE Che fino a 70 anni avrete lo stipendio se ci sarà bloccato…
RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Sempre lo stesso
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 6 Sempre la riforma Cartabia stabilisce che per il magistrato onorario assunto ci sia la rinuncia ad ogni pretesa conseguente al rapporto onorario pregresso, compreso i contributi mai versati per trent'anni. Anche questo è contestato dall'Europa.
RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Cioè il datore di lavoro ci ha detto. Vuoi proseguire in queste funzioni? Devi rinunciare a tutto quello che hai maturato, cioè vent'anni. Non raggiungeremo mai il minimo per acquisire una pensione, forse avremo la pensione sociale.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Davanti a questa situazione i magistrati onorari continuano a scioperare ed allora l’equiparazione economica con i togati viene chiesta al Ministro della Giustizia in un’interrogazione proprio dalle fila della maggioranza, dall’On. Lupi, ma la risposta affidata al viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto gela i giudici onorari.
MAURIZIO LUPI – DEPUTATO - PRESIDENTE NOI CON L’ITALIA Mi piacerebbe stendere un velo pietoso. Si, sintesi della risposta: Vedremo, faremo un tavolo, prendere del tempo secondo me lo dico al mio amico Sisto è un errore.
BERNARDO IOVENE Lei saprà anche che Delmastro e la Meloni sono stati sempre sulle barricate a favore dei giudici di pace quando erano all'opposizione.
MAURIZIO LUPI – DEPUTATO - PRESIDENTE NOI CON L’ITALIA E va beh, adesso siamo in maggioranza, risolviamo i problemi, l’appello e risolviamo i problemi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E a risolverli ironia della sorte spetta proprio al sottosegretario alla giustizia Delmastro che inveiva dall’opposizione contro l’ex ministro che chiamava malafede e ignorante.
ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Comprensibile anche per un ignorante come Malafede che voi siete dipendenti con vincolo di subordinazione e come tali dovete essere trattati.. BERNARDO IOVENE È semplice dall’opposizione…
ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA La stupirò con effetti speciali noi continuiamo a considerare così anche al Governo e su quello stiamo lavorando..
BERNARDO IOVENE Lei si è coordinato anche con Sisto. Perché Sisto il viceministro ha dato una risposta…
ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Guardi io capisco, capisco la battuta e so peraltro che voi siete generalmente molto ficcanti e salaci nelle battute. Il viceministro Sisto ha dato una risposta a legislazione invariata, che non poteva che essere quella, che è la fotografia di ciò che sono oggi. Stiamo lavorando per una riforma strutturale della magistratura onoraria. Stabilizzazione nelle funzioni fino a settant'anni, un trattamento economico, retributivo, pensionistico, assistenziale degno di questo nome con equiparazione ai magistrati togati e non come hanno fatto in passato ai funzionari amministrativi.
BERNARDO IOVENE Lei si sente coerente rispetto a quello che diceva prima insieme al Presidente Meloni all'opposizione…
ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Dato che lei è di una simpatia straordinaria gliela ribalto, mi dica un punto dove non sono coerente rispetto a quello che ho detto lì
BERNARDO IOVENE L’Importante che poi le faccia le cose.
ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE - SOTTOSEGRETARIO DI STATO ALLA GIUSTIZIA Questo è un altro discorso ancora.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto il sottosegretario ha già fissato dei punti con i sindacati dei magistrati onorari. L'intenzione è riconoscere una retribuzione pari ai magistrati togati, 72.000 euro netti l'anno. Ma le proteste continuano.
BERNARDO IOVENE Delmastro vi ha fissato 12 punti ma voi continuate a protestare?
RAIMONDO ORRU - GIUDICE ONORARIO TRIBUNALE DI ROMA Le proteste che noi porteremo avanti e continueremo a portare avanti e se nulla si farà. Temiamo fortemente i poteri forti, che continuano sicuramente ad essere presenti all'interno del Ministero.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I giudici onorari ipotizzano che 30 anni di questo impasse sarebbe dovuto anche alle resistenze dei magistrati ordinari che sono distaccati al Ministero della Giustizia, così come in passato si opponeva alla loro stabilizzazione l’Associazione Nazionale dei Magistrati togati, in quanto li hanno sempre considerati onorari e quindi con una funzione temporanea.
GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI E di fatto li hanno professionalizzati. Quindi il carattere onorario…
BERNARDO IOVENE È caduto…
GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI È venuto meno perché un carattere tipico dell'onorarietà e la temporaneità, la ministra della giustizia professoressa Cartabia li ha stabilizzati ovviamente li ha stabilizzati nel ruolo onorario, rimarranno fino all'età pensionabile magistrati onorari, quindi una stabilizzazione nella onorarietà, una contraddizione in termini una cosa tutta italiana.
BERNARDO IOVENE Però voi non vi mettete più di traverso come è successo negli anni passati.
GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI l'Associazione magistrati ha sempre detto in magistratura si entra per concorso, la magistratura onoraria è una realtà diversa
BERNARDO IOVENE Quindi voi siete per la comparabilità economica tra…
GIUSEPPE SANTALUCIA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI No, c'è una differenza sono magistrati onorari non fanno lo stesso mestiere.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Spetta al governo che innanzitutto deve rispondere all’Europa, perché la procedura è avviata se non ci sarà la comparazione ai magistrati ordinari sono pronti a sanzionarci.
BERNARDO IOVENE Che cosa rischia lo Stato italiano?
VINCENZO DE MICHELE - AVVOCATO Il blocco completo dei fondi del PNRR.
BERNARDO IOVENE Su queste sentenze? VINCENZO DE MICHELE - AVVOCATO Su queste sentenze.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, rischiamo oltre la multa il blocco del PNRR. Bisogna risolvere il problema di 4.500 magistrati onorari che hanno contribuito allo svolgimento regolare della giustizia in questi anni partecipando a circa due milioni di processi tra civili e quello penale. Lo hanno fatto a fianco di quelli togati ma con una retribuzione di 1200 -1300 euro senza ferie, malattie né previdenza pagati. Ora la Cartabia aveva tentato, ha abolito sostanzialmente il criterio di temporaneità e li ha stabilizzati ma non ha, li ha equiparati ai magistrati togati nello stipendio bensì ai funzionari e in cambio ha anche chiesto loro di rinunciare a 30 anni di diritti acquisiti. Ora, il sottosegretario alla Giustizia Delmastro che quei diritti negati li urlava al megafono, oggi che è al governo è un po' più timidino, li ha messi nelle buone intenzioni però ha promesso che li approverà, vedremo. Mentre molto più rigidi sono quelli dell’Associazione nazionale dei magistrati, i togati che dicono: noi siamo una cosa diversa. Insomma, è vero però i magistrati onorari hanno fatto lo stesso lavoro e rischiano di non poter godere di una pensione dignitosa, rischiano la pensione sociale. Un po' come i lavoratori socialmente utili. Erano ex cassaintegrati, licenziati o disoccupati. Nascono come fenomeno a metà degli anni Ottanta, hanno il boom nel ‘95 quando diventano un vero e proprio serbatoio di mano d’opera per quei comuni che sono vincolati al patto di stabilità e senza risorse ma poi vengono utilizzati nelle regioni, nelle province, anche nei tribunali. Insomma, viene creato un mostro giuridico per 40 mila persone che vengono pagate semplicemente con un contributo da 580 euro, senza contributo per modo di dire perché i contributi non ci sono, sono solo figurativi. Doveva essere temporaneo, anche là è durato 25 anni. Nel 2020 finalmente lo Stato ha detto: guardate assumeteli questi lavoratori socialmente utili, vi diamo un contributo di 9.300 euro l’anno e il resto poi ce lo mettete voi. Ecco, come è andata a finire?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dal 2020 i lavoratori socialmente utili quasi tutti sono diventati dipendenti degli enti pubblici dove hanno prestato servizio per 25 anni con un sussidio di 580 euro al mese. Adesso ricevono uno stipendio, in parte con un incentivo dello Stato e la restante parte toccava ai comuni che, sempre in dissesto, non hanno soldi e quindi sono dipendenti a ore con lo stesso stipendio di prima ma tassato.
ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Dopo 25 anni.
BERNARDO IOVENE Fino a poco tempo fa quanto prendeva al mese qua dentro?
ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Quasi 600 euro
ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Poi da quando sono inquadrati …
BERNARDO IOVENE È un paradosso
ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) È sì si è ridotto anche la mensilità perché su quei soldi stanziati noi ci paghiamo anche i nostri contributi.
BERNARDO IOVENE Prima non vi versavano i contributi adesso vi versano i contributi su pochissime ore
ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) E Li paghiamo noi.
BERNARDO IOVENE quindi si arriva a 430 euro.
ANDREA CIRILLO - DIPENDENTE COMUNE ORTA DI ATELLA (CE) Si questo è il nostro mensile ci siamo ridotti ancora peggio di prima.
FRANCO ARENA - DIPENDENTE COMUNE DI ORTA DI ATELLA (CE) Con questa legge ci hanno messo 11 ore settimanali, faccio il messo comunale adesso prendiamo 430 euro al mese. Abbiamo fatto 25 anni di lavoratori socialmente utili senza percepire i contributi, e quindi questo aspetto contributivo adesso si riversa pure sulla pensione.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La signora Angela e la signora Maria sono state assunte invece a 18 ore settimanali al Comune di Castello di Cisterna.
ANGELA ESPOSITO - DIPENDENTE COMUNE CASTELLO DI CISTERNA (NA) Io collaboro con l'ufficio tecnico.
BERNARDO IOVENE Da quanti anni.
ANGELA ESPOSITO - DIPENDENTE COMUNE CASTELLO DI CISTERNA (NA) Dal ‘95.
BERNARDO IOVENE Adesso finalmente vi hanno stabilizzato?
ANGELA ESPOSITO - DIPENDENTE COMUNE CASTELLO DI CISTERNA (NA) Si a 18 ore
BERNARDO IOVENE A 18 ore quindi uno stipendio di..
MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) 618.
BERNARDO IOVENE 618 se vogliamo essere precisi
MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) 618 euro.
BERNARDO IOVENE Signora, lei quanti anni ha?
MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) Io 60?
BERNARDO IOVENE La sua vita contributiva?
MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) Zero! Mi sono fatta fare un estratto contributivo dall’Inps e. Andrei a prendere 270 euro di pensione dopo aver lavorato 27 anni in un Comune.
BERNARDO IOVENE Lei che mansioni svolge?
MARIA CARMELA VAIA - DIPENDENTE COMUNE DI CASTELLO DI CISTERNA (NA) Io lavoro nel Comando Polizia Municipale di Castello di Cisterna.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Fratta Minore, il Comune assunto gli ex LSU a 20 ore settimanali.
BERNARDO IOVENE Quanto prende?
DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Con le 800 euro al mese non ci facciamo niente, siamo costretti sempre a svolgere attività di lavoro nero, lavoro sommerso. Siamo proprio obbligati. BERNARDO IOVENE Quindi lei. Fa le 20 ore al Comune…
DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Faccio le 20 ore al comune e tutto quello che riesco a fare in nero lo faccio tranquillamente senza preoccuparmi né delle forze dell'ordine. Io sono Cristofaro Domenico
BERNARDO IOVENE Ci sta mettendo pure la. Faccia dicendo che lavoro pure a nero.
DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Io ci metto la faccia tranquillamente, ce l'ho sempre messa la faccia. Abbiamo dovuto anche subire delle pressioni degli amministratori facendo, qualche lavoretto anche a casa di qualcuno.
BERNARDO IOVENE Vi hanno sfruttato pure così…
DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) Hanno sfruttato anche personalmente alcuni amministratori BERNARDO IOVENE Ma, vi davano qualche mancia
DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) No no durante l'orario delle LSU abbiamo svolto…
BERNARDO IOVENE Lavori a casa…
DOMENICO CRISTOFARO - DIPENDENTE COMUNE FRATTAMINORE (NA) A casa di qual che amministratore lo dico qua e lo posso dire anche in altre sede.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tralasciando il pregresso attualmente i Comuni pagano gli ex LSU, oggi dipendenti comunali, quasi esclusivamente con l'incentivo statale che è di 9.300 euro l'anno.
MIMMO CHINELLI – RESPONSABILE USB ENTI LOCALI REGIONALE CAMPANIA La maggior parte degli enti sono in dissesto in riequilibrio finanziario, l'incentivo va al lavoratore quindi automaticamente l'ente dovrebbe metterci poi gli oneri accessori ma purtroppo molti hanno utilizzato queste questo incentivo coprendo tutto
BERNARDO IOVENE Lordi praticamente.
MIMMO CHINELLI – RESPONSABILE USB ENTI LOCALI REGIONALE CAMPANIA Esattamente.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Al comune di Melito di Napoli oltre a quello statale il giovane e nuovo sindaco si aspettava anche l’incentivo regionale da destinare ai lavoratori socialmente utili, l’abbiamo incontrato pochi giorni prima che fosse arrestato per presunti accordi elettorali politici mafiosi.
LUCIANO MOTTOLA - SINDACO DI MELITO (NA) 2021 - 2023 Inizialmente era previsto un doppio contributo uno dello Stato e uno della Regione Campania. Quello della Regione Campania improvvisamente scomparve per essere onesti. E ci trovammo naturalmente ad assumere questi lavoratori con delle percentuali minime.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Uno dei pochi Comuni che invece ha assunto i lavoratori socialmente utili al 100%, con le 36 ore settimanali, è stato quello di Napoli quando c'era il sindaco De Magistris.
LUIGI DE MAGISTRIS - SINDACO DI NAPOLI 2011-2021 Non era nel mio programma elettorale perché una di quelle cose che era difficile poter ipotizzare e si riusciva a realizzare; invece, ce l'abbiamo fatta e ripeto erano 23 anni che invece queste persone ascoltavano solo promesse elettorali che poi rimanevano come tali.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Come la signora Anna, eccola quattro anni fa lavoratrice socialmente utile era addetta allo spazzamento per il Comune e oggi è dipendente al 100% in una scuola comunale.
BERNARDO IOVENE Era allo spazzamento aveva la tuta arancione.
ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Bravo, adesso so tutta blu
BERNARDO IOVENE è contenta?
ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Sì, perché sto con i bambini sono stata assunta tre anni fa, a 60 anni, io non andrò in pensione perché non avrò nemmeno forse quella sociale.
BERNARDO IOVENE Che stipendio prende?
ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI 1200.
BERNARDO IOVENE Adesso ha le ferie no?
ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Sì tutto.
BERNARDO IOVENE Ha le malattie. 14
ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Tutto, è stato veramente bello e non ci voglio pensare ancora la pensione ci devono pensare i Governi.
BERNARDO IOVENE Io da una parte le faccio gli auguri.
ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI Grazie. Auguri a tutti gli LSU, ex.
BERNARDO IOVENE Perché finalmente comunque ha riconquistato…
ANNA AMBROSINO - DIPENDENTE COMUNE DI NAPOLI La dignità vede io sto più dritta, non ho parole…. Niente basta.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Queste persone negli enti locali sono stati retribuiti con un sussidio con contributi non versati ma solo figurativi.
BERNARDO IOVENE Quanto prende di pensione signora?
MARIA LIBERA CAPASSO - PENSIONATA vado a Prendere 470.
BERNARDO IOVENE Di pensione, quanti hanno lavorato.
MARIA LIBERA CAPASSO - PENSIONATA 26 anni.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La signora Filomena invece ha lavorato 20 anni in fabbrica anni poi licenziata è stata 25 anni al comune di Scisciano come Lavoratrice socialmente Utile, oggi è in pensione.
BERNARDO IOVENE Il suo estratto INPS no? Allora lei ha iniziato a lavorare nel 1974 e dove praticamente le versavano tutti i contributi?
FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Esatto.
BERNARDO IOVENE Quando è diventata lavoratrice socialmente utile, sussidio di disoccupazione non ci sono più contributi
FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Bravissimo. Praticamente 25 anni senza contributi
BERNARDO IOVENE Senza contributi.
FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Prendendo una pensione non dignitosa.
BERNARDO IOVENE E quindi prende quanto ha detto.
FILOMENA ESPOSITO - PENSIONATA Attualmente 630.
BERNARDO IOVENE di pensione.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo chiesto al presidente dell’Inps, che ha studiato a fondo la situazione degli LSU qual potrebbe essere la soluzione per evitare un futuro di povertà.
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Purtroppo, hanno la copertura figurativa dei contributi.
BERNARDO IOVENE Vuol dire cioè io ti do gli anni per arrivare alla pensione. Ma non…
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Ma non il quantum. Quindi sarà una pensione molto povera se ci arrivano.
BERNARDO IOVENE Quindi questi lavoratori si devono rassegnare a fare una vecchiaia in povertà.
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 La legge dà loro la possibilità di fare il riscatto oneroso per loro. BERNARDO IOVENE Facciamo un conto quanto, quanto dovrebbe essere all'anno.
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Ma costa intorno a 5.000 euro all’anno
BERNARDO IOVENE Quindi vent'anni sono 100.000 euro?
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Sì, se sono vent'anni, si, alternativamente, come dire, si potrebbe pensare anche alla creazione di un fondo pubblico per la copertura di questi contributi, ammonterebbe a circa 200 milioni di euro.
BERNARDO IOVENE Quindi insomma, lo Stato, se volesse risolvere questa situazione, deve mettere 200 milioni.
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Alternativamente, come dicevamo prima, lo devono pagare. BERNARDO IOVENE Quindi la soluzione è questa?
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Non ce ne sono altre.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Alla fine dopo averli tenuti per 25 anni in un limbo giuridico, senza aver versato un euro di contributi, la soluzione e fargli prendere una pensione dignitosa, sono due le soluzioni: una o lo Stato investe in un fondo pubblico fondo pubblico di 200 milioni di euro oppure deve pensarci il singolo lavoratore socialmente utile a riscattare i 25 anni versando fino a centomila euro! Centomila euro per chi ha potuto godere di un sussidio da fame sostanzialmente. Quando sono stati assunti hanno anche tirato un sospiro di sollievo tranne poi vedere la prima busta paga che era la cifra, grossomodo la stessa, anche al lordo dei contributi da versare. Ora prima o poi bisognerà che qualcuno ci pensi anche a questa situazione. Come pensi anche alla situazione in cui lavorano nella logistica. Da sola vale l’8%, anzi più dell’8% del pil nazionale, ci lavorano 82 mila aziende conto terzi, 1 milione e 400 persone. Ma in quali condizioni?
MANIFESTANTI Lavoro, diritti, dignità. Lavoro, diritti, dignità.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questa è una delle piattaforme di Italtrans in provincia di Bergamo da dove centinaia di tir ogni giorno partono per rifornire le catene dei supermercati italiani. I Lavoratori in appalto da cooperative esterne che lavorano nei magazzini sono 700, quelli iscritti al sindacato USB chiedono più salario, una mensa che non c’è, e più diritti.
OPERAIO IN SCIOPERO Non si può mantenere una famiglia…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Hanno bloccato i cancelli ai Tir in entrata, creando una coda di chilometri ed è intervenuta la polizia.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Hanno bloccato i cancelli ai tir in entrata, creando una coda di chilometri ed è intervenuta la polizia.
ELISA FORNONI - RESPONSABILE USB BERGAMO Abbiamo fatto tre scioperi qui fuori ai cancelli e tre volte c'è stato l'intervento delle forze dell'ordine.
BERNARDO IOVENE Perché bloccate i camion che passano?
ELISA FORNONI - RESPONSABILE USB BERGAMO Picchetto. Per sciogliere il picchetto c'è l'intervento delle forze dell'ordine.
OPERAIO Non siamo animali, siamo solo persone che chiediamo i nostri diritti, chiediamo il buono pasto in pace.
BERNARDO IOVENE Voi siete tutti dipendenti di cooperative?
OPERAI Si si
BERNARDO IOVENE Se tu vai in malattia?
OPERAIO I primi tre giorni non vengono pagati.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi c'è il problema del carico di lavoro
ROBERTO MONTANARI – SINDACALISTA USB PIACENZA In 8 ore un lavoratore movimenta 30 tonnellate di merci.
OPERAIO Il lavoro è molto pesante, fino a 20-25 chili di pezzi che dobbiamo prendere. Loro stanno chiedendo 180 colli all’ora, non è non è possibile per farlo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La dirigenza aziendale è presente al completo sul posto.
BERNARDO IOVENE Salve.
ITALTRANS Se desidera da fare un'intervista con qualcuno di noi siamo disponibili.
BERNARDO IOVENE Volentieri, voi siete?
ITALTRANS L’Italtrans.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ci invitano quindi a fare una visita guidata nei capannoni, i lavoratori che caricano i pacchi sul muletto sono tutti esterni in appalto dalle 10 cooperative, normalmente ci dice il direttore caricano senza problemi fino a 150 pacchi all’ora a fronte degli 80 che oggi chiedono gli scioperanti.
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Questo è uno dei colli che si fa.
MATTEO TESTA - DIRETTORE RISORSE UMANE ITALTRANS SPA Questo è uno dei colli, questo è uno dei colli.
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Poi c’è anche questo qua e questo qua. E negli 80 colli c’è dentro anche questo che puoi fare così guarda, questi son sei. Poi c'è anche il cartone di vino per l'amor di Dio.
BERNARDO IOVENE 80 colli all’ora?
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA 80 colli. All’ora io li faccio in un quarto d’ora. Io accetterei a 160 colli perché se ne faccio 200 che si possono fare porto a casa 3-400 euro al mese in più.
MATTEO TESTA - DIRETTORE RISORSE UMANE ITALTRANS SPA Oggi ci sono circa 850 persone. Complessivamente un centinaio sono dipendenti nostri che svolgono altre mansioni.
BERNARDO IOVENE È chiaro che a voi conviene?
MATTEO TESTA - DIRETTORE RISORSE UMANE ITALTRANS SPA E’ un modello organizzativo che ormai è in essere da diversi anni. Credo che l'importante sia il rispetto della legalità.
BERNARDO IOVENE Lamentano straordinari non pagati.
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Sono in 40 che si lamentano allora chiediamo agli altri 750 vediamo cosa dicono.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ci propongono quindi di intervistare un dipendente di cooperativa che non sciopera.
BERNARDO IOVENE I colleghi che stanno protestando non sono nella tua cooperativa.
OPERAIO No, sono anche loro fa parte della nostra cooperativa, ognuno è libero di fare quello che vuole nella vita ma per quanto riguarda me ripeto io sono a posto.
BERNARDO IOVENE Tu non hai l'esigenza di avere una mensa qua dentro.
OPERAIO No, sinceramente io no, sono a posto così.
BERNARDO IOVENE La malattia, ti è mai capitato di andare in malattia?
OPERAIO Io in cinque anni, mai fatta.
BERNARDO IOVENE Mai fatto malattia, quindi non hai avuto problemi perché…
OPERAIO Non ho avuto problemi perché..
BERNARDO IOVENE Perché non li crei i problemi.
OPERAIO Quello è, hai già capito tutto, io vengo qua per lavorare e alla fine prendo quello che mi tocca perché lavoro.
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Al sentirti dire dal figlio di puttana la gente fuori che sarei io, il figlio di puttana che fa lavorare la gente non è una bella cosa. Se sono rappresentati da gente, che non hanno mai lavorato. È dura ragazzi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per Italtrans complessivamente lavorano 3000 persone e soltanto 300 sono dipendenti diretti gli altri 2700 dipendono da una dozzina di cooperative e società esterne.
ELISA FORNONI - RESPONSABILE USB BERGAMO Chiaramente loro sono assunti da dieci aziende dieci cooperative diverse hanno dieci trattamenti diversi c'è chi viene pagata la malattia al 100 chi al 70.
BERNARDO IOVENE Tu lavori per una cooperativa?
OPERAIO Io lavoro per la Novecento. Ci sono ancora persone che sono quattro anni che sono qua a lavorare, hanno ancora contratto part time e pretendono che si fermano a fare gli straordinari. OPERAIO Noi al minimo facciamo 10 o 12 ore al giorno. Poi alla fine a fine mese troviamo la busta paga di 1.000, 1.200, 1.300 euro. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’azienda rispetto a questi lavoratori ha pochi obblighi, infatti qui con 800 lavoratori non c’è mensa, e per questo che chi protesta chiede 8 euro al giorno di ristoro.
OPERAIO Non c'è la mensa cioè i salari devono aumentare almeno di 280 euro al mese.
BERNARDO IOVENE Loro chiedono 8 euro.
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA 8 euro non si sa perché lo chiedono, è impensabile dare. C'è un contratto.
BERNARDO IOVENE Che non prevede la mensa.
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Non lo prevede
BERNARDO IOVENE Lei ha 100 dipendenti ma ne ha 800. Non ha mai pensato di assumere tutti?
CLAUDIO BELLINA - TITOLARE ITALTRANS SPA Tutte le società che lavorano qua dentro, ognuno si gestisce il personale suo. Noi saremmo oggi anche in difficoltà ad assumere tutte queste persone, perché serve una struttura.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il 90% del personale è più conveniente che venga gestito da società esterne.
SINDACALISTA AL MEGAFONO Due lavoratori sono stati licenziati in questi giorni.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infatti, solo dopo qualche giorno una di queste società ha inviato ai delegati sindacali delle USB una lettera di licenziamento immediato e un’altra di contestazione con sospensione intercettando dei messaggi WhatsApp tra i lavoratori. E quindi è ripreso il blocco dei tir in entrata e in uscita.
LAVORATORE AL MEGAFONO Vogliamo dentro i nostri fratelli che sono stati ingiustamente licenziati.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è intervenuta di nuovo la polizia. A parte questa situazione di conflittualità ci sono migliaia di cooperative, società serbatoi di mano d’opera, che chiudono dopo 2 anni frodando sia il fisco che il lavoratore. È quello che è successo a Simone, nome di fantasia, che lavora per BRT ma attraverso una società esterna che gli ha addebitato le rate del furgone facendogli credere che poi diventava suo.
LAVORATORE BRT C’è la rata 400 euro, Trentatreesima rata sul 65.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E poi hanno sempre consegnato buste paga che non corrispondevano al reale pagamento.
BERNARDO IOVENE Cioè quello che c'è scritto sulla busta paga non è quello che ti versano in banca
LAVORATORE BRT No, No no
BERNARDO IOVENE è sempre meno
LAVORATORE BRT Meno, meno, meno.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio, su una cifra accumulata con le consegne di 3. 373 euro gli toglievano oltre agli oneri anche le spese.
LAVORATORE BRT Rata del mezzo 400 euro, assicurazione 164 euro, cessione del quinto.
BERNARDO IOVENE Gasolio.
LAVORATORE BRT 22 Gasolio 795 che lui ha speso, 180 di gomme, è questo è quello che lui ha guadagnato a giugno 2022, lui ha guadagnato 264 euro, quello che è, però in busta paga dice eh… la busta paga è completamente farlocca.
BERNARDO IOVENE Cioè qui dicono 1.963 che lui non ha mai incassato?
LAVORATORE BRT No
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Su quest’altra il fatturato del suo lavoro 3.881 euro arriva a una paga reale di 950 euro.
BERNARDO IOVENE Gli è rimasto 950.
LAVORATORE BRT Tu hai guadagnato questo?
LAVORATORE BRT Sì, sì.
BERNARDO IOVENE E invece risulta?
LAVORATORE BRT 1.600
BERNARDO IOVENE 1.612
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Attualmente Brt, colosso multinazionale dei trasporti, su richiesta della procura di Milano è in amministrazione giudiziaria per frode fiscale e stipula di fittizi contratti di appalto di manodopera. Ha subito un sequestro di 68 milioni di euro, l’operazione ha colpito anche Geodis l’altra multinazionale della logistica e un’azienda intermediaria. Complessivamente lo stato ha recuperato 126 milioni di euro.
BERNARDO IOVENE Quindi 126 milioni di euro
EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO 126 milioni di euro
BERNARDO IOVENE Di chi stiamo parlando?
EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO Attualmente nelle casse dello Stato. Brt e Geodis.
BERNARDO IOVENE Brt ex Bartolini?
EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO Ex Bartolini, che sostanzialmente utilizzavano manodopera a bassissimo costo e in modo illecito, detraggono l'IVA senza averne titolo e soprattutto spesso le buste paga sono state in qualche modo manomesse. Le società che costituiscono il serbatoio della manodopera sono delle società costituite per avere una vita breve non più di tre anni. Scompaiono in modo da essere difficilmente rintracciabili, soprattutto per il fisco. In mezzo ci sono i nuovi schiavi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I nuovi schiavi sono stati trovati anche in DHL, che ha subito un sequestro da parte della Guardia di Finanza di Milano di 25 milioni, più 35 di interessi e sanzioni, per un totale di 60 milioni di euro.
EMILIO PALERMO – TENENTE COLONNELLO GUARDIA DI FINANZA - MILANO Siamo riusciti a coniugare da un lato la tutela degli interessi dell'erario. Dall'altro lato, DHL ha già assunto 1500 dipendenti. E non solo hanno presentato un piano d'accordo con l'autorità giudiziaria per l'assunzione di ulteriori 1500 lavoratori dipendenti.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è quello che auspica il signor Antonio, che consegna e veste nei panni DHL, ma è ancora dipendente da una società esterna.
BERNARDO IOVENE Viaggiate come DHL. Noi percepiamo che voi siete DHL e invece non dipendente da DHL.
ANTONIO GIGLIO - ABACO TRASPORTI SRL Non dipendiamo da DHL. L'auspicio da lavoratore è quello che un domani, oggi io ho quasi 52 anni, un domani che DHL ci assuma in modo diretto, sarebbe un fatto gratificante per noi, perché comunque noi siamo il corriere DHL.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A 52 anni glielo auguriamo. La Guardia di Finanza è riuscita nella nobile impresa di recuperare quello che non era stato pagato in tasse dunque per il welfare, per la sanità, per la difesa dei più fragili da una parte e dall’altra anche, in alcuni casi, a far assumere quei lavoratori precari dietro ai quali si sono, alle spalle dei quali si sono consumate vere e proprie porcate. Abbiamo visto anche buste paga da 1900 euro, ridursi poi quando vai a vedere quello che ti versavano sul conto a 260 euro. Questo perché nella busta paga facevano scontare ai lavoratori anche le rate per l’acquisto dei mezzi sui quali trasportavano le merci e che credevano poi fossero di proprietà loro, alla fine. Ecco tutto questo è potuto accadere perché mancano i controlli e grazie al meccanismo di questi contratti che favoriscono le disuguaglianze, la precarietà, la 24 mancanza di diritti, dell’osservazione di diritti sul lavoro. Tutto questo in nome della flessibilità. Il padre della flessibilità e della precarietà può essere identificato in Tiziano Treu, un Ministro del Lavoro nel 1997, dei governi Prodi, Dini e Prodi poi commissario INPS del governo Renzi. Ecco è l’uomo che ha introdotto, dopo che era stato abolito nel 1960, il concetto di interposizione di manodopera. Aveva aperto alla flessibilità e questo era un bene ma, introducendo l’interposizione di manodopera, ha consentito che qualcuno guadagnasse alle spalle dei lavoratori, insomma, come fossero degli schiavi. Poi questo concetto di precarietà, di flessibilità è stato ampliato da Biagi nel 2003, la legge Biagi che con l’articolo 29 ha addirittura scaricato tutte le responsabilità che poteva avere il committente sul mediatore, l’interposizione, colui che assumeva poi di fatto i lavoratori. Ecco, questo meccanismo ha consentito che molte cooperative diventasse lo strumento per offrire lavoro a basso costo. Sono proliferate così migliaia di imprese, migliaia di cooperative anche spurie, hanno applicato dei contratti subdoli, mortificando la dignità dei lavoratori. Spesso queste cooperative sparivano, erano intestate a prestanome, a stranieri che non si ritrovavano neppure più e i lavoratori passavano poi in mano ad altre cooperative con condizioni economiche peggiorate, calpestando ogni dignità. E a proposito di dignità siamo il Paese che ha il più vasto patrimonio culturale e artistico al mondo, abbiamo la bellezza di 3.400 musei, 2.100 parchi archeologici, 43 siti Unesco. Investiamo sulla formazione degli operatori culturali, quando poi c’è da valorizzare questi beni, applichiamo loro il contratto di vigilanti, vigilantes!
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Verona, città d’arte, nei musei civici, oltre ai dipendenti comunali lavorano anche 65 operatori museali dipendenti e soci di una cooperativa che è vincitrice di una gara d’appalto, la maggior parte sono giovani laureati, conoscono le lingue e sono specializzati nella materia dei beni culturali.
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Sono un operatore museale a Verona. Presto servizio presso la Casa di Giulietta, l'Arena, Castelvecchio.
BERNARDO IOVENE Il vostro contratto? Quello reale, quale deve essere?
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Federculture.
BERNARDO IOVENE Quanti di voi hanno questo tipo di contratto?
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Nessuno.
BERNARDO IOVENE Che tipo di contratto avete?
OPERATORE MUSEALE DI VERONA 25 Abbiamo il contratto fiduciario che sono gli operatori di sorveglianza non armata nei musei e la paga è di 4 euro l'ora.
BERNARDO IOVENE 4 euro l'ora?
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Più o meno quattro 4 euro.
OPERATRICE MUSEALE DI VERONA Io guadagno all'incirca 1000, 1100 quando va bene. Un contratto del genere, una paga oraria così bassa pensavo non esistesse neanche più una cosa del genere al giorno d'oggi.
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Ci sentiamo sfruttati, presi in giro. Comunque, tanti di noi sono laureati anche nell'ambito artistico e dei beni culturali e non ci sentiamo per nulla valorizzati.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La cooperativa “Le macchine celibi” di Bologna ha vinto l’appalto con il comune di Verona applicando un contratto multiservizi, quello per gli addetti alle pulizie, quindi già penalizzante, ma poi in corsa, senza accordi, unilateralmente, ha peggiorato il contratto in quello della vigilanza, si chiama “servizi fiduciari” che prevede paghe da 4 euro all’ora. Ma il fatto che più ci indigna è che dei lavoratori sino costretti a raccontare la loro condizione di sfruttamento incappucciati. Come fossero dei mafiosi pentiti.
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Ci tolgono il posto di lavoro.
BERNARDO IOVENE Cioè se voi ci mettete la faccia. La cooperativa vi licenza?
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Non solo la cooperativa ma anche il Comune
BERNARDO IOVENE Però lei mi diceva che avete un sindacato. Posso parlare con un sindacalista?
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Guardi le posso assicurare che non si esporrà proprio perché la paura è forte BERNARDO IOVENE Il sindacato? Non ci mette la faccia?
OPERATORE MUSEALE DI VERONA Il sindacalista guardi penso che la paura è forte soprattutto della direzione museale, molto forte perché hanno questo sistema di minacce di ricatto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La paura è forte ma è strano che nemmeno il delegato della CGIL a cui abbiamo chiesto un’intervista ha voluto metterci la faccia, allora siamo andati nella sede provinciale della CGIL, dove ci hanno fatto parlare con la segretaria del settore Turismo e servizi della Filcams, ma ci avvisa subito che non ha intenzione di fare il nome della Cooperativa.
BERNARDO IOVENE Perché non fare il nome?
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA No, non faccio il nome dell'azienda dai non faccio il nome. Parliamo di Comuni di appalti.
BERNARDO IOVENE Senza fare nomi.
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Ma no, non faccio il nome dell'azienda. ERIKA CATINI –SINDACALISTA FILCAMS CGIL - VERONA Beh, lui penso che lo dirà…
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Va be se lo dirà lui…
BERNARDO IOVENE Ma son loro he hanno cambiato contratto da Multiservizi a fiduciari e quindi dico…
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Ho capito ma è sempre una questione di appalti
BERNARDO IOVENE Ma non fare il nome che cosa comporta il nome visto che se hanno fatto una cosa, hanno fatto una cosa lecita no?
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Hanno fatto una cosa lecita dovevano farla insomma col sindacato ma noi non siamo stati d'accordo.
BERNARDO IOVENE E quindi voi cosa fate invece di denunciarli non fate i nomi? Addirittura, i delegati sindacali non ci mettono la faccia perché hanno paura.
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Beh, su questo io non sono d'accordo perché non è vero.
BERNARDO IOVENE A me hanno detto no.
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Eh, vabbè in televisione dai… adesso insomma…
BERNARDO IOVENE Vuol dire che in questo settore c'è una sorta di forma di ricatto verso i lavoratori che magari rivendicano un diritto no? Dico ci dobbiamo abituare a questo?
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA No, assolutamente. Finché ci saranno le retribuzioni a 4 euro, ogni azienda cercherà ovviamente di portarsi a casa il risultato per sé stessa. Si è impoverito il lavoro in Italia, questo è il problema.
BERNARDO IOVENE Tornando al caso di Macchine Celibi non hanno fatto niente di straordinario loro, hanno fatto quello che fanno tutti?
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Mi sta registrando? Adesso io come posso dire che fanno come tutti? Come posso dirlo? Hanno fatto i loro conti e quindi hanno deciso di cambiare il contratto nazionale da Multiservizi a Vigilanza privata. Così si può dirlo?
BERNARDO IOVENE Non lo so dico, non lo so qual è il problema, non capisco qual è il problema
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA No, voglio dirla bene non la voglio dire male, solo quello ecco...
BERNARDO IOVENE E diciamola bene, come si deve dire bene sta cosa?
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA È perché tu sei forte, tu sei giornalista, io sono una sindacalista, la voglio dire bene la roba non la voglio dire male.
BERNARDO IOVENE E diciamola bene come si deve dire questa cosa?
GRAZIELLA BELLIGOLI - SEGRETARIA GENERALE FILCAMS CGIL - VERONA Non è che posso dire che son tutti delinquenti e ve coppo tutti perché allora lo farei tutti i giorni
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La segretaria generale siede al tavolo di confronto con la cooperativa Le macchine Celibi, che ha rifiutato l’intervista, e il Comune che è il committente. Dall’anno scorso 28 è cambiata la giunta, il nuovo assessore dice di conoscere bene la professionalità dei lavoratori in appalto.
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA E parliamo di personale che ha, come dire, competenze anche abbastanza importanti laurea, master.
BERNARDO IOVENE Parlano le lingue.
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Parlano le lingue, si occupano anche di quelle attività tipiche di un museo di una valorizzazione della cultura.
BERNARDO IOVENE Senta, queste persone prendono 1.000 euro, quando va bene, 1.100 cioè non arrivano oltre, e lavorano 8 ore al giorno.
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Sì, c'è un problema vero che riguarda il settore della cultura ed è il fatto che possono essere vengono applicati contratti che nulla c'entrano con la cultura. Secondo me serve un contratto nazionale che dica che quello è il contratto che si applica a tutti i lavoratori della cultura, lavoratori e lavoratrici.
BERNARDO IOVENE Che c’è è Federculture
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Si c’è Federculture. Ne ho parlato anche con la Giunta. Comunque, di far partire da Verona insieme ad altre città d'arte quello che è un manifesto per i lavoratori e le lavoratrici del settore della cultura. Allora è vero che sono un costo in più perché logicamente ha un costo maggiore.
BERNARDO IOVENE Ma voi siete disponibili ad affrontarli?
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Noi siamo disponibili.
BERNARDO IOVENE Questa è una notizia che ci sta dando
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Perlomeno iniziamo a dare qualche risposta.
BERNARDO IOVENE Questa proposta che state facendo a chi la farete? Al Ministro della cultura?
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA L'idea di fare al Ministro della cultura coinvolgendo altre città. Perché è difficile fare cultura non pagando le persone, insomma, diventa anche un po’ umiliante per loro. BERNARDO IOVENE Senta, a proposito di umiliazione, ho intervistato dei lavoratori a volto coperto, volto coperto perché hanno paura delle ritorsioni.
MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL LAVORO – COMUNE DI VERONA Da parte del Comune possono stare assolutamente tranquilli. Mi dispiace che vengo a sapere da lei di questo clima. Nessuno, secondo il sottoscritto deve lavorare avendo paura di poter dire alcune cose sul proprio lavoro insomma. Credo che sia impensabile al giorno d'oggi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E invece purtroppo è realtà, e non solo a Verona, i lavoratori in appalto del Colosseo, uno dei monumenti più visitati al mondo, attualmente hanno un contratto multiservizi che sono 2 euro in più rispetto ai colleghi veronesi, ma la nuova gara è stata vinta dal CNS, un consorzio a cui è associata anche la Coop di Verona, i lavoratori sono talmente preoccupati, che non vogliono mostrarsi.
OPERATRICE MUSEALE DI ROMA Siamo lavoratori dei beni culturali altamente specializzati. Il nostro contratto collettivo è quello dei servizi delle pulizie. Noi rischiamo che la società subentrante applichi Servizi Fiduciari. Contratti da 4,50 euro l'ora di vigilanza privata che nulla hanno a che fare con la nostra professionalità, per cui materialmente siamo andati a finire probabilmente dalla padella alla brace.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il prossimo datore di lavoro è CNS, il Consorzio Nazionale di Servizi, che fa parte di Lega Coop, che rappresenta 15.000 cooperative la presidente del settore culturale ci informa che nel settore museale attualmente applicano il contratto multiservizi contratti e che la Coop Le macchine Celibi che aderisce tuttora al CNS Consorzio è stata espulsa dalla Lega Coop.
GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP È stata espulsa ormai da moltissimi anni da Legacoop per cui.
BERNARDO IOVENE Mi può dire il motivo per cui?
GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Uno dei motivi è anche questo la non applicazione dei contratti.
BERNARDO IOVENE Questa cooperativa però fa parte di questo consorzio nazionale che è legato a Legacoop.
GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Il Consorzio nazionale è Legacoop.
BERNARDO IOVENE Però lo possiamo dire che sono contratti vergognosi questi a 4 euro l'ora.
GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Noi siamo ben disponibili a creare, diciamo, un'omogeneità quanto più possibile contrattuale.
BERNARDO IOVENE Legacoop si schiera contro, contro l'utilizzo di questi contratti di servizi fiduciari? Questo voglio sapere semplicemente.
GIOVANNA BARNI - PRESIDENTE NAZIONALE CULTURMEDIA LEGACOOP Ma noi non siamo solo contrari a questo siamo disponibilissimi a sederci intorno a un tavolo per fare uno Statuto unico del lavoro culturale e tutte quelle condizioni contrattuali dignitose.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’associazione più rappresentativa della cooperazione è Confcooperative, riunisce 17.000 imprese di cui 1.200 nel settore cultura, turismo e sport.
IRENE BONGIOVANNI - PRESIDENTE DIVISIONE CULTURA TURISMO E SPORT- CONFCOOPERATIVE Le nostre cooperative non credo applichino questo contratto. Ma soprattutto bisogna interrogarsi sul perché viene permesso in alcuni casi dalle stazioni appaltanti di applicare questo contratto.
BERNARDO IOVENE Ve la sentite di fare una proposta che da oggi in poi si deve applicare un altro tipo di contratto che non sia quello delle pulizie?
IRENE BONGIOVANNI - PRESIDENTE DIVISIONE CULTURA TURISMO E SPORT- CONFCOOPERATIVE Si! Siamo d'accordo nel dirci che serve una linea guida per le stazioni appaltanti, per degli appalti che tengano conto delle risorse adeguate e che ci sia il riconoscimento dell'offerta qualitativa delle offerte e dall'altra l'impegno da parte nostra di applicare dei contratti del settore adeguati.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, tutti si dicono disponibili a rivedere questi contratti da 4 euro l’ora, il Comune di Verona, Legacoop, Confcooperative, ma allora perché non lo fanno? Dovrebbe far sentire la sua voce anche il ministro della cultura Sangiuliano di fronte a questa indecenza. Abbiamo speso 9 milioni di euro per magnificare le nostre bellezze, poi quando si tratta di retribuire giustamente chi quelle bellezze le ha studiate, e potrebbe valorizzarle agli occhi dei turisti che vengono a visitarle, li paghiamo come dei vigilantes privati. Ora in questo caso, una delle tante cooperative che si comporta 31 in questo modo è Le macchine celibi. È un’associazione di Bologna, nata da ex studenti, dovrebbero apprezzare il valore e il sacrificio dello studio. Sul loro sito ostentano i requisiti di onestà, solidarietà, equità, trasparenza però, il suo capo, il loro capo Carlo Terrosi, con noi non ha voluto parlare. Ed è un pessimo segnale perché questi hanno cambiato il contratto strada facendo, peggiorando la dignità e le condizioni di vita dei lavoratori e nessuno ha detto nulla. Non hanno detto nulla neppure quei lavoratori delegati sindacali, evidentemente non si sentivano tutelati sufficientemente dai sindacati provinciali e regionali che rappresentano. E anche perché insomma qui bisogna capire gli stessi sindacati che hanno degli interessi in quei fondi bilaterali, sono stati istituiti per legge per la formazione, la ricollocazione dei lavoratori ma beccano un 4% di contributo in ogni rapporto di lavoro somministrato che viene attivato. Cioè, quando poi non hanno diretti interessi nelle cooperative che somministrano lavoratori. Insomma, sono entrati nel business del precariato che dovrebbero invece tutelare. Poi ci sono altri contratti che sono stati invece giudicati irregolari da Inail e Inps e riguardano quelli degli istruttori delle palestre e delle piscine negli impianti sportivi. Si è accorto improvvisamente di loro lo Stato quando, dopo la pandemia, doveva pensare ai ristori dice: ma da dove sono spuntati tutti questi invisibili?
BERNARDO IOVENE Questi sono i tuoi ragazzi?
ANDREA SALVATORI - ALLENATORE ASD PESARO RUGBY Si è la squadra che alleno, io sono Andrea Salvatori e sono un collaboratore sportivo.
BERNARDO IOVENE Fino adesso come sia stato retribuito?
ANDREA SALVATORI - ALLENATORE ASD PESARO RUGBY Contratto di collaborazione sportiva prevede appunto una retribuzione che è fino ai 10.000 euro annui non prevede tassazione.
LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Sono un istruttore sportivo di ginnastica artistica.
BERNARDO IOVENE Lei lavora da 24 anni.
LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA E non ho accumulato niente
BERNARDO IOVENE Non ha contributi.
BERNARDO IOVENE Si chiama collaborazione sportiva.
LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Collaborazione sportiva, contratto di collaborazione sportiva.
PAULA SESMA - ISTRUTTRICE DI NUOTO - MILANO Io sono una istruttrice di nuoto
BERNARDO IOVENE E viene retribuita come?
PAULA SESMA - ISTRUTTRICE DI NUOTO - MILANO Come collaboratore sportivo, contratto che non ha nessun tipo di tutela, non abbiamo pensione o malattia. Non abbiamo Inail, non abbiamo vacanze, non abbiamo tredicesima, TFR, niente assoluto è un contratto da nero legalizzato.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È il mondo dello sport? Piscine, palestre, campi di football. A guidare le attività dilettantistiche sono in realtà circa 600.000 professionisti. In gran parte però sono retribuiti come dilettanti volontari. GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Gli istruttori, gli addetti alla reception, i contabili e tutto il resto del personale sono assunti come collaboratori sportivi. Questo tipo di, questa tipologia di contratto è utilizzata in modo irregolare.
BERNARDO IOVENE Se questo non è lecito, perché viene applicato?
GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Perché ci hanno provato!
BERNARDO IOVENE Ah, perché ci provano? GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Ci provano e finora non era mai successo nulla.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Cgil ha aperto varie vertenze con gli impianti sportivi privati e pubblici per far riconoscere ai lavoratori il rapporto di subordinazione. Il contratto di collaborazione sportiva, invece, andrebbe applicato solo ai volontari dilettanti.
GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) In tutti i casi delle vertenze aperte, in realtà all'ultimo minuto le aziende hanno conciliato riconoscendo le differenze retributive al lavoratore, ma non sono volute andare ovviamente in giudizio.
BERNARDO IOVENE In giudizio.
GIORGIO ORTOLANI – NIDIL- CGIL TICINO OLONA (MI) Nel senso che se il lavoratore fa causa alla fine vince. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il lavoratore vince. Ed è successo tutte le volte, anche quando e se arrivano gli ispettori dell'Inps.
PASQUALE TRIDICO - PRESIDENTE INPS 2019-2023 Questo è successo proprio perché appunto la norma prevede degli indici di subordinazione. Quando gli ispettori li rilevano sono costretti a inquadrare i lavoratori in quelle forme e quindi a richiedere contributi non versati.
PAULA SESMA - ISTRUTTRICE DI NUOTO - MILANO Questi contratti sono illegali ma comunque continuano a farli.
ANDREA SALVATORI - ALLENATORE ASD PESARO RUGBY Ad oggi c’è una difficoltà di fondo nel concepire la forma dell’allenatore come un lavoratore. È dieci anni che faccio questo lavoro, non ho un contributo versato. Un qualunque lavoratore se sta male è tutelato. Perché noi no?
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Della condizione di questi lavoratori ci si è accorti durante il lockdown, centinaia di migliaia erano senza tutele e quindi senza ristoro.
LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Nessuno lo sapeva. Le prime, i primi incontri erano proprio quasi non è possibile che non hanno un ammortizzatore. Invece lì poi Sport e salute ha erogato un contributo che abbiamo preso. Devo dire la verità.
BERNARDO IOVENE Siete riusciti ad avere qualcosa…
LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Il contributo l'abbiamo avuto e lì si è aperta questa finestra. Il collaboratore sportivo Chi? Chi è? Come funziona? E infatti…
BERNARDO IOVENE Siete emersi.
LUCA FARENGA - ISTRUTTORE DI GINNASTICA ARTISTICA - ROMA Siamo emersi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed allora si è pensato a una legge che obbliga le associazioni le imprese le cooperative sportive a stabilire un rapporto di lavoro da dipendente da co.co.co. o a partita IVA, ma dal 2021 non è ancora entrato in vigore, subendo continui rinvii e modifiche.
GIORGIO ORTOLANI - NIDIL CGIL TICINO OLONA (MI) Le associazioni sportive, il Coni e tutti erano per ritardare perché questa comporterà ovviamente un aumento dei costi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il nuovo ministro ha stabilito dei tavoli di confronto tra i rappresentanti dei lavoratori e le imprese sportive, che al momento però continuano a pagare gli istruttori con il contratto di collaboratore sportivo ritenuto irregolare.
BERNARDO IOVENE Fino adesso li avete pagati come li pagano tutti.
IRENE BONGIOVANNI - PRESIDENTE DIVISIONE CULTURA TURISMO E SPORT - CONFCOOPERATIVE Arriviamo da una fase pandemica per cui le cooperative e le associazioni sono in difficoltà.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Attualmente, dopo varie proroghe, l'entrata in vigore è prevista per il 1º luglio,
BERNARDO IOVENE Ci sono molte resistenze per far applicare questa legge. Innanzitutto, lei si prende l'impegno che dal primo luglio va in vigore.
ANDREA ABODI - MINISTRO PER LO SPORT E I GIOVANI Ah, l’ho detto più volte, adesso diventa ancora più ufficiale. Abbiamo riaperto comunque un ascolto con le categorie e gli organismi sportivi, devono trovare un equilibrio dal punto di vista delle ore durante la settimana alcuni aspetti tecnici diciamo così fondamentalmente che sono importanti.
BERNARDO IOVENE Ah, ma sono importanti, perché lei lo sa, fatta la legge si trova l'inganno.
ANDREA ABODI - MINISTRO PER LO SPORT E I GIOVANI Tanto abbiamo un fondo che svolgerà la funzione di ammortizzatore sociale un fondo che consente di abbassare l'impatto degli oneri contributivi.
BERNARDO IOVENE Probabilmente a luglio cambierà tutto, come vi adeguerete?
SIMONE MATTIOLI –PRESIDENTE ASD PESARO RUGBY Probabilmente questa cosa porterà ad un inevitabile aumento dei costi di gestione di questo personale, ma è una cosa che se va nella direzione di tutelare di più chi lavora per lo sport è una cosa giusta.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Speriamo l’approvino presto questa norma, visto che di tanto in tanto la rimandano. Insomma, è l’ennesimo schiaffo in faccia ai lavoratori. Schiaffo a cui ha contribuito spesso anche l’Europa a cominciare dalla lettera dell’estate del 2011 di Trichet e Draghi a Berlusconi governo che stava per cadere. I due chiedevano sostanzialmente di rivedere i parametri dei salari e delle condizioni dei lavoratori in base alle esigenze delle imprese. Cosa che poi è stata fatta nell’accordo del 28 giugno, nell’incontro tra sindacati e industriali. Poi c’è, è arrivato il governo Monti- Fornero. Sono diminuite le tutele per i lavoratori precari, a partire per esempio dal fatto di chi veniva licenziato ingiustamente insomma si rendeva più difficile il reintegro. Poi sono stati ampliati i meccanismi per le prestazioni occasionali, per esempio i voucher, poi è arrivato il governo Renzi, il ministro Poletti che ha ampliato l’utilizzo del contratto a tempo determinato, spostandolo fino a tre anni e poi sono state svuotate le motivazioni per cui si ricorreva per esempio ai co.co.co o comunque ai lavori in somministrazione. Poi è stata dichiarata nulla, per esempio, la cassa integrazione per quei lavoratori che lavoravano per aziende che venivano chiuse definitivamente, è stato rivisto lo spirito dell’articolo 18 per l’ingiusta causa del licenziamento, non era più obbligatorio il reintegro, bastava il risarcimento economico. Infine, è stato consentito l’utilizzo di telecamere sul luogo di lavoro, somma ipocrisia, non sui lavoratori ma sui macchinari. E insomma ecco, l’ultimo provvedimento che ha ampliato la precarietà è quello dell’ultimo primo maggio, Festa dei Lavoratori, quando il governo, a parte il taglio del cuneo fiscale che consentirà ai lavoratori di avere un centinaio di euro in più, in alcuni casi, ha ampliato ancora di più la flessibilità e la precarietà. Ecco ne vedremo delle belle con la modifica del codice degli appalti che consente appalti, subappalti, subappaltini. Ecco forse dal mercato degli schiavi si uscirà solo quando politici e imprenditori avranno la consapevolezza che nella stipula del contratto, insomma, non c’è il corpo ma la dignità della persona.
Milano, giudice: paghe da fame sono illegittime, anche se accettate dai sindacati. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 7 Aprile 2023
Una lavoratrice di Padova, la quale svolgeva un lavoro subordinato al contratto collettivo nazionale di Vigilanza privata-Servizi fiduciari, ha vinto la causa intentata contro il proprio datore di lavoro per via della paga troppo bassa. Secondo il giudice del tribunale di Milano, infatti, una paga misera – la donna percepiva appena 3,96 euro l’ora, per un totale netto di 640 euro al mese – è incostituzionale in quanto “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36 della Costituzione). La sentenza crea un precedente importante, dal momento in cui dichiara illegittimo un contratto collettivo nazionale, accettato dunque dai sindacati, in base al quale sono stati assunti decine di migliaia di lavoratori, che ora potranno pretendere condizioni economiche migliori.
Lavorare dodici mesi l’anno per percepire uno stipendio inferiore al reddito di cittadinanza e vivere al di sotto della soglia di povertà, fissata dall’ISTAT a 840 euro mensili. Un destino che accomuna circa un lavoratore italiano su dieci. Una parte di questi offre la propria forza lavoro seguendo le condizioni dettate da un contratto collettivo nazionale, frutto dunque di un’intesa tra le aziende e le forze sindacali, che dovrebbero in teoria tutelare i dipendenti. Il giudice del lavoro di Milano, Tullio Perillo, ha però condannato la Civis, importante società di vigilanza privata con sede legale a Milano, a pagare a una propria dipendente un risarcimento di 372 euro lordi in più per ogni mese (oltre 6.700 in totale), ovvero il differenziale tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato. «È una vittoria storica, che apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia, circa 100mila, e soprattutto dice ai sindacati che avevano siglato questo collettivo, nel caso specifico CGIL e CIS, che quei contratti da fame non vanno firmati», ha commentato Mauro Zanotto di ADL Cobas, la quale ha sostenuto la lavoratrice durante la causa.
L’associazione sindacale ha poi aggiunto che a Padova, dove vive la lavoratrice, sarebbero pendenti un’altra ventina di cause simili, sempre legate al settore dei servizi fiduciari, in cui insistono 4 contratti collettivi differenti. «Non solo in aziende private, come Civis, ma anche in settori del pubblico impiego, Esu, ospedali, Agenzia delle Entrate». Si tratta soltanto della punta di un iceberg tutto italiano su cui la sentenza del giudice Tullio Perillo ha puntato i riflettori. [di Salvatore Toscano]
Estratto dell’articolo di Cristiano Cadoni per lastampa.it il 6 aprile 2023.
Povero, anzi poverissimo. E pure contrario ai princìpi della Costituzione. Quello dei lavoratori con contratto Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie ma con tante altre mansioni, anche qualificate - è uno stipendio da fame, irrispettoso della dignità delle persone.
Lo ha stabilito, con una sentenza storica, un giudice del lavoro di Milano che ha accolto il ricorso di una lavoratrice padovana, sostenuta nella sua causa da Adl Cobas Padova e dagli avvocati, anch’essi padovani, Giorgia D’Andrea e Giacomo Gianolla.
La paga di 3,96 euro orari che veniva corrisposta alla lavoratrice - quella prevista dal contratto nazionale - per il giudice viola l’articolo 36 della Costituzione, laddove è sancito che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Dunque uno stipendio di 930 euro lordi al mese - poco più di 640 netti - è illegittimo, anche perché inferiore al reddito di cittadinanza o a una mensilità di cassa integrazione.
Per questo la causa è stata accolta e la Civis, società di vigilanza per la quale lavora la donna, è stata condannata a pagare un risarcimento di 372 euro lordi in più per ogni mese (6,756,04 in totale), cioè la differenza tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato, che pure sarebbe il lavoro povero per eccellenza.
La sentenza spalanca scenari tutti da esplorare per almeno tre motivi. Il primo: dietro questa causa ce ne sono tante altre avviate da lavoratori che hanno lo stesso contratto.
Il secondo: i lavoratori dei servizi fiduciari sono impiegati soprattutto da enti pubblici. […] Fanno funzionare servizi essenziali ma sono sfruttati, nel silenzio complice degli enti.
Il terzo motivo: ora quel contratto nazionale - sottoscritto da Cgil e Cisl - teoricamente non può più essere applicato, a meno che le società non adeguino il trattamento, che era comunque - nel caso della Civis - inadeguato anche per altri aspetti.
Ma anche gli altri contratti di settore (l’Aiss e il Safi, sottoscritti da altri sindacati) nella sentenza sono stati certificati come inadeguati, perché prevedono retribuzioni mensili che variano dai 642,34 euro (Aiss) ai 711,29 (Safi).
La causa e le condizioni di lavoro
La vicenda prende avvio a novembre del 2022 quando una lavoratrice padovana […] ricorre contro il trattamento economico che le spetta in base al contratto nazionale, chiedendo che sia adeguato quantomeno a quello dei servizi di portierato.
La donna porta a casa poco più di mille euro al mese ma solo perché fa oltre 160 ore di straordinario al mese, condizione anche questa oggetto di contestazione.
Oltretutto Civis non le paga la malattia (e la sentenza la condanna a risarcire 345,45 euro per questa voce).
[…] «Il fatto che sia lo stipendio previsto dal contratto nazionale approvato da Cgil e Cisl - punto sul quale si è basata la difesa di Civis - non può essere una giustificazione», sottolineano i legali, «perché i sindacati possono anche conoscere bene la realtà lavorativa ma non stabilire cosa è dignitoso e cosa no».
[…] Terzo aspetto, gli straordinari. Tra i lavoratori c’è chi ne fa più di 80 ore al mese, da aggiungere a orari già massacranti. «Civis ha sostenuto che il lavoro non è pesante perché discontinuo», spiega Marco Zanotto di Adl Cobas, «ma questi lavoratori non si limitano ad aprire una porta. Controllano gli accessi, sbrigano la corrispondenza, danno informazioni, gli è richiesta formazione antincendio, sono impegnati di continuo. Nel periodo del Covid gestivano anche gli accessi ai punti tampone». […]
La lotta contro la paga sotto la soglia di povertà. “Lo stipendio da 3,96 l’ora è anticostituzionale”, la storica sentenza che condanna l’azienda. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Aprile 2023
La sua paga effettiva oraria era di 3,96 all’ora, lavorando per 12 mesi all’anno per una società di vigilanza, nonostante l’applicazione del contratto nazionale di settore. Secondo un giudice del lavoro di Milano una paga che la poneva sotto la soglia di povertà, dunque anticostituzionale. Così ha dato ragione a una lavoratrice perché, si legge nella sentenza, è stato violato l’articolo 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
A ricostruire la vicenda è l’Ansa. La lavoratrice, impiegata nel servizio di portierato in un magazzino della grande distribuzione, percepiva uno stipendio netto intorno ai 640 euro, meno del reddito di cittadinanza. Secondo l’Istat la soglia di povertà è stimata a 840 euro. Sul tavolo del giudice ci sarebbero anche altre sentenze simili. Con la sentenza l’azienda è stata condannata a pagare un risarcimento per ogni mese di lavoro effettuato, ovvero il differenziale tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato.
“La mia cliente doveva insomma lavorare circa 70 ore alla settimana per ottenere uno stipendio che si aggirasse intorno ai mille euro – ha detto l’avvocato Giacomo Gianolla a Repubblica – Una situazione assurda, com’è assurdo che un suo collega single, non potendo contare su nessun supporto per il pagamento dell’affitto, sia costretto da almeno due anni a vivere con il frigorifero spento perché altrimenti non riuscirebbe a far fronte al pagamento delle bollette. Mio nonno negli anni Settanta scaricava le merci dalle navi al porto di Venezia e poteva permettersi di tenere il frigo acceso. Sono passati 50 anni e siamo tornati drammaticamente indietro“.
Nella sentenza si legge infatti che “non si può certo ritenere sufficiente e proporzionata una retribuzione laddove sia inserita all’interno di una contrattazione collettiva che pure remuneri in maniera significativa il lavoro straordinario, di fatto imponendo a ogni lavoratore di lavorare tutte le ore di straordinario possibili, così anche rischiando di pregiudicare la propria salute, per potersi allineare a valori economici di stipendio dignitosi”.
Il legale ha spiegato che il tribunale si è pronunciato sulla nullità del contratto collettivo applicato in quell’azienda, che non è rinnovato da oltre dieci anni e prevedeva una retribuzione davvero ridicola per un lavoro a tempo pieno. “Un lavoratore è così obbligato, per arrivare a 1200/1300 euro mensili, a fare fino a mille ore di straordinario all’anno – ha detto ancora l’avvocato – Il che vuol dire, tolte le ferie, più di 100 ore al mese. Quindi circa 270 ore al mese. Vuol dire lavorare anche 12 ore al giorno”. Una sentenza definita “storica” da Adl Cobas che ha sostenuto la battaglia della lavoratrice: “Apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia, circa 100mila”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Estratto dell’articolo di Chiara Tadini per today.it il 10 marzo 2023.
“Non si trova personale". "I giovani non hanno più voglia di lavorare". "Non c'è più spirito di sacrificio, preferiscono stare sul divano a prendere la disoccupazione". Quante volte negli ultimi anni abbiamo sentito o letto sulle pagine dei giornali queste frasi ripetute dagli imprenditori?
Non fanno eccezione quelli del settore turistico, con centinaia di appelli lanciati a mezzo stampa o social in cui albergatori, ristoratori e titolari di stabilimenti balneari denunciano la difficoltà nel reperire baristi, camerieri, cuochi, animatori e altre figure lavorative del comparto.
Ho provato a candidarmi ad alcune offerte di lavoro stagionale sulla riviera romagnola, mettendo in curriculum le mie reali esperienze nel settore turistico (e omettendo, per ovvi motivi, la laurea in giornalismo e le mie attività lavorative in ambito giornalistico). Le proposte ricevute, purtroppo, hanno confermato i miei dubbi sull'affidabilità degli appelli degli imprenditori balneari.
Tra le offerte di lavoro alle quali ho risposto inviando il mio (finto) curriculum, c'è un hotel a tre stelle della zona tra Cesenatico e Bellaria. L'annuncio pubblicato online dava poche informazioni: si cerca animatrice o animatore, preferibilmente con un anno di esperienza, preferibilmente conoscenza della lingua inglese, contratto a tempo determinato, turno diurno e stipendio 1.000-1.200 euro al mese. Non passano neanche cinque minuti dall'invio della mia candidatura che vengo ricontattata telefonicamente dal titolare.
Innanzitutto non mi era mai capitato di ricevere una risposta in maniera così rapida; oltre a questo, mi stupisce la gentilezza della persona dall'altra parte del telefono, che fa di tutto per mettermi a mio agio e si aspetta che sia io a fargli una proposta di retribuzione. Il tutto con una semplice chiamata telefonica nel quale non mi chiede neanche di descrivere le mie esperienze precedenti (che ho appena abbozzato nel curriculum): sembra quasi che stia aspettando solo che io dica "Ok, accetto" per offrirmi il lavoro. […]
L'albergatore mi spiega che in passato si è rivolto alle agenzie di animazione per l'invio di animatori, ma di avere avuto problemi perchè "sono ragazzi pagati poco e inquadrati male". Sembra una buona partenza. Prosegue spiegandomi subito gli orari di lavoro: due ore al mattino, dalle 10 a mezzogiorno, poi tre ore al pomeriggio, due ore di pausa per la cena e di nuovo dalle 20.30 fino alle 10 di sera. […]
Benissimo, visto che sembra già deciso a offrirmi il lavoro passo subito al sodo: contratto e retribuzione. "Considera che noi non possiamo assumerti come animatrice, ma ti assumeremo come tuttofare come abbiamo fatto in precedenza con altre animatrici". Perchè non può assumermi come animatrice? Forse perchè il tuttofare è il livello di inquadramento più basso del Ccnl del turismo...?
Ma lui continua: "Per quanto riguarda lo stipendio dimmi tu, a quanto pensavi?". La butto sul ridere: "Beh allora direi 10mila euro al mese". Dopo un rapido scambio di battute arriva la proposta, quella vera. "Io offro 1.200 euro al mese, che non sono pochi". In effetti ho visto di peggio, anche se in questa offerta si richiede anche il lavoro serale, che per legge deve essere pagato di più.
"Naturalmente non saranno proprio 1.200 in busta paga". Alt: in che senso? L'albergatore farfuglia un po': "Mah, adesso devo sentire bene con il commercialista... Sai, una parte dei soldi si dà in busta paga... L'altra fuori busta...". Cioè in nero? "Si esatto, fuori busta". Ma come? Non erano le agenzie di animazione quelle che pagavano poco e male? Ringrazio per l'offerta e riaggancio.
Un secondo imprenditore mi chiama un paio d'ore dopo l'invio del mio curriculum. La posizione da ricoprire, si legge nell'annuncio, è quella di barista in un bar in spiaggia poco lontano dall'hotel della prima offerta. "Tempo parziale mattina dalle 7.30 alle 15.30" (e già viene da chiedersi perchè scrivano tempo parziale se poi la giornata lavorativa è la classica full time da otto ore).
La prima cosa che mi specifica il titolare è che in realtà stanno cercando un "aiuto barista". Gli orari sono quelli, dal lunedì alla domenica senza giorno di riposo - cosa illegale: il dipendente stagionale, alla pari di qualunque altro dipendente, ha diritto a 24 ore di riposo consecutive settimanali, e se la norma non viene rispettata le multe possono arrivare fino a 10mila euro. […]
Passiamo a contratto e retribuzione, e qui la situazione si fa davvero confusionaria. "Il contratto è a tempo determinato per tre mesi, però devo sentire con il commercialista se posso farti anche un contratto da apprendista, perchè con quello riesco a darti qualcosa in più in busta paga e a pagare meno contributi".
Mi pare strano: un apprendista è pagato più di un non apprendista? Provo a chiedere delucidazioni: "Ma intendi il contratto di apprendistato? Perchè in tal caso la retribuzione è inferiore, non superiore a quella di un normale dipendente". "Ah... Non lo so... Non me ne intendo...". Vabbè, confidiamo nell'eventuale aiuto del commercialista.
Ma lo stipendio per un normale contratto a tempo determinato qual è? "1.100 euro". Lordi o netti? La mia domanda lo spiazza: "Oddio non lo so, io faccio un bonifico da 1.100 euro... Sei la prima che me lo chiede in tanti anni". […]
Terzo imprenditore, titolare di due stabilimenti balneari nella stessa zona dei primi due colloqui. "Cerchiamo due bariste, ma facciamo una gran fatica a trovare personale", premette subito. Poi mi spiega le mansioni, che vanno ben oltre quelle della semplice barista: "Siamo in pochi e quindi tutti fanno tutto, dal preparare i caffè, al servirli al tavolo, alle pulizie, alla cassa, a darmi una mano a me ai fornelli".
Lavoro anche di cucina quindi: bene, di solito il settore è pagato di più. La stagione è quella che qui viene definita "lunga", da Pasqua fino a metà settembre. La giornata lavorativa va dalle 8 del mattino alle 20.15 di sera e si lavora su turni di 8 ore e mezza.
Chiedo informazioni sul giorno di riposo: "Eh qui siamo in pochi, non riusciamo a fare il giorno di riposo". Questo significa lavorare per più di 5 mesi full-time senza neanche un giorno per rifiatare. E chi ha mai "fatto una stagione", come si dice nel settore, sa bene quanto siano massacranti le giornate di lavoro. Bene, passiamo all'argomento retribuzione. "Il primo mese io do 1.300 euro, poi se la ragazza va bene si passa a 1.500". Lordi o netti? Anche in questo caso ricevere una risposta precisa è quasi impossibile:
"1.300 sono quelli in busta paga... Non so... Io do quelli... Immagino siano lordi". Anche se fossero netti, comunque, significherebbe meno di 5 euro all'ora. Figuriamoci netti. "Grazie per l'offerta, ci penso e in caso ci risentiamo". […]
Estratto dell’articolo di Dimitri Canello per corriere.it il 13 febbraio 2023.
«Cercansi cameriera part-time, solo con contratto». Campeggia così, in bella vista da alcuni giorni vicino alle casse, il cartello de L’Intermezzo di via Nicolò Tommaseo a Padova. Il locale offre servizio bar e pranzi veloci e si è messo alla ricerca di una cameriera part-time.
Il contratto è chiaro e cristallino: «Offriamo un part time di tre ore al giorno — spiega uno dei due titolari, Davide Baldin — l’inquadramento è quello di cameriera di quinto livello, il contratto è quello nazionale Fipe. Inserendo la quota tredicesima e quella della quattordicesima di arrivano a percepire 600 euro al mese circa, a cui va sommato il tfr di 2 mila euro se si resta in carica per due anni. A tutto questo vanno aggiunte le ferie».
Qual è l’inghippo allora? Il problema è che le richieste che sono arrivate hanno letteralmente spiazzato i titolari. Perché le candidate hanno chiesto senza troppi giri di parole di lavorare in nero: «Ce lo hanno detto chiaro e tondo — prosegue Baldin — come se fosse la cosa più naturale del mondo. C’è chi è stato più discreto, chi invece ha proprio specificato che, essendo titolare del reddito di cittadinanza, non voleva perdere quel privilegio. Siamo rimasti sbigottiti».
Il locale è aperto da 28 anni, i due titolari sono fratelli, a Davide (57 anni) si affianca Alberto, 55. Quasi tre decadi di duro lavoro, una presenza costante nella zona della Fiera e del Tribunale, che ha sempre garantito un’ottima clientela: «Noi continuiamo la nostra ricerca — sottolinea Baldin — e speriamo davvero di poter trovare la candidata giusta. […]
R.E. per “la Stampa” l’11 Febbraio 2023.
Quasi la metà dei lavoratori dipendenti è impegnato in orari "antisociali" di sabato, domenica, nei giorni festivi o di notte. Questo è quanto emerge da un'indagine dell'Inapp secondo la quale il 60% dei lavoratori subordinati fa lavoro straordinario e un quarto di questi senza una paga supplementare. In pratica, su un campione di 45mila individui riferita al 2021, il 15,9% del totale dei lavoratori dipendenti è costretto ad andare oltre l'orario stabilito dal contratto senza che lo sforzo sia retribuito.
Secondo lo studio il 18,6% dei dipendenti lavora sia di notte che nei festivi (circa 3,2 milioni di persone), il 9,1% anche il sabato e i festivi (ma non la notte), mentre il 19,3% anche la notte (ma non di sabato o festivi).
Il dato dell'indagine, spiegano i ricercatori, potrebbe essere legato anche all'ampio utilizzo dello smartworking nel 2021. Secondo i dati Eurostat riferiti sempre al 2021 sul totale degli occupati (non solo i dipendenti) il 34,2% lavora il sabato, il 14,3% lavora la domenica, il 12,3% la sera (molto meno del 16,3% del 2019 prima della pandemia) e il 5,9% la notte (contro l'8,3% del 2019) Gli uomini – sottolinea la ricerca – sperimentano di più sia il solo lavoro notturno, sia quello svolto sia di notte che nei festivi; le donne, invece sono impegnate più il sabato o nei festivi.
«Spesso la domanda di lavoro richiede disponibilità che confliggono con le esigenze di vita – afferma il presidente Inapp, Sebastiano Fadda, presidente dell'Inapp – è vero che per alcuni settori economici, come il commercio o la sanità, e per alcune professioni, come quelle dei servizi, il lavoro notturno o nei festivi è connaturato alla natura della prestazione, ma è anche vero che questa modalità sembra diffondersi anche dove non è strettamente necessaria. È urgente avviare una seria riflessione».
Giovani, formati e con stipendi da fame: lo sfogo sui social contro lo sfruttamento a cui la politica resta sorda. Chiara Sgreccia su L’Espresso il 7 Febbraio 2023.
Il video virale dell’ingegnera è solo l’ultimo esempio. Sempre più lavoratori consegnano al web la delusione per le enormi disuguaglianze retributive. Il docente Scarpelli (Bicocca): «Andare dai giudici non è la soluzione, ma nei casi gravi sarebbe giusto farlo»
«Io a 27 anni devo vivere con 750 euro?». Il video in cui Ornela Casassa, una giovane ingegnera di Genova, racconta su TikTok le paghe da fame proposte a chi entra nel mercato del lavoro è passato sugli schermi di mezza Italia. È solo l’ultima di una lunga lista di giovani professionisti che consegnano ai social, a volte in via anonima, la delusione per le offerte che ricevono. Un “format” capace di accendere i riflettori su un problema, ma a cui nessuna istituzione fornisce poi una risposta.
«Quel no me lo sono potuta permettere. Perché i miei genitori mi avrebbero rimesso un tetto sulla testa se avessi perso l’affitto. Molti invece avrebbero dovuto accettare», ha spiegato Casassa a Repubblica. «Ma davvero vi sorprendete che i giovani siano sottopagati?».
Sulla stessa falsa riga c’è la denuncia di un architetto consegnata alla pagina Instagram Riordine degli Architetti: «Me lo spiegate voi come faccio a vivere a Milano con 700 euro?», scrive un professionista riferendosi all’offerta di collaborazione arrivata da uno dei più conosciuti studi di progettisti d’Italia. Offerta che ha rifiutato, rendendo pubblico lo scambio di e-mail. Iniziativa simile a quella iniziata dalla pagina Gentilissima Rivolta con focus sul settore della comunicazione: «Non vogliamo un ambiente in cui solo gli stronzi vanno avanti, dove i giovani sono in condizioni perennemente precarie, dove gli stagisti sono carne da cannone, dove i capi si comportano come se i diritti dei lavoratori finissero alle soglie della propria agenzia», hanno scritto, raccogliendo in pochissimo tempo tante storie di esperienze lavorative terrificati.
Per l’Osservatorio Inps il reddito medio annuo dei lavoratori dipendenti e autonomi tra i 20 e i 24 anni nel 2021 è stato di 9.911 euro. Per chi ha tra i 25 e i 34 anni, di 15.629 euro: i giovani sono per la maggior parte lavoratori poveri che arrivano con fatica a mille euro al mese.
Come spiega Franco Scarpelli, professore di diritto del lavoro all’università di Milano Bicocca, sono molteplici i fattori che determinano la cattiva qualità del settore occupazionale per i giovani: «Da un lato, c’è la difficoltà nell’incrociare domanda e offerta. Così molti seguono percorsi di formazione lunghi e articolati che non trovano uno sbocco adeguato. Dall’altro lato, e questo aspetto riguarda anche gli occupati meno qualificatati, c’è l’idea per cui i primi anni debbano essere caratterizzati da precarietà e retribuzioni molto basse. Questo si realizza o attraverso i contratti a termine oppure con i falsi stage».
Lo stage dovrebbe essere un percorso formativo transitorio. Quando, invece, diventa un modo per far lavorare le persone «a tempo determinato, senza prospettive, con compensi bassissimi, siamo di fronte a un utilizzo irresponsabile e irregolare che non può essere né giustificato né accettabile da punto di vista giuridico», sottolinea Scarpelli. Queste situazioni possono essere denunciate. «Non penso che andare dai giudici sia la soluzione ai problemi del mercato del lavoro ma nei casi gravi sarebbe giusto farlo».
Vale anche per le finte Partite Iva. Cioè per quegli autonomi che, in realtà, hanno solo un committente e nessuna voce nella determinazione dei tempi e dei modi con cui svolgere il lavoro. «Le imprese hanno una grande responsabilità sociale nella costruzione di opportunità d’impiego e percorsi di crescita per i giovani. Non è possibile che all’interno della stessa azienda esistano disuguaglianze enormi tra un neoassunto che, ad esempio, percepisce 1300 euro lordi al mese, neanche più sufficienti per vivere in città come Milano, e i dirigenti che guadagno dieci volte tanto», conclude Scarpelli.
L’esercito dei freelance: la metà non raggiunge i 10 mila euro l’anno. Valentina Conte La Repubblica il 06 Febbraio 2023.
Poche tutele, scarsi diritti, compensi bassi. Le piccole partite Iva, quelle dei giovani, sembrano invisibili al fisco, alle norme e alla politica. Il disegno di legge sull’equo compenso non si applica a chi è fuori dagli Ordini professionali
Poche tutele, scarsi diritti, compensi bassi. E pure cattiva fama di evasori. I freelance, i liberi professionisti italiani - una vasta galassia di 2,5 o 3 milioni di lavoratori, malcontati: le statistiche traballano - discutono da giorni del video di Ornela che rimbalza di chat in chat. "I datori se ne approfittano, specie se sei giovane, donna, inesperta, inconsapevole dei tuoi diritti, non sindacalizzata", è il commento di molti.
Estratto dell’articolo di Michela Bompani per repubblica.it il 5 febbraio 2023.
«Davvero vi sorprendete che i giovani siano sottopagati? In fondo, nel video ho detto che la terra è tonda, mi colpisce il boom mediatico che ha suscitato». Ornela Casassa ha 28 anni, è un’ingegnera edile, abita a Genova e il video girato in un locale nel centro storico della città, in cui denuncia «di aver rifiutato uno stipendio da fame» […]
Casassa, cosa è successo?
«Al liceo ho deciso di iscrivermi a ingegneria edile. Una strada che ho proprio scelto con determinazione. Ho studiato all’Università di Genova e dopo la laurea, tre anni fa, ho svolto un tirocinio semestrale. Mi pagavano 600 euro netti al mese. Al termine del periodo, i datori di lavoro, soddisfatti, mi hanno proposto di restare, aprendo partita Iva e guadagnando 760 euro netti: uno schiaffo in faccia, una proposta ingiusta, insufficiente per pagare l’affitto. E ho detto no». […]
Ha detto che la «politica deve smettere di abbassare l’asticella dei diritti»: quale politica?
«La sinistra dovrebbe avere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori nel suo dna, dovrebbe averli tra i suoi temi fondanti. La sera del video, al tavolo, ci chiedevamo perché la sinistra perda voti e la mia era una risposta.
Il tema del lavoro per i giovani è fondamentale, lo dimostra la valanga di commenti che ho ricevuto. Ragazze e ragazzi si sono rispecchiati in me, che ho solo detto, in maniera forse un po’ diretta, come stanno le cose. Non si tratta di trovare una soluzione semplice e veloce. Bisogna cambiare un sistema: la sinistra non avrebbe dovuto lasciar cadere così in basso l’asticella».
Quando ha rifiutato il contratto, che le hanno detto amici e colleghi?
«Molti mi hanno criticata: hanno detto che avevo sbagliato, che avrebbero trovato subito un’altra al mio posto e avevo perso la mia occasione. C’è una grande disillusione tra i miei coetanei, pensano di non aver valore. E c’è molta paura: quella paura che autorizza i datori di lavoro a pagarci sempre meno, […]».
E i sindacati?
«Non sono mai venuta a contatto con quel mondo. La maggior parte di noi giovani lavoratori, non solo professionisti, non sa cosa siano».
La storia dell’ingegnera Ornela Casassa “smettiamo di accettare contratti da fame”. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 4 Febbraio 2023.
Il rapporto tra giovani e mondo del lavoro porta molto spesso a un disagio reciproco. Tra chi sostiene che questi giovani “non hanno voglia di lavorare” e questi giovani che invece invocano maggior rispetto e riconoscimento – soprattutto economico. L’ultima testimonianza di disagio nel mondo del lavoro è quella dell’ingegnera ligure Ornela Casassa, 27 anni, che si è trovata di fronte a una particolare proposta al termine del tirocinio di sei mesi in uno studio ingegneristico. “Erano soddisfatti di avermi nel team” racconta “e mi hanno proposto una collaborazione a 900 euro a partita Iva che significano 750 euro netti, tolte le tasse. Solo 150 euro in più rispetto al tirocinio”. Uno schiaffo, racconta Ornela. Eppure, succede a molti: la richiesta di una collaborazione a partita Iva al posto di un’assunzione è per molti settori all’ordine del giorno, come lo sono i piccoli aumenti nello scatto di posizione. A far emergere la storia di Ornela non è solo il suo status di consigliera regionale in Liguria, ma anche e soprattutto un video sui social. Il video che ritrae il suo sfogo ha collezionato oltre un milione e mezzo di visualizzazioni su TikTok ed è rimbalzato su moltissimi canali Instagram.
Un racconto della propria esperienza, ma anche un monito a chi, come lei, si trova o si è trovato in situazioni simili. Ornela spiega “Ho detto no perché non è giusto”, per nessuno: né per chi è privilegiato né per chi un certo lavoro diventa impossibile da rifiutare. Allora, alla fine il suo messaggio è forte “Chiediamo di non abbassare l’asticella” e quindi ai giovani il messaggio è chiaro: non accontentatevi.
Alternanza scuola-lavoro.
La giornata degli stagisti contro lo sfruttamento. Ma intanto anche alla Camera lavorano gratis. VALERIA COSTA su Il Domani il 10 novembre 2023
Oggi si celebra la ricorrenza istituita nel 2014 per sensibilizzare sul tema del lavoro precario e delle condizioni dei tirocinanti che spesso non vedono trasformarsi la loro esperienza in un’offerta di lavoro. La legislazione in materia avrebbe bisogno di una revisione, ma per ora nulla è stato fatto
Oggi si celebra la Giornata internazionale degli stagisti. Una ricorrenza nata nel 2014 per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla precarietà dei tirocinanti. Il tema è di fondamentale importanza, perché idealmente i tirocini dovrebbero essere un ponte verso il lavoro, eppure ancora nel 2022 l’Italia risultava il terzo paese Ue per tasso di disoccupazione (18 per cento) nei giovani tra i 15 e i 29 anni.
Non solo. Secondo Eleonora Voltolina, fondatrice della Repubblica degli stagisti: «Gli stagisti in Italia sono circa mezzo milione all’anno». Questa cifra però – conferma Voltolina – riguarda solo gli «stage extra-curriculari», mentre rimane un segmento «letteralmente ignoto» quello degli stage curriculari. Le due esperienze, infatti, sono profondamente diverse, anche dal punto di vista legislativo.
DUE TIPI DI STAGE
Il tirocinio curriculare è un percorso formativo-professionale che si svolge durante il periodo di studio, la maggior parte delle volte universitario. Lo studente riceve in cambio crediti utili per il suo libretto universitario, ma non c’è una legge che prescriva un compenso obbligatorio minimo.
Lo stage extracurriculare invece è definito di inserimento (o reinserimento) lavorativo. È prevista per obbligo di legge un’indennità – sebbene cambi da regione a regione – ma non ha quindi alcun collegamento con il periodo scolastico universitario.
Allo stesso modo non è neanche legato a limiti d’età, tuttavia in una società ideale sarebbero prettamente i giovani a usufruirne. E invece, come riporta Voltolina all’Adnkronos: «Rispetto specificamente agli extracurriculari è interessante sottolineare che non si tratta affatto di una esperienza riservata ai giovani: oltre 46mila delle persone coinvolte in un tirocinio nel 2022 avevano più di 35 anni. Vale a dire quasi uno stagista su sette è di mezza età. In particolare, quasi 9mila sono gli ultra 55enni che sono stati inseriti in stage».
Non sorprendono quindi i dati Eurostat per il 2022 in cui i giovani italiani lasciano la casa dei genitori in media a 30 anni, molto al di sopra della media europea che si attesta a 26,4 anni.
LA NORMATIVA
Per i tirocini curriculari esiste una normativa con valenza nazionale che si basa sulla legge 196 del 1997 e il successivo decreto attuativo numero 142 del 1998. La legge stabilisce solo i princìpi generali, tocca poi agli enti di formazione definire la disciplina per l’attivazione e il funzionamento dei tirocini curriculari.
Per gli extracurriculari la regolamentazione è regionale e si basa su un accordo raggiunto in sede di Conferenza stato-regione con l’emanazione di linee guida.
Le ultime linee guida emanate risalgono al 2017 e sono ancora in vigore nel 2023. Tuttavia, la legge di Bilancio del 2022 ha previsto una modica delle regole, ma il governo Meloni non è ancora intervenuto. Inoltre, la Corte costituzionale, accogliendo il ricorso della regione Veneto, ha bocciato i criteri che circoscrivevano l’applicazione della nuova disciplina in ambito di tirocini in favore di soggetti con difficoltà d’inclusione sociale.
Le disposizioni del governo Draghi hanno l’obiettivo di evitare un uso distorto dello strumento. In particolare, si basano su alcuni criteri, tra cui il riconoscimento di un congruo compenso, la fissazione di una durata massima dei tirocini, comprensiva di eventuali rinnovi e definizione di forme e modalità di contingentamento per vincolare l’attivazione di nuovi tirocini all’assunzione di una quota minima di tirocinanti al termine del periodo di stage.
IL CASO DELLA CAMERA
C’è poi il caso della Camera dei deputati, uno dei luoghi della politica più importanti in Italia: a fine novembre scade il bando per dieci tirocini curriculari. Si lavora per sei mesi, ma gratis. Chiaramente non viene violata alcuna legge, perché non è obbligatorio il rimborso spese in questo caso, ma è indicativo che il parlamento italiano mandi questo segnale a tutte le aziende italiane. Soprattutto dopo i recenti sviluppi.
Nella passata legislatura era in discussione una riforma sugli stage curriculari che avrebbe introdotto anche un rimborso spese mensile. Il primo tentativo l’ha fatto Massimo Ungaro, primo firmatario della proposta. Nei restanti tre anni sono state depositate altre proposte simili, fino ad arrivare a un testo unico nel 2021 sottoscritto da Italia viva, Liberi e uguali, Movimento 5 stelle, e Partito democratico.
Anche in quella bozza l’elemento principale era l’introduzione di un rimborso spese. Ma, caduto il governo Draghi e sciolte le camere, ogni buona intenzione è venuta meno.
VALERIA COSTA. Laureata in Scienze politiche. Studia Governo amministrazione e politica alla Luiss a Roma
Alternanza scuola-lavoro, la riforma beffa: i ragazzi potranno morire assicurati. L'Indipendente il 27 Gennaio 2023
Il 16 settembre 2022 il diciottenne Giuliano De Seta moriva schiacciato da una lastra di acciaio di oltre una tonnellata. Era uno studente dell’istituto tecnico Da Vinci di Portogruaro, ma anziché essere a scuola si trovava a lavorare in fabbrica, non per scelta ma perché obbligato dalla riforma renziana delle cosiddetta “buona scuola”, che sancisce che gli studenti delle superiori debbano ottenere crediti formativi prestando servizio gratuito in azienda. Alla tragedia, per la famiglia di Giuliano, si è aggiunta la beffa: l’INAIL ha negato il risarcimento previsto per infortuni e decessi sul lavoro, visto che in quanto studente non godeva della copertura assicurativa. Ieri la ministra del Lavoro, Marina Calderone, e il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, hanno raggiunto l’accordo che amplia la copertura assicurativa agli studenti in alternanza scuola-lavoro. Un provvedimento che i movimenti studenteschi rigettano, chiedendo l’abolizione stessa della misura e non un eventuale risarcimento post-mortem.
L’annuncio è arrivato in concomitanza con l’avvio del tavolo tecnico ministeriale sull’alternanza scuola-lavoro, che si è riunito per la prima volta ieri mattina al ministero dell’Istruzione e del Merito (Miur). Secondo il ministro Valditara il tavolo dovrà servire ad aumentare la sicurezza degli stage e a riattivare il Comitato per il monitoraggio e la valutazione dell’alternanza scuola-lavoro. Nessuna intenzione, a quanto pare, di ridiscutere l’esistenza stessa della misura, come chiedono da tempo i movimenti studenteschi che denunciano come l’alternanza – annunciata come un percorso didattico volto a rendere il mondo dell’istruzione più utile al percorso lavorativo abbia “progressivamente allontanato la scuola dalla sua funzione emancipatrice, didattica e pedagogica, per allinearla alle necessità delle aziende e dei privati”.
Le stesse modalità di attuazione del tavolo tecnico è stata denunciata dagli studenti, che non hanno mancato di denunciare come tra le 37 sigle invitate ai lavori ci sono tutti (sindacati confederali, associazioni dei datori di lavoro e presidi) tranne le organizzazioni studentesche, segno di come l’opinione e la testimonianza diretta di chi effettivamente subirà le decisioni non è richiesta. “Nonostante il tavolo sia stato dipinto come la soluzione alle morti in alternanza, non ci sfugge il vero tentativo del ministero, cioè quello di riformare e potenziare ulteriormente l’alternanza scuola-lavoro. Ormai, in perfetta continuità con i governi precedenti e con il governo Draghi, Valditara mostra per l’ennesima volta a tutti il modello di scuola che ha in mente: una scuola completamente aziendalizzata, integrata nel mercato del lavoro del territorio e per questo diseguale nel Paese, che plasma gli studenti allo sfruttamento e alla precarietà lavorativa mentre mette a disposizione dei privati un esercito di studenti-lavoratori non retribuiti, piegando le nostre conoscenze e la nostra manodopera al loro profitto”, ha scritto in un comunicato l’OSA (Opposizione Studentesca d’Alternativa, una delle sigle del movimento studentesco).
Tra i sindacati invitati al tavolo (dal quale sono stati esclusi quelli di base e conflittuali come i Cobas) la CGIL chiede che l’alternanza non sia più un obbligo formativo ma diventi una scelta dello studente. Mentre a difendere a spada tratta l’obbligatorietà dello stage rimangono le associazioni dei datori di lavoro (per le quali lo stagista significa manodopera non retribuita) ed anche l’Associazione Nazionale Presidi (ANP) che la definisce nientemeno che “una metodologia didattica innovativa”. Al tema dell’Alternanza scuola lavoro su L’Indipendente abbiamo dedicato nel recente passato un ampio approfondimento, che dimostra anche le storture con le quali viene applicato un percorso che dovrebbe essere vincolato a paletti rigidi per quanto riguarda il tutoraggio in azienda e l’esenzione dei ragazzi da ogni compito pericoloso. Norme che evidentemente sono state violate in molti luoghi di lavoro, portando al decesso di tre stagisti nel 2022. Senza una riflessione complessiva sulla misura e senza reali azioni di monitoraggio sull’effettivo rispetto delle norme, la decisione di limitarsi ad allargare la copertura INAIL rischia di tramutarsi in quello che gli studenti hanno già ribattezzato «diritto a morire assicurati».
Il Licenziamento.
Antonio Giangrande: QUELLI CHE……L’ART. 18.
Licenziare il lavoratore dannoso all'impresa ed alla società civile, significa educare al lavoro ed al rispetto dei ruoli, delle persone e della proprietà altrui. Come significa anche aprire il mercato del lavoro a chi il lavoro non lo ha mai avuto per colpa di coloro che, sindacalizzati e politicizzati, avevano il monopolio e l'esclusiva dell'occupazione. Perchè qualcuno deve coprire il posto di lavoro lasciato libero dal licenziamento.
Estratto da lastampa.it l'1 ottobre 2023.
Licenziato per avere ricaricato il motorino elettrico, causando all'azienda un danno i 25 centesimi. Sarà il tribunale del Lavoro di Bergamo a decidere se l'operaio di 50 anni di origini indiane, protagonista di questo episodio, ha danneggiato la ditta Novella Bio di Trescore Balneario, una impresa agricola di agricoltura bio in serra. L'operaio è stato licenziato per giusta causa e rischia anche una denuncia penale.
Secondo i legali dell'uomo […] il licenziamento sarebbe una ritorsione per la sua appartenenza sindacale e gli avvocati chiedono il reintegro nel posto di lavoro oltre al risarcimento per i mancati stipendi, da ottobre 2022 (quando avvenne il licenziamento) a oggi.
Opinione diversa ha il legale della ditta Novella bio, che è il vicesindaco di Bergamo, Sergio Gandi. Per loro la ricarica non sarebbe un episodio isolato ma sarebbe avvenuta in più occasioni, concretizzando dunque un furto di energia elettrica. […]
Lo statuto dei licenziati. Tommaso Cerno su L'Identità il 30 Settembre 2023
È bello scoprire che il sindacato più forte d’Italia, quello che ha costruito lo Statuto dei lavoratori e che ha segnato la storia del Novecento, la Cgil, abbia attinto la sua cultura sindacale dalla pratica. Quella di licenziare. Perché più si scava dentro la confederazione guidata da quel Landini che già sente il seggio come prossimo obiettivo di una lunga carriera politica, più si scopre un mondo in cui si predica bene ma si razzola molto diversamente da come si predica.
Devono essere talmente esperti dei cavilli che contestano nelle piazze contro i governi, in particolare quelli di destra, che per essere sicuri di quanto il maleficio che vanno profetando possa abbattersi di colpo su milioni di lavoratori, in casa loro fanno le prove. E così le storie che comincio a raccontare oggi sono storie di italiani normali. Che hanno avuto la sfortuna di non lavorare per quegli imprenditori abituati al pericolo per la stabilità di addetti e funzionari d’impresa, che poi sono gli stessi che molte volte per pagare gli stipendi ci mettono i soldi loro, ma di trovare il posto sicuro in quello che all’apparenza era il tempio del tempo indeterminato, della dimensione umana del lavoro, dell’applicazione maniacale degli Statuti e delle regole.
Quel sindacato che, come capita a certi preti, studia bene la teoria e poi fallisce nella pratica. E così nel lungo elenco di contraddizioni federali e confederali che si sono elencate in queste settimane viene il dubbio che il lavoro stia messo così male in Italia perché proprio quelli che abbaiano non mordono. E che il ruolo che oggi il sindacato riveste è quello di stare in piedi, di sfruttare tutte le scappatoie possibili che con il suo benestare si sono create in quello che un tempo era il muro solido del diritto del lavoro, costruendo via via carriera politica a tutti quelli che in questa specie di gioco di ruolo finiscono a sedersi sulle poltrone più in alto. Non si tratta nemmeno di criticare, si tratta di prendere atto che alla fine le strutture che sono nate dalle contraddizioni di questo Paese ne sono diventate il suo specchio. D’altra parte anche un imbecille capisce che se i salari in Italia sono i più bassi fra tutti i Paesi industrializzati come il nostro in giro per l’Europa la colpa sarà pur di qualcuno. E se non è tutta è un concorso.
E quindi in una Repubblica dove si sono alternate ere geologiche di politica e l’unica cosa che è rimasta uguale sono le sigle sindacali, forse è venuto il tempo di ascoltare meno prediche e più mea culpa. E anche di dirci le cose come stanno: se siamo arrivati al punto di invocare il salario minimo come panacea di tutti i mali, significa che anche la sinistra sindacalizzata ha capito che la traiettoria che la Cgil ha preso non è certo quella che è scritta nel suo statuto e che in fondo il liberismo avrà anche contaminato i governi, le segreterie dei partiti, e perfino qualche cattedra di tribunale ma non ha certo lasciato indenne quello che un tempo era considerato l’antidoto sociale al sopruso del Palazzo e che oggi è un Palazzo come un altro. Forse perfino peggio.
Estratto dell’articolo di Aldo Fontanarosa per “la Repubblica” martedì 19 settembre 2023.
Il giudice del lavoro di Roma cancella perché illegittimo il licenziamento del pilota di Ita Airways che, nella notte del 30 aprile 2022, si addormentò mentre guidava l’aereo tra New York e Roma.
Ieri un deputato della Commissione Trasporti mostra due documenti nella sede del suo partito.
Tra le mani ha la sentenza del giudice del lavoro Luca Redavid che annulla il licenziamento (il 21 luglio 2023); e soprattutto le motivazioni della sentenza favorevole al pilota, che arrivano in queste ore.
Il giudice Luca Redavid - mentre spazza via il licenziamento perché «illegittimo» - condanna il datore di lavoro (cioè Ita) a reintegrare il pilota. E il pilota avrà anche diritto a ricevere lo stipendio dal momento del licenziamento (il 26 maggio 2022) fino al giorno dell’effettivo reintegro tra i dipendenti della compagnia, oltre ai «contributi assistenziali e previdenziali».
[…] Il problema è che Ita ha mosso queste contestazioni e formalizzato il licenziamento con modalità illegittime. In particolare, la compagnia ha violato l’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori. Un’azienda - si deduce dalla sentenza - può licenziare un dipendente (per quella che considera un “giusta causa”) purché rispetti un preciso binario procedurale. Proprio l’articolo 7 dello Statuto dei lavoratori obbliga l’azienda «alla preventiva contestazione dell’addebito», con una lettera scritta al dipendente sotto accusa. La forma scritta è obbligatoria perché «rende certa e immutabile» la contestazione.
Soltanto se ha inviato la contestazione scritta, e una volta trascorsi 5 giorni, l’azienda può prendere la madre di tutte le decisioni, come è il licenziamento. Questa procedura - ricorda ancora il giudice del lavoro di Roma - è la sola a «consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente». Se un’impresa evita il binario procedurale corretto, l’intera procedura di licenziamento è illecita. Anzi: è addirittura «inesistente». E anche «il fatto contestato non esiste a priori ».
Estratto dell'articolo di Massimo Basile per "la Repubblica" domenica 10 settembre 2023.
[…]
Negli Stati Uniti è in corso una nuova trasformazione nel mondo del lavoro: se tra i dipendenti si sta diffondendo il modello del “Quiet Quitting”, cioè del lavorare meno senza darlo a vedere, i “padroni” rilanciano con il “Quiet Cutting”. Ci sono solo due lettere di differenza, ma lo scenario è totalmente diverso: le compagnie non licenziano in massa, ma mettono i loro dipendenti davanti alla possibilità: andarsene, oppure accettare un cambiamento di mansioni, ricollocamenti, trasferimenti. A volte le proposte vengono accettate, a volte no. E lì scatta la fine del rapporto che, però, non rientrerà nelle statistiche alla voce: licenziamenti.
Bonanni: “Noi sindacalisti abbiamo fatto errori. Oggi si pensa troppo a potere e politica”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 29 Settembre 2023
Bonanni: “Noi sindacalisti abbiamo fatto errori. Oggi si pensa troppo a potere e politica”
“Fino a qualche anno fa vigeva l’idea che l’armonia dell’organizzazione veniva garantita dalla libertà d’opinione. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, tale patto non formale è venuto meno. Per un’opinione diversa si rischia di essere licenziati o addirittura cancellati dal sindacato. Chi vince, pur avendo il consenso, però, non può pensare di privare gli iscritti della loro libertà o autonomia. Altrimenti le stesse istituzioni vengono meno”. A dirlo Raffaele Bonanni, ex segretario generale della Cisl.
Anche i sindacati, oggi, sono costretti a licenziare. Cosa è cambiato rispetto a qualche anno fa?
Gli iscritti sono calati e quindi anche gli incassi non sono quelli di una volta. Le disponibilità di bilancio sono diverse. Un’altra ragione, poi, è il venir meno di una regola non scritta.
Quale?
Fino a qualche anno fa c’era un codice interno che veniva rispettato da chi aveva scelto di fare una vita diversa. Vigeva l’idea che l’armonia dell’organizzazione era garantita dalla libertà d’opinione. Questa andava di pari passo con una condizione di tutela interna. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, tale sorta di patto non formale è venuto meno. Per un’opinione diversa si rischia addirittura di essere licenziati dal sindacato o emarginati. La verità è che nel passato anche gli scontri più cruenti erano protetti da tolleranza e rispetto. Nel sindacato di oggi ciò non accade.
Quali le ragioni del cambiamento?
Le leadership non devono essere imposte, ma devono essere frutto di un consenso. Detto ciò, chi vince, pur essendo rappresentativo, soprattutto in Italia, sbaglia a ritenere che tutto quanto non deciso dal vertice debba essere messo in discussione. Chi sgarra, quindi, paga.
Sono sempre meno, intanto, i nostri concittadini che si iscrivono a un sindacato. Perché?
Le aziende sono sempre più piccole, non sono quelle di una volta. È cambiato il paradigma del lavoro. Si tende a essere più artigiani. Ognuno prende il proprio carico e lo fa nello spazio e nel tempo che ritiene opportuno. Viene meno, pertanto, un rapporto collettivo. Se a tutto ciò, aggiungiamo che le organizzazioni, sia politiche che sindacali, non si sono adeguate ai tempi, capiamo le ragioni della mancanza di adesioni.
Cala pure la fiducia verso le organizzazioni…
Andando oltre la retorica, fare il sindacalista dovrebbe essere una vocazione. Si tratta di impegnarsi in orari straordinari. Nella mia esperienza non esisteva tempo e limite all’impegno.
Come avvicinare le persone a questa professione. Lo Stato può fare qualcosa?
La verità è che il sindacato deve sapersi adattare da solo al contesto attuale. Altrimenti rischiamo di trovarci di fronte a un cambiamento degenerato e sottoposto a poteri statali e politici. Il sindacato deve restare autonomo.
A cosa si riferisce?
Alla Magneti Marelli si impedisce a un’istituzione di poter entrare in uno stabilimento solo perché di un colore politico diverso. In questo modo, però, non si aiutano gli operai. Rispetto a certe battaglie bisognerebbe andare oltre gli steccati.
Autonomia, talvolta, significa per qualcuno non rispettare lo Statuto dei Lavoratori.
Può avvenire che quella morale che doveva esserci all’interno delle organizzazioni, purtroppo, viene meno. Il dissenso, prima, non era punito, ma garantito. Molto spesso, oggi, accade il contrario. Se non ti sottoponi a chi comanda, vai fuori. La libertà di espressione è un lontano ricordo.
In tutto ciò, i giovani vedono le organizzazioni di categoria come un superfluo…
Siamo in una fase di transizione, dove c’è il vecchio che resiste e il nuovo che incalza. Bisogna saper separare bene le forze per contenere il passato e portarlo nel futuro. Per fare questo, occorre innanzitutto cultura. Mi riferisco alla modernità.
A proposito di cultura, il sindacalista, talora, viene indicato, in modo errato, come un peso…
L’Italia, in questa crisi, ha molto più bisogno di sindacato. Menomale che ci sono persone che si alzano la mattina presto e parlano con gli altri. Oggi come non mai, deve esserci qualcuno che regola sulle cose concrete il rapporto tra imprese e lavoratori. Il problema vero è che in questi tempi bisogna essere più forti. Bisognerebbe prendere degli integratori culturali. Non è la società giusta quella dove gli individui non si possono organizzare e non riescono a gestirsi collettivamente con il potere economico.
Spesso, però, sentiamo parlare di scandali, come rubare nelle istituzioni o addirittura prendere in giro chi dovrebbe essere garantito…
Le pecore nere ci sono e ci sono sempre state. Ogni cassetta, purtroppo, ha la sua mela marcia. Detto ciò, non possiamo dire alle persone di non mangiare più mele.
Così la Cgil mi ha cacciata: a casa con due figli dopo 35 anni di lavoro. Rita Cavallaro su L'Identità il 29 Settembre 2023
Si riempiono la bocca con i diritti dei lavoratori e scendono in piazza per il salario minimo, ma nelle segrete stanze della Confederazione se ne infischiano di quei diritti, arrivando perfino a licenziare i dipendenti dalla sera alla mattina. La Cgil di Maurizio Landini sta mostrando, giorno dopo giorno, il vero volto del più grande sindacato italiano, quello che con i suoi 5 milioni di iscritti si definisce il “baluardo contro l’aumento delle diseguaglianze sociali e la precarietà dei contratti”. Peccato che proprio l’era Landini ha aperto una stagione di licenziamenti in tronco, mascherati con la formula “per giustificato motivo oggettivo” e sfruttando perfino il Job Acts. Sta facendo discutere la cacciata di Massimo Gibelli, lo storico portavoce della Cgil messo alla porta dopo quarant’anni nel sindacato. Ma la sua storia è solo la punta dell’iceberg, perché dalle filiali sparse in tutta Italia casi come quello di Gibelli stanno diventando quasi la normalità, insieme a tutta una schiera di denunce per demansionamenti e presunti casi di mobbing. Gente che, comunque, ancora una stipendio a casa lo porta, a differenza di Gibelli&Co, licenziati da un giorno all’altro e sul piede di guerra, convinti ad andare fino alla fine in quella che si prospetta una battaglia in tribunale.
E che molto spesso si rivela un ulteriore dispendio di denaro, perché il sindacato resta irremovibile contro il reintegro e le vertenze vanno avanti per anni, fino alla Cassazione. Come nel caso di Igina Roberti, la cui vicenda non solo ha dell’incredibile, ma è in grado di suscitare lo sdegno dei più, per i tempi e le modalità con cui si è consumata. Igina, infatti, è stata liquidata con due parole, “sei licenziata”, in piena emergenza Covid, il periodo più buio della nostra storia moderna, carico di sofferenze per le persone che finivano intubate, segnato dalla paura di morire, dalle restrizioni, dai lockdown, da un distanziamento sociale che ha pesato sui rapporti umani. Il sindacato che parlava a favore di quelle persone in difficoltà economica, a causa degli esercizi commerciali chiusi o delle aziende fallite, ha fatto ancora peggio quando il 7 maggio 2019 ha convocato Igina nella sede Fillea-Cgil di Taranto per congedarla senza troppi fronzoli. Una donna sola, madre di un figlio di vent’anni, con due familiari disabili si è vista risolvere, dopo 35 anni di servizio, un’assunzione a tempo indeterminato con una semplice comunicazione verbale. “Mi hanno detto che la motivazione del licenziamento era legata alla diminuzione degli iscritti al sindacato, mi hanno chiesto di consegnare immediatamente le chiavi e di non presentarmi il giorno dopo al lavoro”, racconta a L’Identità Igina Roberti, che da allora ha avviato una battaglia legale per la difesa dei suoi diritti. “Per due giorni mi sono recata ugualmente in ufficio, senza poter entrare, perché era stata cambiata la serratura. Solo poi ho ricevuto la lettera di licenziamento. Ho scritto a Landini, non mi ha mai risposto.
Per me è stata una tragedia, perché all’improvviso mi sono trovata senza stipendio, 1.500 euro, e sono finita in strada, non riuscendo a pagare l’affitto. Io e mio figlio ci siano dovuti trasferire a casa di mia madre e mio fratello, che hanno già tanti problemi, e nessuno si è mai preoccupato della mia situazione. Sono l’unica donna licenziata in tronco dalla Cgil”. Alla faccia del “baluardo contro l’aumento delle diseguaglianze sociali”. E alla demagogia della tutela del lavoro si contrappone la presa di posizione della Confederazione, che non solo si è opposta alla reintegrazione di Igina, ma si è rifiutata di raggiungere qualsiasi tipo di accordo. “Se mi avessero pagato almeno i sei anni di contributi che mi mancano per la pensione io avrei chiuso la faccenda, ma non hanno voluto”, ha aggiunto Igina, sottolineando quanto sia stata dura per lei, che nel corso della sua vita ha sempre creduto nei principi portati avanti del sindacato, “vedere l’avvocato dei paladini del lavoro che andava contro una lavoratrice in modo così pesante”.
Tutta colpa del landinismo, secondo la donna, entrata in Fillea a ventun anni e da allora passata attraverso vari segretari. “Una volta credevo in quei valori, l’era più bella è stata quella di Giorgio Cremaschi, una persona in gambissima, ma anche con Epifani non c’erano problemi. Invece questa nuova gestione di Landini è fallimentare, non fa certo gli interessi dei lavoratori”, ha detto Igina. Che non fa mistero neppure di quanto, nella Cgil, la sinistra operi con il consueto sistema delle correnti e dello spoil system. “La cosa che mi ha fatto davvero pena sono i tanti messaggi di solidarietà in privato dei compagni, i quali mi chiedevano però di non far sapere a nessuno che stavano dalla mia parte. Li ho eliminati tutti dalle mie amicizie, perché le battaglie si fanno insieme mettendoci la faccia”.
Gibelli: «La Cgil mi ha licenziato dopo 40 anni, sfruttando anche il Jobs Act». Storia di Claudio Bozza su Il Corriere della Sera l'11 settembre 2023.
«Non capita a tutti di essere licenziati dal sindacato. A me è successo. La Cgil mi ha licenziato il 4 luglio. Per di più sfruttando anche il Jobs act». Inizia così il lungo sfogo di Massimo Gibelli, storico spin doctor della Cgil, e portavoce di leader del sindacato come Sergio Cofferati, Susanna Camusso e l’attuale Maurizio Landini, che, a dire la verità, già nel 2021 aveva cancellato la figura del portavoce con una direttiva che suonava così: «Avendo lo stesso segretario generale l’abitudine e la propensione a intrattenere direttamente i rapporti con la stampa e i media in generale»... Un portavoce era diventato inutile, nello schema landiniano.
Ma Gibelli, pur senza avere più quel ruolo formale, era rimasto dipendente della Camera del Lavoro. Fino al 4 luglio scorso, quando lo spin doctor è stato licenziato in tronco. «Al rientro da un breve periodo di ferie, sono convocato dal segretario organizzativo — racconta Gibelli sulla sua pagina Facebook —. Durante il colloquio mi viene comunicato il “licenziamento per giustificato motivo oggettivo” e consegnata la lettera raccomandata a mano in cui si specifica che “la data odierna, 4 luglio 2023, è da considerare l’ultimo suo giorno di lavoro”. Seguono ringraziamenti e saluti di rito. Ovviamente il licenziamento è stato impugnato e sono ora in corso le conseguenti procedure».
Lo storico portavoce della Cgil, la cui carriera era iniziata al fianco di Fausto Bertinotti 40 anni fa, precisa poi che il sindacato ha «sfruttato anche il Jobs act». «Il diritto del lavoro — scrive ancora Gibelli — è materia complessa e mutevole, risultato del sovrapporsi di innumerevoli leggi e riforme. Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è previsto dall’articolo 3 della legge n. 604 del 1966, più volte modificato nel corso degli anni, in ultimo dalla riforma Fornero del 2012 e nel 2015 dal Jobs Act di Renzi. Leggi che furono fortemente contestate dal sindacato».
Gibelli racconta di essersi reso disponibile a ricoprire altri incarichi, «ma la situazione è invece progressivamente peggiorata». «Non so dire — conclude con amarezza — se la scelta della data in cui mi è stato comunicato l’ultimo giorno di lavoro sia stata casuale o ragionata. Per quanto mi riguarda, mio malgrado, voglio pensare, devo pensare, che il 4 luglio, l’Independence Day, possa essere un nuovo inizio».
Estratto dell’articolo di Laura Cesaretti per “Il Giornale” martedì 12 settembre 2023
Il Jobs Act è «una follia». È «contro i diritti dei lavoratori». Va «abolito». «Abrogato». «Cancellato». Per tutti, tranne che per me. Già: stavolta l’illustrissimo Segretario Generale della Cgil Maurizio Landini, acerrimo nemico dei licenziamenti e della «precarietà», implacabile difensore dei lavoratori che perdono il posto per colpa dei cattivissimi padroni, promotore di un (improbabile, anzi impossibile, ma lui lo annuncia lo stesso) referendum per abrogare la riforma del lavoro firmata dall’odiato Renzi, è stato preso in castagna.
E che la contraddizione gli faccia assai male lo dimostra lui stesso, sottraendosi con un imbarazzatissimo e muto «no comment» alla troupe tv della trasmissione Quarta Repubblica (Rete 4) che lo incalza: «Segretario, a quanto ci risulta il 4 luglio la Cgil ha licenziato lo storico portavoce del sindacato, Massimo Gibelli. Ne è a conoscenza?»
Landini gira la testa, affretta il passo, non risponde. «Segretario, è stato licenziato con una formula che si ritrova proprio nel Jobs Act, quello che la Cgil vuole eliminare. E lo utilizzate per licenziare i vostri dipendenti?» Landini serra le labbra, non risponde, scappa.
Del resto che potrebbe rispondere? Le cose stanno proprio così, e a raccontarlo (con un intervento su Huffington Post) è stato lo stesso protagonista, malgré soi, della imbarazzante faccenda. Massimo Gibelli, 64 anni, torinese, provenienza socialista, è entrato in Cgil nel lontano 1983. Ha collaborato con tutti i grandi leader sindacali degli ultimi decenni, da Lama a Del Turco a Trentin. È stato il portavoce […] di Sergio Cofferati […]
Finché alla Cgil è approdato Landini, che ha deciso di licenziarlo. Utilizzando proprio l’immondo Jobs Act: «Oggi, 4 luglio 2023, è da considerarsi il suo ultimo giorno di lavoro», gli è stato comunicato dal segretario organizzativo Luigi Giove. Licenziamento per «giustificato motivo oggettivo».
Già nel 2021, racconta su HuffPost Gibelli, la segreteria Cgil aveva «deliberato la soppressione della posizione di portavoce del segretario» che lui ricopriva. Motivazione surreale, ma nero su bianco: «Avendo il segretario l’abitudine e propensione a intrattenere direttamente i rapporti con i media».
Da cui si deduce che Landini è abituato a importunare telefonicamente, per chiedere interviste e sollecitare ospitate tv, a direttori ed editori: immaginabile, vista l’ansia di visibilità del personaggio, ma non proprio usuale.
[…] «Il licenziamento è stato impugnato», scrive Gibelli. La Cgil dovrà dimostrare di non aver potuto ricollocare un dipendente nonostante vanti «5 milioni di iscritti, 12 categorie nazionali, 21 strutture regionali, 102 Camere del lavoro, patronati, Caaf, società di comunicazione, incarichi in enti pubblici, sedi in 3 continenti». […]
Estratto dell’articolo di Laura Cesaretti per “il Giornale” mercoledì 13 settembre 2023.
Eh no, il portavoce «è un lusso che non possiamo più permetterci». Dopo 24 ore di imbarazzo e fughe dai cronisti, il segretario della Cgil Maurizio Landini tenta di uscire dall’angolo. Il caso del licenziamento ex Jobs Act dello storico portavoce del sindacato, Massimo Gibelli, gli è scoppiato tra le mani, e il capo cigiellino prova a giustificarlo. Ma la toppa non è molto migliore del buco.
«La questione è molto semplice assicura - la Cgil ha proceduto a una riorganizzazione interna e accanto a me non vedete un portavoce, figura che non esiste più perché è un lusso che non possiamo permetterci: viviamo del contributo degli iscritti e dobbiamo avere attenzione a come spendiamo i soldi».
[…] Del resto il capo Cgil, che dichiara orgoglioso: «Io ragiono ancora in lire», ha rivelato che lui risparmia pure sul caffè: non lo prende al bar, perché «mi rifiuto di pagarlo 3000 lire». Peccato che le cose non stiano esattamente così: lo stipendio di Gibelli gravava sulla Cgil per appena 55mila euro lordi annui.
La «riorganizzazione» della comunicazione, appaltata da Landini un paio d’anni fa alla srl Futura (di cui Cgil nazionale è socia di minoranza al 48,8% ma di cui garantisce le esposizioni), si è rivelata invece piuttosto costosa. Nel bilancio ufficiale Cgil 2021, alla voce «oneri per il comparto comunicazione», la cifra è di 2.846mila euro. Nel 2022, si registrano 2.710mila euro, di cui 2.141mila per Futura srl.
Nel corso del 2022, si legge, «sono stati effettuati versamenti in conto capitale per euro 2.002.800 per permettere a Futura srl la prosecuzione del proprio consolidamento. In data 23 gennaio 2023 Futura srl ha comunicato che a seguito della perdita di bilancio 2021 ha utilizzato euro 1.089.201 dai versamenti in conto capitale che la società ha ricevuto dalla Confederazione».
Non solo la Confederazione, ma anche le singole categorie e le segreterie locali contribuiscono generosamente al finanziamento della comunicazione, visto che a Futura srl è stata affidata la gestione dell’intero «ecosistema multimediale» del sindacato: il portale di informazione Collettiva (9mila contatti al giorno, non moltissimi), la radio Articolo 21, i podcast, le edizioni Ediesse, il sito Cgil, i social etc.
Un massiccio investimento voluto da Landini, che sulla propria visibilità mediatica punta come è noto moltissimo, con criteri che la minoranza della Cgil definisce «più da marketing privatistico che da propaganda sindacale».
[…]
Ma Landini, quando si tratta di protagonismo politico personale, non bada a spese. Anche se le iniziative hanno poco o nulla a che fare con i compiti del sindacato: basti pensare che nel 2022 la Cgil ha speso 500mila euro circa (in lire, così capisce anche lui, sarebbero 1 miliardo tondo) per finanziare tre manifestazioni per la «pace» e reclamare - si immagina con gran soddisfazione dell’invasore russo - di sospendere immediatamente il sostegno alla lotta di liberazione dell’Ucraina invasa.
(ANSA martedì 12 settembre 2023 ) - "Voglio dire una cosa molto semplice: la Cgil ha proceduto ad una sua riorganizzazione interna e la scelta che è stata fatta è quella di non avere più la figura del portavoce. Nella riorganizzazione questo è un lusso che non possiamo più permetterci.
Non a caso io non ho più nessun portavoce, quindi abbiamo semplicemente fatto una riorganizzazione che va in questa direzione, né più né meno". Così il leader della Cgil, Maurizio Landini, sul tema della cessazione del rapporto di lavoro dello storico portavoce della Cgil, Massimo Gibelli, che ha detto pubblicamente di essere stato licenziato dal sindacato con le regole del Jobs Act.
"Il licenziamento con il Jobs Act non c'entra assolutamente nulla, lui era assunto dal 2012", ha sottolineato Landini, mentre la misura è entrata in vigore solo nel marzo del 2015. "Insisto - ha aggiunto Landini - noi abbiamo previsto una riorganizzazione" nell'ambito della quale "la figura del portavoce non esiste più. Accanto a me di altri portavoce non ne vedete, perché è un lusso che non possiamo permetterci - ha concluso rivolgendosi ai giornalisti presenti - Siamo un'organizzazione che vive sul contributo economico degli iscritti e dobbiamo avere attenzione su come spendiamo i nostri soldi. Non c'è altra operazione che questa".
Maurizio Landini licenzia i suoi? Ma spende 2,7 milioni. Libero Quotidiano il 14 settembre 2023
Non devono essere delle giornate facili per Maurizio Landini. Il segretario della Cgil è finito nel polverone mediatico dopo che il sindacato da lui guidato ha deciso di fare a meno un suo portavoce, Massimo Gibelli. Ma soprattutto perché il licenziamento è avvenuto grazie al Jobs Act, la norma voluta da Matteo Renzi. E che il segretario troppo spesso ha criticato. "La questione è molto semplice - assicura - la Cgil ha proceduto a una riorganizzazione interna e accanto a me non vedete un portavoce, figura che non esiste più perché è un lusso che non possiamo permetterci". Ventiquattro ore di silenzio e imbarazzo. Ma per Landini potrebbe non essere finita qui.
Come riporta Il Giornale, lo stipendio di Gibelli pesava sulla Cgil per appena 55mila euro lordi annui. La pianificazione - per usare un termine caro ai compagni - della comunicazione appaltata da Landini un paio d’anni fa alla srl Futura si è rivelata invece piuttosto onerosa. Nel bilancio ufficiale Cgil 2021, alla voce "oneri per il comparto comunicazione", la cifra è di 2.846mila euro. L'anno seguente si registrano 2.710mila euro, di cui 2.141mila per Futura srl. Nel corso del 2022, si legge, "sono stati effettuati versamenti in conto capitale per euro 2.002.800 per permettere a Futura srl la prosecuzione del proprio consolidamento. In data 23 gennaio 2023 Futura srl ha comunicato che a seguito della perdita di bilancio 2021 ha utilizzato euro 1.089.201 dai versamenti in conto capitale che la società ha ricevuto dalla Confederazione".
Un investimento poderoso voluto da Landini, che sulla propria visibilità mediatica punta moltissimo. Ma il segretario, quando si tratta di protagonismo politico personale, è di manica larga. Anche se le iniziative c'entrano poco con i compiti del sindacato: basti pensare che nel 2022 la Cgil ha circa speso 500mila euro per appoggiare tre manifestazioni per la "pace" e reclamare di sospendere immediatamente il sostegno alla lotta di liberazione dell’Ucraina occupata.
I Martiri del Lavoro.
La Storia.
I Numeri.
La Cultura.
A Chieti.
La strage di Brandizzo.
Giacomo Chiapparini.
Vito Germano e Cosimo Lomele.
Alessandro Nasta.
Angelo Giovanni Zanin e Dario Beira.
Antonio Golino.
Giuliano De Seta.
Tragedia di Marcinelle 8 agosto 1956, tra le più gravi stragi minerarie al mondo. Adnkronos su L'Identità l'8 Agosto 2023
(Adnkronos) – Una delle più gravi tragedie minerarie della storia si verificò l’8 agosto 1956, nella miniera di carbone di Bois du Cazier (appena fuori la cittadina belga di Marcinelle) dove si sviluppò un incendio che causò una strage. Morirono 262 minatori, di cui 136 italiani, per le ustioni, il fumo e i gas tossici. Causa dell’incidente, rivela Focus Cultura Storia, fu un malinteso sui tempi di avvio degli ascensori. Si disse che all’origine del disastro fu un’incomprensione tra i minatori, che dal fondo del pozzo caricavano sul montacarichi i vagoncini con il carbone, e i manovratori in superficie. Il montacarichi, avviato al momento sbagliato, urtò contro una trave d’acciaio, tranciando un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. Erano le 8 e 10 quando le scintille causate dal corto circuito fecero incendiare 800 litri di olio in polvere e le strutture in legno del pozzo. L’incendio si estese alle gallerie superiori, mentre sotto, a 1.035 metri sottoterra, i minatori venivano soffocati dal fumo. Solo sette operai riuscirono a risalire. In totale si salvarono in 12. Il 22 agosto, dopo due settimane di ricerche, mentre una fumata nera e acre continuava a uscire dal pozzo sinistrato, uno dei soccorritori che tornava dalle viscere della miniera non poté che lanciare un grido: 'Tutti cadaveri'. Ci furono due processi, che portarono nel 1964 alla condanna di un ingegnere (a 6 mesi con la condizionale). In ricordo della tragedia, oggi la miniera Bois du Cazier è patrimonio Unesco. La tragedia della miniera di carbone di Marcinelle è soprattutto una tragedia degli italiani immigrati in Belgio nel dopoguerra. Tra il 1946 e il 1956 più di 140mila italiani varcarono le Alpi per andare a lavorare nelle miniere di carbone della Vallonia. Era il prezzo di un accordo tra Italia e Belgio che prevedeva un baratto: l’Italia doveva inviare in Belgio 2mila uomini a settimana e, in cambio dell’afflusso di braccia, Bruxelles si impegnava a fornire a Roma 200 chilogrammi di carbone al giorno per ogni minatore. L'Italia a quell’epoca soffriva ancora degli strascichi della guerra: 2 milioni di disoccupati e grandi zone ridotte in miseria. Nella parte francofona del Belgio, invece, la mancanza di manodopera nelle miniere di carbone frenava la produzione. Per convincere gli uomini a lavorare nelle miniere belghe, si affiggono in tutta Italia manifesti che presentano unicamente gli aspetti allettanti di questo lavoro (salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato). In realtà, le condizioni di vita e di lavoro sono veramente dure. All'arrivo a Bruxelles, comincia lo smistamento verso le differenti miniere, dopodiché i lavoratori vengono accompagnati nei loro 'alloggi', le famose 'cantines': baracche, insomma, o 'hangar', gelidi d'inverno e cocenti d'estate, veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra. La mancanza di alloggi convenienti, previsti peraltro dall'accordo italo-belga, impedisce alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia. Trovare un alloggio in affitto è infatti quasi impossibile all'epoca. Senza contare la discriminazione. Spesso sulle porte delle case da affittare, i proprietari scrivono a chiare lettere 'ni animaux, ni etranger' (né animali, né stranieri). Un'integrazione difficile, dunque, a cui si sommano le condizioni di lavoro particolarmente dure e insalubri, nonché le scarse misure di igiene e sicurezza. Tra il 1946 e il 1955, quasi 500 operai italiani trovano così la morte nelle miniere belghe, senza contare il lento flagello delle malattie d'origine professionale. La più pericolosa di queste è la silicosi, causata dalle polveri della miniera che, depositandosi nei polmoni, crea insufficienze respiratorie. Il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani oggi parteciperà, alla presenza dei Reali del Belgio, alla 67ma commemorazione della tragedia di Marcinelle. È la prima volta che un vicepremier italiano partecipa alla cerimonia che ha luogo ogni anno nella periferia di Charleroi cui solo poche volte, in passato, è intervenuto un nostro ministro degli Esteri. La presenza di Tajani alle celebrazioni è volta a sottolineare l’importanza che il governo attribuisce tanto all’emigrazione storica, quanto a quella dei nostri giorni. “Il sacrificio dei nostri nonni a Marcinelle e in tanti altri luoghi ci deve rendere orgogliosi per lo straordinario contributo degli emigrati italiani allo sviluppo dei Paesi in cui arrivarono – ha osservato il vicepremier – ma deve farci riflettere anche sulla nuova emigrazione". Secondo Tajani, che ha disposto recentemente anche la riapertura di un Consolato indipendente a Bruxelles per il rafforzamento dei servizi ai cittadini, "i nostri connazionali all’estero sono ambasciatori dell’Italia nel mondo, in quanto sono portatori della nostra cultura e dei nostri valori, così come delle nostre eccellenze imprenditoriali, tecnologiche e scientifiche". Dopo la commemorazione che avrà luogo al sito della miniera e che si aprirà coi tradizionali 262 rintocchi di campana e proseguirà con un sorvolo di due Tornado dell’Aeronautica Militare italiana, il vicepremier renderà omaggio al Monumento alle vittime. Successivamente, incontrerà una rappresentanza della comunità italiana e assisterà alla presentazione di un progetto scolastico in corso nelle scuole belghe e italiane dal titolo “Belgio Chiama Italia”, finalizzato a una rilettura in chiave attuale della tematica dell’emigrazione e a rafforzare la cultura identitaria nelle nuove generazioni.
Più infortuni sul lavoro. Diminuiscono i morti ma sono sempre 100 al mese. Storia di Redazione Buone Notizie su Il Corriere della Sera mercoledì 4 ottobre 2023.
Più infortuni sul lavoro (con un aumento del 24,6%), ma meno vittime anche se il numero rimane ancora altissimo: 1.208 morti, vale a dire cento ogni mese. La fotografia tracciata dalla Relazione annuale dell’Inail per il 2022 mostra tutta la drammaticità di una «piaga» che in Italia appare tragicamente insanabile, nonostante la flessione delle persone che hanno perso la vita. Un’emergenza senza fine, soprattutto se si considera che i dati di infortuni e morti (tra incrementi e diminuzioni) risentono dell’incidenza del Covid-19 nel confronto con gli anni passati. E ancora, numeri alla mano. Nei bilanci dei primi otto mesi di quest’anno sono state 383.242 denunce di infortunio (meno 20,9% rispetto allo stesso periodo del 2022 ma più 8,1 a confronto al 2019, anno pre-pandemia) e 657 le vittime (venti in meno rispetto all’anno scorso e 28 in meno a confronto con il 2019). Sono quindi questi i dati forniti dal commissario straordinario dell’Inail, Fabrizio D’Ascenzo, in occasione della relazione annuale.
Ma veniamo nei dettagli. Nel 2022 sono stati denunciati all’Inail 703.432 infortuni sul lavoro, circa 139mila in più rispetto agli oltre 564mila del 2021 (+24,6%). Un aumento, viene spiegato dagli analisti, dovuto sia ai contagi professionali da Covid-19 (passati dai 49mila del 2021 ai 120mila del 2022) sia agli infortuni «tradizionali». Nel 2020, in particolare, l’incidenza media delle denunce da nuovo Coronavirus sul totale degli infortuni denunciati è stata di una ogni quattro, nel 2021 è scesa a una su 12 e nel 2022 è risalita a una su sei. Al netto dei contagi da Covid-19, nel 2022 le denunce di infortunio «tradizionale» registrano un incremento di oltre il 13% rispetto al 2021. Gli infortuni riconosciuti sul lavoro nel 2022 sono stati 429.004, in aumento del 18,2% rispetto ai 363.074 dell’anno precedente. Circa il 15% è avvenuto «fuori dell’azienda», cioè «in occasione di lavoro con mezzo di trasporto» o «in itinere», nel tragitto di andata e ritorno tra la casa e il luogo di lavoro.
E veniamo alle vittime sul lavoro. Le denunce di infortunio con esito mortale sono state 1.208, con una flessione del 15,2% rispetto alle 1.425 del 2021. Questa contrazione è legata interamente ai decessi causati dal contagio da Covid-19, passati dagli oltre 230 casi del 2021 agli otto del 2022. Gli infortuni mortali accertati sul lavoro sono stati 606, in calo del 21,7% rispetto ai 774 dell’anno precedente. Quelli avvenuti «fuori dell’azienda» sono 365, pari a circa il 60% del totale (45 casi sono ancora in istruttoria). Gli incidenti plurimi, che hanno cioè causato la morte di più lavoratori, nel 2022 sono stati 19 per un totale di 46 decessi, 44 dei quali stradali.
Intervenendo alla presentazione della relazione dell’Inail, Marina Calderone, la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, ha sottolineato: «C’è un grande sforzo per investire in sicurezza e prevenzione. I numeri, al netto dei casi Covid, dicono che gli infortuni sul lavoro con esito mortale stanno diminuendo. Certamente poi sappiamo che anche una sola vita persa è una sconfitta di sistema, perché il compito è fare in modo che ciò non avvenga».
Incidenti sul lavoro, più di ventimila vittime in vent'anni: i dati dell'Inail. Il segretario della Cgil Maurizio Landini commenta l'incidente alla stazione di Brandizzo inquadrando il fenomeno della morte sul lavoro in Italia come «una strage vera e propria»: l'Inail gli dà ragione. Marianna Piacente su Notizie.it Pubblicato il 7 Settembre 2023
Il lavoro elimina l’uomo. Ma il proverbio non diceva «nobilita»? In effetti, sì. Dai dati raccolti dall’Inail riguardo gli incidenti sul posto di lavoro, tuttavia, è evidente che di nobiltà c’è (rimasto) ben poco. Sono più di ventimila i morti sul lavoro negli ultimi vent’anni, un numero che per il segretario della Cgil Maurizio Landini – intervistato da La Stampa sull’incidente dello scorso 30 agosto avvenuto a Brandizzo (TO) – è indicativo di «una strage vera e propria».
La scarsa sicurezza del lavoro precario: l’appello di Landini
Landini sostiene che tra le principali cause di questi incidenti ci siano le scarse condizioni di sicurezza del lavoro precario e che sia pertanto necessario «investire su prevenzione e controllo». Ha ragione? Ha torto? Entrambe possibili, ma una cosa è certa: i dati che cita sono corretti. I numeri aggiornati delle denunce di incidenti sul posto di lavoro sono raccolti dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro: l’Inail specifica quanti tra gli incidenti hanno condotto il lavoratore alla morte, segnalando inoltre se l’infortunio è avvenuto durante il lavoro oppure in itinere, ovvero nel tragitto tra l’abitazione e il luogo di lavoro. A ogni denuncia corrisponde una singola persona infortunata: in caso di incidenti che coinvolgono più persone, il datore di lavoro ha presentato all’Inail tante denunce quanti sono i lavoratori infortunati.
Il record dei morti sul lavoro durante la pandemia da Covid-19
I dati definitivi più recenti sono quelli del 2021: quell’anno le denunce di morti sul lavoro sono state 1.400. Nel 2022, 1.090 (ancora provvisori). Nei primi sette mesi del 2023, 559 (anch’essi provvisori). Prendendo come riferimento i dati del ventennio 2002-2021 rielaborati da Pagella Politica, i morti sul lavoro sono stati in totale 26.199, circa 1.300 all’anno. C’è da dire, comunque, che in questi anni l’andamento del numero di morti sul lavoro è stato altalenante: se nel 2009 si sono toccate le 1.068 vittime, i morti sul lavoro nel 2020 – durante la pandemia da Covid-19 – sono stati ben 1.695. Landini torna, purtroppo.
Quanti sono i morti sul lavoro in Italia nel 2023, ieri tre vittime in un giorno: un 20enne, un 59enne e un 75enne. Quanti sono i morti sul lavoro in Italia nel 2023. Schiacciato da un macchinario, caduto in un cantiere, stroncato dal caldo: due tragedie avvenute in Campania, la terza nelle Marche. Sono persone, non numeri. Andrea Aversa su L'Unità il 20 Luglio 2023
Si chiamavano entrambi Raffaele. Avevano rispettivamente 20 e 59 anni. Purtroppo sono in ‘buona’ compagnia: con loro ci sono un uomo di 75 anni e un altro di 52. Cosa hanno in comune tutti e quattro? La morte. Quattro persone hanno perso la vita sul lavoro, tre in un solo giorno: ieri. Ed è impressionante quanto la morte non guardi in faccia all’età. Morire a 20 anni schiacciato da un macchinario per macinare le spezie, farlo a 75 anni a causa del caldo per scendere da una gru. I Raffaele hanno perso la vita in Campania, l’anziano nelle Marche e oggi, il 52enne, è deceduto in Puglia: era un operaio rimasto schiacciato tra due tir.
Quanti sono i morti sul lavoro in Italia nel 2023
Si tratta di persone e non di numeri. Ma se parliamo di statistiche ed evidenziamo quelle pubblicate lo scorso maggio dall’Inail, ci troviamo di fronte a dati sconcertanti. Numeri che delineano uno scenario di strage. Una vera e propria mattanza di Stato. Nei primi quattro mesi del 2023 le persone decedute sul lavoro sono state 264, tre in più rispetto al 2022 (+3%). Se a questa cifra aggiungiamo le quattro vittime di questi ultimi due giorni, arriviamo a 268. E alla conta mancano i mesi di maggio e giugno. In merito l’Unione sindacale di base (Usb) ha pubblicato un suo report affermando che i morti sul lavoro fino al 15 giugno sono state 503 (507 con le ultime quattro vittime). È evidente che la sicurezza sul lavoro non è una priorità per lo Stato italiano.
Analizzando il rapporto pubblicato dall’Inail è possibile tracciare un profilo molto specifico per ogni regione italiana. Innanzitutto il Paese è diviso in quattro zone colorate: rossa, arancione, gialla e bianca. Il colore indica rispettivamente la gravità dell’incidenza, se superiore al 25% rispetto alla media nazionale (l’indice di incidenza medio è pari a 9 morti sul lavoro ogni milione di lavoratori). In particolare, sono in zona rossa: Umbria, Valle D’Aosta, Abruzzo e Marche; in zona arancione: Veneto, Piemonte, Liguria, Lombardia e Sicilia; in zona gialla: Campania, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, Puglia, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Lazio e Toscana; in zona bianca: Calabria, Basilicata e Molise. La regione con più vittime è la Lombardia (42 decessi). Subito dietro il Veneto (23), il Piemonte (18), l’Emilia-Romagna (17), il Lazio (16), la Campania (14), la Sicilia (12), la Toscana (11), la Puglia (10), le Marche e l’Abruzzo (8), l’Umbria (7), la Liguria (6), la Sardegna, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige (4), la Calabria (2) e la Valle d’Aosta (1).
Il dramma del lavoro minorile
Un’altra piaga è quella relativa al lavoro minorile. Secondo il rapporto, “Lavoro minorile in Italia: rischi, infortuni e sicurezza sui luoghi di lavoro” di Unicef Italia, nel 2022 ci sono stati +20mila lavoratori minorenni. Nel report è stato scritto che in cinque anni – dal 2017 al 2021 – sono stati ben 74 i ragazzi che hanno perso la vita sul lavoro. La maggior parte di loro, 67, aveva un età compresa dai 15 ai 19 anni. Gli altri 7 meno di 14. Sogni di giovani vite spezzate, vite con speranze e ambizioni che non potranno essere mai realizzate.
Andrea Aversa 20 Luglio 2023
Operaia di 26 anni muore schiacciata da un macchinario. Grishaj Anila aveva 26 anni ed era impiegata in una ditta di surgelati in provincia di Treviso. Per cause ancora da accertare è morta schiacciata da un macchinario. Francesca Galici il 14 Novembre 2023 su Il Giornale.
Ancora un incidente sul lavoro in Italia, dove nel pomeriggio di oggi è morta un'operaia albanese di 26 anni, Grishaj Anila. La giovane era impiegata in un'azienda di surgelati a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso. La giovane è stata uccisa da un macchinario dell'imballaggio, che prima l'ha incastrata all'altezza della testa poi l'ha schiacciata. Da quanto è stato riferito, quella particolare macchina era stata acquistata di recente dalla ditta ma, per cause ancora da accertare, Grishaj è stata colpita ed è morta a causa dello schiacciamento delle vertebre cervicali. Sul posto carabinieri, personale Spisal (Servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro) e Vigili del Fuoco.
Le indagini sono in corso per capire cosa sia successo e come abbia fatto l'operaia a morire durante il lavoro, in un incidente che ricorda molto da vicino quello di Luana D'Orazio, operaia di 22 anni morta mentre lavorava a un orditoio. Nel pomeriggio, quando è stata resa nota la morte della giovane, si sono registrati momenti di tensione all'interno della fabbrica di surgelati, dove alcuni parenti si sono recati carichi di rabbia per quanto accaduto. Impossibile per il momento capire la dinamica, sarà necessario analizzare il macchinario e ascoltare le eventuali testimonianze di chi ha assistito alla tragedia.
Ma Grishaj Anila non è purtroppo l'unica vittima sul lavoro della giornata di oggi. Nel polo chimico di Ravenna si è verificato un altro gravissimo incidente che ha visto la morte di un operaio di 59 anni. Per cause ancora da chiarire, l'uomo è stato colpito da un escavatore mentre lavorava all'interno di un cantiere. Anche in questo caso sarà necessario attendere i rilievi e le analisi per capire come si sia potuto verificare un incidente così drammatico.
Nei primi sette mesi del 2023 sono
in Italia, delle quali 430 in occasione di lavoro (+4,4% rispetto a luglio 2022) e 129 in itinere (-17,8% rispetto a luglio 2022). Alla Lombardia va la maglia nera per il maggior numero di vittime in occasione di lavoro (74). Seguono Veneto (40), Lazio (36), Campania e Piemonte (33). In 20 anni i morti sul lavoro sono stati circa 20 mila.
Estratto da open.online mercoledì 15 novembre 2023.
È indagato un collega di Anila Grishaj per la morte della operaia 26enne, deceduta ieri 14 novembre dopo essere rimasta schiacciata in un macchinario per l’imballaggio, nello stabilimento di surgelati di Pieve di Soligo, in provincia di Treviso.
[…] il collega della ragazza, accusato di omicidio colposo, avrebbe spinto il pulsante che ha azionato il macchinario, convinto che non ci fosse nessuno nell’area critica. La ragazza invece si trovava in una zona considerata pericolosa, ma avrebbe escluso che quel macchinario fosse attivo. Grishaj, che lavorava nell’azienda da cinque anni, sarebbe morta dopo che il macchinario le ha schiacciato le vertebre cerebrali.
Un tragico errore umano quindi secondo la procura, che non esclude al momento responsabilità da parte dell’azienda. Nelle indagini sono coinvolti gli ispettori della Spisal, l’agenzia che si occupa di prevenzione nella sicurezza sul lavoro, ai quali potrebbero presto affiancarsi consulenti esterni. Intanto la procura ha acquisito i filmati delle telecamere di sicurezza, per ricostruire più nel dettaglio la dinamica dell’incidente e definire con certezza le responsabilità sul piano della sicurezza.
Incidenti sul lavoro, un’operaia di 26 anni muore a Pieve di Soligo nel Trevigiano. A cura della redazione Cronaca nazionale su la Repubblica il 14 Novembre 2023
La ragazza è rimasta incastrata con la testa in un macchinario della ditta di surgelati Bocon. Morto anche un 59enne all’interno del polo chimico di Ravenna e ferite altre tre persone in Friuli, Trentino e Lombardia. 559 le vittime nei primi sette mesi del 2023
E' stata uccisa da un macchinario che l'ha colpita alla testa nella ditta di surgelati, a Pieve di Soligo, nel trevigiano, in cui era vicedirettrice: così è morta oggi pomeriggio Anila Grishaj, un'operaia di soli 26 anni, in quello che è l'ennesimo incidente sul lavoro. Un macchinario dell'imballaggio, dove la ragazza stava operando, acquistato di recente, per cause in corso di accertamento l'ha colpita schiacciandole le vertebre cervicali. Momenti di tensione all'esterno dell'azienda di surgelati: alcuni familiari della ragazza, particolarmente agitati, sono stati allontanati dai carabinieri.
La tragedia ricorda da vicino la morte di Luana D'Orazio, l'operaia 22enne, mamma di un bambino, morta stritolata dentro un orditoio nel 2021, a Prato, durante il turno di lavoro nella ditta tessile che l'aveva assunta come apprendista. Luana finì dentro l'ingranaggio dell'orditoio, la macchina che permette di preparare la struttura verticale della tela che costituisce la trama del tessuto; il macchinario, emerse poi, era stato modificato per farlo funzionare in automatico e velocizzare il lavoro.
E questo non è l'unico gravissimo incidente della giornata.
Un altro operaio, di 59 anni, è deceduto in un incidente sul lavoro che si è verificato all'interno del polo chimico di Ravenna. L'uomo, per cause ancora da chiarire, è stato colpito da un escavatore mentre lavorava all'interno di un cantiere.
A Sedigliano, in provincia di Udine, invece un giovane è rimasto gravemente ferito dopo essere stato schiacciato dagli pneumatici di un mezzo pesante in manovra ed è stato portato con un volo in ospedale.
Incidente sul lavoro anche in Trentino: un uomo di 43 anni, tecnico manutentore, è rimasto ferito in seguito ad una esplosione mentre stava controllando la caldaia nuova, al primo avvio, che si trova nell'autolavaggio di una officina. Il ferito è rimasto ustionato alle braccia e al volto ed è stato trasportato in codice rosso con l'elicottero all'ospedale Santa Chiara di Trento.
"E' preoccupante leggere quotidianamente di incidenti sul lavoro quando dovrebbe essere il posto più sicuro del mondo dopo casa propria”, sottolineano Gian Luca Fraioli, coordinatore della Uil Veneto-Treviso e Roberto Toigo, segretario generale della Uil Veneto. “Qualcosa non va e bisogna assolutamente rivedere e aggiornare, se necessario, i protocolli di sicurezza".
Infine, un incidente è avvenuto anche a Milano, all'interno del Merlata Bloom il "super mall' di 70mila metri quadrati che sarà inaugurato domani nel quartiere Gallaratese. Un operaio è rimasto ferito in maniera non grave. L'uomo, secondo quanto riferito dai carabinieri, intorno alle 12 è precipitato da una scalinata in allestimento procurandosi la frattura della gamba.
Nei primi sette mesi del 2023 sono 559 le vittime sul lavoro in Italia, delle quali 430 in occasione di lavoro (+4,4% rispetto a luglio 2022) e 129 in itinere (-17,8% rispetto a luglio 2022). Alla Lombardia va la maglia nera per il maggior numero di vittime in occasione di lavoro (74). Seguono Veneto (40), Lazio (36), Campania e Piemonte (33), Emilia Romagna (31), Puglia (29), Sicilia (26), Toscana (21), Abruzzo (16), Marche (14), Umbria e Calabria (13), Friuli Venezia Giulia (12), Trentino Alto Adige e Liguria (11), Sardegna (10), Basilicata (5) e Valle d'Aosta e Molise (1). In 20 anni i morti sul lavoro sono stati circa 20 mila.
Chi sono i due autisti morti mentre trasportavano i migranti, avevano 32 e 34 anni. L'incidente è avvenuto sull'A1, coinvolto uno dei due bus che si è scontrato con un mezzo pesante. I pullman viaggiavano da Porto Empedocle ed erano diretti in Piemonte. Redazione Web su L'Unità il 15 Settembre 2023
Due autisti sono morti e 25 migranti sono rimasti feriti, alcuni in modo grave, in un incidente stradale avvenuto l’autostrada A1, all’altezza di Fiano Romano (Roma). Uno dei bus, in uso alla Prefettura di Agrigento, che stava trasferendo dei migranti da Porto Empedocle ai centri d’accoglienza del Piemonte, ha avuto un impatto frontale con un mezzo pesante. I due autisti, entrambi italiani, hanno perso la vita. Le altre persone ferite sono stati portate in più ospedali della zona. Dei rilievi si è occupata la polizia Stradale. I migranti erano sbarcati a Lampedusa nei giorni scorsi.
Chi sono i due autisti morti mentre trasportavano i migranti
L’incidente stradale si è verificato alle 2,22, i bus erano partiti alle ore 10 di ieri. Chi sono i due autisti morti mentre trasportavano i migranti? Le vittime sono state identificate: si tratta di Alberto Vella, di 34 anni, e Davide (chiamato Daniel) Giudice di 32. I due giovani sono entrambi originari di Favara (località in provincia di Agrigento). L’episodio si è rivelato una tragedia nella tragedia: quella dei migranti e quella delle morti sul lavoro.
Migranti e morti sul lavoro
Il trasferimento dei migranti da Lampedusa è stato reso necessario in quanto l’hotspot dell’isola era al collasso con ben 7mila persone presenti. Infatti ieri, ci sono state delle tensioni tra gli immigrati ammassati sul molo e le forze dell’ordine. Sempre nella giornata di ieri, un altro dramma: un neonato di 5 mesi è morto annegato al largo dell’isola. Per quanto riguarda le morti bianche, con i due autisti deceduti oggi, siamo a sette persone che hanno perso la vita in tre giorni, altrettante tre solo in Campania. Cinque su sette originarie del Sud.
Redazione Web 15 Settembre 2023
Morti sul lavoro, da Treviso al porto di Salerno: altre cinque vittime. Chi erano. Storia di Redazione Cronache su Il Corriere della Sera giovedì 14 settembre 2023.
Una strage che non si ferma. Ieri altri cinque persone sono morte sul lavoro e quattro sono rimaste ferite. In meno di 24 ore. Gli incidenti mortali si sono verificati a Bologna, Napoli, Salerno e nel Trevigiano. E si sommano ai tre operai della provincia di Chieti vittime, il giorno prima, di un’ un’esplosione avvenuta in fabbrica. La tragica statistica si è ingrossata a poche ore dalle parole di denuncia che il Presidente della Repubblica, , aveva fatto pervenire in un messaggio alla ministra del Lavoro Elvira Calderone: «Non è tollerabile perdere una lavoratrice o un lavoratore a causa della disapplicazione delle norme che ne dovrebbero garantire la sicurezza sul lavoro. I morti di queste settimane ci dicono che quello che stiamo facendo non è abbastanza. Lavorare non è morire».
In sette mesi (da gennaio a luglio 2023), secondo i dati pubblicati dall’Inail, le vittime sul luogo del lavoro accertate sono state 559. Secondo altri dati, aggiornati del sindacato di base Usb in questi giorni, si sarebbe oltrepassato il numero di 800 infortuni mortali.
Ieri a perdere la vita sono stati quattro operai e un giovane ufficiale. Alfredo Morgese stava lavorando all’aeroporto Marconi di Bologna; Giuseppe Lisbino e Giuseppe Cristiano sono morti a pochi chilometri di distanza, nel Napoletano. Il quarto operaio, Marco Bettollini, era nella cantina Ca’ di Rajo a San Polo di Piave (Treviso). Mentre l’ufficiale di 29 anni, Antonio Donato, è stato travolto nel porto di Salerno.
Del triste bilancio fanno parte anche quattro feriti. Ai due colleghi che stavano lavorando con il giovane ufficiale e con Bettollini, vanno aggiunti un 59enne di origini tunisine, colpito da una trave alla testa in un’azienda ceramica del polo industriale di Finale Emilia (Modena) e un 50enne nel Fermano, il cui braccio destro è finito in un’impastatrice di massetto autolivellante. Gli è stato amputato l’arto fino al gomito.
Alfredo schiacciato sulla pista
S i chiamava Alfredo Morgese, aveva 52 anni ed è morto alle 3.45 di notte. Schiacciato dall’auto guidata da un collega sulla pista dell’aeroporto Marconi di Bologna. Morgese, sposato, 3 figlie e un nipotino, abitava nel Modene-se e da 14 anni era dipendente della Frantoio Fondovalle, che ha in appalto la manutenzione della pista dello scalo. Da una prima ricostruzione, dopo aver concluso il carico e scarico del bitume, Morgese era sceso dal mezzo e si era spostato sul retro, tra il portellone e il carrello ribaltabile, per rimuovere le scorie. In quel momento un collega, in retromarcia con un altro mezzo spargisabbia, senza vederlo, l’ha schiacciato contro il portellone. Per lunedì i sindacati hanno indetto uno sciopero di 4 ore (Marco Madonia)
Antonio, l’ufficiale
S i chiamava Antonio Donato, 29enne messinese, il giovane ufficiale travolto e ucciso al porto di Salerno nell’incidente in cui è rimasto anche gravemente ferito un collega. Entrambi imbarcati sulla «Cartour Delta» della compagnia Caronte & Tourist attraccata in porto, al molo 26. Per l’Autorità portuale di Salerno l’incidente sarebbe avvenuto «a bordo della nave». Ma la compagnia dà un’altra versione: «Due uomini, un primo ufficiale e un secondo ufficiale in servizio sulla “Cartour Delta”, sono stati travolti mentre erano a terra da un trattore-ralla dell’impresa portuale che — secondo le prime ricostruzioni — durante le operazioni commerciali manovrava in retromarcia su una banchina del porto». (Patrizio Mannu)
Giuseppe caduto da 10 metri
Era impegnato nell’installazione di pannelli fotovoltaici l’uomo di 44 anni, Giuseppe Lisbino, residente a Frattaminore, nel Napoletano, deceduto nel pomeriggio di ieri in un incidente sul lavoro avvenuto ad Arzano. L’operaio, per cause in corso di accertamento, è precipitato dal tetto del capannone da un’altezza di circa 10 metri. Le indagini dei carabinieri di Arzano coadiuvati dal personale dell’Asl dovranno accertare se l’operaio è caduto per un malore, oppure se l’incidente possa essere stato causato per un problema di mancata sicurezza durante l’installazione dei pannelli. Lisbino lascia la moglie e due figli. Sulla sua pagina facebook molti in queste ore scrivono messaggi di cordoglio. (P.M.)
Giuseppe, investito dal camion
È morto poco prima dell’alba Giuseppe Cristiano, 66 anni, dipendente di Asìa, l’azienda comunale di igiene urbana di Napoli. È stato investito frontalmente da un camion dell’azienda nel deposito di Piazzale Ferraris, durante la manovra di uscita. Un’ambulanza lo ha portato all’Ospedale del Mare, dove è stato operato ma è deceduto. L’investimento mortale dell’operaio è avvenuto malgrado il piazzale sia ben illuminato. Il sistema di videosorveglianza ha ripreso le fasi tragiche dell’incidente e le immagini saranno messe a disposizione degli inquirenti. I sindacati Fp-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti e Fiadel della Campania hanno proclamato per oggi 4 ore di sciopero dei lavoratori di Asìa Napoli. (P.M.)
Marco, morto nella cisterna
È entrato in una cisterna per lo stoccaggio del vino per salvare il collega che giaceva a terra svenuto. Le esalazioni però gli hanno fatto perdere i sensi e Marco Bettollini, enologo di 46 anni originario di Roma ma da anni residente a Bassano del Grappa (Vicenza), è affogato nei pochi centimetri di residui di vino presenti sul fondo dell’autoclave. Il collega di 31 anni è stato poi tratto in salvo dai vigili del fuoco e portato in ospedale dove è tuttora ricoverato in gravi condizioni. La tragedia è avvenuta nella cantina Ca’ di Rajo di Rai di San Polo di Piave (Treviso) proprio nel giorno della festa di inizio vendemmia. Secondo la prima ricostruzione ad opera dello Spisal l’operatore più giovane era entrato nella cisterna per eseguire la pulizia del fondo ma è svenuto a causa delle esalazioni presenti nell’autoclave; il collega più esperto è entrato per salvarlo ma ha perso i sensi. (Ni.Ro.)
L'Italia dell'ecatombe bianca. Tre morti al giorno sul lavoro. Il report dell'Inail: da gennaio a luglio 559 vittime. I più a rischio gli ultra 65enni. Record in Lombardia. Enza Cusmai l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
I numeri ufficiali delle morti sul lavoro si fermano a luglio. Quelli di agosto, sei solo ieri, saranno inserite in un`altra arida tabella Inail. Le statistiche ci dicono che ben 559 lavoratori sono usciti di casa per andare a lavorare e non sono più rientrati nelle rispettive case, dalle rispettive famiglie. Si contano dunque 80 morti sul lavoro al mese, circa 20 a settimana, quasi tre al giorno. Il mercoledì, curiosità macabra, sembra essere il giorno più luttuoso della settimana, ovvero quello in cui si sono verificati più infortuni mortali nei primi sette mesi dell`anno (20,5%).
Le tabelle aggiornate a luglio scorso e rese note ieri dall`Inail, sono drammatiche, perché i decessi crescono in modo vertiginoso nonostante si faccia un gran parlare di sicurezza nel mondo di lavoro, che evidentemente non è ancora sufficiente a fermare le disgrazie evitabili. Se a fine maggio, gli infortuni con esito mortale erano «fermi" a 358», sono bastati due mesi in più di conteggi per far schizzare il numero complessivo fin quasi a raddoppiarlo. E comprendono sia le morti sul lavoro, sia quelle che avvengono quando ci si trasferisce da casa al posto di lavoro e viceversa, con i mezzi pubblici o privati.
Nel dettaglio, i decessi sono avvenuti o sul luogo di lavoro sono 430, quelli in itinere 129. Ma se le morti per incidente stradale o malore non direttamente connessi al posto di lavoro sono in netto calo, -17,8% rispetto al luglio del 2022, i morti durante il turno di lavoro crescono del 4,4%.
A morire sono soprattutto gli ultra 65enni (65,5% di incidenza), poi quelli vicini più alla pensione, la fascia 55-64 anni. Ma si contano anche 18 ragazzini tra i 15 e i 24 anni a cui è stato negato un futuro e ben 39 giovani adulti tra i 25 e i 34 anni.
E uno si domanda a questo punto dove si muore di più. Chi pensa al manufatturiero sbaglia settore. Quello, a volte molto pericoloso per l`utilizzo dei macchinari, rimane il più colpito ma spesso dagli infortuni (35.503). Per i decessi invece, nei primi sei mesi del 2023 è sempre il settore trasporti e magazzinaggio a registrare il maggior numero di decessi in occasione di lavoro: sono 50 in tutto. Segue a distanza il settore delle Costruzioni (39), dalle attività manifatturiere (37) e dal commercio (27).
I lavoratori stranieri sono quelli più esposti: il loro rischio di infortunio mortale è quasi doppio rispetto agli italiani, con un`incidenza di mortalità di 33% su un milione. In sette mesi ne sono morti 79 spesso nei cantieri edili che non garantiscono le minime norme di sicurezza. Gli infortuni mortali sono stati 351, con un`incidenza nazionale del 16,9%. Le donne morte sul lavoro rimangono ancora una minoranza. L`incidenza è del 2,6%. Hanno perso la vita in azienda 25 donne, mentre 14 di loro hanno detto addio al mondo mentre tornavano a casa, oppure mentre si recavano sul posto di lavoro. Le regioni che denunciano una situazione più drammatica sono quelle dell`Italia centrale. Elaborando i dati Inail, è l`Osservatorio sicurezza sul lavoro e ambiente Vega di Mestre a stilare una classifica regionale da cui emerge che si muore di più sul posto di lavoro in Umbria, Abruzzo, Basilicata e Calabria (Crotone in testa). In questi territori, l`incidenza dei decessi è superiore al 25% rispetto alla media nazionale del 18,6% di decessi su un milione di occupati. E per questa grave situazione, Vega le ha inserite nella «zona rossa». Nella fascia arancione, un po` meno pericolosa, invece finiscono Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, insieme a Puglia, Marche, Campania, Sicilia e Veneto. In zona gialla, invece troviamo Piemonte, Valle d`Aosta, Liguria, Sardegna, Lombardia e Lazio.
Numericamente però in Lombardia si conta per il maggior numero di vittime (74). Seguono: Veneto (40), Lazio (36), Campania e Piemonte (33), Emilia Romagna (31), Puglia (29), Sicilia (26), Toscana (21), Abruzzo (16), Marche (14), Umbria e Calabria (13), Friuli Venezia Giulia (12), Trentino Alto Adige e Liguria (11), Sardegna (10), Basilicata (5) e Valle d`Aosta e Molise (1).
Morti sul lavoro, se le leggi (da sole) non bastano. L’Italia ad oggi è tra i paesi con la normativa più restrittiva in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, e ciò nonostante siamo tra i paesi occidentali più vulnerabili. Ferrante De Benedictis l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
La tragedia ferroviaria di Brandizzo, dove la scorsa notte un treno merci ha spento per sempre la vita, le speranze ed il futuro di 5 uomini e delle loro famiglie, riporta prepotentemente in primo piano il tema della sicurezza sul lavoro.
Kevin Laganà il più giovane era un ragazzo di soli 22 anni, Michael Zanera di anni 34; Giuseppe Sorvillo, 43 anni; Giuseppe Aversa, 49 anni e Saverio Giuseppe Lombardo di anni 52, in una tranquilla notte di fine agosto, inconsapevoli di quanto il destino avesse loro riservato, stavano lavorando ed immaginavano un futuro migliore.
Il lavoro appunto, quello che dovrebbe portare serenità e sicurezza nelle famiglie, quello che dovrebbe nobilitare l’uomo, offrirgli la speranza per un domani radioso, ed invece si trasforma in uno spietato killer, portatore di disgrazia, che lascia nella paura e nel dolore un’intera comunità, il lavoro che doveva garantire il futuro glielo ha cancellato portandosi via per sempre quanto avevano di più prezioso “la vita”.
Non entreremo nel merito delle indagini e delle responsabilità oggettive, ma di certo quando accadono fatti del genere non si può dare la colpa al fato, chi come me si occupa di sicurezza sa benissimo che, se è pur vero che il rischio zero non esista, oggi abbiamo gli strumenti per ridurlo e riportarlo in un campo così detto di accettabilità.
Il rischio è infatti il prodotto di due fattori una probabilità che un certo evento possa cagionare un danno ed una magnitudo, ossia il suo potenziale impatto; e l’analisi del rischio di norma lavora su due leve la prevenzione e la protezione, la prima riduce la probabilità di accadimento, la seconda la magnitudo (ossia riduce i potenziali effetti negativi), ma badate bene il tutto funziona solo se inserito in un contesto culturale adeguato.
Senza un’autentica cultura della sicurezza, nessuna legge, norma o sanzione potrà mai essere pienamente efficace, e purtroppo il nostro è un paese che già mal digerisce le regole, ma fatica ancor di più a metabolizzare una cultura della sicurezza che si traduca in un’attenzione proattiva alla questione della sicurezza.
Tale cultura della sicurezza non la si può trasferire in modo nozionistico, ma deve diventare centrale in un processo educativo che interessi tutte le agenzie preposte le famiglie, la scuola, i centri di formazione, le agenzie del lavoro e le istituzioni.
Quando ci si riferisce al tema della cultura della sicurezza si fa riferimento, in modo molto più ampio, al fatto che si debbano dare risposte forti su prevenzione e protezione del territorio, sulle politiche di analisi e di indagini preditive e preventive, sui modelli organizzativi delle aziende. E tale esempio virtuoso non può non venire in primis dalle istituzioni che in questo modo dimostrano con i fatti che il nostro è un paese meraviglioso che fa della cultura della sicurezza e dunque della prevenzione un baluardo insostituibile, senza questo diventa arduo il compito di far comprendere al cittadino l’importanza di assimilare una piena cultura della sicurezza che si traduca in un’attenzione alla prevenzione ed alla protezione in ogni attività del proprio quotidiano sia esso lavoro o tempo libero.
Ma oggi cosa possiamo fare concretamente? La risposta più naturale dopo un’immane tragedia come questa è quella emotiva e che ha sempre portato nel nostro paese a valutare l’inasprimento delle pene, al moltiplicare procedure, norme, modelli, ma purtroppo temo che non basterà. L’Italia ad oggi è tra i paesi con la normativa più restrittiva in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, e ciò nonostante siamo tra i paesi occidentali più vulnerabili, abbiamo una media di 2,25 decessi ogni 100 mila lavoratori contro una media UE di 1,77; per questa ragione è forse giunto il tempo di proporre meno leggi ma più buone azioni e buone pratiche, far così comprendere ai nostri lavoratori e ai nostri imprenditori che la sicurezza è un valore e non un onere, che un’azienda sicura vale molto di più di una meno sicura, che sicurezza e qualità vanno a braccetto
e che una vita vale più di qualunque contratto.
Bisognerà anzitutto invertire la perversa logica del profitto a tutti i costi e la conseguente definitiva sconfitta della centralità della persona, che da fine diventa mezzo, merce, strumento di profitto appunto. Il lavoratore deve ritornare ad essere il fine e come tale la sua salvaguardia deve avere l’assoluta priorità, ma perché ciò avvenga si deve puntare su un processo culturale, unico strumento utile a rigenerare le coscienze e modificare le abitudini.
Tutto questo perché non possiamo continuare a fingere di non vedere e voltarci dall’altra parte, dietro ogni morte c’è un dramma sociale, una sconfitta per un’Italia che non è in grado di creare occupazione e di proteggere chi un’occupazione troppo spesso è costretto ad accettarla per sopravvivere, per offrire una flebile speranza ad un bimbo e ad una moglie che attenderà invano il suo eroe.
Teresa Bellanova sulla tragedia di Brandizzo: “Doveva essere evitata. Le morti sul lavoro accadono per distrazione. Leggi sufficienti, il problema è applicarle”. Parla l’ex viceministro delle infrastrutture e dei trasporti: “Abbiamo il dovere di fare quanto prima chiarezza perché quei lavoratori non torneranno in vita ma le famiglie devono sapere che lo stato non si gira dall’altra parte”. Annarita Digiorgio su Il Riformista l'1 Settembre 2023
«Morire sul lavoro è un oltraggio alla convivenza», ha detto ieri Mattarella per la tragedia dei cinque lavoratori che hanno perso la vita sulle rotaie della Milano-Torino. Ne abbiamo parlato con Teresa Bellanova che tra ministeri, parlamento e sindacato, si occupa di lavoro da sempre.
Cosa è successo a Brandizzo?
«Una tragedia che doveva assolutamente essere evitata perché perdere la vita con tutte le innovazioni, le digitalizzazioni e i controlli da remoto che si possono fare al giorno d’oggi, è assurdo. Perdere la vita è sempre inaccettabile ma lo è ancora di più quando la si perde per andare a lavorare».
Ma le morti bianche sono tante?
«Di bianco c’è solo il lenzuolo che copre quei morti. Non è fatalità quando accade un incidente sul lavoro, ma c’è un’omissione del rispetto delle regole. O per rendere più veloce i tempi di lavorazione, o determinate pratiche, o perché non si rispettano le regole. Le morti sul lavoro accadono per distrazione, disattenzione e non applicazione delle regole».
Che non possono essere imputate al lavoratore?
«Assolutamente no. Il lavoratore deve essere tutelato, e c’è una legge che lo fa. Il punto è che se le norme dicono che devi bloccare il traffico quando si fanno questi lavori e questo non avviene, o se una lavoratrice sta a un telaio e viene tolto un attrezzo per farlo andare più veloce, la colpa non è del lavoratore ma di chi deve rispettare le regole e di chi deve controllare».
Dipende dalla legge scarsa?
«No, abbiamo una legislazione d’avanguardia sulla salute e la sicurezza, il punto è farla applicare e controllare. Da parte delle istituzioni, dell’azienda e della rappresentanza del lavoro».
Quindi non servono nuove leggi?
«La legge che c’è è sufficiente. Non è che a ogni incidente facciamo una nuova legge e inaspriamo le pene. Se poi non fai applicare neppure quella già esistente, stai solo prendendo in giro».
Ma anche per la violenza sulle donne a ogni evento di cronaca viene detto facciamo una nuova legge.
È riconosciuto a livello internazionale che per la sicurezza sula lavoro in Italia abbiamo una legislazione di alta qualità, che va oltre quanto è previsto in Europa. Così è per le donne. Ma se vengono lasciate sole e le regole non vengono applicate, è il massimo della pigrizia richiamare pene più severe. Intanto facciamo rispettare quelle che ci sono e garantiamo la certezza delle pene. Facciamo che le donne vengano ascoltate e credute, che si facciano approfondimenti immediati appena denunciano».
Ma sulle reti ad esempio ci sono strumenti di sicurezza per evitare queste tragedie?
«Bisogna applicare tutti i mezzi che la scienza ci ha messo a disposizione per evitare tanti incidenti. L’innovazione non deve essere mai fermata e bisogna applicare ciò che il mondo della ricerca mette a disposizione. Nel caso specifico io spero si accertino rapidamente le responsabilità perché è già vietato lavorare dove c’è un treno in movimento. Abbiamo il dovere di fare quanto prima chiarezza perché quei lavoratori non torneranno in vita ma le famiglie devono sapere che lo stato non si gira dall’altra parte».
Ma se abbiamo più di 400 morti sul lavoro dall’inizio dell’anno, siamo di fronte a un fenomeno sociale?
«La logica del profitto non può prevalere sul valore della vira umana. Nessun incidente su lavoro è impossibile da evitare».
Ad esempio tu ti sei occupata da tanti anni di Ilva, tutti sappiamo che un ennesimo incidente in quella fabbrica implicherebbe la morte del siderurgico, eppure ci sono stati tre morti al porto di Taranto nell’ultimo anno e non ne parla nessuno. Esistono morti di serie A e morti di serie B?
«Purtroppo si, ma sono tutti uguali, e bisogna prestare la stessa attenzione sia che dipendano da una multinazionale che dall’indotto. Troppe persone muoiono e troppe rimangono invalide. Purtroppo fanno notizie gli incidenti in cui ci sono i morti, ma ce ne sono tantissimi in cui i lavoratori portano delle disabilità che sono altrettanto gravi e vanno evitate».
I sindacati dovrebbero essere più presenti?
«C’è disattenzione sulla mancata formazione ai datori di lavoro, ai responsabili della sicurezza e ai lavoratori. Ogni persona deve essere consapevole dei rischi che incorre facendo o non facendo determinate operazioni sul lavoro. Ognuno deve fare la sua parte se ci sono tanti incidenti significa che ci sono tanti luoghi in cui le norma vuole che sono state conquistate anche dalle iniziative dei sindacati non vengono applicate come si dorrebbe».
Si può fare di più?
«Chi dice che servono nuove norme deve dire cosa. Cosa manca nella legislazione? Devono dirlo con contezza altrimenti si specula difronte al lavoro delle persone».
Se i rischi per chi lavora sono di perdere la vita, meglio il reddito di cittadinanza?
«Non penso che un operaio arriva a fare questa riflessione. Va ripensato il valore del lavoro, per tutti».
Annarita Digiorgio
Vittime di una guerra. 1090 morti sul lavoro in un anno: è una carneficina, non chiamateli incidenti. Politiche aziendali al risparmio, prevenzione scarsa o inesistente, regole ignorate: nei campi, nei cantieri, nei campi, nei magazzini si continuano a immolare innocenti sull’altare del Dio profitto. Marco Grimaldi su su L'Unità l'1 Settembre 2023
Brandizzo. Un nuovo nome, come in guerra, per ricordare una battaglia in tempo di pace. Ieri notte nel comune alle porte di Torino, hanno perso la vita, in un colpo solo, cinque operai di una ditta di manutenzione, che stava operando sui binari della linea Torino-Milano. Travolti alle spalle e smembrati da una locomotiva che stava percorrendo quel tratto a tutta velocità. Una carneficina.
La pm Giulia Nicodemo è arrivata prima dell’alba per le prime rilevazioni. La procuratrice di Ivrea, Gabriella Viglione, informata alle prime luci del mattino, ha aperto l’inchiesta sulla strage. Nel fascicolo si ipotizzano i reati di “disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo”, tutto ancora a carico di ignoti. Sono stati sequestrati diversi documenti e già sentite molte persone. In primis i due macchinisti che erano alla guida del treno e che sono stati trasportati all’ospedale di Chivasso dopo l’impatto, anche per verificare il loro stato di salute. Sentiti dai magistrati hanno confermato di “non sapere della presenza degli operai”.
Sul tavolo diversi punti oscuri di un incidente al momento inspiegabile. La linea infatti avrebbe dovuto essere chiusa, analisi saranno effettuate anche sul convoglio che ha investito e ucciso gli operai che però era previsto passasse a quell’ora, non certo ad alta velocità. Un passaggio però non visibile sugli orari pubblici, giacché il convoglio viaggiava senza passeggeri. Da verificare anche quando avrebbero dovuto cominciare i lavori, e ovviamente quanti ne erano a conoscenza. “I lavori erano appena iniziati, ma noi come Comune non siamo quasi mai avvisati se ci sono lavori sulla linea. Io li avevo visti qualche giorno fa, in diurno, lavorare sulla linea, per mettere a posto le transenne e il verde. Quindi, presumo che siano lavori di routine. Non c’era nulla di straordinario in queste cose, presumo sia avvenuto qualcosa” nella comunicazione “tra la ditta appaltatrice dei lavori e Rfi”.
A dire queste parole subito a caldo è il sindaco di Brandizzo, Paolo Bodoni, accorso sul luogo. Nelle prossime ore si capirà di più su quali disposizioni di sicurezza dovessero osservare gli addetti della società Sigifer di Borgo Vercelli. Secondo Rfi, il cantiere poteva essere attivato soltanto dopo che il responsabile della squadra operativa del cantiere avesse ricevuto il nulla osta formale ad operare, in esito all’interruzione concessa, da parte del personale abilitato di Rete ferroviaria italiana. Secondo le Ferrovie italiane, “sotto indagine” sarebbe “il rispetto della procedura di sicurezza vigente. Infatti, questo genere di interventi di manutenzione, che nello specifico riguardavano il cosiddetto armamento (binari, traverse, massicciata), Rfi le affida anche a imprese esterne qualificate e certificate, e si eseguono come previsto in assenza di circolazione dei treni”. Insomma, Rfi si difende e attacca: “I lavori – secondo procedura – sarebbero dovuti iniziare soltanto dopo il passaggio di quel treno”.
Ma c’è qualcosa che non torna. Ed il quadro più generale della vicenda. E i primi a dirlo sono proprio i sindacati. “Il sistema dei subappalti e degli appalti fa risparmiare le imprese, ma mette a rischio salute e vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Politiche aziendali tese al risparmio aumentano i rischi e le vittime, determinano tragedie e compromettono la vita di persone che escono da casa per lavorare e non ci ritornano più. È un sistema che va cambiato”, tuona Giorgio Airaudo, storico sindacalista della Fiom, già deputato e oggi segretario generale Cgil Piemonte lo dice tra le righe. “La vicenda di Brandizzo riapre una ferita, fa tornare indietro nel tempo. È una triste storia che crea angoscia, ansia, dolore”. Queste parole non sono del presidente Sergio Mattarella, ieri pomeriggio presente sul luogo per deporre un mazzo di fiori in ricordo dei 5 operai. Sono di Rosaria Demasi Plati, la mamma di Giuseppe, operaio della Thyssenkrupp morto a 26 anni dopo 24 giorni di agonia.
“La vicenda Thyssen purtroppo non ha insegnato nulla. Per qualche anno abbiamo sperato che qualcosa cambiasse, ma si tende a dimenticare. Non dimentica solo chi purtroppo c’è, chi muore e i parenti che rimangono” spiega la donna. “Purtroppo fatti come quello della Thyssen accadono ancora e ti fanno tornare indietro, a quei terribili giorni. Impossibile non pensare alle famiglie e a quello che stanno vivendo, ai lavoratori che hanno perso la vita. Uno aveva solo 22 anni, una vita spezzata”, osserva Rosaria. “Si lavora con superficialità, non c’è prevenzione, non c’è cultura della sicurezza in Italia e mai ci sarà. Si dovrebbero vergognare, la gente non può morire in questo modo, non si rendono conto del dolore che provocano alle famiglie. Abbiamo le regole, ma niente si applica. Non c’è giustizia. In questo paese che amo e a volte odio nessuno paga perché sono potenti o perché hanno i soldi o perché si comprano tutto”.
Quello che è avvenuto nella stazione di Brandizzo ieri notte per il Piemonte è la sciagura più drammatica sul lavoro, dopo quella della Thyssen, costata la vita a 7 persone. Avvenuta a meno di due anni da un altro eccidio sempre a Torino in via Genova, quando il 18 dicembre 2021 con lo schianto al suolo di una gru montata sul suolo persero la vita Filippo Falotico di 20 anni, Roberto Peretto di 52 anni e Marco Pozzetti di 54 anni. Omissioni, lacune nei controlli. E poi la manovra sbagliata da parte del pilota dell’autogru, mezzo che, tra l’altro, non era idoneo al lavoro che doveva svolgere, perché era più basso del necessario, secondo le perizie dell’accusa. Sono alcune delle conclusioni a cui è giunta la Procura di Torino al termine delle perizie di parte sulla tragedia quando una gru crollò in strada e tra i palazzi da 40 metri di altezza.
Una tragedia che ‘si poteva evitare’, se fossero stati adottate specifiche misure tecniche, i tre operai forse si sarebbero salvati. Di lavoro e sul lavoro si continua a morire in Italia: secondo le ultime rilevazioni dell’Inail nel 2022 sono state 1090 le persone che hanno perso la vita nelle fabbriche, nei cantieri, nei campi, nei magazzini, sui mezzi di trasporto. In questo anno ne sono morte tre al giorno. In molti oggi hanno detto che serve introdurre il reato di morte sul lavoro. Spero che presto ne discuteremo in Parlamento e nelle commissioni di inchiesta sulle morti sul lavoro appena insediate alla Camera e al Senato. Rimettiamo al centro le condizioni del lavoro in questo Paese, prima di tutto per fare vera prevenzione. Perché bisognerebbe iniziare a mettere nero su bianco che non si possono trattare le persone e il lavoro come una merce su cui risparmiare e fare profitto.
Marco Grimaldi 1 Settembre 2023
Labour Weekly. Se abbiamo gli Ispettori del lavoro, lo dobbiamo all’Impero austro-ungarico. Linkiesta il 24 Giugno 2023
Nel 1883, centoquaranta anni fa, Vienna approvò la legge che istituiva i cosiddetti “Ispettori industriali”. I primi a operare nelle città italiane sono stati assunti proprio dagli austriaci. Da questa settimana pubblichiamo la newsletter dello studio legale Laward
La nascita degli Ispettori del lavoro
Durante la seconda metà del diciannovesimo secolo le industrie continuavano ad attirare sempre più persone dalle campagne. Dopo un primo periodo senza nessuna tutela, gli operai iniziavano a vedere qualche diritto in fondo al tunnel. In questo contesto, l’Impero Austro-ungarico ha approvato una legge che istituiva i cosiddetti “Ispettori industriali”, gli antenati degli odierni Ispettori del lavoro. La legge è stata approvata nel 1883, quando il territorio austriaco includeva città come Trieste, Trento e Bolzano. Possiamo quindi dire che i primi Ispettori del lavoro a operare in città italiane sono stati assunti da Vienna.
L’articolo 5 della legge n. 117 del 17 giugno 1883 descrive i compiti degli Ispettori specificando che: «L’incombenza degli ispettori industriali in faccia ai padroni ed agli operai, consiste nella sorveglianza dell’esecuzione delle prescrizioni di legge concernenti:
le disposizioni e gli allestimenti, ai quali sono obbligati i possessori dell’industrie a tutela della vita e della salute degli operai tanto negli spazi di lavoro come in quelli di abitazione, qualora li forniscano;
l’impiego di operai, in tempo giornaliero di lavoro e le interruzioni periodiche del lavoro;
la tenuta di elenchi degli operai e l’esistenza di regolamenti di servizio, i pagamenti della mercede e le legittimazioni degli operai;
l’istruzione industriale degli assistenti giovanili».
Come avrete notato, i cosiddetti “Ispettori industriali” erano chiamati a svolgere le attività che grossomodo sono eseguite oggi dai nostri Ispettori del lavoro. Il controllo degli ambienti di lavoro, la verifica dell’orario e dei riposi, il rispetto degli adempimenti burocratici, la formazione dei più giovani. Certo i diritti garantiti ai lavoratori del 1883 erano molti di meno rispetto ai dipendenti di oggi. L’istituzione di un organismo di controllo specializzato nei luoghi di lavoro ha rappresentato comunque un passo importante per aumentare le tutele di chi lavora.
Tanti auguri agli Ispettori del lavoro austro-ungarici che hanno da poco compiuto 140 anni e scusate per questo numero “Barberiano” della newsletter*.
*La newsletter “Labour Weekly. Una pillola di lavoro una volta alla settimana” è prodotta dallo studio legale Laward e curata dall’avvocato Alessio Amorelli. Da oggi, ogni settimana, Linkiesta ne pubblicherà i contenuti. Qui per iscriversi
Strage silenziosa: in Italia 264 morti sul lavoro in quattro mesi. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 18 giugno 2023.
Sono già 264 le persone che nei primi quattro mesi del 2023 hanno perso la vita a causa del proprio lavoro. In media 16 a settimana. Una cifra che secondo il Centro Studi della Confederazione sindacale Unitaria di Base (Cub), che ha diffuso i dati, “è fortemente in difetto”. Le ultime vittime si sono susseguite una dietro l’altra nel giro di neppure ventiquattro ore, a poca distanza l’una dall’altra.
A Castegnato, in provincia di Brescia, Sami Macakulli è precipitato giù dritto per 45 metri dal traliccio a cui si era appeso per effettuare alcuni lavori di manutenzione. Il ventitreenne è praticamente morto sul colpo, sotto lo sguardo incredulo dei colleghi della ditta privata per cui lavorava. Pare che il ragazzo fosse legato alla struttura con un grosso cavo, che però poi ha ceduto.
A pochi chilometri di distanza la stessa sorte è toccata a Tiziano Pasquali, sessantenne originario di Piove di Sacco (Padova), schiacciato da un mezzo pesante operante nei cantieri tra Desenzano del Garda e Brescia della A4, mentre era impegnato in un intervento sotto un cavalcavia. Anche Angelo Aleo è morto in un incidente verificatosi in un cantiere, questa volta edile. L’operaio cinquantaseienne, di Acireale, è morto dopo una caduta da tre metri di altezza mentre stava lavorando alla realizzazione del solaio di un edificio per abitazione civile, a Misterbianco (Catania).
Non ce l’ha fatta neppure Pasquale Cosenza, morto dopo la caduta del 9 giugno da un’altezza di circa 10 metri. L’uomo è precipitato dal tetto di un’azienda di Pastorano (in provincia di Caserta) su cui era salito per montare dei pannelli fotovoltaici. Tra le vittime delle ultime ore ci sono anche Giovanni e Filippo Colapinto, rispettivamente padre e figlio di 81 e 47 anni, morti durante l’ispezione e la pulizia di una cisterna di vino a Gioia del Colle (in provincia di Bari). Le prime ricostruzioni dicono che il figlio sia caduto per primo all’interno del ‘pozzo’, probabilmente perché intossicato e stordito dalle esalazioni di anidride carbonica. Il padre, che avrebbe cercato di salvarlo, sarebbe poi caduto a sua volta.
Perché sono ancora così tante le persone che in Italia muoiono sul posto di lavoro?
Secondo Walter Montagnoli, membro della segreteria nazionale della CUB, il motivo è che «manca una seria cultura della sicurezza sul lavoro, mancano soprattutto severi e capillari controlli sul rispetto delle normative di legge» e «manca la volontà politica di arginare una volta per tutte questa strage quotidiana». Una piaga che in realtà affligge anche molti altri Paesi europei.
Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione europea, tenendo conto del numero di infortuni in rapporto alla popolazione occupata e dei vari settori in cui questi si verificano, dice che nel continente nel 2020 ci sono stati 1.446 infortuni non fatali e 2.1 fatali ogni 100mila lavoratori – in quest’ultima classifica l’Italia è undicesima, con 3 morti ogni 100mila occupati (dati elaborati da Openpolis). Numeri che, in entrambi i casi, negli ultimi dieci anni (in media) si sono abbassati nella maggior parte degli stati membri.
Una buona notizia sì, ma non sempre veritiera, visto che, come sottolinea Eurostat, alcune cifre potrebbero risultare particolarmente basse per via di un sistema di denuncia poco sviluppato. Molte vittime potrebbero ad esempio decidere di non dichiarare il proprio incidente perché scoraggiate, come spiega Openpolis, “da una scarsità di incentivi finanziari oppure da leggi meno rigide nei confronti dei datori di lavoro” – ovviamente solo nel caso di incidenti non mortali. Secondo Montagnoli «l’approvazione del reato di ‘omicidio sul lavoro’, che preveda la chiusura delle aziende ove siano avvenuti decessi per l’incuria nel rispetto delle normative sulla sicurezza», potrebbe contribuire ad abbassare ulteriormente le statistiche.
«Auspichiamo che il Governo voglia seriamente valutare questa proposta, a fronte di una situazione che riteniamo vergognosa per un Paese che si voglia definire moderno e civile». [di Gloria Ferrari]
Morti sul lavoro: 5 decessi in 24 ore, 264 nei primi 4 mesi del 2023. Giulia Arnaldi su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023
A Gioia del Colle padre e figlio uccisi dalle esalazioni di una botte. Nel Veronese un operaio travolto in autostrada. Gli altri incidenti a Catania e Caserta. Cgil: «Ogni morte bianca è una sconfitta per la società».
Continua la strage degli incidenti sul lavoro. Nelle ultime 24 ore, in Italia, 5 persone sono decedute. Secondo i dati Inail, le morti denunciate sul lavoro nei primi 4 mesi del 2023 sono state 264 , 3 in più rispetto allo stesso periodo del 2022.
Padre e figlio, Giovanni e Filippo Colapinto, sono morti nella serata di ieri a Gioia del Colle, in provincia di Bari, dopo essere caduti in una cisterna di vino, a causa delle esalazioni. secondo le ricostruzioni, il padre sarebbe caduto nel tentativo di salvare il figlio, scivolato mentre eseguiva le operazioni di pulizia.
Un operaio, invece, è stato investito da un mezzo pesante stamattina in un cantiere nella tratta Desenzano del Garda — Brescia dell’autostrada A4 Brescia-Venezia
Sempre stamattina, a Misterbianco, in provincia di Catania, un operaio di 56 anni è morto in un incidente avvenuto intorno alle 11 in un cantiere edile. Secondo le prime ricostruzioni l’uomo sarebbe caduto da un ponteggio. Immediatamente è stato allertato il personale medico ma purtroppo l’operaio è deceduto.
Infine, un 38enne è deceduto oggi a Capua, in provincia di Caserta, dopo essere caduto 4 giorni fa dal tetto di un capannone.
«Il settore nazionale degli edili — sottolinea Vincenzo Cubito, segretario di Fillea Cgil Catania — è tra i più coinvolti in questa “carneficina”, le cui cause non vengono combattute adeguatamente dalle istituzioni. Abbiamo più volte denunciato l’insufficienza dei controlli nei cantieri e dunque degli organici negli ispettorati. Ogni morte bianca in più è una sconfitta per le regole e per la società».
Un’altra persona che era con la vittima è rimasta ferita. Stava ristrutturando la sede di un'azienda. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 maggio 2023.
Un uomo, di cui non sono state rese note le generalità, è morto folgorato nella tarda mattina di oggi in una cabina elettrica a torre privata che si trova in via Casamassima a Capurso, nel Barese. Per la vittima sono stati inutili i soccorsi prestati dal personale del 118 che ne ha potuto constatare solo il decesso. A dare l’allarme è stata un’altra persona che era con l’uomo, rimasta leggermente ferita e che è stata trasportata in ospedale, le sue condizioni non sarebbero gravi. Non è chiaro cosa i due stessero facendo all’interno della cabina. Sull'accaduto indagano le forze dell’ordine.
I DETTAGLI
E’ un operaio di 58 anni che stava eseguendo lavori di ristrutturazione nella sede della società Copam srl di Capurso (Bari) l’uomo morto folgorato nella cabina elettrica a torre. L’incidente è avvenuto alle ore 13 circa, in via Casamassima.
La vittima - si apprende dai carabinieri - stava eseguendo lavori di ristrutturazione e, per cause da accertare, dopo essere entrato nella cabina elettrica dell’alta tensione (non di pertinenza della Copam), è rimasto folgorato. La segnalazione ai carabinieri di Capurso e al personale Spesal è giunta dall’altro operaio presente sul posto.
APERTA L'INDAGINE
Si chiama Pasquale Pipino, l'operaio di 58 anni morto folgorato nella tarda mattinata di oggi a Capurso dopo essere entrato in una cabina dell’alta tensione. Il 58enne era impegnato in lavori di ristrutturazione per conto della ditta per cui era dipendente, la società Copam srl di Capurso quando è entrato in una cabina a torre dell’alta tensione.
Non è chiaro cosa sia accaduto e come mai la vittima si trovasse nella cabina elettrica che non è di pertinenza della azienda per cui lavorava. I carabinieri, coordinati dal magistrato della procura di Bari Ignazio Abbadessa, sono a lavoro per ricostruire l’esatta dinamica dell’accaduto e definire cosa ha determinato la morte dell’uomo. Sul posto, oltre al personale del 118 e ai vigili del fuoco, sono intervenuti i tecnici dello Spesal della Asl di Bari. Nell’ambito dell’inchiesta sul decesso del 58enne la procura di Bari ha disposto l’autopsia. Le indagini sono affidate ai carabinieri.
SEQUESTRATA LA CABINA ELETTRICA
La procura di Bari ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo sul lavoro per fare chiarezza sul decesso di Pasquale Pipino, l’operaio di 58 anni morto folgorato nella tarda mattinata mentre si trovava in una cabina dell’alta tensione in via Casamassima a Capurso, in provincia di Bari. Secondo quanto emerso fino a questo momento la vittima, dipendente della ditta Copan srl di Capurso specializzata nella progettazione di segnaletica stradale, avrebbe dovuto svolgere alcuni lavori all’interno del capannone aziendale che si trova non lontano dal luogo dell’incidente. Non è chiaro come mai la vittima si trovasse invece, con un collega che sta bene, nella cabina elettrica che non è di pertinenza della stessa azienda.
La cabina a torre - di cui a quanto si è appreso sarebbero state forzate, asportate e manomesse le griglie di protezione - è stata sequestrata così come quanto rinvenuto al suo interno tra cui una scala, dei flessibili e delle grate in rame. Sull'accaduto indagano i carabinieri coordinati dal magistrato della procura di Bari Ignazio Abbadessa che dovranno ricostruire l'esatta dinamica dell’episodio.
«La morte, in circostanze ancora da chiarire, del nostro concittadino oggi ci ha colpito tutti come comunità. Marito e padre di due ragazzi, lascia troppo presto questo mondo. Adesso lasciamo che chi si sta occupando di chiarire l’accaduto possa farlo nel migliore dei modi per capire la verità». Lo dichiara all’ANSA Michele Laricchia, sindaco di Capurso. «Alla sua famiglia come sindaco e ancor prima come uomo - conclude - voglio esprimere tutta la mia vicinanza in questo momento di dolore».
IL COMMENTO DELLA UIL PUGLIA
«A distanza di tre giorni dall’ultima tragedia di Monopoli, ci ritroviamo a piangere l’ennesima vittima in un luogo di lavoro, stavolta a Capurso. Questa strage va fermata». Lo dichiara in una nota Emanuele Ronzoni, commissario straordinario della Uil Puglia, riferendosi alla morte dell’operaio di 58 anni avvenuta oggi in una cabina elettrica a Capurso.
«Quasi quattro morti al giorno nei luoghi di lavoro - prosegue Ronzoni - sono numeri agghiaccianti, se solo tutte quelle vite innocenti fossero state portate via dalla mafia lo Stato come avrebbe reagito? Certo con maggiore veemenza e determinazione rispetto a come si approccia al tema della sicurezza sul lavoro».
Ronzoni invoca «controlli più serrati, norme più severe e magari una procura speciale per le morti sul lavoro» oltre che "maggiori investimenti in formazione e una cultura della sicurezza che parta dalle scuole. Alla famiglia dell’operaio morto oggi a Capurso giunga l’abbraccio e la vicinanza della Uil».
SIDERI (FILCA-CISL BARI): "SUBITO UN VERTICE CON IL PREFETTO"
“Ancora sangue nei cantieri della provincia di Bari. L’incidente di oggi a Capurso segue di pochissimi giorni la tragedia di Monopoli, dove sono morti altri due edili. È una scia di sangue inaccettabile, per fermare la quale servono interventi drastici. Chiediamo subito un confronto con il Prefetto di Bari sul tema della sicurezza nel settore delle costruzioni: è arrivato il momento di agire e di mettere in campo tutte le misure e gli strumenti a nostra disposizione per garantire l’incolumità dei lavoratori nei cantieri. È una questione di civiltà e di giustizia sociale, ogni vittima sul lavoro è una sconfitta per tutta la comunità”. Lo ha dichiarato Luigi Sideri, segretario generale Filca-Cisl Bari.
I SINDACATI ANNUNCIANO FLASH MOB
«Basta parole. Servono i fatti. Oggi a Capurso un operaio di 58 anni è morto folgorato mentre eseguiva lavori di ristrutturazione nella sede di una ditta alla zona industriale. È la terza persona che nel giro di pochi giorni esce di casa per andare a lavoro e non torna più». Lo affermano in una nota congiunta i segretari generali di Cgil Bari Gigia Bucci, Cisl Bari Giuseppe Boccuzzi e Uil Puglia Stefania Verna, lanciando per mercoledì mattina, alle 9.15, un flash mob davanti la Prefettura di Bari.
«Siamo stanchi di dover commentare questi episodi drammatici alla stregua di notizie all’ordine del giorno - proseguono -. Prevenzione e vigilanza sono state derubricate. Gli investimenti in salute e sicurezza sono una chimera». «E questo - concludono - è quello che accade quando non si mettono in atto azioni e interventi necessari a vigilare, a fare prevenzione, a tutelare il lavoro di ogni singolo individuo».
“Ciao sono Abdul, Riccardo o Marco e ieri sono morto sul lavoro”, le storie dei 1090 che non sono più tornati a casa. Francesco Lo Dico su L'Unità il 26 Maggio 2023
Ciao sono Ruman Abdul, sono pakistano, ho 25 anni e ieri, giovedì 25 maggio era il mio primo giorno di lavoro in un’azienda di Trezzano sul Naviglio, la Crocolux. Non è stata una giornata molto fortunata, però, perché nonostante ieri fosse il mio primo giorno di lavoro non avevo un contratto di lavoro. Ma soprattutto perché sono stato maciullato da un macchinario: cranio, braccia, gambe, ci sono finito dentro con tutte le scarpe, crac crac crac, e dopo un’inutile corsa in ospedale sono morto qualche ora dopo al Niguarda. No so ancora se e quando faranno le più sentite condoglianze ai miei familiari, ma aspetto fiducioso perché ho tutto il tempo del mondo. La Procura ha aperto un’inchiesta.
Ciao, sono Riccardo Campoli, sono italiano di Veroli, ho 69 anni e l’altro ieri, martedì 23 maggio era l’ennesimo giorno di lavoro in una tenuta agricola di via della Marcigliana, nel quadrante Nordest di Roma, zona La Cinquina-Bufalotta. Ma non è stata una giornata di lavoro molto fortunata, la mia, perché sono stato sfortunatamente schiacciato dalle ruote posteriori di un trattore guidato da un collega che era anche responsabile dell’azienda per cui lavoravo in una manovra in retromarcia. Crac crac crac. Nel mio caso è stata inutile anche la corsa in ospedale, perché quando mi hanno soccorso ero già morto. Sono morto sul colpo. Il trattore è stato sequestrato, hanno rivolto sentite condoglianze ai miei familiari. La Procura ha aperto un’inchiesta.
Ciao, sono Nicholas Nanut, sono italiano originario di Monfalcone, ho 30 anni e lavoro in un’azienda specializzata nella produzione di alluminio nella zona industriale di Mariano del Friuli, in Provincia di Gorizia. Il mio però non è stato un turno di notte molto fortunato, perché un macchinario mi ha triturato per bene, crac crac crac, e insomma, come potete immaginare sono morto pure io. Mi hanno ritrovato soltanto il giorno dopo, quando partiva il turno dei colleghi del mattino che avrebbero dovuto darmi il cambio. L’azienda è stata sequestrata, probabilmente è stata aperta un’inchiesta, probabilmente arriveranno sentite condoglianze ai miei familiari.
Ciao, sono Marco Santacatterina e sono uno studente universitario della provincia di Vicenza, dove vivo con i miei genitori e il fine settimana consegno pizze a domicilio per guadagnare qualche soldo. Ho un contratto a chiamata con una pizzeria di Thiene. Ma io no (vi ho fregato, eh?), non sono affatto morto. Però ci tenevo a dirvi che nonostante tutto il mio ultimo weekend non è stato molto fortunato. Sono rimasto molto colpito dall’alluvione in Emilia Romagna, e così ho pensato di scrivere al mio datore di lavoro che “sabato e domenica non posso venire, vado a fare il volontario tra gli sfollati”. Lui però non l’ha presa bene e mi ha licenziato. «Mi fai ridere. Vai pure ad aiutare, io mi troverò qualcun altro. Bye bye, buffone», mi ha risposto.
Ciao, siamo i 1090 morti sul lavoro del 2022, tre al giorno. Ai quali si sono aggiunti altri 196 colleghi vittime di sfortunati eventi da gennaio a marzo di quest’anno (vi avvisiamo però che i dati sono in aggiornamento). Siamo uomini, siamo donne, siamo italiani, siamo stranieri. Lavoriamo in posti di lavoro al limite e fuori dalle norme di sicurezza, per paghe da fama e con forme contrattuali anomale, irregolari o inesistenti. Ma siamo tutti morti per una serie di sfortunati eventi, o come preferiscono chiamarle, “tragedie”. Siamo però fiduciosi che con la sacrosanta estensione dei contratti precari, il sacrosanto ritorno dei voucher vita natural durante e la sacrosanta abolizione del reddito di cittadinanza, voluti da questo governo sacrosanto, i nostri colleghi potranno finalmente tornare a figliare e contrastare così la sostituzione etnica, senza timore di finire spesso ammazzati, crac crac crac, da datori di lavoro senza scrupoli. Solo un favore, se potete. Evitate, nel caso sfortunato qualcuno morisse, di fare al malcapitato sentite condoglianze. Francesco Lo Dico 26 Maggio 2023
«La sicurezza sul lavoro? Un fatto culturale». Nadia Afragola su Panorama il 28 Aprile 2023.
Andrea Maffei di Tharsos parla, in occasione della Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, del problema delle morti bianche e di come sensibilizzare i cittadini sul tema
Il 28 aprile è una data importante: ricorre la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro promossa dall'ILO (Organizzazione internazionale del Lavoro). E mentre in televisione continuano a passare spot su articoli di antinfortunistica, promossi da soubrette e influencer, sul campo si continua a morire. Ultimo in ordine di tempo il giornalista e interprete ucraino Bogdan Bitik colpito a morte, probabilmente dai soldati russi, sulla strada per Kherson, in Ucraina. Accompagnava il collega italiano Corrado Zunino, ferito ma salvo grazie al giubbotto antiproiettile (che Bogdan non indossava). «La situazione era calma» si legge nei vari reportage che battono la notizia. È questa la frase e anche la ragione più comune legata alle morti bianche sul lavoro: la presunta assenza di pericolo. Un luogo comune, come i dieci scelti da un’azienda italiana che si occupa di sicurezza sul lavoro, la Tharsos, per sensibilizzare sul tema. Si parte dai social network per arrivare nelle piazze delle principali città italiane. Un processo lungo, che ha tanta strada da percorrere, una lotta contro il tempo, perché ancora oggi si registrano migliaia di morti bianche all’anno. Facciamo un po’ di chiarezza sull’argomento con Andrea Maffei, ai vertici di Tharsos. Come è cambiato il modo di comunicare ciò che dovrebbe essere alla base di ogni mestiere, la sicurezza? Il modo di comunicare cambia costantemente. Nel 2011 è stata varata una delle iniziative di più largo respiro della Storia della Repubblica, dopo la scuola dell’obbligo. Con un accordo Stato/Regioni, è stato sancito l’obbligo di formazione in ambito sicurezza per tutti i lavoratori, indipendentemente dal contesto in cui esercitano. In questi ultimi anni in materia di salute e sicurezza abbiamo fatto grandi progressi, eppure, il risultato di tanto impegno è demoralizzante: se si mettono a paragone il numero delle morti bianche del 2011 con quelle del 2022, il dato è impressionante… non è cambiato quasi nulla! Le curve sono quasi le stesse, i morti e gli infortuni gravi sono immutati. Numeri sostanziosi, tre/cinque persone al giorno (più di mille all’anno) che la sera non tornano a casa dalla propria famiglia. Dati che ciascuno di noi sente ogni giorno, ma che quasi sempre sono seguiti dall’indifferenza o da un cinico «a me non può succedere». Il corto circuito dov’è? Le norme non bastano? Di per sé non sono sufficienti, manca qualcosa. E lo abbiamo imparato con l’avvento della pandemia. Sono i nostri comportamenti che fanno la differenza, non soltanto il sapere cosa fare. Dal punto di vista teorico, tutti conosciamo l’approccio corretto, eppure in certe situazioni anche nella vita quotidiana, capita costantemente di commettere leggerezze, gesti sciocchi di cui non pesiamo le possibili conseguenze. È proprio partendo da questi atteggiamenti che abbiamo deciso di lanciare la nostra campagna di sensibilizzazione. Dieci luoghi comuni legati alla sicurezza che tutti sentiamo dire ogni giorno: «Abbiamo fatto sempre così», «Tanto qui non cambia niente», «Questo non è un problema mio», e così via, e siamo partiti da una campagna social. Un messaggio non professionale, non parliamo ai nostri clienti abituali ma alla comunità. Prendiamo questi messaggi e li portiamo grazie a dei camion-vela in cinque grandi città italiane: Torino, Milano, Roma, Firenze e Vicenza. Transiteranno in luoghi simbolici, davanti alle Università, nei centri del potere decisionale, davanti ai Comuni, al Parlamento, e cercheranno di attirare l’attenzione. È questo il focus: alzare il livello di guardia.
Una frase della campagna di sensibilizzazione Spesso l’elmetto e la scarpa antinfortunistica si hanno ma non si usano. Manca amor proprio? Manca la consapevolezza, rendersi conto che non succede sempre e solo agli altri, e la distrazione o l’imprevisto accadono a tutti. Dobbiamo fare i conti con questa situazione. Parliamo di un approccio di tipo culturale che sarebbe da rivedere. Gran parte dei lavoratori ha a disposizione il caschetto o la scarpa ma se leggiamo i dati, scopriamo che la curva degli infortuni ha due picchi: il primo in età giovanile, il secondo in età avanzata. Il che significa che i ragazzi, avendo appena iniziato a lavorare non sanno ancora come muoversi, mentre i più anziani sottovalutano il pericolo perché: «Non mi è mai successo nulla in 30 anni, figurati se succede adesso». Che è una delle frasi dei nostri spot. E questo discorso vale che tu stia montando un ponteggio, che tu stia allestendo il palco per un concerto, o che tu faccia l’inviato di guerra. Niente aggiornamenti tecnici, quindi. Spazio a immagini, a frasi che vogliono colpire, emozionare, portare a riflettere. Parlate ai giovani, in pratica e per farlo avere scelto il loro linguaggio. Abbiamo scelto i social network e le piazze, non andiamo nelle fabbriche o negli uffici dove questi messaggi sono propinati ripetutamente. Vogliamo parlare con quella fascia di persone, con le madri, con i giovani, che pensa che la sicurezza sul lavoro sia un tema non suo o che non esiste. Come è cambiato il modo di mettere in sicurezza un posto di lavoro dopo la pandemia? È cambiato l’approccio alla gestione di alcuni temi, il concetto di estensione di responsabilità; non basta che ci sia una regola, se non la applichi il problema non sparisce. Non basta acquistare una scarpa antinfortunistica, se poi la si lascia in un armadietto. L’evoluzione del modo di lavorare dipende da come ci comportiamo tutti i giorni. Abbiamo imparato che neppure lo smart working è indenne da questa riflessione. Il lockdown ci ha insegnato quanto anche restare a casa, in un luogo apparentemente privo di pericoli, sia deleterio per l’individuo, che può cadere in una condizione di stress, fino a farla diventare una malattia professionale. Il tema dello smart working necessita sicuramente di riflessioni, anche perché, per ora, rimane in un limbo di incertezza normativa. La lezione del Covid è stata utile ma non sempre è stata colta in modo giusto e la soglia di guardia si è abbassata non appena il livello di emergenza si è ridimensionato. Non si parla di mascherine o altri dispositivi, il discorso è più ampio: se fai attenzione, alcune cose non accadono, gli effetti non ricadono sugli altri. È questo l’insegnamento più importante che dovremmo imprimerci nella mente. C’è la sostanza e ci sono le mode. Pensiamo ai numerosi spot televisivi legati a scarpe antinfortunistiche, che scelgono soubrette per lanciare il loro messaggio. Purché se ne parli o sarebbe meglio andare a fondo? La platea dei soggetti obbligati a usare questo abbigliamento è aumentata tanto, le condizioni di lavoro sono molto cambiate negli ultimi decenni, non fosse altro per un concetto di globalizzazione. Le regole, e la loro applicazione sono di uso comune su scala nazionale. Per lavorare in certi mercati, per entrare in certe catene di fornitura serve rispettare rigidi protocolli di controllo. Parlando di spot in tv, valgono le stesse le regole della comunicazione: se vuoi vendere un prodotto lo accosti a qualcosa di famigliare per il tuo interlocutore. Penso sia un bene che la sicurezza inizi a rientrare in una logica evolutiva, che non sia più relegata agli addetti ai lavori, che si faccia conoscere. Il modo di comunicare scelto da Tharsos segue lo stesso approccio: niente normative, niente servizi, solo messaggi immediati, usando le stesse parole che il nostro interlocutore sente ogni giorno, o che lui stesso ripete di frequente. La logica è la stessa della soubrette, la cui funzione è di veicolare un messaggio sfruttando un’immagine che entra nelle case di tutti, quotidianamente. Quando parliamo di etica del lavoro, parliamo anche di questo, e dobbiamo ricordarci che la sostenibilità non è solo una questione ambientale, vuol dire vivere meglio e più sicuri. Nel mezzo di un conflitto, come si forma dal punto di vista della sicurezza un giornalista che va in guerra? Con un meccanismo preciso di valutazione dei rischi, si stabiliscono i confini dell’attività che si andrà a svolgere e ci si muove di conseguenza. La formazione, mutuata da quella militare, viene fatta su diversi livelli e punta a spiegare come stare sul campo, i rischi dell’essere in uno stato di guerra, si imparano le nozioni base del primo soccorso, si fa preparazione atletica, perché i momenti più concitati richiedono rapidità nei movimenti. L’intelligenza artificiale potrà, un giorno, migliorare la sicurezza sul lavoro? Tutto il tema dell’industria 4.0, tutti i processi di automazione delle macchine e degli impianti, che sono un po’ i progenitori dell’intelligenza artificiale, viaggiano in quella direzione, ossia creare logiche dove alcuni processi non necessitano dell’intervento umano. Il che chiaramente corrisponde ad un abbassamento drastico degli infortuni. Crediamo molto nell’interazione con l’IA, così come nella tecnologia e nei sistemi di comunicazione meno ordinari. Una delle cose che ci ha contraddistinto negli ultimi anni è stata la scelta di veicolare i messaggi legati alla sicurezza usando cartoni animati, giochi di ruolo, escape room e teatro. Un approccio che dieci anni fa veniva deriso, ma che ad oggi dà risultati indiscutibili. Il gioco è un veicolo perfetto di apprendimento, attira l’attenzione, fa divertire, e nel frattempo insegna qualcosa. Anche in questo la tecnologia verrà in aiuto, grazie alla realtà virtuale, anche se ad oggi non ha costi sostenibili. Qual è il vostro raggio d’azione? Il nostro raggio d’azione è l’Italia e in buona parte anche l’Europa, e copriamo diversi ambiti: industria, servizi, editoria, trasporti. Abbiamo una fascia di supporto trasversale che ci aiuta a vedere e anticipare tante problematiche. I nostri gruppi di lavoro sono composti da ingegneri, avvocati, chimici, fisici, geometri, grafici, comunicatori, architetti, video maker perché il concetto di assistenza è diventato trasversale. In questo senso servirebbe un grande supporto del sistema educativo italiano per sviluppare queste figure professionali nelle Università e in percorsi di master dedicati. Investite in questo settore, la sicurezza ha uno spettro d’azione ampio, che interessa tanti ambiti e che ti fa toccare con mano il frutto del tuo lavoro, oltre a darti una visione ampia di tutto ciò che gravita intorno ad una normale attività. È un lavoro che apre la mente, ed è utile, soprattutto quando riusciamo a imprimere a fondo in maniera decisa i nostri messaggi. Dal punto di vista lavorativo come si sta, in definitiva, in Italia?
Dipende dal mestiere che fai e dall’azienda in cui sei. Ci sono settori più a rischio di altri, settori più indietro di altri. Basta dare un occhio ai numeri: il mondo dell’edilizia, quello agricolo o delle piccole imprese, sono soggetti al più alto rischio di incidente. E sono settori in cui la sicurezza è percepita solo come un costo, un rallentamento, un inutile processo burocratico. È su questo che bisognerebbe fare leva, non distribuendo multe e ammonimenti, ma insegnando un metodo consapevole di lavorare.
Esplosione nella fabbrica. Muoiono tre operai. Era già successo nel 2020. Ancora una tragedia sul lavoro, in una ditta di polvere da sparo. Per oggi attesa l'udienza sul caso di 3 anni fa. Patricia Tagliaferri il 14 Settembre 2023 su Il Giornale.
Ennesima tragedia sul lavoro. Con tre morti e alcuni feriti in una fabbrica che recupera e smaltisce polvere da sparo da bonifiche che si trova a Casalbordino, in provincia di Chieti. La stessa azienda, la Sabino Esplodenti, dove nel 2020 persero la vita altri tre operai. Un precedente drammatico, non l'unico, per il quale proprio oggi è in programma l'udienza preliminare dinanzi al gup del Tribunale di Vasto per dieci imputati, tra cui i responsabili della società. Anche nel 1992 c'era stato un morto, ucciso dall'innesco di una spoletta, e nel 2009 due feriti in un'altra esplosione. Sempre alla Sabino Esplodenti, in una regione - l'Abruzzo - dove negli ultimi trent'anni sono stati registrati undici casi più o meno gravi di esplosioni di polvere pirica in aziende di fuochi d'artificio o depositi.
Fortissima, verso le 12,30 di ieri, l'esplosione che non ha lasciato scampo a tre operai che lavoravano da tempo presso l'azienda. Le vittime sono Giulio Romano, originario di Casalbordino (Chieti), Fernando Di Nella di Lanciano (Chieti) e Gianluca De Santis, sposato e padre di due bambini, residente a Palata, in provincia di Campobasso. I vigili del fuoco hanno lavorato a lungo per mettere in sicurezza il sito, mentre la prefettura ha attivato il centro coordinamento dei soccorsi che resterà attivo fino a cessata emergenza. Alcune abitazioni sono state evacuate, ma si è scongiurata la chiusura della ferrovia e dell'autostrada A/14 - che era stata ipotizzata in un primo momento - non appena i tecnici hanno accertato che le conseguenze dell'esplosione erano delimitate all'interno della struttura e che era stato regolarmente attivato il piano di emergenza. Il titolare della fabbrica, Gianluca Salvatore ieri era a Roma. Non appena è stato informato della tragedia si è precipitato in Abruzzo, incredulo. Non sa ancora se questa mattina il gup di Vasto lo manderà a processo e rischia di doversi difendere da accuse analoghe in una nuova inchiesta. Anche se negli ultimi tre anni, spiega il suo legale storico, Augusto La Morgia, le cose alla Sabino Esplodenti sarebbero cambiate: «È sgomento e non riesce a spiegarsi l'accaduto, anche alla luce delle precauzioni severissime prese in fabbrica dopo la tragedia del 2020». Sgomento per il precedente anche il governatore dell'Abruzzo, Marco Marsilio: «Non possiamo esimerci dal riflettere e chiederci se non siano state adottate tutte le misure previste in un'attività classificata ad alto rischio come questa fabbrica. La risposta, ovviamente, non può che venire dalla magistratura e dall'inchiesta che dovrà appurare le cause, ma comprendo i sentimenti di rabbia, oltre che di dolore, dei lavoratori esposti in tre anni a due tragedie mortali di questa dimensione. Dobbiamo tenere sempre alto il livello di sicurezza sui luoghi di lavoro per evitare che continuino a verificarsi simili incidenti».
Anche se la dinamica del dramma di ieri deve essere ancora chiarita, è come se dal 2020 non fosse cambiato molto per la tutela dei lavoratori di un settore così delicato. I dieci presunti responsabili della morte dei tre operai, uccisi tre anni fa dall'esplosione di una scatola contenente razzi di segnalazioni per le imbarcazioni, sono in aula questa mattina per difendersi dalle accuse di cooperazione colposa in omicidio colposo (per colpa generica cagionata da negligenza, imprudenza e imperizia e per colpa specifica consistita nella violazione di diverse norme antinfortunistiche). Gli imputati sono il legale rappresentante e presidente del cda della Esplodenti Sabino, il direttore dello stabilimento, il responsabile del servizio protezione e prevenzione, quattro consiglieri di amministrazione, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il capo reparto, la società in persona del legale rappresentante, società che è sottoposta a procedimento penale per responsabilità amministrativa per omicidio colposo plurimo.
Piange e si commuove il sindaco di Casalbordino, Filippo Marinucci: «Non è possibile... non è possibile, dopo tre anni si ripete. Stesse scene, stesso strazio, stesso numero di morti». Per il capogruppo del Pd in commissione Lavoro alla Camera, Arturo Scotto, siamo davanti ad una «guerra a bassa intensità»: «Serve una risposta unitaria e forte per fermare le stragi».
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ULTIMA FERMATA Report Rai domenica 8 ottobre 2023 di Danilo Procaccianti Collaborazione di Goffredo De Pascale, Norma Ferrara Immagini Cristiano Forti, Chiara D’Ambros, Andrea Lilli Ricerca immagini Alessia Pelagaggi Montaggio e grafiche Monica Cesarani
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Alle 23.45 del 30 agosto scorso questa telecamera di sorveglianza riprende il passaggio di un treno subito dopo la stazione di Brandizzo in provincia di Torino, proprio su quei binari sta lavorando una squadra di operai come testimonia il video girato dal più giovane di loro, Kevin Laganà di 22 anni. Alle 23,49 la stessa telecamera riprende il passaggio di un altro treno, questa volta si sente il fischio del treno e il tentativo di frenata. Quel treno che andava a oltre cento chilometri orari ha travolto e ucciso i 5 operai che sono stati scaraventati a oltre cento metri dall’impatto, come dimostrano queste immagini dove si vede la calce bianca che copre i loro resti. Un impatto violentissimo. E, per avere un’idea, basta assistere al passaggio dei treni alla stazione di Brandizzo, trema letteralmente tutto.
MASSIMO LAGANÀ – PADRE DI KEVIN LAGANÀ Abbiamo cenato, poi mi sono messo a letto il tempo che lui si preparava per andare a lavorare, è venuto lui in camera mi ha baciato “papà ci vediamo domani quando finisco di lavorare”. Nulla. Da allora non ho visto più mio figlio ritornare a casa.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Gli operai deceduti lavoravano per la Sigifer di Borgo Vercelli che aveva preso quel lavoro in subappalto. Avrebbero dovuto sostituire un pezzo di rotaia, un lavoro dal valore stimato di 750 euro. Secondo le norme sulla sicurezza, la circolazione dei treni doveva essere interrotta. Ma come emerge dal video del giovane operaio Kevin, così non è stato.
30/08/2023 – PROFILO INSTAGRAM DI KEVIN LAGANÀ KEVIN LAGANÀ – OPERAIO SIGIFER Non abbiamo neanche l’interruzione ancora.
ANTONIO MASSA – CAPO SCORTA RFI Ragazzi se vi dico treno andate da quella parte eh
KEVIN LAGANÀ – OPERAIO SIGIFER (sorride) ANTONIO MASSA – CAPO SCORTA RFI Se vi dico “treno” da che parte passate?
KEVIN LAGANÀ – OPERAIO SIGIFER Di qua (sorride)
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La voce che invita gli operai a lavorare senza l’interruzione della linea, è di Antonio Massa tecnico di RFI, Rete Ferroviaria Italiana. Proprio lui avrebbe dovuto verificare che i lavori si svolgessero solo dopo l’interruzione.
ANTONIO VENEZIANO – OPERAIO SIGIFER 2020 - 2023 Per me è come se hanno messo delle persone lì, le hanno legato sul binario e le hanno fatte schiacciare dal treno. Perché una persona che ti dice “ti guardo il segnale”, cioè “ti guardo le spalle vai pure tranquillo, se vi dico treno andate”, io vado sul binario e mi metto a lavorare tranquillamente.
MASSIMO LAGANÀ – PADRE DI KEVIN LAGANÀ Ferrovie dello Stato, loro. Apposta io ero mille per mille sicuro che mio figlio era in mani tranquille. Io ero preoccupato se mio figlio usciva con la moto o con la macchina con gli amici. Io ero sicuro quando mio figlio era al lavoro.
ANTONIO LAGANÀ – OPERAIO SIGIFER E FRATELLO DI KEVIN LAGANÀ Il ferroviere è lì per far rispettare le regole, le sue regole.
DANILO PROCACCIANTI Lei ha parlato di omicidio premeditato. Perché?
VALTER BOSSONI – SEGRETARIO GENERALE CGIL VERCELLI VALSESIA Le attività venivano svolte da maestranze non sempre formate per fare l'attività che doveva essere svolta in particolar modo quelli sulla sicurezza sono degli adempimenti che risultano essere formalmente espletati sulla carta, ma non realmente applicati poi nel luogo di lavoro.
DANILO PROCACCIANTI Cioè mi sta dicendo che per esempio fanno certificazioni false sui macchinari, sulla formazione?
VALTER BOSSONI – SEGRETARIO GENERALE CGIL VERCELLI VALSESIA Ci sono delle grandi omissioni.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’elenco degli indizi sulle possibili omissioni che hanno portato alla tragedia di Brandizzo è lungo; un elenco che sembra una lista degli orrori e che comincia dalla formazione, nessuno degli operai che lavoravano sui binari avrebbe mai fatto corsi sulla sicurezza alla Sigifer.
ANTONIO VENEZIANO – OPERAIO SIGIFER 2020 - 2023 Io sono arrivato, sono andato in Sigifer, ho preso le scarpe, la mia roba per lavorare e la sera sono andato in binario.
DANILO PROCACCIANTI Mai corsi di formazione?
ANTONIO VENEZIANO – OPERAIO SIGIFER 2020 - 2023 Corsi di formazione non ne ha fatto nessuno. Per entrare a Sigifer era come entrare in un bar.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Poi ci sarebbero le responsabilità di RFI del gruppo Ferrovie dello Stato a cominciare dalla pratica di lavorare sui binari nonostante non ci fosse l’interruzione della circolazione.
14/09/2023 – “CINQUE MINUTI” RAI UNO GIANPIERO STRISCIUGLIO - AMMINISTRATORE DELEGATO RETE FERROVIARIA ITALIANA Alla nostra azienda non è nota alcuna prassi ne è consentita alcuna prassi differente da quella prevista dalla nostra rigida normativa. La manutenzione deve essere effettuata in maniera inderogabile nel rispetto delle procedure e con i tempi giusti.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO All’amministratore delegato di RFI non risulta alcuna prassi non conforme alle procedure, ma a noi risulta esattamente il contrario: lavorare senza interruzione sui binari sarebbe stata la norma.
DANILO PROCACCIANTI Quindi anche senza interruzione cominciavate a lavorare?
ANTONIO VENEZIANO – OPERAIO SIGIFER (2020 - 2023) Certo, senza interruzione noi siamo sempre entrati a lavorare. Ora è successa la tragedia, ma lì se dicevi no, andavi in cantiere e ti cambiavano di squadra; è successo a me. Perché io o un altro ragazzo se dicevo questa cosa prima… noi valiamo zero. Noi dicevamo “lavoriamo così come dei cani”.
DANILO PROCACCIANTI Siamo di Report di Raitre, a proposito di Brandizzo, noi abbiamo scoperto che l’appalto lo avevate dato voi come RFI, quindi non era un subappalto di un’altra ditta. Che tipo di controlli fate visto che molti operai ci hanno detto che non hanno mai fatto corsi sulla formazione, sulla sicurezza?
GIANPIERO STRISCIUGLIO - AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE GENERALE RFI Guardi mi faccia innanzitutto ribadire il grande dolore che sta colpendo l’azienda, che ha colpito l’azienda e mi faccia rappresentare nuovamente il senso di cordoglio e di vicinanza alle famiglie. C’è un’indagine in corso, stiamo offrendo la massima collaborazione; la sicurezza per RFI e per il gruppo Ferrovie dello Stato è la priorità assoluta, grazie buon lavoro.
DANILO PROCACCIANTI Però da quello che ci risulta non è così: avete sospeso dei dipendenti che avevano fermato dei lavori. Ingegnere sono morti cinque operai, ingegnere una risposta, un minuto in più lo meritano cinque operai morti sulla sicurezza.
GIANPIERO STRISCIUGLIO - AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE GENERALE RFI Guardi le ho risposto già, grazie.
DANILO PROCACCIANTI E da parte di RFI qualcuno vi ha chiamato?
MASSIMO LAGANÀ – PADRE DI KEVIN LAGANÀ Nessuno
DANILO PROCACCIANTI Nemmeno da Roma?
MASSIMO LAGANÀ – PADRE DI KEVIN LAGANÀ Nessuno proprio, zero.
ANTONIO LAGANÀ – OPERAIO SIGIFER E FRATELLO DI KEVIN LAGANÀ Sono spariti tutti.
MASSIMO LAGANÀ – PADRE DI KEVIN LAGANÀ Neanche un telegramma per dire condoglianze per…
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sul disastro indaga la procura di Ivrea che oltre al capocantiere della Sigifer e al tecnico di RFI, gli unici sopravvissuti, ha iscritto sul registro degli indagati anche tutti i dirigenti della Sigifer; l’accusa è disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo e per alcuni si ipotizza anche il dolo. Ma c’è davvero poco da essere speranzosi che la giustizia trionfi perché anche le condizioni di quella Procura sono a dir poco preoccupanti.
FRANCESCO ENRICO SALUZZO – PROCURATORE GENERALE DI TORINO Il grido d'allarme che ho lanciato è anche rivolto ai cittadini. Cioè non si aspettino che dalla Procura di Ivrea possano arrivare risposte in tempi accettabili e su tutto quello che c'è. Versa in uno Stato che non esito a definire comatoso e la polizia giudiziaria è fuorilegge, nel senso che ci sono otto persone e ce ne dovrebbero essere venti.
DANILO PROCACCIANTI Quindi chissà se vedremo mai giustizia.
FRANCESCO ENRICO SALUZZO – PROCURATORE GENERALE DI TORINO Tragedie come queste non sono prevedibili, nel senso che purtroppo domani ce ne può essere un'altra. Non dobbiamo aspettare la tragedia per mettere un ufficio in condizioni di funzionare.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una magistratura che non funziona equivale a far circolare un’auto senza certificato di garanzia. Dopo l’incidente di Brandizzo, insomma, si assiste alla solita litania: “è stato un errore umano, una tragica fatalità”. Tuttavia, se si va a scavare le pratiche scandalose che hanno provocato questa tragedia te le confessano un po’ tutti, anche sottovoce. Report può documentare con dei video inediti che è la prassi far lavorare degli operai sui binari senza fermare la circolazione dei treni. Si scopre anche che quegli operai che vengono mandati a fare la manutenzione, non hanno mai fatto corsi di formazione sulla sicurezza. Il nostro Danilo Procaccianti con la collaborazione di Norma Ferrara e Goffredo De Pascale, hanno anche scoperto che nella più grande stazione appaltante del nostro Paese, RFI, quei dirigenti, funzionari ligi, che denunciano rischi sulla sicurezza non vengono premiati, anzi vengono sanzionati ed emarginati. Hanno anche scoperto controllori che vanno a braccetto con i controllati, infiltrazioni della ‘ndrangheta e controlli fatti sulla carta invece che nella realtà.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Questa è la linea ferroviaria del Brennero, il 26 aprile del 2017 quando erano in corso i lavori di sostituzione dei binari in questa tratta tra Varna e Bressanone è successa una tragedia: il treno cantiere carico di traverse di cemento non frena e si schianta su un altro mezzo cantiere. Il bilancio è di due operai morti e tre feriti. Sulle cause dell’incidente c’è un processo in corso. La moglie di uno degli operai deceduti racconta i dubbi che il marito le esprimeva sulla sicurezza. 26/04/2017 – TG1 Mi raccontava che purtroppo molte volte c'erano operai che non erano diciamo molto esperti e che parecchie volte si… insomma si è evitato delle catastrofi.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Gli operai deceduti lavoravano per la GCF, Generali Costruzioni Ferroviarie, un’azienda di armamento ferroviario di Edoardo Rossi. Un colosso con un fatturato da 620 milioni di euro l’anno che lavora in tutto il mondo, ma in tutto il mondo ha lasciato dietro di sé anche parecchie perplessità sui suoi modi di operare.
OSCAR ACCIARI - GIORNALISTA RADIOTELEVISIONE SVIZZERA Gli operai ci hanno raccontato anche che c'era chi guidava senza le dovute abilitazioni; di conseguenza i rischi erano molto elevati.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Oscar Acciari ha fatto un’inchiesta sulla GCF che tra il 2017 e il 2020 ha lavorato alla galleria ferroviaria alla base del Monte Ceneri una delle opere più importanti nella storia della Svizzera. C’è però un’inchiesta in corso dopo le denunce dei lavoratori su orari di lavoro e norme di sicurezza che non sarebbero state rispettate
OSCAR ACCIARI - GIORNALISTA RADIOTELEVISIONE SVIZZERA Turni di lavoro che partivano da un minimo di 12-13 ore sino ad arrivare a 20, addirittura c'è chi ha raccontato di aver lavorato sino a 20-24 ore di fila
DANILO PROCACCIANTI E quando hai cercato di verificare?
OSCAR ACCIARI - GIORNALISTA RADIOTELEVISIONE SVIZZERA La documentazione era approssimativa e/o non era presente.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO In Danimarca stesso copione. A Copenaghen a fine 2019 si è inaugurato il nuovo anello metropolitano, la linea Cityringen, che circonda il centro di Copenaghen con due tunnel di 15 chilometri e 17 nuove stazioni. Un contratto da quasi tre miliardi di euro aggiudicato da aziende italiane come Ansaldo, Salini Impregilo e proprio GCF che si è occupata dell’armamento ferroviario dell’intero tracciato in galleria. Ma forse, proprio perché i lavori si svolgevano sottoterra lontano da occhi indiscreti, gli operai avrebbero fatto turni massacranti.
DORTHE SEJR SARTOR - CONSULENTE SINDACATO 3F – DANIMARCA Lavoravano tantissimo: lavoravano dalle 7 di mattina fino alle 18 di pomeriggio e poi ritornavano a lavorare dalle 21 fino alle 4 di notte. DANILO PROCACCIANTI Oltre questo avete scoperto dell'altro?
DORTHE SEJR SARTOR - CONSULENTE SINDACATO 3F – DANIMARCA Sì, non segnavano né il lavoro notturno, né il lavoro delle domeniche e neanche gli straordinari.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Insomma, un modo di operare che sarebbe al limite e che ci viene confermato anche da una parente stretta di uno degli operai morti nell’incidente di Bressanone.
PARENTE OPERAIO GCF DECEDUTO Veniva chiamato di sabato, di domenica, nell’Epifania. Facevano questi turni, ma gli orari ovviamente venivano truccati, senza rispettare che chi fa il notturno non può fare il diurno.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO In questa mail che vi mostriamo in esclusiva, il commercialista che prepara le buste paga per GCF sembrerebbe chiedere a un dipendente di modificare le presenze ufficiali perché, scrive, “è pericolosissimo indicare ben 8 giorni di lavoro continuativo”. Proprio le stesse condizioni riscontrate in Danimarca dove il sindacato 3F, ha avviato una causa di lavoro che ha costretto GCF a pagare un milione e 600mila euro.
DANILO PROCACCIANTI È vero che GCF voleva darvi più soldi in cambio però della segretezza?
DORTHE SEJR SARTOR - CONSULENTE SINDACATO 3F – DANIMARCA Sì, la sera prima della riunione in tribunale GCF praticamente ci ha offerto 470 mila euro in cambio di diciamo la segretezza.
DANILO PROCACCIANTI In qualche modo volevano chiudervi la bocca?
DORTHE SEJR SARTOR - CONSULENTE SINDACATO 3F – DANIMARCA Sì, praticamente, il mio capo ha detto “no grazie”.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sulle condizioni di sicurezza dei lavoratori di GCF, alcuni operai ci hanno mandato dei video da cui si evince che, come a Brandizzo, si lavorava in condizioni precarie: qui si vedono gli operai lavorare sul binario e, a fianco senza nessuna barriera, transita il treno. Qui invece si vedono gli operai proprio accanto al binario e il treno che sfreccia rischiando una tragedia. I controllori di GCF sono i funzionari RFI, Rete Ferroviaria Italiana, ma proprio in RFI, GCF avrebbe avuto una talpa, si tratterebbe dell’ingegner Maurizio Accili. Nel 2020 Accili scriveva a un dipendente della GCF, all’azienda che avrebbe dovuto controllare, passava invece informazioni riservate: “un ligio funzionario di RFI vorrebbe punirli”
MAURIZIO ACCILI - CHAT WHATSAPP Baroncioni vuole farvi un ordine di servizio con penale x tutti i ritardi dovuti alla Tardata riattivazione
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dopo un’ora riscrive
MAURIZIO ACCILI - CHAT WHATSAPP Ciccio, ho sentito Edo
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Si tratterebbe di Edoardo Rossi presidente della GCF.
MAURIZIO ACCILI - CHAT WHATSAPP Ci sta mettendo una pezza lui, Baroncioni è da eliminare, una volta per tutte.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Baroncioni sarebbe il funzionario RFI ligio al dovere. Poi un altro giorno scrive
MAURIZIO ACCILI - CHAT WHATSAPP Mi hanno appena comunicato che è stata attivata la commissione d'inchiesta. Dillo a Edo, siamo sempre in tempo per sospendere tutto.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nell’informativa della Polizia sull’incidente di Bressanone si legge che “emerge una certa approssimazione nella gestione del parco rotabili da parte dell’impresa G.C.F. e ipotizza che i controlli periodici effettuati e firmati da operatori RFI devono essere piuttosto superficiali. I mezzi di GCF avrebbero dovuto essere controllati proprio dall’ingegner Maurizio Accili di RFI che però come abbiamo visto da controllore aveva dei rapporti quantomeno ambigui con la GCF tanto che un giorno scrive un messaggio in cui sembra chiedere favori
MAURIZIO ACCILI - CHAT WHATSAPP Il 10 sono a Roma. Riesci a darmi qualcosa...? Così metto a posto un po' di persone collaborative.
DANILO PROCACCIANTI Volevo chiederle dei suoi rapporti con la GCF, che tipo di rapporti aveva perché a me risultano rapporti un po’ strani
MAURIZIO ACCILI – DIPENDENTE RFI Allora io appartengo a un gruppo e non posso rilasciare interviste
DANILO PROCACCIANTI Lei doveva essere il controllore di GCf e mi risultano dei messaggi in cui lei li avvisava, insomma, per esempio un giorno dice il 10 sono a Roma
MAURIZIO ACCILI – DIPENDENTE RFI Mi scusi è proprietà privata
DANILO PROCACCIANTI Mi puoi dare qualcosa devo accontentare un po’ di persone collaborative, che intendeva dire? Li avvisava anche sulle procedure di sicurezza, è una cosa grave questa
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’anomalia è che dall’altra parte ci sono invece alcuni dipendenti di RFI che quando hanno segnalato dei potenziali rischi per la sicurezza sono stati sanzionati DIPENDENTE RFI 1978 – 2018 Sì, c’è stato un periodo che io ho fermato un cantiere perché le macchine di cantiere non erano ben illuminate, qualcuno non frenava bene, il mattino dopo sono stato chiamato dai miei superiori a Torino e per punizione sono stato sospeso per un periodo di un mese più o meno dalle notti, non facevo più le notti.
DANILO PROCACCIANTI Ah, questo è il premio
IGNAZIO DRAGO – DIPENDENTE RFI 1978 – 2018 Sì, questo è il premio
DANILO PROCACCIANTI Si parla tanto di sicurezza e poi lei mi sta dicendo nel momento in cui io ho fermato un cantiere perché non lo ritenevo sicuro mi fanno la sospensione
DIPENDENTE RFI 1978 – 2018 Ognuno di noi risponde per le proprie azioni
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Punire i dipendenti che fanno rispettare le regole di sicurezza non sarebbe un caso isolato per RFI, nell’aprile del 2018 alcuni operai di una ditta privata lavoravano sui binari a Roma senza alcuna protezione
STEFANO PENNACCHIETTI – DIPENDENTE RFI li vedo e intervengo per farli uscire dal binario.
DANILO PROCACCIANTI Fermi tutti. Oggi non si lavora.
STEFANO PENNACCHIETTI – DIPENDENTE RFI Oggi non si può. Dovete uscire dal binario e interrompere delle cose, anzi, venite con me che facciamo un verbale
DANILO PROCACCIANTI immagino che la sua azienda le ha detto bravo!
STEFANO PENNACCHIETTI – DIPENDENTE RFI Dopo la prima settimana mi è arrivata una contestazione disciplinare in cui appunto mi veniva imputato un intervento inappropriato indebito. Da lì siamo usciti con cinque giorni di sospensione.
DANILO PROCACCIANTI Perché RFI si è comportato in questo modo?
STEFANO PENNACCHIETTI – DIPENDENTE RFI C'è come dire veramente… un messaggio di intimidazione clamoroso verso tutti i lavoratori che hanno detto, ma se ti fanno così a te che mi fanno a me se dovessi intervenire io.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Stefano Pennacchietti si è rivolto al giudice del lavoro che gli ha dato ragione, nella sentenza di primo grado il giudice sottolinea la regolarità e scrupolosità di Pennacchietti. RFI però, non ha imparato la lezione perché in un’altra occasione nell’aprile del 2019 lo stesso Pennacchietti si accorge che alcuni operai lavoravano accanto a un binario in queste condizioni: le gambe sui rami in posizione precaria e una motosega in mano. Anche in questo caso lui fa interrompere i lavori
STEFANO PENNACCHIETTI – DIPENDENTE RFI Guardo i documenti e qualcosa non torna perché c'è la data del giorno prima e si parla di sfalcio vegetazione a terra, faccio un rapporto…
DANILO PROCACCIANTI Che fa RFI? STEFANO PENNACCHIETTI – DIPENDENTE RFI Fa la stessa cosa che ha fatto l'altra volta solo che questa volta mi imputa la recidiva mi contesta…sanzione disciplinare di dieci giorni di sospensione questa volta
DANILO PROCACCIANTI Quindi di nuovo davanti al giudice.
STEFANO PENNACCHIETTI – DIPENDENTE RFI in tribunale abbiamo avuto l'annullamento della sanzione.
DANILO PROCACCIANTI Ingegnere ha rilasciato un’intervista due giorni fa, non capisco perché con noi non ci parlate
GIANPIERO STRISCIUGLIO - AMMINISTRATORE DELEGATO RETE FERROVIARIA ITALIANA Ho risposto grazie, ho risposto
DANILO PROCACCIANTI Ma non mi ha risposto, avete punito dei dipendenti che avevano fermato dei cantieri
DANILO PROCACCIANTI Nei due anni e mezzo in cui lei ha lavorato alla Sigifer, ci sono mai stati controlli sulla sicurezza, è mai venuto qualcuno a controllare la documentazione?
ANTONIO VENEZIANO – OPERAIO SIGIFER (2020 - 2023) Mai mai mai, in due anni e mezzo mai DIPENDENTE RFI 1978 – 2018 Solo che magari quando arriva un’ispezione la voce si sparge e invece le ispezioni dovrebbero essere all’improvviso.
DANILO PROCACCIANTI E invece erano annunciate DIPENDENTE RFI 1978 – 2018 Eh (sorride)
DANILO PROCACCIANTI Sì…tanto ormai lei è in pensione
DIPENDENTE RFI 1978 – 2018 Ufficiosamente sì
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ferrovie dello Stato ha avviato anche una campagna informativa: “Raccontare può salvare”. È l’invito dell’azienda ai propri dipendenti a raccontare le proprie esperienze per cercare di migliorare “le buone pratiche” – quello che stiamo cercando di fare noi raccontando quello che abbiamo trovato -, mentre l’amministratore delegato, Strisciuglio, ha scelto la via del mutismo. Non vuole parlare neppure di quei funzionari che hanno denunciato rischi per la sicurezza e sono stati invece sanzionati. Poi però ci hanno scritto che la sicurezza per loro è una priorità e hanno destinato un budget illimitato. Per quello che riguarda, invece, la presunta talpa che abbiamo visto nel filmato, diciamo chiaramente che non è stato mai indagato. Però, insomma, abbiamo visto un filmato di come lavorano gli operai della GCF: lavorano nelle stesse identiche condizioni degli operai di Brandizzo che poi hanno perso la vita. Però GCF è stata beccata in Danimarca per aver violato i diritti dei lavoratori. Il sindacato danese 3f li ha beccati e li ha fatti anche sanzionare: un milione e 600 mila euro. E secondo la sindacalista Dorthe Sartor avrebbe anche cercato di comprare il silenzio su questa vicenda offrendo circa mezzo milione di euro. Ha cercato di comprare la segretezza forse perché non voleva accendere i riflettori. Aveva qualcos’altro da temere?
PUBBLICITA’ SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stiamo parlando di sicurezza sulla rete ferroviaria e in particolare parliamo di un colosso delle opere ferroviarie, GCF, fatturato: 620 milioni di euro. Appartiene alla famiglia Rossi, lavora soprattutto nel Centro Nord del Paese, ma anche all’estero. E lì è stata pizzicata in Danimarca dai sindacati che le hanno anche fatto anche pagare una multa salatissima per aver violato i diritti dei lavoratori. Poi secondo la testimonianza di una sindacalista, Dorthe Sartor, la GCF avrebbe anche tentato di comprare il silenzio su questa vicenda, cioè la segretezza. Forse temeva che uscisse qualche altra informazione sulle aziende di cui si serve; qualcuna in odore di mafia. E anche qui il warning arriva dalla Danimarca.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nonostante tutte queste ombre GCF ha fatto incetta di appalti. Un'elaborazione di Openpolis su dati ANAC evidenzia come RFI abbia appaltato 224 lotti negli ultimi 15 anni a cordate promosse da GCF o di cui faceva parte. Parliamo di 9,2 miliardi aggiudicati. Una cifra enorme se consideriamo che non è possibile sapere chi è il titolare effettivo della catena societaria perché GCF è controllata dalla finanziaria della famiglia Rossi che a sua volta è controllata al 95% da una società fiduciaria italiana di natura bancaria, BNP Paribas.
DANILO PROCACCIANTI Voi sapete chi sono i proprietari di GCF
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE I proprietari. Personalmente adesso mi trova in difficoltà, io credo sia famiglia Rossi ma non è che non ho qui documenti per dire chi sono i proprietari. Stiamo parlando dello scibile ferroviario
DANILO PROCACCIANTI Non è lo scibile, stiamo parlando di miliardi e miliardi quindi da contribuente vorrei capire a chi vanno siccome a me risulta che appartiene alla Rossfin che è della famiglia Rossi che a sua volta è controllata al 95 per cento da una società fiduciaria di cui non possiamo sapere i reali proprietari noi, voi?
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Quello che è possibile ottenere dalle visure camerali quello che ottiene le visure camerali lo sa anche RFI
DANILO PROCACCIANTI Quindi è Rfi non sa chi sono i reali proprietari perché dalle visure non si sa chi è la società fiduciaria
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE ma chiedere e chiedere a me adesso davanti alla telecamera chi è che sta dietro la società che lei mi dice dalle visure dalle visure camerali risulta che GCF è in regola se non lo fosse non lavorerebbe
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Se però guardiamo i bandi di gara sulla manutenzione e sul rinnovo dei binari ci rendiamo conto che qualcosa non quadra. Gli ultimi appalti valgono tre miliardi di euro. Sono divisi in 4 lotti Nord Est, Nord Ovest, Centro e Sud la cosa incredibile è che se poi si vanno a vedere gli esiti di gara si scopre che arriva una sola offerta per lotto rappresentata da un’associazione temporanea di imprese che dovrebbero essere concorrenti tra loro. A Nord Est la capogruppo che si presenta e vince è la GCF del gruppo rossi ma nello stesso raggruppamento vincitore ci sono la Gefer sempre di rossi, la Costruzioni linee ferroviarie e la Unifer. A Nord Ovest invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia, si presenta e vince il raggruppamento guidato da Costruzioni Linee ferroviarie ma insieme a loro ci sono le aziende di Rossi Gefer e GCf e poi c’è la Euroferroviaria e la Salcef che a sua volta si presenta e vince al Centro insieme alla Euroferroviaria. Una manciata di aziende che sostanzialmente si spartiscono il mercato
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE da noi sono 11 le imprese qualificate in grado di fare questi lavori in Francia sono 5 in Germania solo 7 perché questo perché la specificità non va soltanto di pari passo con la difficoltà di un tipo di lavoro che è molto molto tecnico ma anche tutta una serie di problemi logistici
DANILO PROCACCIANTI Però la favoletta del treno che si deve spostare non me la puoi raccontare nel senso che GCF lavora in tutto il mondo adesso si presenta solo al Nord Est e al Nord Ovest no, per quale motivo
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE il raggruppamento temporaneo di impresa significa che comunque ci vogliono delle maestranze ci vuole dei macchinari che abbiano un’ubicazione tale che consenta con spostamenti brevi di poter essere sul cantiere sul posto.
DANILO PROCACCIANTI Non c’è mercato, c’è un’offerta sola… se mi fa fare la domanda…la Gcf si presenta come capogruppo a Nord Est e poi va a lavorare anche a Nord Ovest a seguito di un'altra capogruppo perché non si è presentata pure a Nord Ovest cioè lo capirebbe pure un bambino che c'è come dire una sorta di spartizione del mercato
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Non c'è una sorta, ci sono raggruppamenti temporanei di imprese
DANILO PROCACCIANTI Perché non presenta offerte anche negli altri lotti?
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Ma questo lo chieda alla GCF dopo di che sono regolari le offerte o non sono regolari?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Un punto di riferimento delle aziende di armamento ferroviario l’ex senatore Pd Salvatore Margiotta che nel 2014 in una cena da mille euro di finanziamento elettorale per Matteo Renzi era seduto al tavolo proprio con Edoardo Rossi della GCF. Margiotta è anche il presidente dell’associazione di categoria di queste aziende, l’Aniaf, e ha lasciato la presidenza solo nei due anni in cui è diventato sottosegretario ai Trasporti per evidente conflitto di interessi, finita l’avventura da sottosegretario è tornato a rappresentare gli interessi delle aziende ma nello stesso tempo era capogruppo del Pd in commissione Lavori pubblici che ha competenze anche sui trasporti.
DANILO PROCCCIANTI Senatore Margiotta buongiorno, sono Danilo Procaccianti di Report
SALVATORE MARGIOTTA – SENATORE PD 2013 - 2022 No, non buongiorno
DANILO PROCCCIANTI Qualche chiarimento sui suoi rapporti con le aziende di armamento ferroviario
SALVATORE MARGIOTTA – SENATORE PD 2013 - 2022 Sa bene che ha già parlato con la mia collaboratrice, non intendo fare interviste… l’argomento di cui parla non rientra nelle mie competenze per cortesia DANILO PROCCCIANTI Però lei è presidente dell’Aniaf che rappresenta gli interessi delle aziende
SALVATORE MARGIOTTA – SENATORE PD 2013 - 2022 Non rientra nelle mie competenze
DANILO PROCCCIANTI Cioè lei in Parlamento tutela quelle aziende o i cittadini?
SALVATORE MARGIOTTA – SENATORE PD 2013 - 2022 Assolutamente no, come potrò dimostrare facilmente
DANILO PROCCCIANTI Però questi finanziano la politica, Rossi era al tavolo con lei in una cena per finanziare Renzi
SALVATORE MARGIOTTA – SENATORE PD 2013 - 2022 Va bene sì
DANILO PROCCCIANTI Cioè non è opportuno…
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I lati oscuri di GCF ci portano anche a Verona e riguardano le collaborazioni con ditte contigue alla criminalità organizzata, in particolare la ‘ndrangheta. La GCF, infatti, ha spesso collaborato con l’azienda Nicofer di Daniel Nicoscia originario di Isola Capo Rizzuto nel Crotonese
GIANNI BELLONI - DIRETTORE CENTRO DOCUMENTAZIONE CRIMINALITÀ IN VENETO Mi sono arrivate delle segnalazioni della Danimarca in cui si segnalava la presenza di alcune ditte venete ma in su cui c'erano pesanti sospetti di protagonismo mafioso. E in effetti ricostruendo i rapporti delle proprietà e delle persone che vi gravitavano intorno alla Nicofer emerge in particolare la famiglia Giardino
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I Giardino sono una numerosa famiglia di costruttori, di origine crotonese, da tempo però vivono a Verona. Hanno la passione per il soft-air. Alcuni di loro hanno sulle spalle reati di riciclaggio, rapina, detenzione di stupefacenti, truffa e ricettazione. I legami di Nicofer con le attività della famiglia Giardino sono individuabili innanzitutto dalla stessa sede legale che si trovava in provincia di Verona a Sona in via Piemonte 13. Qui oltre alla Nicofer avevano sede un’infinità di società dei Giardino, tutte legate all’armamento ferroviario come la ISOL FER, la REGOLFER, la GIAR. FER, la RAIL ROAD COMPANY. La società GCF di Rossi utilizzava spesso i lavoratori della società Nicofer in distacco, un meccanismo consentito quando i lavori di tipo ferroviario richiedono specifiche competenze da parte delle maestranze, ma era davvero così?
OPERAIO GCF Erano tutte persone improvvisate, non sapevano nemmeno tenere gli attrezzi in mano. Alcuni cantieri di GCF sono arrivati ad avere anche il 60% della forza lavoro dalla ditta Nicofer o dalla ditta Giardino.
DANILO PROCACCIANTI Allora perché GCF li faceva lavorare?
OPERAIO GCF Andrebbe chiesto al signor Rossi il vero motivo. Io so che i capicantiere non volevano, andava a discapito della sicurezza e della produzione.
GIANNI BELLONI - DIRETTORE CENTRO DOCUMENTAZIONE CRIMINALITÀ IN VENETO Noi veniamo a sapere di una fortissima frequentazione dei Giardino con un politico locale veronese a cui chiedono tutta una serie di favori. Ad un certo punto ai Giardino viene risposto di rivolgersi a quella persona che loro conoscono che sta a Roma e che si occupa di ferrovie, questo tipo di imprese che gravitano attorno ai Nicoscia e ai Giardino hanno un salto di qualità nel momento in cui riescono a lavorare in subappalto alla GCF.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Edoardo Rossi della GCF non era tenuto a conoscere il rischio di infiltrazione mafiosa della ditta Nicofer con cui collaborava. Ma esiste uno spartiacque perché il 1 giugno 2017, la Nicofer viene colpita da un’interdittiva antimafia perché contigua alle attività imprenditoriali della famiglia Giardino e per questo con il rischio di infiltrazione della ‘ndrangheta. L’interdittiva punta il dito sul fratello del titolare della Nicofer, Francesco Nicoscia registrato come semplice dipendente ma che, secondo la prefettura, sarebbe stato l’effettivo dominus dell’impresa.
GIANNI BELLONI - DIRETTORE CENTRO DOCUMENTAZIONE CRIMINALITÀ IN VENETO Parlando con Edoardo Rossi appunto lui dice che non sapeva di questo tipo di problematiche e che se l'avesse saputo avrebbe interrotto qualsiasi rapporto.
DANILO PROCACCIANTI Quindi diciamo teoricamente dopo l’interdittiva la GCF non ha più lavorato con Nicofer?
GIANNI BELLONI - DIRETTORE CENTRO DOCUMENTAZIONE CRIMINALITÀ IN VENETO Teoricamente sì DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Eppure anche dopo l’interdittiva GCF ha continuato a lavorare con Nicofer e lo dimostra questo documento esclusivo che vi mostriamo, si tratta del piano operativo di sicurezza che GCF trasmette a RFI il 9 giugno 2017, ben 8 giorni dopo l’interdittiva e guardate nell’elenco delle maestranze ci sono gli operai della Nicofer in distacco e c’è anche quel Francesco Nicoscia su cui la prefettura aveva puntato i fari. Lo stesso giorno l’ingegner Giulia Moro di RFI approva il piano e lo definisce idoneo senza colpo ferire
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Le norme attuali prevedono che tale interdittiva impedisca alla Nicofer di lavorare, non impedisce alla Nicofer di prestare temporaneamente maestranze ad altre aziende
DANILO PROCACCIANTI Quindi se ci sono operai gravati di indizi pregiudicati
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Noi non abbiamo… non abbiamo poteri investigativi…
DANILO PROCACCIANTI Ma c’è l’interdittiva, le avevate le informazioni, l’Interdittiva parla proprio di Francesco Nicoscia e poi ce lo ritroviamo nelle maestranze che continua a lavorare cioè dopo la interdittiva. Quindi l'informazione ce l’avevate DANILO PROCACCIANTI Questo è l’accordo tra Nicofer,
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Certo
DANILO PROCACCIANTI Non tra il singolo operaio MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE È chiaro tra Nicofer
DANILO PROCACCIANTI E Nicofer azienda colpita da interdittiva antimafia continua a lavorare per Rfi
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Ma è qualcosa che le norme vigenti consentono
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Siamo stati facili profeti, qualche mese fa la procura di Milano ha messo sotto accusa il mondo degli appalti sulla manutenzione ferroviaria. Sotto indagine sono finite le aziende dei Giardino e degli Aloisio fornitori di manodopera alla GCF di Rossi, anche loro finiti sotto inchiesta. Per gli Aloisio, che hanno scelto il rito abbreviato, i magistrati hanno certificato con una sentenza di primo grado la vicinanza alla ‘ndrangheta e situazioni di sfruttamento e di minacce per quei lavoratori che non volevano sottostare a turni di lavoro che erano massacranti
DANILO PROCACCIANTI L’inchiesta riguarda anche grossi gruppi come la GCF dei fratelli Rossi
ALFREDO FAIETA – GIORNALISTA MILANO TODAY Anche loro sono accusati di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso e di tutta una serie di reati finanziari a valle di questi lavori che servivano per costituire crediti fiscali o addirittura per riottenere parte del denaro in contante che loro fornivano alle società dei Giardino e degli Aloisio in quanto ne prendevano in somministrazione di questi lavoratori
DANILO PROCACCIANTI Dottor Rossi io volevo chiederle dei chiarimenti sulle denunce dei lavoratori sugli orari di lavoro e poi dei suoi rapporti con Rfi
EDOARDO ROSSI – GCF Io la ringrazio però noi preferiamo non rispondere anche per una questione di coerenza con il committente nostro che è un committente unico quindi la ringrazio molto e mi scusi ma questa è la nostra politica
DANILO PROCACCIANTI E di Nicofer cosa mi dice? A noi risulta che abbiate lavorato con loro anche dopo l’interdittiva antimafia
EDOARDO ROSSI –GCF Fate quello che volete ma io ripeto preferisco non rilasciare nessuna dichiarazione, grazie arrivederci SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In coerenza con RFI anche il patron Edoardo Rossi, con noi non parla né di infiltrazione mafiosa né di sicurezza né di violazione dei diritti dei lavoratori. Comunque, la procura di Milano ha chiesto anche per lui, come abbiamo sentito, il rinvio a giudizio. Però noi ci eravamo occupati di GCF ben prima di questa vicenda, quando era scattata l’interdittiva per l’azienda Nicofer, l’azienda veronese. Avevamo visto che GCF ci lavorava spesso con questa azienda e ha continuato anche dopo l’interdittiva utilizzando i suoi operai, tra i quali c’era quel Nicoscia che, anche se registrato come dipendente, secondo gli investigatori, era di fatto il dominus dell’azienda. Qui Rfi alza le mani e dice: guardate la legge impedisce di lavorare con l’azienda colpita dall’interdittiva, ma non con i suoi operai. Insomma, poco importa se poi tra questi c’è anche quello che è la causa dell’interdittiva antimafia. È un paradosso. Tornando sul tema della sicurezza: dovrebbe rassicurarci o no che sia un dipendente di RFI a fare materialmente i controlli sull’integrità dei binari?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Rimanendo a Verona poi abbiamo scoperto un’altra anomalia. Nell’ambito dei controlli Rfi ha poi dei propri dipendenti che devono controllare l’integrità dei binari, individuare rotture o saldature saltate che potrebbero portare al deragliamento di un treno
DANILO PROCACCIANTI Lei a un certo punto si accorge che però qualcosa non quadra. Che cosa scopre?
PAOLO PRANDINI – DIPENDENTE RFI Ho chiesto praticamente il rendiconto di quelle del mese di dicembre 2017 inerente alla mia prestazione lavorativa in genere e ho constatato che mi erano state addebitate tutta una serie di lavorazioni di sicurezza, visite con il mio nome ma che io non avevo assolutamente eseguito
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO In seguito agli esposti del sindacato ORSA la procura di Verona ha indagato per frode nell’adempimento degli obblighi di controllo e manutenzione della rete ferroviaria. L’inchiesta è stata in parte archiviata nonostante la polizia giudiziaria attraverso la sola analisi dei tabulati avesse scritto che la certificazione prevista era falsa, ma non è tutto: queste sono le foto di un tratto di ferrovia di Rezzato in provincia di Brescia. Ecco come si presentava il giunto, completamente saltato. Solo per miracolo non c’è stato il deragliamento di un treno
ERMANNO FORNACIARI – LEGALE SINDACATO ORSA VENETO Nel caso di Rezzato è stato per caso o fortunatamente riscontrato da un macchinista che era in transito con un treno merci che si è accorto della rottura di un giunto e quindi lui ha imposto il rallentamento del treno successivo a 10 chilometri all'ora perché se fosse viaggiato a una velocità superiore con ogni probabilità sarebbe deragliato. Esattamente quello che è successo poco tempo dopo a Pioltello
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A Rezzato stava per succedere la stessa cosa di Pioltello, anzi forse peggio, come testimonia un operaio intervenuto quella sera
RICOSTRUZIONE INTERROGATORIO OPERAIO RFI Una rottura di questo tipo non mi era mai capitato di vederla. È un fatto molto grave, più grave di quello che è capitato a Pioltello. Ritengo che siamo stati molto fortunati per il fatto che il treno non sia deragliato.
DANILO PROCACCIANTI Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 2017 si è rotto un giunto a Rezzato in provincia di Brescia. Poteva succedere peggio che a Pioltello. Insomma, così hanno detto gli operai. Eppure risultava fatto un controllo un giorno prima tre giorni prima. È evidente che questi controlli non erano stati fatti se no veniva rilevato questa rottura di giunto
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Non c'è assolutamente correlazione fra L'inchiesta fra l'attività svolta e l'episodio.
DANILO PROCACCIANTI Se un giunto è rotto non è che si rompe dall'oggi al domani
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Non si rompe dall'oggi al domani.
DANILO PROCACCIANTI Quindi qualcuno avrebbe dovuto rilevarlo
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Ripeto l'inchiesta non ha rilevato manchevolezze di questo tipo
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nell’informativa della polizia giudiziaria si legge che le omissioni di controlli posti in essere dall’Unità Manutentiva Verona 1 di RFI sono risultate strutturate e pianificate: sono stati realizzati certificati falsi e i controlli sono stati omessi.
DANILO PROCACCIANTI Le omissioni di controllo sono risultate strutturate e pianificate…
MARCO MANCINI - PORTAVOCE GRUPPO FS ITALIANE Sono state condotte due commissioni di indagine interna e un audit hanno portato a escludere responsabilità di sistema, cioè il sistema ha funzionato. C'è stato un disallineamento formale tra quelle che sono le registrazioni in un sistema precedente, in un sistema cartaceo a quello digitale E tuttavia nei confronti dei due dipendenti sono state ovviamente comminate delle sanzioni disciplinari, come prevede il contratto di lavoro.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sui controlli esiste anche l’Ansfisa, Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali. Tra i loro compiti c’è anche quello delle ispezioni per il controllo della sicurezza, ma sui cantieri nessuno li ha mai visti
DIPENDENTE RFI 1978 – 2018 No, non l’ho mai visti, non mi è mai capitato
FUNZIONARIO ANSFISA Le ispezioni si fanno in una maniera così blanda che l'ufficio ispezioni sul sistema ferroviario viene tenuto scoperto cioè senza un dirigente già dalla nascita nel 2009.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Soppresso. Hanno risolto così a monte il problema. L’Ansfisa che è l’agenzia per la sicurezza della manutenzione delle strade, ferrovie e funivie, ha chiuso l’ufficio delle ispezioni ferroviarie, che non ha mai avuto un dirigente dal 2007. Insomma è un rapporto patologico tra quest’agenzia e l’ente che deve poi controllare, RFI. Quando ha concesso l’autorizzazione per la sicurezza, l’ha fatto sempre in deroga. È un cordone difficile da spezzare perché molti di quegli ispettori che finiscono poi in Ansfisa provengono proprio da RFI. È clamoroso il caso, per esempio, di una dirigente di RFI che è stata mandata in Asfisa proprio in accordo con RFI, cioè con l’ente che deve essere poi controllato. L’altra grande anomalia sta nel fatto che l’altro grande ente di certificazione sulla sicurezza, l’Italcertifer, dovrebbe essere terzo, in realtà ha come socio di maggioranza proprio Ferrovie dello Stato: al 55%. È come dire che la mamma certifica le figlie. Ogni scarrafone è bell‘ a mamma soja.
Su Rainews.
Estratto da rainews.it sabato 2 settembre 2023.
[…] Le due telefonate alla centrale di Antonio Massa, uno dei due indagati, delegato di Rete ferroviaria italiana alla scorta delle cinque vittime, che lavoravano per una ditta esterna.
Nella prima […], registrata pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì e agli atti dell'inchiesta, si sente Massa che parla con la dirigente di movimento della stazione di Chivasso a poca distanza dai binari. Poi passa il treno, a 100 all'ora: il botto, le urla. La linea che cade Nella seconda, pochi istanti dopo, la centrale richiama Massa. “Problemi?” la risposta, agghiacciante: “Sono tutti morti, sono tutti morti”.
Al centro delle indagini per omicidio plurimo e disastro ferroviario con dolo eventuale, coordinate dalla procura di Ivrea, il comportamento dell'uomo che doveva assicurare l'interruzione del binario. Il convoglio che ha travolto gli operai è passato da Brandizzo quasi mezz'ora minuti dopo l'orario previsto, e forse proprio il ritardo è alla base della convinzione di Massa che il treno fosse già passato. Ma davanti alle pm che gli hanno chiesto: “Lei lo ha visto passare?”, l'uomo ha ammesso di non averlo visto.
Una catena di errori, che la procura sta ricostruendo. L'altro indagato è Andrea Girardin Gibin, 53 anni, caposquadra della sigifer. Avrebbe accettato il rischio di far iniziare i lavori senza compilare il modulo burocratico che certificava l'interruzione della linea, accontentandosi di un via libera verbale.
Su Ansa.
(ANSA sabato 2 settembre 2023) - Alla Procura di Ivrea (Torino), che si sta occupando dell'inchiesta sulla morte dei cinque operai travolti da un treno a Brandizzo nella notte tra mercoledì e giovedì risulta una prima telefonata registrata intorno alle 23.30, mezzora prima dell'incidente. Si tratta di una delle chiamate tra l'addetto di Rfi al cantiere, Antonio Massa, uno dei due indagati per il disastro, e la dirigente movimento della stazione di Chivasso.
Stando alle registrazioni, la sala operativa avrebbe fornito all'addetto Rfi a Brandizzo delle fasce orarie nel corso delle quali effettuare i lavori, in relazione ai previsti passaggi dei treni. In quella telefonata, a quanto risulta, non viene concesso alcun via libera al cantiere. Quando a mezzanotte, l'addetto Rfi richiama Chivasso per ottenere il nullaosta, il primo treno di linea è già transitato sul binario 1 ed è possibile che sia stato erroneamente scambiato per il secondo che, invece, sta arrivando proprio in quel momento.
Su Open.online.it
Estratto da open.online martedì 5 settembre 2023.
In un nuovo video aggiunto nell’inchiesta della procura di Ivrea sulla strage di Brandizzo si sente la voce del tecnico manutentore di Rfi, Antonio Massa, che parla ai sei operai in un momento che precede di pochi minuti quello del tragico impatto in cui sono morti i cinque operai di Borgo Vercelli. Come riporta il Corriere della Sera, nel filmato non si vede il volto di Massa, ma si sente la sua voce dire:
«Ragazzi, cominciamo. Devono passare dei treni. Facciamo che quando arriva il treno io faccio un fischio e voi vi mettete di lato». Quella sera di mercoledì 30 agosto, poco prima di mezzanotte, della squadra di sei operai se ne salverà soltanto uno, il caposquadra Andrea Gibin, scampato per un attimo al treno regionale passato dalla stazione di Brandizzo a 100 chilometri all’ora mentre i suoi colleghi lavoravano sulle rotaie.
Il video sarebbe stato trovato nel profilo Instagram del 22enne Kevin Laganà, la vittima più giovane. A scovarlo è stato un parente che aveva le password di accesso al profilo del social, mentre il telefonino del ragazzo sarebbe andato completamente distrutto nell’impatto col treno. Il filmato non era stato pubblicato, ma rimasto salvato nelle bozze.
Si tratta di un video di circa sei minuti in cui si vede la squadra al lavoro, Laganà riprende anche se stesso assieme ai colleghi nella stazione di Brandizzo. A confermare che a parlare fosse Massa è stato il fratello di Kevin Laganà, anche lui dipendente della Sigef, che conosce la voce del tecnico Rfi. A quella frase: «Quando arriva il treno vi avviso io» segue la risposta ironica di Kevin Laganà: «Ho capito, sì scappiamo… Mi butto contro la cancellata!». [...]
Il nuovo filmato complica la posizione anche del caposquadra Gibin, finora accusato solo di non aver compilato il modulo di apertura dei lavori dopo l’ok di Massa. Reato comunque non direttamente collegato alla mancanza del via libera per l’interruzione della linea. Dettaglio che l’Ufficio di movimento di Chivasso ha comunicato direttamente all’uomo di scorta di Rfi, cioè Massa.
E se quindi lo stesso Massa dice a voce che avrebbe fatto un fischio nel caso stesse arrivando il treno, il caposquadra Gibin avrebbe potuto rifiutarsi di mandare al lavoro i suoi uomini, nella consapevolezza del pericolo che stavano correndo. Circostanza che rischia di rendere ancora più concreta la sua responsabilità e quella del dolo eventuale.
Su Il Fatto Quotidiano.
Estratto dell'articolo di Davide Milosa per “il Fatto Quotidiano” mercoledì 6 settembre 2023.
Il video girato la sera del 30 agosto sui binari della stazione di Brandizzo prima dell’arrivo del treno numero 14950, secondo la Procura, conferma solo una cosa e non è poco per il prosieguo delle indagini: l’ingresso sui binari degli operai Sigifer prima che fosse dato l’ok all’interruzione della circolazione non è un fatto isolato, ma certamente un’abitudine più volta ripetuta.
Nelle immagini girate da Kevin Laganà, la più giovane delle cinque vittime, e che si trova sui binari, si ascolta una voce dire: “Ragazzi se vi dico treno andate da quella parte eh?”. Il video era archiviato sul profilo social di Laganà. E ancora: “Noi possiamo vedere il segnale, voi prendete le misure, io guardo il segnale e appena dico via…”, si ascolta un fischio e poi la voce conclude: “Uscite da quella parte perché i treni passano qua, dovrebbero passare gli ultimi”.
Le voci non sono concitate. Laganà, che aveva appena 22 anni, chiede: “Non abbiamo l’interruzione?”. Dopodiché, sorridendo, riprende i colleghi già al lavoro sui binari. Voci, dunque, che la Procura non attribuisce al momento né ad Antonio Massa, la scorta-Rfi, né al caposquadra Sigifer Andrea Girardin Gibin, indagati per omicidio plurimo e disastro aggravato dal dolo eventuale.
[…]
Il dato […]apre un concreto scenario rispetto a un livello superiore di responsabilità. “Stiamo valutando la catena di comando”, chiarisce una fonte vicina all’indagine. Saranno decisivi, in questo senso, i contenuti delle email interne sequestrate nei pc della Sigifer, società che conta 73 operai comuni, 18 operai qualificati, 35 operai specializzati e 4 operai di 4° livello. Con retribuzione medie (in teoria) di 2 mila euro al mese con maggiorazione del 45% per il lavoro notturno e del 15% per l’armamento ferroviario.
Uno dei temi ieri sul tavolo della procura era la qualità della formazione delle ditte subappaltatrici. Una qualità che l’ad di Rfi, Giampiero Strisciuglio, ieri in audizione alla Camera ha spiegato essere “garantita” e “certificata”.
L’indagine sale di livello. Detto che l’evento-incidente, “è già completamente cristallizzato”. Grazie anche agli audio delle telefonate del 30 agosto tra Massa e il dirigente di movimento di Chivasso. Il funzionario di Rfi è stato sentito in procura. Dal verbale non è emerso che le tre telefonate con la scorta-Rfi fossero concitate, ma di tenore formale da parte della dirigente Rfi che bloccava l’inizio dei lavori in assenza, ancora, dell’ok all’interruzione.
Questo per fugare dubbi sul fatto che la dirigente di movimento potesse avere anche la minima consapevolezza di operai sulla linea in assenza di interruzione. Se così fosse stato, ma non è, avrebbe rallentato il treno da remoto. La funzionaria non risulta indagata.
Tutto è legato alla scelta di far salire gli operai in linea pur consapevoli dell’arrivo dei treni. La Procura di Ivrea però non si ferma. E punta ai dati ricavati dal video della stazione, confermato poi dal filmato di Laganà, al termine del quale dirà: “Ciao ragazzi ci vediamo alla prossima, metterò un tik tok fra un paio di giorni”. Pochi minuti dopo passerà il convoglio logistico con semaforo verde. […]
Estratto dell’articolo di Simone Bauducco per “il Fatto Quotidiano” domenica 10 settembre 2023.
Due euro e 60 centesimi all’ora in più rispetto alla paga base per lavorare di notte sui binari. È questa la “maggiorazione notturna” che percepivano i cinque operai della Sigifer di Borgo Vercelli morti a Brandizzo. Lo si legge nelle buste paga dei loro colleghi. Stesso contratto nazionale e stesse mansioni delle cinque vittime: Kevin Laganà, 22 anni, Michael Zanera, 34 anni, Giuseppe Sorvillo, 43 anni, Saverio Giuseppe Lombardo, 52 anni, Giuseppe Aversa, 49 anni. Stavano scavando con le pale il pietrisco sui binari quando un treno li ha travolti alle 23:49 del 30 agosto.
Il video girato da Kevin Laganà, il più giovane della squadra, ha immortalato i rischi che erano costretti a correre durante il lavoro notturno.
[…] Poco più di 2 euro lordi all’ora per lavorare nella fascia tra le dieci di sera e le sei del mattino. Una cifra prevista dal contratto nazionale degli edili, ma che secondo il segretario generale della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, rappresenta “un’elemosina, non un’indennità”. Ma non c’è solo la questione salariale.
L’altro tema che emerge dalle buste paga è quello del sotto inquadramento. “A quanto ci risulta – racconta il segretario generale Fillea Cgil Alessandro Genovesi – delle cinque vittime, uno era un manovale (primo livello), due erano operai comuni (secondo livello), e soltanto due erano operai specializzati (terzo livello), mentre sarebbero dovuti essere tutti e cinque almeno tra il terzo e quarto livello”.
Il sotto inquadramento, secondo Genovesi, comporta “una maggiore ricattabilità perché per arrivare ai 1.700-1.800 euro servono tante voci come le indennità di trasferta o il lavoro notturno, così i lavoratori sono più ricattabili”.
E poi c’è il tema della formazione. “Per spalare nella massicciata comunque non serve un titolo speciale, lo può fare chiunque. E quello, comunque, era un lavoro semplice” aveva detto negli scorsi giorni a Repubblica il titolare della Sigifer, Franco Sirianni.
“Ma occorre considerare la complessità dell’ambiente di lavoro – risponde Genovesi – un conto è fare l’operaio comune nel corso di una ristrutturazione di un bagno in un’abitazione privata, un conto è farlo su un cantiere ferroviario, di notte, dove ci sono molti più rischi”.
Sui binari della stazione di Brandizzo oggi c’è ancora la calce che ha coperto il sangue delle cinque vittime. Ogni volta che passa un treno, si alza nell’aria. “La ferrovia ha un significato particolare per la nostra città perché la divide in due, è come se fosse il centro del paese”, racconta Paolo Bodoni, sindaco di questo comune di 8mila abitanti alle porte di Torino. […]
Su Avvenire.
Cosa è successo su quei binari? Tutte le domande e le ipotesi in campo. Storia di Paolo Pittaluga su Avvenire giovedì 31 agosto 2023.
L’imperativo ora è ricostruire l’esatta dinamica e le cause dell’incidente di Brandizzo, nel quale hanno perso la vita cinque operai di una ditta esterna appaltatrice dei lavori. Siamo a parlare di una nuova tragedia su una rete ferroviaria tra le più sicure (se non la più sicura secondo molti addetti ai lavori) al mondo. Si pensi che mentre da noi, per fare un esempio, non esistono attraversamenti ferroviari senza barriere (i passaggi a livello), altrove, come in Francia e Germania, sono tuttora presenti.
Sotto indagine è il rispetto della procedura di sicurezza. Infatti, questo genere di interventi di manutenzione, che nello specifico riguardavano l’armamento, ossia i binari, le traversine e la massicciata (la parte in ghiaia a corredo del binario), Rete ferroviaria italiana (Rfi) li affida anche a imprese esterne certificate – quelle italiane sono molto apprezzate nel mondo, infatti si aggiudicano spesso appalti all’estero –, e si eseguono come previsto in assenza di circolazione dei treni. Il cantiere può essere attivato, quindi, soltanto dopo che il responsabile della squadra operativa del cantiere stesso, in questo caso dell'impresa, ha ricevuto il nulla osta formale a operare da parte di Rfi.
Per quanto riguarda la velocità del treno investitore, le condizioni della linea consentivano, in quel tratto, di raggiungere una massima di 160 km/h. Il problema di fondo è un altro: i lavori - secondo procedura - sarebbero dovuti iniziare soltanto dopo il passaggio di quel treno (ciò che viene ribadito in queste ore anche sul quotidiano online Fs news). Allora, perché sono stati avviati prima? Perché il capo squadra (un responsabile detta i tempi tecnici agli uomini che lavorano) lo ha consentito? Distrazione, tragica fatalità dipendente da chissà quali fattori, superficialità. Resta il fatto che addetti lavoravano lungo binari sui quali di lì a pochi momenti sarebbe transitato un convoglio. Un treno vuoto che effettuava uno spostamento, un treno forse non indicato nelle tracce orarie programmate proprio in quanto non espletante servizio? Forse per questa ragione è stato “dimenticato”?
I lavori di manutenzione notturni lungo le massicciate non dovrebbero essere un problema in termini di sicurezza. Come, si diceva, la sicurezza della rete italiana che è sotto la lente di ingrandimento di Ansfisa, l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali che ha competenza per l’intero sistema ferroviario nazionale, ossia l’infrastruttura ferroviaria principale del Paese, le cosiddette ferrovie isolate (isolate dal punto di vista funzionale dal resto del sistema ferroviario, sono linee concesse dallo Stato e quelle per le quali sono attribuite alle Regioni le funzioni e i compiti di programmazione e di amministrazione; sono adibite a servizi ferroviari locali espletati con distanziamento regolato da segnali) e le ferrovie turistiche (linee che possono comprendere intere linee o tratti di ferroviarie dismesse o sospese dall’esercizio commerciale caratterizzate da particolare pregio culturale, paesaggistico e turistico, non aperte al servizio pubblico e sulle quali possono circolare treni composti da rotabili storici o turistici). L’Agenzia, nel 2022, nel settore ferroviario ha condotto 142 attività ispettive. I controlli sulle imprese ferroviarie sono stati 124, di cui 94 attività di monitoraggio sul campo, 4 svolte da remoto e 26 ispezioni specifiche. In particolare, le attività di monitoraggio sul campo hanno prodotto la verifica di 830 treni e di 38 imprese ferroviarie circolanti su rete.
Su Il Corriere della Sera.
Brandizzo, per l’incidente ferroviario sgomento e lacrime nell’azienda storica: «Siamo come una famiglia. Ora vogliamo risposte». Storia di Floriana Rullo, inviata a Borgo Vercelli su Il Corriere della Sera giovedì 31 agosto 2023.
«Quella che ci ha colpito è una grande tragedia. Siamo distrutti. Ci sentiamo vicini alle famiglie dei nostri lavoratori. Anche noi in azienda siamo rimasti senza parole. Non abbiamo mai vissuto nulla del genere. . Alcuni sono con noi da 25 anni, altri da 5 o 6, gli ultimi da sei mesi. Ora voglio capire che cosa sia accaduto. C’è un’inchiesta in corso. Quello che so è che i ragazzi, i miei ragazzi, erano parte di una famiglia che ora cerca delle risposte».
Franco Sirianni, il direttore generale della Si.gi.fer di Borgo Vercelli, gia da ieri mattina presto si era chiuso nel silenzio. Da dentro il suo ufficio nella palazzina prefabbricata color giallo canarino, dove in grande spicca il nome della sua azienda, non ha voluto rispondere a nessuno. Era arrivato presto e, una volta entrato nel cortile, aveva fatto chiudere il cancello verde che porta all’ingresso principale, alle sue spalle. Da quel momento nessuno è più entrato o uscito dagli uffici, nemmeno in cortile per una breve pausa. Gli ultimi a lasciare lo stabile erano stati alcuni operai. Erano arrivati alle prime ore dell’alba, con la notizia dell’incidente che non si era ancora diffusa, ed erano riusciti a partire da via Vercelli per raggiungere il cantiere dove dovevano lavorare. Erano rientrati poco dopo, con il volto ancora rigato dalle lacrime. Poi, per tutta la mattina, la palazzina è stata avvolta da un silenzio quasi surreale. Con i camion rimasti parcheggiati, uno a fianco all’altro e gli operai raccolti nelle stanze della ditta.
Nessuno ha risposto alle telefonate, nemmeno a quelle dei parenti che, disperati, cercavano conferme dai dirigenti per cui i loro cari stavano lavorando. Alle 11 a rompere il silenzio sono arrivati e gli uomini della Guardia di Finanza di Vercelli che, con ogni probabilità, volevano maggiori dettagli su quella certificazione relativa alla sicurezza sul lavoro mostrata risultata scaduta a luglio. Notizia che per ora il dirigente ha preferito non commentare. Del resto quella di Sirianni è una ditta storica per Borgo Vercelli, una di quelle che è cresciuta con il tempo e, nel tempo, è stata capace di offrire lavoro a 250 persone, per lo più giovani operai della zona in cerca di lavoro ma anche adulti in cerca di una seconda chance per la propria vita.
Perché nell’azienda che si occupa di costruzione per le ferrovie non si fa distinzione di età. «Il lavoro viene prima di tutto» dice ancora il dirigente. Con questa idea è stata fondata nel 1993 da Franco e il fratello Giuseppe e, passo dopo passo, è arrivata ad ingrandirsi in tutto il mondo e, ad avere tra gli appalti, proprio quelli di Rfi. «È un fiore all’occhiello per Borgo Vercelli — spiega il Mario Demagistri, sindaco della città di poco piu di duemila anime che ieri, insieme con il Comune di Vercelli, ha dichiarato lutto cittadino per le sue vittime —, una ditta storica del paese con alle spalle più di vent’anni di attività, ed è una delle cinque ditte accreditate da Rfi per lavorare sulle linee ferroviarie». Per l’azienda, che opera in Italia, ha aperto alcune filiali all’estero, tra cui in Venezuela e in Albania, ora però è solo tempo del silenzio. In attesa di avere delle risposte che aiutino a capire.
Brandizzo, il sopravvissuto: «Mi sono lanciato sulle rotaie vicine. Ero a un passo dalla morte». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera l'1 settembre 2023.
Lo choc dei colleghi che si sono salvati. Due ragazzi in un parco vicino: «Solo un grande boato. Quando sono arrivati i soccorsi abbiamo capito la gravità dell'accaduto»
«Ho visto la morte in faccia. Il treno non l’ho neanche sentito arrivare. Ho alzato lo sguardo e sono stato abbagliato dalle luci del convoglio». È racchiusa in una frazione di secondo la storia di Andrea Girardin Gibin, il 50enne di Borgo Vercelli caposquadra della Sigifer. «Mi sono lanciato in avanti, sul secondo binario. Lo spostamento d’aria provocato dal treno mi ha buttato a terra». A pochi passi, sul marciapiede della stazione, c’era Antonio Massa, 45 anni, tecnico manutentore di Rfi. Stava compilando una relazione di servizio: «Non mi sono accorto di nulla, il treno non l’ho visto arrivare».
Eccoli i primi frammenti di ricordi di Andrea e Antonio, i due sopravvissuti alla strage di Brandizzo. Sdraiati a letto in una camera dell’ospedale di Chivasso, fanno i conti con la paura e la disperazione mentre attendono gli uomini della Polfer che devono raccogliere le loro deposizioni. Difficile mettere a fuoco quanto accaduto: il rumore ferroso degli attrezzi da lavoro che battono sui binari, lo scambio di parole tra gli operai. Poi l’improvviso sferragliare di un treno che spezza le vite di cinque uomini. Il silenzio adesso regna nella loro camera. «Quei ragazzi, quei ragazzi», ripete il tecnico di Rfi ripensando a quell’orrore. Non ha la forza neanche di raccontarlo alla moglie Cinzia. La chiama poco dopo le sei del mattino, quando avrebbe dovuto rientrare a casa. «Sto bene», le dice piangendo. Vuole solo rassicurarla prima che le immagini del disastro passino alla tv, prima che lei possa pensare di essere rimasta sola. Antonio e Andrea quelle immagini le hanno vissute, ma non riescono a smettere di guardarle. Scorrono il cellulare, passano da un sito all’altro e leggono quanto viene scritto e riscritto.
A pochi metri da loro, in un’altra stanza lungo lo stesso corridoio, ci sono i macchinisti che erano alla guida del convoglio: Marcello Pugliese, 52 anni, e Francesco Gioffrè, di 29. Sconvolti per l’accaduto, non vogliono incontrare nessuno e rifiutano anche la visita dei sindaci di Brandizzo e Chivasso, Paolo Bodoni e Claudio Castello, che volevano far sentire la vicinanza delle città. Otto chilometri più a Sud rispetto all’ospedale di Chivasso, a Brandizzo, è tutto un via vai di persone vicino alla stazione. Qualcuno è lì dalla notte. Come un anziano signore che abita nelle vicinanze e ricorda di aver visto i macchinisti scendere dalla motrice urlando e imprecando. Nella testa di due adolescenti di 16 e 17 anni risuona ancora il «forte boato» che li ha fatti sobbalzare mentre erano ai giardinetti: «Abbiamo sentito un grande botto, ma non gli abbiamo dato peso, abbiamo continuato a chiacchierare».
Solo più tardi si sono resi conto della tragedia: «Quando abbiamo visto arrivare ambulanze vigili del fuoco, ci siamo preoccupati e avvicinati alla stazione. A quel punto abbiamo iniziato a capire cosa fosse successo». E poi c’è Samuele, studente di 18 anni ed aspirante pilota: «Ero a casa con alcuni amici. Un ragazzo ci ha chiamato e ci ha detto che era successo qualcosa alla stazione, siamo corsi qua. Abbiamo visto i corpi, quel che rimaneva. Sembrava di essere all’inferno. Sembrava di essere all’inferno». Ed è di fronte a quell’inferno che un’anziana adagia un mazzo di fiori: margherite gialle. Accanto c’è un biglietto: «Rispetto per le vittime del lavoro onesto».
Torino, la strage del treno: cosa è successo a Brandizzo, dove sono morti 5 operai. L’orrore e le colpe. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l'1 settembre 2023.
In Italia i morti di lavoro sono in media 3 al giorno, e i feriti uno al minuto. Ora l’indagine per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo
Paralizzati. Una manciata di minuti immobili su quel treno, come se qualcuno li avesse inchiodati lì, nella notte più buia della loro vita. I due macchinisti non riuscivano a scendere dal locomotore. Troppo grande lo choc. Quando finalmente hanno messo piede sui binari, sulla massicciata, qualcuno li ha sentiti urlare, imprecare al cielo perché nessuno li aveva avvisati della presenza degli operai. Erano in sette, gli operai. Ne sono sopravvissuti soltanto due. Un’altra strage, un altro giorno da cancellare dal calendario del lavoro, o per dirla con le parole del presidente Mattarella, un altro «oltraggio ai valori della convivenza». E le vittime, come sempre, sono molte di più di quanto raccontino i numeri. Le vite spezzate non sono soltanto le cinque perdute lungo la linea ferroviaria Torino-Milano. Sono spezzati anche i sogni, i progetti, i giorni delle vite delle loro madri, mogli, figli, padri...
I lavoratori
Kevin Laganà aveva 22 anni, il più giovane. Accanto a lui, al lavoro per la manutenzione dei binari, c’erano Michael Zanera, 34 anni, Giuseppe Sorvillo, 43, Giuseppe Aversa, 49 e Giuseppe Saverio Lombardo, 53. Le loro esistenze hanno incrociato quelle di Marcello Pugliese, 52 anni, e Francesco Gioffrè, classe 1994: i macchinisti. Il treno — 11 carrozze in trasferimento logistico — è arrivato a cento all’ora nella piccola stazione di Brandizzo, vicino Chivasso. Era sulla linea Milano-Torino e andava in direzione di Torino, ore 23.47 di mercoledì. Gioffrè e Pugliese si sono accorti di quel gruppo di operai al lavoro quando ormai era troppo tardi e frenare, a quel punto, non è servito a nulla. Il treno si è fermato decine di metri più avanti rispetto al punto dell’impatto ed è inutile, qui, descrivere i dettagli di quel che è rimasto dei corpi dei lavoratori. Quando il rumore della ferraglia in frenata ha taciuto, l’aria si è riempita delle parole disperate dei sopravvissuti, dei commenti di orrore di chi ha visto o sentito qualcosa, delle urla di chi si è ritrovato davanti a quello spettacolo indecente. C’erano due uomini, sulla banchina, con la faccia bianca come un cencio, con le parole che non trovavano la via per uscire. Erano i due sopravvissuti. Uno di loro parlava al telefono con qualcuno, non si capacitava di quel che era appena successo, diceva qualcosa su quel treno che non doveva passare da lì in quel momento. Perché invece è passato? Com’è potuto succedere?
La dinamica
Antonio Massa è uno dei due superstiti: 46 anni, tecnico della Rete ferroviaria italiana. L’altra sera era l’uomo di scorta (si dice così) che il committente dei lavori (cioè Rfi) è obbligato ad affiancare alle squadre al lavoro. Era arrivato lì con i sei lavoratori e dicono che al momento dello schianto stesse compilando dei moduli, pochi passi più in là. Sono stati quei benedetti fogli a salvargli la vita. Anche Andrea Girardin Gibin, operaio di anni 52, si è salvato perché si è trovato nel punto giusto al momento giusto. Che poi: punto giusto significa un soffio più avanti o più indietro dei compagni. A lui è bastato alzare gli occhi un secondo prima dell’impatto: ha visto le luci di quel mostro avvicinarsi e si è buttato di lato. Un balzo. La morte che gioca a dama con la vita. Ieri il racconto dei macchinisti e dei sopravvissuti ha riempito i primi verbali della polizia ferroviaria che sta ricostruendo i fatti per conto della procura di Ivrea (l’indagine è per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo). È ovviamente troppo presto per dire che cosa è andato storto ma gli inquirenti sembrano propensi a credere in un errore umano. Più precisamente in un errore di comunicazione. Toccherebbe all’uomo di scorta — pare — dare l’ok agli operai perché si mettano al lavoro dopo aver avuto il via libera dai suoi, al Dipartimento. Cioè dopo aver saputo che il passaggio dei treni è sospeso. Difficile pensare che gli abbiano negato il via libera e che però lui abbia mandato lo stesso gli operai verso il cantiere, anche perché lui rischia quanto loro. E quindi com’è andata? Chi ha sbagliato? Rfi fa sapere che i lavori sui binari «sarebbero dovuti iniziare soltanto dopo il passaggio di quel treno». Sempre secondo le primissime ricostruzioni sembrerebbe esclusa la responsabilità dei macchinisti che, dicono fonti investigative, non hanno trovato alcun semaforo rosso a sbarrargli la strada e andavano a velocità regolare, cioè a 100 chilometri orari in un tratto dove è consentito arrivare fino a 160.
«Mai più»
Succede ogni volta e ieri non è stata un’eccezione. Dopo una strage sul lavoro l’indignazione impone molti «basta»,«mai più», inaccettabile» e via dicendo. Tutto detto con sincerità, quasi sempre. Ma quasi sempre poi tradotto in poco o niente. I morti di lavoro nel nostro Paese sono da anni e anni una media di 3 al giorno, e i feriti, dei quali non si parla mai, sono uno al minuto. Uno ogni minuto che il cielo manda in terra. E parliamo degli anni «buoni». Impossibile, ieri, non ricordare il giorno nerissimo dello stabilimento Thyssenkrupp di Torino. Era la notte fra il 5 e il 6 dicembre del 2007, le vite di sette operai furono bruciate dall’olio incandescente. L’ultimo a morire, dopo 24 giorni di agonia, fu Giuseppe Demasi, 26 anni. È come se quella ferita collettiva così lontana si sia riaperta di nuovo davanti alla piccola stazione di Brandizzo e allo strazio di quei corpi portati alla camera mortuaria in sacchi piccoli, un pezzo alla volta. «Erano dei bravi ragazzi» è la sola cosa che è riuscita a dire Franco Sirianni, direttore generale della Sigifer, azienda di Borgo Vercelli che aveva in appalto il cantiere sulla ferrovia. Per loro, perché il Paese intero possa dedicargli anche solo un pensiero, Assoutenti chiede che oggi alle 12 nelle stazioni o sui treni di tutt’Italia si faccia un minuto di silenzio. Un minuto per chiudere gli occhi e concentrarsi su una parola: sicurezza.
Le cinque vittime dell'incidente ferroviario di Brandizzo: avevano da 22 a 52 anni. Massimiliano Nerozzi e Floriana Rullo su Il Corriere della Sera giovedì 31 agosto 2023.
Stavano lavorando in un'area dove erano in corso interventi di manutenzione e la sostituzione dei binari: sono Kevin Laganà, Michael Zanera, Giuseppe Sorbillo, Giuseppe Saverio Lombardo, Giuseppe Aversa
Le cinque vittime dell’incidente ferroviario di Brandizzo sono Kevin Laganà, 22 anni, di Vercelli; Michael Zanera, 34 anni, di Vercelli; Giuseppe Sorbillo, 43, nato a Capua e residente a Brandizzo; Giuseppe Saverio Lombardo, 52 anni, nato a Marsala e residente a Vercelli; Giuseppe Aversa, 49, di Chivasso.
I lavoratori, tutti dipendenti della Sigifer Srl, che ha sede a Borgo Vercelli, e opera nel settore dell'armamento ferroviario dal 1993, una delle imprese leader nel settore di costruzione e manutenzione impianti ferroviari, stavano lavorando alla sostituzione di alcuni metri di binario in un'area dove erano in corso interventi di manutenzione: gli uomini si trovavano sui binari a Brandizzo lungo la linea ferroviaria Torino-Milano, nei pressi di Chivasso, nel torinese.
Secondo quanto si apprende, altri due operai che stavano lavorando poco distante sono riusciti a evitare il locomotore e a mettersi in salvo: illesi ma sono sotto shock, fortemente spaventati.
Kevin Laganà, 22 anni
Aveva solo 22 anni Kevin Laganà. Originario di Messina viveva a Vercelli. Aveva festeggiato il compleanno a luglio. Dopo le scuole aveva iniziato, nel 2019, a lavorare per la ditta Sigifer di Borgo Vercelli che si occupa di armamento ferroviario in tutta Italia. Era il più giovane tra gli operai che la scorsa notte si trovavano a lavoro sui binari di Brandizzo. Molto legato alla famiglia, soprattutto al fratello Antonino e al padre Massimo, a quest'ultimo scriveva: «Tu sei la cosa più importante che abbia nella vita. Il miglior padre che si possa avere».
Michael Zanera, 34 anni
Michael Zanera, 34 anni, viveva a Vercelli dove aveva festeggiato, il 7 agosto scorso, il suo compleanno dicendo «di non sentirli e di voler migliorare la sua vita». Single, appassionato di palestra, teneva alla sua forma fisica e al suo lavoro.
Dal 2019 lavorava in Sigifer come saldatore. Un mestiere che raccontava con scatti e video sui suoi social. Così come descriveva i suoi allenamenti e si sfogava di star attraversando un «periodo difficile» della vita dal quale sperava di uscire presto.
«Era un ragazzo sveglio, intelligente, gli piaceva troppo quel lavoro. Ci siamo sentiti recentemente, mi ha detto che doveva fare la notte. A volte faceva anche il doppio turno, così mi diceva, glielo fanno fare perché doveva recuperare. Quando mia sorella lavorava l'ho cresciuto io, è stato il primo nipote per cui gli volevo un sacco di bene», ha detto Marco Faraci, che di Michele Zanera è lo zio. «Siamo sempre usciti insieme - aggiunge -, era molto attaccato al lavoro. Un ragazzo in gamba, volenteroso, anche se sapeva che certe cose non andavano bene faceva finta di nulla, si sforzava e andava avanti sul lavoro».
Giuseppe Servillo, 43 anni
Giuseppe Servillo, 43 anni, abitava a Brandizzo ma era originario di Capua. Sposato con Daniela aveva due figli piccoli, Zoe e Nathan che lui descriveva come «la sua vita». Appassionato di sport e di viaggi passava il tempo libero con la sua famiglia.
Giuseppe Saverio Lombardo
Era originario della provincia di Trapani, ma residente a Vercelli il 53enne Giuseppe Saverio Lombardo. L’uomo si era trasferito nel 2001 in Piemonte e lavorava da anni come operaio per la Sigifer srl, azienda operante nel settore dell’armamento ferroviario dal 1993 e con sede a Borgo Vercelli. Giuseppe Saverio Lombardo era sposato e lascia un figlio.
Giuseppe Aversa, 49 anni
Aveva fatto il camionista a lungo Giuseppe Aversa, 49 anni, nato a Chivasso ma residente a Borgo d'Ale. Un uomo che aveva sempre pensato alla sua famiglia: alla mamma Lidia, 70 anni e alla compagna Nicolinka. A Borgo d'Ale, dove viveva anche al sorella ci era tornato a vivere nel 2010. Proprio nel paese in cui il papà aveva comprato la casa trent'anni prima.
Estratto dell’articolo di Carlotta Rocci per repubblica.it giovedì 31 agosto 2023.
Cosa non ha funzionato correttamente nella notte tra mercoledì e giovedì a Brandizzo? Quando un treno regionale in fase di trasferimento da Milano a Torino è passato nella stazione ha travolto cinque operai che erano al lavoro per delle operazioni di sostituzione dei binari.
Secondo le prime informazioni raccolte da Repubblica, i lavori proseguivano da giorni, sempre nella fase notturna, dalla mezzanotte alle 6. In questi casi la linea ferroviaria (che non è la linea dell’alta velocità Torino-Milano) non viene sospesa. I casi a cui l’indagine della procura di Ivrea dovrà dare una risposta sono almeno due: gli operai al lavoro non dovevano essere su quel binario? Oppure il treno regionale non doveva passare proprio su quel binario, lasciando così gli operai al lavoro?
La certificazione relativa alla sicurezza sul lavoro mostrata sul sito di Sigifer, l'azienda appaltatrice di Rfi, è scaduta il 27 luglio scorso. Il sito Sigifer contiene i documenti relativi alle certificazioni di "qualità, rispetto ambientale, sicurezza sul lavoro" e, si legge, "aggiorna costantemente i propri certificati, simbolo di qualità, eccellenza e sicurezza".
Una prima certificazione 'UNI ISO 45001:2018' è la numero 29442 rilasciata da una società appartenente alla Cisq, e ha una ultima emissione il 28 luglio del 2020 e una scadenza il 27 luglio 2023. Un secondo certificato, il numero IT-119334, ha eguali date di ultima emissione e di scadenza.
Forse si è trattato di un errore di comunicazione tra la squadra sul posto e chi doveva coordinare i lavori sui binari”, ha detto Paolo Bodoni, sindaco di Brandizzo, riferendo le prime versioni raccolte subito dopo l’incidente ferroviario. “È probabile ci sia stato un errore umano”, ha aggiunto il primo cittadino.
L’indagine dovrà accertare le responsabilità e il processo decisionale che ha portato ad autorizzare i lavori, svolti dalla ditta Sigifer per Rete Ferroviaria Italiana, oltre alla gestione degli scambi ferroviari che ordinano il traffico in entrata e uscita dalle stazioni. […]
"La norma è chiara: non puoi lavorare su un binario se non hai la certificazione che non passa più un treno lungo quella tratta. E un treno è passato, voglio sapere per quale motivo. Anche se ovviamente quelle cinque vite non tornano indietro". Così il vicepremier e ministro dei Trasporti e delle infrastrutture, Matteo Salvini, parlando a margine di una conferenza stampa al Lido di Venezia. […]
Estratto dell’articolo di Massimiliano Nerozzi per corriere.it venerdì 1 settembre 2023.
Il rumore dello scontro, le tragiche urla dei lavoratori, sono registrate nell’ultima telefonata tra il funzionario delegato di Rfi (indagato) e il collega che stava al centro di controllo della circolazione treni di Chivasso, e che avrebbe dovuto dare (e mai diede), il nulla osta per l’inizio dei lavori sui binari.
La chiamata è agli atti dell’inchiesta della Procura di Ivrea che indaga sull’incidente di Brandizzo, avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 agosto, nel quale sono morti 5 operai: Kevin Laganà, 22 anni, Michael Zanera, 34, Giuseppe Sorvillo, 43, Giuseppe Saverio Lombardo, 52 e Giuseppe Aversa, 49.
Secondo i primi accertamenti degli investigatori, Antonio Massa, il funzionario Rfi sul posto, il cosiddetto «scorta ditta», avrebbe fatto iniziare i lavori senza mai aver ricevuto l’autorizzazione. Questa è almeno l’ipotesi dei pm che indagano per dolo eventuale in disastro ferroviario e omicidio plurimo.
Due gli indagati, fin qui: oltre al funzionario di Rfi sul posto, c'è anche il responsabile di squadra degli operai, Andrea Gibin Girardin, 52 anni, capo cantiere della ditta incaricata dei lavori sui binari.
Nel pomeriggio di venerdì 1 settembre i pm di Ivrea hanno sentito come persona informata sui fatti Francesco Gioffré, 29 anni, uno dei due macchinisti del treno che ha travolto gli operai, e anche l'altro macchinista, Marcello Pugliese, 52 anni, dovrebbe essere ascoltato come testimone.
(...)
Estratto dell'articolo di Massimiliano Nerozzi per il "Corriere della Sera" venerdì 1 settembre 2023.
È stata una tragedia, non una fatalità, l’incidente avvenuto un centinaio di metri prima della stazione di Brandizzo, costato la vita a cinque operai. Sull’inchiesta della Procura di Ivrea — al momento contro ignoti — s’allunga infatti il (robusto) sospetto di un errore umano, di comunicazione, come fa capire già di buon mattino la considerazione di un investigatore: «Evidentemente, in quel momento, non c’era un’interruzione della linea che avrebbe dovuto esserci; o, al contrario, la squadra non avrebbe dovuto mettersi al lavoro». Come fossimo di fronte a un drammatico, incredibile e letale malinteso.
La risposta potrà arrivare soprattutto dall’esame della documentazione già sequestrata — tra Rfi e la ditta dell’appalto — oltre al contenuto delle prime testimonianze, tra cui quelle dei due macchinisti: ai quali, con il presente quadro indiziario, non paiono potersi muovere contestazioni. Nell’attesa, l’ufficio diretto dal procuratore capo Gabriella Viglione, rientrata dalle ferie, ipotizza il disastro ferroviario e l’omicidio plurimo colposi. [...]
L’impressione è che uno dei punti chiave dell’indagine sia la comunicazione tra la sala circolazione di Rfi e il funzionario della stessa che fa da «scorta ditta», ovvero affianca — obbligatoriamente — le squadre di operai esterni durante i lavori sui binari. Ed è lui, una volta ricevuta la decisione dal dirigente di movimento, a consegnare un modulo scritto — una sorta di «nulla osta» — al responsabile di cantiere e dell’impresa. Detto brutalmente: potete iniziare, perché la circolazione è stata interrotta; o non potete farlo, perché i treni stanno viaggiando.
Il caso specifico rende però questo contesto crudele e kafkiano, visto che lo stesso «scorta ditta» di Rfi è presente sui binari: rischiando in prima persona, in caso di comunicazione clamorosamente errata.
Va da sé, a un giorno dal disastro, gli stessi investigatori non possono che ragionare per ipotesi: e dai primi accertamenti effettuati dalla Polfer, sembra che il transito della motrice e degli 11 vagoni passeggeri vuoti — si trattava di un trasporto logistico — fosse previsto e autorizzato. Per dirla in altro modo: non risulta che il dirigente di movimento avesse comunicato l’interruzione della linea, sulla tratta interessata dai lavori. Che erano poi di manutenzione ordinaria: ovvero, la sostituzione di sette-otto metri di rotaie.
E anche questo particolare potrebbe fornire elementi all’inchiesta, su modalità e tempi dell’intervento: se il cantiere fosse stato avviato da tanto, il treno sarebbe deragliato. E correndo ai cento chilometri all’ora — in un tratto dove pure avrebbe potuto viaggiare fino ai 160 — il convoglio avrebbe anche potuto finire sulle vicine case, modello Viareggio (ma senza bombole infiammabili). [...]
Il tecnico indagato per l’incidente di Brandizzo: «Ho schiantato la vita di cinque persone». Storia di Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2023
Una telefonata, l’ultima. Da una parte il dirigente di Chivasso delle Ferrovie (Rfi) che avrebbe dovuto dare l’ok ai lavori sui binari, dall’altra il suo collega sul posto, a Brandizzo, appena fuori Torino. La chiacchierata viene interrotta da un improvviso fragore. Ferraglia, trambusto, urla. Sono le grida disperate degli operai finite agli atti della . Si sentono solo loro, in quest’audio parla l’immensa tragedia. Mentre lui, Antonio Massa, il tecnico addetto alla manutenzione di Rfi che era al telefono, non riesce più ad aprire bocca. Con un filo di voce, ai colleghi ed amici dirà solo poche parole: «Ho schiantato la vita di cinque persone».
Quando viene sentito dagli inquirenti va in scena tutto il dramma di quest’uomo che sembra avere il dono della trasparenza. «Pensavo che il treno fosse già passato», avrebbe sospirato. «Ma lei l’ha visto passare?», chiede il magistrato. «No». Il pm ferma l’audizione e lo informa che da quel momento è indagato e ha diritto a un avvocato. Il prossimo faccia a faccia con gli inquirenti si chiamerà interrogatorio e per lui inizierà un lungo iter giudiziario. Il motivo per cui si era convinto che il convoglio avesse già attraversato Brandizzo è negli orari: 20 fatali minuti di ritardo. «Massa mi ha chiamato la sera stessa del disastro, era in condizioni terribili — racconta l’avvocato Andrea De Carlo che assiste Trenitalia —. Molto, molto provato. Oltre allo choc per aver assistito a una scena raccapricciante deve fare i conti anche con il peso psicologico di quella che magari avverte come responsabilità, tutta da vedere naturalmente».
Nella sua casa di Grugliasco, un appartamento dove vive con la moglie e i due figli, c’è il silenzio del lutto. E lo stesso dramma sta vivendo l’altro sopravvissuto, Andrea Girardin Gibin, pure lui indagato, il capocantiere di 53 anni della Sigefer che ha visto l’orrore e non si dà pace.
Con loro, anche i due macchinisti del treno, rispetto ai quali la Procura ha escluso da subito qualsiasi colpa: «Da quanto ci risulta non hanno alcuna responsabilità: avevano avuto l’autorizzazione e sono andati, senza che sia intervenuta alcuna segnalazione contraria per la quale avrebbero dovuto fermarsi — si è affrettata a precisare la Procuratrice di Ivrea, Gabrielle Viglione —. Disposizioni che dovevano arrivare da chi coordina il passaggio dei treni e la stazione dei lavori».
Anche per questa coppia di torinesi che si sono trovati a condurre il treno della strage, Marcello Pugliese e Francesco Gioffrè, sono giorni neri. «Ce li siano trovati addosso e non abbiamo fatto proprio in tempo a frenare», hanno detto. Nella prima relazione di Trenitalia si parla di un «urto avvertito» come se non li avessero proprio visti. «Ma questo è normale, i treni mica viaggiano a vista come le automobili. C’era un segnale verde, questo è pacifico, e procedevano regolarmente. Qui c’è piuttosto un tema che riguarda la comunicazione», aggiunge De Carlo che attende di capire come intenda muoversi la Procura. «Se voglia cioè mettere sotto processo le Ferrovie e il sistema di sicurezza, cosa che allargherebbe naturalmente lo scenario, o rimanere ai fatti e allora sarà tutto più circoscritto».
Infine, la velocità. Sempre nel primo resoconto di Trenitalia è stato scritto 160 chilometri orari, che sarebbe il limite massimo consentito. «La questione non si pone, un po’ perché c’è incertezza sulla misurazione. Quella effettiva sembra essere più bassa, intorno ai 100, ma soprattutto per il fatto che i treni ormai dispongono di un sistema di controllo chiamato Scmt che interviene nel caso di superamento della velocità massima, come pure scatta il freno quando si passa un semaforo rosso».
Se fosse successo di giorno forse i macchinisti si sarebbero accorti di quel gruppo di operai e avrebbero tirato il freno in tempo utile. Un loro collega in pensione ne ha vissute tante di tragedie: «Grazie al cielo mai così gravi. Comunque sia, di notte, non puoi vedere nessuno sui binari. E quando succede si sente solo un fruscio».
Estratto dell’articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” sabato 2 settembre 2023.
L’Ufficio movimenti, la centrale operativa, l’agente di scorta, il capo squadra... Fra l’uno e l’altro ci sono documenti che mancano all’appello e decisioni prese senza autorizzazioni. Il perché della strage di Brandizzo è in una catena di errori sempre più evidenti o, come dice la procuratrice di Ivrea Gabriella Viglione, […] nelle «gravi irregolarità emerse nelle fasi precedenti al disastro», cioè nelle «gravi violazioni della procedura di sicurezza». Un «evento che poteva essere evitato» se tutto fosse stato «eseguito nel modo corretto».
Sono andate storte tante cose, l’altra sera, nella piccola stazione del Canavese. Ma è attorno a una che tutto ruota: l’interruzione programmata oraria. È il nome tecnico per definire la sospensione dei treni in transito lungo una linea che prevede la presenza di operai al lavoro.
Mercoledì sera sul binario 1 della Milano-Torino gli operai al lavoro erano sette: i cinque investiti e uccisi più il capocantiere Andrea Girardin Gibin e l’agente di scorta e tecnico manutentore Antonio Massa, cioè l’uomo che il committente dei lavori (in questo caso Rete ferroviaria italiana) è obbligata ad affiancare ai lavoratori che hanno in appalto il cantiere.
Non a caso i loro nomi sono stati i primi iscritti sul registro degli indagati. Perché tocca a loro dare il via libera agli operai per l’apertura del cantiere. Ma per farlo devono avere la certezza che sia stata autorizzata l’interruzione programmata oraria di cui si diceva prima: un documento che […] il dirigente della centrale operativa manda al responsabile dell’ufficio movimenti e che l’ufficio movimenti comunica con una telefonata all’agente di scorta.
[…] È stato emesso quel benedetto documento? La risposta è no. O almeno: gli inquirenti non ne hanno trovato traccia. E allora perché è stato dato il via libera agli operai che quella notte dovevano sostituire un tratto di rotaia? E poi il loro intervento era previsto fra mezzanotte e le due. E quindi altra domanda: perché hanno cominciato a lavorare anzitempo? Sì, perché la squadra è arrivata in stazione che erano più o meno le 23. Il tempo di prepararsi, di scaricare e preparare l’attrezzatura, e alle 23.40 (circa) è stato detto agli operai: potete andare.
Li ha autorizzati Antonio Massa. Ma per farlo avrebbe dovuto non soltanto avere l’ok telefonico da Chivasso […] ma anche compilare e firmare un modulo specifico per l’inizio dei lavori. Modulo che toccava compilare e firmare anche all’altro sopravvissuto, il caposquadra. In Procura però tutto ciò non risulta. Niente: non è stato né compilato né firmato alcun modulo da nessuno dei due.
[…] Una delle ipotesi d’indagine è che l’altra sera, a Brandizzo, siano entrare in scena le «regole» non scritte delle consuetudini scorrette, a scapito della sicurezza. Per esempio aprire il cantiere perché tanto Chivasso prima o poi avrebbe dato il via libera che si aspettava.
[…] C’è una telefonata, agli atti, che potrebbe chiarire molto sul fronte delle responsabilità. È una chiamata registrata fra l’uomo scorta di Rfi Antonio Massa e il responsabile dell’Ufficio movimenti di Chivasso. È stato lo stesso Massa a rivelare agli inquirenti che fra lui e l’Ufficio movimenti c’era stato più di un contatto.
Non sappiamo che cosa si siano detti i due, se Massa sollecitava Chivasso per sapere dell’interruzione della linea o altro. Sappiamo però che nell’ultima telefonata si sente prima il rumore dei lavori, poi il frastuono del treno piombato sul binario 1 a cento all’ora e infine le urla disperate.
E, dicono in Procura, in quelle conversazioni non c’è l’autorizzazione di Chivasso e l’operatore ne ha sentito le conseguenza in diretta. All’incrocio della sorte nera dei cinque operai investiti c’è anche il fattore ritardo. Il treno che li ha travolti — un locomotore più 11 carrozze vuote — viaggiava infatti con 20-25 minuti di ritardo sulla tabella di marcia.
Massa avrebbe dichiarato a verbale che lui sapeva, sì, del transito di quel treno ma, appunto, secondo i suoi calcoli era già passato mentre gli operai erano sui binari al lavoro. Ma lei lo ha visto passare?, gli hanno chiesto. La risposta è stata «no, non l’ho visto». Forse c’è proprio la convinzione del transito mai avvenuto alla base della decisione di mandare gli operai sulle rotaie.
[...] Alle 23.47 l’impatto. I macchinisti che frenano fuori tempo massimo, le vite perdute in un istante, le pietre della massicciata sparate come proiettili sulle auto parcheggiate oltre la recinzione... Quel treno non ha mai avuto un rosso davanti a cui fermarsi, e se il ritardo fosse stato più ampio sarebbe quasi certamente deragliato perché la squadra avrebbe fatto in tempo a fare quello che doveva, cioè rimuovere parte delle rotaie che poi dovevano essere sostituite. Non è deragliato, si è fermato 500 metri più in là. [...]
Estratto dell’articolo di Simona Lorenzetti per il “Corriere della Sera” mercoledì 6 settembre 2023.
«Ho fatto il mio lavoro, nulla di più. E vorrei che tutti smettessero di parlare di me». Si sfoga Vincenza Repaci, la 25enne dirigente di movimento Rfi che la sera del 30 agosto per ben tre volte disse ad Antonio Massa, referente di Ferrovie in cantiere, di non autorizzare gli operai a scendere lungo i binari: «C’è ancora un treno che deve passare».
Le sue parole sono cadute nel vuoto. Due giorni fa Vincenza, detta Enza, è stata sentita per sei ore dai pm di Ivrea. […] «Non mi interessa farmi pubblicità, ci sono cinque morti», confida agli amici più stretti. Appassionata del suo lavoro, scrupolosa e precisa — così la descrivono i colleghi —, la giovane era in servizio come dirigente di movimento da un paio d’anni, dopo aver svolto un corso ad Alessandria. In Ferrovie è entrata giovanissima, seguendo una tradizione di famiglia.
All’indomani del disastro ferroviario ha preso qualche giorno di ferie. «Vorrei tornare presto al mio lavoro. E alla mia vita: uscire di casa senza sentirmi gli occhi addosso», rivela. Di quei dieci minuti trascorsi tra la prima e l’ultima comunicazione con Massa non vuole discutere neanche con la famiglia.
Quello che aveva da dire lo ha riferito ai pm Giulia Nicodemi e Valentina Bossi, confermando quanto emerge dalle telefonate registrate nel server di Rfi. Ce ne sono un paio in cui la donna è chiara con Massa (la «scorta ditta» di Rfi alla squadra di operai, indagato insieme al caposquadra della Sigifer): «Deve passare un treno in ritardo»; «Non potete farlo (i lavori, ndr) prima di mezzanotte»; e «Aspetta che chiedo». Non solo, Enza avrebbe spiegato al collega che c’erano due fasce orarie per lavorare: dopo la mezzanotte e dopo l’una e mezza, quando era previsto il passaggio di un secondo convoglio. L’incidente si è verificato mentre era in corso la terza telefonata: lei stava ripetendo che bisognava aspettare.
«Ho sentito un colpo, come una bomba. Poi è caduta la linea», ha detto ai pm. Poco dopo è stata lei a richiamare Massa. Sotto choc, lui le ha risposto: «Sono tutti morti». «Mia figlia ha fatto il suo lavoro. Noi non c’eravamo quando è avvenuto l’incidente. Ero preoccupata per la sua reazione, continuavo a chiedere a sua sorella come stesse, mi rispondeva che era tranquilla», racconta la mamma. Maria le fa da scudo: «Sono orgogliosa per come ha reagito e per come sta affrontando la tragedia: è piccola, ma tosta». E aggiunge: «Non le piace stare al centro dell’attenzione. Ancora di più in un frangente come questo, emotivamente forte: sta soffrendo anche lei».
Estratto dell'articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” mercoledì 6 settembre 2023.
[…] Sono più o meno le 23.30 di mercoledì 30 agosto. Alle 23.47 un treno travolgerà e ucciderà cinque operai al lavoro fra le rotaie. […] c’è un ragazzo che sta girando una diretta via Instagram e le luci della stazione di Brandizzo gli illuminano il viso allegro. La scena, le voci, i suoi commenti. È tutto tragicamente chiaro.
«Se vuoi vai giù a prendere le misure, io guardo il segnale. Appena vi dico oh...(si sente un fischio) voi uscite da quella parte», dice un uomo di cui non si vede il viso. È Antonio Massa, il tecnico di Rete ferroviaria italiana di scorta al cantiere. Tocca a lui dare il via ai lavori, ma soltanto quando gli comunicano che la linea è interrotta e non c’è il rischio di treni in transito. Regola ignorata. Gli operai stanno già lavorando.
«I treni passano di qua, alle 11.50 c’è l’ultimo...», avverte Massa. «Ragazzi. Se vi dico “treno” andate da quella parte». E Kevin – è lui il ragazzo alle prese con il filmato – gira la telecamera verso se stesso e gli risponde ridendo: «See, ho capito: scappare». Massa – la vedetta – vuole essere sicuro che tutti abbiano afferrato bene il concetto. «Allora. Se vi dico treno da che parte passate?». «Di qua» risponde Kevin, indicando la cancellata alle sue spalle. Sarà proprio lui, pochi secondi dopo, a dire: «Non abbiamo neanche l’interruzione, ancora». Appunto. La linea non era stata interrotta per consentire i lavori in sicurezza. Ne erano tutti consapevoli.
[…]
Dopo 6 minuti e 48 secondi Kevin chiude la sua diretta Instagram: «Ciao ragazzi, ci vediamo alla prossima. Metterò un TikTok fra un paio di giorni». C’è una ragazza che ha seguito la diretta. Spegne tutto anche lei e va a dormire. È la figlia della compagna di Massimo, il padre di Kevin, vive sotto il loro stesso tetto ed è per Kevin una sorella, anche se non li unisce un legame di sangue. Lei ha la password del profilo Instagram di Kevin, è impossibile non ricordare quella diretta, l’ultima in cui ha visto il suo sorriso. Così va a cercare la registrazione mai pubblicata e la trova nelle bozze salvate.
[…] è anche una fortuna per la procura poterlo avere fra gli atti dell’inchiesta. Semmai fosse servita una prova provata per il dolo eventuale contestato ai due indagati (per i reati di disastro ferroviario e omicidio colposo plurimo) questo filmato ne è la conferma. Dolo eventuale, cioè: fai qualcosa assumendoti il rischio che a seguito della tua decisione possa accadere un evento da codice penale.
Il permesso di lavorare in sicurezza sarebbe arrivato soltanto dopo mezzanotte, Massa (che ovviamente è uno degli indagati) lo sapeva, ma si è assunto il rischio di mandare la squadra fra le rotaie contando sulla sua capacità di fare da vedetta.
Il nuovo video, però, rende meno leggera anche la posizione giuridica dell’altro sopravvissuto e inquisito: il capocantiere Andrea Gibin. Finora di lui si era detto che Massa gli aveva dato l’ok per cominciare i lavori e che lui però non aveva compilato il modulo per l’apertura del cantiere. Un illecito, certo. Ma non direttamente legato alla mancata interruzione della linea.
Ora. Se Massa dice a voce alta a tutti: «Quando faccio un fischio spostatevi di lato» vuol dire che il capocantiere e gli operai sapevano perfettamente del pericolo che correvano. Ma lui — Gibin — come caposquadra aveva il dovere di rifiutarsi di mandare i suoi uomini fra le rotaie. Quindi la sua responsabilità, alla luce di questo video, è più chiara. A dire il vero tutto, adesso, è più chiaro.
Estratto dell'articolo di Simona Lorenzetti e Massimiliano Nerozzi per il “Corriere della Sera” il 7 Settembre 2023
L’episodio (tragico) rischia di scoprirsi l’effetto di una (preoccupante e pericolosa) consuetudine: l’incidente ferroviario di Brandizzo, costato la vita a cinque operai, non sarebbe stato un caso isolato, perché altre volte era capitato che i lavori sui binari iniziassero nonostante la circolazione dei treni non fosse stata ancora interrotta, in alcuni casi addirittura tra un convoglio e l’altro.
L’ipotesi investigativa su cui sta lavorando la Procura di Ivrea ha trovato altri indizi e parole – insomma, conferme–— dalle testimonianze raccolte ieri, quelle di un paio di ex colleghi di Kevin Laganà, la più giovane delle vittime del disastro di una settimana fa.
[…] Per quasi quattro ore, in mattinata, è stato sentito come persona informata sui fatti Antonino Laganà, fratello di Kevin e, come lui, operaio alla Sigifer, la ditta che stava eseguendo i lavori sui binari. Ai pubblici ministeri Valentina Bossi e Giulia Nicodemi, che coordinano le indagini, ha riferito e spiegato come andassero le cose nei cantieri, più di una volta. «Il video parla da solo, si è fatto auto giustizia», ha poi detto l’uomo, uscendo, riferendosi alla clip registrata da Kevin la notte dell’incidente: e nella quale si vede l’inizio dei lavori, nonostante lo stop alla circolazione ancora non ci fosse.
Antonino Laganà era accompagnato dal papà, Massimo, stretto in un abbraccio, e dall’avvocato Enrico Calabrese, che tutela la famiglia. «Guadando il video ci sembra di poter desumere una certa abitudinarietà nella condotta», si è limitato a dire il legale. Riferendosi al modus operandi, appunto, di salire sui binari per dare l’avvio al cantiere prima di avere il formale nulla osta.
Si parla di via libera «formale», perché sarebbe invece capitato che per partire bastasse l’ok, a voce, della «scorta ditta», l’uomo di Rfi sul campo: quella notte era Antonio Massa, 46 anni, indagato per disastro ferroviario e omicidio plurimo, con dolo eventuale.
Una pratica che emergerebbe pure dalle prime parole agli investigatori di Andrea Girardin Gibin, 52 anni, il caposquadra della Sigifer, secondo superstite e indagato. Lui avrebbe ricevuto l’ok a voce da Massa, che poi avrebbe compilato il modulo M40, l’autorizzazione scritta per i lavori, in seguito allo stop del traffico dei treni. Un modulo da firmare.
Al caposquadra sarebbe invece bastato il via libera a voce, appunto, dato da una persona — la sua versione — deputata a farlo, perché in contatto con il dirigente di movimento di Chivasso. Parole che gonfiano il sospetto di una certa consuetudine anche se, a proposito, Girardin Gibin di più non aveva detto: l’audizione fu interrotta dai magistrati, che gli formalizzarono la sua posizione di indagato.
«È mia abitudine fare i processi nei tribunali — taglia corto il suo difensore, l’avvocato Massimo Mussato — e non faccio alcun commento». Anche se dal video girato da Kevin prima dell’incidente sembra chiaro a tutti che i treni passavano — «se vi dico treno, spostatevi», griderebbe Massa — con la scena avvolta nella più totale nonchalance. «Il mio assistito è molto provato e profondamente addolorato per la perdita di cinque colleghi, che erano anche suoi amici», chiude Mussato.
[…]
Ha parlato oltre tre ore davanti ai pm anche un altro ex lavoratore della Sigifer e cugino di Kevin: l’uomo, sempre ascoltato come persona informata sui fatti, avrebbe raccontato di altri episodi in cui le norme non sarebbero state rispettate. Casi in cui gli operai avevano imbracciato gli strumenti prima dell’orario previsto, o in attesa dell’autorizzazione.
Dopodiché, gli investigatori avranno bisogno di mettere in fila nomi, date e circostanze precise, anche perché gli episodi riferiti non vedrebbero protagonista il solo Massa. «Sono emerse gravi violazioni delle procedure di sicurezza al momento dell’incidente», aveva detto due giorni dopo il disastro il procuratore Viglione. Una settimana più tardi, si rafforza l’ipotesi che quelle violazioni, se non seriali, non siano neppure così rare. […]
Estratto dell’articolo di Simona Lorenzetti e Massimiliano Nerozzi per corriere.it sabato 9 settembre 2023.
«Sono vivo per un martello». In questa frase, pronunciata dal caposquadra della Sigifer Andrea Girardin Gibin, è racchiusa la consapevolezza di un uomo che conosce i rischi del proprio mestiere e realizza di aver sfidato il destino. «Stavamo lavorando sui binari. Uno dei ragazzi mi ha chiesto di passargli un martello. Così mi sono sollevato e ho fatto due passi. È stato in quel momento che ho visto i fari del treno, d’istinto sono saltato sull’altro binario», racconta il caposquadra.
Pochi istanti che hanno fatto la differenza tra la vita e la morte. Gli altri cinque operai non sono stati altrettanto fortunati: sono stati travolti e uccisi.
Gibin è indagato per omicidio plurimo e disastro ferroviario con dolo eventuale. Un’accusa che condivide con Antonio Massa [...]
Ed è in questo contesto che va letta la consulenza tecnica che i pm hanno disposto su alcuni dispositivi elettronici. Lunedì verranno eseguite le copie forensi dei tablet di servizio in dotazione ai macchinisti che erano alla testa del convoglio che ha travolto i cinque operai. [...] verranno analizzati anche i telefoni cellulari di due operai deceduti, Giuseppe Aversa e Giuseppe Lombardo
Gli uomini della Polfer hanno recuperato gli smartphone lungo i binari: sono malridotti, ma a differenza di quelli delle altre vittime paiono avere ancora un minimo di struttura e funzionalità. All’interno, potrebbero esserci video o messaggi relativi alla sera del 30 agosto.
Intanto proseguono le audizioni dei colleghi delle vittime. L’ultimo verbale contiene il racconto di Francisco Martinez: il giovane – come altri operai – ha ribadito la prassi di iniziare i lavori prima del nulla osta formale del blocco del traffico ferroviario: «Quattro mesi fa stavo per essere investito da un treno a Chivasso, se un collega non mi avesse tirato per la maglietta non sarei qua». [...]
Estratto dell'articolo di Massimiliano Nerozzi per corriere.it il 9 settembre 2023.
Lo Stato ha messo piede in casa di Daniela solo l’altro giorno, a una settimana dalla tragedia: un’agente della polizia scientifica, cortese e gentilissima per carità, era alla ricerca di campioni per il test del Dna, per poter ricomporre le spoglie delle vittime del disastro ferroviario, tra cui c’è Giuseppe Sorvillo, 43 anni, suo marito. Fin lì, nessuno s’era fatto sentire o vedere, racconta un’amica, a parte il sindaco di Brandizzo, Paolo Bodoni, che da quella notte si sta facendo in quattro.
Lo sfogo
«Ho saputo dell’incidente e della morte di mio marito da Facebook», ha raccontato la donna a chi gli sta vicino, chiusa in un dolore privato. L’abitazione è a due passi dalla stazione, luogo della tragedia, in una stradina che costeggia i binari, di fronte a dove s’è fermato il treno che aveva travolto gli operai. Ma nessuno, qui, si era accorto di nulla. «Ho guardato Facebook, ho letto i nomi delle vittime e ho visto quello di Giuseppe». Morale: «Mi sono sentita abbandonata dallo Stato». In uno di quei momenti nei quali, invece, dovrebbe essere al fianco di chi soffre.
La solidarietà
Ci sono state invece, fin da subito, le mamme dei compagni dei suoi due figli, una bambina di 9 anni e un maschietto di 7, che non la lasciano un secondo. [...]
Sta funzionando pure l’appello di solidarietà ai cittadini di un paese che non arriva ai novemila abitanti: il sindaco l’ha lanciato con l’associazione onlus «Una finestra su Brandizzo» e finora, la raccolta fondi è arrivata a 24 mila euro. Aspettando anche l’obolo dei parlamentari della Commissione d’inchiesta, cui Bodoni s’è rivolto, durante il sopralluogo di venerdì.
«Ma io non voglio l’elemosina», ha tagliato corto lei, con quell’orgoglio fermo e garbato che sempre ha chi è abituato a badare a sé stesso. A fare e non a chiedere, a lavorare e non a parlare.
Arrivata dalla provincia di Caserta, terra comune, la coppia aveva fatto e faceva sacrifici per i figli: «Siete la mia vita» [..]
«No ai funerali di Stato»
«Aveva raccontato che non era stato facile trovare un altro impiego, di questi tempi — ricordava Armando, il parrucchiere del paese — ma era davvero felice». Tra casse e scaffali gli volevano tutti bene, e l’avrebbe tenuto, ma lui cercava qualcosa di meglio per le esigenze della famiglia. L’orario notturno sui binari gli arrotondava la busta paga, che l’aveva sorpreso, e che spesso gli consentiva anche di seguire i figli, durante il giorno, quando Daniela era al lavoro, da cassiera all’Eurospin.
Era uscito per lavorare sulle rotaie anche la sera del 30 agosto, il giorno dopo che la Sigifer gli aveva rinnovato il contratto: la cena, un bacio alla moglie e la buona notte ai bambini. Anche l’ultimo saluto, Daniela, lo vorrebbe privato, tra famiglia e amici: «I funerali di Stato sarebbero un altro strazio».
Strage di Brandizzo, spunta un nuovo video. Il tecnico Massa fa allontanare gli operai dai binari. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera domenica 29 ottobre 2023.
L'uomo è considerato tra i primi responsabili della morte di 6 lavoratori, ma prima di telefonare alla stazione per avere il via libera sui binari potrebbe aver messo la squadra al sicuro
Un nuovo video, delle telecamere di sorveglianza della stazione di Brandizzo (Torino), a due mesi dalla strage, cambierebbe in parte la dinamica di quanto accaduto intorno alla mezzanotte tra il 30 e il 31 agosto, quando cinque operai sono morti lavorando sui binari, travolti da un treno.
Come riporta il quotidiano "La Stampa" gli operai erano al lavoro prima dell'arrivo dell'autorizzazione, quindi conferma la prima parte della vicenda: gli operai non sarebbero dovuti essere sulla massicciata.
Il tecnico di Rfi caposcorta per la squadra, Antonio Massa, in questo video però, subito prima del passaggio del treno per Milano, avrebbe fatto allontanare gli operai dai binari, poi si sarebbe messo al telefono. Proprio mentre lui parlava con la capostazione di Chivasso, che gli continuava a negare l'autorizzazione a far scendere la squadra sui binari, come si intuisce dal video di Kevin Laganà, una delle vittime, gli operai sarebbero tornati sulla massicciata.
Massa di recente era stato anche licenziato dalla sua azienda in relazione alla vicenda. Da capire resta dove sia collocato temporalmente il video, perché quella notte erano tre i treni previsti: l'ultimo di linea per Milano, uno che doveva trasportare vagoni vuoti da Alessandria a Torino e un terzo, previsto per l'1.30. Il primo convoglio è transitato, il secondo, in ritardo, causò la strage.
Su La Stampa.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per "La Stampa" venerdì 1 settembre 2023.
[...] È chiaro che i macchinisti non sapessero nulla della presenza di queste persone sui binari: «Viaggiavano a velocità consentita e con semaforo verde». Da qui il racconto di uno dei due (si chiamano Michele Pugliese e Francesco Gioffrè): «Ce li siamo trovati davanti all'improvviso». Secondo: questo non vuol dire che il lavoro di manutenzione delle rotaie non fosse programmato perché ciò è impensabile.
Certo, sul posto c'era un dipendente di Rfi (tecnicamente definito "scorta ditta") che gestisce un coordinamento di informazioni e compila una copiosa modulistica. È l'uomo del monte: se gli operai, incautamente, avevano iniziato a lavorare qualche minuto prima lui avrebbe dovuto fermarli. E la domanda, ancora senza risposta, è se abbia ricevuto (da altri) un'informazione non corretta (o l'abbia male interpretata) sulla non avvenuta interruzione di linea.
Certo è che «quando passa un treno o quando non passa lo può garantire solo il padrone di casa» fanno capire a Palazzo di giustizia. E in questo ragionamento c'è il cuore degli accertamenti in corso. Si aggiunga il racconto riportato da alcuni colleghi di lavoro a loro (pare) offerto dall'unico sopravvissuto della ditta Sigifer secondo il quale l'accesso al cantiere sarebbe stato autorizzato. Rfi si difende, legittimamente, a spada tratta: «Quei lavori – specifica in una nota l'azienda - sarebbero dovuti iniziare soltanto dopo il passaggio di quel treno».
C'è di più: nel binario accanto a quello della tragedia era in corso un altro cantiere di Rfi con circolazione regolarmente interrotta, condizione non avvenuta sulle rotaie nelle quali lavoravano i poveri operai. Il sistema di sicurezza ha funzionato a intermittenza? E che questa immane tragedia potesse – se possibile – assumere dimensioni ancora più ampie lo racconta il contratto di lavoro tra Rfi e Sigifer che quella notte prevedeva la sostituzione di uno spezzone di rotaia di 7-8 metri.
Traduzione: se il convoglio di vagoni vuoti fosse transitato a un'ora più tarda non solo avrebbe ucciso gli operai ma sarebbe diventato un proiettile potenzialmente devastante attentando cosi alla vita dei macchinisti e – non si può escludere a priori – a quella degli abitanti delle case vicine: centinaia di alloggi distribuiti su più palazzoni.
Ancora un giallo sugli orari di transito si annoda tra le righe delle possibili ricostruzioni. La procura sta verificando la versione secondo la quale il treno sarebbe passato in ritardo di 10-20 minuti rispetto all'orario atteso.
Il che potrebbe impattare sulla ricostruzione dei fatti non fosse altro perché, magari impropriamente, a quell'ora si era dato per "transitato" come ultimo mezzo prima dell'interruzione della linea per i lavori. [...]
Estratto dell’articolo di Elisa Sola per “La Repubblica” il 3 settembre 2023
Un faro di luce sulla mezza curva. Il treno che si palesa, sfrecciando da Chivasso, nel punto della svolta che precede il rettilineo dove inizia la stazione. Sarebbero passati soltanto quattro secondi, la notte del 30 agosto, dall’istante in cui il treno merci compare all’orizzonte al momento in cui travolge i cinque operai. Loro erano di spalle. Non lo hanno visto né sentito. Uno dei due superstiti — il caposquadra Andrea Gibin — investito dal faro di luce e dal vortice d’aria, si è salvato tuffandosi di lato. In quattro secondi, forse uno di più. […]
Non solo. La procura ha dato anche ordine alla pg di verificare, in generale, tutte le procedure di sicurezza e i sistemi di protezione della linea ferroviaria. Pare certo che quella notte non abbia funzionato il cosiddetto “circuito di binario”. Il sistema prevede che scatti l’allarme quando qualcuno si trova sopra alla rotaia, innescando la segnalazione che provoca il rallentamento o lo stop del treno. La notte del 30 agosto non è accaduto nulla di tutto questo.
C’era un guasto? Oppure era normale che il circuito non si attivasse? Si verifica anche l’ipotesi che gli operai, smontando pezzi dei binari, avessero disattivato qualcosa, per potere eseguire le operazioni previste. Non hanno sbagliato niente, i cinque tecnici. Erano preparati e stimati. Hanno eseguito gli ordini.
«Il via libera c’era», ha detto, sotto choc, Andrea Gibin, il caposquadra. Alla Sigifer nessuno parla. L’indagine è in corso. Nei giorni scorsi, durante una riunione in azienda, i vertici hanno espresso «dolore» per la perdita di cinque lavoratori. E avrebbero detto: «Se sarà colpa nostra pagheremo noi. Ma la colpa non è nostra, c’era l’ok di Rfi».
Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” il 3 settembre 2023
Nella ormai – abbastanza - chiara dinamica della tragedia ferroviaria di Brandizzo avvenuta la notte tra mercoledì e giovedì scorsi, costata la vita a cinque operai della ditta Si.gi.fer di Borgo Vercelli (Kevin Laganà, 22 anni, di Vercelli. Michael Zanera, 34 anni, Giuseppe Sorvillo, 43 anni, Giuseppe Saverio Lombardo e Giuseppe Aversa, 49 anni) si apre ufficialmente un focus investigativo per comprendere se l'imprudenza di scendere sui binari a lavorare per effettuare manutenzioni prima di aver ottenuto l'interruzione della linea fosse una prassi consolidata così come hanno incominciato a riferire a televisioni e giornali alcuni ex colleghi delle vittime.
Non è un caso che ieri i pm che conducono l'inchiesta (Valentina Bossi e Giulia Nicodemo) su uno dei disastri ferroviari più gravi degli ultimi 20 anni in Italia, abbiano convocato – come persona informata sui fatti – Antonio Veneziano ex dipendente dell'azienda, già collega di lavoro del più giovane degli operai morti (Kevin Laganà).
La sua testimonianza rilasciata ai media va ribadita, approfondita, articolata ancora di più. Il cuore è questo: «È già capitato molte volte di iniziare i lavori in anticipo. In molte occasioni in cui ho lavorato lì (alla Si.gi.fer), quando sapevamo che un treno era in ritardo ci portavamo avanti con il lavoro». Qualche esempio: «C'era una regolazione, cioè il restringimento del binario, da fare con un convoglio atteso fuori dall'orario corretto di passaggio?
Iniziavamo a lavorare, svitavamo i chiavardini (sistemi di fissaggio delle rotaie alle traversine in legno, ndr), dopodiché, prima del passaggio dei convogli ci buttavano fuori dai binari. Eravamo in sei-sette per ogni gruppo ma in quei casi c'era chi guardava le spalle: l'altra notte non è andata così, erano tutti sulla massicciata».
La portata dell'interesse investigativo per questo tipo di comportamento è lampante.Lo dice, con chiarezza, la procuratrice capo di Ivrea Gabriella Viglione: «Bisogna capire se procedere con i lavori senza avere il permesso sia una sciagurata scelta delle persone coinvolte o, al contrario, se in questo comportamento possano esserci delle abitudini, delle consuetudini e delle richieste».
Tra alcuni colleghi di lavoro delle vittime l'opinione non è isolata: «Sappiamo che si inizia a lavorare quando il capo ci dice a voce che possiamo farlo e ce lo dice non quando arriva un pezzo di carta ma quando i treni hanno smesso di passare. Fanno tutti così». La prassi è nota ai livelli superiori di Rfi che della rete ferroviaria è padrona? Si può immaginare un margine di tolleranza esistente sul punto? Gli scenari che aprirebbe un'eventuale conferma di ciò sono automatici.
[…] Per Antonio Massa, addetto alla scorta del cantiere, lavoratore esperto al momento principale indagato dell'inchiesta (le accuse sono disastro ferroviario e omicidio plurimo con dolo eventuale), continua il momento difficile. Dopo la disperazione e il senso di colpa che sta vivendo in questi giorni per aver dato in anticipo l'autorizzazione a iniziare il cantiere («Ho schiantato cinque vite, penso solo a quei ragazzi») ci si mettono anche gli imbecilli social: insulti, forse minacce, sono pervenute sul suo profilo Facebook che da ieri l'uomo ha deciso di oscurare temporaneamente. […]
Estratto dell'articolo di Andrea Bucci e Giuseppe Legato per lastampa.it martedì 5 settembre 2023.
Sei ore. È il tempo trascorso negli uffici della procura di Ivrea dalla dirigente di movimento della stazione di Chivasso, sentita come persona informata sui fatti dalla polizia giudiziaria della Guardia di finanza. Vincenza Rapaci, 25 anni, originaria della Val di Susa, dopo il corso tenuto ad Alessandria, da due anni è in servizio come dirigente di movimento a Chivasso.
È lei la testimone chiave della maxi-inchiesta sul disastro ferroviario di Brandizzo in cui hanno perso la vita cinque operai, travolti dal treno la notte tra mercoledì e giovedì mentre lavoravano lungo i binari.
«Per ben tre volte, quella notte, non ho autorizzato Antonio Massa a dare inizio ai lavori». Vincenza, rientrata anticipatamente dalle vacanze, lo ha ribadito davanti ai magistrati e ai finanzieri. Sei ore in cui ha ripercorso quella tragica notte. All’uscita dagli uffici della procura, alle 19,40, ad attenderla c’erano il compagno e la mamma. […]
Quella sera la dirigente di movimento non autorizzò l’avvio dei lavori e in una telefonata, la terza avuta con Massa, il preposto di Rfi alla sicurezza del cantiere (indagato insieme ad Andrea Gibin Girardin, capo squadra degli operai morti), udì dall’altra parte del cavo un rumore fortissimo, «come se fosse esploso un grosso petardo, una bomba».
Una testimonianza fiume, ma fondamentale per le indagini. Perché da ora le attenzioni dei magistrati eporediesi Valentina Bossi e Giulia Nicodemi e della procuratrice capo Gabriella Viglione, si starebbero concentrando sulle condotte adottate durante i lavori lungo i binari. Sembra proprio che l’imprudenza di attaccare a lavorare prima di aver ottenuto l’interruzione della linea fosse una prassi consolidata. [...]
Non è un caso, infatti, che le pm Bossi e Nicodemi abbiano ascoltato tre operai di Si.gi.fer, l’azienda di Borgo Vercelli per la quale lavoravano i cinque operai morti. Tra loro anche Antonio Veneziano, ex dipendente dell’azienda, già collega di lavoro del più giovane degli operai deceduti (Kevin Laganà). «È già capitato molte volte di iniziare i lavori in anticipo: in molte occasioni in cui ho lavorato (alla Si.gi.fer, ndr), quando sapevamo che un treno era in ritardo ci portavamo avanti con il lavoro».
Qualche esempio: «C’era una regolazione cioè il restringimento del binario, da fare con un convoglio atteso fuori dall’orario corretto di transito? Iniziavamo a lavorare, svitando i chiavardini (sistema di fissaggio delle rotaie alle traversine in legno, ndr), dopodiché, prima del transito dei convogli ci buttavamo fuori dai binari. Eravamo in sei-sette e in quei casi c’era chi guardava le spalle: l’altra notte non è andata così, erano tutti sulla massicciata». [...]
Estratto dell'articolo di Claudia Luise per la Stampa mercoledì 6 settembre 2023.
È bastata una verifica in cassa edile per scoprire quello che era un sospetto […]: alla Si.gi.fer. quasi tutti i lavoratori (ben 73) hanno la qualifica di operai comuni. Appena 18 sono operai qualificati e 35 sono gli operai specializzati. «Questo vuol dire che hanno il livello più basso - spiega Claudio Papa segretario generale della Feneal Uil Torino - invece sono chiamati a svolgere mansioni per cui non si può essere operai comuni. Avere 73 operai comuni vuol dire che c'è già un problema».
E nella squadra travolta dal treno sembrerebbe - secondo gli investigatori - che quattro fossero proprio operai comuni. In linea di principio dunque non avrebbero potuto essere mandati a lavorare sui binari della ferrovia di Brandizzo: un cantiere ad alta specializzazione, non un cantiere di routine e che, perciò, richiedeva la presenza di addetti con determinate qualifiche. […]
[…] aggiunge Massimo Cogliandro, segretario generale della Fillea Cgil Piemonte. «Mai come in questi casi per evitare gli incidenti sono utili la formazione, l'adozione di strumenti preventivi grazie ad un utilizzo virtuoso delle innovazioni tecnologiche, il potenziamento dei controlli nei cantieri. Solo così è possibile garantire la sicurezza, la regolarità e la legalità nei cantieri» aggiunge Mario De Lellis, segretario generale Filca-Cisl Torino.
In procura a Ivrea il lavoro dei magistrati continua a concentrarsi su due aspetti: la piena ricostruzione della notte della tragedia (e a questo scopo l'audizione fiume di Vincenza Repaci, la dirigente della stazione di Chivasso che aveva negato l'autorizzazione ad avviare i lavori, potrebbe essere stata determinante) e la necessità di far luce sul fatto che entrare sui binari prima del via libera fosse una prassi o un fatto occasionale. In questo senso la testimonianza di Tonino Laganà, il fratello di Kevin, la più giovane delle vittime, potrebbe essere rilevante: anche il ragazzo è un dipendente della Si.gi.fer. e questa mattina verrà ascoltato dai magistrati come persona informata sui fatti.
Tra gli elementi da approfondire, pure il certificato di sicurezza che sarebbe scaduto 28 luglio, quindi un mese prima dell'incidente. […] Come per altre certificazioni che erano scadute a luglio e che l'azienda ha rinnovato in tempo, si sta cercando di capire se anche in questo caso c'è il rinnovo e, magari solo per lungaggini burocratiche, non sia stato inserito nell'Attestazione. Nel caso non fosse così, spiegano i sindacati, l'azienda non avrebbe proprio potuto lavorare e sarebbe dovuta essere l'azienda committente, quindi Rfi, a controllare.
Estratto dell'articolo di Andrea Bucci e Irene Famà per “La Stampa” il 7 Settembre 2023
[…] Ora l'inchiesta per la tragedia di Brandizzo, a quindici chilometri da Torino, potrebbe allargarsi a chi in Si.gi.fer, la ditta di Borgo Vercelli di cui facevano parte i cinque uomini travolti dal treno la notte del 30 agosto, regola e coordina la formazione, la sicurezza e così via.
I magistrati hanno iscritto nel registro degli indagati due persone: Antonio Massa, l'addetto di Rfi responsabile del cantiere, colui che doveva vigilare sulla squadra al lavoro e autorizzarla ad andare sui binari; e Andrea Girardin Gibin, il caposquadra della Si.gi.fer.
Ma ora i pm coordinati dalla procuratrice capo Gabriella Viglione intendono approfondire i criteri e le modalità di formazione del personale dell'azienda vercellese. Non solo.
Al centro delle indagini ci sono anche le singole procedure legate alla sicurezza che l'azienda dovrebbe garantire.
Perché in troppi raccontano che quel modo di lavorare non era sicuro. E soprattutto era ricorrente: in svariate altre occasioni gli operai avrebbero iniziato a lavorare sui binari prima dell'autorizzazione. Un conto erano le procedure un altro la prassi.
Per quella trascuratezza Kevin Laganà, Micheal Zanera, Saverio Giuseppe Lombardo, Giuseppe Aversa e Giuseppe Sorvillo sono morti. Gli altri colleghi? Dei sopravvissuti, così verrebbe da dire. E l'hanno raccontato agli inquirenti della procura di Ivrea i numerosi testimoni ascoltati negli ultimi tre giorni. Ieri, davanti ai pubblici ministeri Giulia Nicodemi e Valentina Bossi, sono stati sentiti Antonino Laganà e Marco Buccino. Il primo è il fratello di Kevin, la vittima più giovane della strage di Brandizzo. Il secondo è il cugino.
Entrambi hanno lavorato alla Si.gi.fer e conoscono bene quel modo di lavorare, di fretta, con tempi teorici che quasi mai collimano con quelli reali. Con le comunicazioni affidate unicamente ai cellulari. La frase pronunciata da Antonino, all'uscita dalla procura, riassume un po' tutto questo. «Mio fratello, con quel video, si è fatto auto-giustizia».
Ai magistrati avrebbe aggiunto: «Ha fatto giustizia anche per noi». Una sorta di riflessione che suonerebbe in sostanza così: «Abbiamo rischiato la vita pure noi, tante volte, senza saperlo». [...]
Resta cauto l'avvocato Enrico Calabrese, che rappresenta la famiglia Laganà: «Dal filmato ci è sembrato di poter desumere una certa abitudinarietà in questo tipo di condotte». E aggiunge: «Attendiamo il prosieguo delle indagini. Andiamo avanti un passo alla volta. Il primo obiettivo adesso è dare degna sepoltura a Kevin». Il nulla osta della procura arriverà solo quando ai corpi straziati sarà dato un nome e per questo gli inquirenti stanno facendo raccogliere ogni elemento utile per il riconoscimento. [...]
Estratto dell’articolo di Andrea Bucci Giuseppe Legato per “La Stampa” venerdì 8 settembre 2023.
Nell'articolata inchiesta della procura di Ivrea sul disastro ferroviario di Brandizzo avvenuto ormai una settimana fa e costato la vita a cinque operai della Sigifer di borgo Vercelli (Kevin Laganà, 22 anni, Michael Zanera, 34, Giuseppe Sorbillo 43, Giuseppe Saverio Lombardo, 53, Giuseppe Aversa, 49), c'è un giallo al vaglio degli inquirenti guidati dalla procuratrice Gabriella Viglione.
Rimanda alla diretta Instagram fatta da Laganà qualche decina di minuti prima di morire e si focalizza sui primi 14 secondi di registrazione. Mentre il più giovane degli operai registra con lo smartphone, si sente in sottofondo la voce del principale indagato per questa tragedia, Antonio Massa, «preposto alla scorta» del cantiere per conto di Rfi, colui il quale darà agli operai l'autorizzazione a iniziare i lavori in anticipo.
Massa parla al telefono: «Tanto io il lavoro ce l'ho sul binario pari che c'hanno il pass». Poi ringrazia, ricambia saluti. La chiamata non sarebbe custodita sui server di Rfi e quindi potrebbe essere stata fatta con un cellulare privato. Si intuisce che il tma è strettamente connesso al cantiere di Brandizzo ma dall'altra parte del telefono non c'è Vincenza Repaci, la dirigente movimento che per tre volte gli chiederà di aspettare, negando che vi sia ancora la linea interrotta e quindi l'autorizzazione a iniziare i lavori di manutenzione su un tratto di 8-9 metri di rotaia.
Con chi parla Massa? A chi comunica di aver dato il pass per i lavori? Un suo collega, un suo superiore? Il suo interlocutore era a conoscenza che la linea non era interrotta e che si attendevano ancora due treni? Sono le 23,30 circa quando la telefonata si chiude.
Seguono frasi rivolte agli operai: «Sul pari (il binario) abbiamo circolazione. Io guardo il segnale, appena vi dico via uscite da quella parte perché è i treni passano da lì e a e 40 (mezzanotte e quaranta minuti ndr) c'è l'ultimo. Tra una cosa e l'altra arriverà l'interruzione: se vi dico treno andate da quella parte!». […]
A Palazzo di giustizia confermano: «Stiamo verificando interlocutore e contenuto per contestualizzare meglio quelle parole». Ma intanto le indagini – che ieri hanno visto l'audizione di altri ex operai della Sigifer – vanno avanti sempre a più ampio raggio.
E accanto ai sistemi di sicurezza in generale delle procedure di lavoro sulle rotaie, alle procedure distorte e «anticipate» diventate «prassi» soprattutto negli ultimi anni, vi è un fronte nuovo. Non è un caso che nei giorni scorsi gli investigatori della polizia giudiziaria – Polfer e Guardia di Finanza – abbiano acquisito nella centrale operativa di Rfi al Lingotto tutti i piani di attività dei cantieri avviati in Piemonte dalla rete ferroviaria italiana.
Si tratta di numerosissimi appalti, sezionati in ulteriori subappalti, affidati e portati a termine da ditte esterne come la Si. gi. fer ma non solo. Obiettivo? «Comprendere quanti cantieri contemporaneamente siano stati aperti sui binari». Il numero è cresciuto?
Una fonte interna a Rfi, che ha chiesto a La Stampa di rimanere anonima, spiega: «Con il Pnrr i lavori a titolo di investimento sono diventati molti di più rispetto a passato. Uniti alle necessità di interventi di manutenzione sono diventati troppi.
Diciamo che – ha aggiunto – il volume dei cantieri, quello della circolazione e i tempi di lavorazione pretesi e sempre più corti la situazione è ormai insostenibile. Siamo come i medici: se sbagliamo noi qualcuno muore ed è quello che è successo a Brandizzo». […]
Estratto dell’articolo di Gianni Giacomino Giuseppe Legato per “la Stampa” lunedì 11 settembre 2023.
Del disastro ferroviario di Brandizzo costato la vita a cinque operai della ditta Sigifer di borgo Vercelli (Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Saverio Giuseppe Lombardo, Giuseppe Aversa e Kevin Laganà, di appena 22 anni), una delle «code» più drammatiche è quella dell'ultimo saluto. Sono ancora lontane le date dei funerali, i parenti invocano una salma da seppellire e sulla quale piangere il proprio dolore.
Molti di loro, alla spicciolata si sono presentati nei giorni scorsi all'ospedale di Chivasso. Non una sera, ma due, tre. E ancora un'altra volta. Con la dignitosa supplica di chi ha perso un figlio, un padre, un marito un fratello. La risposta dei medici legali è un tuffo doloroso – se possibile – quanto e di più di quello di averli persi: «Non è possibile, per favore non insista». L'autopsia forse nemmeno serve ai fini dell'inchiesta che sulla dinamica dei fatti è già avanti e comunque non si potrebbe fare.
Perché queste legittime attese si scontrano con i fatti e coi tempi. Che non sono della giustizia, ma figli del dramma dell'incidente. I funerali degli operai sono lontani. É lungo, interminabile anche il lavoro della polizia scientifica incaricata di attribuire ogni resto a un corpo, ogni «reperto» a un nome. «Uno strazio, mi creda - confida un investigatore – ma lo dobbiamo alle vittime e a chi è rimasto a piangerli».
E cosi negli ultimi giorni diversi parenti degli operai si sono educatamente presentati agli investigatori. Hanno risposto a una precisa richiesta della procura. E hanno consegnato tutto ciò che possa rendere riconoscibile quanto è rimasto dei loro cari. Vecchie ecografie di eventuali fratture alle ossa, foto di tatuaggi impressi sulla pelle, arcate dentali, documenti che attestino impianti odontoiatrici.
I magistrati di Ivrea hanno disposto che tutte queste operazioni fossero accompagnate dalla presenza di due psicologi che permettessero loro di «metabolizzare» la richiesta preparandoli al contempo al dopo. Che non è quello di celebrare a breve il saluto finale, i funerali. L'amara verità è che sono più di mille i «reperti» recuperati. […]
E alle famiglie si può chiedere fino a un certo punto. Basta sentire il papà di Kevin Laganà, il più giovane delle vittime che aveva 22 anni. Il suo video/testamento rimasto intrappolato nella memoria del profilo Instagram che lo ritrae mentre scherza sui binari pochi minuti prima dello schianto, ha contribuito a far luce sulla genesi del disastro. Ma anche per Kevin vale lo stesso principio: bisogna attendere.
«Quando sono andato in Procura a Ivrea ai magistrati che mi dicevano come fosse complicato "rimettere insieme i resti" perché un incidente così disastroso non era mai successo, ho spiegato che, se non avevano il coraggio loro di ricomporre mio figlio, l'avrei fatto io, perché io voglio il corpo di Kevin, è come se fosse una parte di me - piange Massimo Laganà, il padre del ragazzo – […] ».
Estratto dell’articolo di Gianni Giacomino per “La Stampa” martedì 12 settembre 2023
Leonardo Agusta non lo scorderà mai il primo giorno di lavoro alla Sigifer - l'azienda per cui lavoravano le cinque vittime della strage di Brandizzo - dove aveva spedito il suo curriculum appena finito la quinta superiore. «Mi chiamarono quasi subito, avevo 18 anni e non avevo seguito nessun tipo di corso per lavorare sui binari – ricorda -. Mi mandarono subito al lavoro con la squadra dei colleghi, così, senza alcuna istruzione».
Il cantiere era alla stazione di Orbassano, nell'hinterland di Torino: «Arrivammo alla stazione e il mio capo squadra mi fece prendere una "pattina", quella specie di tavola che va su e giù per la strada ferrata e serve per depositare gli attrezzi utilizzati dagli operai. Io la sistemai su uno dei binari, ma nessuno mi avvertì di eventuali passaggi dei convogli, se c'era pericolo insomma, cioè nessuno mi disse niente e io che ne sapevo….».
Affila lo sguardo: «A un certo punto sentii un rumore, mi girai e vidi il treno che passava e distruggeva la pattina. Mi buttai a terra terrorizzato. Per fortuna non ero proprio all'interno della sede dei binari, o adesso non sarei qui a raccontarla».
E oggi quel ricordo a «Leo», 23 anni, di Vercelli, fa ancora più male. Perché lui quei ragazzi e quei padri di famiglia che sono stati straziati dal treno alla stazione di Brandizzo due settimane fa li conosceva tutti e, con alcuni, ha anche lavorato gomito a gomito, scherzato, condiviso ansie e progetti.
[…] È proprio per questo Agusta è ancora più arrabbiato. «Io alla Sigifer ci sono stato due anni e due mesi e poi me ne sono andato perché mi hanno costretto a lasciare senza rinnovarmi il contratto – si sfoga -. Mi hanno isolato perché io parlavo troppo, mi lamentavo, ai capi squadra lo dicevo che, prima o poi, qualcuno finiva male con i loro metodi dove tutto era lasciato al caso. Niente.
L'importante era guadagnare e fare in fretta, lavorare giorno e notte, sempre di corsa, alla faccia delle precauzioni e dei treni che dovevano ancora passare. Io, quando tornavo a casa, lo raccontavo anche ai miei come andavano le cose, ero davvero perplesso». […]
L'ex dipendente della Sigifer snocciola poi un altro episodio che può far capire meglio l'ambiente di lavoro. «Una volta presi la scossa ad un braccio e, ovviamente, restai a casa in infortunio anche perché era stata una scarica di volt notevole – spiega -. Mi chiamò il geometra della Sigifer e mi chiese se non potevo mettermi in malattia, giusto per evitare dei possibili controlli dell'ispettorato del lavoro. Io mi rifiutai e loro la presero malissimo».
Ma è quando il giovane operaio torna alle sue mansioni che il rapporto con l'azienda di Vercelli, già deteriorato, si interrompe. «Un giorno, prima di entrare sui binari chiesi al mio capo squadra se aveva già il foglio MP40, quello che ci autorizzava – rammenta -. Lui mi rispose che se non mi andava potevo anche starmene a casa o andare a dormire sul furgone. Quindi io presi e me ne andai. Qualche giorno più tardi mi arrivò la comunicazione che la Sigifer non intendeva più rinnovarmi il contratto. […]»
Su la Repubblica.
LE DUE GENERAZIONI ARRIVATE DAL SUD CHE IL DESTINO HA RIUNITO SULLO STESSO BINARIO. Estratto dell’articolo di Maurizio Crosetti per “la Repubblica” venerdì 1 settembre 2023.
Kevin, Michael, Giuseppe, Giuseppe, Giuseppe. I battesimi tornano e migrano come destini, come quei tre nomi antichi ereditati dai nonni oppure i due più moderni, “inglesi” e giovani, all’interno dell’identica trama. E le geografie, sempre uguali.
Il lavoro da cercare al nord, l’ultima generazione come la prima, padri e figli insieme sul filo, cinquantenni e ventenni sul patibolo di una rotaia e la fine della storia è sempre la stessa: si muore di lavoro, quel lavoro che si fa per vivere.
Kevin Laganà era quasi un bambino. Aveva cominciato a sgobbare appena maggiorenne, felice di farlo. Perché, prima di ammazzarti, il lavoro può pure farti contento. Adesso di anni ne aveva 22. «Stai attento» gli ripetevano a casa. «Ma lui ci rispondeva che non era mica pericoloso».
La cugina Cinzia si stringe la testa con le mani. «I pezzi…, c’erano ancora dei pezzi…, ma Kevin non era un puzzle, era un ragazzo! Non ci hanno dato nessuna spiegazione, e la vita finisce accussì».
[…] Famiglia di origini messinesi, sono due i siciliani uccisi dal treno, e una terza vittima veniva dall’alto Casertano. Scorrono vite digitali nella modernità apparente, ma poi in quelle stanze ci sono le cose di sempre, come sessanta o settant’anni fa: il lavoro da cercare lontano, l’emigrazione, le periferie, i turni di notte, i pericoli immani, la fragilità di tutto. L’insensatezza. Come se il tempo e il futuro non servissero a niente.
Kevin lo raccontano sorridente sempre. Viveva col suo papà a Vercelli («Ma adesso dove le troviamo le parole per dirgli che è tutto vero, lui che stanotte non ci credeva?»). [...]
Michael Zanera di anni ne aveva 34. Lui è quello della croce infuocata apparsa nella saldatura. «È la prima volta che succede che mentre saldo una rotaia mi è uscito il crocifisso, Dio mi vuole dire qualcosa sicuramente». Lo ha scritto e filmato su Tik Tok, undici ore prima di morire. «Se lo sentiva, povero cugino mio, quando ho letto quel post mi sono sconvolto», ripete Alessandro che è cresciuto con lui. […]
Gli scatti in palestra, le passeggiate col cagnolino Rocky, un amore sperato che non ingranava. «Michael l’ho cresciuto io, ultimamente era un po’ giù». Lo zio Marco Faraci vede ripassare tutte le ombre: «Il papà Massimiliano, perso l’anno scorso, la mamma che non sta bene, l’illusione di avere trovato una ragazza giusta in chat e invece no».
A volte Michael aveva il doppio turno, giorno più notte, per recuperare. «Si sforzava e faceva finta di niente». Per il suo ultimo compleanno non aveva chiesto regali, ma donazioni alla Lega per la lotta contro i tumori. «Prevenire è vivere», aveva scritto in un post. Terribile, adesso. […] Augurava sui social buona giornata e buona domenica, e anche buon primo maggio, che beffa. […]
Giuseppe Aversa aveva 49 anni e tifava forte Juve. Il profilo social mostra rigori, gol, non pochi campioni, gli sfottò all’Inter, un tappo di birra, il colpo di testa di Cristiano Ronaldo che volando buca le nuvole e appare dal finestrino di un aereo. “Dna gobbo” era uno dei profili che seguiva più volentieri, perché il calcio è una felicità semplice e un altrettanto semplice tormento.
Poi, però, Giuseppe tornava serio. Nel 2019 postò la foto di un crollo del soffitto nella galleria autostradale Bertè, sulla Genova Voltri, forse non lo tranquillizzava vivere nel Paese della precarietà. E ancora qualche pensiero da lasciare lì, appoggiato come un mazzo di fiori o una bicicletta sul muro: «La felicità arriva quando smetti di lamentarti per i problemi che hai, e ringrazi Dio per quelli che non hai».
Il secondo Giuseppe, Lombardo, era il più vecchio: 52 anni. Di Kevin avrebbe potuto essere padre, come lo era della bimba con la tuta rossa che compare nella foto profilo su Facebook. Era venuto a lavorare in Piemonte nel 2001 da Marsala, contrada Matarocco, provincia di Trapani, dove adesso lo piangono in tanti. Cinque amici, e tra loro il secondo Giuseppe era il più riservato.
[…] L’ultimo Giuseppe si chiamava Sorvillo e di anni ne aveva 43: come esperienze e riferimenti, stava a metà tra i due ragazzi e i due cinquantenni. Molte fotografie lo mostrano serio, quasi triste. La famiglia era originaria di Sparanise, nell’agro celeno, provincia di Caserta. Abitava a Brandizzo, a una manciata di strade da dov’è morto, con la moglie Daniela e i due bambini, Nathan e Zoe che era la sua ballerina. […]
Su quelle rotaie, Giuseppe Sorvillo lavorava soltanto da qualche mese, da quando cioè aveva lasciato il supermercato “Presto Fresco” dov’era addetto vendita. Ma per la sua famiglia, il nuovo lavoro era migliore. Una sorte, anche questa. E c’è sempre un sottofondo scettico, come di cose che non tornano, da parte di chi forse non si sentiva tranquillo, oppure non in pieno diritto di sicurezza.
Un’immagine postata da Giuseppe su Facebook, un po’ lo spiega: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ma c’è Pinocchio che risponde, secco: «Stu c.!». Il resto sono immagini di viaggi e vacanze. Eppure, nello sguardo di Giuseppe c’è un’increspatura, come in alcune parole: «Le ferite del corpo col tempo guariscono, le ferite dell’anima con il tempo ti cambiano». […]
Estratto dell’articolo di Erica Di Blasi per “il Messaggero” venerdì 1 settembre 2023.
«Mentre saldo la rotaia mi è comparso il crocifisso. È la prima volta che mi succede, Dio vuole dirmi qualcosa». Poche ore prima della tragedia Michael Zanera, 34 anni, aveva pubblicato un video proprio dai binari di Brandizzo dove poi ha trovato la morte. In sottofondo le note di "Power of love" dei Frankie Goes to Hollywood. Una coincidenza che fa pensare. […]
“Fermi, devono passare altri due treni”: le telefonate ignorate dall’addetto Rfi. Elisa Sola su La Repubblica il 3 settembre 2023.
La prima chiamata alle 23.26, l’altra pochi minuti dopo con la sala operativa che avverte: “Bisogna aspettare la mezzanotte”
Tre telefonate in 26 minuti. L’ordine di «non procedere con i lavori» ribadito in due conversazioni che si susseguono. E poi lo schianto in diretta telefonica. I rumori di sottofondo, durante la terza chiamata, che ricordano quelli di una bomba.
Sono racchiusi in cinque registrazioni — di altrettante comunicazioni — gli elementi di prova più importanti che la procura di Ivrea ha acquisito prima di consegnare, nelle scorse ore, gli avvisi di garanzia ai primi due indagati (Andrea Gibin, caposquadra di Si.gi.fer e Antonio Massa, tecnico di Rfi) della strage di Brandizzo. Rispondono entrambi, per la morte dei cinque operai avvenuta la notte del 30 agosto, di omicidio plurimo e disastro ferroviario con dolo eventuale.
Secondo la squadra di investigatori — Polfer e Guardia di finanza — coordinata dalla procuratrice Gabriella Viglione, si starebbe delineando in modo sempre più netto uno dei punti chiave dell’indagine. «Gli operai non dovevano stare su quel binario, a quell’ora», continuano a ripetere dal terzo piano del palazzo di giustizia. Non sarebbe esistita alcuna autorizzazione scritta per potere intervenire. Ma non solo. Dalle ultime telefonate registrate, emergerebbero dettagli più significativi. Massa, che aveva il ruolo di “scorta” (il tecnico di Rfi che accompagna la squadra di operai sui binari) avrebbe autorizzato verbalmente il “via” alle operazioni sul binario della morte senza avere ottenuto alcun via libera — nemmeno oralmente — dalla sala di controllo della stazione di Chivasso, dove la tecnica di Rfi (non indagata e sentita come testimone) per due volte, al telefono, gli aveva “vietato” di dare l’ok per iniziare i lavori.
La prima telefonata avviene tra le 23.26 e le 23.29. «Possiamo cominciare?» chiede Massa alla tecnica di Chivasso, che risponde: «State fermi. Deve ancora passare un treno, che è in ritardo. Aggiorniamoci dopo».
Ma nessuno sarebbe stato fermo. Gli operai a Brandizzo ricevono l’ok (orale) dai loro superiori e iniziano a operare sui binari. Dai filmati delle telecamere della stazione di Brandizzo e dai rumori di sottofondo che si sentono nella seconda telefonata (poco dopo le 23.30) si vedono e sentono i cinque operai spingere, con attrezzi rumorosi, sul binario.
«Adesso possiamo andare?», chiede, in questa seconda chiamata, Massa all’addetta di Chivasso. E lei per la seconda volta risponde “no”, ribadendo un concetto già espresso nella comunicazione precedente: «Bisogna aspettare dopo la mezzanotte. Ci sono due fasce orarie possibili in cui lavorare dopo quell’ora, o prima o dopo l’una e mezza, ora in cui passerà un altro treno. Scegliete voi quale preferite». Gli operai sono sempre sul binario. La terza telefonata, brevissima, è quella della strage. Avviene in diretta. Si sente un’esplosione. Massa e l’addetta di Chivasso in silenzio. Cade la linea. Le due telefonate successive, sono strazianti. «Sono morti tutti! Sono morti tutti sui binari!», urla Massa, in lacrime. Ancora urla e dolore. E poi il nulla. I corpi di Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Saverio Giuseppe Lombardo, Giuseppe Aversa e Kevin Laganà sono senza vita, lontani, lungo due chilometri di binario.
«Quando è successo tutto ero al telefono con la collega di Rfi, stavo compilando i documenti», ha spiegato Massa, sentito subito dopo la strage come persona informata sui fatti. Gli interrogatori non sono ancora iniziati. Ma al di là delle singole posizioni da valutare, c’è altro. Dopo i blitz della finanza alla Si.gi.fer (la ditta di Borgo Vercelli in cui lavoravano le vittime) e negli uffici di Rfi, gli inquirenti cercano elementi di prova per dimostrare che la “prassi” di iniziare i lavori prima del rilascio dell’autorizzazione scritta non sarebbe stata, in generale, infrequente. Se la tesi verrà provata, rischieranno di essere indagate anche Rfi e Si.gi.fer come società.
Intanto, mentre i familiari delle vittime si preparano a costituirsi parti offese (come lo zio e il padre di Laganà), viene chiesta loro pazienza, dalla procura, per i tempi dei funerali. Non saranno imminenti: l’identificazione dei resti dei corpi e le analisi dei Dna richiedono tempo. I familiari hanno chiesto di vederli, quei resti. Sono stati, finora, dissuasi: la scena sarebbe troppo straziante per essere tollerata.
Estratto dell’articolo di Sarah Martinenghi per repubblica.it mercoledì 6 settembre 2023.
Il fischio del treno segna il momento della tragedia, poi la disperata frenata e il suono stridulo delle rotaie che si trascinano per almeno mezzo minuto. Trenta secondi per arrestare la corsa a oltre 100 chilometri orari del convoglio che, alle 23.47 di mercoledì scorso, è appena piombato e ha travolto i cinque operai al lavoro per rimpolpare la massicciata.
A circa trecento metri dal luogo dell’impatto, una telecamera di sicurezza riprende i treni che sfrecciano alla stazione di Brandizzo: il filmato ottenuto da Repubblica riprende quindi proprio il convoglio merci della strage. Si vede passare anche quello immediatamente precedente, solo quattro minuti prima.
E’ un treno in ritardo. La squadra di operai è già pronta a rimettersi di nuovo al lavoro sui binari. Nonostante la linea non sia ancora stata interrotta, e l’autorizzazione formale a procedere non sia quindi mai arrivata.
Il passaggio del convoglio potrebbe aver creato confusione ad Antonio Massa, il tecnico referente di Rfi che subito prima aveva saputo dalla dirigente movimentazione di dover attendere il passaggio di mezzi che non erano in orario e che sarebbero ancora dovuti transitare. E’ stato lui però, secondo quanto emerso dalle indagini, a dare il via libera ai lavori sui binari, violando così la procedura di sicurezza. […]
Estratto dell’articolo di Elisa Sola per “La Repubblica” il 7 Settembre 2023
«Quella notte ero lì. Venticinque minuti dopo che mi hanno detto al telefono «è successa una strage». Sono arrivato in stazione. Mi sono messo su quel binario. Ho visto tutto. E ho pianto». Le palpebre pesanti di chi non dorme da molte notti.
Gli occhiali che scivolano sul naso mentre lo sguardo va giù, in basso, per ricordare la notte che ha sconquassato la vita di cinque famiglie. E di un’azienda. La sua. Franco Sirianni, il manager della Si.gi.fer, la ditta di Borgo Vercelli dove erano assunti i cinque manutentori delle ferrovie travolti il 30 agosto dal treno, parla a voce bassa. […]
Signor Sirianni, era una prassi iniziare a lavorare sui binari senza autorizzazione?
«Ma no. Non è assolutamente una cosa normale. Per noi la sicurezza è sempre stata al primo posto. I ragazzi lo sapevano. Io non volevo nemmeno che usassero il cellulare durante i lavori, se no potevano distrarsi. Sono stufo di leggere certe cose che si scrivono di me. Che io non penso alle famiglie. Se sono il primo che è arrivato là…».
Cosa ricorda di quella notte?
«Stavo dormendo. Il mio direttore tecnico, Christian Geraci, mi ha chiamato due volte. La prima telefonata non l’ho sentita perché dormivo. Alla seconda ho risposto. Mi ha detto: “Qui è successa una strage”. Mi sono precipitato là. Quella scena non si può descrivere».
A cosa ha pensato?
«Pensato? Ho pianto. Non so nemmeno io come mi sento. Era un lavoro banale. C’era la scorta. Non capisco».
Conosceva tutti e i cinque gli operai?
«Alcuni di vista, altri di più. Kevin era arrivato da poco, il fratello lo conosco da più tempo. Con Giuseppe Lombardo abbiamo lavorato insieme nei cantieri per 25 anni. Anche io sono un ferroviere. La mia è una famiglia di ferrovieri».
E poi cosa è successo?
«Non trovavano i documenti degli operai, per ovvie ragioni. La polizia continuava a chiedermi i loro tesserini. Dopo 20 minuti ho parlato col fratello di Kevin. Poi la polizia mi ha bloccato e mi ha detto di non dire niente alle famiglie». […]
Qualcuno sostiene che gli operai non fossero qualificati per stare su quel binario.
«Non è così. Quei ragazzi avevano i titoli per lavorare, ho letto cose assurde. C’era Andrea Gibin, capo squadra da tanti anni, c’era Michael Zanera, saldatore qualificato. Hanno fatto i corsi per Rfi entrambi ed erano in regola».
E gli altri?
«Era tutto a posto. Per spalare nella massicciata comunque non serve un titolo speciale, lo può fare chiunque. E quello, comunque, era un lavoro semplice». […]
Ha visto il video in cui Kevin Laganà si riprende sul binario?
«Solo l’inizio. I primi minuti. Poi ho pianto e mi sono dovuto fermare. Riesco solo a piangere».
È stato detto che i manutentori devono lavorare in fretta, perché se si tarda si pagano penali. È così?
«Per me è uguale se i miei finiscono in due ore o in quattro il lavoro. Non cambia niente perché io li pago sempre otto ore a turno. Quella notte, se fosse passato un treno non previsto, bastava firmare un foglio, che ti dà Rfi, e scrivere che non c’era la possibilità di lavorare. Sarebbero stati tutti pagati lo stesso».
Su L’Espresso.
Brandizzo, così esternalizzazioni e subappalti aumentano i morti sul lavoro. Le vittime sui binari della Milano-Torino e i due compagni sopravvissuti pagano per un sistema che ha dimenticato puntualità e sicurezza. Ora la Procura di Ivrea valuta anche le responsabilità di Rfi. Con il rischio che finisca come negli incidenti di Viareggio e Pioltello. Gianfrancesco Turano su L'Espresso l'8 settembre 2023.
Il diavolo è nelle procedure. La strage di Brandizzo, con cinque morti che alzano la media nazionale dei tre decessi al giorno sul lavoro, illustra in modo tragico due universi paralleli. Da un lato, c’è la manualistica, stratificata nelle ere geologiche. È fatta di pezzi di carta, di sistemi di sicurezza elettronica Ermts, di cdb (circuiti di binario), di telefonate sulle linee interne Rfi, forse con carica a manovella come nel vecchio film di Totò Destinazione Piovarolo. Dall’altro, c’è la pratica che, per come è costruito il sistema delle manutenzioni, spesso sfugge alle raccomandazioni di sicurezza.
Rfi, la subholding del gruppo Fs incaricata della rete ferroviaria, fa ampio uso di subappalti e outsourcing. È il neoliberismo, bellezza. «Una volta», spiega un alto dirigente del gruppo pubblico, «c’erano le assunzioni a pioggia dei vari ras messi alla guida delle Fs. Si chiamava clientelismo ma almeno c’erano addetti sulla linea a evitare quello che è successo in Piemonte. Adesso si taglia il personale e si comprano sistemi elettronici da decine o centinaia di milioni di euro». Così si lavora a slalom, fra un treno e l’altro, perché il tassametro gira e il tempo stringe.
Il punto di caduta sono le best practices della Sigifer, la ditta dei lavoratori uccisi, e di molte altre aziende nella lista bianca dei fornitori di Rfi. Se si può iniziare il lavoro mezz’ora prima, perché no? Tanto si sa che i treni, salvo la parentesi mussoliniana, sono sempre in ritardo. Il risultato è una quantità di incidenti che, come raccontava un’inchiesta dell’Espresso dello scorso aprile, soltanto per caso non si trasformano in una strage.
Quando ci scappa il morto, o i morti, come a Viareggio nel giugno 2009, ad Andria nel luglio 2016, a Pioltello nel gennaio 2018, interviene la magistratura. A Brandizzo, all’indomani della strage, si è presentato anche il capo del Csm, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a dare un segnale chiaro a chi indaga. È presto per dire dove andrà l’inchiesta della Procura di Ivrea. Se i magistrati punteranno sull’incidente in sé, è probabile che l’elenco degli indagati sarà circoscritto. Se affronteranno anche i buchi delle procedure, si profila lo stesso schema di Viareggio e Pioltello o, per cambiare settore industriale, dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino, con sette morti nel dicembre 2007 e top manager a processo.
La questione non è di poco conto. Il gruppo Fs, soprattutto attraverso Rfi, ha un ruolo chiave nell’investimento dei fondi del Pnrr, oltre a essere la maggiore stazione appaltante d’Italia con un piano di investimenti da 190 miliardi di euro fino al 2031. Eventuali richieste di rinvio a giudizio azzopperebbero un vertice rinnovato dal governo quattro mesi fa con il metodo del cerchio e della botte: un nuovo ad a Rfi, Gianpiero Strisciuglio, e la conferma di Luigi Corradi a Trenitalia. La strage ha accresciuto i malumori interni verso la leadership “elettrica” che proviene, con l'ad della holding Luigi Ferraris in testa, da Enel-Terna. Chi è accantonato non è mai contento. Ma gli scopi di Fs dovrebbero essere puntualità e sicurezza. A Brandizzo sono mancate entrambe.
Su Il Domani.
Estratto dell’articolo di Nello Trocchia per “Domani” sabato 2 settembre 2023.
Una società con commesse anche in Albania, un responsabile che non risulta socio e neanche amministratore unico e una vecchia storia di una presunta estorsione che lo ha coinvolto anni fa. Emerge anche questo, due giorni dopo la tragedia di Brandizzo, sull’impresa per la quale lavoravano i cinque operai morti, travolti e fatti a pezzi da un treno in corsa nella stazione in provincia di Torino. […]
[…] Sui giornali a parlare a nome della Sigifer è Franco Sirianni che, però, non è socio e neanche amministratore unico della società, è il capostipite e ricopre il ruolo di direttore generale. «Non so cosa dire ora, è una tragedia: penso solo che ci sono cinque famiglie distrutte. Anche noi in azienda siamo senza parole, non abbiamo mai visto nulla del genere», ha detto poche ore dopo la strage.
La Sigifer è un’azienda storica nel settore, con sede a Borgo Vercelli, attiva nel ramo dell’armamento ferroviario dagli anni novanta, dal 2000 diventa società in nome collettivo con proprietari i fratelli, Franco e Giuseppe. Si trasforma in una srl nel 2016 quando soci diventano Tiziana Gazzignato, Simona e Daniele Sirianni con direttore generale il capostipite.
Consultando l’archivio della prefettura emerge che l’azienda è presente nella white list, l’elenco delle ditte sottoposte a vaglio dell’antimafia e risultate senza alcuna pendenza.
Nel passato di Franco Sirianni, però, c’è una bufera giudiziaria. Abbiamo chiamato in azienda e chiesto una replica ufficiale a Sirianni, ma ha deciso di non rispondere alle nostre domande e di non chiarire l’esito del procedimento. L’anno era il 2011 e i carabinieri del nucleo investigativo di Milano eseguivano diversi arresti in un’indagine per estorsione.
Tra i soggetti coinvolti anche Sirianni. Cosa era successo? Tre imprenditori, tra questi l’attuale direttore generale della Sigifer, avevano affidato denaro a un broker per aprire società di diritto estero. Le società inglesi e panamensi avevano ostacoli fiscali e non decollavano, la loro idea era quella di investire in autobus in Africa che sarebbero stati prodotti grazie all’esperienza industriale proprio di Sirianni, riportano le cronache dell’epoca, siamo nel 2011.
A un certo punto, però, i tre si erano convinti che il consulente li avesse truffati e così decidevano di contattare, tramite un autotrasportatore, due siciliani, uno nipote di un boss della mafia catanese. L’obiettivo era quello di riavere i soldi. I due ribaldi prima sequestravano il figlio del broker costringendolo a chiamare il padre che arrivato sul posto riceveva una richiesta estorsiva, la cifra iniziale maggiorata dal disturbo, richiesta che aumentava e diventava di dieci milioni quando sul posto giungevano due imprenditori, amici di Sirianni che non presenziava alla richiesta.
Il consulente denunciava gli estorsori che venivano arrestati pochi giorni dopo. Una storiaccia sulla quale nessuna informazione ha voluto fornire il direttore generale di Sigifer, contattato in azienda e tramite una pec.
L’azienda ha 96 dipendenti, il 70 per cento sono assunti a tempo indeterminato ed è impegnata in un appalto in Albania per «lavori di costruzione ferroviaria, lavori di manutenzione sistematica delle sovrastrutture ferroviarie», si legge sul bilancio dell’azienda, già attiva in passato in alcuni appalti in Venezuela.
Attraverso la società di diritto controllata ha lavorato per il «consorcio gruppo Contuy formato da Astaldi Spa, Ghella e Impregilo», si legge. Gli altri appalti sono in Italia con rete ferroviaria, in passato la realizzazione della nuova linea ferroviaria della stazione di Torino Porta Susa e oggi la manutenzione della linea Milano-Torino dove cinque operai sono stati travolti e uccisi da un treno.
Estratto dell’articolo di Nello Trocchia per editorialedomani.it il 3 settembre 2023.
Nel passato di Franco Sirianni c’è una pena patteggiata per estorsione aggravata a tre anni e otto mesi con interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Domani ha letto la sentenza a carico del direttore generale di Sigifer, l’azienda per la quale lavoravano i cinque operai morti travolti da un treno in corsa.
[…] Il passato del padrone di Sigifer, oggi direttore generale dell’azienda, getta un’ombra sinistra sul subappaltatore di rete ferroviaria italiana che non ha voluto parlare con noi e chiarire la vicenda. Sirianni è stato riabilitato dal tribunale di sorveglianza di Torino e, questo sottolinea la sua difesa, dentro quella storia inquietante ci sarebbe finito accidentalmente.
Prima di leggere le accuse e le evidenze raccolte dagli inquirenti che hanno portato, nel 2012, alla sentenza di patteggiamento, bisogna precisare che la Sigifer è presente nella white list della locale prefettura e che quindi […] aveva tutti i requisiti per eseguire quelle lavorazioni.
L’azienda ha 96 dipendenti, il 70 per cento sono assunti a tempo indeterminato ed è impegnata in un appalto in Albania per «lavori di costruzione ferroviaria, lavori di manutenzione sistematica delle sovrastrutture ferroviarie», si legge sul sito, già attiva in passato in alcuni appalti in Venezuela. […]
Gli altri appalti sono in Italia con rete ferroviaria, in passato la realizzazione della nuova linea ferroviaria della stazione di Torino Porta Susa e oggi la manutenzione della linea Milano-Torino dove cinque operai sono stati travolti e uccisi da un treno.
La Sigifer è un’azienda storica nel settore, con sede a Borgo Vercelli, attiva nel ramo dell’armamento ferroviario dagli anni novanta, dal 2000 diventa società in nome collettivo con proprietari i fratelli, Franco e Giuseppe. Si trasforma in una srl nel 2016 quando soci diventano Tiziana Gazzignato, Simona e Daniele Sirianni, proprio in quell’anno Sirianni non figura più nell’organigramma societario, ma diventa direttore generale.
Torniamo al 2011 quando il capostipite finiva, insieme con altri colleghi imprenditori, ai domiciliari con l’accusa di estorsione aggravata. Avevano affidato a un broker il compito di avviare alcune società di diritto estero, ma non decollavano per diversi ostacoli fiscali, […]
A un certo punto, però, i tre si erano convinti che il consulente li avesse truffati e così decidevano di contattare, tramite un autotrasportatore, due siciliani, uno nipote di un criminale catanese. L’obiettivo era quello di riavere i soldi. Sirianni, insieme agli altri soci, veniva definito mandante dell’attività criminosa che veniva svolta dai due criminali assoldati.
[…] I due soggetti assoldati dagli imprenditori bloccarono il figlio del broker con queste frasi: «Noi non ti abbiamo toccato prima perché ti abbiamo visto con tua mamma, noi le donne non le tocchiamo[…]».
Poco dopo arrivava il broker al quale i due criminali intimavano di versare 600 mila euro a loro e cinque milioni ai due imprenditori, non a Sirianni, per evitare brutte conseguenze «altrimenti ti facciamo male».
Da lì iniziava un incubo per le due vittime, padre e figlio, con pedinamenti, telefonate, minacce fino alla consegna di 120 mila euro nelle mani dei due criminali. La vicenda si concludeva con l’arresto dei tre imprenditori, anche Sirianni, che andavano ai domiciliari, dei due siciliani e dell’autotrasportatore che aveva fatto da tramite.
Il giudice fissava così il giudizio immediato e le difese degli imputati chiedevano il patteggiamento, concesso dalla procura di Milano, che precisava «possono concedersi agli imputati le circostanze attenuanti generiche, da ritenersi equivalenti alle contestate aggravanti, in ragione della propria pregressa incensuratezza, delle dichiarazioni sostanzialmente confessorie rese dai medesimi e delle offerte di riparazione pecuniaria poste in essere in favore della vittima da Sirianni, Naretto e Cerruti».
Strage di Brandizzo, indagati anche i vertici della Sigifer. Il Domani il 14 settembre 2023
Sale a sei il numero di persone sotto inchiesta, c’è anche il titolare Franco Sirianni e tre dirigenti. Per tutti ipotizzati l’omicidio plurimo e il disastro ferroviario colposo
Salgono a sei gli indagati dalla procura di Ivrea per la strage di Brandizzo, in cui sono morti cinque operai travolti dal treno sui binari mentre svolgevano lavori di manutenzione, nella notte tra il 30 e il 31 agosto, prima del via libera alle operazioni. Dopo i primi due indagati, sopravvissuti alla strage - il capocantiere Andrea Gibin Girardin e il tecnico Rfi Antonio Massa – è stato iscritto nel registro degli indagati Franco Sirianni, titolare della Sigifer, società di Borgo Vercelli per la quale lavoravano le vittime. Con lui altri tre dirigenti dell’azienda: si tratta di due familiari, Daniele e Simona Sirianni, nel board della società; e del direttore tecnico Christian Geraci. Indagata anche la società Sigifer come persona giuridica. Per tutti l’accusa è omicidio plurimo e disastro ferroviario colposi. Nel caso dei primi due indagati, invece, si ipotizza il dolo eventuale, che si verifica quando la condotta illecita avviene nella consapevolezza dei possibili rischi.
Nei giorni scorsi i magistrati hanno sentito numerosi colleghi degli operai morti. Scendere sui binari per le manutenzioni prima del blocco della linea sembrerebbe stata una prassi consolidata, come documenta anche il video registrato appena prima di morire dal 22enne Kevin Laganà, la più giovane delle vittime, in cui si sente il tecnico Rfi Massa dire agli operai “Ragazzi, se dico treno buttatevi da quella parte”.
Un ulteriore elemento in questo senso è costituito dalle telefonate della dirigente della manutenzione in servizio a Chivasso, Vincenza Repaci: per ben tre volte ripete a Massa che i lavori non possono ancora cominciare, «deve passare ancora un treno». Ma gli operai vengono comunque condotti sui binari per iniziare i lavori.
Su Il Giornale.
Treno regionale travolge e uccide 5 operai nel Torinese: sfrecciava a 160 km/h. Raffaello Binelli il 31 Agosto 2023 su Il Giornale.
L'incidente è avvenuto poco dopo la mezzanotte nei dintorni della stazione ferroviaria di Brandizzo. Altri due operai miracolosamente illesi
Gravissimo incidente ferroviario sulla linea Torino-Milano: a Brandizzo, a un km dalla stazione ferroviaria (direzione Torino), un treno regionale ha travolto e ucciso cinque operai. L'incidente è avvenuto poco prima della mezzanotte di ieri. Altri due operai sono stati solo sfiorati dal convoglio e fortunatamente rimasti illesi. Sotto choc il macchinista, che guidava con in cabina un secondo collega. Secondo i carabinieri, intervenuti sul posto, il convoglio carabinieri viaggiava a 160 chilometri all'ora. Gli operai stavano eseguendo dei lavori di sostituzione di alcuni metri di binari vicino alla stazione.
"Rfi esprime profondo dolore di fronte a quanto accaduto e porge il proprio cordoglio e la vicinanza ai familiari degli operai deceduti" si legge in una nota della Rete ferroviaria italiana (Rfi), in cui viene spiegato che "erano in corso interventi di manutenzione da parte di una ditta appaltatrice esterna" e che "un treno non in servizio commerciale ha investito alcuni operai. Cinque di loro - viene confermato - sono deceduti. La dinamica di quanto accaduto - viene precisato - è al vaglio delle autorità competenti e di Rete ferroviaria italiana".
Sul luogo del terribile incidente sono al lavoro la polizia ferroviaria e i carabinieri della vicina Chivasso, coordinati dalla Procura di Ivrea, per cui è presente la pm Giulia Nicodemi. Per i soccorsi si sono mobilitati ambulanze e vigili del fuoco. Il paese di Brandizzo, meno di 9.000 abitanti, fa parte della Città metropolitana di Torino, nella seconda cintura. Si tratta di un centro abitato di pianura nella zona nordest rispetto al capoluogo, distante quasi venti chilometri. La linea ferroviaria Torino-Milano, quella su cui è avvenuto l'incidente, taglia a metà il paese in senso orizzontale, mentre nella zona nord passa l'autostrada A4 Torino-Milano, insieme all'Alta velocità ferroviaria
Il montanaro e l'emigrato per trovare un lavoro. L'ultimo post per il padre del "cucciolo" Kevin. Le storie delle vittime. Il 22enne era il più giovane del gruppo: "Papà, ti amo". Andrea Cuomo l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
Il ragazzino, l'emigrato, il palestrato, il montanaro, il camionista. Cinque persone qualsiasi, ma le persone non sono mai qualsiasi. Cinque lavoratori che sono stati fatti a pezzi dal destino e da un treno. Non dovevano essere lì, o forse era il treno che è sopraggiunto con la fretta con cui arrivano le cattive notizie a non dover essere lì, su quei binari che i cinque operai, più altri due che si sono salvati per il capriccio del caso, dovevano sostituire. Storie comuni, le loro, e quindi avvincenti. Che non avrebbero meritato di finire così, nel buio di ferro e pietra di un mercoledì pronto a diventare giovedì.
Il ragazzino era Kevin Laganà, di anni ventidue, un baffo appena disegnato per sembrare più uomo, forse. Lavorava per la Sigifer da quando era maggiorenne, viveva a Vercelli con il fratello Antonino e con il papà Massimo, a cui voleva un bene da bimbo: «Papà ti amo», aveva scritto poche ore prima di morire, commentando una foto postata dall'uomo. Ieri sotto quella casa umile si è radunata una folla di amici che lo ricordano come si ricorda un angelo. «Era una persona solare, buona, indescrivibile - dice una vicina -. Era sempre pronto a farsi in quattro per gli altri». E certo si dice sempre così quanto qualcuno non c'è più ma stavolta sembra sia proprio così, maledetto treno.
L'emigrato era Saverio Giuseppe Lombardo, il più vecchio di tutti, ma a cinquantadue anni non si è mica vecchi, c'è tanto da fare ancora, accidenti. Si era trasferito da Marsala, contrada Matarocco, nel 2001 perché laggiù il lavoro mica c'era. E allora Vercelli, allora quella fabbrica che si occupa di armamento ferroviario. Lascia la moglie e un figlio a cui chissà come lo avranno detto, di papà.
Il palestrato era Michael Zanera, di anni trentaquattro, che aveva compiuto lo scorso 7 agosto nella sua Vercelli. Uno spirito inquieto, diceva di non sentire la sua età, come fossero chissà quanti, sentiva di voler migliorare la sua vita, chissà cosa stava passando ma non era di certo un bel periodo il suo a giudicare dai suoi post sui social. Si sfogava in palestra, curava il suo corpo come un tempio. «Un ragazzo in gamba, volenteroso, anche se sapeva che certe cose non andavano bene faceva finta di nulla, si sforzava e andava avanti sul lavoro», lo ricorda zio Marco Faraci.
Il montanaro era Giuseppe Sorvillo di anni quarantatré di Brandizze, viveva a poche centinaia di metri dal punto dove pianteranno la croce del suo ricordo. Montanaro, poi. Era originario di Capua, ma amava le passeggiate in alta quota con la moglie Daniela e i due figli Zoe e Nathan, quell'aria frizzante. Sognava di girare il mondo. Sognava.
Il camionista era Giuseppe Aversa, di anni quarantanove, nato e cresciuto a Chivasso, residente a Bord d'Ale, anche se il padre artigiano edile era di origine calabrese. Aveva guidato per anni i bestioni sulle autostrade, prima di decidere che voleva una villa più tranquilla, meno pericolosa, per stare vicino alla mamma Lidia e alla compagna Nicolinka. E ora? E ora?
Quella croce e il presagio del silenzio. In una foto pubblicata sui social da una delle vittime di Brandizzo si vede il metallo color rosso fuoco, come un pezzo di lava o come un cuore ardente e, sopra quel tizzone, due sottili fenditure bianche a forma di crocifisso. Daniele Abbiati l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
La nota dell'Agi è dell'1,32 di ieri: «I cinque operai che lavoravano sui binari alla stazione di Brandizzo, nel Torinese, sono stati investiti e uccisi da un treno regionale. L'episodio, avvenuto poco dopo mezzanotte, ha coinvolto altri due lavoratori, rimasti feriti». Il video, invece, era nato (per viverci in eterno) poche ore, forse pochi minuti prima, su TikTok. Sono 50 secondi, divisi in tre scene. Nella prima scena si vede la saldatura di un pezzo di rotaia, e sotto, con audio a palla, Nun me ne fott, cantata dai rapper David Guetta e Geolier.
La seconda scena, con sotto The Power of Love dei Frankie Goes to Hollywood, è una foto: si vede il metallo color rosso fuoco, come un pezzo di lava o come un cuore ardente e, sopra quel tizzone, due sottili fenditure bianche. A forma di croce, anzi proprio di crocifisso. Sotto la foto, la didascalia: «È la prima volta che mi succede. Mentre che saldo la rotaia mi è uscito un crocifisso Dio mi vuole dire qualcosa sicuramente nonostante lo richiamo tutti i giorni ultimamente perché non è un bel periodo per me». Nella terza scena si vedono macchinari, rotaie, blocchi di marmo, ma sotto nulla, nessun commento musicale, un silenzio assoluto.
Quel silenzio assoluto è la firma di Michael Zanera, 34 anni, una delle vittime del miliardesimo «incidente sul lavoro», formula burocratica che sta a significare «omicidio per mano di ignoti», travolto dal ghiaccio della premonizione, prima che da un treno che andava a 160 chilometri orari. Dopo la rimozione dei cadaveri, e dopo i rilievi dei tecnici, e dopo un po' di altre cose previste dal protocollo, Brandizzo, frammento della città metropolitana di Torino, per due, tre giorni, o magari per una settimana, sarà la capitale d'Italia. Ci arriverà un mucchio di gente in giacca e cravatta, o in tailleur, ma con i tacchi bassi, e come sottofondo ci sarà un brusio di commozione esibita, sempre prevista dal protocollo. Anche quelle scene saranno riprese e poi viste da milioni di persone, come l'opera (tale ora è diventata, perché anche l'arte si nutre di morte) di Michael Zanera, ma non su TikTok, bensì nei tg di ogni ordine e grado e soprattutto di share. Poi, silenzio, fino al prossimo «incidente sul lavoro».
I paletti per evitare la strage. Chi è la 25enne Enza Repaci. "Per tre volte ho detto no". Gli allarmi inascoltati della dirigente di movimento. Avrebbe spiegato al tecnico che stava per passare un treno in ritardo. Valeria Braghieri il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.
I suoi tre «no» pronunciati in sequenza e inascoltati fanno tanto venire in mente il «salga a bordo, cazzo» di Gregorio De Falco. Lui era nella Capitaneria di porto a Livorno la notte del disastro della Costa Concordia il 13 gennaio 2012 e si rivolgeva al capitano «fuggiasco» Francesco Schettino. Lei, Vincenza (detta Enza) Repaci la «dirigente di movimento» che era di turno alla sala controllo di Chivasso la sera del 30 agosto, quella della strage ferroviaria di Brandizzo, e parlava al telefono con Antonio Massa, il tecnico di Rfi deputato alla «scorta» del cantiere Sigifer, ora indagato insieme con il capocantiere Andrea Girardin Gibin. «L'ho detto per tre volte: i lavori non dovevano cominciare perché era previsto il passaggio di un treno». Le registrazioni confermano la versione fornita ai pm della Procura di Ivrea, dalla venticinquenne originaria della Val di Susa. Lunedì è stata ascoltata tutto il giorno ed è considerata la teste chiave dell'inchiesta sull'orrendo incidente che ha portato alla morte di cinque operai al lavoro sui binari. Con Antonio Massa la donna fu chiara e gli spiegò anche c'erano due fasce orarie per poter lavorare: dopo la mezzanotte e dopo l'una e mezza, quando era previsto il passaggio di un secondo convoglio.
«Deve passare un treno in ritardo», gli disse Enza in una prima conversazione. «Non potete farlo (i lavori, ndr) prima di mezzanotte», gli ripetè ancora in una seconda telefonata di richiesta di autorizzazione. E poi la terza, drammatica telefonata, in cui ai dubbi di Massa sul ritardo del convoglio merci in arrivo da Alessandria Repaci lo ferma ancora una volta: «Aspetta che chiedo». I ragazzi della Sigifer sono però già al lavoro sui binari. E a quel punto non c'è più il tempo di evitare la strage: il treno arriva ad alta velocità e travolge i cinque operai. Verosimilmente, in quel momento Massa è ancora al telefono con Enza. Che davanti agli inquirenti ricorda: «Ho sentito un colpo, come di una bomba. Poi è caduta la linea». A quel punto Repaci richiama Massa, che sotto choc si limita a rispondere: «Sono tutti morti».
Ora sotto choc è Enza che dopo l'incidente si mette in ferie, si allontana da tutto e stacca i telefoni per qualche giorno, fino alla convocazione in Procura di lunedì.
C'erano i genitori fuori ad attenderla, per le dieci interminabili ore passate da Enza davanti ai pm. È la madre a parlare e a esprimere orgoglio per quella figlia così attenta e determinata: «Sono stupita positivamente di come mia figlia abbia gestito la situazione quella notte». E al Corriere della Sera aggiunge: «Mia figlia non c'entra nulla con quello che è successo, lei ha fatto il suo lavoro. Noi non c'eravamo quando è avvenuto l'incidente. Ero preoccupata per la sua reazione, continuavo a chiedere a sua sorella come stesse, mi rispondeva che era tranquilla».
E tranquilla la descrivono anche i suoi colleghi come pure «appassionata del suo lavoro, scrupolosa, precisa. È arrivata qui a Chivasso dopo un periodo di formazione ad Alessandria e d è dirigente di movimento da un paio d'anni». Eppure sembra che i suoi avvertimenti siano stati ignorati, caduti nel vuoto prima di quel fragore senza ritorno.
"Se vi dico treno voi spostatevi". Ecco il video-choc che inchioda Massa. Il ragazzo fuma una sigaretta elettronica. Ha una felpa arancione, quella della sua azienda. Sorride, è di buon umore, non sa che sta per morire. Andrea Cuomo il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.
Il ragazzo fuma una sigaretta elettronica. Ha una felpa arancione, quella della sua azienda. Sorride, è di buon umore, non sa che sta per morire.
Lui è Kevin Laganà, 22 anni, il cucciolo della squadra di operai che stanno per essere spazzati via e fatti a pezzi dal treno di servizio Torino-Milano. È la sera del 30 agosto, il destino sta per dare le carte ma alla stazione di Brandizzo nessuno lo sa e ci si prepara in un'atmosfera rilassata a quella che appare una normalissima notte di lavoro sulla linea. Kevin registra un video che poi salverà su Instagram ma non farà in tempo a pubblicare. Il suo cellulare non c'è più, probabilmente è andato distrutto, ma un suo parente che possiede i suoi codici di accesso al social lo ha scovato e ora quei quattrocentootto secondi di immagini sporche e sghembe sono state acquisite dalla Procura di Ivrea che indaga sull'incidente in cui sono morti in cinque, Kevin, Giuseppe, Saverio, Michael e un altro Giuseppe e per il quale sono indagati Antonio Massa, 46 anni, la scorta degli operai per conto di Rfi, e Andrea Girardin Gibin, 52 anni, il capocantiere della Sigifer, l'azienda per cui lavoravano le vittime.
È sul primo che gravano le responsabilità più serie, che il video si incarica di appesantire. Nel filmato, agghiacciante nella sua semplicità, si intravede e soprattutto si sente Massa dare istruzioni raccogliticce agli operai: «Se dico treno!, spostatevi di là», con Kevin che risponde ironico: «Ho capito, scappiamo. Mi butto sulla cancellata...». È il fratello di Kevin, Antonio, anche lui dipendente della Sigifer, a riconoscere la voce di Massa in quelle parole che avvalorano il cosiddetto dolo eventuale, che scatta quando qualcuno mette in conto il rischio insito in una sua decisione. Sua e solo sua. Perché il dipendente di Rfi non aveva ricevuto l'autorizzazione all'avvio dei lavori e nel video si sente Kevin sottolinearlo, con un tono per la verità non molto allarmato: «Non abbiamo ancora l'interruzione». No, l'interruzione non c'era. L'ufficio movimento di Chivasso nel corso di alcune telefonate anch'esse acquisite dalla Procura eporediese, aveva negato il via libera che Massa sollecitava. E così aveva deciso di fare da sé, puntando tutto sulla sua capacità di accorgersi in tempo del sopraggiungere di un treno.
Una pratica che a Brandizzo è costata cinque vite ma che pare essere comune nei cantieri ferroviari. Dalle trascrizioni della deposizione di un ex operaio specializzato del Nucleo manutentivo di Rfi di Treviglio (Bergamo) nel processo milanese sul disastro ferroviario di Pioltello, dove il 25 gennaio 2018 il regionale Cremona-Milano Porta Garibaldi uscì dai binari a causa di un giunto in cattive condizioni e tre persone morirono e un centinaio rimasero ferite, c'è la spiegazione di quello che è successo anche a Brandizzo. «Io facevo la scorta - dice l'uomo nella sua deposizione del maggio scorso - quando arrivavano i treni dicevo alla squadra di uscire dal binario, guardavo i treni sia a destra che a sinistra, loro erano sul binario che intervenivano, io facevo la scorta. Se c'era il passaggio dei treni fischiavo e loro dovevano uscire fuori». Un modo per dribblare i treni senza attendere la fine del traffico sulla linea, per iniziare prima e finire prima, anche perché l'autorizzazione «non sempre ce la davano». Una roulette russa, novecentonovantanove volte va bene, poi c'è la volta che va male e qualcuno piange per sempre.
C'è anche un giallo sul filmato che ieri è stato mandato in onda nel Tg1 delle 13,30. Il video, estratto dalla memoria Instagram da Andrea Rubini - presidente della società ingaggiata dalla famiglia Laganà per il risarcimento - è stato depositato in procura da Enrico Calabrese, l'avvocato che assieme a Marco Bona segue i Laganà. Non si sa chi lo abbia fatto avere ai media. «Le immagini sono state divulgate a nostra totale insaputa nonché all'insaputa dei Laganà», sottolineano i legali. Un altro schiaffo, un altro treno che passa a tutta velocità sul dolore di una famiglia.
"Non abbiamo ancora l'interruzione". Così è stato recuperato il video choc di Brandizzo. Kevin Laganà aveva salvato sul suo profilo Instagram un video registrato pochi minuti prima che il treno spegnesse la sua vita e che ora diventa fondamentale nelle indagini. Francesca Galici il 5 Settembre 2023 su Il Giornale.
A dare l'imprimatur decisivo alle indagini sulla strage di Brandizzo potrebbe essere proprio una delle cinque vittime attraverso la memoria virtuale del suo account Instagram. Lui è Kevin Laganà, la più giovane delle vittime dello scontro con il convoglio della notte del 30 agosto. Una parente del ragazzo, infatti, era in possesso delle chiavi dei suoi account social ed è riuscita a entrare nell'account Instagram del giovane dove, tra le bozze dei post, era presente un video di circa 6 minuti, girato pochi minuti prima dello schianto.
Quei 6 minuti di registrato sono la prova che Antonio Massa sapeva di non avere l'autorizzazione all'apertura del cantiere. La parente che riesce a vederlo si rende conto che le immagini registrate da Kevin possono essere una pietra miliare nelle indagini e quindi si rivolge a ad Andrea Rubini, presidente della GesiGroup, società che si occupa di sinistri e risarcimenti danni. È a lui che la famiglia si è affidata ed è lui che si occupa di coordinare le operazioni di estrazione del video per averne una copia fisica, prima che questa vada persa.
In quel video, ci potrebbe essere la chiave per risolvere il caso e rispondere alle domande che gli inquirenti si sono posti in questi giorni che hanno fatto seguito alla tragedia. Il giovane operaio, infatti, si inquadra mentre fuma una sigaretta elettronica in una pausa dal lavoro, mentre i colleghi sistemavano la massicciata. Si sente una voce in sottofondo in quella breve clip: "Se vi dico treno, andate da quella parte". La persona che lo dice non viene inquadrata, si sente solo la voce in sottofondo ed è stato il fratello del giovane operaio a riconoscerla: è quella di Antonio Massa, il dipendente di Rfi che quella sera era incaricato di fare da "scorta" agli operai della ditta esterna. Doveva aspettare il nulla osta da Chivasso, che non è mai arrivato nelle tre telefonate che Massa ha fatto con il centro di controllo.
Eppure, il cantiere è stato aperto e Massa, come si evince del video di Laganà, ha rassicurato gli operai che sarebbe stato lui di guardia: "Ragazzi, se vi dico treno andate da quella parte". E si sente il giovane Kevin che replica: "Ho capito, scappare". Lo stesso Massa, nel video salvato dall'operaio, si sente fuori campo che dice: "Non abbiamo ancora l’interruzione". Solo dopo pochi minuti, il treno distruggerà per sempre la vita di Kevin ma non quella traccia video che potrebbe aiutare a fare giustizia.
Su Il Riformista.
La strage sui binari e il filmato che conferma l'assenza di autorizzazione. Brandizzo, l’ultimo video di Kevin, il “ti amo” al papà e il “testamento” che conferma la prassi dei lavori con “l’allarme umano”. Redazione su il Riformista il 6 Settembre 2023
Un video lasciato nelle bozze delle stories di Instagram, scovato da una parente e recuperato da una società che si occupa di sinistri e risarcimenti danni, a cui la famiglia Laganà si è affidata. E’ un vero e proprio “testamento” quello lasciato da Kevin, il più giovane dei cinque operai morti a Brandizzo dopo essere stati travolti da un treno la sera del 30 agosto scorso. Il 22enne durante i lavori tra le rotaie, non autorizzati, ride, scherza, fuma una sigaretta elettronica ma, allo stesso tempo, cristallizza che tutti, a partire da Antonio Massa, tecnico manutentore della Rete ferroviaria italiana, al caposquadra Andrea Gibin, l’unico sopravvissuto tra i sei operai a lavoro (non ce l’hanno fatta Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Saverio Giuseppe Lombardo, Giuseppe Aversa e Kevin Laganà), erano consapevoli dei rischi che correvano.
Un video consegnato agli avvocati Marco Bona ed Enrico Calabrese che lo hanno fatto avere alla Procura. Massa e Gibin sono adesso indagati dalla procura di Ivrea per omicidio plurimo e disastro ferroviario con dolo eventuale. “Il video? Si commenta da solo. Per me ha il valore di un testamento. È come se mio fratello abbia voluto farsi giustizia da sé”. Queste le parole di Antonino, fratello maggiore di Kevin, rilasciate in una intervista al Corriere della Sera. E’ stato proprio Antonino a riconoscere, nel video diffuso ieri, la voce di Massa che suggeriva agli operai “se vi dico treno, andate da quella parte. Va bene?“.
Per Antonino il video “Kevin lo ha lasciato come si può lasciare un’eredità: un filmato che non lascia dubbi e fa giustizia”. Immagini che sono state girate circa mezz’ora prima della tragedia, avvenuta alle 23.47, quando un treno in ritardo, annunciato tra l’altro dalla giovane funzionaria di Chivasso, la 25enne Enza Repaci, ha travolto a cento all’ora cinque dei sei operai che in quel momento effettuavano i lavori di sostituzione di alcuni pezzi di rotaie a Brandizzo. “Ha girato quelle immagini che gli mancava mezz’ora a morire, e quella stessa sera aveva mandato a mio padre il messaggio “ti amo”. Da una parte un testamento per far conoscere la verità, dall’altra un saluto per la persona che amava di più”. Kevin era stato assunto da poco più di due mesi nella Sigifer, la stessa azienda dove lavora anche il fratello Antonino.
Viveva con papà Massimo che ieri ha raccontato: “Sono sempre stato io la madre, il padre, l’amico dei miei figli. Anche prima che sua madre andasse con un altro uomo e ci abbandonasse. È successo quando aveva tre anni e suo fratello, il mio primo figlio, sei. Ma siamo stati benissimo lo stesso. Io faccio il muratore, lavoro nell’azienda di mio fratello e ho potuto gestire gli orari di lavoro e la vita crescendo i miei figli senza difficoltà”.
Quello che sta emergendo in questa prima settimana d’inchiesta è che aggirare i divieti per finire i lavori il prima possibile era e, probabilmente, è una prassi piuttosto consolidata. Secondo quanto riporta il Corsera, intere squadre si recavano sui binari, come da prassi, prima dell’orario consentito per la manutenzione notturna. Obiettivo: finire quanto prima i lavori. E la sicurezza veniva demandata ad una sorta di “allarme umano”. Ovvero, uno degli operai si occupava di monitorare l’arrivo dei treni: in caso di arrivo di un convoglio, gli altri operai venivano avvisati a voce.
Per ora è stato ascoltato Antonio Veneziano, ex collega delle cinque vittime, colui che è stato fra i primi a confermare questa prassi controversa. “Sì, è capitato più volte, andavamo sul binario per affrettare il lavoro”, ha dichiarato Veneziano ai microfoni del Tg1. Veneziano lunedì è stato sentito in Procura. Ed in Procura è stato ascoltato anche Antonino Laganà, fratello di Kevin. Come suo fratello, Antonino lavora nella Sigifer di Borgo Vercelli. Tuttavia, la sua audizione è stata rinviata a mercoledì.
Su L’Unità.
L'inchiesta e le indagini. Che cos’è successo a Brandizzo: le cause della strage ferroviaria, le ipotesi dell’incidente, la visita di Mattarella. Morti cinque operai impegnati nei lavori di manutenzione. La Procura ha aperto un fascicolo per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo. La nota di RFI: "I lavori – secondo procedura - sarebbero dovuti iniziare soltanto dopo il passaggio di quel treno" Redazione Web su L'Unità il 31 Agosto 2023
La Procura di Ivrea competente per il territorio ha aperto un fascicolo d’inchiesta per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo per la strage ferroviaria che si è verificata a Brandizzo, comune nella città metropolitana di Torino, dove la notte scorsa si è verificato un incidente che ha causato la morte di cinque operai sulla linea Milano-Torino. Il fascicolo al momento è a carico di ignoti. Gli investigatori dovranno scoprire come sia stato possibile che mentre gli operai erano sui binari per lavori di manutenzione, sia passato un treno. “Ci sono tanti aspetti da chiarire: evidentemente in quel momento non c’era un’interruzione della linea che avrebbe dovuto esserci. Bisognava accertarsi che i lavori si svolgessero nel momento in cui non passava un treno”, ha spiegato la Procura. A sorpresa, nel primo pomeriggio, si è recato sul posto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha deposto un mazzo di fiori per le vittime.
Gli investigatori hanno già sequestrato documenti e sentito diverse persone tra cui i macchinisti alla guida del treno. Il convoglio era composto da una motrice e undici vagoni. Gli operai sono morti sul colpo, trascinati per centinaia di metri. Si chiamavano Kevin Laganà, 22 anni, Michael Zanera, 34, e Giuseppe Saverio Lombardo, 52, nato a Marsala, tutti residenti a Vercelli; Giuseppe Sorbillo, 43, nato a Capua e residente a Brandizzo; Giuseppe Aversa, 49, di Chivasso. Due colleghi che si trovavano poco distante sono rimasti illesi, hanno evitato di un soffio il locomotore e si sono salvati. Lavoravano tutti per una ditta appaltatrice esterna, la Sigifer di Borgo Vercelli, leader nel settore, attiva dal 1993, con 250 dipendenti in tutta Europa e in Sudamerica. La Polfer ha accertato che la motrice addetta alla movimentazione dei vagoni stava viaggiando a 100 chilometri all’ora e non come emerso in un primo momento a 160 chilometri orari.
“È una tragedia. Non è da escludere che possa essersi trattato di un errore di comunicazione, in ogni caso servirà attendere l’esito delle indagini”, ha detto il sindaco di Brandizzo Paolo Bodoni. “Insieme allo sgomento e al profondo dolore per quanto accaduto e al cordoglio alle famiglie delle vittime espressi già la scorsa notte da RFI – si legge ancora – la stessa Rete Ferroviaria Italiana si è immediatamente attivata, insieme alle Autorità competenti, alle quali sta offrendo il più ampio supporto e collaborazione, per ricostruire la dinamica e le cause del tragico incidente di Brandizzo, nel quale hanno perso la vita cinque operai di una ditta esterna appaltatrice dei lavori”.
Si legge sul media ufficiale di Ferrovie dello Stato online, Fs News, la precisazione: “Per quanto riguarda la velocità del treno investitore, le condizioni della linea gli consentivano in quel tratto di raggiungere una velocità massima di 160 chilometri orari. La questione è altra: i lavori – secondo procedura – sarebbero dovuti iniziare soltanto dopo il passaggio di quel treno”. L’azienda spiega che sotto indagine è il rispetto della procedura di sicurezza vigente: “Infatti, questo genere di interventi di manutenzione, che nello specifico riguardavano il cosiddetto armamento (binari, traverse, massicciata), RFI le affida anche a imprese esterne qualificate e certificate, e si eseguono come previsto in assenza di circolazione dei treni. Il cantiere può essere attivato, quindi, soltanto dopo che il responsabile della squadra operativa del cantiere, in questo caso dell’Impresa, ha ricevuto il nulla osta formale ad operare, in esito all’interruzione concessa, da parte del personale abilitato di RFI”.
Alla stazione di Brandizzo si trovano normalmente segnali per la circolazione in entrata e telecamere. Gli accertamenti si stanno concentrando sull’esame dei documenti e dei fonogrammi, quei messaggi trasmessi via telefono e trascritti su moduli cartacei per permettere la verifica successiva. Acquisite anche le immagini registrate dalle telecamere di videosorveglianza che puntavano sul binario 1, quello dello schianto. Secondo i primi accertamenti della Polfer il passaggio della motrice e dei vagoni sarebbe stato previsto e autorizzato. Quando si devono eseguire lavori la linea in questione viene interrotta con un nulla osta.
Dal sito di Sigifer si legge che la certificazione relativa alla sicurezza sul lavoro sarebbe scaduta lo scorso 27 luglio. Il sito contiene i documenti relativi alle certificazioni di “qualità, rispetto ambientale, sicurezza sul lavoro” e si legge che “aggiorna costantemente i propri certificati, simbolo di qualità, eccellenza e sicurezza”. Sempre stando a quello che risulta dal sito una prima certificazione “UNI ISO 45001:2018” è la numero 29442 rilasciata da una società appartenente alla Cisq, e ha una ultima emissione il 28 luglio del 2020 e una scadenza il 27 luglio 2023. Un secondo certificato, il numero IT-119334, ha eguali date di ultima emissione e di scadenza. Le certificazioni aggiornate potrebbero non essere state ancora caricate online.
Il vice primo ministro e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini ha annunciato una commissione di inchiesta interna. “Non si può morire di notte lavorando sui binari, qualcosa non ha funzionato, c’è stato un errore umano”. I sindacati Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Ugl Ferrovieri, Orsa Ferrovie e Fast Confsal hanno annunciato uno sciopero degli addetti alla manutenzione Rfi in segno di lutto. Cgil, Cisl e Uil di Vercelli hanno proclamato uno sciopero territoriale di otto ore per la giornata di lunedì 4 settembre.
“Tutti quanti, abbiamo pensato come morire sul lavoro sia un oltraggio ai valori della convivenza”, aveva detto il Presidente della Repubblica in visita a Torre Pellice. “Ringrazio il sindaco di Torre Pellice per aver invitato tutti i presenti a un minuto di raccoglimento per il dolore per la morte dei cinque lavoratori di questa notte”. Ad accogliere Mattarella il sindaco di Brandizzo, Paolo Bodoni, il vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte, Gianluca Gavazza, la vicepresidente del Pd, Chiara Gribaudo, insieme al sindaco di Torino e della Città metropolitana, Stefano Lo Russo, e al presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio. Il sindaco di Torino e il governatore si erano reati sul luogo dell’incidente già stamattina.
Redazione Web 31 Agosto 2023
Le morti sul lavoro. Per quanti soldi si muore sul lavoro, l’ecatombe infinita e la Repubblica fondata sullo sfruttamento. Si dovrebbe affiggere un immenso manifesto in cui si leggano le buste paga di quelle vittime, in modo da capire per quanto denaro hanno corso giorno dopo giorno il rischio di perdere la vita. Alberto Cisterna su L'Unità il 2 Settembre 2023
Un fiume di sangue, lungo quanto una guerra. 450 croci popolano il cimitero della morti sul lavoro di questo 2023. Mancano mesi e non c’è alcuna speranza che l’ecatombe cessi, che il dolore per chi paga con la vita il diritto a un lavoro smetta di essere un tormento per chi sopravvive. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Le fondamenta stesse delle Istituzioni e della democrazia trovano legittimazione nel lavoro, nella sua dignità.
Non credo abbia senso comporre un gigantesco murales che metta insieme i 450 volti di chi non è tornato a casa dopo esserne uscito come ogni giorno per la necessità di un salario. I volti sfuggono, si dimenticano, sono tragicamente così simili, così normali come normali sono tutte le persone che ci circondano ogni giorno. Però una provocazione è pur sempre possibile. Un gesto eclatante e non scontato che forse, più di quei volti, si imprimerebbe nella memoria e nella coscienza di un popolo troppo distratto, troppo abituato a dimenticare e che, quasi freddamente, scorre da una tragedia a un’altra, da una croce appena piantata alla prossima.
Si dovrebbe affiggere, invece, un immenso manifesto in cui si leggano le buste paga di quelle vittime, in modo da capire per quanto denaro hanno corso giorno dopo giorno il rischio di perdere la vita, per quale salario ogni mattina hanno affrontato fatiche che l’insipienza di altri uomini (quasi sempre) o un destino tragico (quasi mai) hanno reso mortali. In un tempo in cui si parla confusamente e con scarsa attenzione di salario minimo, di imprese commissariate per paghe da fame, di sfruttamento sistematico per i lavori più umili è un imperativo sapere quanti denari vale l’esistenza di poveri cristi la cui vita sembra non importare davvero ad alcuno, se non lo spazio di qualche minuto in tv o di qualche pagina nei giornali.
Per quali salari si muore in Italia è una domanda che esige una risposta per ricordarlo a quanti si oppongono alla dignità della retribuzione e pensano che la Repubblica sia fondata sullo sfruttamento di chi fatica. La violazione delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, la spavalda negligenza di chi non rispetta le regole di prevenzione non è solo il frutto di delinquente incuria, ma è piuttosto il segno di un profondo disprezzo verso la dignità di chi – non avendo privilegi o rendite – deve quotidianamente affrontare la fatica e scampare spesso la morte. Alberto Cisterna 2 Settembre 2023
Le verità sul lavoro. Lavoro, basta con la retorica: in Italia c’è lo sfruttamento. Lo sfruttamento c’è sempre sul lavoro, sotto il salario minimo è super-sfruttamento. L’Italia è il paese europeo dove la parte del Pil costituita da stipendi e salari è la più bassa di tutte. Piero Sansonetti su L'Unità il 2 Settembre 2023
Non date retta: “il lavoro è dignità, il lavoro è serenità, il lavoro è la soluzione contro la povertà, il lavoro cementa la società”. Non date retta: non è vero. E quando usano l’articolo 1 della Costituzione per esaltare la gioia del lavoro vi stanno fregando. È pura retorica. Il lavoro non è gioia, non è serenità, il lavoro è fatica, sudore, sacrificio, talvolta il lavoro abbrutisce, il lavoro può anche essere povertà. Il lavoro spesso è malattia, ferite, mutilazioni, morte.
I dati dell’Inail sono parziali. E parlano di 600-700 mila incidenti sul lavoro al giorno, con morti e feriti. In realtà sono molti di più, perché di questo conteggio fanno parte solo i lavoratori regolari, assicurati con l’Inail. Poi ci sono altrettanti incidenti, e morti, che non vengono contati. Gli incidenti sono almeno un milione e mezzo. I morti forse 1500. State sicuri che tra i morti e i feriti difficilmente ci sono i manager, gli ingegneri, i notai. A loro succede raramente. Per una ragione molto semplice: non esiste “il” lavoro, esistono “i” lavori.
Mi sapete dire voi che cosa ha in comune il lavoro di un alto dirigente di una fabbrica meccanica, che vive in ufficio, o in aereo, o in albergo, o al ristorante stellato, e guadagna due o tre milioni di euro all’anno, e un operaio della sua stessa fabbrica, che sta al chiodo, che attacca la mattina alle sei, e che per guadagnare due o tre milioni ci mette all’incirca 150 o 200 anni? Speriamo che si salvino tutti e due, ma se venite a sapere che uno dei due ha avuto un incidente sul lavoro potete scommettere che è toccato all’operaio.
Quando diciamo lavoro, posto di lavoro, occupazione, di solito non immaginiamo il lavoro dei manager, né degli imprenditori grandi e medi, né dei proprietari terrieri, giusto? Parliamo degli operai, dei contadini che ancora esistono, dei rider, dei precari, dei muratori, dei camerieri, dei vigili urbani, degli autisti dell’autobus, dei lavoratori delle ferrovie, o dei piccoli autonomi, gli idraulici, i falegnami. Quanti sono in tutto? Alcuni milioni. 10, 15, 20 milioni. Più o meno uno su dieci, tra loro, l’anno prossimo subirà un incidente. E quasi tutti lo subiranno, grave o lieve, nei prossimi anni, prima della pensione.
Cosa producono questi lavoratori? La gran parte della ricchezza nazionale. E quanto, di questa ricchezza che producono, resta nelle loro tasche? Forse un decimo forse un quinto. Il resto va allo Stato, va a coprire l’evasione fiscale dei ricchi, o va agli imprenditori che usano e rivendono il prodotto che i lavoratori hanno realizzato. Questo 90, o 80 o 70 per cento, il vecchio Carlo Marx lo chiamava plusvalore. Vuol dire che il lavoratore produce per dieci e tiene per sé una piccola parte. Nel dizionario italiano tutto questo è riassunto con la parola “sfruttamento”. Ho sentito dire che molti ritengono che sotto il salario minimo c’è lo sfruttamento. Sotto i 9 euro l’ora.
Non è così: lo sfruttamento c’è sempre sul lavoro, sotto il salario minimo è super-sfruttamento. L’Italia è il paese europeo dove la parte del Pil costituita da stipendi e salari è la più bassa di tutte. Non solo dietro alla Francia e alla Germania, anni luce dietro la Francia e la Germania, ma dietro la Spagna, la Grecia e la media dei paesi europei. Avete sentito la retorica contro il reddito di cittadinanza? Dicono: “vorrebbero campare sul divano. Rifiutano la dignità del lavoro…”.
No, amici, sul divano ci campano alcune centinaia di migliaia di redditieri, di speculatori, di finanzieri, quelli del reddito non rifiutano la dignità, semplicemente pagano la disoccupazione o rifiutano l’indegnità di lavorare per sei euro o cinque all’ora. Il lavoro – abbiamo titolato ieri su queto giornale – è sfruttamento, è morte. Il Presidente Mattarella ha detto belle parole sull’incompatibilità tra morte sul lavoro e civiltà. Purtroppo Mattarella sbaglia: non solo non c’è incompatibilità, c’è interdipendenza. Noi viviamo in un sistema economico per il quale l’insicurezza e l’incidente sul lavoro sono il carburante. Fanno rifornimento di morti tre volte al giorno. Senza quel carburante si fermano. Piero Sansonetti 2 Settembre 2023
La strage degli operai. Chi sono i due indagati della strage di Brandizzo: i superstiti dell’incidente ferroviario salvi per un soffio. Sono un dipendente di Rfi e il capocantiere della Sigifer. Si sono salvati per un soffio. Il procuratore Vignoli: «L’evento poteva essere evitato se la procedura fosse stata eseguita regolarmente». Graziella Balestrieri su L'Unità il 2 Settembre 2023
Il giorno dopo la tragedia di Brandizzo, dove cinque operai hanno perso la vita falciati da un convoglio che viaggiava a 160 km orari, ci sono i primi indagati. Ad essere iscritti nel registro dalla Procura di Ivrea sono i due superstiti: Antonio Massa, 47 anni dipendente di Rfi, che aveva la mansione di fare da scorta al cantiere e che secondo le procedure doveva impedire che gli operai iniziassero i lavori. Massa si sarebbe salvato solo perché in quel momento si trovava un poco più distante dai binari dove sono stati travolti i cinque operai.
Il nome del secondo indagato è quello di Andrea Gibin Giradin, 52 anni, capo cantiere della ditta Sigifer, che si è salvato soltanto per miracolo, riuscendo ad intravedere i fari del convoglio e spostandosi sull’altro binario e che in questo momento secondo le dichiarazioni della cognata “è sotto choc e continua a ripetere i nomi dei suoi compagni”. Come ha confermato il procuratore Gabriella Viglione “dalle prime indagini emergono gravi violazioni della procedura di sicurezza per quanto attiene al momento immediatamente antecedente all’incidente ed è in merito a questo che vengono fuori già i profili di responsabilità. Al di là di questo gli accertamenti proseguono per verificare esattamente se e quanto possa essere considerata sicura la procedura complessiva, anche quella che stava a monte di questo momento. È evidente – ha proseguito- che quanto accaduto ha reso palese che il meccanismo di garanzia non era sufficiente a tutelare adeguatamente un lavoro così delicato in una sede così pericolosa come è la sede dei binari ferroviari”.
Il procuratore Gabriella Viglione non ha dubbi “l’evento poteva essere evitato se la procedura fosse stata eseguita regolarmente. Come è emersa la situazione relativa immediatamente precedente l’incidente è possibile ipotizzare una situazione che intravveda la possibilità di dolo eventuale, perché siamo davvero con violazioni molto importanti della procedura di sicurezza. L’attuale situazione ci porta a ritenere che non ci fosse l’autorizzazione a lavorare in quel momento e questo benché ci fosse personale proposto a verificare che l’autorizzazione ovviamente dovesse esserci”.
Nel frattempo, sono stati ascoltati come persone informate sui fatti, anche i due macchinisti Marcello Pugliese 52 anni e Francesco Giuffrè 29 anni, entrambi sul convoglio che ha investito i cinque operai. Nella mattinata di ieri intanto era salita l’indignazione anche da parte dei familiari di un’altra terribile tragedia, quella della ThyssenKrupp, dove morirono undici operai, ed è proprio Rosaria Demasi Plati, la mamma di Giuseppe, operaio della Thyssen morto a 26 anni dopo 24 giorni di agonia ad usare parole forti e che non lasciano via d’uscita sulla situazione degli operai in Italia, dopo l’ennesima tragedia “si lavora con superficialità, non c’è prevenzione, non c’è cultura della sicurezza in Italia e mai ci sarà. La gente – dice Demasi- non può morire in questo modo. Ci sono le regole, ma spesso non vengono applicate e la giustizia, se arriva, spesso arriva tardi”.
E non si erano fatte attendere nemmeno le reazioni e il monito della Chiesa per le condizioni dei lavoratori in Italia, attraverso le parole di mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, che si è detto profondamente turbato dalla tragedia di Brandizzo: “prego per i familiari delle vittime, vorrei che sapessero che il vescovo e la Chiesa torinese sono con loro, soffrono con loro in queste ore così dure e mi domando come sia possibile che incidenti sul lavoro, anche così gravi, continuino a ripetersi in Italia tutti i giorni senza che la sicurezza dei cantieri dia prova di miglioramento. La dignità dell’uomo e della sua vita viene prima, viene molto prima di ogni necessità materiale od economica. Per questo auspico che la politica e le imprese reagiscano con forza e pongano le condizioni perché non si ripetano tragedie di questo tipo”. Anche Papa Francesco (in viaggio in Mongolia) ha voluto essere accanto ai lavoratori: “gli incidenti sul lavoro sono una calamità e un’ingiustizia. Avvengono sempre per mancanza di cura. I lavoratori sono sacri”.
Graziella Balestrieri 2 Settembre 2023
La strage di Brandizzo e il coraggio di Rosalba, la mamma di Michael Zanera. Non me la sento di commentare le parole di Rosalba. Possiamo solo ringraziarla, senza polemiche, senza rinfacciare niente a nessuno.
Piero Sansonetti su L'Unità il 5 Settembre 2023
«Io non giudico nessuno, tantomeno lui. È un lavoratore, era lì per dare da mangiare ai suoi figli e immagino che oggi sia un uomo morto dentro. Non mi permetto di buttargli la croce addosso. Spero che si vorrà guardare a tutto il sistema della sicurezza, anche più in alto di lui. Spero che il sacrificio di mio figlio e degli altri almeno non sia stato invano, che le cose possano migliorare perché nessun altro muoia mai più come loro».
Queste parole nobilissime sono state pronunciate da Rosalba Faraci, 61 anni, madre di Michael Zanera, 37, una delle vittime della strage di Brandizzo. Le ha raccolte Giusy Fasano in una intervista bellissima che ha pubblicato sul Corriere della Sera. Michael era il figlio unico di Rosalba. Aveva perduto il padre qualche anno fa. È il ragazzo che mentre saldava una rotaia aveva prodotto una croce incandescente, l’aveva fotografata e si era spaventato. Non me la sento di commentare le parole di Rosalba. Sono troppo alte, troppo coraggiose. Sono il pensiero di una grande donna e di una vera intellettuale. Che sa pensare, sentire, capire, amare. Possiamo solo ringraziarla, senza polemiche, senza rinfacciare niente a nessuno.
Piero Sansonetti 5 Settembre 2023
“È come un testamento”. Strage di Brandizzo, il fratello di Kevin Laganà: “Con quel video si è fatto giustizia da solo”. Il fratello della vittima più giovane della strage di Brandizzo, anche lui saldatore per la stessa azienda. "Kevin lo ha lasciato come si può lasciare un’eredità: un filmato che non lascia dubbi e fa giustizia. Ha girato quelle immagini che gli mancava mezz’ora a morire, e quella stessa sera aveva mandato a mio padre il messaggio ‘ti amo’". Redazione Web su L'Unità il 6 Settembre 2023
Antonino Laganà è il fratello maggiore di Kevin Laganà, la vittima più giovane della strage di Brandizzo, dove un treno a travolto e ucciso cinque operai alle prese con lavori di manutenzione nella notte tra mercoledì 30 e giovedì 31 agosto. “Si commenta da solo. Per me ha il valore di un testamento. È come se mio fratello abbia voluto farsi giustizia da sé”, dice a proposito del video che da ieri è stato pubblicato sui media. Si vede il fratello che fuma, un uomo che dice: “Ragazzi se vi dico ‘treno’ andate da quella parte” e lo stesso Laganà che dopo commenta: “Non abbiamo ancora l’interruzione”. È l’ipotesi investigativa principale, che gli operai abbiano cominciato a lavorare sui binari prima di ricevere l’autorizzazione formale tramite modulo M40 che ufficializza lo stop ai treni in transito.
Anche Antonino Laganà lavora per la Si.gi.fer, è saldatore. Ha commentato a Il Corriere della Sera la pubblicazione del video che è finito tra gli atti acquisiti dalla Procura di Ivrea che indaga per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo. Due gli indagati al momento, i due superstiti della tragedia: Antonio Massa, il tecnico di Rete Ferroviaria Italiana (RFI) e addetto al cantiere in cui lavoravano gli operai e Andrea Girardin Gibin, capocantiere dell’azienda Si.gi.fer. “Kevin lo ha lasciato come si può lasciare un’eredità: un filmato che non lascia dubbi e fa giustizia. Ha girato quelle immagini che gli mancava mezz’ora a morire, e quella stessa sera aveva mandato a mio padre il messaggio ‘ti amo’. Da una parte un testamento per far conoscere la verità, dall’altra un saluto per la persona che amava di più”. Oggi risponderà in Procura, parlerà da testimone anche a proposito delle interruzioni dei treni sui binari e dei lavori di manutenzione. Redazione Web 6 Settembre 2023
Estratto dell’articolo di Elisa Sola per “La Repubblica” giovedì 26 ottobre 2023.
“Erano i miei ragazzi. Io li vedo ancora lì, su quel binario. Ogni giorno. Non riesco a togliermi quella scena dalla mente. Oggi non resisto più al suono di un treno che passa. Non riesco più a vederne uno. Nemmeno in tv. Perché la testa mi torna lì. A quel momento”.
Andrea Girardin Gibin esce dal cancello di casa con il suo bassotto. Ha i jeans, una felpa grigia e gli occhi azzurri che trattengono lacrime. Stringe a sé il guinzaglio rosa, mentre il cane guaisce tirando il padrone verso il centro del paese. Borgo Vercelli alle undici di mattina è un posto pieno di nebbia. Non c’è nessuno per la strada. […]
Andrea Girardin Gibin tira dritto. Da quasi due mesi è uno degli indagati dalla procura di Ivrea per il disastro ferroviario. Ha passato un mese chiuso in casa. Fa passi svelti nella foschia e si fa portare dal bassotto verso la chiesa.
Gibin, lei finora non ha mai parlato di questa tragedia. Come si sente?
“Non posso dire niente. Il mio avvocato ha detto che bisogna aspettare che finisca l’inchiesta. Io non sto bene. Vado dallo psicologo una volta a settimana. Quelli erano i miei ragazzi. Li conoscevo e volevo bene a tutti. Lavoravamo, ma andavamo anche a cena. Non è per niente facile andare avanti”.
Lei era con loro sul binario quando arrivò il treno che li travolse, ed è sopravvissuto. Si sente un miracolato?
"Sono vivo. Ma non so se sia fortuna o un miracolo. Ero a lavorare con loro. Ero rivolto verso il treno. Ho visto una luce e quando sono saltato fuori dalla ferrovia e mi sono girato, il treno stava ancora passando. Bastava un secondo in più ed ero morto”.
Quindi, si ritiene fortunato?
“Non so come definirmi. Cerco di dimenticare. Ma non ci riesco”.
Forse era destino che lei sopravvivesse alla strage.
“Se lo era, è un destino crudele, perché affrontare tutto questo è troppo dura. È solo da un paio di settimane che riesco a uscire di casa. Il dolore non passa. Non passerà mai. Purtroppo prima o poi dovrò fare l’abitudine. Ma la sofferenza, e quel ricordo, non andranno mai via”.
Che consigli le sta dando lo psichiatra per superare il trauma?
“Di non guardare la tv e non leggere i giornali. Poi prendo delle medicine”.
Molti operai della Sigifer la difendono. Questo la consola?
“La nostra era una squadra affiatata. E noi che eravamo sui binari facevamo quello che ci dicevano. Il nulla osta, da parte delle ferrovie, non è mai stata una cosa così fiscale. Quando ci davano il via, si cominciava a lavorare. Le carte potevano anche arrivare dopo. Si è sempre fatto così e ora tutti dicono che non si deve. A noi però non lo dicevano”.
Quindi, quando il tecnico di Rfi che era con voi a voce vi diceva “andate”, voi iniziavate?
“Esatto. Andava sempre così. Io con Massa (Antonio, il tecnico di Rfi indagato, ndr) non mi sono mai sentito in questi giorni. Ma la notte del fatto ha detto: “È colpa mia”. Purtroppo è vero. Noi come semplici operai non abbiamo il controllo della sicurezza nei cantieri.
Siamo nelle mani di questi signori. Ci danno l’ok e noi facciamo. Sono loro che ci dicono cosa c’è da fare e quando iniziare. E in questo caso è andata male. Non so cosa lui abbia intuito quella sera”. […]
Ha saputo altro di quella notte?
“Che la dirigente movimento aveva detto per tre volte a Massa che i lavori non sarebbero dovuti iniziare. Non so che cosa gli sia passato per la mente”. […]
Estratto dell’articolo di Pietro Tosca per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2023.
I vigili del fuoco intervenuti per i soccorsi raccontano la scena di un terremoto. Fuori, il capannone che ospita il magazzino di stagionatura di una delle più grandi aziende agricole della Bergamasca è intatto, ma varcata la soglia è un inferno: all’interno, tutto distrutto.
Le gigantesche scaffalature metalliche sono collassate con effetto dòmino trascinando al suolo 16.600 forme di Grana Padano. Centinaia di tonnellate di macerie sotto cui è finito il titolare dell’azienda Giacomo Chiapparini, 74 anni, che non ha avuto scampo. È successo a Romano di Lombardia domenica alle 21, a Cascina Clientela, dove ha sede l’impresa agricola che prende il nome da Chiapparini.
Partito nel 1977 con una piccola stalla […], l’imprenditore agricolo l’ha fatta crescere fino a diventare una realtà con 100 ettari coltivati e un allevamento da 2 mila bovini, di cui mille da latte. Il suo fiore all’occhiello è il caseificio che dal 2006 produce Grana Padano a chilometro zero.
Una vita di lavoro che non consente pause neanche a 74 anni. Così domenica, quando il robot automatizzato, che ha il compito di girare le forme di Grana, ha lanciato un segnale di allarme, è stato lui a recarsi con il figlio Tiziano a vedere cosa stesse succedendo in magazzino.
Un problema ordinario che l’anziano agricoltore ha risolto riprogrammando il macchinario. Il figlio è uscito […] e con alcuni operai si è messo a preparare le operazioni di raccolta del mais. Anche Giacomo Chiapparini si è avviato verso l’uscita quando è successo l’inimmaginabile: una scaffalatura all’improvviso è collassata, forse per un cedimento strutturale, trascinando giù le altre. Immediato l’allarme.
Sono arrivati per primi i vigili del fuoco di Romano, seguiti da squadre da Treviglio, Bergamo, Dalmine, Milano e Varese. Nel capannone i pompieri hanno trovato solo macerie. Per riuscire a individuare il 74enne sono stati chiamati i nuclei Usar (Urban search and rescue), specializzati in interventi in zone terremotate. Per tutta la notte 60 vigili del fuoco hanno «scavato» senza sosta e solo alle 8.40 di ieri è stato possibile raggiungere il corpo dell’agricoltore. Purtroppo, per lui non c’era più niente da fare.
[…] «Un lavoratore infaticabile, un agricoltore vecchio stampo ma di grande visione. Ha costruito tutto con le sue mani». Così lo ricorda Bortolo Ghislotti, presidente del Distretto agricolo Bassa bergamasca e amico di famiglia. […]
L'incidente nel Bergamasco. Travolto e ucciso da 15mila forme di Grana Padano, imprenditore agricolo muore schiacciato nella sua azienda. Redazione su L'Unità il 7 Agosto 2023
Ucciso perché travolto da circa 15mila forme di Grana Padano. È morto così un imprenditore agricolo di 75 anni, schiacciato sotto il peso del numero enorme di formaggi conservati in un capannone della sua azienda.
Giacomo Chiapparini era il proprietario dell’omonimo caseificio a Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo. Secondo una prima ricostruzione la morte dell’imprenditore sarebbe dovuta ad un incidente, forse un guasto al sistema che movimenta le stesse forme e che il titolare del caseificio stava utilizzando: dopo la caduta di un primo scaffale, alto fino al soffitto, ha causato un micidiale effetto domino e l’uomo è stato travolto senza avere scampo. All’interno del capannone, dove Chiapparini è entrato da solo intorno alle 21 di domenica sera: dentro vi erano dieci corridoi pieni di formaggio, ciascuno dei quali contiene 1.600 forme.
L’incidente è avvenuto nella serata di domenica: sul posto sono intervenuti una ventina di vigili del fuoco, giunti dal comando di Bergamo e dai distaccamenti di Romano di Lombardia, Treviglio e Dalmine, i carabinieri e i mezzi del 118. A dare l’allarme il figlio del 75enne imprenditore, allarmato dal fragore provocato dal crollo.
Il corpo di Chiapparini è stato ritrovato soltanto questa mattina dopo una notte di ricerche e lavoro, per rimuovere le forme di grana che lo avevano travolto nell’incidente.
Una dei figli dell’imprenditore, ricorda il Corriere, raccontò tempo addietro la storia dell’azienda di famiglia: “Siamo produttori di latte da sempre. Mio padre Giacomo, ultimo di 7 fratelli, ha lavorato per anni con il padre e due fratelli come mezzadro prima di mettersi in proprio, guadagnandosi, grazie al suo lavoro, la prima cascina e un po’ di terra. Nel 1977 si è diviso dai fratelli e con la sua quota di 26 capi bovini, un trattore, un escavatore, mezzo capannone e un po’ di terra, ha iniziato la sua avventura. Ha cominciato a costruire la prima stalla e a vendere la materia prima alle grandi aziende di trasformazione, Invernizzi, Kraft, riuscendo a farsi riconoscere anche i premi sulla qualità“. Redazione - 7 Agosto 2023
L'uomo era da solo all'interno del capannone. Crollano scaffali con 25mila forme di grana Padano, titolare travolto e schiacciato: ritrovato cadavere dopo ore di ricerche. Redazione su Il Riformista il 7 Agosto 2023
E’ stato ritrovato senza vita dopo una notte di ricerche l’imprenditore agricolo di 75 anni, Giacomo Chiapparini, travolto domenica sera da migliaia di forme di grana Padano in seguito al cedimento delle scaffalature avvenuto nell’omonimo caseificio di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo.
Un cedimento che ha provocato il crollo di ben 25mila forme di grana Padano. La caduta di un primo scaffale, alto fino al soffitto, ha causato un micidiale effetto domino e l’uomo, Giacomo Chiapparini, è stato travolto senza avere scampo. In quel momento, stava lavorando su un macchinario per lo spostamento delle forme.
Sul posto sono intervenuti una ventina di vigili del fuoco – giunti dal comando di Bergamo e dai distaccamenti di Romano di Lombardia, Treviglio e Dalmine -, i carabinieri e i mezzi del 118. Le ricerche dell’imprenditore sono andate avanti tutta la notte, con i soccorritori che hanno faticato non poco per rimuovere le forme di grana. In mattinata il drammatico epilogo con le possibilità di trovarlo vivo che erano quasi nulle sin da subito sia per il grosso quantitativo dei formaggi sia per peso degli stessi. Restano da capire le cause del cedimento degli scaffali, probabilmente dovute a un guasto al sistema che movimenta le stesse forme e che il titolare del caseificio stava utilizzando.
Ora i carabinieri e Ats Bergamo stanno cercando di capire cosa abbia causato il crollo a ‘effetto domino’ degli scaffali: in tutto sono cadute 25.000 forme in un’area di duemila metri quadrati. Ingenti anche i danni economici, ora al vaglio.
“Ogni giorno – si legge in un articolo dedicato all’azienda di Chiapparini sul sito Granapadano.it – in questo allevamento si mungono mediamente 270 quintali di latte per produrre 50 forme di Grana Padano per un totale di oltre 15 mila forme l’anno!”.
Mary Chiapparini, figlia di Giacomo, poi racconta “Siamo produttori di latte da sempre. Mio padre Giacomo, ultimo di 7 fratelli, ha lavorato per anni con il padre e due fratelli come mezzadro prima di mettersi in proprio, guadagnandosi, grazie al suo lavoro, la prima cascina e un po’ di terra. Nel 1977 si è diviso dai fratelli e con la sua quota di 26 capi bovini, un trattore, un escavatore, mezzo capannone e un po’ di terra, ha iniziato la sua avventura. Ha cominciato a costruire la prima stalla e a vendere la materia prima alle grandi aziende di trasformazione, Invernizzi, Kraft, riuscendo a farsi riconoscere anche i premi sulla qualità”.
Estratto dell'articolo di leggo.it venerdì 11 agosto 2023.
Una vita di lavoro quella di Giacomo Chiapparini, imprenditore agricolo di 74 anni, travolto domenica 6 agosto da quindicimila forme di Grana Padano in un magazzino della sua Cascina Clientela a Romano di Lombardia. Era un uomo senza sosta. Un uomo non facile.
E il giorno dei funerali, i figli hanno voluto far sapere a tutti quanto sia stato difficIle crescere con un genitori come lui. «Quante volte, papà, abbiamo sperato che rallentassi la tua corsa nella vita e quindi potesse rallentare anche la nostra, così da vedere cosa c’era fuori dal finestrino. Rallentando avresti potuto vederlo anche tu, capendo cosa c’era di importante oltre la tua attività». Comincia così la lettera, letta al funerale, scritta dai familiari dell’imprenditore agricolo.
Ultimo di sette figli, aveva lavorato prima come mezzadro insieme al padre e ai fratelli, poi nel 1977 si era messo in proprio con 26 bovini, una stalla e qualche macchinario agricolo, dopo che era arrivato a comprarsi una cascina tutta sua. […] negli anni si era espansa e la sua area aveva raggiunto i dieci ettari e quella di coltivazione i cento. […]
I familiari, in primis la figlia Mary e il figlio Tiziano, hanno scelto di salutare il genitore senza sconti: «Ci hai fatto crescere sempre sollecitati a dare il massimo, a fare sempre al meglio quello che sapevamo fare — si legge nella loro lettera — Ci hai forgiato alla vita, ai fatti pesanti della vita, e ne abbiamo avuti davvero tanti. Quanti scontri abbiamo avuto perché volevi sempre avere ragione tu e fare di testa tua. Ci dispiace che a noi figli tu non abbia mostrato l’amore attento e affettuoso come altri padri. Con i tuoi nipoti ti sei ammorbidito un po’ e così abbiamo capito che allo stesso modo amavi anche noi, ma sempre a modo tuo, nel tuo modo originale. Non hai mai puntato sul nostro lato sensibile perché lo faceva e lo fa la mamma. Hai puntato, invece, alla nostra tempra per prepararci alla vita».
«Ci hai lasciati — conclude la lettera della famiglia — con le rotelle attaccate alla bici, liberi di andare ma sempre con te che ci davi sicurezza. Sei sempre stato sopra le righe e sopra le righe è stata la tua uscita di scena».
A segnare la vita della famiglia Chiapparini fu la scomparsa vent’anni fa di Emanuele, il terzo figlio. «La tua fragorosa e rumorosa presenza è diventata una fragorosa e rumorosa assenza. Tu hai vissuto la vita che volevi, coltivando ambizioni che nessuno avrebbe mai immaginato e la tua famiglia ti ha dovuto seguire in questa corsa. Anche se iniziavi a sentire la stanchezza dell’età non ti sei mai risparmiato. Ora non so dove sei, ma sappiamo che a chi incontrerai, darai filo da torcere. Speriamo tu possa incontrare Emanuele e dirgli quanto lo amavi e quanto hai amato anche tutti noi».
[…]
Chiapparini è stato trovato morto dopo 11 ore di ricerche. E' rimasto schiacciato domenica sera da 15mila forme di Grana Padano (dal peso di circa 40 kg l'una) nella sua azienda agricola di Romano di Lombardia, alla Cascina Clientela di Via della Graffignana. Mentre stava lavorando al controllo della stagionatura, sarebbe stato travolto dalle forme per via di un cedimento della struttura […]
Cinque morti sul lavoro oggi in Italia, per uno era il primo giorno. Un 25enne vittima di un infortunio nel Milanese, indagini dei pm. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 maggio 2023.
La strage sul lavoro non si ferma - 1.500 morti l’anno scorso secondo dati prudenziali dei sindacati e centinaia già nei primi mesi del 2023 - e oggi si registra un nuovo pesantissimo tributo di sangue. Cinque lavoratori non faranno più ritorno a casa: tre sono deceduti in Lombardia, di cui uno al primo giorno in un’azienda e un altro padre di un bambino di 8 mesi, uno in Sardegna e il quinto in Calabria. Sconcerto e rabbia da parte dei sindacati: la Cub punta l’indice contro la precarietà e chiede controlli «veri» e l’istituzione del reato di 'omicidio sul lavoro', la Cgil pretende «interventi immediati e non solo parole: è una guerra continua».
Un giovane, di 25 anni, è morto oggi pomeriggio all’ospedale Niguarda di Milano dove risiedeva, per le ferite riportate stamani in un infortunio avvenuto alla Crocolux, un’azienda tessile che si occupa della produzione di accessori in pelle a Trezzano sul Naviglio in provincia del capoluogo. L’operaio era al suo primo giorno di lavoro ed è rimasto schiacciato sotto un pesante macchinario. Ha riportato un trauma cranico e toracico e ferite a una gamba e a un braccio rivelatesi fatali. Abdul Ruman, era originario del Bangladesh. La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo: ha disposto l’autopsia, il sequestro del macchinario, e indagini per appurare se il giovane aveva un regolare contratto.
A Bagolino, in provincia di Brescia, è rimasto ucciso un uomo di 33 anni. Secondo le prime ricostruzioni a travolgerlo non è stata la pianta che stava direttamente tagliando, mentre potava alcuni alberi in strada, ma una vicina danneggiata da anni dopo la tempesta Vaia del 2018. Era residente nel paese della Valsabbia, e lavorava per un’azienda locale. Sposato da poco, Daniele Salvini era padre di un bambino di otto mesi.
Una vittima anche in Sardegna: sempre stamani all’Ecocentro di Portoscuso, nel Sulcis, un uomo è caduto in un compattatore di rifiuti ed è deceduto all’istante. I medici del 118 sono intervenuti con un’ambulanza e l’Elisoccorso, ma non hanno potuto salvargli la vita. I carabinieri stanno ricostruendo l'esatta dinamica dell’incidente e accertando eventuali responsabilità. Quarta vittima a Rende, in provincia di Cosenza dove un uomo di 62 anni impegnato in alcuni lavori di tinteggiatura in un’azienda nella zona industriale si trovava su un ponteggio quando, per cause ancora in corso di accertamento, è precipitato nel vuoto da un’altezza di tre metri. E’ morto all’ospedale di Cosenza poco dopo il ricovero. Infine - quinto lavoratore - ha perso la vita un operaio di 60 anni, nel pomeriggio, dopo essere caduto da un’impalcatura all’interno di un cantiere edile a Macherio (Monza). Italiano e con lunga esperienza, residente a Cantù, ha perso l’equilibrio ed è caduto da un’altezza di circa due metri battendo a terra la nuca. E' deceduto durante il tragitto verso l’ospedale di Desio (Monza).
Vincenzo Greco, della segreteria Cgil Milano e responsabile sicurezza sul lavoro, sottolinea che «siamo di fronte a una tendenza che non si inverte e questo è un fatto drammatico. Bisogna far rispettare la legalità cioè rapporti lavoro contrattualizzati, le norme sulla sicurezza soprattutto sulla prevenzione e un sistema di controlli e sanzioni che non faccia passare l’idea di impunità». Durissimo il segretario nazionale della Cub, Walter Montagnoli: «E' una vergogna, governo dopo governo non cambia nulla: si istituisca il reato di omicidio sul lavoro e si chiudano le aziende, mantenendo il salario per i lavoratori, che non rispettano le leggi».
TRAGEDIA SUL LAVORO. Monopoli, due operai travolti e uccisi da un crollo in un cantiere edile. Vito Germano, di 64 anni, e Cosimo Lomele di 62, erano di Conversano. Lavoravano all’impianto fognario di un complesso edilizio in via Lagravinese. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 maggio 2023.
Due operai sono morti in un cantiere edile a Monopoli, nel sud Barese, travolti da un costone di roccia mentre stavano eseguendo uno scavo. Le vittime sono Vito Germano, di 64 anni, e Cosimo Lomele di 62.
Secondo una prima ricostruzione, i due operai si trovavano all’interno di uno dei vasti scavi per le condutture dell’impianto fognario di un nuovo complesso edilizio, in via Lagravinese, quando un costone roccioso si è staccato e li ha travolti. Inutile ogni tentativo di soccorso dei sanitari intervenuti. Sul posto per i rilievi sono intervenuti gli agenti del commissariato di Monopoli, i vigili del fuoco e il personale dello Spesal dell’Asl Bari.
Germano e Lomele erano entrambi originari di Conversano. Sul posto la polizia e i vigili del fuoco.
«Un’altra tragedia evitabile, l'ennesima, sul posto di lavoro. È notizia di pochi minuti fa la morte di due operai edili morti in un cantiere in via Lagravinese a Monopoli. Due lavoratori di 64 e 62 anni che perdono la vita mentre svolgono la loro occupazione, lasciando familiari e amici nella disperazione». E’ il commento del deputato del Pd, Marco Lacarra.
«Nel solo 2022 - aggiunge - 1090 persone sono morte sul lavoro in Italia, tre al giorno. Sono numeri drammatici che ci obbligano a riflessioni profonde per migliorare gli standard di sicurezza osservati soprattutto nei cantieri. La mia più sentita vicinanza ai familiari delle vittime, colpiti improvvisamente da una immane tragedia».
«Anche oggi siamo di fronte all’ennesima strage sul lavoro, due operai sono deceduti in un cantiere edile a Monopoli, nel sud Barese. Non è possibile tollerare tali stragi, considerando che solo nel 2022 sono state presentate all’Inail ben 1.090 denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale. Pertanto, come Ugl, chiediamo alle istituzioni nazionali e locali di intensificare i controlli sui posti di lavoro». Lo dichiarano in una nota congiunta Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, e Giuseppe Sanzò, segretario Ugl Puglia, dopo l’incidente sul lavoro in cui sono morti due operai.
«È fondamentale - aggiungono i sindacalisti - rafforzare la formazione e la cultura della sicurezza sul lavoro per prevenire simili eventi. Questa tragedia ci ricorda come la sicurezza sul lavoro sia una priorità assoluta, ancora lontana dall’essere garantita. In tal senso, occorre sollecitare le coscienze di tutti: bisogna fare di più per rendere i luoghi di lavoro posti sicuri, dove la vita sia tutelata al di sopra di ogni cosa. Il lavoro deve nobilitare, non uccidere».
UIL PUGLIA: OCCORRONO CONTROLLI
«Non possiamo più permettere che questo accada nel silenzio generale. Ci stiamo battendo da anni per mettere la sicurezza sui posti di lavoro al centro dell’agenda del governo, chiediamo più controlli, più ispettori e il rispetto delle norme in materia di sicurezza». Lo affermano in una nota congiunta Emanuele Ronzoni, segretario organizzativo nazionale Uil e commissario straordinario Uil Puglia; e Franco Pappolla, segretario generale Feneal Uil Puglia, commentando l'incidente sul lavoro avvenuto oggi in un cantiere edile a Monopoli, in provincia di Bari, a causa del quale due operai di 64 e 62 anni hanno perso la vita.
Altre «due vite spezzate. Parliamo di persone - aggiungono - che escono da casa per andare a lavorare e non tornano più». Dalla Uil vengono chieste misure «urgenti», fra le quali anche "l'estromissione dai bandi pubblici delle aziende che non rispettano gli standard di sicurezza e che non applicano i contratti nazionali sottoscritti dai sindacati più rappresentativi», e «l'istituzione di una orocura speciale in materia».
«Inoltre - concludono i sindacalisti - è urgente riaprire la discussione sui lavori usuranti: è inammissibile che due lavoratori di quell'età debbano essere costretti ad affrontare mansioni così gravose».
CISL, SERVE NUOVA CULTURA DELLA SICUREZZA
«I cantieri continuano a essere uno dei luoghi di lavoro più pericolosi, con un numero inaccettabile di incidenti, con decessi e infortuni che spesso provocano danni permanenti ai lavoratori. Non finiremo mai di ripetere che è necessaria una nuova cultura della sicurezza, con progetti ad hoc a partire dalle scuole». Lo dichiara Luigi Sideri, segretario generale Filca-Cisl Bari, commentando l’incidente sul lavoro avvenuto oggi in cantiere edile di Monopoli (Bari), a causa del quale due operai di 64 e 62 anni hanno perso la vita.
«Meno di un mese fa - aggiunge - abbiamo celebrato la giornata internazionale della sicurezza sul lavoro. In Italia muoiono in media tre lavoratori al giorno, in edilizia uno ogni 48 ore». Cisl Bari ha proposto da tempo «l'avvio di percorsi per garantire la legalità e la sicurezza in tutta la filiera delle costruzioni - dice - l’introduzione di nuove tecnologie applicate all’edilizia, per avere cantieri moderni e sicuri, comunicazione fra le banche dati dei sistemi pubblici, che non sono in rete».
«Ma per fermare questa scia di sangue - conclude - bisogna puntare sulla cultura della sicurezza, avviando una campagna preventiva nei cantieri temporanei e mobili e istituendo una nuova figura istituzionale che non abbia direttamente compiti repressivi, e che visiti i cantieri garantendo una presenza concreta e diffusa».
SINDACO MONOPOLI: GIORNATA DI PROFONDA TRISTEZZA
«Oggi è una giornata di profonda tristezza. Una giornata nera. L’unica cosa che mi sento di dire è la vicinanza mia e della comunità di Monopoli alle famiglie delle due vittime». E’ quanto ha dichiarato il sindaco di Monopoli Angelo Annese, in merito all’incidente sul lavoro che si è verificato questa mattina in un cantiere nello stesso comune in provincia di Bari, in cui hanno perso la vita due uomini di 64 e 62 anni originari di Conversano. Lo stesso primo cittadino a breve sarà sul luogo dell’incidente.
IL SINDACO DI CONVERSANO PROCLAMA IL LUTTO CITTADINO
«L'intera cittadinanza di Conversano è colpita e sconvolta davanti a questa tragedia», ha dichiarato Giuseppe Lovascio, sindaco di Conversano. Lovascio ha raggiunto il luogo dell’incidente. «Siamo vicini alle famiglie - afferma - e ho avuto modo già d’incontrare qualche familiare. Quello che è accaduto è una fatalità che ci deve sempre far riflettere su quello che è il tema della sicurezza sul lavoro».
Il sindaco ha annunciato che nel giorno dei funerali, che non sono stati ancora fissati, «sarà proclamato il lutto cittadino».
FILLEA E CGIL BARI, INVESTIRE IN SICUREZZA
«Serve investire massicciamente in sicurezza e legalità. Dalle ultime verifiche effettuate dall’ispettorato, dall’Inps e dall’Inail due aziende su tre risultano irregolari e il cantiere edile si conferma uno dei luoghi di lavoro più pericolosi». Lo dichiarano in una nota congiunta Ignazio Savino, segretario generale Fillea Bari e Puglia, e Gigia Bucci, segretaria generale Cgil Bari, commentando l’incidente sul lavoro avvenuto oggi in un cantiere edile di Monopoli (Bari), a causa del quale due operai di 64 e 62 anni hanno perso la vita. «Ancor più preoccupante è l’età delle vittime - proseguono - non è possibile registrare l'ennesima tragedia che riguarda operai over 60 che non dovrebbero più svolgere lavori usuranti e pericolosi mettendo così a rischio la propria vita nei cantieri edili». Fillea e Cgil chiedono quindi «l'introduzione nel Codice penale dell’aggravante di omicidio sul lavoro, per garantire la certezza di una pena, e misure come il sequestro patrimoniale, volte a riconoscere ai famigliari delle vittime almeno un giusto indennizzo». «Su questi punti insistiamo da tempo - proseguono - e oggi, che la ripresa del settore vede aprire migliaia di nuovi cantieri, urge un piano straordinario di assunzioni su tutti i livelli negli organi ispettivi per garantire regolarità e sicurezza nei luoghi di lavoro».
Condannati i vertici della Marina per un marinaio morto dopo un volo di 15 metri sulla nave Amerigo Vespucci. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Maggio 2023
La sentenza emessa nelle scorse ore dal giudice del tribunale di Civitavecchia, Vittoria Soldani, mentre l'accusa è stata sostenuta dal pubblico ministero Federica Materazzo, è arrivata ad undici anni dai fatti. Le condanne, con concessione del beneficio della sospensione, vanno da un minimo di un anno e due mesi e un massimo di un anno e 10 mesi.
Alessandro Nasta era precipitato da 15 metri di altezza, mentre il veliero si trovava a largo di Civitavecchia, dopo essere salpato da La Spezia. Il nocchiere della Marina, nocchiere brindisino che il 24 maggio 2012 perse la vita all’età di 29 anni, era caduto da un albero della nave, mentre era impegnato in una manovra alle vele, cadendo da un’altezza di circa 54 metri, battendo la testa sul ponte di coperta.
Il giovane marinaio brindisino venne trasportato in elicottero presso l’ospedale di Civitavecchia, dove morì poche ore dopo per le numerose fratture riportate. La tragedia si verificò mentre il veliero, partito dalla base navale di La Spezia, si trovava al largo di Civitavecchia.
La procura ha contestato ai vertici della Marina Militare di non aver adottato, all’epoca, dei sistemi di sicurezza per evitare che il Nasta cadesse nel vuoto. Sistemi che dovevano entrare in funzione prima, come conseguenza dell’applicazione obbligata della legge sulla sicurezza dei lavori in quota, del 2008. Imbracature che sono state impiegate sull’Amerigo Vespucci soltanto dopo la morte del giovane marinaio . L’accusa ha fatto pesare il dato che i militari del magnifico veliero, dopo la morte di Alessandro, sono stati dotati di sistemi di sicurezza che escludono la possibilità di caduta e che sono stati “comandati” di agganciarsi, obbligatoriamente, durante la salita e la discesa. Prima non era così. Non solo. Se prima esisteva soltanto un breve “indottrinamento”, vale a dire una spiegazione data dai più anziani su come arrampicarsi, dopo la morte di Alessandro Nasta sono stati fatti ai ragazzi dei corsi di formazione, con una parte teorica ed una parte pratica. La “salita a riva”, come viene chiamata la manovra, è stata inquadrata come condizione di “lavoro in quota”. Con precisi obblighi di protezione.
La sentenza emessa nelle scorse ore dal giudice del tribunale di Civitavecchia, Vittoria Soldani, mentre l’accusa è stata sostenuta dal pubblico ministero Federica Materazzo, è arrivata ad undici anni dai fatti. Le condanne, con concessione del beneficio della sospensione, vanno da un minimo di un anno e due mesi e un massimo di un anno e 10 mesi. È stata però disposta una provvisionale di euro ottantamila per i genitori del ragazzo, di quarantamila mila per la sorella.
I vertici della Marina militare sono stati condannati per omicidio colposo. Quattro ammiragli sono ritenuti responsabili della morte di Alessandro Nasta. La sentenza del tribunale penale di Civitavecchia ha riconosciuto la responsabilità dell’ammiraglio Domenico La Faia (allora comandante della nave Vespucci) al quale è stata inflitta una pena di un anno e 2 mesi, dell’ammiraglio Bruno Branciforte (ex capo di stato maggiore della Marina, un anno e 10 mesi), dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi (all’epoca capo della squadra navale poi divenuto capo di stato maggiore della Marina, un anno e 2 mesi) e l’ammiraglio dell’ex capo di stato maggiore Luigi Binelli Mantelli (un anno e 10 mesi).
“La sentenza è stata accolta con grande commozione da parte dei familiari in particolare dai genitori di Alessandro. Il padre e la madre hanno mostrato grande compostezza durante tutto il dibattimento e hanno avuto fiducia nella giustizia. Di loro ho ammirato la tenacia, non hanno perso un’udienza e hanno sempre portato con loro una foto del figlio che simbolicamente era accanto a loro per chiedere giustizia” spiega l’avvocato di parte civile Alessandra Guarini. Redazione CdG 1947
Cede una piattaforma mentre potano al golf club. Morti due operai, un ferito. Due operai morti e un terzo ferito gravemente a Opera, nel milanese, sono precipitati da una piattaforma aerea da circa 20 metri d'altezza e successivamente rimasti schiacciati dal cestello della gru. Redazione il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.
Due operai morti e un terzo ferito gravemente a Opera, nel milanese, sono precipitati da una piattaforma aerea da circa 20 metri d'altezza e successivamente rimasti schiacciati dal cestello della gru. L'incidente è avvenuto alle 9.55 al Golf Club Mirasole nella Frazione Noverasco di Opera, in via Carl Marx 16. Gli operai erano impegnati nei lavori di potatura di un grande pioppo i cui rami sovrastano il cortile della scuola primaria Fratelli Cervi. Due di loro sono morti sul colpo: Angelo Giovanni Zanin, 51 anni, e Dario Beira, 69 anni, mentre il terzo, 25 anni, è stato trasportato in elicottero all'ospedale milanese di Niguarda dove è entrato in codice rosso per traumi multipli. Sul posto sono intervenuti, oltre all'elisoccorso, 2 automediche, 3 ambulanze, i vigili del fuoco e la polizia locale.
La Procura di Milano ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo. Stando ad una prima ricostruzione la piattaforma è precipitata quando si è spezzata una parte del braccio meccanico che la sosteneva. Il fascicolo, anche per lesioni colpose, al momento a carico di ignoti, è stato aperto dal pm di turno Enrico Pavone, che disporrà a breve l'autopsia sui cadaveri e che ha già sequestrato il macchinario. L'indagine sarà, poi, affidata al pool guidato dall'aggiunto Tiziana Siciliano. Al momento è condotta dall'Ats (agenzia tutela salute), dai carabinieri, dalla polizia locale di Opera, dai vigili del fuoco e anche dalla squadra specializzata di polizia giudiziaria della Procura di Milano. Sarà disposta anche una consulenza tecnica sulla piattaforma per verificare le cause della rottura del braccio meccanico.
«L'ennesimo incidente mortale sul lavoro va ad allungare la lista di una strage infinita e quotidiana per contrastare la quale è assurdo che non si assumano le necessarie misure - ha dichiaratio la Flai Cgil nazionale - La sicurezza sul lavoro e il rispetto della vita devono essere una priorità del governo, che invece di avanzare fa passi indietro, se pensiamo alle novità sul nuovo codice degli appalti, e del sistema d'impresa, il cui unico faro è il profitto».
Travolto da una pila di bancali nella cella frigo. La tragedia di Antonio, morto sul lavoro a 22 anni davanti a mamma e fratello: le urla e il corpo recuperato dopo 2 ore. Redazione su Il Riformista il 12 Gennaio 2023
E’ morto schiacciato da una pila di bancali in una cella frigorifero dell’azienda dove lavorava, con il corpo che è stato recuperato da vigili del fuoco e carabinieri dopo circa due ore. E’ il dramma del giovane operaio Antonio Golino, 22enne di Marcianise (Caserta). L’ennesima morte bianca avvenuta questa mattina a Caivano, in provincia di Napoli, nell’area industriale di Pascarola. L’incidente è avvenuto nella “M&C“, azienda che affetta e confeziona prosciutti per i supermercati italiani, con Antonio che lavorava per una ditta che si occupa di imballaggio, trasporto e spedizione sulla quale sono in corso accertamenti per verificare se la proprietà fosse la stessa dell’azienda che produce prosciutti.
Azienda di insaccati dove lavorano anche la mamma e il fratello del 22enne che hanno sentito le urla del loro congiunto e allertato prontamente i soccorsi. Un dramma familiare avvenuto all’interno di una azienda che, stando a una prima ricostruzione dei carabinieri, rispettava tutte le norme di sicurezza. Antonio si trovava in una delle celle frigo, alta diversi metri ed estesa un centinaio di metri. Una stanza enorme dunque dove erano presenti decine di grossi bancali di platica con all’interno i salumi da confezionare.
Travolto da una pila di bancali, il corpo del 22enne è stato recuperato dopo ore perché non è stato facile rimuovere, uno a uno, tutti i bancali presenti. Le indagini dovranno adesso accertare se c’è stato qualche errore nel carico dei bancali e se fossero stati caricati di più rispetto al peso previsto. Dall’inizio del 2023 sono quattro le morti sul lavoro in attesa dei dati dell’Inail sul 2022 dove si contavano oltre mille morti bianche accertate.
Giuliano è morto di alternanza scuola-lavoro: nessun risarcimento per la famiglia. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 7 gennaio 2023.
I genitori di Giuliano de Seta non riceveranno alcun risarcimento dall’INAIL. Il ragazzo, 18 anni, è morto lo scorso 16 settembre all’interno della sede dell’azienda Bc Service di Noventa di Piave, dove svolgeva il percorso obbligatorio di alternanza scuola-lavoro (il cosiddetto PCTO). È rimasto schiacciato da una lastra d’acciaio di oltre una tonnellata, che lo ha ucciso nel giro di pochi minuti. L’INAIL ha riferito che, per via del fatto che il reddito familiare supera la soglia minima di legge – e non per l’inquadramento del ragazzo come stagista, come riferito in un primo momento da alcuni politici e media nazionali -, la famiglia non ha diritto ad alcun indennizzo. «Abbiamo riconosciuto l’infortunio mortale sul lavoro subito e questo sarà importante anche ai fini processuali. E anche gli altri aiuti previsti dalla legge sono stati erogati» riferisce la direttrice dell’INAIL del Veneto Enza Scarpa, alludendo all’assegno per le spese funerarie versato alla famiglia. «Del risarcimento non ci interessa» ha riferito il padre dello studente, «vogliamo solo sapere cosa è successo a nostro figlio».
Per la morte di Giuliano la procura di Venezia sta conducendo indagini su quattro persone, tra le quali l’amministratore unico dell’azienda Luca Brugnerotto e il responsabile di sicurezza della fabbrica Sandro Borin. Al vaglio dei magistrati vi sono due ipotesi di dinamiche su quanto accaduto quel 16 settembre: l’incidente probatorio è previsto per il prossimo 10 marzo. «Nessuno vuole attribuire la colpa a nessuno. Vogliamo solo sapere cosa è successo, perché al momento non riusciamo a darci una spiegazione. E non si può vivere con un punto interrogativo del genere» ha riferito il padre di Giuliano, Enzo de Seta, a la Repubblica.
Le proteste degli studenti che chiedevano l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro hanno infiammato l’autunno del 2022. Prima di Giuliano, infatti, Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, di 18 e 16 anni rispettivamente, avevano perso la vita nell’ambito del percorso obbligatorio di formazione in azienda. A più riprese e con ostinazione, gli studenti hanno denunciato le falle di un sistema del quale non intravedono l’utilità e che, come dimostrato, non reca sufficienti garanzie per i ragazzi. [di Valeria Casolaro]
A processo ci sono 4 indagati. Giuliano De Seta, la beffa per i genitori dello studente morto durante lo stage scuola-lavoro: l’Inail non li risarcirà. Redazione su Il Riformista il 5 Gennaio 2023
Per papà Enzo e mamma Antonella è l’ennesima beffa. I genitori di Giuliano De Seta, lo studente 18enne morto schiacciato il 16 settembre 2022 da un pesante blocco di metallo nell’azienda Bc Service di Noventa di Piave (Venezia), dove stava imparando un mestiere per vivere nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro, non verranno risarciti dall’Inail.
Lo studente veneziano di Ceggia, o per meglio dire i suoi genitori, non hanno diritto al risarcimento. Lo spiega oggi Il Gazzettino: Giuliano era infatti tecnicamente uno stagista e non un operaio della ditta.
Una posizione contrattuale che incide direttamente sul risarcimento: la norma lo prevede solo nel caso di stagista “capofamiglia”, non dunque il caso di Giuliano che vista l’età e la ‘professione’ di studente dipendeva economicamente dai genitori.
Quanto al processo, la prima udienza per stabilire eventuali responsabilità della BC Service inizierà il 10 marzo. Gli indagati per omicidio colposo, ricorda Repubblica, sono Anna Maria Zago, la dirigente scolastica dell’Itis da Vinci di Portogruaro che ha firmato lo stage di Giuliano, il titolare dell’azienda Luca Brugnerotto, Sandro Borin, responsabile della sicurezza, e infine il tutor Attilio Sguerzi.
Fondamentale sarà l’esito della perizia disposta dal gip ad un “superconsulente” per chiarire la dinamica della morte dello stagista: si tratta dell’ingegnere Franco Curtarello.
Da questi esami si capirà come e perché la lastra in metallo sia caduta dai cavalletti che la sorreggevano, uccidendo il giovane Giuliano. Ma restano da chiarire anche l’eventuale mancata sorveglianza dello studente, così come lo svolgimento di mansioni non idonee.
Un progetto, quello dell’alternanza scuola-lavoro, che già in passato ha ricevuto critiche feroci in occasioni di altre tragedie costate la vita a giovani studenti. Il 21 gennaio 20220 un altro giovane 18enne, Lorenzo Parelli, era morto nel suo ultimo giorno di stage alla Burimec, azienda meccanica di Lauzacco, in provincia di Udine, travolto una putrella.
Giuseppe Lenoci aveva invece 16 anni quando, un mese dopo, morì mentre si trovava a bordo di un furgone schiantatosi contro un albero. Anche lui stava facendo una stage nell’ambito del progetto alternanza scuola-lavoro.
Alti e Bassi.
Da today.it il 3 gennaio 2023.
Ha 29 anni ed è originario del Ghana l'uomo più alto del mondo. Il suo nome è Sulemana Abdul Samed, ma tutti lo chiamano "Awuche" che significa "Andiamo". La sua è la storia di un record, che nasce da una precisa condizione clinica che si chiama gigantismo, e che viene raccontata dalla Bbc. Il giornalista Favour Nunoo ha firmato un reportage raggiungendolo nel suo villaggio.
Un ospedale locale nel nord del Ghana ha detto al 29enne di aver raggiunto l'altezza di 9 piedi e 6 pollici - i nostri due metri e 89 centimetri - ma sono cosi tanti che la clinica rurale non poteva essere sicura della sua altezza perché non aveva gli strumenti di misurazione corretti. "Sei diventato più alto della bilancia", si è sentito dire Sulemana. Ed è scattata la "gara" a per trovare un modo di misurarlo. Alla fine si è scelto di usare un bastone come "prolunga" dei normali strumenti di misurazione.
Sulemana Abdul Samed è sempre stato alto ma la situazione è cambiata quando aveva 22 anni e si era trasferito nella capitale Accra per fare fortuna. Lavorava in una macelleria, risparmiando soldi per prendere lezioni di guida. Una mattina si è svegliato confuso: "Mi sono reso conto che la mia lingua si era espansa nella mia bocca al punto che non riuscivo a respirare bene", racconta. Si è rivolto a una farmacia locale, ma ha visto che la crescita proseguiva. Questo ha portato anche problemi fisici come la schiena con una curvatura anomala.
I medici hanno accertato che ha la sindrome di Marfan, una malattia genetica che colpisce i tessuti connettivi del corpo. La vita per una persona tanto alta non è facile. Ci sono problemi seri e altri su cui lui stesso scherza. Accetta senza problemi quando la gente si avvicina a lui, chiede foto. allo stesso modo non si crea problemi nell'indossare scarpe che un tuttofare locale ha realizzato per lui con pneumatici per auto inchiodati insieme. Diversa la situazione clinica.
Gli specialisti suggeriscono un intervento chirurgico al cervello per fermare la crescita, ma l'assicurazione sanitaria pubblica del Ghana non può coprire questo, fornendo solo cure di base. Anche le visite costano e lui è tornato nel suo villaggio natale sei anni fa e rinunciare ai suoi sogni di diventare un pilota. "Avevo intenzione di andare a scuola guida, ma anche quando sposto il sedile indietro, non riesco a tenere il volante... non posso allungare la gamba perché il mio ginocchio urta il volante". Vive con suo fratello e riesce a cavarsela dopo aver avviato una piccola impresa che vende crediti per telefoni cellulari.
Sulemana Abdul Samed sogna una famiglia: una moglie e dei figli. Però prima vuole concentrarsi sul sistemare la sua salute. La priorità è cercare di raccogliere fondi per la chirurgia plastica per affrontare un grave disturbo della pelle su una gamba, una caviglia e un piede causato dall'eccessiva crescita dell'arto. Spera nel futuro aiutato dalla famiglia d'origine e dalla fede: "È così che Allah ha scelto per me, sto bene. Non ho problemi con il modo in cui Dio mi ha creato".
Articolo di Mara Altman per The New York Times pubblicato da “la Stampa” il 4 gennaio 2023.
Essere di alta statura è un desiderio di superiorità assai diffuso che avrebbe dovuto essere mandato in pensione tanto tempo fa - e lo dico dall'alto dei miei 152 centimetri e mezzo. Accarezzare l'idea di essere alti aveva senso quando esserlo facilitava la sopravvivenza. In epoche molto remote, quando la necessità di difendersi si presentava ogni giorno, gli individui di alta statura potevano proteggere le loro famiglie e portare a casa un bel controfiletto di rinoceronte lanoso con maggiore facilità. Oggi, chi ha la forza di resistere seduto tutto il giorno a una scrivania in ufficio porta a casa la carne ben confezionata nella plastica.
È in corso un dibattito sull'altezza della popolazione e su quello che ciò implica ai fini della ricchezza e dell'equità di una nazione, ma a me interessa parlare di bassa statura a livello di singola persona. Il nostro successo come individui non dipende dal malmenare o meno persone o animali. Anche se così fosse, in un'epoca di armi e di droni essere di alta statura vorrebbe dire essere esposti di più.
In Size Matters (L'altezza conta, N.d.T.), il giornalista Stephen S. Hall narrò che nel XVIII secolo Federico Guglielmo I di Prussia pagava somme esorbitanti di denaro per reclutare soldati «giganti» provenienti da tutto il mondo, istituzionalizzando così «per la prima volta in una grande società post medievale la desiderabilità dell'altezza» e attribuendo valore tangibile ai centimetri della statura, valore che si è riverberato in epoca moderna.
L'eco di quei primi desideri e pregiudizi umani ha attecchito nella nostra mente come un motivetto molto orecchiabile, al punto che votiamo i candidati alti presumendo che siano leader migliori e spesso scegliamo come nostri partner persone alte senza che nessun altro elemento confermi che saranno coniugi migliori.
John Kenneth Galbraith, economista e diplomatico alto due metri e sette centimetri, ipotizzò che privilegiare l'alta statura fosse «uno dei pregiudizi più sfacciati e condonati della nostra società». Altri si spingono ancora oltre alla ricerca di qualche centimetro in più: sempre più persone sono disposte a spendere anche 150mila euro per sottoporsi a dolorosissimi interventi chirurgici di allungamento degli arti, e ci sono genitori che sottomettono i loro figli, per altro sani, a cure e terapie con l'ormone della crescita i cui effetti collaterali sono sconosciuti.
Lo dico perché da ragazzina sono stata una di loro. Quando ero preadolescente, per tre anni e mezzo mi sono iniettata somatotropina nella coscia, per volontà dei miei genitori che temevano che sarei stata diversa se fossi rimasta bassa. Capisco perché la pensassero così, tenuto conto di come sono trattati nella società gli individui bassi: pochi anni prima che nascessi, al secondo posto della classifica Billboard Hot 100 c'era una canzone la cui strofa ripeteva che «short people got no reason to live», chi è basso non ha motivo di vivere.
Oggi ho due figli gemelli che sono tra i bambini più bassi nella loro classe al kindergarten ma, invece di apprestarmi a sottoporli a trattamenti a causa di antiquati pregiudizi sociali, li lascerò essere quello che sono: bassini. Essere bassi, infatti, è meglio. Essere bassi è il futuro.
Parliamo favorevolmente di bassa statura soltanto ogni quattro anni, quando Simone Biles ci lascia sbalorditi facendo acrobazie in body. Questo ha fatto sì che passassero inosservati molti vantaggi di cui godono le persone basse. In media, le persone basse vivono più a lungo e tra loro l'incidenza dei casi di cancro è inferiore. Teoria vuole che ciò accada perché, avendo meno cellule, vi sono meno probabilità di sviluppare un cancro. Ci sto.
I bassi sono anche ambientalisti per natura, il che è quanto mai importantissimo in un mondo di otto miliardi di esseri umani. Thomas Samaras, che da 40 anni studia l'alta statura ed è noto in alcuni ambienti come il padrino del Shrink Think, una filosofia in buona parte sconosciuta per cui gli individui bassi sarebbero superiori, ha calcolato che se mantenessimo le nostre proporzioni, ma fossimo più bassi di appena il 10%, nella sola America risparmieremmo 87 milioni di tonnellate di cibo l'anno (per non parlare dei trilioni di galloni di acqua, dei quadrilioni di unità termiche britanniche e dei milioni di tonnellate di spazzatura). «Non voglio che gli alti si sentano in colpa» scrisse Samaras schiettamente, «ma questa è l'epoca giusta per essere bassi».
I genitori decantano sempre quanto i loro figli «svuotino il frigorifero in casa e fuori» e quanto crescano rapidamente i loro piedi subito dopo aver acquistato un nuovo paio di scarpe, come se fosse un motivo di vanto. I miei figli mangiano come criceti - stanno bene, sono in perfetta salute - e tenuto conto dei loro percentili risparmiamo soldi e cibo. Indossano lo stesso paio di scarpe per un anno intero. Crescere a vista d'occhio come un'erbaccia? No, grazie, preferisco crescere come un cactus.
Le persone di bassa statura non soltanto risparmiano risorse ma, poiché queste ultime si assottigliano a causa dell'aumento della popolazione terrestre e del riscaldamento globale, potrebbero anche essere gli individui più adatti a sopravvivere a lungo termine (e non solo perché più persone potrebbero entrare in una navicella spaziale, nel caso in cui fossimo costretti ad abbandonare questo pianeta che abbiamo mandato in malora). Nel suo libro Sapiens, Yuval Noah Harari parla di una popolazione di primitivi che popolò un'isola di nome Flores.
A causa dell'innalzamento del livello degli oceani, l'isola fu separata dal resto delle terre emerse. «Le prime persone a morire furono quelle di alta statura, che avevano bisogno di molto cibo» scrisse Harari. Dopo molte generazioni, gli uomini su quell'isola si trasformarono poco alla volta, arrivando a una statura di soli centosei centimetri. Potevano fare tutto quello che riuscivano a fare gli uomini di alta statura - costruire attrezzi, cacciare -, ma potevano anche sopravvivere quando i tempi si facevano duri.
Scegliendo un partner più basso, in teoria si contribuisce a salvare il pianeta riducendo le necessità delle generazioni successive. Abbassare i requisiti minimi di altezza quando si prende in considerazione l'idea di cercare un partner aggiornando il proprio profilo significa fare un passo in direzione di un pianeta più verde.
Nancy Blaker, ricercatrice che vive nei Paesi Bassi e che un tempo si è occupata di status sociale, ha detto che gli uomini bassi, contrariamente agli stereotipi, possono "compensare" la loro bassa statura sviluppando attributi positivi.
«Non è questione di essere aggressivi e cattivi» ha detto, «gli uomini bassi si comportano in modo strategico e arguto e questo significa anche essere prosociali». Secondo mio marito, alto un metro e settantatré, sarebbe stato più facile essere di alta statura che doversi sforzare di sviluppare la sua arguzia, ma io so che non ci saremmo sposati se non mi avessero fatto male le guance da quanto gli sorrisi durante il nostro primo appuntamento.
Il problema è che, in linea generale, nutriamo ancora l'illusione che "di più" voglia dire di maggior valore. Me lo spiegò Alberto Hayek, il mio ex endocrinologo del Rady Children's Hospital di San Diego. Quando contattai quel medico, oggi in pensione, gli chiesi perché i genitori di bambini che non avevano nessun problema sanitario volessero sottoporli alla cura con l'ormone della crescita. Mi rispose che la ricerca di una statura alta assumeva un significato particolare in una società capitalistica.
«Ogni cosa è grande» mi disse, «gli edifici, le aziende». (...) Un'altra endocrinologa, Adda Grimberg, direttrice scientifica del Growth Center del Children's Hospital di Filadelfia, ha detto che sebbene i pregiudizi sulla statura alta esistano, i genitori preoccupati commettono un errore a ritenere che essa sia di importanza fondamentale per il successo e il senso di appartenenza. (...) Concordo. Da persona bassa, ho scoperto che l'unica cosa che non riesco a fare è afferrare gli oggetti dagli scaffali alti. In fondo, però, questo non è un problema perché le persone alte amano allungarsi e dare una mano, e ciò li aiuta a dare ai loro arti fuori misura la sensazione di servire ancora a qualcosa.
In alcune regioni del mondo, si celebra la bassa statura. Arne Hendriks, relatore e artista alto un metro e novantacinque, usa le sue performance ed esibizioni per incoraggiare le persone ad accogliere favorevolmente alcuni centimetri di statura in meno. È arrivato al punto di ridurre l'apporto di latticini ai suoi figli e di limitare al massimo il consumo di zuccheri nel tentativo di moderarne la crescita, per salvarli dai malesseri di chi è alto. «È giunto il momento di smontare da cavallo» ha detto Hendriks.
«Non siate eccessivamente fiduciosi in voi stessi, voi alti, perché probabilmente morirete più giovani, avrete più problemi di salute e inquinerete maggiormente».
Il futuro che immagino io è diverso: voglio che i figli dei miei figli conoscano il valore della bassa statura. Voglio che si definiscano «piccolini» con «le gambe corte». E spero che, quando uno di loro griderà «io sono il più basso», l'altro piegherà le ginocchia rispondendo «no, sono io il più basso!».
Il Dna.
Dna, la rivoluzione: pronta la mappatura genetica per ciascun individuo. Grazie al pangenoma sarà possibile sequenziare il Dna di ciascun individuo per scoprire tutte le anomalie alla base delle malattie rare: ecco la "fotografia" dei ricercatori. Alessandro Ferro su Il Giornale l'11 Maggio 2023
Tabella dei contenuti
L'era del pangenoma
Aumentano le varianti
Cosa cambia adesso
È una novità che promette di rivoluzionare per sempre la ricerca genetica e la cura di malattie rare: il Dna di un individuo si può adesso analizzare e confrontare con tutti gli altri potendo cogliere anche le più piccole sfumature. Gli scienziati sono riusciti a "fotografare" varie sequenze genetiche scoprendone, così, le differenze.
L'era del pangenoma
Lo studio è stato pubblicato su Nature che parla di pangenoma umano, ossia l'insieme di tutti i geni contenuti in un clade. Da adesso in poi, quindi, sarà possibile avere diagnosi e cure molto più precise specialmente laddove la medicina non è ancora riuscita a vincere definitivamente una data malattia. Il contributo, anche da italiani, è raccolto all'interno dei volumi di una libreria che contiene 94 sequenze per tutti i 47 Dna delle etnie analizzate e confrontate finora. "La nuova tecnica ha permesso infatti di aggiungere una grandissima quantità di nuove lettere, con 119 milioni di nuove di paia di basi, e 1.115 mutazioni", hanno dichiarato i ricercatori del consorzio Human Pangenome Reference dell'Università della California a Santa Cruz.
Aumentano le varianti
Rispetto a quanto era stato fatto con il Dna negli anni Duemila, il confronto tra le sequenze delle diverse etnie ha già portato alla luce il 104% in più di varianti genetiche dando, in questo modo, un quadro nuovo e più completo. Lo studio parla anche italiano grazie ai ricercatori Andrea Guarracino e Vincenzo Colonna, entrambi lavoratori dell'Università del Tennessee ma anche con lo Human Technopole di Milano e con l'Istituto di Genetica e biofisica del Consiglio Nazionale delle Ricerche a Napoli. Per la prima volta in assoluto, poi, è stato scoperto un meccanismo secondo il quale alcune tipologie di cromosomi scambierebbero il loro materiale genetico all'origine dell'infertilità.
Cosa cambia adesso
"Diventerà più facile scoprire le varianti genetiche responsabili di tratti fisici e di interesse clinico e tutto questo, si spera, potrà portare a benefici per la salute di molte persone", spiegano da oltreoceano. "Diventa possibile percorrere un singolo cromosoma dall'inizio alla fine, trovando lungo la strada le indicazioni che permettono di scegliere vie diverse", ha dichiarato all'Ansa uno dei due ricercatori italiani. Tra le dichiarazioni più significative arriva anche quella di un'altra delle firme dello studio, Evan Eichler dell’Università di Washington. "Con il pangenoma possiamo vedere variazioni strutturali, finora molto difficili da capire e importanti sia per differenze fra individui o cause scatenanti di molte malattie".
Comprendere appieno le singole varianti genetiche potrà consentire, davvero, di scoprire il meccanismo di malattie rare e incurabili per trovare la soluzione più appropriata per vincere la battaglia aprendo prospettive impensabili. "Il progetto è molto agli inizi, ma – ha aggiunto Eichler - è già un modello per la comunità scientifica che studia il genoma: se si riesce a completare la sequenza genetica diventa possibile analizzare il genoma di un paziente all’interno di un quadro, una nuova cornice all’interno della quale cercare le variazioni legate alle malattie".
Il Dna compie 70 anni. La scoperta di Watson e Crick fu un colpo di genio o uno scippo? Anna Meldolesi e Chiara Lalli su Il Corriere della sera il 27 marzo 2023.
Il 25 aprile del 1953 usciva quello che può essere considerato l’articolo scientifico più famoso della biologia. James Watson, uno dei due Nobel scopritori (insieme a Francis Crick), sta finendo la sua vita come un emarginato dopo le dichiarazioni razziste sulla minore intelligenza dei neri
La prima fotografia della doppia elica del Dna, ottenuta con la tecnica della diffrazione ai raggi X dalla scienziata Rosalind Franklin nel 1953 . I futuri Nobel Watson e Crick la videro e «scipparono» la scoperta alla ricercatrice, sviluppando poi la loro teoria e usando le informazioni senza l’autorizzazione della Franklin
Questo doppio articolo, pubblicato su «7» in edicola il 24 marzo, fa parte della rubrica del magazine del Corriere «Due punti». Intesi come due punti di vista che qui troverete pubblicati online in sequenza: prima l’articolo di Anna Meldolesi, poi quello di Chiara Lalli. Buona lettura
di ANNA MELDOLESI
Settanta anni dopo l’articolo pubblicato su Nature da Watson e Crick si discute ancora dei meriti (scientifici) e demeriti (umani) dei protagonisti, che hanno visto e usato i dati della cristallografa Rosalind Franklin senza il suo permesso. Usi e abusi nel frattempo ne hanno inflazionato l’immagine, ma la molecola della vita resterà immortale come Monna Lisa L’anniversario di platino della doppia elica cade tra un mese. Il 25 aprile del 1953, infatti, la struttura del DNA veniva descritta su Nature dai futuri premi Nobel James Watson e Francis Crick in quello che può essere considerato l’articolo scientifico più famoso della biologia e forse della scienza intera. A seconda di chi racconta la storia, Watson e Crick vestono i panni degli eroi geniali oppure dei ladri di dati, con varie sfumature intermedie. La verità storica, per come emerge dagli ultimi sforzi di ricostruzione (ad opera di Matthew Cobb e Nathaniel Comfort), è più complicata. Non c’è dubbio che i due scienziati ebbero modo di vedere la celebre “foto 51” scattata da Rosalind Franklin e usarono quelle informazioni senza l’autorizzazione della diretta interessata. E non è vero che lei fosse lontana mille miglia dalla soluzione.
BIO-ETICA DOMANDE & RISPOSTE - OGNI DUE SETTIMANE CHIARA LALLI E ANNA MELDOLESI SCRIVONO DI UN ARGOMENTO TRA FILOSOFIA MORALE E SCIENZA, TRA DIRITTI E RICERCA. DUE PUNTI DI VISTA DIVERSI PER DISCIPLINA MA AFFINI PER METODO
Se i due uomini arrivarono alla conclusione giusta prima della cristallografa, probabilmente, è perché lei era più interessata a perfezionare i cristalli di DNA che a svelare la struttura della molecola, mentre loro due hanno avuto la fortuna di incontrarsi e completarsi. Stimolandosi e bilanciandosi a vicenda hanno capito che il segreto della vita, il meccanismo dell’ereditarietà, è racchiuso in una struttura elicoidale che può aprirsi, offrire i suoi filamenti come stampo da copiare e poi riavvolgersi, grazie a semplici regole di appaiamento. Poi quell’immagine ce la siamo ritrovata dappertutto: come ha scritto una volta Nature , è diventata la Monna Lisa della scienza. Dunque sì, Watson e Crick si sono meritati il Nobel, e un tragico destino ha voluto che Franklin morisse prima dell’assegnazione (in caso contrario avrebbero premiato anche lei? Dubitare è lecito, vista la penuria di donne onorate a Stoccolma).
«WATSON IN DISGRAZIA PERCHE’ RAZZISTA E ANTISEMITA: ABBIAMO DECIFRATO IL GENOMA MA CI RESTA ANCORA DA DECIFRARE LUI»
Comunque è un vero peccato che Franklin, dal momento in cui è diventata un’icona delle rivendicazioni femminili nel mondo della scienza, sia ricordata quasi più come una vittima del sessismo che come la brillante scienziata che era, autrice di contributi importanti in tanti campi, dal carbone ai virus. L’altro grande dispiacere riguarda la figura di Watson, che sta finendo la sua vita come un emarginato. Vive nel campus di Cold Spring Harbor, ma il suo ritratto è stato rimosso dalle pareti del tempio della genetica e lui non è ammesso ai simposi. A un certo punto, a partire dal 2007, non è stato più possibile fingere di ignorare le sue dichiarazioni antiscientifiche e razziste sulla minore intelligenza dei neri ed è caduto in disgrazia. Insomma abbiamo decifrato il genoma umano, grazie allo Human Genome Project il cui primo direttore è stato proprio Watson, ma ci resta ancora da decifrare lui, pensatore audace nel bene e spericolato nel male.
«LA CARRIERA DI ROSALIND FRANKLIN, BRILLANTE SCIENZIATA, RESTÒ LEGATA SOLO A QUELLA INGIUSTIZIA SUBITA DA UNO SCIENZIATO CHE SI COMPORTÒ DA CRETINO ASSOLUTO. E QUESTO NON È GIUSTO»
di CHIARA LALLI
È la sera del 10 dicembre 1962, siamo a Stoccolma e un giovane biologo sale sul palco. «Senza l’aiuto di Maurice e di Francis niente di tutto questo sarebbe potuto accadere». È James Watson, fino a quel momento uno scienziato tra i tanti a Cambridge e da quella sera un nome che quasi tutti conoscono anche senza capire bene cosa diavolo sia il DNA e come funziona. Quella sera è lì a ritirare il premio Nobel per la fisiologia o la medicina insieme a Francis Crick e a Maurice Wilkins — di cui invece nessuno si ricorda perché la scoperta è associata a Watson & Crick, detto così, quasi fosse una unica entità. È il secondo momento più bello della sua vita, dice Watson, dopo la scoperta della struttura del DNA. Nel suo discorso di ringraziamento ci sono anche Sir William Henry Bragg e il figlio William Lawrence, fisici e cristallografi che avevano vinto il Nobel nel 1915 per la cristallografia a raggi X, e Niels Bohr, vincitore 7 anni più tardi per gli studi sulla struttura degli atomi e sulle radiazioni che emanano.
WATSON A STOCCOLMA “DIMENTICÒ” DI CITARE ROSALIND FRANKLIN DOPO AVER USATO LA SUA FOTO SENZA PERMESSO: PIÙ CODA DI PAGLIA CHE SMEMORATEZZA LA SUA
La scienza, dice Watson, è il risultato dell’impegno e del lavoro di tante persone, delle loro intuizioni e delle ore passate a fare ipotesi e a ripetere esperimenti, ad accorgersi di un particolare e a osservare. Però dimentica Rosalind Franklin e Raymond Gosling, il dottorando di ricerca che lavorava con lei e che aveva scattato la celebre “foto 51”. E tutti noi dimentichiamo Wilkins - siamo certamente meno in difetto di Watson che omette i due dopo aver usato la foto senza permesso, più coda di paglia che smemoratezza la sua. Insomma, la scienza è anche il risultato delle nostre dimenticanze alle quali sarebbe bene provare a rimediare. Cominciando con il terzo uomo della doppia elica (così si intitola l’autobiografia di Wilkins) e poi con Franklin e Gosling.
«DOBBIAMO LEGGERE FRANKLIN E NON IL LIBRO DI WATSON CHE INCLUDEVA UN RITRATTO DI LEI INVENTATO, PUBBLICATO QUANDO LEI ERA MORTA E NON POTEVA DIFENDERSI»
Gli anniversari possono servire anche a questo. Invece di vuote ricorrenze, potrebbero essere una occasione per raccontare i meno famosi e i meno ricordati, per sollevare qualche dubbio sulla insensatezza del limite dei 3 alla assegnazione dei Nobel. Ma soprattutto per aggiustare la riduzione della vita di Franklin a quella ingiustizia subita. Finché la dimenticanza è il risultato di una distrazione e della pigrizia è, almeno in parte, giustificabile. Ma se continuiamo a perdere tempo dietro alle sciocchezze di Watson (prima tra tutte, la descrizione di Franklin come Rosy nel libro che Watson scrive sul DNA: Rosy, ma come ti viene in mente, ma chi ti dà questa confidenza? E che imbarazzo visto che Franklin è morta e non può difendersi da quel ritratto inventato) invece di leggere Franklin non ci lamentiamo. Si può essere grandi scienziati e cretini assoluti, non è poi una scoperta così rivoluzionaria.
La doppia elica della vita. Il Dna compie 70 anni. Redazione su L’Identità il 28 Febbraio 2023
di GINO ZACCARI
Una doppia elica di legami proteici, un codice lunghissimo di informazioni organiche all’interno del quale è codificato tutto ciò che serve per “costruire” un essere vivente, unico ed irripetibile, diverso da tutti tra miliardi di simili. È questo e molto altro che il 28 febbraio 1953 due ricercatori, il biologo americano James Dewey Watson e il fisico britannico Francis Crick, entrando nel pub che frequentavano, annunciarono di aver scoperto. I due non erano i soli responsabili della grande vittoria, l’altro ricercatore riconosciuto ufficialmente tra gli scopritori della struttura a elica è Maurice Wilkins, del King’s College di Londra, impegnato anche lui da diverso tempo nell’analisi del Dna. Ma qui entra in gioco anche un altro personaggio, la chimica e cristallografa Rosalind Franklin, che fu di fatto l’anello di congiunzione tra Wilkins e i due giovani scienziati di Cambridge. Inoltre la Franklin fu quella che riuscì a scattare ai raggi X la foto che dimostrava la forma elicoidale del Dna, fotografia che si rivelò determinante nell’elaborazione dei modelli che oggi conosciamo. La sua figura però fu completamente emarginata dagli altri.
Nel 1962, per Watson, Crick e Wilkins arrivò il riconoscimento più alto del mondo accademico con il conferimento del premio Nobel, dal quale fu appunto esclusa Rosalind Franklin, la quale nel 1958 era morta di cancro, probabilmente a seguito dell’eccessiva esposizione ai raggi X senza adeguata protezione.
L’esclusione della Franklin dagli onori di una scoperta tanto importante scatenò numerose critiche nel mondo accademico e non solo, tanto che nel 1968, Watson sentì il bisogno di scrivere un libro: “La doppia elica”, nel quale si difendeva rimarcando il ruolo non determinante della Franklin, arrivando, con i suoi commenti sul pessimo carattere della ricercatrice, ad attirarsi accuse di misogenia.
Nel frattempo il mondo della scienza era partito a vele spiegate con ricerche nei numerosi settori nei quali la nuova scoperta trovava campi di applicazione. In particolare, fiorirono migliaia di studi e sperimentazioni legati alla prevenzione e alla cura delle malattie genetiche, al modo in cui mutano e si trasmettono di generazione in generazione, e a come il genoma può essere influenzato o modificato dalle condizioni esterne.
Anche il mondo delle investigazioni fu rivoluzionato con la possibilità di verificare con esattezza la presenza di indizi biologici sul luogo di un crimine, valga per tutti un esempio: il 23 maggio 1992, con un attentato esplosivo, sull’autostrada per Capaci, in Sicilia, morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta. Gli investigatori trovarono dei mozziconi di sigaretta all’imbocco del tunnel attraverso il quale era stato piazzato l’esplosivo. Su quei mozziconi, con le più avanzate tecniche di analisi, fu trovato il Dna di Giovanni Brusca, che azionò materialmente il telecomando della bomba.
Un altro campo di applicazione lo troviamo nello studio della storia più antica dell’uomo e dei suoi progenitori: è infatti grazie all’antropologia molecolare, ossia quella disciplina che si occupa di comparare il codice genetico degli esseri umani contemporanei con quelli dei nostri antenati anche di decine o centinaia di migliaia di anni, che è stato possibile analizzare gli spostamenti dell’Homo Sapiens per capire quando, e attraverso quali percorsi e quali tappe intermedie, dalle originarie sedi dell’Africa si è diffuso prima in Europa e poi nel resto del mondo. È stato inoltre possibile determinare le parentele tra i vari gruppi etnici e le discendenze tra di essi.
Possiamo andare nel dettaglio, come detto, anche di singole popolazioni, prendiamo ad esempio l’Italia: il nostro risulta essere il Paese più ricco d’Europa in termini genetici, i genomi degli individui della popolazione italiana sono molto diversi tra loro, ma non pensiamo subito al grande movimento di popoli in epoca romana o alle invasioni barbariche, o peggio ancora ai flussi migratori recenti. La nostra ricchezza cromosomica arriva da più lontano, ossia ad un periodo compreso tra i 12mila e i 19mila anni fa, durante l’ultima glaciazione, quando si verificarono continui fenomeni migratori di popolazioni provenienti da ogni angolo d’Europa che hanno attraversato in lungo e in largo la penisola, e determinando quel particolare mix genetico che ancora oggi è riscontrabile nel nostro corredo genetico. Ad effettuare l’importante scoperta è stato un gruppo di ricercatori dell’università di Bologna che ha pubblicato uno studio su questo tema nel 2020.
Un’ultima curiosità, lo studio del Dna è stato reso anche sonoro oltre che visivo, se infatti la rappresentazione delle varie sequenze proteiche viene classicamente ottenuta attraverso bande di diversi colori, ora, per agevolare il lavoro anche a ricercatori e studenti non vedenti, sono state introdotte le sonoficazioni, ossia la traduzione fatta in suoni, ottenuti artificialmente, di un preciso set di dati fisici, una sorta di “sinfonia della vita”.
Accanto a tutto questo però, con l’avanzare della tecnica di studio e la sempre maggiore capacità di manipolazione del Dna che stiamo acquisendo, si sono fatti strada nell’opinione pubblica, e nel dibattito politico, oltre che scientifico, questioni legate ai risvolti etici di tecniche come la clonazione o l’eugenetica. Ci si interroga e si discute, con sempre maggiore intensità e apprensione, su quale sia il limite oltre il quale è lecito e accettabile spingersi.
La Cura.
Le Fake News.
La Sperimentazione.
Gli Integratori.
La vitamina B9.
Vitamina D.
Gli Anticorpi Primitivi.
In caso di emergenza nucleare.
Il Fiuto.
I Farmaci preventivi.
I farmaci orfani.
Farmaci nocivi.
Gli psicofarmaci.
Gli antibiotici.
Franco Berrino: «Io, vittima di falsi prodotti miracolosi per la salute e di truffe web su cibi e diete». Storia di Franco Berrino su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2023.
Tutti, fin dalla nascita, abbiamo bisogno di essere visti, di essere riconosciuti. È fondamentale per la nostra salute fisica e mentale. È il fondamento per la costruzione della nostra personalità, ma oggi rischia di diventare un tratto patologico: esisto solo in quanto riconosciuto dagli altri e se gli altri non mi vedono sprofondo nella depressione. Chi sogna di diventare famoso dovrebbe chiedersi se dentro di sé non ci sia un vuoto da riempire, se ha bisogno di essere visto perché altrimenti non è capace di riconoscere a sé stesso un’identità o la dignità di essere amato solo in virtù del fatto che esiste. Al bisogno di essere visti fa da specchio il bisogno di vedere, di conoscere il personaggio famoso.
I media e la fama
Una volta, in Calabria, sul volantino che annunciava la mia conferenza trovai scritto «Visto in TV», come a dire «non importa quello che dice, importa perché è famoso». Mio malgrado, grazie anche alla splendida équipe de La Grande Via, sono diventato famoso. Essere famosi per cose buone è anche bello, le persone che incontri ti esprimono sorridenti la loro gratitudine, ma c’è un rovescio della medaglia: essere riconosciuti perché si appare sui media, non per quello che si dice, è talvolta imbarazzante. Ci sono persone che incontrandomi mi hanno dichiarato la loro passione per i miei insegnamenti e per quelli di altri «visti in TV» capaci, come me, di una discreta arte retorica, ma che dicono cose completamente diverse, senza alcuna base scientifica e con conflitti di interesse! Questi abbinamenti mi sgomentano. Mi viene in mente quello che si dice dei politici, contenti che si parli di loro anche quando se ne parla male, l’importante è essere sempre presenti sui media.
Le truffe sul web
Ogni tanto compaiono titoli sui giornali che mi incuriosiscono, come, ad esempio, «La dieta Berrino» o altri. I giornali talvolta si sentono autorizzati a tradurre in titoli apodittici i miei insegnamenti, che cerco invece di corredare di tutte le incertezze che li accompagnano. Non credo che queste traduzioni abbiano fatto tanto male, ma è spiacevole essere inquadrato in stereotipi in cui non mi riconosco, come «La dieta Berrino» che, per dovere di cronaca, non esiste. Ma c’è di peggio. Già sei o sette anni fa mercanti malintenzionati e pericolosi hanno cominciato a pubblicizzare integratori e farmaci miracolosi con il mio nome. Sul web compare la mia foto e la mia dichiarazione di quanto sia importante acquistare questo farmaco che stura le arterie o quell’altro che, curando i vermi intestinali, guarisce una quantità di malattie. Addirittura, mi si vede pubblicizzare questi farmaci in un falso articolo di un quotidiano nazionale e in una falsa trasmissione televisiva, in cui sarei stato picchiato in diretta da chi contrasta le mie autorevoli raccomandazioni farmacologiche. Mi sono rivolto alla polizia postale che, molto gentilmente, ha rintracciato siti responsabili in Islanda, Bulgaria, Canarie e in altri Paesi, ma mi ha comunicato di non essere in grado di bloccarli. Probabilmente alcune persone, non conoscendomi bene, saranno rimaste imbrogliate. Leggendo il libro «Diete e bugie» di Massimiliano Andreetta, ho scoperto che non sono il solo medico famoso a essere stato beffato in questo modo. Massimiliano, da bravo giornalista investigativo, ha cercato di sviscerare le scatole cinesi del web dietro a cui si nasconde l’imbroglio, senza però riuscire a venirne a capo. Il Centro Operativo per la Sicurezza Cibernetica della Polizia Postale non ha saputo bloccare i malfattori.
Non cadere in trappola
Non voglio entrare nella discussione di quanto bene e quanto male faccia Internet, ma, per sicurezza, è bene diffidare di tutti i farmaci e di tutte le terapie pubblicizzate. Anche i cibi sono sempre più frequentemente pubblicizzati come «cibi funzionali», cioè con proprietà preventive o terapeutiche; ma i cibi naturali, che sono quelli che fanno bene, non hanno bisogno di essere pubblicizzati, già conosciamo le loro proprietà. Da quelli che sono insistentemente pubblicizzati su Internet o in televisione, invece, come certe mele, certi pani, certi piatti pronti «naturali», certi yogurt, certe bevande e certe merendine «genuine», è meglio stare lontani: nuocciono gravemente alla salute!
Estratto dell’articolo di Valentina Arcovio per “Molto Salute – il Messaggero” l'11 maggio 2023.
[…] La consapevolezza della centralità delle nostre difese naturali ci spinge, praticamente da sempre, a ricercare modi sempre più efficaci per rafforzare il nostro sistema immunitario e, al contrario, per evitare tutti i fattori che potrebbero invece comprometterne il funzionamento. Ma non sempre le buone intenzioni si sono poi automaticamente tradotte in altrettante buone azioni.
Capita sempre più spesso di sbagliare strategia perché ad esempio ingannati da vecchie dicerie o vere e proprie fake news sull'argomento, che vengono condivise e ri-condivise migliaia di volte sui social. […] la pandemia ha portato alla ribalta vecchie credenze e allo stesso tempo ha aperto la strada a nuove conoscenze che, in futuro, potrebbero aiutarci a prevenire e a contrastare in modo efficace molte malattie, non solo infettive come Sars-CoV-2.
VERO La vitamina C ha un ruolo importante nel processo di regolazione del sistema immunitario, grazie in particolare alla sua azione di contrasto ai radicali liberi che possono ostacolare il sistema immunitario. Grazie ai suoi forti poteri antiossidanti, la vitamina C innalza le barriere del sistema immunitario. Gli integratori sono utili in caso di carenza.
VERO L'alcol ci rende più suscettibili alle infezioni virali e batteriche. Questo accade perché le sostanze che contengono alcol alterano la produzione di citochine, le molecole che mettono in connessione le cellule del sistema immunitario con quelle di organi e tessuti e che sono coinvolte nella risposta infiammatoria.
VERO L'aglio è un alimento dalle note proprietà antibatteriche e antivirali grazie alla presenza del composto bioattivo chiamato allicina. Consumarne 1 o 2 spicchi al giorno sembra ridurre il rischio infezioni, grazie alla capacità dell'allicina di stimolare la produzione delle cellule immunitarie.
FALSO Bisogna diffidare dagli integratori che promettono di fare «miracoli» per il sistema immunitario. Il loro utilizzo può essere fondamentale solo se si ha bisogno di integrare specifiche carenze. Altrimenti una vera dieta sana e varia fornisce alle nostre difese tutto quello di cui ha bisogno.
FALSO Stare in ambienti chiusi e caldi aumenta in realtà il carico di lavoro del nostro sistema immunitario, in quando si hanno più opportunità di essere contagiati da virus e batteri. Al contrario, stare all'aperto - anche nella stagione invernale - ha un effetto benefico sulle difese naturali.
VERO L'introduzione regolare di alimenti probiotici aiuta a mantenere l'equilibrio intestinale e a supportare la funzionalità immunitaria. Evidenze scientifiche hanno dimostrato come l'introduzione di specifici ceppi di lattobacilli siano associati ad un ridotto rischio di infezioni virali.
FALSO I vaccini «allenano» le nostre difese naturali a rispondere in maniera più forte ed efficace ai virus e ai batteri contro i quali sono stati somministrati. Di conseguenza fare anche più di un vaccino, come si è dimostrato, non ha alcun impatto negativo sul nostro sistema immunitario.
FALSO Il sistema immunitario dei bambini piccoli non funziona ancora a pieno regime come quello di un adulto sano.
Per questi i baci sulla bocca di mamma, papà e nonni possono essere fonte di contagio da batteri e virus che, anziché allenare le difese naturali, le indeboliscono.
FALSO L'igiene, anche quella più attenta e scrupolosa, non compromette in alcun modo lo sviluppo corretto della regolazione immunitaria nei bambini e né l'efficienza delle difese naturali degli adulti. L'esposizione di cui abbiamo bisogno è ai microrganismi delle altre persone.
VERO Le condizioni che causano stress psicofisico indeboliscono il sistema immunitario, in quanto lo sottopongono a un maggior carico di lavoro. Lo stress provoca un indebolimento dei globuli bianchi e abbassa la loro capacità di attivarsi per combattere le infiammazioni.
Morto il «padre» della pecora Dolly: Ian Wilmut, il primo a clonare un mammifero. Storia di Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera lunedì 11 settembre 2023.
Il biologo inglese Ian Wilmut è morto al’età di 79 anni. Divenne noto quando nel 1996 riuscì per primo a clonare e a far nascere un mammifero: la pecora Dolly. Lo scienziato è deceduto il 10 settembre per complicanze seguenti al Parkinson, spiega in una nota l’Università di Edimburgo, dove Wilmut lavorò a lungo nell’istituto Roslin.
«Abbiamo perso uno dei più noti pionieri della ricerca scientifica», afferma la nota. «Siamo profondamente rattristati dalla notizia della morte di sir Ian Wilmut», dice il preside e vice cancelliere, sir Peter Mathieson.
Alla metà degli anni Novanta del secolo scorso i genetisti pensavano che la clonazione di un mammifero fosse impossibile. Wilmut e il suo gruppo invece riuscirono nell’impresa che ha aperto nuove strade nella medicina rigenerativa. In precedenza si era occupato di pecore geneticamente modificate per la produzione di latte con un maggiore contenuto proteico. Partendo da questi studi, si rese conto che era necessario un metodo più efficiente e passò a verificare la possibilità della clonazione. Nel 2005 si trasferì al Centro di medicina rigenerativa dell’Università di Edimburgo, del quale divenne il primo direttore. Nel 2018 gli fu diagnosticato il Parkinson.
In onore di Dolly Parton
Dolly venne al mondo da una madre surrogata il 5 luglio 1996, ma Wilmut annunciò il risultato soltanto il 14 febbraio dell’anno dopo. Dolly morì nel febbraio 2003 per un’infezione polmonare ed è esposta impagliata al Museo nazionale scozzese. «Era un animale molto amichevole, faceva parte di una grande scoperta scientifica», disse Wilmut alla sua morte. Il nome Dolly è venne scelto in onore alla cantante americana Dolly Parton.
Il successo di un esperimento cinese avvicina la produzione di organi umani di ricambio. Roberto Demaio su L'Indipendente lunedì 11 settembre 2023.
Un team di ricercatori a guida cinese ha creato i primi reni con cellule umane coltivati in embrioni di maiali geneticamente modificati. Si tratta di una tecnologia ancora da perfezionare, ma che apre la strada a nuove strategie per far fronte alla carenza di donazioni di organi e allo studio delle malattie dello sviluppo. Gli embrioni umani-suini sono stati fatti sviluppare all’interno delle scrofe per 28 giorni, cioè circa un quarto del normale periodo di gravidanza e, quando prelevati, la metà delle cellule dei loro reni erano umane. Quota ancora insufficiente per evitare il rigetto da un ipotetico trapianto (visto che l’obiettivo da raggiungere è il 100%), ma che aiuterà a sviluppare nuovi farmaci e strategie di cura per le malattie al rene, che rimane l’organo più richiesto in assoluto. Oltre al primato, la scoperta porta con sé un grande progresso scientifico se si pensa che nel 2017 si riusciva ad ottenere appena una cellula umana ogni 100.000 suine. Tuttavia, il metodo utilizzato ha sollevato grandi dilemmi etici: alcune cellule umane sono si sono disperse nel cervello e nel midollo spinale degli embrioni di maiale e ora gli scienziati sono già al lavoro per superare questo ostacolo.
Non è la prima volta che gli embrioni suini vengono utilizzati per la creazione di esseri umani: nel 2020 alcuni scienziati dell’Università del Minnesota hanno generato con successo l’endotelio umano (lo strato interno dei vasi sanguigni) in embrioni di maiale e l’anno dopo la ricerca è stata estesa alla produzione di veri e propri muscoli umanizzati. È la prima volta, invece, che la creazione avviene direttamente all’interno dell’animale. Gli autori dello studio hanno utilizzato degli “embrioni chimerici”, ovvero una combinazione di cellule umane e di maiale prodotti in laboratorio. Tramite la tecnica CRISPR, il DNA è stato modificato eliminando due geni connessi allo sviluppo dei reni e lo stesso processo è toccato alle cellule embrionali umane, che sono state modificate affinché promuovessero la proliferazione degli organi ed evitassero l’auto-distruzione. Una volta impiantate nelle scrofe, le “chimere” sono state monitorate per 25-28 giorni. I dati ottenuti da cinque embrioni hanno mostrato che i reni si erano completamente sviluppati ed erano composti al 50-60% da cellule umane e il resto da cellule suine. Quota ancora insufficiente per permettere un trapianto ma notevolmente superiore a quella ottenuta da altri esperimenti. Il prossimo passo sarà cercare di aumentare la percentuale di cellule umane e tentare un approccio simile con altri organi, come pancreas e cuore. Secondo gli autori dello studio, la ricerca aprirà nuove strade anche alla sperimentazione di nuovi farmaci volti ad impedire le malattie ai reni, che sono l’organo più comunemente trapiantato nella medicina umana. Secondo il nefrologo Josep Maria Campistol – direttore generale dell’Hospital Clínic de Barcelona e coautore della ricerca che nel 2017 ha dimostrato che le cellule umane potrebbero essere inserite in un embrione di maiale – gli embrioni ottenuti «potrebbero essere una fonte inesauribile di organi e offrire la possibilità di generare organi umani specifici e personalizzati per determinati pazienti». Ha poi aggiunto: «Sono convinto che, nel prossimo futuro, saremo in grado di rigenerare reni, fegati e cuori affetti da malattie croniche, per ripristinare completamente o parzialmente la loro funzione ed evitare il trapianto».
Ma la scoperta ha sollevato anche grandi dubbi e perplessità etiche: gli autori hanno trovato alcune cellule neurali umane nel cervello e nel midollo spinale degli embrioni e probabilmente risulteranno necessarie altre conferme per escludere che il metodo utilizzato riesca effettivamente ad evitare che le cellule umane invadano il tessuto riproduttivo. Il rischio è dato dalla possibilità di innescare scenari che ricordano film fantasy o di fantascienza: la creazione incontrollata di ibridi uomo-maiale. Tuttavia, secondo l’autore Zhen Dai, il fatto che nessuna cellula umana sia stata rinvenuta nella cresta genitale è la prova che «le cellule staminali pluripotenti umane non si sono differenziate in cellule germinali». Per impedire invece la diffusione nel cervello e nel midollo spinale, si potrebbe procedere «eliminando ulteriori geni nelle cellule staminali pluripotenti umane, il che potrebbe essere testato in studi futuri». [di Roberto Demaio]
Le tappe per il superamento della sperimentazione animale. Ivano Tolettini su L'Identità il 10 Settembre 2023
Sabato scorso mettevamo in luce che in Italia sono censiti ancora 600 laboratori che utilizzano gli animali nella sperimentazione per la fabbricazione dei farmaci. Nonostante l’influenza degli organoidi nella ricerca biomedica e l’obiettivo del superamento del modello sperimentale tradizionale, va tuttavia chiarito che non è sempre corretto parlare di metodi alternativi a quelli usati non solo da case chimico-farmaceutiche, istituti di ricerca, università e ospedali, ma anche da enti spaziali e militari nella sperimentazione animale in laboratorio, perché essa è ancora richiesta per legge, sia per l’approvazione di farmaci che per altri trattamenti, prima di quella clinica negli esseri umani. Sebbene molti ricercatori oggi sostengano che “ormai la vera scienza non usa gli animali”.
NUOVO PARADIGMA
Il punto ribadito soprattutto nel mondo occidentale, dove l’accelerazione per una nuova ricerca biomedicale e l’incremento dei finanziamenti per il nuovo paradigma che superi “le inutili sofferenze degli animali” è un dato acclarato, è che con la ricerca sperimentale di base – o finalizzata alla produzione di un farmaco – eseguita sugli animali non si ottengono informazioni utili per l’uomo, quindi non si tratta di usare “metodi alternativi”, ma più semplicemente si tratta di smettere di portare avanti quella parte di ricerca che usa animali – com’è ormai noto la maggior parte degli studi pubblicati sulle riviste scientifiche non usa animali – e dedicarsi solo al resto con i modelli basati sugli organoidi sempre più mini o di strutture cellulari tridimensionali artificiali che sono realizzate a cominciare dalle cellule staminali dell’uomo. In quest’ottica i grandi cambiamenti come gli effettivi progressi della medicina si sono sempre avuti grazie a osservazioni cliniche, a studi epidemiologici, a innovazioni tecnologiche (quali l’invenzione del microscopio, dei moderni strumenti di diagnosi, ecc.), e, venendo ai test di tossicità, i risultati più affidabili sono quelli basati su colture di cellule umane, simulazioni al computer, modelli sintetici basati su dati già noti sulla specie umana e che impediscono le inutili sofferenze degli animali.
TEST E OBIETTIVI
Ecco allora che immaginare che esista solo la ricerca sugli animali e niente altro non solo è semplicemente sbagliato alla luce degli orientamenti anche legislativi degli ultimi anni, perché questa per fortuna non è più la realtà, visto che la ricerca sugli animali è diventata negli ultimi dieci anni solo una porzione della ricerca totale, ed essa va progressivamente eliminata, grazie anche all’impatto del sistema delle “3R – Replace, Reduce, Refine: sostituire, ridurre e affinare” la sperimentazione animale per ridurre il loro utilizzo. In questa prospettiva la sperimentazione animale può essere autorizzata solo se non vi sono metodi alternativi efficaci per ridurre il numero di animali da laboratorio e la loro sofferenze. Quanto invece ai test di tossicità, quelli cioè necessari per la messa in commercio di sostanze chimiche, cosmetici e farmaci, ha invece senso parlare di metodi “alternativi”, perché “non si tratta di ricerca, ma di test standardizzati, sempre uguali a se stessi, tanto che ha ormai senso dire che questi vanno semplicemente sostituiti con metodi alternativi senza gli animali”, poiché sono test altrettanto standardizzati, diventati negli ultimi anni più moderni ed efficaci, dunque non così grossolani e inutili come quelli che usano animali, che ormai risalgono a oltre mezzo secolo fa.
CULTURE CELLULARI
Si spiega perché la nuova frontiera della scienza di laboratorio è quella di allestire modelli cellulari che superino quelli di origine animale con un’affidabilità decisamente superiore ed evitare che una parte rilevante dei farmaci immessi sul mercato vengano ritirati già entro il primo anno per i cosiddetti “fenomeni avversi”. Non è un caso che ogni anno si riduce il numero degli animali vivisezionati. I metodi senza animali ad esempio per i test di tossicità sono centrati su colture di cellule e tessuti umani, anche combinati, ricorrendo a metodi computerizzati con un’affidabilità superiore rispetto ai farmaci sperimentati solo sugli animali. I mini-organi sono da tempo utilizzati al posto degli animali dai ricercatori.
Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 27 giugno 2023.
Se ne fa un uso esagerato tutte le mattine, sotto forma di pastiglie, capsule, fiale, opercoli o polveri da sciogliere in acqua, e chi li assume regolarmente dichiara di trarne beneficio e di sentirsi meglio dal punto di vista psicofisico.
In Italia sono oltre 38 milioni i consumatori di integratori, il mercato di queste sostanze e dei multivitaminici è in continua crescita, e la loro assunzione, forte della convinzione comune che si tratti di sostanze vegetali e di principi essenziali, la maggior parte delle volte avviene senza una reale necessità, e sta diventando cronica, poiché il concetto di integrazione dà l’impressione di completezza, di prevenzione primaria e di un rimedio possibile all’idea che gli alimenti siano insufficienti ad assicurare la giusta funzionalità dell’organismo e quindi della salute. […]
E in chi ne fa abitualmente ricorso, anche senza avere un problema di salute accertato o meno, viene percepito un miglioramento del proprio stato fisico, con un meccanismo psicologico che porta a propendere verso l’effetto augurato, con un approccio positivo nei confronti di tali sostanze che alla fine diventano un rituale di trattamento “paramedico” mattutino, trattandosi di prodotti non soggetti a prescrizione.
[…] Infatti non tutti gli integratori sono essenziali, poiché molto dipende dalla loro bio disponibilità, ovvero dalla velocità con cui vengono assorbiti o metabolizzati, e questo avviene solo se necessario all’organismo, altrimenti la maggior parte di queste sostanze viene eliminata o degradata dal fegato, che non le utilizza affatto nei suoi processi metabolici.
Durante l’estate, nei casi di disidratazione o quando ci si sottopone ad attività fisica intensa, gli integratori più famosi a base di sali minerali e proteine vegetali si rivelano utili per restituire vigore ed energia fisica e mentale, con effetto quasi immediato, anche se su tutte le confezioni è specificato che tali prodotti non vanno intesi come sostituti dietetici.
Inoltre aumentare i dosaggi di tali sostanze oltre le dosi consigliate non è utile, soprattutto per quanto riguarda le Vitamine del gruppo B e C, le quali vengono espulse con velocità in caso di mancata carenza, come gli integratori di natura sintetica vengono difficilmente assorbiti o metabolizzati.
Negli ultimi anni si è registrato un boom di vendite, nonostante il costo elevato, di integratori al collagene, considerati efficaci per diminuire le rughe, migliorare l’aspetto della pelle, rassodare il tessuto connettivo sotto cutaneo e posticipare il fenomeno naturale di invecchiamento, senza sapere che questo tipo di integratore difficilmente produce l’effetto anti-age poiché il nostro intestino non distingue se le proteine che gli arrivano provengono dalla carne, dalle uova, dai legumi o da una pasticca integrata, e soprattutto la sua destinazione non viene affatto veicolata sulla pelle del viso e del corpo, non andrà a formare nuovo collagene , bensì si distribuirà solo dove vi siano eventuali carenze nei tendini e nelle cartilagini, eliminando il superfluo attraverso le feci. […]
La vitamina B9 previene tumori e danni al DNA: come assumerla col cibo? Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 28 marzo 2023.
La vitamina B9, o acido folico, è una molecola nota da tempo ai medici perché la sua carenza nella mamma in gravidanza porta a malformazioni del nascituro come la spina dorsale bifida (altamente invalidante) o le malformazioni cardiache. Ed è per questo che a tutte le mamme che intraprendono una gravidanza i medici prescrivono di routine e come prevenzione l’assunzione di un integratore di acido folico durante tutti i nove mesi di gestazione. Ma pochi sanno che una carenza, anche in persone sane e non in gravidanza, danneggia il DNA e di conseguenza può provocare un tumore. Le rotture di cromosomi nel DNA infatti, sono una causa di molte patologie, specialmente quelle tumorali.
Si tratta di una vitamina molto importante per il nostro organismo, essenziale per la sintesi del DNA e perciò indispensabile per produrre nuove cellule. Si fa riferimento a questa vitamina con 3 nomi diversi: acido folico, vitamina B9 o folato. Va specificato però che il termine acido folico è riferito alla forma sintetica (prodotta in laboratorio) di questo composto, vale a dire quella variante che troviamo solo negli integratori, nei farmaci o negli alimenti cosiddetti “fortificati”, cioè in cui questa particolare vitamina viene aggiunta dall’industria alimentare. Nei cibi naturali invece si trova la forma naturale e si chiama vitamina B9 (o folato).
Nonostante l’assunzione di integratori di acido folico prescritti in gravidanza a tutte le mamme, in Italia si registrano ogni anno 25 mila casi di bambini nati con gravi malformazioni dovute alla carenza di questa vitamina, evidentemente molte mamme non assumono l’integratore oppure questo non è sufficiente ad evitare il problema, nel loro caso specifico.
Danni e rotture del DNA
É molto meno conosciuto il fatto che una carenza di vitamina B9 determina danni e rotture della sequenza del DNA, non solo durante la gravidanza ma ad ogni età. Questi danni causano a loro volta lo sviluppo di tumori, come è stato dimostrato dal ricercatore e biochimico americano professor Bruce Ames, con i suoi studi sul test di Ames e sulla teoria del triage.
La scoperta di Bruce Ames sui danni del DNA, quando c’è una carenza di vitamina B9, avvenne nel 1973 quando per caso si accorse, mentre svolgeva un esperimento sulla capacità delle radiazioni di danneggiare il DNA, che tutti i topolini nutriti con un mangime arricchito di una miscela di vitamine, che per errore era però priva di acido folico, svilupparono rotture cromosomiche del DNA nelle cellule del sangue. Per verificare se la stessa cosa potesse succedere anche negli esseri umani, Ames cominciò ad analizzare campioni di sangue di vari individui, e riconobbe analoghe mutazioni e rotture del DNA nel sangue di persone che seguivano una dieta molto povera di cibi ricchi di vitamine, in particolare nel sangue di individui che mangiavano molto cibo spazzatura. Ames diede a queste persone un integratore di vitamina B9 e poi analizzò nuovamente il loro sangue, scoprendo che in breve tempo il livello di rotture cromosomiche era tornato alla normalità.
Questa scoperta fece capire a tutta la comunità scientifica internazionale che la carenza anche solo di una vitamina può determinare gravi problemi di salute nell’organismo.
Cibi che contengono vitamina B9
Vediamo una carrellata di alimenti che contengono la vitamina B9 e che dovrebbero essere assunti regolarmente all’interno di una corretta alimentazione. L’alimento che ne è più ricco in assoluto è il fegato degli animali, sia quello dei bovini che quello dei suini e del pollame. Il fegato, e i fegatini di pollo, contengono una quantitativo pari a 5-6 volte maggiore rispetto a quello degli altri alimenti che elencherò qui a seguire. Questo avviene in quanto il fegato è un organo che trattiene le scorte di nutrienti preziosi come minerali e vitamine, per poi rilasciarle nell’arco del tempo e a seconda delle necessità dell’organismo.
A seguire il tuorlo d’uovo, che contiene circa 130 microgrammi di vitamina B9, pari a quella presente nei cavoletti di Bruxelles.
Molti ortaggi e verdure sono ricchi di folati, a cominciare da asparagi, carciofi, spinaci, scarola, cime di rapa, ceci, fagioli, lenticchie, fave secche, bieta, arachidi, tutti gli agrumi, broccoli, cavolfiore e tutti i tipi di cavolo, la rucola, il pesto genovese e i pomodori.
Per non perdere o distruggere la vitamina B9 presente in tutti questi alimenti occorre fare una cottura che non sia per ebollizione, cioè non dobbiamo cuocerli in acqua bollente, perché questa vitamina è idrosolubile, cioè si disperde in acqua di cottura. La cottura corretta, che ne preserva all’interno le vitamine idrosolubili come la B9 o la vitamina C, è quella a vapore o per stufatura.
Integratori
Se si deve ricorrere ad un integratore di acido folico, la scelta migliore è orientarsi su quelli che presentano questa vitamina sotto forma di metilfolato, che è la forma biologicamente attiva del folato, quella cioè naturalmente presente nel nostro organismo. Alcuni integratori invece contengono la forma meno attiva e più generica e recano la dicitura di “acido folico” tra gli ingredienti. Cercate un integratore cioè che abbia come ingrediente “metilfolato” o “Levo-5-Metilfolato”. Questo garantirà una completa assimilazione della sostanza a livello gastrointestinale, mentre il generico acido folico non è assimilato correttamente da molti individui, a causa di un non corretto funzionamento degli enzimi responsabili di questa assimilazione.
[di Gianpaolo Usai]
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Vitamina D, Aifa riduce i margini di rimborsabilità dei farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2023.
Aggiornata sulla base di nuovi studi scientifici a Nota 96 sui criteri di appropriatezza per la prescrizione di supplementi anche nelle forme colecalciferolo e calcifediolo
L’apporto di integratori a base di vitamina D è uno dei temi più dibattuti in campo medico, fonte di controversie e di convinzioni tra loro anche fortemente contrapposte. Dopo la «corsa» alla vitamina D causata dalla pandemia Covid, nel 2019 Aifa aveva istituito la Nota 96 per definire le condizioni di rimborsabilità dei farmaci a base di vitamina D e suoi analoghi (colecalciferolo, calcifediolo) classificati in fascia A e quindi rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale.
Ora l’Agenzia Italiana del Farmaco ha aggiornato la Nota 96 (determina AIFA n. 48/2023 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 43 del 20 febbraio 2023) sui criteri di appropriatezza prescrittiva della supplementazione con vitamina D per la prevenzione e il trattamento degli stati di carenza nell’adulto. L’Aifa ha giustificato la necessità di procedere all’aggiornamento « a seguito della pubblicazione di nuove evidenze scientifiche che hanno ulteriormente chiarito il ruolo della vitamina D in assenza di concomitanti condizioni di rischio».
Gli studi
In particolare, la decisione di Aifa si basa su i risultati di due ampi studi clinici randomizzati, lo studio americano VITAL (LeBoff M et al, NEJM 2022) e lo studio europeo DO-HEALTH (Bischoff-Ferrari HA et al, JAMA 2020). «Entrambi gli studi hanno concluso che la supplementazione con dosi di vitamina D più che adeguate (2000 UI die di colecalciferolo) e per diversi anni (oltre 5 anni nel primo studio e 3 anni nel secondo) non è in grado di modificare il rischio di frattura nella popolazione sana, senza fattori di rischio per osteoporosi. Questi risultati si sono confermati anche tra i soggetti con livelli più bassi di vitamina 25(OH)D. A questi studi principali si aggiunge la ricca letteratura riguardante l’utilizzo nel COVID-19 che non ha dimostrato alcun beneficio della vitamina D anche in questa condizione», si legge nella nota dell’Agenzia regolatoria.
Le precisazioni
Inoltre, come si specifica nel documento sono state inserite nel testo della Nota alcune precisazioni migliorative su proposta di clinici o società scientifiche: «introduzione della nuova categoria di rischio “persone con gravi deficit motori o allettate che vivono al proprio domicilio”; riduzione da 20 a 12 ng/mL (o da 50 a 30 nmol/L) del livello massimo di vitamina 25(OH)D sierica, in presenza o meno di sintomatologia specifica e in assenza di altre condizioni di rischio associate, necessario ai fini della rimborsabilità; specificazione di livelli differenziati di vitamina 25(OH)D sierica in presenza di determinate condizioni di rischio (ad es. malattia da malassorbimento, iperparatiroidismo) già presenti nella prima versione della Nota; aggiornamento del paragrafo relativo alle evidenze più recenti sopracitate e inserimento di un breve paragrafo dedicato a vitamina D e COVID-19; introduzione di un paragrafo sui potenziali rischi associati all’uso improprio dei preparati a base di vitamina D».
Come lavorano gli «anticorpi primitivi», la prima linea di difesa del nostro organismo. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.
Sul New England Journal of Medicine, la review del gruppo di ricercatori Humanitas evidenzia le conoscenze su questa classe di molecole utili per trattare infezioni, patologie autoimmuni e degenerative
È stata pubblicata sul New England Journal of Medicine la review sulle molecole dell’immunità innata curata da Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University, e da Cecilia Garlanda, responsabile del laboratorio di Immunopatologia Sperimentale di Humanitas e professore di Humanitas University. Il team, che negli ultimi decenni ha guidato scoperte come quella della pentrassina 3 (PTX3), è stato chiamato a fare il punto sulle conoscenze su questa classe di molecole e le potenzialità che offrono per la diagnosi e il trattamento di infezioni, patologie autoimmuni e neurodegenerative.
Le prime molecole dell’immunità innata furono isolate quasi un secolo fa e oggi sono usate in clinica come indicatori diagnostici e prognostici di infiammazione: il loro livello nel sangue, ad esempio, permette di misurare lo stato infiammatorio e di prevedere l’evoluzione della malattia. Grazie alla ricerca condotta negli ultimi decenni, e in particolare ad alcuni studi svolti proprio dai ricercatori dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas, oggi sappiamo che queste molecole, una volta attivate dall’incontro con un patogeno, svolgono un ruolo di primo piano: combattono l’infezione, riconoscendo l’intruso, segnalandolo e ostacolandone l’azione come degli “anticorpi primitivi”, e coordinano la rigenerazione dei tessuti, perché la guerra che l’organismo scatena contro virus, funghi o batteri, come ogni conflitto, lascia dietro di sé molti danni.
«Abbiamo ritenuto importante mettere a fattor comune tutte le conoscenze sulle molecole della nostra prima linea di difesa a beneficio dei medici e delle future generazioni di clinici, che si trovano ad utilizzarle per diagnosi e terapie, a volte senza aver piena percezione del loro potenziale – spiega il prof. Alberto Mantovani -. Le molecole dell’immunità innata sono infatti protagoniste di alcuni importanti azioni di difesa quando l’organismo è sotto attacco infiammatorio, come avviene nella sepsi o in caso di grandi traumi, ma anche di malattie neurodegenerative o autoimmuni. Usando un’immagine tratta dal contesto bellico, potremmo dire che questa classe di molecole “sottrae materiale al nemico” per indirizzare gli sforzi dell’organismo verso la produzione di mezzi di difesa pesanti e la ricostruzione di quanto è “sotto le macerie” dell’infiammazione. Azioni che lasciano traccia e, se ben misurate, possono guidare l’azione dei medici».
«Le molecole dell’immunità innata sono uno strumento di diagnosi clinica ormai consolidato: il loro livello nel sangue, come anche il Covid-19 ha dimostrato, permette di misurare lo stato infiammatorio e ha grande valore sia diagnostico sia prognostico per molte malattie infettive, infiammatorie o autoimmuni - prosegue la professoressa Cecilia Garlanda -. I dati delle ricerche di questi anni ci dicono però che queste molecole possono fare molto di più: non solo come marcatori prognostici di precisione, ma come target terapeutici ancora in larga parte poco esplorati».
Farmaci e terapie. "Ecco quali medicinali usare in caso di emergenza nucleare". L'Oms aggiorna la lista. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha aggiornato la lista dei medicinali da immagazzinare e usare per le emergenze radiologiche e nucleari. Roberta Damiata il 27 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Con la delicata situazione tra Russia e Ucraina, il rischio di un conflitto mondiale non è mai stato del tutto scongiurato. A rafforzare le ipotesi in questi giorni, suppur non in maniera esplicita, la decisione dell'Oms di aggiornare l'elenco dei medicinali da accumulare per emergenze radiologiche e nucleari. Si tratta di medicinali che prevengono o riducono l'esposizione alle radiazioni, o curano le lesioni provocate dall'esposizione.
“Nelle emergenze da radiazioni, le persone possono essere esposte a radiazioni a dosi che vanno da trascurabili a pericolose per la vita. I governi devono rendere disponibili i trattamenti per chi ne ha bisogno, in fretta" ha spiegato la dott.ssa Maria Neira, assistente del direttore generale dell'Oms, divisione popolazioni più sane. “È essenziale che i governi siano preparati a proteggere la salute delle popolazioni e a rispondere immediatamente alle emergenze. Ciò include la disponibilità di scorte pronte di medicinali salvavita che ridurranno i rischi e cureranno le lesioni causate dalle radiazioni”.
La nuova pubblicazione, sostituisce la precedente del 2007, sempre redatta dall'Oms, sulle scorte nazionali necessarie per le emergenze da radiazioni, e include importanti informazioni sullo sviluppo di questo particolare tipo di medicinali nell'ultimo decennio. Esamina gli elementi necessari per lo sviluppo, il mantenimento e la gestione delle scorte e il ruolo delle Autorità Sanitarie Nazionali nello sviluppo delle stesse; nonché il ruolo dell'Oms come consulenza e garanzia all'accesso a medicinali e servizi sanitari.
"Questo elenco aggiornato di farmaci critici sarà uno strumento di preparazione e prontezza vitale per i nostri partner per identificare, procurare, accumulare e fornire contromisure efficaci in modo tempestivo a coloro che sono a rischio o esposti a questi eventi", ha affermato il dott. Mike Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.
È bene chiarire che nella pubblicazione non si parla specificamente di guerra nucleare, ma si riferisce a casi di emergenze radiologiche o nucleari presso centrali nucleari, strutture mediche o di ricerca, o incidenti durante il trasporto di materiale radioattivo, nonché usi intenzionali di materiali radioattivi con intenti dolosi. Le scorte, in ogni caso, sono quelle necessarie anche in caso di esplosioni di bombe atomiche.
La lista dei medicinali fornita nella pubblicazione include:
• Iodio stabile, somministrato per prevenire o ridurre l'esposizione della tiroide allo iodio radioattivo;
• Agenti decorporanti della sabbia chelante (la terapia chelante è una terapia farmacologica che sfrutta la chelazione, ovvero una reazione chimica, per curare alcune forme di intossicazione dovuta a metalli pesanti. Una volta chelato, il metallo perde la sua tossicità all'interno dell'organismo e può essere eliminato più facilmente, ndr). Blu di Prussia ( un pigmento usato nella produzione di vernici, ndr), applicato per rimuovere il cesio radioattivo dal corpo e calcio-/zinco-DTPA usato per trattare la contaminazione interna con radionuclidi transuranici;
• Citochine utilizzate per mitigare i danni al midollo osseo, in caso di sindrome acuta da radiazioni (ARS);
• Altri medicinali usati per trattare il vomito, la diarrea e le infezioni.
I cani fiutano le malattie, ma non si sapeva perché: un nuovo studio lo ha rivelato. Cesare Peccarisi su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.
Percepiscono i glicosamminoglicani la cui presenza nel sangue e nelle urine ha, secondo ricercatori del Karolinska Institutet, una specificità del 95% per vari tipi di tumori fra cui quelli mammari, prostatici e polmonari
È noto da tempo che i cani, soprattutto i Labrador, Terranova, Dalmata e San Bernardo, sanno fiutare le malattie, in particolare certi tumori (come quelli mammari, prostatici o polmonari) prima che questi diano luogo a manifestazioni cliniche. Ma cosa fiutano? La risposta potrebbe arrivare casualmente da uno studio su 1.260 soggetti pubblicato su PNAS dai ricercatori svedesi del Karolinska Institutet diretti da Sinisa Bratulic: stavano cercando un metodo non invasivo per individuare precocemente i tumori dalle urine, il cui odore consente ai cani di percepire non solo la presenza di tumori, ma anche quella di diabete o l’arrivo di un attacco epilettico, emicranico o narcolettico con un anticipo di qualche ora.
Glicosamminoglicani
I ricercatori svedesi sono riusciti a identificare precocemente 14 diversi tipi di tumore in base alla concentrazione di glicosamminoglicani (in sigla GAG) che normalmente fanno parte della matrice extracellulare dei tendini a cui conferiscono, insieme a elastina e collagene, proprietà elastiche che ne permettono l’allungamento. Questi polisaccaridi vengono precocemente alterati dai tumori disgregandosi nel sangue e nelle urine: ricercandoli anche nel plasma i ricercatori svedesi sono riuscito ad avere una sensibilità del test compresa fra il 41,6 e il 62,3% e una specificità del 95% per i tumori ancora al primo stadio, un’accuratezza diagnostica che è il doppio di qualsiasi altra metodica oggi disponibile. Che odore hanno i glicosamminoglicani per essere percepiti dai cani? Evidentemente per noi sono inodori, ma non per i nostri amici a quattro zampe il cui olfatto dispone di 150-300 milioni di cellule a seconda della razza, mentre l’uomo ne ha solo cinque con un’area cerebrale per il riconoscimento degli odori di circa cinque cm quadrati, in confronto a quella canina di 150.
Un cervello in più
La scorsa estate uno studio dei ricercatori delle Università di New York e San Francisco diretti da Philippa Johnson, pubblicato sul Journal of Neuroscience, ha scoperto una rete di cinque connessioni nervose a noi mancanti che si estende dal bulbo olfattivo canino direttamente ad altre aree del cervello: lobo occipitale, tratto spinale corticale, sistema limbico, lobo piriforme e corteccia entorinale. Ciò spiega come il cane possa integrare gli stimoli olfattivi nel suo funzionamento cognitivo, cosicché gli odori diventano per lui un libro aperto.
Non solo tumori
Sono ormai molte le segnalazioni che indicano come i cani siano in grado di percepire l’odore di alcune malattie: per esempio il diabete o le alterazioni della glicemia. D’altro canto il famoso medico Thomas Willis del ‘600 invece dell’olfatto usava il gusto, perché assaggiando le urine dei diabetici scoprì per primo che la loro urina era straordinariamente dolce, come se contenesse zucchero o miele. I cani però fiutano le alterazioni della glicemia ancor prima che s’instauri il diabete e avvisano i loro padroni con comportamenti di anomala ricerca di vicinanza, quasi percepissero che hanno bisogno di accudimento.
Sudore e respiro
La cosa più sorprendente è che percepiscono anche l’imminenza degli attacchi di malattie come l’emicrania, l’epilessia o la narcolessia per le quali ancora nessun test clinico è disponibile. Evidentemente in questo caso, invece che dalle urine, i cani percepiscono nel sudore e nel respiro l’aumento dei marker dello stress indotto dall’arrivo degli attacchi, come scoperto da un recente studio irlandese pubblicato su PLOSone.
Rinforzo positivo
La loro capacità di sentire odori per noi impercettibili li rende preziosi in tutte le situazioni in cui il fiuto è fondamentale, come la ricerca di sopravvissuti a catastrofi naturali o nelle operazioni antidroga, dove la polizia moltiplica queste loro capacità con l’aiuto di educatori cinofili e veterinari usando il cosiddetto metodo del «rinforzo positivo», con cui si premia il riconoscimento di un certo odore.
Estratto dell’articolo di Laura Della Pasqua per “la Verità” il 4 febbraio 2023.
Nel 2013 la sua storia ha fatto il giro del mondo. In una lettera al New York Times, l’attrice Angelina Jolie spiegava di essere un soggetto a rischio per il cancro alla mammella e alle ovaie a causa della mutazione del gene Brca che aumenta la percentuale del rischio di neoplasie, e per questo aveva deciso di sottoporsi a una doppia mastectomia e di farsi asportare le ovaie.
La morte della madre a 56 anni, dopo aver lottato contro il tumore per dieci anni, l’aveva segnata. Così, quando il medico ha stimato che il rischio di ammalarsi di cancro al seno era dell’87% superiore alla media e alle ovaie del 50%, non ha avuto esitazioni sull’intervento preventivo. Dieci anni dopo la stessa decisione della doppia mastectomia, con la medesima motivazione, è stata presa dalla modella Bianca Balti. Che ha poi pubblicato su Instagram tre foto di lei nuda e sorridente, con la mano sinistra appoggiata sul seno e in evidenza una delle cicatrici.
Sono casi clamorosi: due bellissime che si fanno operare da sane. E molte altre donne meno famose avranno fatto altrettanto. Di sicuro la Jolie e la Balti hanno favorito una maggiore consapevolezza sull’importanza della prevenzione nella lotta al tumore. Ma al tempo stesso si pongono altri interrogativi. C’è il rischio di spettacolarizzare la malattia, il che potrebbe indurre altre donne a sottoporsi con poca consapevolezza a quello che resta un intervento chirurgico complesso. […]
Nella medicina di oggi si sta diffondendo un nuovo concetto: non più curare gli infermi, ma intervenire sui sani. La Jolie e la Balti non erano ammalate: si sono fatte togliere il seno, sostituito da protesi, come misura preventiva. Secondo lo stesso principio, le case farmaceutiche studiano sempre nuovi vaccini, cioè farmaci da imporre ai sani per evitare che si ammalino. È un’esagerazione? Di sicuro è un nuovo business, fatto di esami clinici, visite specialistiche, ricoveri, screening, controlli post operatori, altri check up, eccetera. Il tutto senza che si sia manifestata una patologia, ma solo in via preventiva.
Portata all’estremo, la corsa ai test genetici può anche puntare non a prevenire un rischio, ma a cercare un’ipotetica perfezione fisica. Il genetista Domenico Coviello ha spiegato che «le verifiche dei geni non sono tutte uguali. Alcune sono molto precise e utili; altre, pur nell’accuratezza, non sono sempre utili, ma rischiano addirittura di creare situazioni d’ansia. Questo effetto è tanto più evidente nelle malattie complesse o multifattoriali, dove il test fornisce informazioni difficili da interpretare e in cui il manifestarsi della malattia dipende da più fattori genetici e spesso anche ambientali». […]
Un mercato che sta conoscendo un’espansione piuttosto rapida è quello dei test per le allergie. Sono screening spesso non validati ed eseguiti in centri non specializzati che danno un’alta percentuale di falsi positivi. Con la conseguenza che alimenti importanti come il latte si eliminano dalla dieta anche senza esserne davvero allergici. […]
Malattie rare: 122 i farmaci orfani disponibili in Italia su 130 autorizzati in Europa. Chiara Daina su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023
Migliorano a livello nazionale i tempi d’immissione in commercio. In termini di accesso il nostro Paese è secondo solo alla Germania, dove la disponibilità per i pazienti è pressoché immediata
Chi soffre di una malattia rara (definita così perché colpisce un numero ristretto di persone, che non supera 5 casi ogni 10mila nell’Unione europea) nella maggioranza dei casi deve fare i conti con l’assenza di una terapia specifica. Nel 2021 nel nostro Paese la disponibilità di farmaci orfani, cioè quelli destinati alla cura di queste patologie, riguarda 122 molecole, pari al 94% (130) di tutte quelle autorizzate fino a quel momento dall’Agenzia europea dei medicinali (Ema). Se si prendono in esame i 57 prodotti approvati da Ema tra il 2017 e il 2020, a gennaio 2022 l’Italia è tra i primi della classe, e precisamente al secondo posto, a pari merito con la Danimarca, con 43 farmaci orfani disponibili per i pazienti, dopo la Germania (54). «Il gap è giustificato dal fatto che in Germania, a differenza del resto d’Europa, il prezzo di questi prodotti non è soggetto a una negoziazione preventiva tra l’agenzia regolatoria tedesca e l’industria farmaceutica e quindi il loro accesso è pressoché immediato» spiega Francesco Trotta, dirigente dell’ufficio di monitoraggio della spesa farmaceutica e rapporti con le Regioni dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).
A scattare questa fotografia è il sesto rapporto annuale dell’Osservatorio sui farmaci orfani, fondato nel 2016 dal Centro per la ricerca economica applicata in sanità e dall’Osservatorio malattie rare, alla cui stesura per la prima volta ha contribuito anche l’Aifa.
L’indagine
Dall’indagine emerge che migliorano a livello nazionale i tempi d’immissione in commercio dei farmaci orfani da quando ottengono il via libera dell’Ema: nel periodo 2012-2014 si aspettavano in media 24 mesi mentre nel triennio 2018-2021 20 mesi. In linea con la media europea. L’iter dopo l’autorizzazione europea prevede il recepimento della decisione, la definizione del prezzo e delle condizioni di rimborsabilità da parte dell’agenzia regolatoria nazionale, tramite una determina pubblicata in Gazzetta ufficiale.
Buone notizie anche sul fronte della spesa a carico del Servizio sanitario nazionale per i farmaci orfani (l’80% delle 122 molecole è rimborsato dallo Stato): da 1,4 miliardi di euro del 2020 a 1,53 miliardi, pari al 6,4% di tutta la spesa farmaceutica pubblica. E si è quasi riallineata a quella effettuata nell’anno prepandemico (2019), di 1,55 miliardi. In rialzo anche i consumi: da 8,1 dosi giornaliere a 8,4 (nel 2019 erano 10,1). «Dal 2013 il trend sia della spesa sia dei consumi è in crescita» sottolinea Trotta.
Le Regioni più lente
«L’andamento dei farmaci orfani è confortante. La nota davvero dolente è la presa in carico sociosanitaria dei pazienti rari, che resta carente e disomogenea su tutto il territorio» commenta Francesco Macchia, coordinatore dell’Osservatorio sui farmaci orfani.
«A livello regionale – sottolinea Trotta – l’accesso ai farmaci orfani sia per tempi di accesso sia per numero di farmaci disponibili è complessivamente omogeneo». Dalla data di trasmissione della determina in Gazzetta ufficiale alla messa a disposizione del farmaco al paziente sul territorio, nel periodo 2016-2021, si legge nel report, in media passano 4 mesi. Le Regioni più lente, considerando la mediana dei tempi per l’erogazione della prima confezione (la mediana nazionale è di 113 giorni), sono Molise (455), Valle d’Aosta (372), Provincia autonoma di Trento (215) e Basilicata (167).
Interesse in aumento
«Ma – chiarisce il dirigente Aifa – le differenze regionali sono attribuibili al diverso fabbisogno, determinato dalla popolazione residente sul territorio, e quindi da una maggiore o minore incidenza di casi di malattie rare, e dalla presenza o meno di centri di cura specialistici». Sui farmaci orfani, conclude Trotta, «l’interesse da parte delle aziende farmaceutiche è in aumento. Oggi sono 53 quelle che in Italia commerciano almeno una molecola per la cura di una malattia rara e il fatturato totale relativo è di 1,4 miliardi. Ma solo 13 aziende producono esclusivamente farmaci orfani e 33, cioè la maggior parte, ne produce soltanto uno».
Estratto dell'articolo di Michele Bocci per repubblica.it il 10 febbraio 2023
Alcuni farmaci diffusi per trattare i sintomi del raffreddore e dell'influenza, come mal di testa, febbre e dolore o rinite allergica nelle persone con congestione nasale, sono finiti sotto osservazione dell'Ema. Contengono pseudoefedrina, una sostanza che potrebbe avere effetti collaterali importanti e per questo il Comitato di sicurezza dell'Agenzia europea del farmaco (Prac) ha avviato una revisione.
Dopo l'approfondimento, il Prac deciderà se le autorizzazioni all'immissione in commercio per i medicinali contenenti pseudoefedrina debbano essere mantenute, modificate, sospese o addirittura ritirate in tutta l'UE. Quindi al momento non ci sono blocchi dei prodotti che contengono il principio attivo sotto osservazione.
Ema ha iniziato la revisione per il possibile rischio di problemi che colpiscono i vasi sanguigni del cervello. E cioè "sindrome da encefalopatia posteriore reversibile", e "sindrome da vasocostrizione cerebralereversibile". Le due patologie possono provocare un ridotto afflusso di sangue al cervello, un'ischemia e in alcuni casi "causare complicanze gravi e pericolose per la vita", scrive l'agenzia.
Ema specifica che la revisione avviene perché ci sono nuovi dati, arrivati sia dal sistema di farmaco vigilanza che dalla letteratura medica, su "un piccolo numero di casi" delle due sindromi. […]
Dall'Agenzia del farmaco europea, il cui comunicato è stato diffuso anche dall'italiana Aifa, si redndono noti i nomi commerciali di alcuni medicinali contenenti pseudoefedrina. Tra questi: Actifed, Aerinaze, Aspirin Complex, Clarinase, Humex rhume e Nurofen Cold and Flu. Ma contengono la pseudoefedrina anche il Fluimucil influenza e raffreddore e l'aspirina influenza e naso chiuso.
[…]Va ribadito che non c'è ancora un ritiro ma si fa un approfondimento sugli effetti collaterali, Ema e Aifa vogliono rendere pubblico.
"La pseudoefedrina agisce stimolando le terminazioni nervose a rilasciare la noradrenalina, che provoca il restringimento dei vasi sanguigni. Ciò riduce la quantità di fluido rilasciato dai vasi, con conseguente minore gonfiore e minore produzione di muco nel naso", spiegano da Ema.
Pseudoefedrina, l’Ema avvia revisione sui rischi dei farmaci usati per il raffreddore. Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.
La pseudoefedrina è un principio attivo usato in diversi farmaci contro la congestione nasale: potrebbe provocare sindrome da encefalopatia posteriore e sindrome da vasocostrizione cerebrale (reversibili), che colpiscono i vasi sanguigni nel cervello
I medicinali contenenti pseudoefedrina, principio attivo efficace contro la congestione nasale, potrebbero causare dei danni (reversibili) ai vasi sanguigni nel cervello.
Per questo il Comitato per la sicurezza (Prac) dell’Agenzia europea per i medicinali ha avviato una revisione sulla sicurezza dei prodotti, che fa seguito a un «piccolo numero di casi» indicato dall’Agenzia del farmaco francese.
Le segnalazioni, in particolare, riguardano la sindrome da encefalopatia posteriore (Pres) e la sindrome da vasocostrizione cerebrale (Rcvs), entrambe reversibili, che si sono verificate in persone che avevano fatto uso del farmaco.
La pseudoefedrina (assunta per via orale) viene utilizzata da sola o in combinazione con altri medicinali in caso di naso chiuso causato da raffreddore, influenza o allergia.
Pres e Rcvs possono provocare un ridotto afflusso di sangue (ischemia) al cervello e, in alcuni casi, causare complicazioni gravi e pericolose per la vita. I sintomi comuni associati a Pres e Rcvs includono mal di testa, nausea e convulsioni.
I medicinali che contengono pseudoefedrina
I medicinali contenenti pseudoefedrina agiscono provocando il restringimento dei vasi sanguigni: il rischio di eventi ischemici, cardiovascolari e cerebrovascolari (effetti indesiderati che coinvolgono ischemia nel cuore e nel cervello), inclusi ictus e infarto, è noto da tempo.
Restrizioni e avvertenze per ridurre questi rischi sono pertanto già incluse nei foglietti illustrativi: per capire se in un farmaco c’è questo principio attivo occorre guardare il foglietto illustrativo .
Il Prac esaminerà comunque le evidenze disponibili e deciderà se le autorizzazioni all’immissione in commercio per i medicinali con pseudoefedrina debbano essere mantenute, modificate, sospese o ritirate in tutta l’Unione europea.
I medicinali contenenti pseudoefedrina sono autorizzati in vari Stati membri dell’Ue da soli o in combinazione con altri per il trattamento dei sintomi del raffreddore e dell’influenza come mal di testa, febbre e dolore o rinite allergica (infiammazione delle vie nasali).
Vasocostrizione e ipertensione
«I rischi legati alla pseudoefedrina sono ben noti — commenta Francesco Scaglione, docente di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano e farmacologo clinico all’Ospedale Niguarda —. Qualunque farmaco vasocostrittore può avere effetti sistemici (vasocostrizione e ipertensione), se si esagera con le dosi o con la frequenza. Le persone cardiopatiche o ipertese devono assumere questi farmaci con grandissima attenzione e ritengo che tali prodotti dovrebbero essere venduti solo dietro prescrizione medica, proprio per i rischi che comportano in caso di uso prolungato o frequente.
Il consiglio, anche per le persone sane, è di assumere medicinali come la pseudoefedrina o simili solo per il tempo e nelle quantità strettamente necessari».
La rivista medica Prescrire ha individuato 107 farmaci da non assumere: ecco la lista. L'Indipendente il 9 gennaio 2023.
Ogni anno Prescrire, una rivista medica francese che si occupa di malattie, farmaci e tecniche e tecnologie mediche, aggiorna il suo elenco di farmaci da evitare perché giudicati più rischiosi che utili alle persone. Secondo la lista stilata a fine 2022, realizzata analizzando tutti i farmaci autorizzati ad essere venduti sul mercato in UE ne ha individuati 107 (elencati in fondo all’articolo) che andrebbero evitati perché considerati inefficaci o troppo pericolosi per la salute. La gran parte di questi sono acquistabili anche nelle farmacie italiane.
Le raccomandazioni di Prescrire sono da sempre considerate affidabili e degne di essere prese seriamente in considerazione. Il lavoro che la rivista porta avanti è infatti degno di nota: forte della sua indipendenza (l’organizzazione si finanzia interamente grazie ai suoi abbonati senza pubblicità, senza sovvenzioni, senza azionisti) Prescrire sottopone tutti i principi ad una valutazione dei rischi e dei benefici avvalendosi dei suoi esperti indipendenti. L’obiettivo principale di Prescrire è invece tutelare la salute dei pazienti, evitandogli grossi danni collaterali.
Rispetto alla lista dello scorso anno, in cui già erano inclusi una serie di farmaci per il comune raffreddore, tosse e mal di gola come il Dolirhume, la gamma Actifed e Humex Rhume, e Maxilase e Biocalyptol, gli esperti della rivista francese hanno aggiunto altre tre voci: le proteine di arachidi, il Roxadustat e la tintura di oppio.
Vediamoli nel dettaglio. Per quanto riguarda la polvere di semi di arachidi, contenente proteine di arachidi (che in commercio si trova con il nome di Palforzia), assunta per via orale, è utilizzata principalmente per “desensibilizzare” l’allergia alle arachidi. Secondo test clinici, il farmaco effettivamente fa il suo dovere, ma la sua assunzione ha allo stesso tempo aumentato nei pazienti la frequenza delle reazioni allergiche nel quotidiano. Invece per il Roxadustat, venduto con il marchio ‘Evrenzo’ e utilizzato per trattare “l’anemia correlata all’insufficienza renale cronica”, è stato evidenziato che come farmaco non è più efficace dei normali trattamenti per l’anemia, ma “ha effetti collaterali più gravi” e addirittura “sembra aumentare la mortalità in alcuni pazienti”. Infine c’è la tintura di oppio, registrata con il marchio Dropizal, in Italia conosciuto come Dropizolo. Questo medicinale, derivato da vari costituenti del papavero, è generalmente usato per curare le forme di diarrea più gravi. Tuttavia, secondo Prescrire, “non è più efficace della loperamide, un altro oppioide commercializzato per curare situazioni simili (tipo l’Imodium). All’elenco si aggiunge anche il Nintedanib, commercializzato in Italia con il nome OFEV. Si tratta di un farmaco approvato per la cura della fibrosi polmonare idiopatica e, in associazione ad altri farmaci, per la cura di alcune forme di carcinoma polmonare non a piccole cellule. Le analisi dei dati emerse dalle valutazioni cliniche hanno mostrato che il rapporto rischi/benefici del medicinale è sfavorevole e per questo va escluso dal trattamento.
Il metodo utilizzato da Prescrire è giudicato affidabile per diversi motivi: si basa su una ricerca documentaria metodica e riproducibile, portata avanti da una equipe di medici specializzati in diverse professioni sanitarie. Una volta ultimato, inoltre, tutto il lavoro finisce sotto la lente di ingrandimento di una rete di revisori (specialisti dell’argomento affrontato, metodologi e altri professionisti), a cui seguono molteplici “controlli di qualità”.
Per chi volesse approfondire, ecco la lista completa (consultabile anche qui) dei 107 farmaci indicati da Prescrire, suddivisi per gruppi:
Farmaci usati in ematologia e per i trapianti:
Defibrotide (Defitelio) La rivista medica Prescrire ha individuato 107 farmaci da non assumere: ecco la lista
Farmaci antitumorali:
Mifamurtide (Mepact)
Nintedanib (Vargatef)
Panobinostat (Farydak)
Roxadustat (Evrenzo)
Trabectedina (Yondelis o altro)
Vandetanib (Caprelsa)
Vinflunina (Javlor)
Farmaci prescritti in cardiologia:
Aliskiren (Rasilez)
Bezafibrato (Befizal)
Ciprofibrato (Lipanor o altro)
Fenofibrato (Lipanthyl o altro)
Dronedarone (Multiq)
Ivabradina (Procoralan o altro)
Nicorandil (Ikorel o altro)
Olmesartan (Alteis, Olmetec, Alteisduo, Coolmetec, Axeler, Sevikar)
Ranolazina (Ranexa)
Trimetazidina (Vastarel o altro)
Vernakalant (Brinavess)
Farmaci usati in dermatologia e allergologia:
Finasteride 1 mg (Propecia o altro)
Mequitazina (Primalan)
Pimecrolimus cutaneo (Elidel)
Tacrolimus cutaneo (Protopic o altro)
Iniezione di prometazina (Phenergan)
Una polvere di semi di arachidi contenente proteine di arachidi (Palforzia)
Farmaci usati nel diabete e nutrizione:
-Farmaci per il diabete:
Gliptine: alogliptin (Vipidia, Vipdomet), linagliptin (Trajenta, Jentadueto), saxagliptin (Onglyza, Komboglyze), sitagliptin (Januvia, Xelevia, Janumet, Velmetia) e vildagliptin (Galvus, Eucreas)
Pioglitazone (Actos)
-Farmaci usati per la perdita di peso:
Combinazione di bupropione e naltrexone (Mysimba)
Orlistat (Xenical o altro)
Farmaci usati per il dolore e la reumatologia:
-Farmaci antinfiammatori non steroidei
Aceclofenac (Cartrex o altro)
Diclofenac orale (Voltaren o altro)
Coxib: celecoxib (Celebrex o altro), etoricoxib (Arcoxia o altro) e parecoxib (Dynastat)
Gel di ketoprofene (Ketum gel o altro)
Meloxicam (Mobic o altro)
Piroxicam (Feldene o altro)
Tenoxicam sistemico (Tilcotil)
-Medicinali per l’artrosi:
Diacerein (Art 50 o altro)
Glucosamina (Flexea o altro)
Rilassanti muscolari:
Mefenesina orale (Decontractyl)
Metocarbamolo (Lumirelax)
Tiocolchicoside (Miorel o altro)
Medicinali per l’osteoporosi
Denosumab 60 mg (Prolia)
Romosozumab (Evenity)
-Farmaci utilizzati in reumatologia:
Cerotti di capsaicina (Qutenza)
La combinazione di colchicina, polvere di oppio e tiemonio (Colchimax)
Chinino (Esachino, Okimus)
Farmaci utilizzati in gastroenterologia
Acido obeticolico (Ocaliva)
Argille medicate: diosmectite (Smecta o altro), idrotalcite (Rennieliquo), montmorillonite beidellitica o monmectite (Beldelix, Gelox) e caolino (Gastropax, Neutroses)
Domperidone (Motilium o altro)
Droperidolo (Droleptan o altro)
Metopimazina (Vogalene, Vogalib)
Prucalopride (Resolor)
Tintura di oppio (Dropizal)
Trinitrato di glicerile, unguento allo 0,4% (Rectogesic)
Farmaci utilizzati in ginecologia ed endocrinologia:
Tibolone (Livial o altro)
Ulipistral 5 mg (Esmya)
Medicinali usati in infettivologia:
Moxifloxacina (Izilox o altro)
Farmaci utilizzati in neurologia:
-Farmaci per la malattia di Alzheimer
Donepezil (Aricept o altro)
Galantamina (Reminyl o altro)
Rivastigmina (Exelon o altro)
Memantina (Ebixa o altro)
-Medicinali per la sclerosi multipla
Alemtuzumab (Lemtrada)
Natalizumab (Tysabri)
-Altri farmaci usati in neurologia (epilessia, emicrania, disturbi cognitivi, vertigini, claudicatio intermittens ischemico, morbo di Parkinson)
Fenfluramina (Fintepla)
Flunarizina (Sibelium)
Oxetorone (nocertone)
Ginkgo biloba (Tanakan o altro)
Naftidrofuryl (Naftilux o altro)
Piracetam (Nootropyl o altro)
Tolcapone (Tasma)
Farmaci usati in pneumologia e ORL:
-Medicina per la tosse:
Ambroxol (Muxol o altro)
Bromexina (Bisolvon)
Oxomemazine (Toplexil o altro)
Pentoxyverine (Pentoxyverine Clarix 0,15%)
Pholcodine
-Medicinali per il mal di gola:
Alfa-amilasi (Maxilase o altro)
Tixocortol spray orale (Rhinadvil mal di gola)
-Farmaci usati per disturbi polmonari o otorinolaringoiatrici:
Decongestionanti orali e/o nasali: efedrina, nafazolina, ossimetazolina, fenilefrina, pseudoefredina, tuaminoeptano e xilometazolina
Mannitolo inalato (Bronchitol)
Nintedanib (Ofev)
Roflumilast (Daxas)
Farmaci usati in psichiatria e dipendenze:
-Farmaci per la depressione:
Agomelatina (Valdoxan o altro)
Citalopram (seropram)
Escitalopram (Seroplex o altro)
Duloxetina (Cymbalta o altro)
Milnacipran (Freccia Milnacipran o altro)
Venlafaxina (Effexor LP o altro)
Esketamina soluzione spray nasale (Spravato)
Tianeptine (Stablon o altro)
-Altri psicotropi:
Dapoxetina (Priligy)
Etifoxina (Stresam)
Farmaci usati per smettere di fumare:
Buproprione (Zyban)
Farmaci usati in urologia:
Polisolfato pentosano orale (Elmiron)
Estratto dell'articolo di Paolo Russo per “la Stampa” l’8 marzo 2023.
Luoxetina, sertralina, citalopram, scitalopram, fluvoxamina e paroxetina: sono i nomi impronunciabili ma entrati a far pare della quotidianità di circa 17 milioni di italiani. L'utilizzo di psicofarmaci nel nostro Paese è infatti in costante aumento. In particolare il consumo di antidepressivi è cresciuto ininterrottamente da almeno sette anni di un buon 10%. Oramai circa il 7% della popolazione assume questo tipo di medicinali, con picchi di oltre il 10% in Liguria e Toscana, mentre se ne fa meno uso nel meridione, dove pure l'esposizione alla depressione è più alta.
Di pillole per combatterla ne consumiamo comunque tante, 44,6 al giorno ogni mille abitanti contro le 39 del 2014. Poi ci sono gli antipsicotici per schizofrenia, disturbi deliranti, disturbi dell'umore come quello bipolare, il cui consumo è aumentato dal 2014 al 2021 del 20%, con 10 dosi giornaliere per 1000 abitanti nel 2021. Di ansiolitici, che rientrano nella categoria dei farmaci sedativo-ipnotici e ansiolitici, ogni santo giorno ne mandiamo giù invece 54 dosi per 1000 abitanti, contro le 40 del 2014. Le benzodiazepine in particolare, sono con i contraccettivi e le pillole utilizzate nella disfunzione erettile, le categorie a maggiore spesa fra i farmaci a pagamento.
Ne prendiamo tanti e li prendiamo male. Secondo un'indagine dell'Aifa il 40% di chi usa gli antidepressivi non è aderente alla terapia. Ossia la interrompe per poi riprenderla, oppure la finisce prima del tempo.
[…] Magari senza scalare progressivamente il farmaco come è invece necessario per evitare il cosiddetto "effetto rebound", quello che ha messo fuori uso per un po' di giorni Fedez. […]
Il rebus da sciogliere resta però quello di sempre, ossia se questo alto consumo di psicofarmaci sia giustificato oppure no. A giudicare da come li esibiscono sui social gli influencer qualche dubbio viene.
Oramai è infatti diventata una moda esporre in rete il proprio armadietto farmaceutico anti ansia o depressione, finendo per consigliare cosa prendere e cosa no o per dare i voti a questo e quel medicinale su TikTok. Non ci deve poi stupire se gli psicofarmaci stanno dilagando anche tra gli adolescenti che li usano per sballarsi già a 13-14 anni.
Secondo le ultime stime un teenager su dieci ne fa uso «a scopo ricreativo», un fenomeno in crescita del 20% negli ultimi 5 anni, secondo uno studio del Cnr. Anche perché reperirli è sempre più facile.
Sempre lo stesso studio certifica che per il 42% dei casi basta allungare una mano nell'armadietto di casa, il 28% li acquista senza difficoltà su internet e un altro 22% se li procura in strada, dove vengono spacciati al pari di una droga.
[…] Insomma, abusi a parte, l'iper consumo di psicofarmaci nasconde anche un malessere psichico sempre più diffuso tra gli italiani. Un altro studio condotto sempre dal Cnr, in collaborazione con l'Aifa, ha rilevato che quasi la metà della popolazione qualche problemino con il proprio equilibrio psichico ce l'ha. Il 21% di chi ha tra 15 e 74 anni risulta avere una depressione moderata o severa, il 19% soffre di ansia e il 12% di stress.
[…]
Caterina Stamin per “la Stampa” l’8 marzo 2023.
«Alzi la mano chi non ha mai avuto l'ansia, chi non si è sentito giù o chi non ha mai avuto un attacco di panico». Paolo Crepet, psichiatra, educatore, saggista e opinionista, sarebbe uno tra i tanti ad alzare la mano.
Ed è uno dei tanti che senza vergogna dichiara di fare uso di psicofarmaci, di cui riconosce l'utilità ma anche i limiti. «Si prendono pillole dopo un litigio e se si sta soffrendo per amore: ormai è come andare dall'erborista e chiedere una tisana. Ma c'è un punto fondamentale: la chimica non risolve la vita». Il suo è un grido d'allarme rivolto soprattutto ai giovani, tra cui il consumo degli psicofarmaci sta aumentando. Una moda?
«No, una droga».
Ansia, depressione, disturbi alimentari: tutti parlano liberamente della propria salute mentale, fino a ieri vissuta come un tabù. Cos'è cambiato?
«È il mondo dei social, popolato di persone che devono ogni giorno inventarsi qualcosa, tanto è vero che quelli bravi e famosi se sono andati dicendo "vi saluto perché non reggo questa vita". È compulsivo, ti devi inventare qualcosa per intrattenere sempre di più. Ma la salute mentale e gli psicofarmaci sono tematiche di una delicatezza e di un'intimità di cui non capisco il motivo per parlarne. […] Poi vogliamo sdoganare il problema degli psicofarmaci? Stiamo attenti».
Cosa intende?
«C'è tutto un altro mondo che si apre: il mercato degli psicofarmaci. Non sono più medicinali che danno solo gli psichiatri e che si comprano in farmacia con una ricetta, purtroppo vengono venduti online e Dio solo sa che cosa ci sia dentro. […] l'Italia è sempre stata uno dei Paesi con più alto consumo di psicofarmaci, siamo i secondi in Europa. E c'è un motivo».
Quale?
«Un esempio: in Inghilterra si è pensato che gli psicofarmaci non dovessero essere prescrivibili dal medico di base, ma solo dagli psichiatri, e questa è stata una ragione per fermare il mercato. Noi non abbiamo voluto fare lo stesso».
La facilità di accesso ha aumentato il consumo?
«Certamente, una volta era tutto molto più controllato. Sui bugiardini c'è scritto che sotto i 16 anni non si possono prendere, invece l'età è scesa: ci sono quattordicenni che usano psicofarmaci e non perché la mamma o il papa lo vogliano». […]
Gli antibiotici boomerang: l’avvertimento (inascoltato) del Nobel Fleming. Ilaria Capua su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.
Nel 2050 le morti per infezioni causate da batteri “resistenti” supereranno quelle per cancro. Quella contro l’abuso di farmaci è una battaglia da condurre subito
Particolare di «Io e il villaggio», olio su tela di Marc Chagall dipinto nel 1911. Si trova al MoMa di New York (Mondadori Portfolio/ Age)
Questo intervento di Ilaria Capua è stato pubblicato sul numero di 7 in edicola venerdì 6 gennaio. Si tratta di uno degli articoli della serie che il magazine del Corriere ha affidato alla nota virologa e divulgatrice scientifica, con la rubrica «Salute circolare». Capua ha da poco pubblicato il suo nuovo libro «Il coraggio di non avere paura» edito da Solferino
Il problema più urgente è l’antibioticoresistenza. Ma cosa significa questo termine spigoloso e complicato? Perché se ne sente parlare a macchia di leopardo, ma tutti gli scienziati sono concordi? È un problema che deve essere affrontato adesso. Quando nel 1945 Alexander Fleming vinse il premio Nobel per la Medicina grazie alla scoperta (avvenuta nel 1928) della penicillina ammonì: non abusatene, perché per la legge del più forte si selezioneranno patogeni che svilupperanno resistenza al farmaco che adesso li distrugge. E noi come abbiamo fatto a selezionare questi batteri super killer con cui oggi abbiamo a che fare? Abbiamo usato tanti, troppi antibiotici. Molti di più di quelli che avremmo dovuto e abbiamo spinto quella pressione selettiva al punto di diventare un gigantesco boomerang che ci colpirà dove più fa male. È previsto che nel 2050 saranno di più le morti da infezione causata da batteri antibioticoresistenti, supereranno i numeri di morti per cancro.
Le infezioni da batteri antibioticoresistenti si verificano spesso in ospedale, causate dai cosiddetti “germacci” contro i quali ci sono pochissimi farmaci di riserva. E se quelli falliscono, addio. L’antibioticoresistenza non si genera e non si perpetua soltanto nella specie Homo sapiens ma anche nelle altre specie animali che vengono sottoposte a trattamento: gli animali da reddito (maiali, mucche, volatili e pesci) ma anche quelli da affezione (cani, gatti & co), con il risultato ultimo che questi prodotti non esercitano la loro azione solo sull’individuo, ma agiscono pure su tutto il resto. Attraverso gli scarichi arrivano a contaminare le acque e la Terra che ci nutre con i suoi frutti. Ma soprattutto alterano il microbioma dell’ambiente, trasformandolo.
E allora mentre da un lato le autorità sanitarie devono continuare con l’impegno di sviluppare politiche che riducano il fenomeno dell’abuso di antibiotici, pure i cittadini e soprattutto le cittadine (che spesso gestiscono la salute della famiglia) devono capire la gravità del problema ed attivarsi. Come? Riducendo il consumo di antibiotici li dove non sono necessari, osservando misure igieniche come quella di lavarsi le mani frequentemente, promuovendo le vaccinazioni (sì!) contro le infezioni virali quali influenza e Covid, perché queste infezioni aprono la porta alle infezioni causate dai “germacci”. Ma non basta, bisogna evitare che gli antibiotici (ed i farmaci in generale) vadano a finire nell’immondizia perché così, gira che ti rigira, arrivano dritti nella pancia di madre Terra e da lì a noi con un meccanismo di circolarità che lambisce tutti gli angoli della vita.
Le nuove soluzioni sono complicate anche perché scoprire nuovi antibiotici è davvero difficile e molto costoso. Poi il vero paradosso è che, una volta trovati, bisognerebbe usare il meno possibile i nuovi farmaci (perché creerebbero a loro volta resistenza). Un gigante della ricerca italiana, Rino Rappuoli, si è posto l’obiettivo di sviluppare dei vaccini contro questa catastrofe annunciata in avanzata continua e silenziosa. Io mi auguro che ci riesca, ma senza la collaborazione dei cittadini il problema non si risolverà. La lotta all’antibioticoresistenza non ha alcuna speranza di successo se ciascuno di noi non fa la propria parte. Punto.
La Cura Digitale.
Salute e web, quanto siamo diventati digitali?
Gli italiani usano internet per informarsi sulla prevenzione e per capire l'origine dei propri sintomi. Sono interessati ai pareri degli altri "utenti" prima di accedere a una visita. Ma l'uso del web non ha registrato l'impennata attesa dopo la pandemia. Ecco i risultati di una ricerca. Gioia Locati il 28 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Siamo tutti più o meno propensi a cercare informazioni mediche su internet. Si consulta il web in particolare per capire come fare prevenzione e per dare una risposta immediata ai sintomi. Poi, quando si tratta di prenotare una visita, si ricercano le opinioni degli altri “utenti”. È quanto emerge da una intervista strutturata sul Patient Journey digitale post-pandemia, i cui risultati sono stati illustrati alla V Edizione del Netcomm Focus Digital Health & Pharma da Luca Buccoliero del Dipartimento Marketing UniBocconi, co-autore con Elena Bellio dell’Università Ca’ Foscari (Venezia).
Condotta tra aprile ed ottobre 2022, l’indagine mappa, su un campione di 872 italiani tra 18 e 84 anni, i comportamenti, i cambiamenti recenti e le aspettative di un anno in cui i consumatori digitali sono cresciuti di un terzo rispetto al 2019.
Il paziente digitale
Intanto, l’identikit: il paziente digitale è curioso, impaziente, esigente e consapevole. È “ossessionato" dalla ricerca di informazioni cliniche in materia di prevenzione (ad esempio oncologica) e di auto-monitoraggio dei sintomi ma, fra tanti siti e portali sul web, solo nel 40% dei casi accede all’offerta informativa del Servizio sanitario nazionale. E in quel caso cerca innanzi tutto dati sulle liste d’attesa per la diagnostica e le visite specialistiche per sapere se i tempi che lo riguardano siano in linea o meno; in secondo luogo, cerca un primo supporto per la comprensione dei referti e schede informative sulle patologie o su corretti stili di vita.
È poi interessato a “fare community” e a confrontarsi con altri pazienti sofferenti dei suoi stessi disturbi. In terzo luogo, secondo il report, il paziente è “impaziente”, “desideroso di un’interlocuzione costante con il medico, che dia risposte tempestive”. Ancora: “Vorrebbe il curante reperibile su whatsapp o anche telefonicamente, con chance di comunicazione istantanea: un rapporto immediato, informale, diretto e personale”.
Quella che la ricerca denota come “impazienza” altro non è che l’esigenza più importante, il sentirsi ascoltati e curati. Senza una relazione e uno scambio non vi può essere medicina.
Fra i servizi digitali più cercati ci sono, (prima del Covid) lo scarico dei referti di laboratorio e la prenotazione di esami; durante il Covid c’è stato un boom nell’accesso alla ricetta online che ha riguardato il 30% degli intervistati (ma un 22% ne resta ancora fuori) e degli accessi al Fascicolo sanitario elettronico (25%). Il 40% degli intervistati non accede al Fascicolo sanitario.
E più in generale, alcuni accessi al web non sono cresciuti contrariamente a quanto si intuiva nei mesi di picco del Covid.
Il paziente infine è “consapevole”: ad esempio, l’emergenza Covid lo fa riflettere sui problemi di accesso sia in ospedale (che sono la prima preoccupazione, totalizzando nei questionari 6 punti in un range tra 0 e 10) sia a studi medici ed odontoiatrici (punteggio 5,78). La privacy è percepita un po’ a rischio ma a chi usa il digitale conviene: in sanità il “bit” gli rende la vita più semplice, meno faticosa e meno costosa.
La Politerapia.
Sono 3 milioni e mezzo gli anziani che assumono 10 farmaci al giorno. Un decalogo messo a punto da "Italia longeva" aiuta a responsabilizzare i pazienti e i care giver. Gioia Locati il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Sempre più spesso si sente parlare dell’importanza di diventare “pazienti attivi”: la salute è soprattutto un traguardo personale, come in ogni aspetto della vita ci si assume la responsabilità del proprio percorso. Chi inizia una terapia è informato dal medico su ciò che si può aspettare da un farmaco ma anche sugli eventuali effetti collaterali. Il paziente attivo è la persona che si informa, che osserva i cambiamenti attesi e che è in grado di segnalarli al medico.
Da anziani, il ruolo “attivo” è spesso svolto dai parenti o dai care giver.
Anziani e farmaci, la fotografia
Nel nostro Paese 2 anziani su 3 assumono ogni giorno almeno 5 farmaci con altrettanti principi attivi e 1 anziano su 4 (oltre 3,5 milioni di persone) ne utilizza addirittura 10.
È la “politerapia”, di cui abbiamo già parlato, correlata all’invecchiamento (oggi in Italia gli over-65 sono oltre 14 milioni) e alla compresenza di più malattie croniche che interessa il 75% degli over-60 e la quasi totalità degli ultra 80enni.
La politerapia
Si tratta di un “rituale quotidiano” da gestire con consapevolezza. I farmaci non si assumono per abitudine o perché ce li consiglia un amico. Hanno sempre interazioni uno con l’altro, perciò, quando subentra la necessità di curare un’influenza o i postumi di una caduta bisogna ricordare al prescrittore quali farmaci si sono ingeriti poco prima. È utile sapere che anche alcuni alimenti come le arance rosse o i pompelmi possono attenuare o potenziare gli effetti di una terapia. In caso di psicofarmaci è fondamentale sapere che si tratta di molecole che agiscono sulle capacità di reazione e che possono interferire con l’attenzione da prestare alla guida o quando si cammina (rischio cadute).
A sensibilizzare sul tema è stata Italia Longeva, l’Associazione nazionale per l’invecchiamento e la longevità attiva promossa dal Ministero della Salute che, insieme alla Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG), ha realizzato il video-tutorial “Anziani e farmaci: 10 regole per la corretta assunzione”. Il tutorial è stato presentato questo mese nell’ambito del 67° Congresso Nazionale SIGG a Roma.
I geriatri svolgono un ruolo centrale ai fini della corretta gestione della politerapia negli anziani.
Il decalogo è stato formulato per tutti i pazienti “attivi” - oltre che per i caregiver - con il fine di aiutarli nella gestione quotidiana delle terapie. Ma è anche uno strumento al servizio dei sanitari per educare e responsabilizzare i pazienti a svolgere un ruolo attivo nella gestione e revisione periodica delle assunzioni, condividendo ogni dubbio, difficoltà, cambio di abitudini o variazioni dello stato di salute con il medico (geriatra e medico di medicina generale) e il farmacista.
Il decalogo
Tenere una lista aggiornata di tutti i farmaci da prendere: sia di quelli prescritti dal medico di base che dallo specialista, inclusi gli integratori e i farmaci da banco, cioè quelli che possono essere acquistati in farmacia senza ricetta medica
Essere consapevoli della cura che si sta facendo: assicurarsi di aver capito per quale malattia o disturbo si sta assumendo un farmaco, come deve essere preso, quali interazioni o effetti collaterali può causare. Se ci sono dubbi o difficoltà, ricordarsi sempre di comunicarli al medico o al farmacista
Informare il proprio medico di tutti i farmaci che si assumono, compresi gli integratori e i prodotti fitoterapici che potrebbero interferire con il corretto funzionamento di alcuni medicinali o con alcuni alimenti
Confrontarsi periodicamente con il medico sulla cura che si sta facendo, per valutare modifiche della terapia o se alcuni farmaci possono essere sostituiti con uno stile di vita corretto, per esempio con la dieta o con l'esercizio fisico
Chiedere al medico o al farmacista se è possibile sostituire un medicinale in uso con un farmaco equivalente che ha la stessa concentrazione di principio attivo, la stessa efficacia e la stessa qualità del farmaco conosciuto con il nome della marca, e in più ha il vantaggio di costare di meno
Farsi aiutare nella gestione della terapia: coinvolgere un familiare o un caregiver per ricordare gli orari e le modalità di assunzione, specie se si hanno difficoltà di memoria e si rischiano errori di somministrazione
Evitare il fai-da-te: assumere i farmaci solo su indicazione del medico e non interrompere o modificare in autonomia il dosaggio delle terapie prescritte
Farsi supportare dagli strumenti che possono facilitare la corretta assunzione dei medicinali: le app e i promemoria sul cellulare, oppure i portapillole organizzati con le dosi giornaliere o settimanali
Prestare attenzione alle possibili interazioni tra farmaci e cibo perché alcuni alimenti possono modificare l'efficacia di un principio attivo contenuto nel medicinale. Attenersi alle indicazioni ricevute sulle modalità di assunzione (a digiuno, prima/dopo i pasti)
Informare il medico in caso alterazioni del proprio stato di salute dovute a fattori esterni (es. una modifica dei valori pressori causata dal caldo/freddo), che possono influire sui farmaci in uso
L’omeopatia.
L'acqua di mare disinfetta? Sbagliato. Cosa dice l'esperto. "Il mare e i raggi solari non hanno alcun effetto curativo", ha spiegato il presidente dell'Associazione italiana ulcere cutanee Ets e direttore del Dipartimento di Chirurgia plastica dell'ospedale di Cattinara a Trieste. Federico Garau il 27 Agosto 2023 su Il Giornale.
Per molti è una certezza derivata dall'infanzia: l'acqua del mare disinfetta le ferite, mentre la luce del sole accelera il processo di guarigione. Ecco perché c'è meno preoccupazione quando adulti e, più spesso, bambini e adolescenti si procurano sbucciature o micro-lesioni in spiaggia. Niente di più sbagliato, a quanto pare. Secondo quanto dichiarato da Giovanni Papa, presidente dell'Associazione italiana ulcere cutanee Ets (Aaiuc) e direttore del Dipartimento di Chirurgia plastica dell'ospedale di Cattinara a Trieste, acqua di mare e sole non hanno alcun effetto curativo.
Attenzione: l'acqua del mare spesso non è pulita
"Il mare e i raggi solari non hanno alcun effetto curativo", spiega il professor Giovanni Papa, come riportato da Il Messaggero. "Molto spesso", precisa il medico, "l'acqua del mare è tutt'altro che pulita, aumenta le probabilità che una lesione venga infettata da diversi microrganismi, dando così origine a complicazioni più o meno gravi, dalla formazione di ascessi a rare forme di infezioni batteriche, fino a infezioni alle ossa e alle articolazioni".
Insomma, se il bambino si ferisce, consigliargli di andare a bagnare la lesione nell'acqua di mare non è una buona idea. Meglio munirsi di un piccolo kit di primo soccorso da portare sempre con sé. Del resto si tratta di pochi passaggi che richiedono breve tempo. Un po' di disinfettante, un cerotto, e la medicazione è fatta.
Qualcuno potrebbe obiettare che per secoli l'acqua salata è stata impiegata come rimedio per trattare le lesioni cutanee. Il progredire delle conoscenze in questo ambito ha però dimostrato che, in realtà, l'acqua di mare, spesso sporca, può addirittura peggiorare lo stato di una ferita. Se in un soggetto sano si tratta comunque di un rischio minimo, non devono essere sottovalutate le conseguenze sulle persone fragili, che hanno putroppo un rischio maggiore di contrarre infezioni.
I raggi solari velocizzano la guarigione? Una fake-news
Anche l'assioma secondo il quale i raggi solari riuscirebbero in qualche modo ad accelerare il processo di guarigione delle piccole ferite sarebbe da rivedere. "I raggi solari non guariscono le ferite, né accelerano la loro guarigione e né riducono il rischio di infezioni", afferma il dottor Giovanni Papa. "In realtà, l'esposizione al sole può indurre un'iperpigmentazione della pelle, ovvero una macchia sulla parte di pelle in cui si trovano le ferite, e può restare a lungo anche dopo l'avvenuto processo di cicatrizzazione. Pertanto, le ferite andrebbero coperte e protette anziché esposte al sole".
La soluzione, in caso di piccole ferite al mare, pare essere solo una: usare disinfettante, cerotti e, in caso lo si richieda, garzette sterili. Le lesioni devono essere ben protette e per alcuni giorni non vanno esposte all'acqua di mare e alla luce del sole. Per velocizzare la guarigione, il dottor Papa consiglia pomate, spray o garze a base di estratto del grano, rivelatosi molto efficace.
L'alternativa alle medicine tradizionali. Tutto quello che c’è da sapere sull’omeopatia. La Redazione su La Voce di Manduria lunedì 23 gennaio 2023.
Omeopatia
L'omeopatia è un sistema di guarigione olistico che utilizza sostanze naturali per trattare vari disturbi fisici e mentali. Si basa sul principio "il simile cura il simile" e agisce stimolando i poteri curativi del corpo. I rimedi omeopatici sono costituiti da sostanze naturali come piante, minerali e animali, che vengono diluiti in acqua o alcool. Questi rimedi vengono quindi assunti per via orale o applicati localmente per aiutare a guarire il corpo dall'interno.
L'omeopatia è stata utilizzata per secoli come forma alternativa di medicina e può essere utilizzata per trattare un'ampia varietà di condizioni che vanno dalle allergie alla depressione.
A CHE COSA SERVONO I RIMEDI OMEOPATICI
I medicinali omeopatici possono essere usati per trattare una vasta gamma di disturbi, tra cui raffreddori, allergie, malattie della pelle e problemi digestivi. Ci sono molti diversi tipi di trattamenti omeopatici disponibili a seconda della condizione da trattare.
Alcuni farmaci omeopatici comuni includono Arnica montana per lividi e infiammazioni; Belladonna per la febbre; Aconitum napellus per alleviare il dolore; Calcarea carbonica per la fatica; e Rhus toxicodendron per dolori articolari. La comprensione di questi rimedi omeopatici e dei loro usi è fondamentale per riuscire sempre ad utilizzare la soluzione perfetta per le proprie esigenze.
VANTAGGI DELL’OMEOPATIA
La medicina omeopatica è un'alternativa popolare ai tradizionali trattamenti farmaceutici. Offre rimedi naturali per la salute progettati per funzionare con le naturali capacità di guarigione del corpo. Adotta un approccio olistico alla salute, guardando ai bisogni fisici, mentali ed emotivi dell'individuo.
Utilizzando i rimedi omeopatici, le persone possono godere di una serie di benefici per la salute, tra cui un miglioramento dell'umore, un aumento dei livelli di energia e un miglioramento del benessere generale.
PERCHÉ L’OMEOPATIA È UN RIMEDIO MOLTO POPOLARE
Per alcune persone, l'idea dell'assistenza sanitaria naturale può sembrare un ossimoro. Ma in questi giorni, molte persone si stanno allontanando dalla medicina tradizionale per utilizzare metodi naturali per una vita più sana.
L'assistenza sanitaria naturale sta diventando una tendenza e include l'uso di trattamenti omeopatici per i mali emotivi e fisici. Questa forma di trattamento sta diventando più popolare perché è di natura olistica. Risponde ai bisogni dell'intera persona e non fa affidamento su farmaci o interventi chirurgici per risolvere problemi come ansia, depressione o persino cancro. L'omeopatia è vista da molti come una buona alternativa alla medicina convenzionale.
COME L’OMEOPATIA PUÒ COMBATTERE ANSIA E DEPRESSIONE
L'omeopatia è un rimedio naturale che è stato usato per secoli per trattare l'ansia e la depressione e ancora oggi è molto popolare. Si basa sull'idea che il corpo può guarire sé stesso con rimedi naturali che stimolano le proprie capacità di guarigione.
L'omeopatia può essere utilizzata come trattamento complementare alle terapie tradizionali, come i farmaci e la psicoterapia, o come trattamento alternativo. Può aiutare a ridurre i livelli di stress e migliorare l'umore, favorendo anche il rilassamento e un sonno migliore. Comprendendo come funziona l'omeopatia, possiamo imparare come può essere utilizzata per combattere l'ansia e la depressione in modo naturale.
Attraverso trattamenti non invasivi potrai quindi curare completamente o agevolare il processo da guarigione da stati mentali come ansia e depressione.
COME SCEGLIERE UN OMEOPATA QUALIFICATO
Se stai cercando un omeopata qualificato per curare la tua condizione, sei fortunato. Ci sono molti medici naturopati certificati che possono fornirti i migliori rimedi e cure possibili. Con una semplice ricerca online, puoi facilmente trovare un elenco di medici naturopati certificati nella tua zona.
Puoi anche chiedere feedback da amici o familiari che hanno avuto esperienze di successo con trattamenti omeopatici. Fare ricerche sul background e sulle qualifiche di ciascun medico ti aiuterà a selezionare l'omeopata più qualificato per le tue esigenze.
Il Tumore.
I Numeri.
Le cure alternative.
I cibi nocivi.
La Ricerca.
La Prevenzione.
L’Ereditarietà.
La Discriminazione.
I Guerrieri.
I Giovani.
Il Vero ed il Falso.
Le cure.
L’Espansione.
Gliomi: tumori cerebrali.
Tumore di Warthin.
Tumore al Rene.
Cisti renali.
Tumore ovarico.
Il Tumore del Sangue.
La Leucemia Mielomonocitica Cronica.
Il carcinoma anaplastico della tiroide.
L’Angioma.
Tumore alla Pelle.
Tumore alla Bocca.
Tumore alla Gola.
Tumore al Polmone.
Tumore al seno ed alle ovaie.
Tumore alla prostata.
Tumore al Colon-retto.
Tumore allo stomaco.
Tumore al pancreas.
Cancro al fegato.
LOTTA AL CANCRO. L’eredità dei lockdown: in Italia aumentano i casi di tumore
I numeri del cancro: quali sono le cause? E i malati guariti combattono per una legge sull’oblio oncologico. Nicolaporro.it il 18 Novembre 2023
“Voi sapete che mi batto da molto tempo per la legge il diritto dell’oblio oncologico. Ovvero la possibilità per noi ex malati oncologici di recuperare tutti i nostri diritti. Forse tanti non sanno che una volta guariti noi non abbiamo il diritto di accedere ad alcuni servizi come un mutuo, un prestito, l’adozione, l’assicurazione del cetera. Finalmente è uscita una legge che è stata approvata alla Camera e deve ancora arrivare al Senato per diventare legge definitiva questa legge che prevede il recupero dei diritti, ma dopo 10 anni, dopo 10 anni, ti restituiscono la dignità dopo 10 anni sei libero dopo 12 anni ti riprendi finalmente in mano la tua vita, ma dopo 10 anni, che sono troppi. Sono stata contattata da questa persona che mi ha chiesto di non pubblicare più nulla sui social per non influenzare la gente perché la legge deve passare così”.
È stato questo il duro sfogo sui social dell’ex gieffina Carolina Marconi, la cui vita è stata stravolta nel 2021, quando si è accorta di avere un tumore al seno. Da quel momento l’attrice ha intrapreso una dura battaglia e, dopo un intervento, e la chemioterapia, oggi si può considerare guarita. Ma la preoccupazione resta, continuando infatti a sottoporsi a controlli.
L’attrice prosegue dicendo che nessuno le può dire di “rimanere in silenzio”. “Questa persona”, racconta ancora, “mi ha fatto sentire quasi in colpa dicendomi che nel caso in cui la legge non dovesse essere approvata anche al Senato, come è avvenuto alla Camera, quindi prevedendo i 10 anni, ci vorrà più tempo per l’approvazione poiché la dovrà essere sottoposta nuovamente al voto della Camera”. “Mi sento frustrata perché sembra che ci stiano solo facendo promesse a vuoto dicendoci che ci saranno dei decreti attuativi che valuteranno caso per caso, malattia per malattia, per la riduzione degli anni – racconta ancora – Ma figurati se controlleranno persona per persona, siamo più di un milione di persone guarite di cancro in Italia, ci state prendendo in giro?”. E ancora: “Ci sono tante leggi che aspettano da 20 anni questi decreti attuativi e non sono mai stati fatti, figuriamoci cambiare una legge una volta approvata. Questa legge rimarrà così per tanti anni e non la modificheranno più; quindi, oggi è il momento per cambiarla”. Infine l’attrice conclude lo sfogo con una triste constatazione e cioè che ai politici “invece di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, interessa solo mettere per primi la firma sulla legge”.
La richiesta della Marconi è semplice: ridurre per tutti la durata a cinque anni dell’oblio oncologico. Ma quanto ha ragione l’attrice e quanto è fondata la sua indignazione?
La parola ai fatti. In Italia sono in aumento i nuovi casi di tumore. Secondo il rapporto “I numeri del cancro 2022”, frutto della collaborazione tra AIOM (Associazione italiana di oncologia medica), AIRTUM (Associazione italiana registri tumori), Fondazione AIOM e PASSI (Progressi nelle aziende sanitarie per la salute in Italia), nel corso del 2022 ci sono state circa 391.000 nuove diagnosi di tumore, 14.000 in più di cui quasi 205.000 fra gli uomini e 186.000 fra le donne, escludendo i tumori della cute non melanomi.
L’ invecchiamento della popolazione è tra le principali cause ma anche il periodo della pandemia ha inciso, in quanto ha portato il blocco delle attività di screening e cura e alla riorganizzazione della sanità per via della pandemia, ritardando così le diagnosi dei tumori, dalle fasi precoci a quelle più avanzate. Per di più il lockdown e l’ansia da pandemia hanno indotto un aumento dei comportamenti non salutari e predisponenti ai tumori, come la sedentarietà, il consumo di alcol e l’abitudine al fumo. Ma tra oltre le condotte malsane, il tumore può essere provocato anche da ambienti malsani, come avviene, ad esempio, nella Terra dei Fuochi dove alcune patologie, come il tumore al seno, varie forme di leucemie e malformazioni, l’asma, sono collegate al puntuale smaltimento illegale dei rifiuti perpetrato negli ultimi decenni nell’area compresa fra le province di Napoli e Caserta.
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Tra gli uomini i tumori più diffusi sono il tumore della prostata (19,8 per cento), il tumore del polmone (14,3 per cento), il tumore del colon-retto (12,7 per cento), il tumore della vescica (11,4 per cento) e quello dello stomaco (4,3 per cento).
Tra le donne i cinque tumori diagnosticati con maggiore frequenza sono: il tumore della mammella (30 per cento), il tumore del colon-retto (12 per cento), il tumore del polmone (7,9 per cento), il tumore dell’endometrio (5,5 per cento) e quello della tiroide (4,7 per cento);
Il tumore al seno è quindi quello più diffuso nell’ universo in rosa. Infatti, questa neoplasia rappresenta il 41% di tutti i tumori femminili sotto i 50 anni, il 35% tra i 50 e i 69 anni e il 22% nelle donne over 70, e attualmente vivono in Italia oltre 834.000 donne con una diagnosi alle spalle. Nel 2022 si sono stimati in 55.700, con un aumento dello 0,5% rispetto al 2020. Secondo le proiezioni, nei prossimi due decenni, il numero di tumori al seno è destinato a salire, mediamente del 2-3% ogni anno.
Per quanto concerne la sopravvivenza in caso di tumore al seno, questa è stimata a 5 anni, cioè la percentuale di pazienti che dopo 5 anni dalla diagnosi non sono morte per il tumore (e che in buona parte non moriranno) è tra le più alte in assoluto a livello mondiale: dell’88% (in media negli USA è dell’84%, nel Nord Europa varia tra l’81 e 84%).
Nel primo semestre 2020 i decessi dovuti a tumori maligni sono stati, secondo l’ISTAT, di circa 48.500 fra gli uomini e 39.300 fra le donne. La gravità della malattia, l’efficacia del sistema sanitario sono valutate da studi epidemiologici grazie alla sopravvivenza dopo la diagnosi di tumore.
La sopravvivenza è fortemente influenzata da due elementi: la diagnosi precoce e la terapia. Un parametro che invece non deve essere confuso con quello della guarigione, un indicatore spesso difficile da misurare. Alcuni affermano che si possa parlare di guarigione dopo cinque anni dalla fine della terapia senza che si ripresenti la malattia, altri sostengono non ci sia mai una certezza di guarigione completa.
Una situazione con diverse campane e una sola certezza: quella di una persona che vive ma che ha soprattutto il diritto di vivere dignitosamente, senza essere così discriminata per ben dieci anni prima di esercitare diritti che le spettano di diritto. Nemes Sicari, 18 novembre 2023, su Nicolaporro.it
Evitare la chemioterapia? Le nuove scoperte dell'oncologia. I recenti progressi, insieme alle terapie localizzate e ablative, stanno aprendo nuove strade per evitare o ridurre l'uso della chemioterapia tradizionale. Redazione Notizie.it l'8 Agosto 2023
ARGOMENTI TRATTATI
Terapie a bersaglio molecolare (Target Therapy) e Immunoterapia
Diagnostica avanzata e personalizzazione della terapia
In sintesi
L’oncologia è una branca della ricerca scientifica e della pratica clinica che studia i tumori e cerca costantemente nuovi approcci terapeutici per migliorare la prognosi dei pazienti affetti da neoplasie. Uno degli aspetti più dibattuti nell’oncologia moderna è rappresentato dall’impiego della chemioterapia: sebbene essa abbia dimostrato di essere efficace nel trattamento di molti tipi di tumori (solidi ed ematici), i suoi effetti collaterali e il suo impatto sulla qualità della vita del paziente hanno spinto la ricerca scientifica a esplorare alternative innovative.
Uno dei progressi più significativi nell’oncologia moderna riguarda la nostra crescente comprensione dei meccanismi molecolari alla base della proliferazione incontrollata delle cellule tumorali. La scoperta di specifiche alterazioni genetiche e molecolari nei tumori ha aperto la strada allo sviluppo di terapie mirate, che aggrediscono in maniera selettiva le cellule tumorali, riducendo così il danno alle cellule sane circostanti (il principale drawback della chemioterapia tradizionale).
Terapie a bersaglio molecolare (Target Therapy) e Immunoterapia
Le terapie a bersaglio molecolare si basano sulla somministrazione di farmaci che agiscono direttamente sui bersagli molecolari coinvolti nella crescita e proliferazione delle cellule tumorali; questi possono essere (anticorpi) monoclonali, inibitori di specifici enzimi o altre molecole chiave nel processo oncogenico. Essi possono essere utilizzati in combinazione con altre terapie o come trattamento esclusivo, a seconda del tipo di tumore e delle caratteristiche individuali del paziente.
Un’altra frontiera promettente dell’oncologia è l’immunoterapia. Questa strategia terapeutica sfrutta il sistema immunitario del paziente per combattere il cancro. I farmaci cosiddetti: “immunoterapici” possono innescare una risposta immunitaria specifica contro le cellule tumorali o rimuovere i “freni” che impediscono al sistema immunitario di riconoscere e attaccare il tumore. Una revisione sistematica di studi precedenti: “Clinical cancer immunotherapy: Current progress and prospects” pubblicata sulla rivista Frontiers nel 2022 osserva che, rispetto alla chemioradioterapia tradizionale e alla terapia target, l’immunoterapia presenta notevoli vantaggi. Grazie allo studio approfondito del meccanismo di risposta immunitaria antitumorale, sono stati compiuti grandi progressi nel campo dell’immunoterapia dei tumori. Tuttavia, lo studio prosegue, l’applicazione diffusa nella pratica clinica senza ulteriori ricerche potrebbe dar vita a fenomeni di immunoresistenza (in pratica, le cellule tumorali potrebbero trovare il modo per “ingannare” nuovamente il sistema immunitario).
Diagnostica avanzata e personalizzazione della terapia
L’era della medicina di precisione ha anche portato a un’evoluzione nella personalizzazione dei trattamenti oncologici. Attraverso analisi genetiche e molecolari, team di medici e ricercatori possono identificare specifiche mutazioni o alterazioni genomiche nel tumore di un paziente, consentendo di selezionare terapie mirate specifiche per il profilo genetico del tumore di un individuo, massimizzando così l’efficacia del trattamento, evitando o limitando i cicli chemioterapici e, pertanto, minimizzando gli effetti avversi.
L’analisi genetica, molto spesso, viene richiesta come “second opinion” dopo che la diagnosi è stata emessa dal proprio medico e mentre è in corso un percorso terapeutico. L’esame dei referti medici, delle cartelle cliniche del paziente, e analisi specifiche, possono contribuire a conoscere meglio la natura della neoplasia e correggere o modificare l’attuale terapia.
In sintesi
L’oncologia sta vivendo una fase di rapido sviluppo, in cui le nuove scoperte e le innovative strategie terapeutiche stanno rivoluzionando l’approccio alla malattia. La ricerca scientifica ha portato alla scoperta di terapie mirate, immunoterapie, e approcci personalizzati che stanno ridefinendo il panorama dei trattamenti oncologici. Questi progressi, insieme alle terapie localizzate e ablative, stanno aprendo nuove strade per evitare o ridurre l’uso della chemioterapia tradizionale.
È importante sottolineare che, nonostante i significativi progressi degli ultimi anni, la chemioterapia rimane un trattamento valido per molti tipi di tumori e può ancora essere la migliore opzione per alcuni pazienti. La scelta del trattamento più adeguato dovrebbe sempre essere basata sulla valutazione approfondita del tumore, dello stato di salute generale del paziente e delle opzioni terapeutiche disponibili.
La straordinaria scoperta per distruggere il cancro (con la luce laser). Una eccezionale scoperta apre una nuova frontiera per la lotta ai tumori. Grazie ad un team di ricercatori italiani, sarà possibile "colpirli" con fasci di luce laser ad alta intensità. Roberta Damiata il 9 Agosto 2023 su Il Giornale.
Campione tridimensionale di tumore al pancreas illuminato tramite luce laser verde. Si può notare uno spot luminoso di intensità estrema (tsunami ottico) che permette il trasporto di energia attraverso l’intricata struttura di cellule tumorali.
Tabella dei contenuti
L'importanza della luce laser
La scoperta che può rivoluzionare la ricerca
La parola degli esperti
Si apre una nuova frontiera per la lotta contro il cancro. Lo studio che ha portato soluzioni rivoluzionarie è stato portato avandi dall'Università La Sapienza di Roma, Istituto dei sistemi complessi del Cnr, Università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, che sono riuscite a trasmettere raggi di luce laser di intensità estrema colpendo anche tumori millimetrici. Per spiegare in modo semplice il procedimento, grazie alle alle onde luminose estreme sarà possibile concentrare energia in modo preciso e non-invasivo in tessuti tumorali profondi e distruggerli. Il risultato è stato pubblicato sulla rivista Nature Communication e apre una nuova strada nelle tecniche di fototerapia per il trattamento del cancro.
L'importanza della luce laser
Sono moltissime le applicazioni possibili grazie ai fasci di luce laser, che vedono il loro utilizzo soprattutto a livello medico. In questo caso sono di grande importanza per la loro capacità di penetrare in profondità in regioni tumorali, dando un grande impulso all'uso della fototerapia, ovvero un insieme di tecniche biomediche d’avanguardia, che utilizzano luce visibile ed infrarossa per trattare cellule cancerose o per attivare farmaci e processi biochimici. Una tecnica questa non priva in ogni caso di criticità, visto che la maggior parte dei tessuti biologici è otticamente opaca ed assorbe la radiazione incidente (quella radiazione che incontra un ostacolo qualsiasi, al quale cede tutta o una parte della propria energia, ndr), era quindi questa la prima sfida da affrontare su cui si sono concentrati il team di ricercatori.
La scoperta che può rivoluzionare la ricerca
Partendo da questo i ricercatori, i fisici e i biotecnologi guidati da Davide Pierangeli per l’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isc), Claudio Conti per l'Università la Sapienza di Roma, e Massimiliano Papi per l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, hanno però scoperto che all'interno delle strutture cellulari tumorali, possono formarsi onde luminose di intensità estrema, i cosidetti tsunami ottici, noti in molti sistemi complessi, che possono essere sfruttati per trasmettere luce laser intensa e concentrata attraverso campioni tumorali tridimensionali di tumore pancreatico, uno dei più letali.
La parola degli esperti
“Studiando la propagazione laser attraverso sferoidi tumorali - spiega Davide Pierangeli (Cnr-Isc) - ci siamo accorti che all’interno di un mare di debole luce trasmessa c’erano dei modi ottici di intensità estrema. Queste onde estreme rappresentano una sorgente super-intensa di luce laser di dimensioni micrometriche all’interno della struttura tumorale. Possono essere utilizzate per attivare e manipolare sostanze biochimiche”.
“Il nostro studio mostra come le onde estreme, che fino ad oggi erano rimaste inosservate in strutture biologiche, siano in grado di trasportare spontaneamente energia attraverso i tessuti – continua Claudio Conti – e possano essere sfruttate per nuove applicazioni biomediche”.
“Con questo raggio laser estremo - conclude Massimiliano Papi – potremmo sondare e trattare in maniera non-invasiva una specifica regione di un organo. Abbiamo mostrato come tale luce può provocare aumenti di temperatura mirata che inducano la morte di cellule cancerose, e questo ha implicazioni importanti per le terapie fototermiche”.
Estratto dell'articolo di Cristina Genesin per lastampa.it il 30 marzo 2023.
[…] la Corte di Cassazione […] ha confermato la condanna a due anni di carcere (sia pure con la sospensione condizionale della pena) per i genitori di Eleonora Bottaro, la studentessa di Bagnoli morta a 18 anni appena compiuti il 29 agosto 2016 a causa di una leucemia linfoblastica acuta, dopo aver rifiutato la chemioterapia quando era ancora minorenne.
La sentenza è definitiva per Lino Bottaro, 69 anni, e la moglie Rita Benini, 57 che avevano proposto il ricorso. Ricorso rispedito al mittente: è stato ritenuto infondato. L’accusa contestata? Omicidio colposo per aver cagionato la morte della figlia (che all’inizio della malattia era minorenne), impedendo di fatto la somministrazione di una terapia idonea e manipolando la sua volontà.
È il Natale 2015, Eleonora sta male. Ha febbre alta ed è sempre molto stanca. A febbraio gli esami del sangue: il 10 del mese il verdetto rivela che è stata colpita da leucemia. […] i genitori rifiutano il consenso alla chemioterapia. Eppure quella patologia – avevano spiegato i medici ai familiari – avrebbe avuto il 100 per cento di mortalità se non curata con la chemioterapia, l’85 per cento di probabilità di guarigione se trattata.
Ma la coppia risulta seguace delle teorie del medico tedesco Ryke Geerd Hamer, morto alcuni anni fa, fondatore della cosiddetta “Nuova Medicina Germanica”, una teoria basata sul principio che il tumore è frutto di un conflitto psichico. […]
Il 26 febbraio i giudici minorili ordinano di tenere la paziente sotto stretta osservazione sospendendo la responsabilità genitoriale. Troppo tardi. Un’ora e mezza prima che il provvedimento fosse notificato, mamma e papà firmano le dimissioni volontarie per conto della figlia.
Eleonora si trasferisce in una clinica a Bellinzona, in Svizzera. Anche lì secco il “no” alle terapie della scienza tanto che poi i genitori sceglieranno il ricovero, sempre in terra elvetica, nella clinica olistica “Paracelsus”, dove si applicano trattamenti naturali. La ragazza torna a casa il 31 luglio, ormai malata terminale. Muore il 29 agosto, 15 giorni dopo aver compiuto 18 anni (era nata il 14 del mese).
I genitori finiscono sotto inchiesta: avevano definito la malattia una sorta di rigenerazione cellulare. E l’avevano attribuita a un trauma scolastico che, insieme alla scomparsa del fratello […] avrebbe alterato nella figlia l’equilibrio interiore.
Eleonora si era “curata” solo con vitamine e cortisone. Una “non scelta terapeutica”, secondo il procuratore aggiunto padovano Valeria Sanzari che, conclusa l’inchiesta, contesta ai Bottaro il reato di omicidio colposo aggravato, accusandoli di «aver fornito» alla figlia «una falsa rappresentazione della realtà sia con riferimento alla gravità e mortalità della patologia, sia all’idoneità e all’adeguatezza dei rimedi da loro proposti, riconducibili alla Nuova medicina di Ryke Geerd Hamer... rimedi privi di validità scientifica e idoneità terapeutica».[…]
Da “Repubblica.it” il 30 marzo 2023.
Morta a causa di una leucemia dopo che i genitori, con il suo assenso, avevano scelto nei mesi scorsi di rifiutare la chemioterapia proposta dei medici, affidandosi a cure alternative, a base di cortisone e vitamina C. E' la vicenda di Eleonora Bottaro una giovane padovana 18enne, studentessa dell'istituto agrario. Secondo 'Il Mattino di Padova', i genitori avevano perso la patria potestà, su decisione del Tribunale.
La ragazza, residente a Bagnoli, in provincia di Padova, era stata colpita dalla malattia all'inizio di quest'anno, quando era ancora minorenne. I medici avevano consigliato cicli di chemioterapia, ma i genitori si erano rifiutati. Lino Bottaro e la moglie Rita seguono infatti la filosofia dell'ex medico tedesco Ryke Geerd Hamer, considerato un "guru" della medicina alternativa per la lotta contro i tumori e padre del giovane ucciso da un colpo di fucile esploso da Vittorio Emanuele di Savoia all'isola di Cavallo.
Secondo Hamer, le malattie non sarebbero altro che una risposta dell'organismo a traumi psicologici irrisolti. Nel caso specifico, per i due coniugi, la leucemia sarebbe insorta dopo la morte prematura del fratello Luca a soli 22 anni: il giovane nel 2013 venne stroncato, sempre in estate, da un aneurisma mentre si trovava in vacanza a Folgaria.
I genitori della ragazza avevano firmato le dimissioni della figlia dal reparto di Oncoematologia dell'ospedale di Padova. Immediata la segnalazione al tribunale dei Minori da parte della direzione dell'Azienda ospedaliera.
Nel giro di poche settimane il tribunale aveva tolto la patria potestà a Rita e Lino Bottaro, fotografo e giornalista, creatore del sito Stampa Libera, ora chiusa che si occupava, come scriveva lo stesso Bottaro in una lettera di commiato sul suo blog delle "notizie dei terremoti indotti in ogni luogo d’Italia, le irrorazioni chimiche composte di nanoparticelle di metalli pesanti e polimeri effettuate da centinaia di bombardieri che operano ogni giorno sopra le nostre teste, i vaccini invalidanti e mortiferi, la chemio con le controindicazioni mortali stampate sul bugiardino data ai pazienti sotto tortura negli ospedali".
I due si erano quindi rivolti all'avvocato Gian Mario Balduin per gestire la situazione. Tutore di Eleonora era stato nominato il professor Paolo Benciolini di Medicina legale. Dopo una complessa mediazione la famiglia era riuscita a ottenere che la figlia venisse ricoverata in Svizzera all'ospedale di Bellinzona, dove è stato possibile seguire percorsi alternativi alla medicina tradizionale: una terapia a base di cortisone e, nelle ultime settimane, di dosi di vitamina C.
"È stata un'esperienza molto dura e triste", ha raccontato l'avvocato Balduin. "Continuavano a darci degli assassini. Non abbiamo fatto altro che ricordare che ci deve essere una libertà di cura". Il legale padovano ha dovuto tutelare marito e moglie di fronte al tribunale dei Minori, dove sono state presentate anche centinaia di firme di compaesani che attestavano la serietà della famiglia.
L'avvocato ha dovuto anche accompagnarli anche a tutti gli incontri con i medici che stavano seguendo la ragazza, che aveva compiuto 18 anni il 14 agosto scorso. "Sembrava che dopo le cure in Svizzera si fosse ripresa" racconta ancora Balduin. "Ma la situazione è nuovamente precipitata". Eleonora è stata quindi ricoverata all'ospedale di Schiavonia ma ormai era allo stremo delle forze. L'ultimo ricorso presentato è stato quello in cui si chiedevano dosi massicce di vitamina C. Poi è arrivata la morte. E ora le polemiche si fanno ancora più dure.
"Magistratura, ministero della Sanità, Rapporti con Unione europea e Ordine dei giornalisti faranno o almeno diranno qualcosa sulla morte per leucemia della ragazza? O dobbiamo aspettare altre morti?", scrive su Facebook il deputato Pd, Michele Anzaldi, che auspica che venga fatta immediatamente chiarezza sulla vicenda.
E il professor Roberto Burioni, del San Raffaele di Milano, specialista in Immunologia fa notare nella sua pagina Facebook come la ragazza sia morta di leucemia, ma non a causa dell'inefficacia delle cure, ma poiché curata con medicine alternative, nonostante la volontà dei medici dell'ospedale in cui era ricoverata la ragazza di curarla con le efficaci terapie con cui l'80-90 per cento dei malati di leucemia guariscono.
Da “il Giorno” il 30 marzo 2023.
Prosciolti perché il fatto non costituisce reato: si è chiusa così, in udienza preliminare a Padova, la vicenda giudiziaria che ha visto protagonisti Lino Bottaro, 63 anni, e Rita Benini, 51, genitori di Eleonora, morta il 29 agosto dello scorso anno per leucemia linfoblastica acuta. La ragazza, originaria di Bagnoli di Sopra (Padova), si era ammalata a 17 anni. I medici dell' ospedale di Schiavoni e del reparto di Oncoematologia pediatrica dell' Azienda ospedaliera di Padova le avevano consigliato di sottoporsi alla chemioterapia che le avrebbe dato ottime possibilità di guarigione.
La giovane però aveva rifiutato le cure consigliate, preferendo fare ricorso a metodi riconducibili alla medicina alternativa del medico tedesco Hammer, sostenitore della tesi secondo cui i tumori e le leucemie altro non sono altro che un riflesso fisico di traumi psicologici.
Accompagnata dai genitori, si era rivolta a una clinica di Bellinzona, in Svizzera, presentando anche un memoriale di 20 pagine scritte a mano in cui motivava la sua scelta, spiegando di non credere nella validità delle terapie tradizionali e di essere anzi sicura che queste l' avrebbero solo danneggiata.
Eleonora aveva anche incontrato il giudice del Tribunale dei minori che ne aveva riconosciuto la maturità. Poi, pochi giorni dopo essere diventata maggiorenne, la giovane è morta. La procura di Padova aveva così aperto un' inchiesta nei confronti dei genitori della giovane per omicidio colposo aggravato dalla previsione dell' evento.
I maxisequestri e i consigli. Cos’è il Lilial: la sostanza cancerogena in bagnoschiuma, profumi, deodoranti, creme e shampoo vitata dall’UE. Un regolamento dell'Unione europea ha definito il Butylphenyl methylpropional capace di "danneggiare il sistema riproduttivo, nuocere alla salute del feto e causare sensibilizzazione cutanea". Redazione Web su L'Unità il 29 Settembre 2023
Se migliaia di confezioni di bagno schiuma, shampoo, doccia schiuma, deodoranti, profumi e altri prodotti sono stati sequestrate nelle scorse settimane è perché al loro interno si trova una sostanza ritenuta “reprotossica” dall’Unione Europea, ovvero capace di “danneggiare il sistema riproduttivo, nuocere alla salute del feto e causare sensibilizzazione cutanea”. È il Lilial, un ingrediente molto più che consueto all’interno di questo tipo di prodotti. Un Regolamento dell’UE l’ha vietata da oltre un anno.
Il Lilial è il nome informale del Butylphenyl methylpropional, un composto chimico utilizzato comunemente come profumo in bagnoschiuma, profumi, deodoranti, creme e shampoo ma anche nelle polveri per bucato. Una sostanza vietata dal Regolamento UE 2021/1902 dal primo marzo 2022 perché ritenuta in grado di “danneggiare il sistema riproduttivo, nuocere alla salute del feto e causare sensibilizzazione cutanea”. A questo punto è il caso di controllare i prodotti al momento dell’acquisto ma anche quelli già presenti in casa.
A metà settembre sono state sequestrate dalla Guardia di Finanza a Pisa duemila confezioni di profumi, bagnoschiuma, shampoo, creme, lozioni, saponi. Tutti quanti contenevano il Butylphenyl Methylpropional, indicato come Lilial sulle etichette. Il Comitato per la Valutazione dei Rischi dell’Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche ritiene che la sostanza chimica possa portare a tumori e a infertilità. La merce – ha fatto sapere la Guardia di Finanza in una nota – “è stata rinvenuta sugli scaffali dei punti vendita, pronta per essere acquistata dai consumatori finali” di sette negozi. Gli stessi baschi verdi avevano anche avvertito come “in alcuni casi, l’indicazione della presenza della sostanza nei prodotti era stata occultata mediante etichette appositamente apposte sulle confezioni”.
A Rainews.it il chimico Fabrizio Zago, consulente del marchio di qualità ecologica dell’UE Ecolabel, ha osservato come sia “presente dappertutto”. A preoccupare, nonostante la classificazione come sostanza cmr (cancerogena-mutageo-reprotossica), è che “possiamo ancora trovarlo oggi in molti prodotti in vendita destinati non solo agli adulti, ma anche ai bambini, categoria ancora più a rischio per la maggior recettività”. Per l’esperto a incidere sugli effetti avversi è anche il tempo di applicazione: c’è differenza quindi tra un sapone subito risciacquato e un prodotto applicato per un tempo più lungo come per esempio una crema viso. La sostanza ha anche “un impatto ambientale in quanto l’azione genotossica agisce sugli organismi acquatici. Negli esseri umani è in grado di nuocere alla salute del feto oltre che produrre un’azione allergizzante”.
Redazione Web 29 Settembre 2023
Il bisfenolo è presente in quasi tutti i pomodori pelati, come evitarlo. Roberto Demaio su L'Indipendente lunedì 3 luglio 2023.
Un nuovo test ha analizzato 20 confezioni di pomodori pelati, quasi tutti confezionati in lattina, scoprendo che il bisfenolo A è ancora un grosso problema. Il bisfenolo (BPA) è una sostanza impiegata nei recipienti per uso alimentare e può provocare gravi danni alla salute. È provata la sua correlazione con l’alterazione del sistema nervoso, riproduttivo ed immunitario e recentemente è stato collegato anche a problemi di obesità e al tumore mammario. Dalle analisi pubblicate sul mensile dei consumatori tedeschi Öko-Test, 18 lattine hanno superato il limite critico, superando addirittura di 28 volte il limite considerato innocuo dalle autorità europee. Solo una marca si è salvata ed è in vetro. Alcune tra le marche coinvolte sono italiane e, con pochissime eccezioni, tutti i barattoli contengono pomodori italiani. Tra i nomi anche Cirio, Mutti e i pelati prodotti da La Doria per Lidl.
L’indagine si è concentrata in particolare sul bisfenolo A. Lo scopo era capire se questo può migrare dai rivestimenti delle lattine al pomodoro. Si è voluto verificare anche se i prodotti fossero contaminati da residui di pesticidi o tossine delle muffe. Tutti i pomodori pelati in scatola del test hanno superato la dose giornaliera consentita. D’altra parte, solo i 2 prodotti in vetro sono puliti. Öko-Test, il mensile dei consumatori tedeschi che ha pubblicato le analisi, ha specificato che “con un cibo in scatola di un fornitore del nostro test, un adulto del peso di 60 kg assume 28 volte più bisfenolo A di quanto l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) consideri innocuo secondo le ultime stime”. Tuttavia, la dose giornaliera tollerabile non è vincolante. Non si tratta quindi di un limite legale. Quindi anche in questo caso i pomodori sono assolutamente a norma di legge. La cosa che stupisce maggiormente è che a superare questi limiti sono anche i pomodori confezionati in lattine “BPA free”, ovvero quelle per cui la sostanza non dovrebbe essere usata per il rivestimento interno.
Il Bisfenolo A (BPA) è prodotto sin dagli anni ’60 dello scorso secolo ed è una sostanza chimica molto utilizzata in tutti i paesi industrializzati. È impiegato principalmente nella produzione delle plastiche in policarbonato, utilizzate nei recipienti per uso alimentare, e nelle resine epossidiche che compongono il rivestimento protettivo interno presente nella maggior parte delle lattine per alimenti e bevande. Gli usi in campo non alimentare vanno dalla carta termica degli scontrini ai dispositivi odontoiatrici. Il BPA è considerato un interferente endocrino, ovvero una sostanza in grado di danneggiare la salute alterando l’equilibrio endocrino, soprattutto nella fase dello sviluppo all’interno dell’utero e nella prima infanzia. Gli studi sperimentali, ed anche un numero crescente di studi epidemiologici indicano che il BPA ha effetti estrogenici, che hanno una vasta influenza sulla funzione riproduttiva, ma anche su altre funzioni dell’organismo. Il BPA, pertanto, può alterare lo sviluppo del sistemi riproduttivo, di quello nervoso ed immunitario. Recentemente sono stati scoperti alcuni effetti particolarmente preoccupanti sull’aumento del rischio di obesità e di tumore mammario. Il Bisfenolo A può passare in piccole quantità dai recipienti che lo contengono ai cibi e alle bevande, soprattutto se i materiali non sono perfettamente integri e sono utilizzati ad alte temperature.
Sempre secondo il test, fortunatamente i pesticidi non sembrano essere un problema e neppure le tossine della muffa, le quali sono state trovate in un solo prodotto. Importante sapere che il Bisfenolo A è una molecola usata come additivo nella produzione di plastiche e lattine, quindi acquistare o conservare i pomodori pelati in bottiglie di vetro pone al riparo dalla sua assunzione. [di Roberto Demaio]
(ANSA-AFP il 14 luglio 2023) L'OMS ha dichiarato di aver classificato l'aspartame, un dolcificante artificiale comunemente usato nelle bevande analcoliche, come "possibilmente cancerogeno per l'uomo", lasciando però invariato il livello di assunzione giornaliera accettabile. "Non stiamo consigliando alle aziende di ritirare i prodotti, né stiamo consigliando ai consumatori di smettere del tutto di consumarli", ha affermato Francesco Branca, direttore della nutrizione e della sicurezza alimentare dell'Organizzazione mondiale della sanità.
"Stiamo solo consigliando un po' di moderazione", ha detto Francesco Branca, direttore della nutrizione e della sicurezza alimentare dell'Organizzazione mondiale della sanità in una conferenza stampa presentando i risultati di due revisioni delle prove disponibili sull'aspartame. L'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell'Oms ha effettuato la sua prima valutazione della cancerogenicità dell'aspartame durante un incontro a Lione, in Francia, dal 6 al 13 giugno.
"Il gruppo di lavoro ha classificato l'aspartame come possibilmente cancerogeno per l'uomo", ha detto l'Oms. È stato inserito nella categoria Gruppo 2B, sulla base di test che riguardavano specificamente il carcinoma epatocellulare, un tipo di cancro al fegato. Altri test sono stati effettuati su animali da laboratorio. La categoria Gruppo 2B contiene anche l'estratto di aloe vera e l'acido caffeico presenti nel tè e nel caffè, ha affermato Paul Pharoah, professore di epidemiologia del cancro presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles.
"Il pubblico in generale non dovrebbe essere preoccupato per il rischio di cancro associato a una sostanza chimica classificata come gruppo 2B", ha affermato. Mary Schubauer-Berigan della Iarc ha affermato che le prove riferite al carcinoma epatocellulare provengono da tre studi, condotti negli Stati Uniti e in 10 Paesi europei. "Questi sono gli unici studi epidemiologici che hanno esaminato il cancro al fegato", ha detto ai giornalisti. Branca ha aggiunto: "Abbiamo, in un certo senso, lanciato un segnale, indicando che dobbiamo chiarire molto meglio la situazione", ma non è nemmeno "qualcosa che possiamo liquidare".
Un secondo gruppo, il Jecfa, il comitato congiunto di esperti sugli additivi alimentari formato dall'Oms e da un'altra agenzia delle Nazioni Unite, l'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura, si è riunito a Ginevra dal 27 giugno al 6 luglio per valutare la rischi associati all'aspartame e ha concluso che non vi sia alcun motivo per modificare la dose giornaliera accettabile stabilita nel 1981, da zero a 40 milligrammi di aspartame per chilogrammo di peso corporeo.
Con una lattina di bibita analcolica senza zucchero contenente tipicamente 200 o 300 mg di dolcificante aspartame, un adulto del peso di 70 kg dovrebbe quindi consumare più di 9-14 lattine al giorno per superare il limite, supponendo che non venga assunto ulteriore aspartame da altre fonti . "Il problema è per i grandi consumatori", ha detto Branca. "Chi beve una bibita ogni tanto non dovrebbe preoccuparsi", ha concluso.
L’aspartame sarà dichiarato cancerogeno: dove si trova e come individuarlo in etichetta. Roberto Demaio su L'Indipendente martedì 4 luglio 2023.
L’International Agency for Research on Cancer (IARC), l’agenzia dell’Oms specializzata nella ricerca sul cancro, potrebbe presto classificare l’aspartame come “possibile cancerogeno per l’uomo“. È quanto anticipa Reuters sul proprio sito citando fonti anonime. L’ufficializzazione della notizia è attesa per il prossimo 14 luglio, quando la valutazione sarà pubblicata sulla rivista Lancet Oncology. L’aspartame è uno dei dolcificanti più diffusi in commercio. È presente in numerosi prodotti e, secondo i regolamenti europei, le aziende sono obbligate a segnalare il suo uso all’interno delle etichette. L’Associazione Internazionale dei Dolcificanti invita alla prudenza chiedendo di aspettare la pubblicazione completa dei risultati.
L’aspartame è un edulcorante artificiale intenso a basso tenore calorico. Si presenta come una polvere bianca e inodore ed è circa 200 volte più dolce dello zucchero. La scoperta risale al 1965, grazie al lavoro del chimico James Schlatter. Nel dettaglio, l’aspartame si ottiene mettendo insieme due aminoacidi: la fenilalanina e l’acido aspartico. In Europa ne è autorizzato l’uso come additivo alimentare. Fa parte dei cosiddetti “dolcificanti intensivi” e la sua produzione avviene attraverso la sintesi chimica. Il motivo del suo utilizzo è il potere calorico molto basso o addirittura nullo.
Il dibattito sulla sua sicurezza nasce da due studi sui topi dei primi anni Duemila, guidati dall’Agenzia per la protezione ambientale della California e dall’Istituto Ramazzini di Bologna. Esposti anche a bassi dosaggi, si è registrato un numero anomalo di tumori del cervello e leucemie. Nonostante un dibattito che dura da più di vent’anni, gli studi sugli esseri umani invece avevano sempre escluso il rischio tumore, fino a che una ricerca francese su 100mila persone ha notato un lieve aumento del rischio. Se la notizia di Reuters fosse confermata, sarebbe il primo ingresso di questo dolcificante nella lista dei possibili cancerogeni. Chiaramente questa decisione potrebbe andare a sconvolgere l’industria di cibi e bevande proposti e venduti come salutari per il basso o nullo contenuto di zuccheri. L’aspartame è possibile trovarlo nelle bevande (soprattutto in quelle senza zuccheri come la Coca Cola Zero), nei chewing gum, nelle merendine, nei gelati e nei cibi industriali dietetici. Fa parte di tanti prodotti lattieri (come lo yogurt) e negli alimenti usati in pasticceria. È presente pure in molti confetti. Secondo le direttive dell’Unione Europea, è obbligatorio che venga indicato nell’etichetta degli ingredienti che si trova nella confezione di tutti prodotti alimentari. È possibile riconoscerlo anche attraverso la sigla E 951.
Tuttavia, la categoria dei “possibili cancerogeni”, secondo la definizione della IARC, comprende anche le sostanze per le quali l’evidenza scientifica è ancora limitata. Carlo La Vecchia, epidemiologo dell’università di Milano che si occupa di aspartame da almeno un decennio, ha dichiarato di non aver mai notato effetti tossici: «Non abbiamo riscontrato problemi negli esseri umani. Trovo comunque che la nuova classificazione cambi poco le cose». Su posizioni simili anche L’Associazione Internazionale dei Dolcificanti (ISA), la quale ha specificato che “l’ingrediente è uno dei più studiati nella storia ed è stato dichiarato sicuro da oltre 90 agenzie per la sicurezza alimentare”. Frances Hunt-Wood, segretario dell’ISA, ha dichiarato di aver fiducia nel rigore scientifico e che attenderà con impazienza la pubblicazione completa dei risultati nelle prossime settimane. [di Roberto Demaio]
Cibi ultraprocessati: provata la correlazione con varie forme tumorali. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 3 aprile 2023.
I modelli dietetici dei Paesi occidentali, ma ormai possiamo dire che si tratta di diete globali che riguardano un po’ tutti gli Stati del mondo sono sempre più dominati da alimenti ultra processati (cibi industriali molto lavorati e raffinati): relativamente economici, altamente appetibili e pronti da mangiare. Un nuovo studio scientifico li mette però nuovamente sotto accusa: aumentano il rischio di insorgenza dei tumori e il tasso di mortalità correlata, in particolare per quanto riguarda ovaio, mammella e cervello. Questi sono stati i risultati di uno studio condotto da ricercatori inglesi dell’Imperial College di Londra e pubblicati il 31 Gennaio 2023 su eClinical Medicine.
Lo studio e i risultati
Questo studio ha incluso una coorte di oltre 500 mila partecipanti del Regno Unito (di età compresa tra 40 e 69 anni) che sono stati monitorati nelle loro abitudini alimentari tra il 2009 e il 2012 in maniera molto specifica, e poi seguiti comunque fino al 31 gennaio 2021 per registrare l’andamento del loro stato di salute, in particolare sullo sviluppo di tumori e sui decessi di persone del gruppo dei partecipanti. I prodotti alimentari consumati sono stati classificati in base al grado di lavorazione degli alimenti, vale a dire da semplice e poco lavorato (es. pomodoro crudo) a mediamente o ultraprocessato (es. salse di pomodoro, pizza surgelata al pomodoro). Come sempre succede con gli studi di questo tipo, tutti i dati e risultati sono stati aggiustati per le caratteristiche socio-demografiche di base, l’abitudine al fumo, l’attività fisica, l’indice di massa corporea, l’alcol e l’apporto energetico totale. Ovvero, sono stati estrapolati dei risultati finali al netto di tutti gli altri fattori cosiddetti “confondenti”, i quali sono stati standardizzati, cioè resi uguali per tutto il gruppo partecipante allo studio.
Il consumo medio di alimenti ultraprocessati era del 22,9% nella dieta totale. Durante un tempo medio di monitoraggio di 10 anni circa, 15.921 individui hanno sviluppato il cancro e si sono verificati 4009 decessi correlati al cancro.
I risultati mostrano che un maggiore consumo di alimenti ultra-elaborati è associato a un maggior rischio di cancro in generale e in particolare di cancro alle ovaie e al cervello, nonché a un aumento del rischio di mortalità complessiva, mortalità per tumore ovarico e del seno. Queste associazioni persistevano anche dopo l’aggiustamento per una serie di fattori socio-demografici confondenti, come detto: fumo, attività fisica e altri fattori dietetici.
Dieta e cancro: impatto degli alimenti industriali
I ricercatori dello studio mettono nero su bianco che il cancro è responsabile di un decesso su 6 a livello globale e ha superato le malattie cardiovascolari come principale causa di mortalità prematura in molti paesi ad alto reddito. Tuttavia, sostengono che almeno il 50% dei casi di cancro potrebbe essere potenzialmente prevenibile e una dieta non sana è un fattore di rischio chiave modificabile. I ricercatori affermano che “Vi sono crescenti preoccupazioni per i potenziali effetti nocivi sulla salute degli alimenti ultra-trasformati, alimenti che sono formulazioni industriali realizzate assemblando sostanze alimentari di derivazione industriale e additivi alimentari attraverso una sequenza di processi industriali estensivi. Gli alimenti ultra-processati contengono poco o niente del cibo intero di origine e sono spesso densi di energia, ricchi di sale, zucchero e grassi nocivi, poveri di fibre e soggetti a un consumo eccessivo. Sono commercializzati in modo aggressivo con marchi forti per promuovere il consumo e stanno gradualmente sostituendo i modelli dietetici tradizionali basati su alimenti freschi e minimamente trasformati. Oltre alla loro composizione nutrizionale più povera, gli alimenti ultra-processati possono inoltre aumentare il rischio di cancro attraverso contaminanti potenzialmente cancerogeni che si generano durante la lavorazione industriale, attraverso l’uso di alcuni additivi alimentari controversi e alcuni materiali di imballaggio caratterizzati dall’avere proprietà cancerogene e/o di interferenza con gli ormoni del corpo umano”.
Conclusioni
Gli autori sottolineano che, rispetto a precedenti studi realizzati sugli alimenti industriali processati e lo sviluppo di cancro (e relativi tassi di mortalità associata), il loro studio è più completo e comprende un gruppo di partecipanti più ampio, pertanto apporta conclusioni più solide, che comunque sono in linea con gli studi precedenti nella sostanza. Affermano inoltre che in letteratura medico-scientifica si stanno accumulando prove sul forte potenziale di promozione – da parte degli alimenti ultra-processati – di obesità e diabete di tipo 2, ed entrambe queste condizioni sono fattori di rischio per molti tumori, compresi quelli dell’apparato digerente e alcuni tumori correlati agli ormoni nelle donne. In sintesi, questo ampio studio contemporaneo su adulti britannici di mezza età ha rilevato che un consumo più elevato di cibi industriali molto lavorati era associato a una maggiore incidenza e mortalità di tumori complessivi e di alcuni tumori in siti specifici, specie negli organi femminili legati alla riproduzione come ovaie e seno. Sebbene un nesso di causalità netto e incontrovertibile non possa essere dichiarato, a causa della natura osservazionale dello studio e degli studi di questo tipo in generale, questi risultati evidenziano comunque l’importanza di considerare i gradi di trasformazione degli alimenti nelle diete e suggeriscono che sarebbe sempre opportuno, a scopo precauzionale, non seguire diete e regimi alimentari basati in larga parte sul consumo di cibi industriali molto lavorati. Non è di alcuna sorpresa scoprire ancora una volta come i cibi più genuini e integri, come la Natura li produce e li offre (frutta, verdura, latte, carne ecc.), sono quelli più sicuri, in generale, e con meno problematiche per la salute e per lo sviluppo di patologie tumorali. Cibi naturali o poco lavorati quindi, in prevalenza. Il consumo occasionale e saltuario di cibi ultra-lavorati può essere contemplato, ma va visto e affrontato con la consapevolezza giusta e come l’eccezione ad una regola virtuosa. [di Gianpaolo Usai]
La pizza bruciacchiata fa male? Ecco la verità. Secondo quanto emerso dal convegno all'Accademia dei Georgofili di Firenze, non ci sono dubbi sul fatto che la pizza napoletana, anche se troppo cotta, non sia cancerogena. Cristina Balbo il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.
La pizza napoletana non è cancerogena sul bordo. È quanto emerso nel corso del convegno intitolato "Pizza napoletana tra tradizione e innovazione", in corso all'Accademia dei Georgofili di Firenze.
Nelle ultime settimane, infatti, si era diffuso l’allarme per cui i cibi troppo cotti o bruciacchiati come pane, cracker, patate e pizza, se cotti a temperature troppo alte, potrebbero sviluppare una sostanza particolarmente cancerogena, l’acrilammide. Quest’ultima, per l’appunto, come si legge sul sito ufficiale dell’Efsa, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, è una sostanza chimica che si forma naturalmente negli alimenti amidacei durante la cottura ad alte temperature (frittura, cottura al forno e alla griglia) e anche durante le lavorazioni industriali a temperature di oltre 120° con scarsa umidità.
Lo studio sulla pizza napoletana
“La pizza napoletana è sicura, non porta problemi nella parte che definiamo più 'bruciacchiata” ha affermato Mauro Moresi dell'Accademia dei Georgofili. Quindi, al contrario di quanto si possa pensare, nella parte più cotta, la pizza napoletana è sicura e non cancerogena per la salute. “Questo perché la quantità di acrilammide nel prodotto e nel bordo, ovvero la parte più esposta a temperature alte, è bassa – si legge sull’Ansa - ciò viene dimostrato dai gruppi di ricerca dell'Università di Napoli e della Tuscia.” Stando, infatti, alle dichiarazioni di Moresi: “Il motivo è legato al tempo di cottura della pizza nel forno a legna, molto basso, in genere sui 90 secondi. Quindi possiamo affermare con certezza che la pizza napoletana è sicura”.
A confermare quanto detto da Mauro Moresi, è stato anche Paolo Masi, professore dell'Università di Napoli Federico II: “Gli studi dimostrano che la superficie della pizza che si brucia è inferiore al 3% sulla quantità di peso e non per unità di superficie – ha spiegato il professor Masi – quindi possiamo mangiare tranquillamente la pizza”. Il professore ha, inoltre, aggiunto che: “Gli studi sulla manualità e sulla riproducibilità dei campioni sono stati realizzati in collaborazione con Enzo Coccia, uno dei più famosi pizzaioli italiani che ha preparato i campioni”.
L'inchiesta di Report nel 2014
Il tema della pizza napoletana cancerogena, però, non è nuovo. Era stato Bernardo Iovene, nel programma Report, nel 2014, ad aprire un’inchiesta dal titolo "Non bruciamoci la pizza”. In quel caso si esplorava il mercato delle pizze surgelate e dei prodotti utilizzati in Italia per preparare uno dei piatti più amati e conosciuti al mondo. Nell’introduzione all’inchiesta si leggeva: “La pizza fatta con ingredienti giusti fa bene. Invece da Napoli a Roma, Milano, Venezia, Firenze, spesso non è digeribile. Talvolta, può contenere elementi cancerogeni“.
Tuttavia, alla luce di quanto emerso da questi ultimi studi scientifici, sembrerebbe che non ci siano dubbi sul potere stare tranquilli mentre si mangia una buona pizza napoletana, anche se un po' troppo cotta.
Rischio tumori, meglio non eccedere con patatine bruciacchiate e pane abbrustolito. Ecco perché. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2023.
È bene consumare con moderazione alimenti cotti eccessivamente, soprattutto gli amidacei. Sono potenzialmente cibi cancerogeni, anche se più saporiti
Siete tra quelli che scartano attentamente la parte un po’ annerita dalla carne alla griglia e dal pane abbrustolito, oppure fra gli amanti di toast e patate bruciacchiati? Buon per voi se state fra i primi, mentre gli appartenenti al secondo gruppo è bene che si moderino. Perché? Da circa 30 anni ormai gli scienziati raccolgono dati sul pericolo di cancro dovuto all’acrilammide, una sostanza chimica che si forma durante alcuni tipi di cottura e che, secondo gli esperti, «aumenta potenzialmente il rischio di sviluppare il cancro nei consumatori di tutte le fasce d’età». «Col passare del tempo si sono accumulate le evidenze scientifiche e i sospetti si fanno sempre più fondati man mano che si aggiungono studi scientifici – dice Riccardo Caccialanza, direttore dell’Unità di Dietetica e Nutrizione Clinica al Policlinico San Matteo di Pavia –. Già nel 2015 l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA, acronimo di European Food Safety Authority) aveva pubblicato la sua prima valutazione completa dei rischi derivanti dalla presenza di acrilammide negli alimenti, indicandone i possibili pericoli».
Così nasce il pericolo
Cos’è di preciso l’acrilammide? «Una sostanza chimica che si forma naturalmente negli alimenti amidacei durante la cottura ad alte temperature (frittura, cottura al forno e alla griglia) e anche durante le lavorazioni industriali a temperature di oltre 120 gradi con scarsa umidità – spiega Caccialanza –. Il processo chimico che provoca tutto ciò è noto come “reazione di Maillard”, quella che conferisce al cibo quel tipico aspetto e sapore di abbrustolito che lo rende più gustoso. Si forma per lo più da zuccheri e aminoacidi (principalmente un aminoacido chiamato asparagina) naturalmente presenti in molti cibi. La presenza di acrilammide è stata riscontrata in prodotti come patatine, patate fritte, pane, biscotti e caffè». Per questo è bene preparare i cibi dorati e non marroncini, come diventano quando sono troppo bruciacchiati: gli appassionati di bruschette e cotture tostate o scottate un po’ in eccesso devono, insomma, rassegnarsi a prediligerle solo in via eccezionale.
Parola d'ordine: moderazione
Le prove ricavate da studi su animali hanno mostrato che l’acrilammide e il suo metabolita, la glicidammide, sono genotossiche e cancerogene: danneggiano cioè il Dna e provocano il cancro. Le verifiche condotte tramite ricerche sugli esseri umani non sono mai arrivate a una chiara dimostrazione, ma molte indagini hanno raggiunto conclusioni simili a quelle sugli animali. Tanto che anche l’industria alimentare ha iniziato a ridurne la presenza in diversi cibi. «Come sempre, quando si tratta di cibo e metodi di cottura, è molto difficile dimostrare che un singolo elemento possa provocare tumori, ma ormai gli indizi sono molti – conclude l’esperto -. Questo non significa divieti assoluti, ma buon senso e moderazione. Anche in virtù del fatto che gli effetti tossici dell’acrilammide derivano dal suo accumulo nel corso negli anni».
Tumori e metodo di cottura: le prove esistono
A proposito di cucina, è bene ricordare che per alcuni tipi di cottura le evidenze scientifiche sono più solide e certe. Barbecue, grigliate, fritture, affumicature e preparazioni «saltate in padella» sono stati già da tempo indicati come metodi nocivi perché a causa delle alte temperature si sprigionano sostanze cancerogene, come gli idrocarburi policiclici aromatici o le ammine eterocicliche. Il legame pericoloso appare evidente per diversi tumori dell’apparato digerente, soprattutto quello allo stomaco.
Giornata mondiale della lotta contro il cancro. A che punto è la ricerca. Sono ancora elevatissimi i numeri mondiali su quanti si ammalano al cancro: ecco a che punto siamo con ricerca e prevenzione e perché dobbiamo guardare al futuro con ottimismo. Alessandro Ferro il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I numeri del cancro
Dove è arrivata la ricerca
"Incremento annuo di neoplasie"
Il nuovo Piano oncologico nazionale
La Giornata mondiale contro il Cancro, il 4 febbraio di ogni anno, è l'iniziativa globale guidata dall'Unione per il Controllo Internazionale del Cancro (Uicc) per salvare milioni di vite ogni anno aumentando la consapevolezza e migliorando la conoscenza sulla malattia oltre a chiedere l'azione dei governi e dei singoli individui di tutto il mondo.
I numeri del cancro
Il comunicato dell'Uicc spiega che quasi la metà di tutti i decessi dovuti al cancro - 4,45 milioni su oltre nove milioni nel 2019 – sono causati da noti fattori di rischio modificabili come il fumo, il consumo di alcol e alti indice di massa corporea (BMI), ossia l'obesità. Ad oggi, il cancro rappresenta la seconda causa di morte nel mondo: questo significa che un uomo su cinque e una donna su sei in tutto il mondo svilupperanno il cancro nel corso di la loro vita e che un uomo su otto e una donna su undici moriranno a causa della loro malattia. La ricerca avanza ma i numeri prospettati dall'Uicc non sono incoraggianti visti i quasi 20 milioni di casi ogni anno e la stima di 30 milioni di nuovi tumori entro il 2040.
Dove è arrivata la ricerca
Le buone notizie, però, ci dicono che i tassi di sopravvivenza se colpiti dalla malattia stanno già aumentando in modo significativo soprattutto se il cancro viene rilevato precocemente e negli stadi iniziali: si stima che ulteriori 3,7 milioni di persone potrebbero salvarsi ogni anno con trattamenti tempestivi soprattutto sui tumori comuni come quelli al seno, cervicale, colon retto e prostata che rappresentano quasi un terzo di tutti i casi di cancro e oltre un terzo di tutti i decessi per cancro in tutto il mondo.
Un nuovo approccio alla cura del tumore lo spiega l'Airc, l'Associazione Italiana sulla Ricerca del Cancro che parla di un approccio "agnostico” alla terapia dei tumori: "la cura più efficace sia scelta in base alla presenza di una specifica mutazione molecolare nel cancro, e dando meno importanza al tessuto o all’organo di origine della malattia", spiegano gli esperti. In questo modo si potrebbe scegliere un trattamento ad hoc per arricchire il metodo più usato in oncologia che si è basato sull’istologia del tumore, cioé sull’esame del tessuto tumorale. Sono sempre di più gli studi clinici che hanno confermato l’efficacia di questo nuovo approccio innovativo ai quali hanno partecipato anche scienziati italiani. "Questi farmaci sono una nuova conquista della medicina di precisione, perché hanno un bersaglio molto specifico da colpire”, ha affermato all'Airc Giuseppe Curigliano, direttore della Divisione per lo sviluppo di nuovi farmaci e terapie innovative dell'Istituto europeo di Oncologia di Milano.
Test sul primo farmaco anticancro: ecco come funziona
La ricerca avanza spedita: è notizia delle ultime ore come da un semplice esame delle urine si possa identificare il cancro al cervello favorendo una diagnosi precoce. Ne parla uno studio giapponese pubblicato sulla rivista dell'American Chemical Society Nano e condotto dagli scienziati dell'Università di Nagoya e dell'Università di Tokyo. Il team avrebbe scoperto due proteine chiave legate alla presenza di tumore al cervello rilevabili nelle urine di un paziente. Come abbiamo visto recentemente su ilGiornale.it, poi, a Singapore si stanno conducendo test per mettere a punto il primo farmaco anticancro con il compito specifico di agire direttamente sulle cellule "malate" e risparmiare quelle sane con effetti collaterali molto meno dannosi della chemioterapia che colpisce qualsiasi tipo di cellula.
"Incremento annuo di neoplasie"
In Italia, i tumori hanno un costo sociale di circa 20 miliardi di euro ogni anno e "il cancro rappresenta nel nostro Paese la prima causa di morte per malattia in età pediatrica, con un incremento annuo delle nuove neoplasie pediatriche doppio rispetto alla media europea, ma triplo sotto un anno di età, per un totale stimato in 2.200 nuovi casi l'anno in Italia tra bambini e adolescenti e costi sanitari pari ad almeno 22 milioni di euro". È quanto ha affermato la Sima (Società italiana di medicina ambientale) che, per la Giornata Mondiale contro il Cancro ha chiesto alle istituzioni italiane ed europee di "puntare sulla prevenzione primaria, soprattutto rispetto ai determinanti ambientali che incidono sull'insorgenza dei tumori".
Il nuovo Piano oncologico nazionale
Con 269 voti a favore e nessuno contrario, tre giorni fa è stato approvata all'unanimità la mozione unitaria sulle iniziative per la prevenzione e la cura del cancro: si tratta di 26 impegni previsti sul documento che è ormai diventato un piano da rendere effettivo con un programma e tutti i finanziamenti del caso. Tra gli obiettivi anche il miglior utilizzo delle tecnologie radiologiche e nucleari per curare tumori e altre malattie, un piano strategico per eliminare i fattori che causano tumori oltre a migliorare le reti oncologiche regionali secondo gli accordi presi nella Conferenza Stato-regioni.
MRNA e cancro: il business dei vaccini che non sono vaccini. Michele Manfrin su L'Indipendente il 18 aprile 2023.
La notizia negli ultimi giorni ha fatto il giro di tutti i media: le aziende farmaceutiche Moderna e Merck hanno annunciato che entro il 2030 saranno disponibili rivoluzionari vaccini contro il cancro e forse anche contro le malattie cardiovascolari e quelle autoimmuni. Secondo quanto riferito da Paul Burton, direttore medico di Moderna, grazie alla tecnologia a mRNA, con il suo enorme sviluppo ed applicazione durante la pandemia del Covid-19, sarà possibile curare una lunga lista di malattie. Curare, non prevenire. Infatti, quelli che vengono chiamati vaccini sono in realtà terapie geniche, stando alle stesse parole e ai fatti esposti dai produttori, che curano soggetti che hanno già una patologia in corso. Inoltre ancora non si ha alcun dato disponibile sull’efficacia delle terapie anti-cancro ad mRNA, se non i soliti comunicati aziendali che già in passato avevano – ad esempio – autocelebrato una inesistente efficacia del 95% contro il coronavirus. Eppure, tra giornalisti, virologi, politici e influencer di sistema è già iniziata la corsa alla magnificazione dei nuovi “vaccini”. Certo, la ricerca sulle terapie geniche contro il cancro – come ogni nuova frontiera della ricerca – è potenzialmente molto importante, ma questo non nega che molto di quanto abbiamo letto in questi giorni è falso.
Questi vaccini non sono vaccini
Durante un’intervista rilasciata al giornale britannico The Guardian, Paul Burton, direttore medico di Moderna, decanta le lodi di quelli che sarebbero i “rivoluzionari” sviluppi in campo medico posti dall’implementazione su vasta scala della tecnologia a mRNA, la stessa utilizzata per la produzione dei così detti vaccini anti-Covid prodotti da Moderna e Pfizer-Biontech, che sarebbe in grado di offrire trattamenti per “tutti i tipi di aree patologiche” entro il 2030. “Penso che saremo in grado di offrire vaccini antitumorali personalizzati contro diversi tipi di tumore alle persone di tutto il mondo”, ha detto Burton durante l’intervista.
Al diffondersi delle dichiarazioni rilasciate dal direttore medico di Moderna, giornalisti, virologi, politici e influencer di sistema si sono subito attivati per la propaganda; uno su tutti, il giornalista Enrico Mentana, direttore del telegiornale di La7, il quale ha scritto un canzonatorio post rivolto ai fantomatici “no vax” nel quale afferma: “E quindi, oltre ad averci permesso di fronteggiare la pandemia di Covid, i vaccini a Rna messaggero aprono la strada verso altri vaccini che ci potranno preservare dai tumori e da altre malattie”. Se però Mentana avesse letto (meglio) l’intervista rilasciata dal direttore medico di Moderna, Burton, si sarebbe reso conto che la spiegazione del fatto che tali prodotti non sono vaccini è fornita dal medesimo Burton quando spiega il funzionamento di quel che viene chiamato “vaccino” contro il tumore e che, non essendo un vaccino, non può “preservare” proprio niente. Infatti, quel che viene definito “vaccino contro il cancro”, e che in realtà è una terapia genica ad mRNA, viene iniettato a soggetti che hanno sviluppato già una patologia tumorale. Il procedimento, spiegato nell’articolo del The Guardian, prevede prima la biopsia del tumore sviluppato dal paziente malato, alla quale seguono analisi di laboratorio e calcoli con utilizzo di algoritmi per stabilire quale sia la cura personalizzata “più promettente” per il singolo soggetto. Dunque, i “vaccini” contro il cancro, come quelli promessi contro malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni e molte altre, non prevengono, e non ci possono “preservare”, da alcuna malattia, semplicemente perché non sono vaccini ma terapie volte a curare una malattia già in corso.
Le giravolte linguistiche delle multinazionali per chiamarli vaccini
Il sito dell’azienda farmaceutica Merck, che ha collaborato con Moderna per mettere a punto una terapia contro il cancro, in fondo alla pagina, alla voce chiamata “L’attenzione di Moderna sul cancro” riporta un chiaro esempio di effetto paradossale nel tentativo di voler affermare come vaccino qualcosa che chiaramente non lo è, per stessa ammissione degli stessi che, in una sorta di ciclo perverso, devono però proprio per questo continuare ad affermare il suo status di vaccino: “In Moderna, stiamo mantenendo la promessa della scienza dell’mRNA di creare una nuova generazione di farmaci trasformativi per i pazienti. Stiamo lavorando incessantemente per far crescere la nostra modalità terapeutica del cancro scoprendo farmaci a mRNA che sfruttano il sistema immunitario del corpo per identificare e uccidere le cellule tumorali nello stesso modo in cui il sistema immunitario identifica e prende di mira le infezioni. Un esempio di un promettente candidato oncologico è la creazione di vaccini antitumorali personalizzati individualizzati e basati su mRNA che forniscono farmaci personalizzati a un paziente alla volta. Continuiamo inoltre a rafforzare il nostro portafoglio attraverso collaborazioni strategiche che aumentano il nostro potenziale per migliorare le opzioni di trattamento per i pazienti affetti da cancro”. Insomma “una nuova generazione di farmaci” oncologici che però vengono chiamati vaccini antitumorali per pazienti “affetti da cancro”. Dunque stiamo parlando di farmaci che servono per curare persone malate. Addirittura, nel tentativo di continuare ad utilizzare la parola vaccino, in un passaggio di quanto riportato sopra, si afferma qualcosa di totalmente illogico: “Un esempio di un promettente candidato oncologico è la creazione di vaccini antitumorali personalizzati individualizzati e basati su mRNA che forniscono farmaci personalizzati a un paziente alla volta”. Quindi, vaccini antitumorali basati su mRNA che forniscono farmaci personalizzati? Riducendo ancora: vaccini che forniscono farmaci? E cosa vorrebbe dire? Sembra assomigliare ad una supercazzola.
Appena sopra, sempre sullo stesso sito, alla voce “L’attenzione di Merck sul cancro” si afferma: “Il nostro obiettivo è tradurre la scienza rivoluzionaria in farmaci oncologici innovativi per aiutare le persone affette da cancro in tutto il mondo. In Merck, il potenziale per portare nuova speranza alle persone affette da cancro guida il nostro scopo e sostenere l’accessibilità ai nostri farmaci antitumorali è il nostro impegno. Come parte della nostra attenzione al cancro, Merck è impegnata a esplorare il potenziale della immuno-oncologia con uno dei più grandi programmi di sviluppo del settore in oltre 30 tipi di tumore. Continuiamo inoltre a rafforzare il nostro portafoglio attraverso acquisizioni strategiche e stiamo dando priorità allo sviluppo di diversi candidati oncologici promettenti con il potenziale per migliorare il trattamento dei tumori avanzati”. Ancora una volta, stiamo chiaramente parlando di farmaci e cure per persone malate e non di vaccini che prevengono la malattia. E a dirlo sono gli stessi produttori, benché sempre essi stessi continuino ad utilizzare la parola “vaccino” per definire le proprie terapie geniche.
E perché queste terapie vengono ostinatamente chiamate vaccini? Un documento redatto da Marco Cosentino e Franca Marino, dal titolo Understanding the Pharmacology of COVID-19 mRNA Vaccines: Playing Dice with the Spike?, pubblicato il 17 settembre dello scorso anno sulla rivista International Journal of Molecular Sciences, aveva già spiegato che i “vaccini” anti-covid non erano vaccini bensì farmaci, riassumendone le prove disponibili, ed evidenziato le implicazioni normative – nel definire farmaco o meno un prodotto – riguardo la sicurezza farmacodinamica, farmacocinetica, clinica e post-marketing, nel considerare farmaco piuttosto che “vaccino”. Infatti, se un prodotto è definito come vaccino la sua valutazione segue certi criteri mentre se è considerato un farmaco la valutazione sarà condotta seguendone altri. Nella pubblicazione appena citata si legge: “Definire la natura dei vaccini mRNA COVID-19 non è solo una questione di confronto di opinioni scientifiche. Le agenzie regolatorie hanno definito questi prodotti a priori come vaccini convenzionali e, di conseguenza, hanno fatto riferimento alle linee guida sui prodotti applicabili quando si è trattato di valutare le domande di vaccini COVID-19 per la successiva autorizzazione all’immissione in commercio”. Insomma, se un prodotto è considerato come un vaccino è sottoposto ad una certa valutazione mentre se è un farmaco la sua valutazione comprenderà specifici criteri. I due studiosi concludono dicendo: “I vaccini mRNA COVID-19 sono in realtà farmaci farmaceutici, e di conseguenza la loro farmacocinetica e farmacodinamica, ed eventualmente anche la loro farmacogenetica, devono essere adeguatamente caratterizzati per fornire un solido background di conoscenze per il loro uso razionale e mirato, smettendo così di “giocare a dadi” con questi prodotti a causa dell’errata convinzione che lo stesso vaccino alla stessa dose faccia bene a tutti, e che gli effetti avversi si verificano solo per caso”. Ovviamente, oltre alle implicazioni normative ci sono anche quelle sostanziali e di concetto: il vaccino viene somministrato a persone sane per prevenire una determinata malattia mentre un farmaco si somministra a persone malate per curare la suddetta malattia. Quindi riuscire ad accreditare un farmaco come vaccino amplia enormemente la potenziale platea dei destinatari e quindi gli affari dell’azienda produttrice.
Business e perpetuazione del potere
Stando ai primi dati forniti da Moderna e Merck riguardo alla loro collaborazione per una terapia per la cura del cancro, l’effetto combinato del siero mRNA prodotto da Moderna (mRNA-4157/V940) – chiamato “vaccino” – con quello di Pembrolizumab – un anticorpo monoclonale prodotto da Merck – riduce del 44% il rischio di recidiva o morte rispetto al solo utilizzo di Pembrolizumab, del quale però non viene fornito alcun dato di efficacia a paragone. Per quanto riguarda gli effetti avversi gravi, invece, viene riscontrato un valore del 10% nella cura con il solo Pembrolizumab, mentre il valore registrato con la combinazione tra Pembrolizumab e mRNA-4157/V940 sale al 14% di effetti avversi gravi. La sperimentazione della terapia ha avuto luogo su un ristrettissimo campione composto da 157 pazienti con melanoma in stadio III/IV. Sul sito si può leggere: “Dopo la resezione chirurgica completa, i pazienti sono stati randomizzati a ricevere mRNA-4157/V940 (nove dosi totali di mRNA-4157) e pembrolizumab (200 mg ogni tre settimane per un massimo di 18 cicli [circa un anno]) rispetto a pembrolizumab da solo per circa un anno fino alla recidiva della malattia o alla tossicità inaccettabile”. Dunque, detto in altre parole, la terapia combinata tra mRNA-4157/V940 di Moderna e Pembrolizumab di Merck, ha ridotto del 44% la recidiva o la morte di pazienti a cui era stato asportato chirurgicamente un melanoma.
Alla luce dello studio condotto dalle due case farmaceutiche, su un minuscolo campione di 157 persone, il cui 14% (22 persone) ha registrato effetti avversi gravi, con riscontro positivo nel 44% (69) dei pazienti, le mirabolanti dichiarazioni di Burton sembrano non avere alcuna sostanza eppure mirano a qualcosa. A ben vedere gli scopi possono essere due ed entrambi strettamente connessi ad un elemento. Il primo consiste nella reificazione del potere immaginifico creato con l’utilizzo spropositato della parola “vaccino” per somministrare farmaci genici i quali, passando per vaccini, percorrono strade di verifica e controllo diverse rispetto a quello dei farmaci. L’altro scopo è quello di legittimare e rafforzare il lavoro svolto in questi ultimi anni passati, i quali, al dire degli addetti ai lavori, avrebbero permesso di avanzare in maniera esponenziale nello sviluppo e nella ricerca della tecnologia mRNA: “15 anni di progressi sono stati sbobinati in 12-18 mesi grazie al successo del vaccino Covid”, si scrive nell’articolo del The Guardian; quest’ultimo riporta anche le dichiarazioni di Richard Hackett, CEO della Coalition for Epidemic Preparedness and Innovations (Cepi), che afferma: “[..] le cose che avrebbero potuto srotolarsi nel prossimo decennio o anche 15 anni, sono state compresse in un anno o un anno e mezzo”. E nel merito della questione, non possiamo qui non ricordare le parole di Kathrin Jansen, ex responsabile della ricerca e sviluppo dei vaccini presso Pfizer, che nel novembre scorso, come da noi riportato, affermava: “Abbiamo pilotato l’aereo mentre lo stavamo ancora costruendo”.
E quale sarebbe la stretta connessione tra i due scopi? Il profitto. Andrea Casadio, medico e giornalista, dalle pagine del quotidiano Domani, in un interessante articolo intitolato “I vaccini rivoluzionari di Moderna. Dietro l’annuncio interessi economici”, dopo aver spiegato cosa siano questi cosiddetti “vaccini”, fa notare che l’annuncio di Moderna segue il tonfo registrato in borsa dalla stessa casa farmaceutica dopo la comunicazione del 22 marzo scorso con cui annunciava di mettere in commercio il “vaccino” anti-Covid al prezzo di 130 dollari per dose, mentre prima era venduto al governo degli Stati Uniti per un prezzo calmierato che oscillava tra i 15 e i 26 dollari per dose.
Vogliamo dire di più. Oltre alle azioni finanziarie di una singola azienda, che certamente contano quando si fanno certi annunci, sul piatto c’è un sistema di business e potere che non vuol mollare la posizione acquisita durante la pandemia. Infatti, come spiega lo stesso Casadio nel suo articolo, non si tratta solo di Moderna e Merck ma anche delle altre aziende farmaceutiche come Pfizer, Biontech, Novavax, Astrazeneca etc., le quali puntano forte sulle terapie sviluppate in maniera esponenziale grazie a due anni di emergenza pandemica, di regole saltate e di nuove arrivate. Per questo, nell’articolo del The Guardian, in chiusura, si riporta l’appello di Andrew Pollard, direttore dell’Oxford Vaccine Group e presidente del Joint Committee on Vaccination and Immunisation (JCVI) del Regno Unito, che chiede, in tempo di guerra e conflitto, di non dirottare l’attenzione e i finanziamenti fin qui forniti all’aspetto medico-sanitario poiché questo farebbe perdere lo slancio assunto dal settore farmaceutico. [di Michele Manfrin]
I vaccini contro il cancro di Moderna: come funzionano e perché solo oggi. Un'istruzione fatta arrivare alle cellule che poi spazzano via quelle "cattive", ecco i vaccini contro il cancro di Moderna. Giampiero Casoni su Notizie.it il 11 Aprile 2023
ARGOMENTI TRATTATI
I vaccini contro il cancro di Moderna
La strada genetica per battere il male
Le cellule imparano “a fare la guerra”
L’RNA messaggero che insegna come fare
Le parole del direttore sanitario Paul Burton hanno di fatto dato respiro al mondo, perché si tratta di un mondo nel quale la specie umana lotta contro le neoplasie in maniera attiva da un secolo ma con risultati che sono lusinghieri senza essere fondamentali: ecco perché capire come funzionano i vaccini contro il cancro di Moderna e perché se ne parola solo oggi. Il timing è di quelli insperati, a sentire l’annuncio: entro il 2023 ci saranno prodotti specializzati a combattere e debellare alcuni tipi di tumore.
I vaccini contro il cancro di Moderna
La mission è quindi combattere il cancro e altre invalidanti malattie come infarto e patologie autoimmuni usando i vaccini. Qual è la parola chiave per comprendere la portata di questa accelerazione? Essa è “pandemia”, con le dichiarazioni al Guardian di Burton che stanno facendo il giro del mondo (e delle borse). Ma proviamo a capire come ci si sia arrivati. Il dato è quello per cui il Covid ha in un certo senso “messo le ali ai piedi” a ricerca e sperimentazione e il binario è stato quello rivoluzionario della tecnologia a mRNA, il che ha portato in 18 mesi ad un’accelerazione di circa 18 anni.
La strada genetica per battere il male
Come? Lo ha detto Burton: lo scopo è “riuscire a individuare con certezza la causa genetica di una malattia”. Una volta fatto quello con la tecnologia a mRNA messa in campo contro la covid si può fare la stessa cosa che si è fatta contro il virus. Cosa? Semplicemente “insegnare alle cellule del nostro corpo a produrre l’esatta proteina capace di scatenare il sistema immunitario contro la patologia che si vuole combattere”. Insomma, affaccendandosi a fermare il coronavirus gli scienziati hanno fatto passi da gigante sulla strada di “ordinare” determinate risposte alle cellule. I vaccini personalizzati contro il cancro hanno un esordio in procedura: una biopsia del tumore del paziente, da inviare in laboratorio.
Le cellule imparano “a fare la guerra”
A quel punto si individuerebbero le mutazioni genetiche caratteristiche delle cellule malate comparandole con quelle sane. La fase due è la selezione affidata ad un algoritmo che identifica quali sono le mutazioni che guidano la crescita del tumore, quelle su cui intervenire per “ordinare” la risposta del sistema immunitario contro la neoplasia. Il terzo step, con milioni di attrezzature già collaudate ed in parte utili anche per la bisogna, sarebbe quello di creare una molecola di mRNA.
L’RNA messaggero che insegna come fare
Si tratta dell’acido ribonucleico, l’RNA messaggero che ha tutte le istruzioni in codice e che conterrebbe quella per far sintetizzare alla cellula le proteine che “bloccano” la crescita del tumore. Si punta agli antigeni: proprio come per la spike del SARS-CoV-2. Saranno loro a scatenare una risposta immunitaria. La faee ultima è quella per cui le dell’mRNA verrebbero usate dall’organismo per produrre frammenti di proteine identici a quelli trovati sulle cellule tumorali. Il sistema immunitario a quel punto “va a scuola” e usa quelle info per distruggere ogni cellula che abbia quelle specifiche caratteristiche. Quindi a distruggere il cancro “da dentro”.
Estratto dell’articolo di Filippo Fiorini per “la Stampa” l’11 aprile 2023.
Ugur Sahin e la moglie Özlem Türeci, entrambi ricercatori turchi e cofondatori in Germania di BioNTech, avevano detto nell'ottobre del 2022 che sarebbe stato entro il 2030. In un'intervista a gennaio, i due scienziati che hanno collaborato con Pfizer alla produzione del vaccino contro il Covid, si erano corretti, precisando: «Probabilmente sarà anche prima». Tre giorni fa, Paul Burton, direttore sanitario di Moderna, ha abbassato le stime al 2028. Cinque anni per avere un vaccino contro il cancro.
Big Pharma è in corsa verso la cura del male del secolo, grazie alle tecniche genetiche che ha scoperto per far fronte alla pandemia. Non un vaccino per tutti i tipi di cancro, ma un vaccino Rna che permetterà di trattare soggetti malati di numerosi tipi di tumore, oltre che di altre patologie, come malattie autoimmuni, cardiovascolari o il virus sinciziale (che causa un'infezione respiratoria).
[…] Viene prelevata una biopsia a un paziente malato di cancro. Un laboratorio esamina il campione e il materiale genetico viene sequenziato, al fine di identificare le mutazioni non presenti nelle cellule sane.
Un computer verifica quali tra queste mutazioni stiano portando alla crescita del cancro e possano attivare il sistema immunitario. Sempre in laboratorio, viene creata una molecola di Rna messaggero contenente le informazioni per creare gli antigeni in grado di scatenare la risposta immunitaria.
Somministrando un'iniezione di queste molecole al paziente (in certi casi non legati al cancro, come quello dell'influenza, basterà anche una sola iniezione), l'mRna si traduce in parti di proteine identiche a quelle presenti nelle cellule tumorali, così che il sistema immunitario possa riconoscerle e distruggerle. […]
Estratto dell’articolo di Paolo Russo per “La Stampa” il 13 aprile 2023.
Primo: i vaccini a Rna anticancro funzioneranno solo per quelli con più mutazioni cellulari, ossia i tumori di polmone, stomaco, colon e in parte del seno. Secondo: i vaccini per prevenire i tumori per ora riguarderanno quelli di origine virale, compresa la sclerosi multipla, anche se un tumore non è.
Ma per prevenire gli altri c'è ancora tanta strada da fare. Anche se per Rino Rappuoli, tra i numeri uno a livello mondiale nella ricerca dei vaccini, microbiologo e direttore scientifico del Biotecnopolo di Siena, «la strada è oramai tracciata». Per contrastare i super-batteri resistenti agli antibiotici però «si fa ancora troppo poco».
Professore, può spiegare come funzioneranno i vaccini anticancro a Rna e perché rappresentano una svolta?
«[…] Ora per la prima volta abbiamo delle prove cliniche di efficacia, anche se il vaccino a Rna di Moderna funziona combinato con il monoclonale "Keytruda", uno degli antitumorali più commercializzati al mondo, tanto da fatturare 19 miliardi di dollari l'anno.
È un farmaco che di fatto risveglia i linfociti T, i quali in presenza di un tumore solitamente si addormentano e che così vengono invece nuovamente scagliati contro le cellule tumorali. Questo però è un tipo di anticorpo che funziona solo per alcuni tipi di cancro e che ha dei limiti d'efficacia».
Invece combinato con il vaccino a Rna cosa cambia?
«A fare impazzire le cellule tumorali, consentendo loro di proliferare all'infinito, sono delle mutazioni del codice genetico. […]».
Con quali risultati?
«Le prove cliniche condotte su due gruppi, uno in terapia solo monoclonale, l'altro trattato insieme al vaccino a Rna, hanno dimostrato che in questi ultimi pazienti c'è un miglioramento del 44% di ricorrenza del tumore o morte rispetto a chi è stato trattato con il solo monoclonale».
Quali tipi di tumore si potranno curare?
«Ora con questa combinazione tra vaccino e terapia monoclonale sono stati trattati i melanomi della pelle. Ma è solo l'inizio. Adesso c'è da lavorare sugli altri tumori studiandoli uno a uno. Ma probabilmente funzioneranno meno dove c'è un minor numero di mutazioni, come il cancro al pancreas o il gliobastoma, meglio in quelli con più mutazioni, come polmone, stomaco, colon, mentre il tumore al seno ha un numero di mutazioni intermedie». […]
«Vaccini anticancro e contro le malattie cardiovascolari entro il 2030»: la rivoluzione dell’mRNA, secondo Moderna. Redazione Salute l’11 Aprile 2023 su Il Corriere Della Sera.
L’annuncio dell’azienda americana Moderna che con la tecnologia utilizzata contro il Covid prevede di salvare milioni di vite. Come funziona il vaccino e le molte sperimentazioni in corso
Secondo Paul Burton, direttore sanitario dell’azienda americana Moderna, entro il 2030 saranno disponibili trattamenti per «tutti i tipi di patologie». «Avremo il vaccino per il cancro e sarà altamente efficace e salverà centinaia di migliaia, se non milioni di vite. Penso che saremo in grado di offrire vaccini contro il cancro personalizzati contro diversi tipi di tumore a persone in tutto il mondo», ha affermato in un’intervista al Guardian . Gli studi sulle vaccinazioni contro cancro, malattie cardiovascolari e autoimmuni proseguono a grandi passi grazie all’accelerazione nello sviluppo dell’mRNA con il vaccino contro il coronavirus: in un solo anno e mezzo sono state acquisite conoscenze scientifiche di un decennio. Burton ha dichiarato: «Penso che avremo terapie basate sull’mRNA per malattie rare che prima non erano curabili, e penso che tra 10 anni ci avvicineremo a un mondo in cui si potrà veramente identificare la causa genetica di una malattia e, con relativa semplicità, riparare il difetto utilizzando la tecnologia basata su mRNA».
La rivoluzione mRNA
Gli scienziati di tutto il mondo sono convinti che la rivoluzione mRNA cambierà il mondo probabilmente più della scoperta degli antibiotici. Questa macromolecola infatti (si pensa sia stata la primissima molecola della vita, prima ancora del Dna), opportunamente «istruita» può trasmettere alle cellule malate le istruzioni per difendersi da virus e batteri o riparare cellule malate. La tecnologia a mRNA dopo essere stata decisiva per i vaccini anti Covid, potrebbe cambiare anche le terapie di moltissime altre malattie. Il potenziale dei vaccini e dei medicinali a base di mRNA, prodotto in laboratorio è che l’mRNA ordina alle cellule quali proteine produrre e la terapia consiste in pratica in una lista di istruzioni: si potrebbe sfruttare l’mRNA per ordinare alle cellule di produrre molecole in grado di riparare organi danneggiati , organizzare la risposta immunitaria contro un virus, migliorare la circolazione sanguigna (e di conseguenza abbassare il rischio di ictus e infarti), combattere le malattie ereditarie.
Come funzioneranno i vaccini anticancro terapeutici
In campo oncologico prima di tutto verrà eseguita una biopsia sulle cellule tumorali: il materiale genetico verrà sequenziato per identificare mutazioni che non sono presenti in cellule sane; un algoritmo identificherà quali sono le mutazioni che guidano la crescita del tumore e stimolano l’attivazione del sistema immunitario; a quest punto verrà creata una molecola di Rna messaggero con le istruzioni per produrre precisi antigeni contro la malattia che porteranno a una risposta immunitaria; l’mRNA iniettato si tradurrà in parti di proteine identiche a quelle presenti nelle cellule tumorali. A questo punto le cellule immunitarie incontreranno e distruggeranno le cellule tumorali che trasportano le stesse proteine. Un vaccino contro il cancro a base di mRNA allerterebbe il sistema immunitario di un tumore che sta già crescendo nel corpo di un paziente, in modo che possa attaccarlo e distruggerlo, senza distruggere le cellule sane.
Non solo malattie infettive
Paul Burton ha sottolineato: «Penso che quello che abbiamo imparato negli ultimi mesi è che se hai mai pensato che l’mRNA fosse solo per le malattie infettive, o solo per Covid, l’evidenza ora è che non è assolutamente così. L’mRNA può essere applicato a tutti i tipi di aree patologiche: cancro, malattie infettive, malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni, malattie rare. Abbiamo studi in tutte queste aree e tutti hanno mostrato grandi promesse». Ad oggi la Fda americana ha dato parere positivo per un vaccino a mRNA per curare alcune tipologie di melanoma.
Le altre sperimentazioni
Non è sempre il sistema immunitario a entrare in gioco perché l’mRNA è in grado di fornire istruzione anche per la costruzione di molecole che in quel momento risultano necessarie. Moderna sta lavorando anche su un vaccino capace di fornire una molecola (VEG-A) in grado di ricostruire i vasi sanguigni cardiaci in chi è stato colpito da infarto: in questo modo si aumenterebbe la probabilità di sopravvivenza. Altri vaccini a mRNA puntano invece a fornire alle cellule le istruzioni per produrre proteine di cui abbiamo bisogno tutti i giorni ma che, a causa di malattie genetiche o degenerative, non produciamo. Quindi anziché riparare i geni difettosi con tecniche come la CRISPR Cas9, l’idea è insegnare alle cellule a produrre le proteine per le quali non esistono le istruzioni.
A gennaio, Moderna ha annunciato i risultati di uno studio in fase avanzata del suo vaccino sperimentale mRNA per RSV, suggerendo che era efficace all’83,7% nel prevenire almeno due sintomi, come tosse e febbre, negli adulti di età pari o superiore a 60 anni. Pfizer, altra società che ha prodotto il vaccino anti Covid ha avviato il reclutamento per una sperimentazione clinica in fase avanzata di un vaccino antinfluenzale a base di mRNA e ha gli occhi puntati su altre malattie infettive, incluso l’herpes zoster. BioNTech ha già diversi trial clinici in corso su vaccini indirizzati contro tumori solidi, come melanoma, cancro al seno o alle ovaie. Moderna sta lavorando anche a vaccini a mRNA capaci di riconoscere mutazioni in un gene (KRAS) implicato nel 20% dei tumori umani, mentre CureVac sta conducendo sperimentazioni per un vaccino contro un tipo di tumore ai polmoni.
Alberto Mantovani: «Così i vaccini a mRna potranno curare infarto e cancro». Cristina Marrone e Silvia Turin il 12 Aprile 2023 su Il Corriere Della Sera.
L’immunologo, Presidente di Fondazione Humanitas per la Ricerca: nessun miracolo, ma i test sono incoraggianti
Alberto Mantovani , 74 anni, direttore scientifico dell’Istituto Humanitas di Milano
Entro il 2030 saranno disponibili vaccini contro il cancro e le malattie cardiovascolari grazie alla tecnologia a mRna, la stessa che è stata sviluppata a tempo di record contro il Covid. È l’annuncio ottimistico fatto da Paul Burton, direttore sanitario dell’azienda americana Moderna, che, in un’intervista sul quotidiano inglese The Guardian , si spinge a parlare di «milioni di vite» salvate.
Non è certo l’unico a usare toni entusiastici per descrivere le potenzialità della tecnologia a mRna, che, dopo essere stata decisiva per i vaccini anti Covid, potrebbe cambiare le terapie di moltissime altre malattie. La particolarità più importante che riguarda i futuri vaccini e medicinali basati su mRna, è che questa macromolecola, prodotta in laboratorio, è in grado di ordinare alle cellule quali proteine fabbricare, tanto che la terapia consiste in pratica in una «lista di istruzioni»: si può sfruttare l’mRna per ordinare alle cellule di costruire molecole in grado di riparare organi danneggiati, organizzare la risposta immunitaria contro un virus, migliorare la circolazione sanguigna (e di conseguenza abbassare il rischio di ictus e infarti), combattere le malattie ereditarie e anche i tumori.
La rivoluzione dell’Rna: siamo all’alba di una nuova era della medicina?
La rivoluzione dell’Rna messaggero, usato nei vaccini Covid: così cambierà le cure (anche) contro i tumori
«Penso che non sia appropriato avere aspettative miracolistiche, ma anche che questa sia una tecnologia che ci aiuterà ad affrontare alcuni problemi — spiega Alberto Mantovani, Presidente di Fondazione Humanitas per la Ricerca —. La rapidità e la versatilità offerte dalla molecola di mRna e dalla sua ingegnerizzazione stanno facendo fare passi avanti importanti. Ci sono dati pubblicati già da un certo numero di anni, ad esempio, che mostrano come i vaccini a mRna nelle fasi precoci di sperimentazione clinica contro il melanoma hanno dato risultati clinici estremamente incoraggianti».
Riguardo all’uso contro i tumori la procedura futura prevederebbe di eseguire una biopsia sulle cellule tumorali del singolo paziente per identificare le mutazioni specifiche che guidano la crescita del tumore. La molecola di Rna messaggero iniettata si tradurrebbe in parti di proteine identiche a quelle trovate nelle cellule tumorali, che allenerebbero le cellule immunitarie a riconoscere e distruggere le cellule tumorali che trasportano le stesse proteine. «Oggi le sperimentazioni seguono tre diverse strategie — chiarisce Mantovani —: il vaccino personalizzato, disegnato sul singolo individuo, il vaccino su più tumori che cerca il “minimo comun denominatore” che unisce tumori diversi con un possibile bersaglio comune e la combinazione del vaccino a mRna con altre strategie terapeutiche immunologiche, in particolare con le cellule Car-T».
Quello contro il cancro sarebbe comunque un vaccino di tipo terapeutico: in presenza di un tumore ci sarà una terapia, chiamata «vaccino», che aiuterà il corpo a reagire: «Bisogna essere chiari — specifica Mantovani —: mi preoccupa che ci sia la speranza di un vaccino universale contro il cancro. Questo, sulla base di quello che sappiamo, non è all’orizzonte. Ci auguriamo però di avere vaccini terapeutici mirati contro diversi tipi di tumori, sia che siano vaccini a mRna sia che siano vaccini tradizionali (come quello esistente contro il papillomavirus umano, ndr)». Non solo una prospettiva contro i tumori, ma anche un’applicazione per le malattie cardiovascolari: Moderna ha annunciato di lavorare a un vaccino capace di fornire una molecola in grado di ricostruire i vasi sanguigni cardiaci in chi è stato colpito da infarto, in modo da aumentare le probabilità di sopravvivenza. «Anche questa è una speranza, ma una speranza fondata — conferma Mantovani —. Vale la pena ricordare che la tecnologia a mRna è stata sviluppata in origine pensando all’intervento sulle malattie cardiovascolari, ma in questo caso il bersaglio è diverso perché si tratta di medicina “riparativa”, con una logica completamente differente, ancora oggetto di ricerca».
Altri vaccini a mRna puntano invece a fornire alle cellule le istruzioni per generare proteine di cui abbiamo bisogno tutti i giorni ma che, a causa di malattie genetiche rare o degenerative, non produciamo. Anziché riparare i geni difettosi l’idea è quella di «insegnare» alle cellule a fabbricare le proteine per le quali non esistono le istruzioni. Se si parla infine di vaccini «preventivi» a base mRna si possono menzionare quelli contro le malattie infettive: abbiamo quelli anti Covid (che abbiamo imparato a conoscere e usare) e sono allo studio vaccini antinfluenzali, contro l’herpes zoster e uno (che sta dando buoni risultati in Usa già in fase avanzata) contro il virus respiratorio sinciziale Rsv. Riguardo ai tempi, uno degli appelli degli scienziati in questo ambito è quello per le risorse: «In generale senza risorse non si fa niente — conferma Mantovani —. In questo caso credo, però, che sia molto difficile fare una previsione. Mi auguro siano veri i pochi anni menzionati, ma dobbiamo aspettare i dati. Non bisogna aspettarsi miracoli dalla scienza, ancora meno dalla ricerca biomedica, ma ogni tanto i “miracoli” accadono».
Estratto dell'articolo di Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” l'1 giugno 2023.
Attraversare la tempesta del tumore. Negli ultimi 15 anni è toccato a 1 milione di italiani, che possono considerarsi guariti a tutti gli effetti dal tumore. Un numero enorme e con un trend in crescita, che si spera gli anni della pandemia non vadano ad intaccare. E, accanto ai guariti, aumenta anche la schiera dei lungo-sopravviventi, cioè delle persone che pur destinate a una convivenza controllata con il tumore, hanno la possibilità di vivere a lungo, anche per anni, strappando mesi di vita al tumore, grazie alla disponibilità di farmaci sempre più efficaci contro queste malattie. Un sogno fino a pochi anni fa, diventato aspettativa reale per sempre più pazienti oggi.
I guariti che nel 2006 erano 2,5 milioni, nel 2020 sono diventati 3,6 milioni. Il 40% in più, un milione di persone in più in un intervallo di tempo ristretto. […]
Va, comunque, ricordato che purtroppo i dati confortanti che abbiamo fino al 2020 sono stati seguiti da numeri molto preoccupanti. Rispetto al 2020, infatti, nel 2022 si stima che i nuovi casi di tumore siano aumentati dell'1,4 per cento circa per gli uomini e dello 0,7 per cento per le donne.
Grazie ai progressi della ricerca, il cancro sta sempre più diventando una patologia cronica, più prevenibile e curabile rispetto al passato. Circa 391.000 nuove diagnosi di tumore, 14.000 in più di cui quasi 205.000 fra gli uomini e 186.000 fra le donne. Come si legge nel rapporto "I numeri del cancro 2022", frutto della collaborazione tra l'Associazione italiana di oncologia medica, l'Associazione italiana registri tumori e Fondazione AIOM e PASSI (Progressi nelle aziende sanitarie per la salute in Italia).
Negli ultimi anni i rallentamenti delle diagnosi e degli screening oncologici hanno ritardato le diagnosi dei tumori, dalle fasi precoci a quelle più avanzate.
Aumentano i casi di cancro prima dei 50 anni, anche in Italia: sintomi ed esami da fare. Storia di Vera Martinella su Corriere della Sera l'1 giugno 2023.
Che il numero dei nuovi casi di cancro sia in crescita da tempo non è una novità. Il fatto meno noto e molto più preoccupante è che aumenta costantemente anche la quota di chi si ammala prima dei 50 anni, senza che se ne conoscano a pieno le ragioni. Certo è che almeno il 40% dei casi si potrebbe prevenire in modo molto semplice, solo seguendo stili di vita corretti, ma altrettanto certo è, purtroppo, che le cattive abitudini sono sempre più diffuse. A lanciare l'allarme sono gli esperti riuniti al congresso annuale dell’American Society of Clinical Oncology, al via il 2 giugno a Chicago, l’appuntamento più importante per gli oncologi di tutto il mondo. «Secondo le stime più recenti un italiano su tre si ammalerà di cancro nel corso della sua vita e i casi nel nostro Paese sono in aumento — conferma Saverio Cinieri, presidente dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) —: se ne sono registrati quasi 400mila nel 2022 e la crescita, considerando che sono patologie più frequenti dopo i 65 anni, appare per lo più collegata all'invecchiamento generale della popolazione». L’età che avanza è un fattore determinante nello sviluppo di una neoplasia: con il passare del tempo, infatti, si accumulano gli effetti dei vari fattori cancerogeni e viene meno la capacità dell’organismo di riparare le mutazioni del Dna che favoriscono la formazione di un tumore.
Italia, quali tumori prima dei 50 anni
Cosa sta succedendo nelle persone giovani? «Oltre il 90% dei nuovi casi di cancro registrati annualmente nel nostro Paese, come nel resto del mondo, riguarda cittadini over 50 — risponde Matteo Lambertini, professore associato di Oncologia medica all’Università di Genova —. Studi recenti stanno però evidenziando anche da noi un progressivo incremento dei tumori prima di quest’età, per motivi in parte noti e in parte ancora da studiare. Sappiamo che una causa è sicuramente da ricercare in fattori di rischio che sono purtroppo diventati molto comuni, anche in bambini e ragazzi: sedentarietà, dieta scorretta, sovrappeso, obesità, fumo, abuso di alcol. Altre ragioni restano da capire. Per esempio molto si sta indagando circa alcuni fattori inquinanti, anche ambientali, e sugli additivi alimentari». In base ai dati raccolti finora l’inquinamento ambientale (in particolare quello atmosferico), che include varie sostanze cancerogene provenienti da attività umane (traffico veicolare, industrie, riscaldamento domestico) o da sorgenti naturali (radiazioni ionizzanti, raggi ultravioletti), è responsabile del 5% di casi di cancro. Una quota che raggiunge il 10% nelle aree più inquinate e che potrebbe rivelarsi anche maggiore quanto più peggiorano le condizioni dell’ambiente in cui viviamo. Quali sono i tumori più diffusi prima dei 50 anni? «Negli uomini italiani quelli del testicolo, il melanoma cutaneo, i linfomi non-Hodgkin (che sono neoplasie del sangue), tiroide e colon-retto. Nelle donne il cancro al seno, tiroide, melanoma, colon-retto e utero-cervice» dice Cinieri.
Quali tipi di cancro aumentano
A crescere, però, non sono solamente questi tipi di cancro. Una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica ha analizzato i registri dei tumori di 44 Paesi e ha rilevato un’impennata nei casi di 14 tipi di cancro nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni. L’aumento ha interessato i tumori di seno, colon-retto, endometrio, esofago, dotto biliare extraepatico, cistifellea, testa e collo, reni, fegato, midollo spinale, pancreas, prostata, stomaco e tiroide. «Il rischio di svilupparli è cresciuto generazione dopo generazione, in particolare dagli anni Novanta, e l’incidenza maggiore è stata registrata tra il 2000 e il 2012 — spiega Lambertini —. È il cosiddetto “effetto coorte”: significa che i nati negli anni ‘90 hanno un rischio maggiore di sviluppare un cancro a esordio precoce nella loro vita rispetto ai nati negli anni ‘80, e così via a ritroso». Gli autori dello studio prevedono che il livello di rischio continuerà a crescere nelle generazioni successive. Visto poi che una neoplasia impiega solitamente molti anni per svilupparsi (durante i quali accumula numerose mutazioni genetiche che sono alla base di quegli «errori» del Dna dai quali il cancro ha origine), i ricercatori sottolineano che, per spiegare tumori in persone di 20, 30 o 40 anni, bisogna tenere gli occhi puntati sui possibili rischi fin dall’infanzia.
Il ruolo cruciale di cibo e microbiota
Grande attenzione va, in particolare, a quello che mettiamo nel piatto e all’ago della bilancia: nello studio di Harvard, fra i 14 tumori a esordio precoce ben 8 ( colon-retto, esofago, dotto biliare extraepatico, cistifellea, testa e collo, fegato, pancreas e stomaco) interessano proprio l’apparato digerente. «In questo senso servono più studi anche sulla relazione tra microbiota intestinale e tumori — dice Cinieri —. I batteri dell’intestino esplicano diverse funzioni fisiologiche e formano una barriera fisico-chimica che protegge l’epitelio intestinale dall’attacco di sostanze tossiche o di altri batteri in grado di causare diverse patologie. Da qui il legame tra microbiota e alcune malattie infettive, infiammatorie croniche, autoimmuni e neoplasie. Sappiamo già, per esempio, che la nostra flora batterica, interagendo con le cellule dell’ospite, può influenzare la formazione del tumore del colon-retto, attraverso diversi meccanismi».
Sintomi ed esami prima dei 50 anni
A preoccupare gli esperti c’è, infine, il fatto che i tumori nelle persone under 50 risultano spesso essere più aggressivi che negli anziani. Sia per la biologia del cancro stesso, sia perché accade spesso che i giovani arrivino tardi alla diagnosi e quindi abbiamo neoplasie in stadio avanzato. Non a caso l’Unione Europea ha recentemente raccomandato di far iniziare gli screening a 45 anni. Sebbene molte Regioni italiane abbiano però già anticipato i controlli gratuiti per la diagnosi precoce, ancora troppi connazionali rifiutano l’invito a fare mammografia, Pap o Hpv test, esame per la ricerca del sangue occulto nelle feci. «Oltre ad accettare l’opportunità offerta dal nostro Ssn e fare questi esami salva-vita, non vanno mai trascurare le anomalie, ad ogni età — sottolinea Cinieri —. L’autopalpazione del seno e dei testicoli, a partire dai 20 anni, è un primo passo prezioso, a costo zero e semplice. Le ragazze, poi, dovrebbero parlare con un senologo e iniziare con i controlli annuali a partire dai 40 (o prima, in caso di familiarità). Per la cervice uterina, il Pap test viene già proposto a partire dai 25 anni e a 30 si parte con il test Hpv. Anche ai ragazzi è consigliata una visita annuale dall’urologo dai 40 anni. Maschi e femmine poi dovrebbero vedere un dermatologo una volta l’anno e non trascurare cambiamenti evidenti dei nei». Sangue nelle urine o nelle feci, masse palpabili in qualunque punto del corpo, linfonodi ingrossati, febbre o dolori che non passano: i possibili campanelli d’allarme sono moltissimi, tutto dipende dalla sede del tumore. «Non si può fare un elenco completo, la regola è una — conclude Lambertini —: se si nota qualcosa di strano, senza andare nel panico, bisogna parlarne con un medico, senza perdere tempo che potrebbe essere molto prezioso in caso di una diagnosi di cancro».
Esami per la diagnosi precoce dei tumori: quali sono e chi ha diritto di farli gratis. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2023
Gli screening oncologici in Italia vengono offerti gratis alle persone considerate più a rischio di ammalarsi, ma restano aperti due grandi problemi: da un lato moltissime cestinano l’invito che arriva a casa e rifiutano questa opportunità, dall’altro persistono differenze geografiche importanti nell’organizzazione (più diffusi al Nord rispetto al Centro-Sud).
Che cosa sono gli screening
A fine settembre 2022, l’Unione europea ha ampliato le raccomandazioni, coinvolgendo persone più giovani e più anziane nei test già consigliati e proponendo nuovi esami, inseriti per aumentare la capacità di intercettare il cancro ai primi sintomi. Su alcuni fronti però il nostro Paese è già all’avanguardia.
«In Italia i programmi di screening oncologico per il tumore della mammella, del collo dell’utero e del colon retto sono considerati Livelli essenziali di assistenza (Lea) e ciò significa che devono essere garantiti a tutti i cittadini che ne hanno diritto — spiega Paola Mantellini, direttrice dell’Osservatorio nazionale screening (Ons), che ha sede presso dell’Istituto per lo Studio, la Prevenzione e la Rete Oncologica di Firenze (Ispro) —. A oggi è previsto che tutte le donne tra i 50 e i 69 anni ricevano ogni due anni una lettera d’invito dalla loro Azienda Sanitaria a eseguire gratis la mammografia. Inoltre, tutti i cittadini fra i 50 e i 70 hanno diritto, sempre ogni due anni, a eseguire il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (test Sof). Infine, ogni tre anni per le donne tra i 25 e i 64 anni è previsto il Pap test, che viene progressivamente sostituito dall’esame che va alla ricerca del Papillomavirus (Hpv), più efficace e da ripetere ogni cinque anni».
Per quali fasce d’età il test è stato allargato e dove
Negli ultimi anni, alcune Regioni (in ottemperanza al piano Nazionale di Prevenzione 2015-2019) hanno poi previsto l’allargamento dello screening mammografico e colorettale ad altre fasce di età. «Il coinvolgimento delle 45-49enni per la mammografia si sta realizzando in Emilia-Romagna, Basilicata, Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Toscana e Campania — chiarisce Marco Zappa, epidemiologo ed ex direttore dell’Ons —; mentre le 70-74enni vengono coinvolte in Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Piemonte, Valle d’Aosta, Toscana, Molise e Basilicata». «Per quanto riguarda lo screening colorettale— continua Zappa — Lazio e Lombardia hanno ampliato la fascia di età estendendo l’offerta fino a 74 anni».
Come funziona la procedura
Nel 2019 secondo gli ultimi dati disponibili dell’Ons relativi alle fasce d’età previste a livello ministeriale, sono stati inviati 13 milioni di inviti per gli screening e i test eseguiti sono stati circa 6 milioni. Nel 2020 gli screening hanno subito una battuta d’arresto a causa della pandemia Covid, con una riduzione di oltre 4 milioni di inviti e di 2 milioni di test rispetto all’anno precedente. «Nel 2021, poi, la situazione è migliorata con un recupero della copertura (numero di persone che hanno fatto il test sul totale delle persone aventi diritto per l’anno di riferimento in esame) rispetto ai livelli pre-pandemici e pari al 46 % per lo screening mammografico, al 30% per il tumore del collo dell’utero e al 35% per il tumore del colon retto — puntualizza Giuseppe Gorini, epidemiologo dell’Istituto per lo Studio, la Prevenzione e la Rete Oncologica di Firenze (Ispro) —. Purtroppo, come nel periodo pre-pandemico, le differenze geografiche si confermano importanti con, in generale, una maggiore copertura al Nord (63% per il mammografico, 41% per il collo dell’utero, 45% per il colon retto) rispetto al Sud (23% per il mammografico, 22% per il collo dell’utero, 10% per il colon retto)».
In quanti aderiscono ai test
Gli screening oncologici sono stati messi a punto e convalidati su milioni di persone in tutto il mondo, sono sicuri ed efficaci. Nel 2020, anno in cui a causa della pandemia si è comunque osservata una riduzione generalizzata della partecipazione, il valore nazionale di adesione ai programmi di screening è stato del 51% per lo screening mammografico, del 33 % per lo screening del collo dell’utero e del 34% per lo screening colorettale. Purtroppo, proprio come con la copertura, la partecipazione non è uniforme in tutto il territorio italiano con differenze fra Nord e Sud. Nel 2020, la partecipazione alla mammografia è stata del 59% al Nord e del 29% al Sud, per il programma di screening cervicale è stata del 38% al Nord e del 21% al Sud e per quanto riguarda lo screening colorettale l’adesione al Nord è stata del 47% e del 16% al Sud. «Per aumentare l’efficacia dello screening e per garantire maggiore equità è assolutamente necessario attivare azioni che aumentino la partecipazione dei cittadini — sottolinea Paola Mantellini —. Ciò deve essere fatto sostanzialmente in due modi: garantendo un accesso ai servizi il più capillare possibile sul territorio con tanti punti di erogazione del test, vicini e comodi per i cittadini, e aumentando la consapevolezza delle persone in merito all’importanza di partecipare: sono esami che possono davvero salvare la vita, fare la differenza fra la prevenzione di un tumore o la guarigione completa, da un lato, e la morte dall’altro, se la neoplasia è scoperta tardi».
A chi rivolgersi se non si riceve l’avviso
Lo screening organizzato prevede che ogni persona avente diritto riceva una lettera di invito inviata per posta al proprio indirizzo di residenza. «Per questo motivo è necessario che le anagrafi degli assistiti delle Aziende sanitarie siano aggiornate e, purtroppo, questo non accade sempre — ricorda Zappa —. Nel caso in cui i cittadini non ricevano la lettera d’invito devono contattare i programmi di screening o attraverso i servizi di call center o attraverso l’indirizzo di posta elettronica del programma per richiedere un appuntamento. Ultimamente, per facilitare l’accesso, si stanno valutando nuove modalità di contatto con i cittadini e in alcune Aziende sanitarie si sta sperimentando, in aggiunta alla lettera inviata per posta, l’invio della comunicazione sul Fascicolo sanitario elettronico. Possiamo infine ipotizzare che, in un prossimo futuro, appena si potrà disporre del domicilio digitale al quale raggiungere tutti i cittadini la lettera non sarà più necessaria».
Quanto sono utili gli screening
«L’utilità degli screening viene costantemente dimostrata da studi scientifici internazionali e da rigorose statistiche — spiega la direttrice dell’Osservatorio nazionale screening —. Dai dati emerge che fare regolarmente la mammografia riduce il rischio di morire per tumore al seno del 40% ed eseguire il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci diminuisce del 20% il pericolo di ammalarsi di carcinoma colorettale e del 40% quello di morirne. Effettuare il Pap test fa calare del 60-70% la probabilità di un cancro della cervice, e con il test per la ricerca dell’Hpv questa protezione cresce ulteriormente». Nel 2020, ultimo dato aggiornato disponibile, il numero di carcinomi mammari identificati allo screening è stato pari a 6.061, le lesioni CIN2+ identificate a seguito del Pap test sono state 1.754, mentre per quanto riguarda lo screening del colonretto i cancri e gli adenomi avanzati diagnosticati sono stati 1.402 e 10.286 rispettivamente. In merito allo screening cervicale con test Hpv, il dato più completo relativo al 2019 registra 4.509 lesioni Cin2+.
Quali sono i pro (tanti) e i contro (limitati) della mammografia
Secondo le statistiche un’italiana su otto si ammalerà di cancro al seno nel corso della vita e per la diagnosi precoce le donne tra i 50 e i 69 anni devono sottoporsi alla mammografia ogni due anni. «Se sulle sue capacità come mezzo di diagnosi precoce e nel ridurre la mortalità sono tutti sostanzialmente d’accordo — ricorda Paola Mantellini, direttrice dell’Osservatorio nazionale screening —, c’è chi sottolinea i potenziali svantaggi della mammografia legati alle diagnosi in eccesso, ovvero alla scoperta di forme tumorali che senza l’esame non si sarebbero nel corso della vita mai manifestate (poco aggressive, che non causano la morte della persona). Ma i pro superano i contro, tanto che questo esame viene usato in tutto il mondo».
La diagnosi del tumore all’utero
Per la diagnosi precoce del tumore al collo dell’utero tutte le donne fra i 25 e i 30/35 anni devono sottoporsi al Pap test ogni tre anni, mentre a partire dai 30/35 anni il test raccomandato è l’Hpv test che ricerca l’infezione da Papillomavirus (Hpv). Questo test è altamente protettivo e per questo motivo è sufficiente ripeterlo ogni 5 anni anziché ogni 3. «In Italia è in atto un ulteriore cambiamento: per le ragazze vaccinate contro il Papillomavirus entro i 15 anni è consigliato effettuare un Hpv test ogni 5 anni a partire dai 30 anni — chiarisce Mantellini —: non è più necessario che effettuino il Pap test dai 25 anni perché, grazie al vaccino, hanno un bassissimo rischio di sviluppare un tumore del collo dell’utero prima dei 30 anni». In caso di positività a Hpv e Pap test l’esame di approfondimento consigliato è la colposcopia che si effettua nello stesso modo in cui si fa il Pap o l’Hpv test e utilizza uno strumento, il colposcopio, che permette di visualizzare il collo dell’utero.
Carcinomi del colon retto: come si esegue l’esame
Per la diagnosi precoce del tumore al colon tutte le persone (uomini e donne) fra i 50 e i 70 anni devono sottoporsi ogni due anni al test Sof, per la ricerca del sangue occulto nelle feci: in pratica si deve andare nella farmacia più vicina a ritirare un piccolo contenitore nel quale raccogliere un campione di feci, per poi restituirlo e ricevere la lettera con il referto a casa nell’arco di un paio di settimane. Con il test Sof il 90 per cento dei carcinomi colorettali si potrebbe evitare perché si sviluppano a partire da adenomi (o polipi) che impiegano anni, in media una decina, per trasformarsi in forme maligne: è in questa finestra temporale che lo screening con il Sof consente di fare una diagnosi precoce e di eliminare i polipi intestinali prima che abbiano acquisito caratteristiche pericolose ed evolvano in un tumore maligno.
Tumore al polmone: Tac spirale per fumatori ed ex-fumatori
Negli ultimi 20 anni sono stati condotti numerosi studi sullo screening per il tumore del polmone ed è stato dimostrato che la Tac spirale , un esame radiologico dei polmoni, è in grado di individuare lesioni e noduli polmonari molto piccoli, nei forti fumatori fra i 55 e gli 80 anni e nei forti ex fumatori che hanno smesso da meno di 15 anni. «È stato evidenziato come questo test una volta l’anno possa ridurre la mortalità per cancro al polmone del 20% — spiega Marco Zappa, già direttore dell’Osservatorio nazionale screening —. Se tra i possibili “contro” ci sono le radiazioni accumulate con il test, fra i “pro” va ricordato che per i forti fumatori il rischio di morire per cancro polmonare è molto alto». Sulla base di numerose evidenze scientifiche le nuove raccomandazioni europee lo consigliano e indicano che sia abbinato a percorsi per aiutare i tabagisti a smettere. In Italia sono in corso quattro studi (CCM 2019, ITALUNG-2, RISP, PEOPLHE) che si dovrebbero concludere nel 2024.
Quanto contano gli stili di vita (corretti)
È ormai noto che 1 tumore su 3 potrebbe essere evitato seguendo corretti stili di vita. Le 12 principali modalità per ridurre il rischio di ammalarsi sono incluse nel Codice Europeo Contro il Cancro, ma pochi italiani ne sono consapevoli. Lo dimostrano i numeri: il 24% dei 18-69enni fuma, 1su 4 più di un pacchetto di sigarette al giorno. Il 16% dei connazionali ha un consumo «rischioso» di alcol, per quantità o modalità di assunzione. E ancora: secondo i livelli di attività fisica raccomandati dall’Oms il 31% della popolazione è sedentaria e non fa neppure il minimo di attività fisica raccomandata in base all’età. La conseguenza si misura anche con l’ago della bilancia: il 33% degli adulti è sovrappeso, il 10% obeso). Infine, a preoccupare moltissimo gli esperti sono i più giovani, che iniziano a fumare e consumare alcolici fin dall’adolescenza, praticano sempre meno sport e sono sempre più «pesanti».
Tumori, l'esame che rivela il cancro invisibile in una sola seduta. Matteo Legnani su Libero Quotidiano l’11 febbraio 2023
Niente liquido di contrasto, niente radiazioni, nessun digiuno. E la possibilità di scoprire masse tumorali anche molto piccole, tra i 3 e i 4 millimetri, in soli 35 minuti, in qualunque parte del corpo compresa tra l’encefalo e la parte alta delle gambe si trovino. Consentendo una diagnosi precoce in soggetti apparentemente sani, che salva la vita e permette in molti casi di eseguire interventi poco invasivi, rispetto a quelli spesso necessari quando l’insorgenza di un tumore si accompagna alla comparsa di sintomi.
L’esame, che si chiama Diffusion Full Body, viene eseguito attraverso un macchinario perla risonanza magnetica dotato di appositi software e seguendo un protocollo che è stato messo a punto dal professor Giuseppe Petralia, direttore dell’unità di Imaging di Precisione e Ricerca presso lo Ieo, l’Istituto oncologico europeo. «Il metodo sfrutta come liquido di contrasto l’acqua che c’è nel nostro corpo e le alterazioni del suo movimento nei tessuti. Quando le molecole d’acqua attraversano tessuti ipercellulari, che sono quelli costituiti da cellule tumorali maligne, il loro movimento si accelera creando una luminescenza che viene “catturata” dalla macchina» spiega Piera Esposito, presidente di Advanced Screening Center (ASC), la società con sede a Castelli Calepio nella Bergamasca dove dal gennaio 2017 si esegue questo rivoluzionario esame.
«Il nostro metodo presenta molti vantaggi rispetto agli screening tradizionali perché non è in alcun modo invasivo per il paziente sano che decida di sottoporvisi, è rapido e permette di “ispezionare” organi che normalmente non sono sottoposti a indagine se non in presenza di sintomi. Nel senso che – prosegue la presidente di ASC – tutte le donne si sottopongono, o dovrebbero sottoporsi, regolarmente a mammografia passati i 40 anni e lo stesso vale per gli uomini con la prostata. Ma nessuno, in assenza di sintomi, si sottopone a controlli tumorali sull’encefalo, i reni o il pancreas».
Anche i tempi di attesa per sottoporsi allo screening sono rapidi. Normalmente nella settimana o nei dieci giorni successivi alla chiamata del paziente si fissa l’esame, che ha un costo non indifferente: 1.400 euro per ottenere un referto immediato e illustrato personalmente dal professor Petralia, 1.200 euro nel caso si desideri avere l’esito, sempre comunque refertato da Petralia, e il CD con le immagini “scaturite” dall’esame nel giro di una settimana. «Ma abbiamo riservato una quota annua a persone con Isee inferiore ai 25mila euro, per le quali il costo è di soli 300 euro, abbiamo accordi con aziende che hanno inserito l’esame tra i benefit per i loro dipendenti e sono sempre di più le assicurazioni mediche private che lo stanno inserendo nelle loro coperture» spiega Piera Esposito, che precisa che «per statuto la ASC reinveste tutti gli utili, anche allo scopo di abbattere in futuro il costo dell’esame». Dal 2017 al 2022 la ASC ha eseguito circa 1.500 screening l’anno, ma il numero è destinato a crescere dopo l’arrivo di un secondo macchinario. Il paziente “tipo” ha un’età compresa tra i 45 e gli 80 anni. E al Diffusion Full Body, proprio perché assolutamente non invasivo, ci si può sottoporre anche una volta ogni dodici mesi. Sei annidi screening hanno rivelato che l’1,8 per cento della popolazione presuntamente sana ha in realtà una storia oncologica in corso.
Giornata mondiale sul cancro: le strategie di prevenzione funzionano ma ancora pochi le sfruttano. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.
Tumori in crescita, specie negli over 54: 400mila nel 2022. Un caso su tre si può evitare, ma gli italiani non sfruttano le occasioni: troppi in sovrappeso, fumatori e bevitori. Bassa l'adesione ai controlli per la diagnosi precoce
Secondo le stime più recenti un italiano su tre si ammalerà di cancro nel corso della sua vita e i casi nel nostro Paese sono in aumento: se ne sono registrati quasi 400mila nel 2022 e la crescita, considerando sono patologie più frequenti dopo i 65 anni, appare per lo più collegata all'invecchiamento generale della popolazione. I numeri indicano anche che in Italia la mortalità è in calo (sono, comunque, oltre 180mila i decessi annui) e che, in media, il 60% dei pazienti è ancora in vita cinque anni dopo la diagnosi. E se, inevitabilmente, una diagnosi di tumore continua a fare paura, troppi connazionali non conoscono o non mettono in pratica quelle poche buone ed efficaci regole per limitare le probabilità di ammalarsi.
Un terzo dei casi di cancro evitabile
«È stato ormai ampiamente dimostrato da numerosi studi condotti in tutto il mondo che un caso su tre è evitabile — sottolinea Paolo Veronesi, presidente di Fondazione Umberto Veronesi, impegnata fin dalla sua nascita, nel 2003, sul fronte della prevenzione e del sostegno alla ricerca scientifica —. Oltre un terzo dei tumori non si svilupperebbe a fronte di stili di vita corretti. Non fumare (o smettere con vantaggi concreti a ogni età), fare regolarmente attività fisica, seguire un’alimentazione equilibrata e non avere chili di troppo sono regole semplici, che hanno conseguenze tangibili per tenere lontano il rischio di cancro nelle persone sane e il pericolo di ricadute in chi si è già ammalato».
Lo slogan
Gli specialisti lo ripetono da anni, ma il messaggio fa fatica a trasformarsi in impegno concreto. Anche per questo si celebra ogni anno il 4 febbraio la Giornata mondiale contro il cancro rivolta a governi, istituzioni, politici, cittadini, associazioni di pazienti, persone anziane e giovani con un unico obiettivo: unificare gli sforzi, facendo ognuno la propria parte, in modo tale da ridurre concretamente l'impatto che il cancro ha sulle nostre vite. «Close the care gap», ovvero eliminare le disparità nelle cure, è lo slogan scelto per l’edizione di quest’anno. «La Giornata, a livello internazionale, si focalizza sul potere della conoscenza e sull’eliminazione delle ineguaglianze — commenta Saverio Cinieri, presidente dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) —. Una corretta informazione può salvare la vita, ma anche se crescono costantemente le fila dei connazionali che si lasciano la malattia alle spalle, o che ci convivono per anni, ogni giorno circa mille italiani ricevono una diagnosi di tumore. Solo grazie alla prevenzione, se ognuno di noi facesse attenzione, potrebbero essere 350 in meno».
La prevenzione
Gli ultimi dati (2021) raccolti dai sistemi PASSI e PASSI d’Argento, coordinati dall’Istituto superiore di sanità, indicano però che in Italia il 24% dei 18-69enni fuma e uno su quattro (22%) consuma più di un pacchetto di sigarette al giorno. Quasi un adulto su sei poi (ovvero il 16% dei cittadini, specie maschi, giovanissimi 18-24enni e residenti al Nord) fa un consumo di alcol a «maggior rischio» per la salute, per quantità o modalità di assunzione: l’8% per consumi episodici eccessivi (il cosiddetto binge drinking), un altro 8% per consumo alcolico esclusivamente o prevalentemente fuori pasto e il 2% per un consumo abituale elevato. La sedentarietà riguarda un terzo dei cittadini: è più frequente fra le donne, aumenta con l’età ed è più diffusa al Sud. Infine, più di quattro adulti su dieci risultano in eccesso ponderale (oltre il 32,5% è in sovrappeso e il 10,4% è obeso), con l’obesità che è poco più frequente fra gli uomini e aumenta significativamente con l’età. «I dati sugli stili di vita errati sono diventati preoccupanti e dobbiamo invertire un’allarmante tendenza al peggioramento — aggiunge Cinieri —. Nel corso della vita circa un uomo su due e una donna su tre nel nostro Paese dovranno fare i conti con il cancro, che è oggi la seconda causa di morte dopo le malattie cardiovascolari. È indispensabile che le istituzioni da un lato e i singoli cittadini dall’altro facciano ognuno la propria parte per prevenire l’insorgenza di un tumore».
Stili di vita sani
Cosa rispondere a chi è scettico sull’utilità di stili di vita sani e cita, per esempio, le cronache più recenti con la scomparsa di calciatori giovani e «in forma» come Sinisa Mihajlovic e Gianluca Vialli? «Purtroppo i grandi numeri, le statistiche, sono percentuali valide e molto utili a livello scientifico, poi però ci sono i singoli casi, le persone, famose o meno — risponde Paolo Veronesi, che è anche direttore della Divisione di Senologia chirurgica all’Istituto europeo di oncologia di Milano —. Vediamo ogni giorno pazienti non anziani, non tabagisti, non sovrappeso che purtroppo si ammalano. Non sempre l’insorgenza di una neoplasia è dovuta ad abitudini scorrette, ma di certo sappiamo che il 30% e più dei casi è riconducibile a scelte che sono modificabili. L’esempio forse più chiaro è quello del tumore al polmone: 85 persone su 100 che si ammalano sono fumatori, attuali o ex».
La diagnosi precoce
Tra le buone pratiche da seguire, c’è poi un altro semplice accorgimento che salva la vita: sottoporsi a quei controlli che in Italia vengono offerti gratuitamente a chi è più a rischio di sviluppare un tumore e che, invece, moltissimi connazionali rifiutano. Mammografia per il cancro al seno, test per la ricerca del sangue occulto nelle feci per il colon retto, Pap test ed esame per il Papillomavirus (HPV test) per la cervice uterina, Tac spirale ai polmoni possono scoprire la presenza di lesioni precancerose (che non si sono ancora trasformate in forme maligne) o di un tumore agli stadi iniziali, quanto le terapie possono essere più semplici, meno invasive e aumentano le probabilità di guarigione definitiva. «Se le morti per cancro sono costantemente diminuite negli ultimi anni è merito sia delle nuove terapie che si sono rese disponibili grazie ai successi della ricerca scientifica, sia della diagnosi precoce — conclude Veronesi —: è fondamentale che le persone invitate agli screening non gettino la lettera nel cestino. Ed è importante, in caso di sintomi sospetti, parlare subito con un medico senza perdere tempo, che può essere molto prezioso».
Disuguaglianze
Le stime presentate in occasione del World Cancer Day si focalizzano su un numero: si prevede che entro il 2030 ben il 75% delle morti premature dovute al cancro si verificherà nei Paesi a basso e medio reddito. Le disuguaglianze, però, crescono anche sul fronte economico (fra chi può permettersi di pagare le terapie migliori e chi no o sui disagi che, anche in Italia, si verificano a causa dell'impatto che la malattia ha sul lavoro e sulle spese dell'intera famiglia) o socio-culturale, passando per differenze di genere, orientamento sessuale, età, etnia, livelli di educazione e di informazione. Per questo la campagna mondiale 2022-2024 si focalizza sull’impegno a eliminare le disparità, nelle terapie, nella prevenzione e nell’informazione. Con questo stesso intento, per dare a tutte le persone notizie utili e scientificamente corrette, dalla collaborazione fra Fondazione Umberto Veronesi e Corriere della Sera è nata 20 anni fa la sezione Sportello Cancro di Corriere Salute.
Tumori ereditari: quali sono le sindromi che si trasmettono in famiglia. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023.
Chi rischia di più? Si può fare prevenzione? Quali sono i sintomi? Quando si può chiedere il test genetico? Le risposte degli esperti di Fondazione Mutagens
Cosa sono le sindromi ereditarie?
Le sindromi ereditarie sono uno spettro di malattie che possono determinare, a causa di alterazioni patologiche del materiale genetico (ovvero del Dna) nelle cellule germinali (ovociti o spermatozoi), malattie di vario tipo o malformazioni trasmissibili alla prole. Limitatamente alla patologia oncologica, ne sono note circa una cinquantina, mentre sono oltre un centinaio i geni associati a una predisposizione ai tumori, con livelli di rischio di ammalarsi nel corso della vita da due a 40 volte superiori rispetto alla popolazione normale, a seconda della sindrome e degli organi coinvolti. «Non esistono stime precise sulla la popolazione dei portatori di sindromi ereditarie rare, in cui la prevalenza è di un caso ogni diverse migliaia, talvolta diverse centinaia di migliaia di nati. Si può ipotizzare che nel loro insieme in Italia i soggetti portatori di sindromi ereditarie più rare siano oltre 100mila, nella maggior parte dei casi inconsapevoli di essere a rischio di malattia e quindi senza alcuna possibilità di essere inseriti in specifici percorsi di prevenzione primaria o secondaria (diagnosi precoce)» dice Salvo Testa, presidente di Fondazione Mutagens.
Quanti sono i tumori ereditari?
Con lo sviluppo dei test genetici e di quelli genomici (sul tessuto tumorale) la quota di incidenza dei tumori eredo-familiari rispetto a quelli sporadici (casuali e individuali) è in continua rivalutazione. Oggi si stima che mediamente fino al 15-17% dei tumori possa avere come causa un’alterazione del Dna (geni e altre varianti genetiche come i singoli polimorfismi) per cui individuare correttamente i portatori di sindromi ereditarie potrebbe avere un impatto notevole per la prevenzione e la cura di molti tumori. «Nonostante la maggior parte dei portatori di queste sindromi vengano tuttora identificati solo in seguito alla malattia, il crescente ricorso allo “screening a cascata” sui familiari sani e la messa in atto, nelle principali strutture ospedaliere, di protocolli di prevenzione e di sorveglianza intensificata, sta consentendo di intervenire sui “portatori sani” con grandi benefici per la salute delle persone e per le opportunità di cura» sottolinea Salvo Testa, presidente di Fondazione Mutagens.
Quali sono le sindromi ereditarie legate ai tumori più diffuse?
Le sindromi ereditarie più diffuse sono quella del Cancro Ereditario della Mammella e dell’Ovaio (HBOC), associata principalmente a varianti dei geni BRCA1 e BRCA2, che predispone anche a un rischio maggiore di tumori maschili della mammella e della prostata e di tumori del pancreas in entrambi i sessi. La sua prevalenza nella popolazione è di un caso ogni 400 nati, per cui si stima che in Italia i portatori siano circa 150mila. Relativamente diffusa è anche la sindrome di Lynch, associata principalmente a varianti dei geni del mismatch repair (in sigla MMR, un sistema di riparazione del Dna), che predispone a un rischio maggiore di tumori del colon-retto, gastro-intestinali e dell’endometrio. La sua prevalenza nella popolazione è di un caso ogni 279 nati, per cui si stima che in Italia i portatori siano circa 240mila.
Quali sono le sindromi ereditarie più rare?
Le altre sindromi ereditarie più rare collegate ai tumori sono meno frequenti nella popolazione e anche meno note sia al grande pubblico sia agli stessi medici, di medicina generale e specialisti. Il che, ovviamente, rende la presa in carico e la prevenzione più problematiche e difficoltose rispetto alle due sindromi più conosciute. Si tratta della sindrome di Cowden (mutazione del gene PTEN), quella di Li Fraumeni (mutazione del gene TP53) e quella dell’adenocarcinoma ereditario gastrico diffuso (tumore gastrico diffuso ereditario o familiare, HDGC, geni CDH1, MAP3K6 e CTNNA1). Sono multiorgano (spesso con manifestazioni e penetranza molto variabile da famiglia a famiglia e anche a livello soggettivo) e il loro impatto può essere anche maggiore rispetto alle due sindromi più note perché talvolta può esserci esordio in età pediatrica o adolescenza (in particolare Cowden e Li Fraumeni). «Sulle sindromi ereditarie rare c’è un grande ritardo nelle linee guida internazionali e nazionali e a maggior ragione mancano percorsi diagnostici e terapeutici (i cosiddetti PDTA) specifici: ci sono solo casi isolati e singoli professionisti che se ne occupano - spiega Cristina Grugnetti, consigliere di Mutagens con delega sulle sindromi rare -. Pazienti e famiglie sono spesso costretti a rivolgersi a strutture diverse (a seconda degli organi in sorveglianza), su e giù per l’Italia, con costi privati per cercare di mantenere esami e visite di controllo negli intervalli previsti, mancando la “presa in carico” da parte di strutture ospedaliere con specifici percorsi».
Quali i possibili sintomi?
Solitamente non ci sono sintomi, ma sviluppo anomalo di tumori: anomalo del senso d’età di insorgenza (generalmente più precoce rispetto a quanto avvenga di norma per le neoplasie nella popolazione normale) e di frequenza nello stesso nucleo familiare di specifici tipi di cancro. Ci possono essere in alcune di esse (per esempio nella mutazione del gene PTEN) alcune alterazioni fisiche (macrocefalia in più del 90% dei pazienti) e psicologiche (possibilità di sviluppo di anomalie dello sviluppo psicologico, come ad esempio l’autismo). «Non è possibile quindi elencare i “campanelli d’allarme”, ma un’adeguata prevenzione impone di ricercare queste sindromi mediante una corretta indicazione alla consulenza genetica, per individuare il prima possibile un paziente malato e/o un soggetto asintomatico portatore (ovvero una persona sana, ma a rischio di sviluppare nella sua vita tumori) per poterli inserire in percorsi di sorveglianza dedicati».
Quali esami bisogna fare? E quando serve consulenza genetica?
Una volta accertata la presenza di una sindrome genetica che predispone ad ammalarsi di tumore gli esami di controllo vengono prescritti dai medici prendendo in considerazione l’insieme di variabili che varia da persona a persona. Quando si sospetta una sindrome ereditaria per poter accedere a una visita di consulenza genetica e poter fare il test del Dna per la quantificazione del rischio attraverso il Servizio sanitario nazionale ci sono specifici criteri: - tumore gastrointestinale (stomaco, duodeno, pancreas, colon-retto) a meno di 50 anni - tumore del tratto ginecologico (ovaio, endometrio, tube di Falloppio, peritoneo) a meno di 60 anni - tumore della mammella a meno di 40 anni- tumore della mammella diagnosticato prima dei 50 anni e/o più di un parente con tumore del tratto gastrointestinale e/o della mammella bilaterale e/o tumore della mammella maschile - tumore della mammella maschile- tumori multipli nella stessa persona - tre o più tumori nella stessa sede, in parenti di primo grado (genitori, figli, sorelle e fratelli) dello stesso lato familiare - mutazioni genetiche in parenti di primo o secondo grado (nonni, zii, nipoti) - storia clinica di 10 o più polipi del tratto gastrointestinale
Si può fare prevenzione?
Determinare con precisione e tempestivamente la diagnosi genetica (identificando la presenza di una sindrome ereditaria) consente di definire e attuare per tempo una sorveglianza organo-specifica, con buone implicazioni sul piano terapeutico e della prognosi. Inoltre, in alcuni casi (organi non vitali) si possono proporre anche interventi di chirurgia profilattica (ovvero asportare l’organo che potrebbe essere interessato), per ottenere una riduzione del rischio di insorgenza del tumore.
Cos'è la sindrome di Cowden?
PTEN è uno dei principali geni oncosoppressori, ovvero in grado di controllare e bloccare la crescita e lo sviluppo di cellule tumorali. Quando il gene PTEN è mutato si ha la sindrome di Cowden. La sua prevalenza nella popolazione è stimata in circa un caso su 200mila nati, per cui in Italia si ipotizza ci siano circa 300 persone portatrici. Gli organi interessati sono cute e mucose e fra la seconda e la terza decade di vita compaiono lesioni chiamate amartomi (piccoli noduli o zone di tessuto benigno ma irregolare localizzati al viso, collo, mani e ascelle) nel 90-100% dei casi. I portatori della sindrome di Cowden hanno un rischio aumentato di varie neoplasie con insorgenza in età più precoce rispetto ai casi sporadici di cancro (attorno ai 30-40 anni): il pericolo di cancro al seno è dell’85% rispetto al 12% della popolazione generale; quello di cancro della tiroide è del 35% rispetto all’1%; quello di cancro dell’endometrio (la parete che ricopre internamente l’utero) del 28% rispetto al 2,6%. Inoltre, c’è una maggiore incidenza anche di carcinoma del colon-retto, del rene e di melanoma cutaneo. «La possibilità di cura è quella dei singoli tumori alla loro insorgenza, quindi è di capitale importanza la conoscenza della sua esistenza per una corretta e tempestiva diagnosi sia nei malati sia nei portatori, ponendo attenzione fin dalla giovane età alle malformazioni cutanee presenti fino al 90% dei pazienti che rappresentano un elemento estremamente specifico e fortemente indicativo» sottolinea Cristina Grugnetti.
Cos'è la sindrome di Li Fraumeni?
Il gene TP53 determina la produzione della proteina P53, importantissima per la soppressione delle cellule tumorali e assai raramente nella sindrome di Li Fraumeni sono coinvolti altri geni. La prevalenza nella popolazione generale in passato era stimata in un caso ogni 5mila-20mila nati, mentre uno studio recente la indica come più frequente: ovvero un caso ogni 3.555-5.476. Ciò significa in Italia, un numero di portatori potenziali compreso tra 11mila e 17mila. Ci possono essere diversi livelli di gravità della malattia a seconda del tipo di mutazione del gene. I pazienti con questa sindrome corrono un rischio elevato di sviluppare uno o più tumori durante tutto il corso della loro vita a molteplici organi e tessuti. Il rischio di cancro si stima sia di almeno il 70% negli uomini e almeno il 90% nelle donne, nelle quali è più alto a causa del carcinoma mammario. Un recente studio ha riportato l’80% di rischio a 70 anni, con il 22% dei tumori che si verifica tra 0 e 15 anni, il 51% tra 16 e 50 anni e il 27% tra 51 e 80 anni. Gli organi e i tessuti più colpiti sono: sistema nervoso centrale, mammelle, surreni, ossa, tessuti molli, linfoemopoietico (leucemie, linfomi gastrointestinale), pancreas, laringe, polmone, reni, tiroide, pelle, testa-collo, ovaio, testicoli e prostata. È da sottolineare l’alto rischio di incorrere in tumori primari multipli e tumori con insorgenza in età precoce.
Cos'è la sindrome dell’adenocarcinoma gastrico diffuso?
In questa sindrome rara rientrano pazienti con una varietà grave e diffusa di tumore dello stomaco, nel 20%-40% dei quali è presente una mutazione germinale del gene oncosoppressore CDH1; più raramente la mutazione patogenetica interessa altri geni (MAP3K6 e CTNNA1). Si tratta di una condizione veramente molto rara, perché il tumore dello stomaco rappresenta il 4% circa di tutti i tumori nei maschi e il 3% nelle femmine e solo una piccola percentuale di questi tumori (1%-3%) è collegata alla sindrome HDGC. Molto spesso il cancro insorge in età inferiore ai 40 anni e presenta una prognosi molto severa. Al punto che, in determinate persone, anche in rapporto alla presenza di altri casi in famiglia, viene prospettata la chirurgia profilattica (ovvero la gastrectomia, l’asportazione dello stomaco). Le donne (talvolta pure gli uomini) presentano anche un maggior rischio di sviluppare un carcinoma lobulare della mammella. «Molto importante, per poter individuare i portatori sani, un’attenta valutazione della familiarità per carcinoma gastrico, specie se insorto in età inferiore ai 40 anni» conclude Salvo Testa.
Contro il cancro terapie al top solo in 30 ospedali. Gli oncologi: fare rete. Storia di Vito Salinaro su Avvenire il 2 dicembre 2023.
Dei 1.000 ospedali italiani, pubblici e privati, solo 30 (8 dei quali in Lombardia), erogano la terapia con radioligandi, l’ultima novità della medicina nucleare contro il cancro: si tratta di radiofarmaci che rilasciano radiazioni direttamente nelle cellule neoplastiche ovunque siano presenti, agendo quindi in modo altamente specifico e con estrema precisione.
E soltanto 35 ospedali del nostro Paese mettono a disposizione dei pazienti affetti da alcuni tumori del sangue, la terapia con Car-T, una innovativa procedura, in continuo perfezionamento, che “reingegnerizza” una parte delle cellule del sangue prelevate ai pazienti, istruendo i linfociti T ad attaccare e a distruggere quelle maligne.
E se un paziente necessita di sedute di protonterapia, che tratta sia i tumori sviluppati in organi critici o in sedi difficili da raggiungere, sia un crescente numero di neoplasie orfane di cura e che non rispondono alla radioterapia convenzionale, dovrà mettersi in fila per essere accettato nei tre centri italiani che la erogano: l’Ieo a Milano, il Centro nazionale di Adroterapia oncologica di Pavia e il Centro di protonterapia di Trento. Nel laboratorio dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) di Catania, si curano invece i melanomi oculari. Questi trattamenti sono il presente e il futuro della lotta al cancro, e sono destinati a gruppi di pazienti in rapida crescita. Richiedendo una specializzazione elevata, team multidisciplinari, oltre a tecnologie e laboratori d’avanguardia e molto costosi (i centri di protonterapia nel mondo sono un centinaio), non si può certo pensare di trovarli in ciascuna delle 1.000 case di cura sparse per il Paese. D’altra parte, non è neanche concepibile che il paziente oncologico gestito in nosocomi “periferici” e che non riesce a raggiungere i reparti di eccellenza degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e dei più prestigiosi ospedali universitari del Paese, siano destinati a campare di meno e peggio degli altri. Dunque, si pone un problema di accessibilità a queste terapie. A sentire l’Aiom (Associazione italiana oncologia medica), serve prima di tutto investire in équipe di specialisti adeguatamente formati, geograficamente ben distribuiti, che garantiscano ai pazienti il corretto e più aggiornato percorso di cura, che potrà poi svolgersi nei centri altamente specializzati.
Le nuove terapie, come quella con radioligandi, afferma Maria Luisa De Rimini, presidente dell’Associazione italiana di medicina nucleare, «nei loro molteplici aspetti di gestione», necessitano però anche «di un indispensabile adeguamento infrastrutturale, essenziale perché possa esserne garantita l’erogazione e perché queste strategie terapeutiche diventino opportunità di cura accessibile in modo uniforme sul territorio». Ottimizzarne l’impiego, «assicurerebbe equità di accesso in tutte le regioni». Impossibile avere tutto in ogni ospedale. Ma, aggiunge De Rimini, si può e si deve almeno «superare la disomogeneità di distribuzione geografica aumentando il numero di strutture» in grado di offrire le nuove terapie. Perché l’obiettivo è «eliminare il fenomeno della migrazione sanitaria che spesso costringe pazienti e loro familiari a disagi da lunghi viaggi».
Fondamentali, così come raccomanda il Piano oncologico nazionale, sono i gruppi multidisciplinari. Per molti tumori, oltre ad oncologi ed ematologi, serve una condivisione del piano terapeutico che comprenda anche figure molto diverse: dal medico nucleare all’endocrinologo, dal patologo allo specialista di fisica medica, al radiologo.
Se è vero che per un cambio di passo bisogna investire in tecnologie e formazione, è altrettanto vero che i soldi impiegati sarebbero non solo ben spesi ma anche destinati a tornare indietro con gli interessi. Perché il ricorso sempre più frequente alla personalizzazione delle cure è garanzia di maggiore efficacia e, di conseguenza, come rileva l’Aiom, di una consistente riduzione dei costi di ospedalizzazione. Per la terapia con radioligandi, per esempio, servono uno, massimo due giorni in reparto ogni sei-otto settimane, per un totale di 4 cicli. A tutto vantaggio del nostro traballante bilancio sanitario. «Anche le più recenti linee guida Aiom-ItaNet – sottolinea il presidente eletto Aiom, Massimo Di Maio, docente di Oncologia all’Università di Torino, e direttore dell'Oncologia medica all'Ospedale Mauriziano del capoluogo piemontese – sanciscono l’importanza della condivisione delle scelte terapeutiche e la necessità di inserire il paziente in un percorso integrato e dedicato, gestito». Per restare alla terapia con radioligandi, confinata al momento in pochi istituti, «è importante che i team multidisciplinari dei centri periferici siano messi in condizione di lavorare quanto più possibile a stretto contatto con l’expertise centrale delle strutture in grado di prendere in carico i pazienti».
Non proprio una formalità, stando a quanto denuncia il Cipomo (Collegio dei primari oncologi medici ospedalieri) per il quale le strutture di oncologia medica italiane, «soffrono negli aspetti organizzativi interni e nella gestione del percorso del paziente dall’ospedale al territorio». Non solo: meno della metà di queste unità (circa il 40%), ha una connessione strutturata con i dipartimenti di prevenzione primaria e secondaria e con centri screening; una cartella informatizzata manca nel 66% delle strutture, ed è condivisa con il territorio solo nell’8% dei casi. Come dire: in tanti ospedali le terapie top possono attendere.
Le armi più potenti contro i tumori: il ruolo dei vaccini
Immunoterapia, vaccini, radiofarmaci, protonterapia. Il cancro ha nuovi, potenti, nemici. Alcuni già disponibili. Altri che saranno presto disponibili. Appena ieri l’Istituto nazionale tumori “Pascale” di Napoli ha annunciato il via libera in Italia ai test di fase 3 sul vaccino a mRna contro il melanoma. Il Pascale è il primo centro a partire nel nostro Paese con l'ultimo step di sperimentazione clinica, e tra i primi al mondo. L'avvio poche settimane fa, con l'arruolamento di pazienti con diagnosi di melanoma radicalmente operato. «Il vaccino si basa sulla stessa tecnologia adottata per quelli contro il Covid – spiega il direttore del dipartimento di Oncologia, melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative del Pascale, Paolo Ascierto –. Sono prodotti che utilizzano mRna sintetici progettati per “istruire” il sistema immunitario a riconoscere specifiche proteine, chiamate “neoantigeni”, che sono espressione di mutazioni genetiche avvenute nelle cellule malate». I dati, a 2 anni dalla somministrazione del vaccino contro il melanoma, mostrano una riduzione del rischio di recidiva o morte del 44% in chi lo ha ricevuto in combinazione con il farmaco immunoterapico pembrolizumab. «Ci vorrà qualche anno prima di avere i risultati di quest'ultima fase clinica – puntualizza Ascierto –. La nostra speranza è di poter dare una nuova e più efficace opzione terapeutica a quanti più pazienti possibili».
Sono invece impiegate contro tumori del sangue, linfomi aggressivi o leucemie linfoblastiche, in pazienti che hanno subito anche molteplici ricadute, le terapie con Car-T, che rappresentano una possibilità concreta di controllo della malattia, con un importante aumento della sopravvivenza, e con percentuali di guarigione che possono superare il 40% dei casi. All’inizio dell’autunno erano già sei i farmaci che utilizzano Car-T approvati. Mentre non è certo un caso se in tutto il mondo si contano 1.400 studi clinici registrati che si occupano di questa procedura.
La protonterapia utilizza protoni e ioni carbonio, particelle atomiche che hanno il vantaggio di essere più pesanti e dotate di maggior energia rispetto agli elettroni (utilizzati dalla radioterapia) e di conseguenza di essere ancora più efficaci nel distruggere le cellule tumorali. È stata inserita nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) nel 2017. Il ministero della Salute ha individuato 10 patologie oncologiche per le quali è considerata appropriata. Dal prossimo primo gennaio 2024 questa procedura, che presenta minori rischi di malattie indotte dai raggi e meno tossicità durante e dopo il trattamento, entrerà tra le prestazioni erogabili dal Sistema sanitario nazionale per i cittadini di tutto il territorio italiano.
La rivoluzione dei radioligandi
Ma una delle novità che riscuote interesse in tutto il mondo nella lotta al cancro è rappresentata dai radioligandi, ovvero dei radiofarmaci. La nuova frontiera aperta da questo trattamento sta nel fatto che diagnosi e cura fanno parte dello stesso percorso perché utilizzano la stessa molecola. «Nessuna altra strategia – spiega il presidente della Fondazione Aiom, Saverio Cinieri – è in grado di delineare con altrettanta accuratezza e predittività se, quanto e come si potrà colpire il target tumorale ancor prima di iniziare la terapia». Oggi i radioligandi sono utilizzati per i tumori neuroendocrini (definiti “Net”), le cui cellule sono presenti in tutto l’organismo e che dunque possono colpire organi molto diversi tra loro come intestino, pancreas, polmoni, tiroide, timo o ghiandole surrenali. Sono tumori che si presentano il più delle volte già in fase metastatica. In questo tipo di malattie, i radioligandi hanno già dimostrato di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti, anche nei casi molto compromessi. Ma i ricercatori considerano questa terapia, da poco approvata dagli enti regolatori statunitense, Fda, ed europea, Ema, potenzialmente in grado di arrecare enormi vantaggi anche su altri tumori. «Partendo dall’esperienza dei Net – dice Marcello Tucci, primario oncologo dell’Ospedale “Cardinal Massaia” di Asti –, numerosi studi internazionali hanno valutato il potenziale dei radioligandi in fase diagnostica e terapeutica in diverse neoplasie, come il cancro della mammella, del pancreas, del polmone, della prostata, nel melanoma, nel linfoma e nel mieloma multiplo». Non solo: «Grazie ai radioligandi, il tumore della prostata sta vivendo il suo ingresso in una nuova “era” di terapie nel segno della medicina di precisione».
Anche per via di questi sviluppi, si moltiplicano gli studi sui radiofarmaci sperimentali. L’Italia, anche grazie ai fondi erogati dall’Airc, è in prima linea nella ricerca. Tra gli ospedali al centro di questo fermento scientifico, c’è il Policlinico Gemelli di Roma che ha avviato una serie di progetti per diverse patologie, non solo oncologiche: da quelle neuro-psichiatriche al diabete, ai linfomi, alle neoplasie ginecologiche, gastroenteriche, fino alle malattie infiammatorie croniche, che vedranno le prime applicazioni sperimentali sui pazienti nel 2024. Né restano immuni, da questa nuova frontiera della medicina, le grandi aziende farmaceutiche, convinte più che mai del potenziale terapeutico dei radiofarmaci. Non si spiegherebbe altrimenti l’investimento da 104 milioni di euro, annunciato poche settimane fa dal colosso svizzero Novartis, per il polo dell’innovazione oncologica di Ivrea, in Piemonte, dove si produrranno i radioligandi del futuro.
Bari, dopo il caso dell'oncologo Lorusso fioccano esposti sui medici. Oggi il primario arrestato torna davanti al gip. Altre denunce di pazienti: richieste di soldi negli ospedali. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 luglio 2023
A quattro giorni dall’udienza di convalida che lo ha fatto finire ai domiciliari, stamattina l’ex primario Vito Lorusso dovrà tornare davanti al gip Rosa Caramia. Stavolta il medico barese, 69 anni, dovrà difendersi dalle accuse di concussione e peculato riguardanti i 17 pazienti da cui avrebbe ottenuto illegittimamente denaro, somme che vanno dai 50 ai 200 euro che non erano dovute oppure dovevano essere versate nelle casse dell’Istituto Oncologico.
Ma a una settimana esatta dall’arresto in flagranza del direttore dell’Oncologia medica (che nel frattempo ha chiesto la pensione), l’inchiesta della Procura di Bari potrebbe allargarsi. E abbracciare ulteriori casi che riguardano lo stesso Lorusso ma - a quanto sembra - anche altri medici, non necessariamente in servizio nello stesso ospedale barese dove in due anni sono già due gli oncologi finiti in manette...
Arrestato Vito Lorusso primario dell’oncologico di Bari: “Denaro dai pazienti per le terapie anti-cancro”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Luglio 2023
L'ipotesi accusatoria avanzata nei suoi confronti dagli inquirenti è di "concussione" e "peculato". Gli inquirenti mantengono la massima riservatezza sulla vicenda: è molto probabile che l'indagine sia stata avviata dalle denunce di alcuni pazienti.
E’ stato arrestato in flagranza di reato Vito Lorusso, primario dell’Irccs Oncologico di Bari, durante una operazione della sezione di polizia giudiziaria del Tribunale di Bari, coordinata dalla pm Chiara Giordano della Procura di Bari . Sarà quindi la magistratura a dover valutare gli elementi che hanno indotto i Carabinieri ad arrestare il medico, formulando la convalida dell’arresto e un’eventuale ordinanza di custodia cautelare, laddove il Gip lo ritenesse opportuno e necessario.
Secondo l’accusa, il medico difeso dall’avvocato Gaetano Castellaneta avrebbe chiesto di essere pagato per la somministrazione di terapie anti-cancro per agevolare un paziente rispetto ad altre malati. Il medico a seguito dell’arresto ha accusato un malore. L’ ipotesi accusatoria avanzata nei suoi confronti dagli inquirenti è di “concussione” e “peculato“. Gli inquirenti mantengono la massima riservatezza sulla vicenda: è molto probabile che l’indagine sia stata avviata dalle denunce di alcuni pazienti.
“Avendo appreso della vicenda dalla stampa – dichiara il direttore generale dell’Irccs Oncologico, Alessandro Delle Donne -, aspettiamo eventuali notifiche dalle forze dell’ordine. Siamo sgomenti e indignati e, qualora i fatti fossero confermati, non faremo sconti a nessuno»
La vicenda risulta analoga a quella dell’oncologo Giuseppe Rizzi, 68 anni, il quale con la complicità della compagna coimputata, l’avvocatessa Maria Antonietta Sancipriani, che gestiva un Caf a Bari adibito all’occorrenza abusivamente ad ambulatorio medico, pretese ed incassò soldi da 16 malati terminali allorquando prestava servizio nell’Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari. Rizzi era stato condannato a nove anni di reclusione per aver truffato diversi pazienti senza speranze, promettendo loro “cure miracolose”.
La sua personalità è stata definita nelle motivazioni della sentenza “priva del sentimento di umana pietà, oltre che di totale e sprezzante indifferenza rispetto alle particolari condizioni soggettive di sofferenza delle vittime, le quali riponevano cieca fiducia nei confronti del medico”. La Sancipriani, giudicata assieme al marito Rizzi con rito abbreviato, è stata condannata in primo grado dal tribunale di Bari a 5 anni e sei mesi.
Redazione CdG 1947
Bari, la difesa del primario arrestato «I 200 euro? Regalo di un amico». L’oncologo Lorusso davanti al gip. La Procura: abusava del suo ruolo, resti in carcere. MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Luglio 2023
I 200 euro che gli sono costati il carcere non erano il prezzo incassato abusivamente di una visita di controllo, ma «un regalo da parte di un paziente con cui nel frattempo si era instaurato un rapporto di amicizia». Nessuna concussione, dunque: è questa la linea di difesa che l’ormai ex primario dell’Oncologia medica dell’Irccs di Bari, Vito Lorusso, ha esposto al gip Rosa Caramia chiamata a decidere sulla convalida dell’arresto eseguito in flagranza dalla Polizia, mercoledì mattina: il medico, barese, 67 anni, è accusato di concussione e peculato. La Procura, con la pm Chiara Giordano, ha chiesto la convalida e la custodia cautelare in carcere motivata dal rischio di reiterazione.
Agli atti dell’inchiesta, partita lo scorso anno, ci sono le intercettazioni telefoniche e le immagini delle telecamere nascoste dai poliziotti nello studio privato del medico, al primo piano dell’ospedale di Poggiofranco: dal 20 giugno, quando sono partite le intercettazioni, sarebbero stati almeno una trentina i pagamenti che Lorusso ha ottenuto dai pazienti. Somme variabili dai 100 ai 300 euro che, secondo l’ipotesi di accusa, il medico otteneva a fronte di «favori» prospettati a persone in stato di necessità, debilitate dalla malattia e dunque in forte soggezione psicologica, cui avrebbe proposto di «mettersi nelle sue mani» perché «la sanità pubblica non funziona», seguendoli nelle visite e curando le prenotazioni.
Ma la difesa, con gli avvocati Gaetano e Luca Castellaneta, nell’udienza di convalida ha circoscritto il tema al solo episodio da cui è scaturito l’arresto in flagranza. E ne ha dunque chiesto l’annullamento, ritenendo che i fatti emersi non comprovino una costrizione da parte del medico nei confronti del paziente: «Si trattava - ha detto Lorusso - di un “follow up” che precede la chemioterapia, già fissata per il 2 agosto e senza nessuna possibilità di intervenire da parte mia per anticiparla». Dunque, nessuna scorciatoia per modificare le liste d’attesa, e nessun «favore» al paziente (che nello studio era entrato insieme alla compagna) «ma solo l’attenzione nei confronti di una persona che mi era stata presentata anni fa e che...
Cancro, duemila euro pesano sulle tasche di ogni malato. Anche il Sud nell’indagine della Favo sui costi per esami, visite e terapie. le liste d’attesa costringono i pazienti a ricorrere al privato. GIANPAOLO BALSAMO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2023.
Non solo preoccupazioni, ansie e paura di non riuscire a farcela. Il cancro, come se non bastasse, provoca anche un vero e proprio salasso per le tasche dei malati che, tra esami clinici e diagnostici, visite e terapie, sono costretti ad affrontare spese ingenti che ammontano mediamente a circa 2mila euro.
La seconda edizione dell’indagine «I costi sociali del cancro: valutazione di impatto sociale ed economico sui malati e sui caregiver», promossa dalla Federazione italiana delle associazioni di volontariato e realizzata insieme all’ Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, all’ Istituto nazionale tumori-Fondazione G. Pascale di Napoli e ai 39 punti informativi dell’A ssociazione italiana malati di cancro presso i maggiori centri italiani di oncologia medica, è stata presentata nei giorni scorsi presso la Camera dei Deputati.
«L’indagine evidenzia - spiega Francesco De Lorenzo, presidente della Federazione Favo - come il Servizio sanitario nazionale non sia purtroppo in grado di assicurare tempestivamente, a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno, l’accesso agli esami diagnostici, alle cure oncologiche e al supporto sociale. A causa delle lunghe liste di attesa (autentica spina nel fianco del sistema sanitario pugliese che sta creando non pochi disagi ai cittadini, dal Gargano al Salento, ndr) infatti, spesso le persone si trovano a dover ricorrere al pagamento di tali prestazioni di tasca propria, dando soprattutto precedenza a quelle legate alla diagnosi precoce e ad alcuni trattamenti, trascurando, a causa delle difficoltà economiche, quelle più legate alla qualità di vita. Emergono dunque criticità rilevanti che impongono la formulazione di proposte migliorative rispetto alla condizione dei malati di cancro, con particolare riguardo alle fasce più fragili».
L’indagine campionaria ha coinvolto quasi 1.300 pazienti (464 uomini e 825 donne, 58% provenienti dal Nord e dal Centro Italia, 42% dal Sud, Puglia compresa) in trattamento terapeutico che avevano ricevuto una diagnosi tra il 2011 e il 2018, con l’obiettivo di indagare la misura in cui i malati avessero attinto ai propri risparmi per portare avanti il percorso terapeutico più indicato per la propria malattia.
Dalle risposte fornite dai pazienti alle 38 domande poste per quantificare le spese (mediche e non) affrontate direttamente per colmare carenze e ritardi del servizio sanitario nazionale, è emerso che mediamente ogni paziente oncologico italiano spende ogni anno 1.841 euro per ricevere prestazioni sanitarie che dovrebbero essere a carico dei servizi sanitari regionali.
Gli esiti del rapporto ci ricordano anche l’urgenza di affrontare alcune criticità ancora presenti nel nostro sistema sanitario, come la carenza di personale medico, la necessità di rafforzare il sostegno alle famiglie dei pazienti oncologici, assicurare tempestivamente l’accesso agli esami diagnostici e alle cure oncologiche e ultimo ma non meno importante investire sulla medicina di territorio per garantire, laddove possibile, cure a domicilio.
«I pazienti più vulnerabili sono anche coloro che più spesso mettono mano al proprio portafoglio per curarsi - conferma De Lorenzo. È necessario rafforzare la medicina territoriale, anche in ambito oncologico. Le cure più avanzate è giusto che vengano svolte nei centri di riferimento. Ma una volta superata la fase acuta della malattia, il resto va fatto principalmente sul territorio. I pazienti con una malattia avanzata, anche quando non guariscono, hanno diritto a una vita dignitosa in linea con le opportunità terapeutiche attuali e alla migliore qualità della vita possibile»
Tumori: spesi di tasca propria dai pazienti italiani oltre 1.800 euro all’anno, specie nelle regioni del Centro-Nord. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.
Il Sistema sanitario non riesce a coprire tutte le necessità così il peso ricade su malati e familiari, che pagano soprattutto per esami, trasporti e visite specialistiche. L’indagine di Favo, Aimac e Istituti Tumori di Milano e Napoli
Ammalarsi di tumore può essere carissimo, non solo per il prezzo «fisico» e psicologico, ma anche in denaro contante. Mediamente ogni malato di cancro italiano sborsa 1.841 euro ogni anno dal proprio conto in banca, sia per ricevere prestazioni sanitarie che dovrebbero essere a carico dei servizi sanitari regionali, sia per gli spostamenti dalla propria città di residenza. È quanto emerge dai dati raccolti per un'indagine pubblicata sulla rivista The European Journal of Health Economics , promossa dalla Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (Favo), e presentati questa mattina alla Camera dei Deputati a Roma. Gli esperti la chiamano tossicità finanziaria: il problema, purtroppo, non è nuovo, ma è certamente sempre più pesante. Tanto che cresce il numero di studi che lo documentano e che se ne parla sempre più spesso.
L’allarme bancarotta che arriva dagli Stati Uniti
Disagi economici e le disuguaglianze nell'accesso alle cure sono stati, infatti, il tema centrale sia della Giornata mondiale sul cancro 2022 sia dell'ultimo congresso annuale della Società americana di oncologia (American society of clinical oncology, Asco). «Le difficoltà economiche causate da un tumore sono un fenomeno sempre più presente anche nel nostro Paese – spiega Francesco Perrone, presidente eletto dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e direttore dell’Unità Sperimentazioni Cliniche dell’Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli, fra i maggiori esperti italiani sul tema -. Soprattutto negli Stati Uniti, dove non esiste un Sistema sanitario universalistico come il nostro ma tutto passa attraverso le assicurazioni sanitarie (inaccessibili a milioni di americani meno abbienti), le disuguaglianze crescono fra chi può permettersi di pagare le terapie migliori e chi no (anche a causa dell'impatto che la malattia ha su lavoro e spese dell'intera famiglia). E c'è di più: i giovani adulti utilizzano il crowdfunding, una forma di finanziamento collettivo, per raccogliere i soldi necessari a curarsi, soffrendo poi però vergogna e imbarazzo». Non pochi pazienti decidono addirittura di rinunciare ai trattamenti oncologici, evitando così che la malattia li porti alla bancarotta e rovini le prospettive di vita di tutta la famiglia. Se in America il problema è già diffuso, dobbiamo aspettarci, come spesso accade su altri fronti, che gli Usa anticipino quello che avverrà prima o poi anche qui?
Dove si spendono 1.800 euro
«Grazie al Sistema sanitario in Italia i costi delle terapie sono "coperti", ma pure da noi chi si ammala spesso deve affrontare una serie di spese extra anche molto rilevanti, a cui si aggiunge una diminuzione delle entrate per il calo della produttività e le ricadute sul lavoro - risponde Perrone -. Sono sempre più numerose le persone che si ammalano di cancro e finiscono per avere anche difficoltà economiche, dovute alle spese mediche "più strette", ai trasporti per raggiungere l’ospedale e agli alloggi, fino alla necessità di colf e badanti. E a essere eroso non è solo il conto in banca del diretto interessato, perché i problemi ricadono sull’intero nucleo familiare coinvolgendo anche chi lo assiste: coniugi, figli, fratelli e sorelle, in primis». Come conferma quest'ultimo studio italiano, la voce che più sembra incidere sulle spese sostenute direttamente dai pazienti è quella relativa agli esami diagnostici (riportata dal 51,4% degli intervistati, per una media di quasi 260 euro annui). A seguire: il costo dei mezzi di trasporto (45,1%, quasi 260 euro), le visite specialistiche successive alla diagnosi (28,9%, 126 euro), l’acquisto di farmaci non oncologici (28,5%, 124 euro) e le spese per l’alloggio lontano dalla propria residenza (26,7%, 226 euro). Senza dimenticare consulenze nutrizionali, protesi e parrucche, assistenza domiciliare, sostegno psicologico e riabilitazione, che resta un «lusso» per pochi, ma è una necessità per quasi tutti i malati.
Le difficoltà del Ssn
«Dalle statistiche italiane è emerso che circa un quarto dei malati ha lamentato un disagio economico legato alla malattia e al suo trattamento - sottolinea Francesco De Lorenzo, presidente Favo e Aimac -. Ancora una volta il lavoro del mondo del volontariato oncologico, con proprie strutture e mezzi, ma grazie alla tradizionale alleanza con gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, ha evidenziato con questa ricerca problematiche che gravano sulla vita dei pazienti oncologici. I malati sono consapevoli che le lunghe attese incidono pesantemente sui ritardi diagnostici e si ritrovano obbligati a ricorrere al privato per superarle, pagando visite ed esami che il Ssn non è attualmente in grado di assicurare tempestivamente a tutti quelli che ne abbiano bisogno. La situazione è peggiorata negli anni e l’auspicio è che questi dati convincano i decisori politici a intervenire con immediatezza, per evitare che a fare le spese di queste disfunzioni siano le fasce più deboli della popolazione». «Il Ssn rappresenta un grande patrimonio, che consente ai cittadini di continuare ad avere accesso alle cure più e meglio che in molti altri Paesi – sostiene Perrone –. Si tratta di un patrimonio che ha bisogno di essere difeso, ma anche potenziato laddove se ne identifichino inefficienze e carenze. Il suo corretto funzionamento è direttamente connesso alla possibilità di curare al meglio i malati di cancro».
Che spende di più
L'indagine appena presentata a Roma è alla sua seconda edizione (la prima è datata 2012, sempre promossa da Favo e realizzata da Datamining, in collaborazione con l’Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici - Aimac, l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e quello Pascale di Napoli) e «ha coinvolto quasi 1.300 pazienti in trattamento terapeutico che avevano ricevuto una diagnosi tra il 2011 e il 2018, con l’obiettivo di indagare la misura in cui i malati avessero attinto ai propri risparmi per portare avanti il percorso terapeutico più indicato per la propria malattia – dice Alessandro Sproviero, CEO di Datamining –. La rilevazione è avvenuta in 39 punti di accoglienza e informazione di Aimac presenti nei maggiori centri nazionali». Stando alle conclusioni dello studio, la spesa privata tra i malati di cancro è diffusa soprattutto tra i pazienti che vivono nelle regioni del Centro e del Nord del Paese. E ad attingere maggiormente ai propri risparmi sono soprattutto coloro che affrontano la ripresa di una malattia diagnosticata anni prima: nelle prime fasi, i pazienti riescono a beneficiare maggiormente dell’offerta del Ssn. «I pazienti oncologici italiani hanno sostenuto costi privati rilevanti per integrare le prestazioni del Ssn in diagnosi, supporto alla cura e riabilitazione: tutti aspetti importanti per l’esito finale, il recupero e la qualità di vita - evidenzia Roberto Lillini, ricercatore del Servizio di epidemiologia analitica e impatto sanitario dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, tra gli autori dello studio –. I costi sostenuti per diagnosi tramite strutture private sono risultati particolarmente onerosi, ma non differibili, quando l’alternativa nel pubblico implicava attese troppo lunghe a fronte della malattia da diagnosticare o investigare». «I risultati della nostra rilevazione – conclude Francesca Traclò, referente dello studio e membro del consiglio direttivo Aimac – confermano che alcune esigenze dei pazienti oncologici rimangono insoddisfatte. Questa situazione accresce le disuguaglianze tra pazienti caratterizzati da status socioeconomici differenti. Una disparità inaccettabile, in presenza di un sistema sanitario pubblico che per sua natura dovrebbe garantire a tutti i cittadini un equo accesso ai servizi sanitari».
(ANSA il 3 Febbraio 2023) - In Europa il 32% dei decessi per tumore è associato a povertà e bassa istruzione. In Italia la situazione è migliore ma si impiega troppo tempo in burocrazia e serve personale per aiutare i medici. La richiesta viene dall'Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) in occasione del convegno 'Close the Care Gap' al Senato, alla vigilia della Giornata Mondiale contro il Cancro che si celebra il 4 febbraio.
L'obiettivo dell'evento, afferma l'Aiom, è sensibilizzare i cittadini sulle differenze nell'accesso alle cure. In Europa, dunque, il 32% delle morti per cancro negli uomini e il 16% nelle donne sono associati alle disuguaglianze socioeconomiche. Le persone meno istruite e più povere, affermano gli oncologi, adottano stili di vita scorretti, eseguono con scarsa frequenza gli screening, non accedono ai sistemi sanitari e troppo spesso arrivano alla diagnosi di tumore in fase già avanzata.
Queste disparità sono meno evidenti nei Paesi che presentano sistemi sanitari universalistici come il nostro, in grado di garantire le cure a tutti. L'Italia, però, avverte Aiom, deve colmare il divario nell'adesione ai programmi di screening che ancora permane fra Nord e Sud e serve un grande piano di sensibilizzazione per recuperare queste lacune. Inoltre, nel nostro Paese, più del 50% del tempo di ogni visita oncologica è assorbito da adempimenti burocratici.
Per questo gli specialisti chiedono di assumere personale che possa occuparsi di questi aspetti. "L'Italia sembra soffrire meno delle disuguaglianze sociali nei tumori - afferma il presidente Aiom, SaverioCinieri - ma vi sono aree su cui servono interventi urgenti, a partire dalla sensibilizzazione dei cittadini sui corretti stili di vita". Nel 2022, in Italia, sono state stimate 390.700 nuove diagnosi di cancro. Il 40% dei casi può essere evitato agendo su fattori di rischio modificabili. In particolare il fumo di tabacco è il principale fattore di rischio, associato all'insorgenza di circa un tumore su tre e a ben 17 tipi di neoplasia, oltre a quella del polmone.
Un'altra forte criticità, afferma l'Aiom, riguarda gli adempimenti burocratici che assorbono più della metà del tempo di ogni visita oncologica. Una ricerca svolta in 35 strutture ospedaliere, per un totale di 1469 pazienti visitati, ha mostrato che, durante un appuntamento, per 11 minuti dedicati alla visita della persona, ulteriori 16 vengono spesi per la compilazione di moduli, spiega Rossana Berardi, membro del Direttivo Aiom: "Proponiamo - afferma - un modello di affiancamento di nuovo personale agli oncologi. Figure amministrative e paramediche, biologi o data manager in grado di supportare il personale sanitario durante le visite.
Meno tempo dedicato a compilare moduli significa più ore a disposizione per le visite dei pazienti". Insomma, conclude Cinieri, "chiediamo maggior attenzione per affrontare la pandemia di cancro, più spazi fisici e più professionisti in staff, comprese figure di aiuto come gli psiconcologi, data manager e case manager".
I numeri del cancro: più casi e più costi, tra diseguaglianze e burocrazia. Storia di Enrico Negrotti su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.
Prevenzione è la parola d’ordine nella lotta ai tumori. Lo hanno ripetuto molti esponenti del mondo sanitario, dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, alle associazioni degli oncologi e a quelle dei pazienti, in occasione della Giornata mondiale contro il cancro che ricorre oggi, all’insegna del motto: colmare il divario di cura.
L’Italia vanta una sopravvivenza migliore della media europea (dati della Commissione Europea e dell’Ocse), ma permangono differenze regionali, evidenti anche nell’adesione agli strumenti di prevenzione secondaria, gli screening, per alcuni tra i tumori più diffusi: colon-retto, seno, utero. E un ulteriore fattore di squilibrio è rappresentato dalle condizioni di povertà materiale e sociale, che diventa – dati alla mano – un fattore di rischio maggiore per la mortalità da cancro.
«Ci siamo impegnati fin da subito – ha detto ieri il ministro Schillaci al convegno promosso dall’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) – sul tema prioritario della prevenzione e della cura del cancro: il primo segnale è stato accelerare l’adozione del piano oncologico nazionale 2023-2027, approvato pochi giorni fa anche dalla Conferenza Stato-Regioni.
Le risorse, 20 milioni di euro, arriveranno con l’approvazione del decreto milleproroghe e rafforzeranno ulteriormente l’efficacia del piano che affronta tutti gli aspetti delle malattie neoplastiche e sottolinea la centralità del malato nel superamento delle disuguaglianze».
E alle disuguaglianze ha fatto riferimento anche l’Aiom: «Nel 2021 – ha rilevato Francesco Perrone, presidente eletto Aiom – si è osservato un ritorno ai dati pre-pandemici per quanto riguarda la copertura dei programmi di prevenzione secondaria. Ma non basta, perché restano ancora troppe differenze regionali. In particolare, nel 2021, al Nord i valori di copertura della mammografia hanno raggiunto il 63% rispetto al 23% al Sud. Per lo screening colorettale (ricerca del sangue occulto nelle feci) il dato è del 45% rispetto al 10%. Nello screening cervicale (Pap test, ndr), al 41% delle Regioni settentrionali fa da contraltare il 22% di quelle meridionali».
Mentre la Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo) punta l’attenzione sulle disparità di costi: «Un nostro sondaggio – spiega il presidente Francesco De Lorenzo – ha dimostrato che, a causa delle lacune del Servizio sanitario nazionale, i malati spendono in media 1.800 euro di tasca propria per curarsi. Di cui 700-800 per la mobilità interregionale e 400 per effettuare indagini diagnostiche, cui ricorrono privatamente a causa delle lunghe liste d’attesa che ritarderebbero l’accertamento della diagnosi».
Anche il ministro Schillaci ha riconosciuto che è una «priorità» che i 3,6 milioni di malati di tumore nel nostro Paese abbia la stessa presa in carico «dalla prevenzione all’assistenza domiciliare, alle terapie, alla riabilitazione, fino all’accompagnamento al fine vita», indipendentemente dalla residenza, dal reddito e dal grado di istruzione.
La Società italiana di medicina ambientale (Sima), nel ricordare che il costo sociale dei tumori è pari a circa 20 miliardi di euro l’anno, chiede di «puntare sulla prevenzione primaria, soprattutto rispetto ai determinanti ambientali che incidono sull’insorgenza dei tumori». In particolare, sottolinea il presidente Sima, Alessandro Miani, «rimuovere le esposizioni ai cancerogeni ambientali». Sima segnala la crescita dei casi di tumore: dal 250mila del 2010 ai 376mila del 2020.
«L’Italia – osserva il presidente Aiom, Saverio Cinieri –, sembra soffrire meno delle disuguaglianze sociali nei tumori», che vedono in Europa il 32% delle morti per cancro negli uomini e il 16% nelle donne legato a povertà e bassa istruzione, che favoriscono stili di vita scorretti (fumo, sedentarietà), scarsa frequenza agli screening, minore accesso alle cure, diagnosi più tardive.
«Nel 2022 in Italia – aggiunge – sono state stimate 390.700 nuove diagnosi di cancro. Il 40% dei casi può essere evitato agendo su fattori di rischio modificabili. Il fumo di tabacco è associato all’insorgenza di circa un tumore su tre e a ben 17 tipi di neoplasia».
Ultima criticità, la burocrazia. «Una ricerca svolta in 35 strutture ospedaliere su 1.469 pazienti visitati – rivela Rossana Berardi (Aiom) – ha mostrato che, durante un appuntamento, per 11 minuti dedicati alla visita della persona, ulteriori 16 vengono spesi per la compilazione di moduli, prenotazione di appuntamenti, visite, esami, letti e poltrone per ricoveri o Day hospital, prescrizioni, invio di email». Un carico che andrebbe alleggerito affiancando al medico altre figure professionali, suggerisce l’Aiom.
Dottore, quanto mi resta? Il valore del tempo per i malati di tumore. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.
Non appena si riceve la diagnosi di cancro, compare il timore che la fine sia vicina: pazienti e familiari entrano in una nuova dimensione nella quale bisogna sia «fare in fretta» per iniziare le cure il prima possibile, sia sfruttare al massimo le giornate. Anche per chi guarisce, quasi nulla sarà più come prima. Ecco le domande più diffuse (spesso ancora tabù) e le risposte dell’esperto per comprendere e utilizzare al meglio il tempo residuo
Come cambia la vita?
«Vivo più intensamente. Non perdo tempo. Non mi arrabbio per cose futili. Sfrutto al meglio ogni giorno, momento, occasione e mi godo a pieno gli affetti veri». Sembra la lista dei buoni propositi per l’anno nuovo, ma è la risposta che quasi tutti i malati di tumore danno quando si chiede loro: com’è cambiata la tua vita? Per chi riceve una diagnosi di cancro e per i suoi familiari il trascorrere dei giorni acquista un valore diverso. La malattia mette, inevitabilmente, ogni persona di fronte alla paura della morte e all’incognita del tempo che resta. Ecco perché i pazienti guardano anche con grande speranza alle nuove cure sperimentali, un’opportunità importante per quei malati che non traggono i benefici sperati dalle terapie standard.
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Cosa significa e perché si usa la dicitura «vivo a 5 anni dalla diagnosi»?
«La fatidica soglia dei 5 anni non necessariamente ha significato per i singoli pazienti, ma rappresenta uno degli indicatori che molto spesso noi medici usiamo per interpretare i dati epidemiologici, molto importanti per comprendere su larga scala quali sono le tendenze sulla nostra capacità di curare il cancro — spiega Francesco Perrone, presidente eletto dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) —. Nei primi 5 anni si fanno controlli più ravvicinati, via via dilazionati nel tempo. Superata questa data, se non ci sono state ricadute o metastasi, si avvicina la soglia della guarigione. Ma tutto dipende da molte variabili, a partire dallo specifico sottotipo di cancro presente in ciascuna persona».
Cosa succede dopo i primi 5 anni dalla fine delle cure?
«Nei casi in cui i 5 anni rappresentano una reale soglia di significato clinico, è sicuramente ragionevole diradare i controlli e renderli più semplici, con una minore frequenza di esami radiologici — dice Perrone, direttore della Struttura di sperimentazioni cliniche all’Istituto nazionale tumori Pascale di Napoli —. Molto importante è l’effetto psicologico positivo che un paziente può avere dal sapere di essere arrivato a un momento di basso rischio di recidiva della malattia. Ed è il momento nel quale il paziente e noi medici incominciamo davvero a credere nella possibilità della guarigione».
Quando ci si può considerare guariti?
«Si è guariti quando le probabilità di morire per la neoplasia sono ormai pressoché nulle e l’ex paziente torna ad avere la stessa aspettativa di vita delle persone della sua stessa età e del suo stesso sesso che il cancro non l'hanno mai avuto — spiega Perrone —. E come si calcola il tempo che ci vuole? Dipende innanzitutto dal tipo di cancro e poi da diversi altri parametri (stabiliti e condivisi a livello internazionale). Così le statistiche scientifiche ci dicono, per esempio, che serve meno di un anno per il cancro della tiroide e ai testicoli; meno di 10 anni per quello del colon-retto, melanoma cutaneo, cervice uterina; mentre per alcuni tipi di cancro al seno, o della prostata e della vescica un rischio (seppur minimo) che la malattia si ripresenti resta anche fino a 15 anni».
Cosa significa «libero da progressione di malattia»?
«All’inizio di ogni trattamento contro il cancro si fa una valutazione dell’estensione della malattia attraverso gli esami radiologici (quali TAC o risonanza magnetica) e la visita — dice l’esperto —. Poi durante il trattamento, periodicamente si ripetono gli stessi esami per verificare, per esempio, le dimensioni delle lesioni che si vedevano alla TAC iniziale. Facendo questi confronti e applicando delle regole condivise dalla comunità internazionali si può trovare che la malattia “risponde” (quando le dimensioni si riducono) o che “progredisce” (quando aumentano in maniera significativa). Nel primo caso, se il tumore non avanza, possiamo dire che un paziente è “libero da progressione”: quanto più è lungo il tempo in cui un paziente rimane in questa condizione, tanto più indica che la cura funziona. Al punto che spesso questo indicatore viene usato anche come giustificazione per l’ammissione di nuovi farmaci alla pratica clinica. Bisogna però stare molto attenti perché il tempo alla progressione potrebbe essere confuso da molte variabili (per esempio la frequenza dei controlli radiologici) e non rappresentare un vantaggio veramente importante per il paziente».
Perché sono importanti i farmaci sperimentali che fanno guadagnare qualche mese di vita ai malati?
«I ricercatori vorrebbero sempre che la dimensione dei benefici fosse grande — chiarisce l’oncologo —. Purtroppo, però, la maggior parte delle volte i risultati illustrati ai congressi più importanti e pubblicati sulle riviste scientifiche indica che con una nuova cura si ottengono vantaggi piccoli, per esempio solo pochi mesi in più di vita rispetto alla terapia standard. In questi casi l’interpretazione dei risultati è più difficile, l’entusiasmo ovviamente contenuto e possono esserci problemi a ottenere la disponibilità dei nuovi farmaci nella pratica clinica poiché il loro costo potrebbe non essere ragionevole alla luce dei vantaggi troppo piccoli ottenuti. Tuttavia vantaggi anche piccoli, se ottenuti in studi metodologicamente affidabili, potrebbero essere importanti, per esempio, se accompagnati da altri effetti utili come un miglioramento della qualità della vita e una riduzione della tossicità rispetto alla terapia standard. Anche per questo poter partecipare alle sperimentazione presenta dei vantaggi importanti per i malati».
Quanto può vivere un malato di tumore con metastasi?
«Anche a questa domanda è impossibile dare una risposta univoca. Il tempo rimanente dipende da molti fattori differenti quali il tipo di malattia oncologica, la sua estensione, i trattamenti precedentemente effettuati e la risposta che si è riusciti ad ottenere. In pratica, esistono alcuni tumori per cui la sopravvivenza in fase metastatica può essere nell’ordine di grandezza di alcuni anni (come nel caso, per esempio, di un carcinoma prostatico poco aggressivo con metastasi ossee asintomatiche o di alcuni tipi di cancro al seno), per altri invece il tempo è decisamente più breve».
Come rispondere al quesito: «Dottore, quanto tempo mi rimane?»
«Ovviamente bisogna valutare caso per caso, in base alle condizioni di ciascuna persona — conclude l’esperto —. Spesso si utilizzano stime della sopravvivenza media, che arriva (ancora una volta) dalle casistiche internazionali su numeri molto elevati di malati; ma ognuno fa storia a sé. Nessun medico può avere una risposta certa. Quando però un malato vuole capire cosa aspettarsi è giusto dare un ordine di grandezza secondo quanto è noto nella letteratura internazionale. Sottolineando sempre il limite intrinseco delle stime medie, che rappresentano la via di mezzo tra i casi peggiori e quelli migliori. Così ci si può preparare, continuando comunque a sperare».
Pierluigi Battista per huffingtonpost.it il 9 gennaio 2023.
Per fatto personale, impudicamente una volta e poi basta. E dunque per fatto personale, per favore, non chiamateci “guerrieri”, non abusate con la magniloquenza del “sta lottando/ha lottato come un leone”, non gonfiate il petto con il “non arrendersi mai” rivolto a chi si aggrappa con tutte le sue forze alla speranza che il cancro non prenda il sopravvento. Così, bellicosi come apparite, non ci fate del bene, non ci incoraggiate. Anzi, aggiungete angoscia ad angoscia.
Morire sarebbe una “resa”? Soccombere significa non aver guerreggiato bene? Dove si sbaglia, che tattica avremmo dovuto usare? Forse al dolore bisogna aggiungere l’umiliazione di una battaglia campale condotta male? Morire è una Waterloo?
Sappiate che soffrire per scacciare l’ospite indesiderato, come lo chiamava con una sensibilità che ancora mi commuove Gian Luca Vialli, non è come nel “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman, dove Antonius Max von Sydow gioca a scacchi con la morte. E se sbagli la mossa del cavallo, allora meriti la sconfitta definitiva, il cancro ha fatto scacco matto?
La “guerra” contro il cancro è piuttosto una sequenza di notti insonni, di paura quando entri nel tubo della risonanza magnetica o della Tac, di terrore di guardare negli occhi chi ti ha appena fatto un esame, di gioia se quegli occhi esprimono soddisfazione: un altro ostacolo superato, tra un po’ ne arriverà un altro. Una guerra fatta di attese, sofferenza (“sono i farmaci”), debolezza.
E dove sai che la tua volontà è importante, ma non è l’arma determinante. E che invece degli squilli di tromba di chi ti esorta a fare il gladiatore, chi si sta impegnando allo spasimo per uscirne vivo avrebbe bisogno di affetto, di vicinanza, di attenzione, di ascolto, di non essere lasciato solo. Di vita.
E ha bisogno di oncologi che sono sempre più bravi, della scienza che ha messo a punto e continua a mettere a punto cure sempre più efficaci, sempre più plurali. La guerra la fa una ricerca condotta da eroi e spesso trascurata da chi in mano le redini dell’autorità pubblica. Lo dico per fatto personale. Scusate l’impudicizia, ma non ne potevo più.
Quando il Cancro colpisce i giovani.
Maddalena Bonaccorso su Panorama il 17 Marzo 2023.
Una diagnosi di tumore tra i 16 e i 39 anni è un evento estremamente traumatico: e l’età influisce anche sulla cercando soluzioni innovative –grazie anche all’intelligenza artificiale- per migliorare le cure e la vita di questi
Una diagnosi di tumore: una delle esperienze più devastanti che possano capitare nella vita di una persona. Ma se la d adolescenti o ai giovani adulti che stanno appena iniziando a costruire il proprio percorso di vita, di studio, di lavoro deflagrazione psicologica e fisica è ancora più grave e devastante di quando la stessa cosa succede a un adulto già strutturato. E’proprio per questo motivo che Humanitas ha intrapreso il programma AYA (Adolescents and Young Adults) una delle prime esperienze Quando il cancro colpisce i giovani oncologici dai 16 ai 39 anni e realizzata anche grazie a fondi di Fondazione Humanitas per la Ricerca. Inaugurato nel Humanitas, il programma accompagna i malati provando a colmare il gap clinico (diagnostico e terapeutico) e psico oncologico in questa fascia d’età, assistendo i giovani nelle difficoltà quotidiane, sia in ospedale che nella vita privata
Guidato dalla dottoressa Alexia F. Bertuzzi, capo sezione sarcomi e tumori neuroendocrini del Cancer Center diretto programma dedicato agli adolescenti e ai giovani adulti racchiude al suo interno anche un interessante progetto di ricerca, chiamato Smarta-AYA: utilizzando le innovative metodologie dell’Intelligenza Artificiale, lo studio si propone di individuare fattori i fattori disegnare il miglior percorso terapeutico e di follow-up per questo gruppo unico di pazienti. Unico anche perché i tumori quando invece colpiscono questa fascia d’età, sono a tutti gli effetti classificati come malattie rare: “Questi pazienti t giovani adulti” spiega Bertuzzi “sono spesso definiti e considerati come una vera e propria “terra di nessuno”, proprio riguardano queste gravi patologie. Tumori come quelli del colon, della mammella o del polmone, big killer molto diff quando colpiscono la fascia cosiddetta AYA -e anche se si tratta di patologie comuni in ambito oncologico- rientrano perché non si comportano come quelle comuni. Sia per come si presentano clinicamente, sia per come rispondono ai prognostici. Sono inoltre influenzate dallo stato ormonale, dalle abitudini di vita, dalle condizioni fisiche diverse e dal metabolismo. Questo rende tutto molto complicato, e spiega in parte il motivo per cui le prognosi, che riportano in totale un dato d del 75%, rimangono purtroppo negative per alcune di queste patologie, per le quali non è stato registrato alcun miglioramento negli ultimi vent’anni, differentemente da quanto osservato nel mondo pediatrico e in quello dell’adulto. A ciò dobbiamo aggiungere il fatto anche perché davanti a individui molto giovani il tumore non costituisce il primo sospetto diagnostico nemmeno nel raramente i pazienti di questa età vengono inseriti nei trial clinici. Ecco il motivo dello studio Smart-AYA: “Quello che stiamo cercando di fare, in Humanitas, è proprio utilizzare l’intelligenza artificiale –che oggigiorno inizia a essere impiegata in diversi ambiti o po’ meglio questa fascia di tumori. Perché noi clinici possiamo dare un’interpretazione della malattia e di come si svilupperà, legata alla nostra esperienza, alla diagnosi, ai ritardi, ma spesso ciò che noi sappiamo o possiamo dedurre non è sufficiente a spiegare si rivela spesso essere peggiore che nell’adulto. I protocolli di studio non sono sempre connessi in tutto il mondo, e inoltre la prognosi dei tumori rari è peggiore rispetto ai tumori comuni. Ma non conosciamo il motivo, né a fondo le caratteristiche di queste malattie. L’ lo strumento migliore per poter “mettere insieme” tutte le informazioni possibili, mediche ma anche sociali, legate alle sue abitudini, fumo, alcool, peso, caratteristiche biologiche”. E’ per questo che è partito un grande programma di raccolta dati clinici e biologici, di digitalizzazione delle immagini dai vetrini, e di inserimento nel machine learning, con la minor possibile interferenza dei clinici: lo scopo è acquisire capire meglio i fattori prognostici e quindi indirizzare meglio il trattamento di questi pazienti e anche il followup che mettendo insieme la “nostra” intelligenza e pratica clinica di medici” continua la dottoressa “con l’intelligenza ottenere preziose informazioni legate ai pazienti.
Non è semplice, perché occorrono tantissimi dati provenienti anche in tutte le operazioni statistiche è necessario confrontare una fascia con un’altra. Ma comunque confidiamo di arriva proprio perché questo strumento non ha il nostro bias di interpretazione”.
Intanto, a prescindere dalla ricerca con l’intelligenza artificiale il programma di sostegno AYA ha aiutato già numero circa 400 diagnosi all’anno di tumori nella fascia 16-39 anni- ad affrontare la malattia e il periodo di follow up, grazie ad incontri con psicologi, serate di svago, e un programma sia personalizzato che di gruppo per supportare questi malati: la storia di Martina M dottoressa Bertuzzi, ne è un esempio: “Mi è stato diagnosticato un tumore a 25 anni” spiega la ragazza “ dopo diversi mesi durante i quali avvertivo un fastidio al seno. Non mi sarei mai aspettata di avere un tumore a un’età così giovane, ed è stato un trauma non indifferente. Si è rivelato essere un angiosarcoma già di circa 8 cm, per fortuna senza metastasi. Ma essendo comunque un tumore molto aggressivo, so chemioterapia pre-operatoria molto pesante, con ricoveri di 3 giorni con 8 ore di chemio ogni giorno, a seguire ho su seno destro e infine 33 sedute di radioterapia”.
Martina Macrì Martina aveva appena terminato il suo corso di studi in Psicologia e si apprestava a iniziare il praticantato post-laure prepotentemente nella sua vita, ponendola davanti ad avvenimenti molo traumatici: “Per fortuna” continua Martina come quello di Humanitas, che mi ha sempre supportata. Sia con le cure, che non dubito essere state le migliori possibili, sia con programma Aya, che mi ha messa in contatto con altri giovani della mia età, malati come me o già guariti, con i quali potermi confrontare momenti più difficili. Per me, per esempio, che avevo sempre portato i capelli lunghissimi, il fatto di perderli completamente, pur nella consapevolezza di avere problemi molto più gravi dovuti al tumore- è stato davvero traumatico: la vicinanza di altri pazienti e il supporto psicologico, mi è tato molto utile. Anche perché quando si affronta un tumore a questa età, ti senti “fuori dal mondo”: i coetanei sono impegnati
Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per "Il Messaggero" il 12 aprile 2023.
«Quando il radar girava e puntava in direzione della nostra caserma si spegneva il televisore e il telefono smetteva di funzionare. Eravamo giovani, non ci facevamo troppo caso. Poi i nostri colleghi hanno iniziato ad ammalarsi e alcuni sono addirittura morti», racconta oggi Antonio Di Malta. Il bilancio col passare degli anni si è fatto pesante: venti casi di tumore e malattie cardiache fra i 70 vigili del fuoco in servizio a Lampedusa. Troppi per non destare preoccupazione.
E infatti Di Malta chiede che si indaghi sull'incidenza delle patologie fra i pompieri che, come lui, hanno lavorato nell'isola siciliana dal 1986 al 1998, nel periodo in cui è rimasto in funzione il radar piazzato a 400 metri dal distaccamento aeroportuale dei vigili del fuoco.
LA STORIA Si parta dal 15 aprile 1986, quando il colonnello Gheddafi diede l'ordine di lanciare un attacco missilistico contro Lampedusa. La sera precedente gli Stati Uniti avevano bombardato Tripoli e Bengasi in Libia. L'obiettivo dell'operazione, nome in codice «El Dorado Canyon», era proprio il dittatore. La Casa Bianca rispose all'attentato dei terroristi libici che in una discoteca di Berlino avevano ucciso tre persone, di cui due soldati americani. I feriti furono 250.
La ritorsione di Gheddafi si materializzò nella traiettoria dei missili «SS-1 Scud». Dovevano colpire l'installazione militare Usa "Loran", ma caddero in mare. Lo spettro della guerra fu concreto e l'Italia si misurava con la sua vulnerabilità. Il primo giorno del successivo mese di novembre la 134ª squadriglia dell'Aeronautica militare italiana fu dotata del sistema radar AN-FPS-8. E ora sorge il sospetto che la scia di malattie dipenda dalle onde elettromagnetiche di quel radar.
È certo solo un'ipotesi, puntellata però dai numeri delle malattie. […] Di Malta, comunque, sa di cosa parla. C'era pure lui in servizio quando avvenivano gli improvvisi blackout. E ora si è messo alla ricerca di una vecchia cassetta Vhs. Ricorda che i colleghi più anziani si erano insospettiti ed avevano filmato i televisori che si spegnevano all'improvviso per riaccendersi un istante dopo.
«Girava il radar e ci veniva il mal di testa – racconta - Mi risultano analoghi casi al personale di altri enti che operano e operavano all'interno delle strutture aeroportuali di Lampedusa. Prendevamo dosi massicce di farmaci. Quando hanno spento il radar non è accaduto più, ma qualcosa ci è rimasto dentro».
I test sul sangue per scoprire in anticipo i tumori funzionano davvero? Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2023.
Sempre più spesso pubblicizzati e sponsorizzati come rivoluzionari, ma quanto sono efficaci? Ecco il principio su cui si basano e per chi sono davvero già in uso oggi (anche in Italia)
La messa a punto di test del sangue che scoprono i tumori prima che diano sintomi o che siano visibili con gli esami ad oggi disponibili è oggetto di studio in centinaia di ricerche in tutto il mondo, finanziate anche da Bill Gates e Jeff Bezos. La grande speranza è quella di riuscire a scoprire la presenza di un tumore solo con un prelievo di sangue. Quando la malattia è ancora ai suoi primissimi stadi e non ha dato altri sintomi. Quando le cure tempestive e poco invasive possono portare a guarigione definitiva sempre più persone. Il problema è che test di questo genere vengono sempre più spesso pubblicizzati come rivoluzionari, sponsorizzati dalle aziende produttrici. Ma quanto sono davvero efficaci? Sono in grado di cambiare realmente la storia della lotta al cancro o è soltanto strategia promozionale?
A pagamento: il costo tra 500 e 2mila euro
La domanda se la pongono, giustamente, in molti prima di mettere mano al portafoglio (si tratta di test in vendita a una cifra variabile tra i 500 e i 2mila euro) e il tema è stato ripreso di recente e in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica British Medical Journal. A che punto siamo veramente? «È per rendere più vicina questa speranza che molti scienziati lavorano ogni giorno — risponde Antonio Russo, ordinario di Oncologia medica all’Università di Palermo —. Le ricerche ci sono, ma non siamo ancora alla “realtà”. Il test che utilizza il sangue come surrogato del tessuto neoplastico (quello che si ottiene con la classica biopsia) prima ancora della diagnosi stessa di tumore può definirsi come un vero e proprio esempio di biopsia liquida in pazienti apparentemente sani. E la biopsia liquida è una metodica promettente che è già in uso per monitorare l’evoluzione della malattia e adeguare le cure, ma per ora non basta per arrivare a una diagnosi». Il principio su cui si basano i vari test è che il rischio di cancro possa essere già scritto nel nostro Dna alcuni anni prima della diagnosi e che questi esami permettano di scoprirlo con ampio anticipo. Oppure che siano in grado di intercettare delle «cellule cancerose in circolo» nell’organismo e dunque nel sangue.
Lo studio
Durante l’ultimo congresso annuale della Società Europea di Oncologia, tenuto a settembre a Parigi, si è tornati a parlare del test in grado di riconoscere con precisione oltre 50 tipi di cancro e identificare in quale tessuto (ovvero organo) il tumore ha origine, prima che la malattia dia dei segnali clinici della sua presenza. Di cosa si tratta nello specifico? «Lo studio PATHFINDER ha analizzato il Dna libero circolante nei campioni di sangue prelevati da 6.621 persone, tutte ultra 50enni e senza una diagnosi di cancro, riguarda uno specifico test, messo a punto da scienziati americani che collaborano con una società privata — precisa Russo, che è anche presidente del Collegio deli oncologi medici universitari (COMU) —. Il test si è rivelato in grado di identificare un “segnale cancerogeno” (alterazioni comuni a più di 50 tipi di tumori diversi) nell’1,4% dei partecipanti e, tra questi con esito dell’esame positivo, la diagnosi oncologica è stata successivamente confermata in circa il 40% dei casi. Delle 6.290 persone sane il 99,1% ha effettivamente ricevuto un responso negativo al test. In pratica l’esame oggetto della sperimentazione ha dimostrato una buona accuratezza nello scoprire il cancro in chi lo aveva e un’elevata specificità per le persone sane. I falsi positivi, che richiedono poi lunghe e costose ulteriori indagini, sono stati pochi». Un passo avanti importante, che però necessita di ulteriori conferme.
Il rischio: ansia ingiustificata
Anche perché la posta in gioco è alta: per molti esperti il rischio più grande nella diffusione indiscriminata dei test in vendita è quello di creare ansia e paure indiscriminate. «Questi esami richiedono poi numerose altre indagini per confermare effettivamente la presenza di un tumore — spiega Nicola Normanno, direttore del Dipartimento di Ricerca Traslazionale all'Istituto Tumori Fondazione Pascale di Napoli —: il pericolo, in caso di “falsi positivi”, è quello di dover fare numerosi accertamenti inutili. Uno spreco per il sistema sanitario e un enorme carico di angoscia per gli interessati». È un investimento economico conveniente? «Non per le singole persone — spiega Normanno —. A oggi non esiste ancora un test scientificamente convalidato, efficace. Servono ancora molte prove di validità prima di poter disporre di uno strumento maturo da poter somministrare come screening universale, ovvero “a tappeto” su tutta la popolazione sana. E, di conseguenza, neppure per il Ssn. Abbiamo già degli screening efficaci, gratuiti in Italia: la mammografia per la diagnosi precoce di tumore al seno, Pap test o Hpv test per quello all’utero, ricerca del sangue occulto nelle feci per il colon». Così, ogni anno, si scoprono lesioni precancerose o carcinomi agli stadi iniziali che vengono asportati con elevate probabilità di completa guarigione per i pazienti. E da poco si è aggiunto un programma finanziato dal Ministero della Salute, riservato ai forti fumatori o ex, con la Tac spirale per il cancro ai polmoni. Per questi esami i numeri, derivanti da milioni di persone in tutto il mondo, hanno dimostrato tutti i vantaggi e i possibili svantaggi o rischi (e i contro sono stati giudicati inferiori ai pro). E sono stati misurati i successi, in termini di vite umane salvate e di risparmi economici. Numeri che ancora mancano per i promettenti e sponsorizzati test del sangue «multicancro».
Cancro, quanto incide lo stress? I dolci lo peggiorano? Le domande più frequenti (con le risposte degli esperti). Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023.
Luoghi comuni, pregiudizi, teorie superate che tornano a «a galla», ipotesi prive di fondamento. Quando si parla di cause del cancro, di come possano avere origine e diffondersi le neoplasie, tante spiegazioni molto diffuse sono scientificamente sbagliate. Queste sono alcune delle domande più frequenti, con le risposte ufficiali fornite dagli esperti del National Cancer Institute americano
Una diagnosi di cancro equivale a una sentenza di morte?
No, la probabilità di morire per un tumore è costantemente diminuita negli ultimi decenni. Guarire dal cancro o convivere con un tumore per anni, come avviene con altre malattie croniche, oggi è possibile. Accade sempre più spesso, anche in Italia, dove sono oltre tre milioni e mezzo le persone che vivono dopo una diagnosi di cancro. In particolare per alcuni tipi di neoplasie (come quelle di seno, prostata o tiroide) oltre il 90% dei malati è vivo a cinque anni dalla diagnosi e in media questa «fatidica soglia» viene raggiunta dal 65% dei pazienti. Alla fine degli anni Settanta solo poco più del 30% delle persone colpite dal cancro sconfiggeva la malattia e negli anni Novanta quasi il 47%. Ci sono forme di cancro che ancora oggi restano molto spesso letali e, in ogni caso, ogni paziente è una storia a sé: le sue probabilità di guarire definitivamente o quanto resterà in vita dipendono da moltissime variabili, come il tipo preciso di neoplasia, se è aggressiva o meno, se si è già diffusa ad altri organi o no, lo stato di salute generale della persona, la disponibilità di cure efficaci, e altro ancora.
Il cancro è contagioso?
No, in nessun modo un tumore può essere trasmesso da una persona a un’altra. L’unica eccezione è la donazione di organi: sebbene sia un evento rarissimo (2 casi circa ogni 10mila trapianti), è capitato che pazienti a cui erano stati trapianti organi di persone che in precedenza avevano avuto il cancro si siano poi a loro volta ammalate di tumore. Proprio per questo motivi i medici evitano oggi accuratamente di utilizzare per i trapianti organi di individui con una storia di tumore alle spalle. Altro discorso è invece quello dei tumori che sono causati da un virus (circa 38mila nuovi casi ogni anno in Italia), come il Papillomavirus o HPV (responsabile di cancro a cervice uterina, vulva, vagina, pene, ano e orofaringe, lesioni pre-cancerose e condilomi genitali), i virus dell’epatite B e C o da batteri, come l’Helicobacter pylori (causa di cancro allo stomaco). Se resta fermo il fatto che anche questi tumori non possono essere «contagiati» da un soggetto a un altro, virus e batteri possono invece essere trasmessi.
I telefoni cellulari provocano il cancro?
Non secondo gli studi scientifici finora condotti: a oggi non ci sono prove. Il tema del legame fra cellulari e tumori è molto dibattuto e se ne parla dagli anni Novanta. L’Organizzazione Mondiale di Sanità ha classificato le radiofrequenze nel gruppo 2b dei «possibili cancerogeni», ma diverse ricerche epidemiologiche hanno escluso connessioni.
Un atteggiamento mentale (positivo o negativo) può influenzare le probabilità di ammalarsi o guarire?
A oggi non c’è alcuna evidenza scientifica che indichi che la psiche possa influire sul tumore, o che lo stress provochi il cancro. È normale che i malati si sentano tristi, arrabbiati, scoraggiati ed è certo che un atteggiamento positivo possa aiutare a vivere meglio il difficile periodo prima, durante e dopo le terapie. Per questo è importante che, insieme alla malattia, ci si prenda cura anche del benessere psicologico dei pazienti.
Mangiare zuccheri farà peggiorare il mio tumore?
No. Sebbene la ricerca abbia chiaramente dimostrato che le cellule cancerose consumano più zuccheri (glucosio) di quelle «sane», nessuno studio ha finora documentato che i cibi dolci possano far peggiorare un tumore o che, se si smette di mangiarli, la lesione diventerà più piccola. Nessuna relazione è stata mai appurata anche tra dolcificanti e cancro: le diverse indagini condotte non hanno individuato legami.Bisogna invece tener presente che una dieta ad alto contenuto di zuccheri (e bisogna fare attenzione anche alle bibite zuccherate, sempre più diffuse) può contribuire a far ingrassare e i chili di troppo sono un fattore di rischio per diversi tipi di cancro.
Se qualcuno in famiglia ha avuto un tumore, lo avrò anch’io?
Non necessariamente. I tumori sono causati da mutazioni genetiche che solo in pochissimi casi possono essere «trasmesse» all’interno del nucleo familiare. La maggior parte delle persone con un familiare stretto (genitore, fratello o sorella, ma anche nonni o zii) che ha avuto un tumore non corre pericoli superiori al resto della popolazione e solo una quota minoritaria di casi può essere catalogata come ereditaria. La maggior parte dei tumori è dovuto ad altre cause, quali mutazioni che si verificano nel corso della vita di un individuo come conseguenza dell’invecchiamento o dell’esposizione a «fattori ambientali» (dal fumo all’alimentazione scorretta, dalle radiazioni ai cancerogeni inquinanti, per esempio sul lavoro). A oggi sono note alcune mutazioni genetiche ereditarie (come quelle dei geni BRCA1 e BRCA2) che fanno lievitare rischio di sviluppare un tumore per le quali già esistono specifici test che vengono consigliati alle persone considerate a rischio.
Se nel mio nucleo famigliare non ci sono mai stati casi di cancro, significa che non sono a rischio?
No. Secondo i dati più recenti, nel 2022 in Italia sono stati registrati quasi 400mila nuovi casi di tumore e circa il 40% delle persone dovrà fare i conti, a un certo punto della propria vita, con una diagnosi di cancro. Molto, però, può essere fatto da ogni singola persona per limitare il proprio pericolo di ammalarsi e per favorire una diagnosi precoce, che contribuisce a far aumentare notevolmente pe probabilità di guarire. Il Codice europeo contro il cancro è consiste in 12 semplici azioni quotidiane per diminuire il proprio rischio di sviluppare un tumore e quello dei propri familiari.
Ci sono erbe o prodotti «naturali» che possono guarire i tumori?
No. Alcuni studi scientifici indicano che alcune terapie complementari (come yoga, meditazione o agopuntura) possono aiutare i pazienti a gestire meglio gli effetti collaterali delle terapie anticancro, ma in nessun modo erbe o altre cure «naturali» possono sostituire i trattamenti ufficiali che hanno dimostrato di essere efficaci: chirurgia, chemioterapia e altri trattamenti farmacologici, radioterapia, immunoterapia. E’ anzi fondamentale procedere con estrema cautela perché ci sono anche rimedi fitoterapici che, usati in concomitanza con altre terapie (farmaci chemioterapici, ad esempio), possono aumentare l’efficacia, e quindi la tossicità, o al contrario annullarne l’attività. In ogni caso i pazienti devono parlarne con il proprio oncologo per evitare di avere danni, anche gravi, invece che benefici.
I deodoranti fanno venire il cancro al seno?
No. I più accurati studi scientifici finora condotti non hanno trovato alcuna evidenza che colleghi gli agenti chimici tipicamente presenti in anti-traspiranti e deodoranti e l’insorgenza di carcinoma mammario.
L’intervento chirurgico o la biopsia possono provocare la diffusione del tumore in altri organi?
La probabilità che un’operazione o una biopsia causi la diffusione di cellule cancerose nell’organismo, favorendo lo sviluppo di metastasi, è estremamente bassa: i chirurghi seguono procedure standard e utilizzano metodi «specifici», seguendo passaggi ben precisi, proprio per evitare che questo accada.
La terapia utilizzata a Manchester. “Hai un anno di vita”: è malato di tumore, guarisce del tutto dopo la cura sperimentale. Vito Califano su Il Riformista il 30 Dicembre 2022
A Robert Glynn avevano dato pochi mesi, poco tempo ancora di vita. Malato di tumore, 49 anni, dopo la diagnosi i medici gli avevano dato al massimo dodici mesi ancora da vivere, un anno solo. Quando gli è stato proposto di provare un farmaco sperimentale non si è tirato indietro e nel giro di pochissimo tempo la massa tumorale si è ridotta e le cellule sono morte. Glynn è guarito completamente e la sua vicenda riportata da BBC, con la terapia alla quale ha aderito, sta facendo il giro dei media.
Della vicenda di Manchester si parla in tutto il mondo. Adesso si aspettano con trepidazione i risultati degli studi. Gli scan trimestrali cui l’uomo è stato sottoposto però stanno mostrando un corpo sano. Era cominciato tutto forti dolori alla spalla che impedivano al 49enne, saldatore, di dormire. Dolori che non passavano. Quando il medico di base gli ha prescritto degli esami, venne scoperta la massa tumorale dopo un’infezione alla cistifellea. Era il 2020. A Glynn venne diagnosticato il tumore del dotto biliare, un cancro che colpisce circa mille persone all’anno nel Regno Unito.
“Avevo il cancro da due anni e non lo sapevo”, ha detto Glynn alla BBC. “Sono stato molto fortunato, ha aggiunto”. Quando all’ospedale Christie di Manchester gli hanno proposto di partecipare a questo esperimento clinico non ha esitato un attimo. Il nuovo farmaco per l’immunoterapia, associato alla canonica chemioterapia, ha fatto ridurre la massa tumorale nella sua ghiandola surrenale da 7 a 4,1 centimetri e quella nel fegato da 12 a 2,6 centimetri. Quando i medici sono intervenuti per operarlo hanno inoltre trovato soltanto cellule morte, “tutte uccise dalla cura”.
“Sapere che sono guarito del tutto è stata un’emozione che mi ha sopraffatto. Senza quell’esperimento oggi non sarei qui”, ha detto l’uomo che intanto ha fatto sapere di aver modificato completamente il suo stile di vita, dall’alimentazione al tempo libero, alla luce della sua esperienza. Attorno alla sperimentazione c’è grande cautela ma anche grande entusiasmo. Il dottor Juan Valle, a capo dell’esperimento clinico, ha dichiarato che il caso di Glynn potrebbe portare a “un cambiamento nella maniera in cui vengono curati i pazienti come lui in futuro. C’era grande attesa per i risultati”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Tumori, boom di nuovi casi nel 2022 in Puglia. La Manovra taglia i fondi sulla ricerca. Dalla Puglia buone notizie sul carcinoma renale una emergenza mai conclusa. Alessandra Colucci su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Dicembre 2022
La pandemia continua a mordere non solo con gli effetti diretti del Covid, ma anche con ricadute indirette come l’avvio tardivo di cure contro il tumore, a causa di diagnosi non immediate.
In Italia, quest’anno, sono stati stimati 390.700 nuovi casi, 14.100 in più rispetto al 2020. Finalmente, però, negli ultimi mesi qualcosa inizia a muoversi per quanto riguarda gli screening di prevenzione, che stanno riprendendo, mentre gli stili di vita scorretti si confermano una vera e propria emergenza.
Per esempio, a destare le maggiori preoccupazioni è il sovrappeso che interessa il 33% degli adulti, insieme all’obesità che incide per il 10%, senza dimenticare la sedentarietà, che raggiunge il picco del 31%, e il temutissimo fumo, abitudine irrinunciabile per il 24%.
I dati sono stati raccolti nel volume «I numeri del cancro in Italia 2022», dal quale si evince che il tumore più frequentemente diagnosticato, nel corso degli ultimi dodici mesi, è stato il carcinoma della mammella (55.700 casi, +0,5% rispetto al 2020), seguito dal colon-retto (48.100, +1,5% negli uomini e +1,6% nelle donne), polmone (43.900, +1,6% negli uomini e +3,6% nelle donne), prostata (40.500, +1,5%).
Come detto, i ritardi accumulati durante la pandemia pesano ma, al tempo stesso, si registra una ripresa dei programmi di prevenzione secondaria e degli interventi chirurgici in stadio iniziale ed è bene ricordare che lo scorso anno i programmi di screening sono tornati ai livelli prepandemici, per esami mammografici, per il tumore del colon-retto e quello della cervice uterina.
I dati «invitano sempre di più a rafforzare le azioni per contrastare il ritardo diagnostico e per favorire la prevenzione secondaria e soprattutto primaria, agendo sul controllo dei fattori di rischio a partire dal fumo, dall’obesità, dalla sedentarietà, dall’abuso di alcol», afferma Saverio Cinieri, presidente Aiom, Associazione italiana di oncologia medica. Un dato positivo è che a fronte dei 2,5 milioni di persone che vivevano in Italia nel 2006 con una pregressa diagnosi di tumore, si è passati a circa 3,6 milioni nel 2020, il 37% in più di quanto osservato solo 10 anni prima.
E se da una parte giungono cattive notizie, con il taglio nella manovra, di dieci milioni di finanziamenti per il 2023 e di dieci milioni per il 2024 dedicati alla prevenzione, proprio dalla Puglia arrivano notizie confortanti. Sull’ultimo numero della rivista «International Journal of Molecular Sciences», infatti, è stato pubblicato uno studio svolto da ricercatori e chirurghi dell’Unità di Urologia, Andrologia e Trapianto dell’università degli Studi di Bari. «Il carcinoma renale a cellule chiare – si legge in una nota - rappresenta il tumore maligno più frequente del rene e anche uno dei più difficili da diagnosticare e trattare poiché spesso si manifesta senza sintomi specifici e risulta resistente ai farmaci chemioterapici».
Lo studio, rispettivamente coordinato e supervisionato dai professori Giuseppe Lucarelli e Pasquale Ditonno, validato in una popolazione di quasi 500 persone operate presso l’Unità operativa di Urologia universitaria del Policlinico di Bari, si focalizza sull’individuazione e la caratterizzazione molecolare di un sottotipo di carcinoma renale dalla forma altamente aggressiva. I dati ottenuti dallo studio apportano notevoli implicazioni sia per la ricerca, perché aumentano la conoscenza dei meccanismi alla base dello sviluppo dei tumori renali, sia da un punto di vista clinico perché attraverso un semplice prelievo di sangue sarà possibile identificare un marcatore di aggressività facilmente dosabile, ponendo le basi per lo sviluppo di terapie adeguate.
Tumori del cervello: quali sono i sintomi che devono insospettire? E si possono prevenire? Vera Martinella su Il Correre della Sera il 23 maggio 2023.
Sono stati catalogati circa 150 tipi differenti di tumori del sistema nervoso centrale (costituito da encefalo e midollo spinale), che continuano a essere tra i più pericolosi e soltanto 4 malati su 10, in media, sono ancora vivi un anno dopo la diagnosi. Possono colpire, a seconda del tipo, bambini e adulti
Tanti tipi di cancro al cervello, molto diversi fra loro
Quando si parla di tumori cerebrali bisogna tenere presente che in realtà ci si riferisce a molte malattie diverse: i più frequenti sono i glioblastomi e i meningiomi, seguiti da astrocitomi, oligodendrogliomi, ependimoni, medulloblastomi e altri ancora. Complessivamente nella nuova classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si contano più di 150tipi differenti.
«Alcuni sono più tipici dell’età infantile, altri interessano gli adulti - spiega Enrico Franceschi, direttore dell’Oncologia del sistema nervoso all’IRCCS Istituto delle Scienze neurologiche di Bologna -. Ognuna di queste categorie comprende a sua volta sottotipi differenti, spesso definiti da alterazioni molecolari peculiari, che richiedono cure specifiche in base alla singola neoplasia, alla sua aggressività e allo stadio più o meno avanzato» e fra i maggiori esperti italiani su queste patologie. Per questo generalizzare e parlare di «tumori del cervello» è molto difficile.
Quante persone colpiscono e quali sono le speranze di guarire?
Con oltre 6mila nuovi casi diagnosticati ogni anno in Italia e più di 4mila decessi, i tumori cerebrali continuano a essere tra i più letali. Sono fortunatamente rari (sebbene compaiano tra i 5 tipi di cancro più frequenti prima dei 50 anni), ma hanno spesso una prognosi severa perché sono ancora difficili da curare, sono spesso aggressivi e resistenti ai farmaci. A cinque anni dalla diagnosi è vivo il 24 per cento dei pazienti, ma bisogna tener presente che molto dipende dal singolo sottotipo di neoplasia e dallo stadio (se in fase avanzata o meno).
Quali sono le avvisaglie che devono insospettire?
«I sintomi di un tumore cerebrale dipendono soprattutto dalle dimensioni della massa e da dove è localizzato, perché ogni zona dell’encefalo è responsabile di una funzione specifica e quindi sarà quell’attività a essere più o meno compromessa - spiega Francesco DiMeco, direttore del Dipartimento di Neurochirurgia della Fondazione Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano -. I disturbi sono molto vari e comuni a molte altre malattie a carico del sistema nervoso (cefalea, nausea, disturbi della vista o dell’umore, allucinazioni, crisi epilettiche, paralisi, molto sonno, disturbi del movimento), per questo non bisogna pensare necessariamente al peggio, ma è importante consultare il medico di famiglia che, se lo ritiene opportuno, prescrive una visita con un neurologo e i necessari accertamenti».
In generale, se una neoplasia colpisce una parte del cervello (per esempio la sinistra) il sintomo si manifesta nella parte opposta (la destra): questo è dovuto al fatto che ogni emisfero cerebrale governa la parte controlaterale del corpo.
Si possono prevenire?
No, anche perché non se ne conoscono ancora in modo chiaro le cause. I soli fattori di rischio noti sono l’esposizione alle radiazioni gamma e X e alcune sindromi genetiche (le neurofibromastosi di tipo 1 e 2, la sindrome di Li-Fraumeni) che aumentano le probabilità di ammalarsi. Non esistono test per la diagnosi precoce.
Come si arriva alla diagnosi?
Se il medico di famiglia ritiene sia opportuno, in presenza di sintomi sospetti, prescrive una visita con un neurologo. Generalmente gli accertamenti da eseguire per arrivare alla diagnosi sono tomografia computerizzata (TC) cerebrale e risonanza magnetica nucleare (RMN), alle quali si possono aggiungere altri esami come l’elettroencefalogramma.
Esistono terapie efficaci?
«La scelta del trattamento dipende da vari fattori (tra i quali il tipo di tumore, il suo stadio e la posizione, o le condizioni generali del paziente) - sottolinea Franceschi, fra i maggiori oncologi italiani esperti sui tumori cerebrali -: chirurgia, radioterapia e chemioterapia possono essere usate da sole o in combinazione. E nonostante molte difficoltà, si registrano progressi anche nella cura di neoplasie cerebrali. Siamo ancora lontani, purtroppo, da farmaci che ci consentono di guarire o cronicizzare molti casi di tumori al cervello, però la ricerca prosegue».
Glioma: chi colpisce e come si cura?
I gliomi rappresentano circa il 40 per cento dei tumori che interessano il cervello e ad oggi non esistono metodi per diagnosticarli precocemente. Ne esistono diversi tipi le cui caratteristiche dipendono, principalmente, dal tipo di cellula colpita e dal tasso di crescita della massa tumorale. Oligodendrogliomi e astrocitomi sono gliomi di II o III grado, con un’evoluzione molto variabile e un’incidenza di 2-3 casi all’anno ogni 100mila abitanti. «Colpiscono soprattutto i giovani adulti - spiega Franceschi -. Con il miglioramento delle terapie, in particolare chirurgia, radioterapia e chemioterapia si è assistito a un significativo prolungamento della sopravvivenza e attualmente la mediana di sopravvivenza è superiore a 10 anni, con variazioni che dipendono però ampiamente dalle caratteristiche genetiche del tumore (ovvero se c’è o meno la mutazione di IDH e la delezione dei cromosomi 1p e 19q)». Gli oligodendrogliomi di solito hanno un'evoluzione lenta e rispondono bene alle terapie. Gli astrocitomi pilocitici (molto rari, più comuni nei bambini) raramente si trasformano in un tumore più aggressivo e nella maggioranza dei casi la chirurgia è curativa: mentre quelli anaplastici nel tempo tendono a trasformarsi in gliomi più aggressivi.
Glioblastoma: chi colpisce e come si cura?
È il glioma più frequente, con un’incidenza di 4-5 casi ogni 100mila abitanti per anno, e il più aggressivo. «Generalmente interessa gli adulti intorno ai 60 anni e la prognosi è severa, con sopravvivenza media di poco superiore all’anno - dice DiMeco, direttore della Neurochirurgia Oncologica al Besta -. Sulle aspettative di vita però intervengono in maniera significativa le caratteristiche genetiche: se è presente una metilazione del gene MGMT, i pazienti rispondono meglio ai trattamenti oncologici e hanno un’aspettativa di vita significativamente più lunga. I trattamenti utilizzati sono la chirurgia seguita dalla combinazione di radioterapia e chemioterapia».
Medulloblastoma: chi colpisce e come si cura?
È tipico dei bambini e più raramente dei giovani adulti, mentre nell’adulto ha una incidenza di 0,5-1 caso su un milione ogni anno. È una neoplasia potenzialmente guaribile e i trattamenti sono differenti a seconda dell’età del paziente (primi anni di vita, adolescenza, età adulta), ma consistono principalmente in chirurgia, radioterapia e chemioterapia mixate o in sequenza fra loro.
Ependimoma: chi colpisce e come si cura?
«Sono tumori rari e rappresentano infatti solo il 2 per cento dei tumori intracranici - chiarisce Franceschi -. Di solito si presentano nei bambini nei primi dieci anni di vita e più raramente in giovani adulti. L’asportazione chirurgica più radicale possibile è il trattamento standard. E la radioterapia post-operatoria trova indicazione per ridurre le probabilità di recidive locali. La chemioterapia viene utilizzata per trattare le recidive di malattia».
Meningioma: chi colpisce e come si cura?
Rispetto alle altre neoplasie cerebrali già citate, i meningiomi sono più frequenti e rappresentano circa il 30 per cento delle neoplasie del sistema nervoso centrale. Sono comuni nelle persone di età adulta e negli anziani. «In molti casi si tratta di riscontri occasionali, vengono scoperti “per caso” - conclude Franceschi-: piccoli meningiomi vengono infatti osservati in TC cerebrali o RM cerebrali eseguite per altri motivi. Hanno una crescita molto lenta e solo una quota modesta, inferiore al 15 per cento, ha caratteri atipici o maligni. Il trattamento principale è quello chirurgico. In alcune circostanze viene inoltre utilizzata la radioterapia».
Gliomi (tumori cerebrali che colpiscono anche i giovani): un farmaco ne rallenta la crescita. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023
Primo passo avanti in 20 anni: progressi importanti perché si allunga la sopravvivenza libera da progressione di malattia e si possono posticipare radio e chemioterapia
Per la prima volta dopo 20 anni dalle sperimentazioni arriva una nuova cura contro i gliomi, tumori cerebrali che interessano spesso persone giovani, con un impatto importante sulla qualità di vita e sulle capacità lavorative. Quando è possibile si asportano chirurgicamente, ma nella maggior parte dei casi l’intervento non è risolutivo e si procede con radioterapia e chemioterapia. Con questa strategia molti pazienti vivono anche diversi anni, ma da molto tempo i ricercatori si impegnano a trovare strategie terapeutiche più efficaci e meno invasive.
Lo studio
Gli esiti dello studio INDIGO (una sperimentazione di fase tre, l’ultima prima dell’approvazione ufficiale di nuovo farmaco) indicano che con vorasidenib, che va a colpire la mutazione a carico dei geni IDH1 e IDH2, si fanno progressi importanti perché si allunga la sopravvivenza libera da progressione di malattia. Cosa significa di preciso? «Stiamo parlando del primo studio in grado di dimostrare un beneficio da parte un farmaco ad azione mirata nei malati con glioma a basso grado operati e che presentino un’alterazione specifica (la mutazione dei geni IDH1 o IDH2, fondamentale nella nascita e sviluppo dei gliomi di basso grado) – risponde Enrico Franceschi, direttore dell’Oncologia del sistema nervoso all’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna -. Fino ad ora il trattamento post-chirurgico consisteva in radioterapia e chemioterapia, oggi invece grazie a questo nuovo farmaco questi trattamenti possono essere posticipati in maniera significativa. Altra informazione importante: vorasidenib è “comodo”, si assume in compresse ed è molto ben tollerato (l’effetto collaterale principale è il rialzo delle transaminasi)».
I gliomi di basso grado: oligodendrogliomi e astrocitomi
I gliomi colpiscono circa 5 persone su 100mila all’anno e rappresentano circa il 40% dei tumori che interessano il cervello. Ne esistono diversi tipi, alcuni sono aggressivi e hanno una prognosi molto severa (come il glioblastoma), altri meno. «I gliomi di basso grado sono neoplasie cerebrali rare, colpiscono 2-3 parsone su 100mila all’anno, in genere di giovane età, attorno ai 30-40 anni – spiega Franceschi -. Spesso si presentano con crisi epilettiche: è importante riconoscere queste patologie prontamente per impostare prima possibile il programma terapeutico». Attualmente la mediana di sopravvivenza è superiore a 10 anni, con variazioni che dipendono però ampiamente dalle caratteristiche genetiche del tumore: si tratta però di neoplasie che, se quando il bisturi non è risolutivo, crescono in modo continuo, più o meno lentamente, ed evolvono verso tipologie con maggiore malignità.
Le terapie
Secondo le linee guida internazionali, la chirurgia è considerata il trattamento iniziale e mira all’asportazione di tutta la massa neoplastica visibile alla risonanza magnetica. Il trattamento chirurgico radicale si associa a un incremento della progressione libera da malattia (ovvero il tempo che trascorre prima che il tumore si ripresenti) e della sopravvivenza. Purtroppo però un’eliminazione radicale non è sempre praticabile oppure, anche si è riusciti a raggiungere questo obiettivo, può capitare che la neoplasia riprenda a crescere e spesso evolve verso livelli maggiori di aggressività. «Proprio per questo motivo, dopo l’operazione, se sussistono elementi di rischio vengono eseguiti subito radioterapia e chemioterapia per allungare il tempo alla ricrescita e anche la sopravvivenza globale — conclude Franceschi —. I dati dello studio INDIGO, che verrà presentato al congresso mondiale americano Asco a giugno 2023, indicano che il nuovo farmaco (ancora in attesa di approvazione ufficiale sia negli Usa sia in Europa) è in grado di allungare il tempo alla ricrescita di malattia e a posticipare in maniera rilevante i trattamenti post-chirurgici».
Tumore di Warthin: cause, sintomi e terapia. Nella stragrande maggioranza dei casi, il tumore di Warthin è una patologia benigna: ecco di cosa si tratta, quali sono i sintomi e come fare per eliminarlo. Alessandro l'8 Luglio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Quali sono le cause
I sintomi
Come si cura
A molti sconosciuto anche perché, fortunatamente, i casi non sono molto frequenti, il tumore di Warthin è una patologia benigna che colpisce la parotide, ossia la ghiandola salivare rappresentando più o meno il 10-15% di tutti i tumori che colpiscono quella ghiandola. In casi ancora più rari, questa problematica può colpire anche altre aree nei pressi della parotide come i distretti di naso e faringe e la cavità orale.
Quali sono le cause
Sebbene ancora in fase di studio, gli esperti spiegano che tra le cause principali ci sono quelle eterotropiche, in pratica delle anomalie che hanno origine tra parotide e il tessuto linfoide. Altri scienziati, invece, propendono maggiormente per la linea ectopica: sarebbero altri tessuti che farebbero spuntare il tumore. Tra i fattori di rischio, invece, bisogna elencare:
malattie autoimmuni
radiazioni allo ionio
infiammazioni croniche
fumo
infezioni da virus di Epstein-Barr
Come detto, la buona notizia è la forma benigna di questo tumore che soltanto in percentuali minime e inferiori all'1% può evolvere in forma maligna.
I sintomi
Come accade anche per altre patologie, sono necessari esami specifici per essere sicuri che si tratta del tumore di Warthin tra cui la risonanza magnetica e l'ultrasonografia ad alta risoluzione, ovvero l'esplorazione dell'organismo mediante ultrasuoni. I campanelli d'allarme variano dal dolore alla mascella alla paralisi del nervo facciale, dall'alterazione dell'udito al dolore di un orecchio. Trattandosi di una problematica che sorge nella parotide, ecco che possono essere coinvolti anche i muscoli del viso e una lacrimazione improvvisa. Nei casi più gravi si può assistere anche a tracce di sangue nella saliva e perfino la modifica del tono della voce e difficoltà a deglutire.
Come si cura
Per trattare il tumore di Warthin si deve praticare una particolare chirurgia chiamata parotidectomia, ossia la rimozione di una parte o di tutta la parotide. Chi eseguirà l'intervento starà molto attento a non intaccare il nervo facciale che si trova nei pressi dell'area da rimuovere, ecco perché diventa fondamentale conoscere bene i confini del tumore. Come detto, trattandosi di una patologia quasi sempre benigna, l'intervento chirurgico diventa la soluzione definitiva: viceversa, nei casi in cui diventare maligno o si dovesse ripresentare nel corso del tempo, il paziente andrebbe incontro a chemio o radioterapia.
Ma come si fa a prevenirlo? È difficile attuare un'efficace protezione delle ghiandole salivari: gli esperti consigliano di evitare di esporsi eccessivamente a radiazioni, a sostanze quali nichel, gomma e silicio e mantenere sempre un'equilibrata dieta a base di tanta verdura e frutta.
Cos’è il carcinoma renale, la malattia che aveva colpito Michela Murgia. Notizie.it il Pubblicato il 11 Agosto 2023
La scrittrice e attivista Michela Murgia si è spenta ieri a causa della terribile malattia che l’aveva colpita qualche tempo fa. Il carcinoma renale della Murgia era arrivato al IV stadio e “Da qui non si torna più indietro” – aveva dichiarato lei lo scorso mese di maggio. Non sempre, però, va in questo modo: gli esperti sostengono che un tumore al rene, anche così avanzato, può non essere una condanna definitiva.
Cos’è il carcinoma renale, il tumore che ha colpito Michela Murgia
“Il dato positivo è che i tumori vengano molto spesso individuati quando si trovano ancora confinati all’interno del rene, cioè in fase precoce: in stadio I (inferiore ai 7 cm) o in stadio II (superiore ai 7 cm)” – ricorda Sergio Bracarda, il Direttore della struttura complessa di Oncologia medica e traslazionale e del dipartimento di Oncologia presso l’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni e Presidente della Società Italiana di Uro-Oncologia. La Murgia, però, era afflitta da un carcinoma arrivato al IV stadio: un tumore che arriva a colpire anche organi distanti. Nonostante questo, però, il cancro può essere operabile: “Fino a non molto tempo fa la malattia al IV stadio veniva definita non operabile, mentre oggi questo assunto viene messo in discussione quando ci si trova di fronte a pazienti oligometastatici, ossia con poche metastasi.” Anche se in fase metastatica, dunque, in alcuni casi la malattia può essere asportata attraverso pratiche di chirurgia e radioterapia, ma non sempre si può ricorrere all’operazione. Quando ci si trova di fronte ad un carcinoma renale al IV stadio non operabile si procede con la somministrazione di farmaci che possono limitare l’azione del tumore. “Fino a 10 anni fa la sopravvivenza a 5 anni era del 5% circa, mentre oggi si attesta intorno al 40%” – spiega Barcarda, raccontando di numeri più che quintiplicati in pochissimi anni grazie alla ricerca scientifica.
I numeri e i sintomi del tumore renale in Italia
Il carcinoma renale non è uno dei tumori più frequenti: tra tutti i tumori solidi che colpiscono gli adulti rappresenta solo il 3% con 12.600 mila casi nel 2022 (7.800 negli uomini e 4.800 nelle donne).Il problema legato a questo tipo di tumore è che spesso i suoi sintomi vengono scambiati per quelli di un semplice caso di calcoli renali. Per questo, molto spesso la diagnosi viene fatta in ritardo o scoperta per caso, quando il paziente non se lo aspetta. In generale, segnali più frequenti sono la presenza di sangue nelle urine e un forte dolore al fianco. Il fumo di sigaretta, come per tanti altri tumori, incide come fattore di rischio, così come l’obesità e l’ipertensione arteriosa.
Tumore al rene: le cause, i sintomi e le cure. Gli approcci terapeutici variano a seconda dello stadio della malattia. Non sempre l'intervento chirurgico è possibile. Maria Girardi il 13 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Cause e fattori di rischio del tumore al rene
Stadiazione del tumore al rene
Sintomi del tumore al rene
Diagnosi e terapia del tumore al rene
Secondo le statistiche di AIRTUM (Associazione italiana registri tumori) si verificano annualmente 13.500 nuovi casi e le diagnosi riguardano soprattutto gli uomini con più di 40-50 anni, anche se il picco di incidenza si registra nella popolazione over 75. Stiamo parlando del tumore al rene, una neoplasia che si sviluppa in seguito alla proliferazione anomala di una cellula del tessuto renale.
Ne esistono più di 200 forme, tuttavia quella maggiormente diffusa è il cosiddetto carcinoma e cellule chiare (70-80% dei casi). Meno frequenti sono il carcinoma papillare (10-15%), quello cromofobo (5%) e quello a cellule transizionali (2%). I bambini, invece, sono colpiti dal cosiddetto nefroblastoma o tumore di Wilms.
Cause e fattori di rischio del tumore al rene
Il tumore al rene è l'esito di una serie di mutazioni a carico del DNA le cui cause, purtroppo, non sono ancora note. Esistono, però, dei fattori di rischio che favoriscono la comparsa della malattia:
Presenza di una grave patologia renale che richiede la dialisi;
Presenza di alcune problematiche genetiche ereditarie come la sindrome di Von Hippel-Lindau e la sclerosi tuberosa;
Presenza di un linfoma;
Ipertensione;
Obesità e sovrappeso;
Fumo di sigaretta;
Assunzione reiterata di farmaci antinfiammatori e antidolorifici;
Esposizione prolungata ad alcuni inquinanti chimici.
Stadiazione del tumore al rene
La gravità del tumore al rene viene espressa attraverso una classificazione composta da quattro stadi. Avremo dunque lo:
Stadio 1: la massa cancerosa larga meno di sette centimetri è confinata dentro l'organo;
Stadio 2: nonostante la larghezza della massa cancerosa superi i sette centimetri essa è ancora confinata nell'organo;
Stadio 3: la massa cancerosa è cresciuta ed ha infiltrato i tessuti circostanti;
Stadio 4: la massa cancerosa non solo ha infiltrato i tessuti circostanti e i linfonodi, ma ha anche disseminato metastasi in altri organi, in particolare ai polmoni e alle ossa.
Sintomi del tumore al rene
Un tumore al rene in fase iniziale è spesso asintomatico. La sintomatologia compare quando la massa neoplastica ha raggiunto determinate dimensioni. In questo caso il paziente può sperimentare:
Sensazione di rigonfiamento sul fianco accompagnato da intenso dolore;
Ematuria ovvero presenza di sangue nelle urine;
Malessere generale;
Stanchezza;
Perdita di appetito e dimagrimento;
Ipertensione;
Edema a livello degli arti inferiori;
Febbre;
Sudorazione notturna;
Anemia.
Purtroppo, come già anticipato, la complicanza più temibile del cancro renale è la metastatizzazione che si verifica al quarto stadio. Le metastasi raggiungono soprattutto le ossa e i polmoni e possono aggravare notevolmente il quadro clinico del malato.
Diagnosi e terapia del tumore al rene
La diagnosi del tumore al rene si basa in prima battuta sull'esame obiettivo e sull'anamnesi. Lo specialista successivamente prescrive l'esecuzione di alcuni test anche molto specifici. Tra questi figurano l'esame del sangue e delle urine, l'ecografia addominale, la risonanza magnetica addominale, l'uroTAC, la cistoscopia e la pielografia endovenosa. Tuttavia solo la biopsia può confermare la malattia e la stadiazione della stessa.
Un carcinoma renale al primo e al secondo stadio viene asportato chirurgicamente. Talvolta l'intervento può essere eseguito anche per neoplasie al terzo stadio se sono asportabili interamente e al quarto stadio, ma solo se le condizioni generali del paziente non sono compromesse.
Quando l'operazione non è possibile le masse cancerose al primo, secondo e terzo stadio sono trattate con approcci medici alternativi, quali l'ablazione a radiofrequenza, l'embolizzazione, la crioterapia e la radioterapia. Queste procedure devono essere integrate con la chemioterapia e con l'immunoterapia se il cancro è al quarto stadio. Si può prevenire il tumore al rene? Secondo gli specialisti è bene seguire alcune semplici regole:
Non fumare
Perdere peso
Monitorare la pressione sanguigna
Evitare l'esposizione agli inquinanti chimici.
Cisti renali: cosa sono e come riconoscere quelle «maligne»? Arrigo Schieppati su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023
La presenza di una o più cisti è documentata nel 10-20% della popolazione e la frequenza aumenta con l’età: si trovano nel 30% degli ultra 70enni
Durante un’ecografia mi è stata trovata una cisti renale, così descritta: «Formazione cistica polilobata mesorenale superiore sul labbro posteriore con fini esponenti interni che convergono centralmente, dove appaiono ispessiti». Devo preoccuparmi?
Risponde Arrigo Schieppati, Centro di coordinamento Rete regionale malattie rare, Istituto Mario Negri, Bergamo (VAI AL FORUM)
L’ecografia documenta che nel rene sinistro è presente una cisti: la descrizione la colloca tra quelle che vengono definite «complesse». Le cisti sono sacche a contenuto liquido che occupano spazio nel contesto di un organo. Generalmente sono asintomatiche e spesso sono riscontrate casualmente nel corso di esami radiologici eseguiti per indagare su altre patologie. Possono essere di dimensioni diverse: quelle molto grandi determinano una compressione sugli organi circostanti; in questo caso causano fastidio o dolore. La presenza di una o più cisti renali è documentata nel 10-20% della popolazione e la frequenza aumenta con l’età: si trovano cisti renali nel 30% delle donne e degli uomini con più di 70 anni.
La maggior parte è di natura benigna e non deve destare preoccupazione: spesso non sono necessari altri accertamenti o controlli a distanza. Questo vale per le cosiddette cisti semplici, che sono le più frequenti: si tratta di formazioni a contenuto completamente liquido che presentano pareti sottili e regolari. Si utilizza invece il termine cisti renale complessa nel caso in cui all’ecografia appaiano alterazioni particolari, come la presenza di «setti» o «sepimentazioni» all’interno della cisti (membrane di tessuto che suddividono una cisti in più camere interne); di calcificazioni o ispessimenti della parete; di contenuto non omogeneo, denso, all’interno della cisti, che può essere costituito da sangue (cisti emorragiche) o da materiale proteico. Possono inoltre essere presenti vegetazioni, cioè «bottoni» di tessuto solido all’interno della sacca liquida.
Alla fine degli anni ‘80 il radiologo americano Morton Bosniak mise a punto una classificazione delle cisti renali, che inizialmente prevedeva quattro tipi. A tale classificazione sono state poi apportate modifiche. Attualmente sono definite cinque categorie di lesioni cistiche renali, in base al grado di complessità e possibile malignità. I due estremi sono la classe I, che include le cisti semplici, e la classe IV, che include cisti maligne che richiedono l’intervento chirurgico. La valutazione di un paziente a cui è stata riscontrata una cisti complessa va affidata a un urologo, che esamina l’opportunità di un controllo a distanza e di indagini più approfondite (come Tac o Rmn).
Tumore ovarico: i sintomi, la diagnosi e le cure. Sono fattori di rischio la familiarità e la mutazione di due geni specifici, il Brca1 e il Brca2, che hanno un ruolo anche nel tumore alla mammella. Sofia Gorgoni su Il Giornale l'11 Maggio 2023
Tabella dei contenuti
Sintomi e fattori di rischio
La diagnosi di tumore ovarico
Le cure
Circa l’80% delle pazienti arriva alla diagnosi di tumore ovarico quando la malattia è già in fase avanzata. I sintomi generici, l’assenza di screening e le conseguenti diagnosi tardive fanno sì che soltanto 10 donne su 100 scoprano il tumore quando è ancora circoscritto alle ovaie o alla pelvi. Spesso il sospetto arriva nel corso di una visita ginecologica per altri motivi.
Il risultato è che i trattamenti non sempre sono efficaci e la mortalità è ancora alta. Secondo i dati, a oggi solo il 40% delle pazienti con tumore ovarico riesce a sconfiggere la malattia. Nel nostro Paese sono circa 50mila le donne viventi dopo una diagnosi di tumore dell’ovaio. Un tumore molto insidioso per due principali motivi. Innanzitutto perché ha sintomi aspecifici. In secondo luogo perché, a differenza del carcinoma mammario o di quello alla cervice uterina, non esistono oggi strumenti di prevenzione né test di screening precoce.
Sebbene non sia tra i più diffusi, fa registrare in Italia oltre 5.000 nuove diagnosi l'anno e oltre 3.000 decessi. In altre parole, è ancora uno dei “big killers” tra le neoplasie ginecologiche (30%) ed occupa il decimo posto tra tutti i tumori femminili (3%). Se fino a 10 anni fa le opzioni terapeutiche erano poche e la chemioterapia era l’unica arma disponibile, oggi esistono nuovi trattamenti e farmaci mirati. Tuttavia, il successo delle nuove opzioni e strategie terapeutiche dipende dalla condizione al momento della diagnosi, per questo è fondamentale fare prevenzione.
Sintomi e fattori di rischio
I sintomi del tumore ovarico sono generici, spesso vengono confusi con quelli di altre malattie molto meno gravi, per questo la diagnosi può risultare difficile. Studi recenti hanno individuato alcuni segnali presenti anche nelle prime fasi della malattia, sebbene varino per ogni singolo caso. Si tratta di: dolore addominale o pelvico anche non continuo, un senso di pienezza precoce e una distensione addominale che persiste. Altri sintomi possono essere: abitudini intestinali diverse, una minzione frequente, sanguinamento vaginale e altri sintomi intestinali.
In particolare, il rischio è collegato alla mutazione di due geni specifici, il Brca1 e il Brca2, che ricoprono un ruolo importante anche nel tumore alla mammella. La percentuale di rischio di tumore ovarico è del 39-46% con una mutazione del gene Brca 1 e del 10-27% con una mutazione del gene Brca 2.
Il 15-25% dei tumori all’ovaio ha come principale fattore di rischio la familiarità. Non esistendo strategie preventive efficaci per questo tumore, l’annessiectomia profilattica bilaterale (asportazione di tube ed ovaie) è in grado di prevenire la quasi totalità dei tumori ovarici su base genetico-ereditaria.
Il picco di incidenza della malattia è tra i 50 e i 60 anni. Tuttavia alcuni tipi di tumore dell’ovaio possono presentarsi in donne più giovani. Oltre alla familiarità e al rischio genetico, incide il sistema endocrino che si occupa della produzione e distribuzione di ormoni nell’organismo. In generale, ovulazioni ripetute sembrano associate a un rischio maggiore. Alcuni studi hanno mostrato un’incidenza maggiore in donne soggette a menarca precoce o menopausa tardiva. Inoltre esiste anche una correlazione tra endometriosi e tumore all’ovaio. Sono fattori di rischio anche l’obesità, il fumo e la sedentarietà. Invece, la gravidanza e l'allattamento prolungato sembrano essere dei fattori protettivi. Lo stesso vale per la pillola anticoncezionale che è associata a un rischio minore.
La diagnosi di tumore ovarico
Quando c’è il sospetto di un tumore delle ovaie è l’ecografia transvaginale oppure quella transaddominale a sciogliere i dubbi. Tuttavia, sono considerate importanti per la valutazione clinica, oltre all'età della donna, le dimensioni e le caratteristiche ecografiche delle ovaie. Questa valutazione è molto soggettiva, e le forme iniziali possono essere misconosciute da operatori poco esperti, come spiega la Fondazione Veronesi.
Dopo l'ecografia pelvica, la diagnosi di tumore dell’ovaio può richiedere il controllo dei marcatori tumorali, attraverso il prelievo del sangue. In caso di dubbio, si procede con una Tac addominale o con una Pet. Nel caso del tumore ovarico, il Pap test non ha alcuna validità. Una volta individuato il tumore, la prima cosa da fare è capire se la neoplasia è circoscritta o se ha già preso piede nella zona pelvica e oltre. Per questo vengono eseguite anche una gastroscopia e una colonscopia.
Il carcinoma ovarico può essere diagnosticato in diversi stadi, che dipendono dall'estensione e dalla presenza di metastasi. Una buona o una cattiva prognosi dipendono dallo stadio del tumore, per questo la diagnosi deve essere il più tempestiva possibile.
Le cure
La scelta della terapia dipende dal singolo caso. La chirurgia è uno step centrale del trattamento del tumore ovarico. In uno stadio avanzato è finalizzata all’asportazione di tutto il tumore visibile (chirurgia citoriduttiva). Se la malattia viene asportata radicalmente il guadagno in termini di sopravvivenza per la paziente arriva a 40 mesi rispetto a pazienti in cui l’intervento chirurgico non ha asportato completamente la malattia. Anche nelle pazienti con malattia allo stadio iniziale, la chirurgia ha un ruolo fondamentale.
Negli ultimi anni, per lo più in associazione alla chemioterapia eseguita dopo la chirurgia, si sono affermate nuove terapie dette “a bersaglio molecolare”. Si tratta di farmaci rivolti verso un bersaglio specifico che ha un ruolo importante nella genesi o nella progressione di una determinata neoplasia.
In generale, le opzioni terapeutiche oggi sono numerose, ma solo una diagnosi tempestiva può migliorare le probabilità di sopravvivenza. Infatti se il tumore ovarico viene diagnosticato in stadio iniziale la possibilità di sopravvivenza a cinque anni è del 75-95% mentre la percentuale scende al 25% per tumori diagnosticati in stadio molto avanzato.
Tumori del sangue, identificato un nuovo metodo per prevenirli. Gli scienziati hanno scoperto il funzionamento del gene TCL1A che in futuro potrebbe diventare un importante bersaglio farmacologico. Maria Girardi il 20 Aprile 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I sintomi dei tumori del sangue
Una nuova speranza per i tumori del sangue
La tecnica PACER
I tumori del sangue sono neoplasie che colpiscono le cellule del midollo osseo, ovvero globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Essi, dunque, compromettono la funzionalità dei due principali meccanismi di citogenesi del sangue, quelli generanti le linee di cellule mieloidi e linfoidi. Esistono decine di sottotipi diversi appartenenti a tre grandi macro gruppi:
Leucemie: coinvolgono le cellule staminali emopoietiche che producono i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine;
Linfomi: interessano il sistema linfatico, in particolar modo i linfociti indispensabili per la produzione di immunoglobuline;
Mielomi: colpiscono le plasmacellule e danneggiano sia l'emopoiesi che il tessuto osseo.
I sintomi dei tumori del sangue
L'incidenza dei tumori del sangue è in crescita a causa dell'invecchiamento generale della popolazione. I sintomi variano a seconda della tipologia di cancro, tuttavia alcune manifestazioni non vanno sottovalutate e devono sempre essere poste all'attenzione del medico curante. Tra queste figurano:
La febbre o la febbricola pomeridiana e/o notturna;
La comparsa di petecchie e di lividi sulla cute;
I sanguinamenti spontanei delle mucose;
La stanchezza;
I dolori ossei e articolari;
La perdita dell'appetito;
Il dimagrimento;
Il gonfiore indolore di un linfonodo;
La sudorazione eccessiva;
Il prurito diffuso.
Una nuova speranza per i tumori del sangue
Una coalizione internazionale di ricercatori biomedici co-guidata da Alexander Bick, Ph.D. presso il Vanderbilt University Medical Center, ha scoperto un nuovo modo per misurare il tasso di crescita dei cloni precancerosi di cellule staminali ematiche che un giorno potrebbero aiutare i medici a ridurre il rischio di tumori del sangue dei loro pazienti. La tecnica, chiamata PACER, ha portato all'identificazione di un gene (TCL1A) che, una volta attivato, guida l'espansione clonale.
I risultati dello studio pubblicato su Nature suggeriscono che i farmaci che prendono di mira TCL1A possono rivelarsi in grado di sopprimere la crescita clonale e le neoplasie associate. Più del 10% degli anziani sviluppa mutazioni somatiche non ereditarie nelle cellule staminali ematiche che possono provocare espansioni clonali di cellule anomale e aumentare così la probabilità di sviluppare tumori del sangue e malattie cardiovascolari.
La tecnica PACER
La tecnica PACER, al fine di determinare il tasso di espansione clonale approssimato è stata applicata a più di 5mila individui che avevano acquisito specifiche mutazioni driver associate al cancro nelle loro cellule staminali ematiche. Queste mutazioni sono chiamate emopiesi clonale del potenziale indeterminato o CHIP. I partecipanti non erano comunque affetti da tumori del sangue.
Utilizzando uno studio di associazione genoma-wide, gli scienziati hanno cercato mutazioni genetiche associate a diversi tassi di crescita clonale. Sono giunti alla conclusione che TCL1A, un gene che non era stato precedentemente implicato nella biologia delle cellule staminali ematiche, era uno dei principali motori dell'espansione clonale quando attivato.
I ricercatori hanno altresì scoperto che una variante comunemente ereditata del promotore TCL1A (la regione del DNA che normalmente avvia la trascrizione del gene) era legata a un tasso di espansione clonale più lento e ad una riduzione di diverse mutazioni driver in CHIP. Le indagini proseguono. Il gene TCL1A potrebbe presto diventare un importante bersaglio farmacologico.
Mieloma multiplo, il tumore del sangue più diffuso: cause, sintomi e terapia. Dagli anticorpi bispecifici alla terapia CAR-T, la scienza studia nuove forme di trattamento per la seconda forma di tumore del sangue più diffusa in assoluto. Maria Girardi il 4 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Le cause del mieloma multiplo
I sintomi e la diagnosi del mieloma multiplo
La terapia del mieloma multiplo
Il mieloma multiplo è un tumore maligno che colpisce alcune cellule del sistema immunitario. Si caratterizza per la proliferazione e per l'accumulo nel midollo osseo di un clone plasmacellulare anomalo. Le plasmacellule, per la precisione, sono l'esito della maturazione dei linfociti B, elementi questi indispensabili per la formazione degli anticorpi.
La mutazione cancerosa stimola la plasmacellula mielomatosa a produrre la cosiddetta componente monoclonale o paraproteina, il cui eccesso provoca i danni tipici della malattia, in particolare la progressiva distruzione del tessuto osseo e le conseguenti fratture spontanee che si riscontrano in molti pazienti.
Secondo i dati forniti da AIOM, il mieloma multiplo è la seconda forma cancerosa ematologica più diffusa al mondo. Ogni anno, infatti, si registrano 5.700 nuovi casi. Ad esserne maggiormente colpiti sono gli anziani (l'età media di insorgenza è di 69 anni), soprattutto uomini.
Le cause del mieloma multiplo
Come abbiamo già visto, la sintomatologia del mieloma multiplo è scatenata dall'eccesso di componente monoclonale. Le cause delle anomalie di questa immunoglobulina non sono ancora note, tuttavia sono stati individuati alcuni fattori di rischio che favoriscono la comparsa della patologia. Tra questi:
Le alterazioni genetiche: iperdiploidia, delezione totale o parziale del cromosoma 13 e traslocazione su un diverso cromosoma di una porzione del cromosoma 14;
L'esposizione a sostanze chimiche: benzene, pesticidi, solventi, asbesto;
L'esposizione ad alcuni agenti virali;
L'esposizione a radiazioni ionizzanti;
L'età superiore ai 65 anni;
Il sesso maschile.
I sintomi e la diagnosi del mieloma multiplo
"CRAB" è l'acronimo che riassume i principali sintomi del mieloma multiplo. Esso sta per "Calcium" (calcio), "Renal failure" (insufficienza renale), "Anemia" e "Bone lesions" (danni ossei). Il dolore alle ossa è comune nel 70% dei malati e si localizza soprattutto a livello del bacino, delle costole, della colonna vertebrale, del cranio e del femore. Le plasmacellule mielomatose, inoltre, rendono le ossa soggette a fratture e ad osteoporosi.
L'eccesso di calcio, l'ipercalcemia, si manifesta con confusione mentale, nausea, perdita di appetito, costipazione e insufficienza renale. L'anemia, infine, provoca debolezza e difficoltà respiratorie. Esistono, tuttavia, altre manifestazioni che variano da paziente a paziente: infezioni ricorrenti, sindrome da iperviscosità, trombocitopenia e disturbi neurologici.
La diagnosi si ottiene mediante le analisi del sangue, in particolare l'esame emocromocitometrico, l'elettroforesi delle proteine sieriche, il tasso di sedimentazione eritrocitaria. L'esecuzione dell'agoaspirato è indispensabile.
La terapia del mieloma multiplo
Attualmente non esiste una cura definitiva per il mieloma multiplo. Negli individui di età inferiore ai 65 anni il trattamento d'elezione consiste nel trapianto di cellule staminali ematopietiche autologhe. Esso deve essere preceduto da un ciclo chemioterapico di induzione. Gli anziani solitamente non tollerano l'autotrapianto. Per loro il protocollo prevede cicli di chemioterapia associati a cortisonici.
La ricerca non si ferma. Una viva speranza è posta in un nuovo farmaco, teclistamab, un anticorpo bispecifico che colpirebbe il sistema immunitario dei pazienti per aiutarlo a neutralizzare le cellule tumorali. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
La scienza punta quindi a personalizzare sempre più le terapie con anticorpi bispecifici e CAR-T. Dell'efficacia di queste ultime in malati recidivanti e della relativa scoperta ad opera degli scienziati del Mount Sinai e del Memorial Sloan Kettering Cancer Center abbiamo parlato in questo articolo.
Cos’è la leucemia mielomonocitica cronica? E la terapia citoriduttiva che sta facendo Berlusconi? Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023
La leucemia mielomonocitica cronica che ha colpito Berlusconi è uno dei molti sotto tipi di tumori del sangue esistenti: ognuno richiede cure differenti. Oltre alla chemioterapia, esistono farmaci mirati, a bersaglio molecolare. Ecco i sintomi che possono insospettire
Silvio Berlusconi è ricoverato in terapia intensiva, al San Raffaele di Milano, a causa di una polmonite, conseguenza di una leucemia mielomonocitica cronica.La leucemia mielomonocitica cronica è una rara forma di leucemia, un tumore del sangue che colpisce le cellule staminali del midollo osseo, da cui «nascono» tutte le cellule del sangue (globuli rossi, bianchi e piastrine). In Italia si stimano circa 600 nuovi casi annui, ma non esistono numeri precisi. Si manifesta soprattutto attorno ai 70 anni, assai di rado può interessare persone più giovani. Come la maggior parte dei tumori del sangue, generalmente non dà sintomi specifici e viene per lo più scoperta attraverso esami del sangue di routine che presentano alcuni valori «sballati» (è sempre presente monocitosi, aumento dei monociti, che sono un tipo di globuli bianchi)
Come si arriva alla diagnosi di leucemia?
«L’ematologo procede con analisi del sangue specifiche, con l’agoaspirato midollare (per la biopsia), l’unica procedura che consente di avere una diagnosi certa – spiega Paolo Corradini, presidente della Società italiana di ematologia (Sie) e direttore di Ematologia alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori (Int) di Milano -. Dagli esiti emergono informazioni utili a valutare, oltre alla cura, il tipo preciso di leucemia mielomonocitica cronica (ne esistono diversi sottotipi) lo stadio della malattia, i rischi per il paziente e, dunque, farsi un’idea della prognosi».
Quali sono le terapie?
«La maggior parte delle volte la leucemia mielomonocitica cronica evolve lentamente: il paziente può continuare le sue normali attività, ma fa dei controlli specifici - risponde Fabrizio Pane, Ordinario di Ematologia e direttore dell’Unità Operativa di Ematologia e Trapianti di Midollo all’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli -. In alcuni casi la malattia è così poco aggressiva che per molto tempo, anche anni, le persone non devono neppure sottoporsi a trattamenti. Oppure vengono prescritte cure per “bilanciare” le anomalie del sangue presenti nel singolo malato. In altri casi si inizia una terapia cosiddetta citoriduttiva (cioè quella prescritta a Berlusconi) che può essere con idrossurea con farmaci biologici ipometilanti (azacitidina oppure decitabina)».
Poi come si procede?
«Dipende. Se la malattia evolve in leucemia mieloide acuta si deve fronteggiare un tumore molto più aggressivo, con una prognosi spesso severa - risponde Corradini -. La strategia di cura per la mieloide acuta (la forma che aveva colpito l'ex calciatore Sinisa Mihajlovic) prevede cicli di chemioterapia ad alte dosi. Quando le condizioni del paziente lo consentono, si procede in seguito con un trapianto di cellule staminali, che è l’unico trattamento in grado di far sperare nella guarigione completa, ma che è molto complesso, pesante da tollerare e non può quindi essere eseguito in persone anziane (i 70 anni sono per lo più considerati l’età-limite) e con altre patologie».
Qual è la prognosi del paziente?
«In fase iperproliferativa (significa che la malattia sta procedendo rapidamente) la situazione è complessa - chiarisce Pane -. Ma si tratta di una situazione estremamente eterogenea, che varia da persona a persona, in base a diversi fattori, a partire dall’età e dalle condizioni generali di salute del singolo malato, oltre alla presenza di eventuali altre patologie diverse dal tumore. Se la cura prevista per la leucemia mielomonocitica cronica fa effetto, si può tenere sotto controllo la malattia anche per anni. Se invece la neoplasia “accelera” velocemente il suo decorso la situazione potrebbe degenerare in fretta».
Insomma, per valutare la situazione, bisogna conoscere bene molti aspetti e sapere con precisione tanti fattori relativi allo specifica neoplasia della singola persona. Esistono oltre 100 tipi diversi di tumori del sangue appartenenti a tre grandi macro-gruppi: leucemie, linfomi e mielomi. Per ognuno di questi ci sono poi decine di sottotipi differenti, che richiedono cure specifiche e che hanno una prognosi molto varia. Ogni anno sono circa 30mila gli italiani che si ammalano di una neoplasia ematologica. In alcuni casi il paziente non deve neppure fare dei trattamenti, ma soltanto controlli e convive con il tumore anche decenni. In altri, purtroppo, la malattia è talmente aggressiva che può provocare il decesso nel giro di pochi giorni.«Anche le leucemie possono manifestarsi in forma acuta (più grave e con un decorso aggressivo), ma la maggior parte in realtà tende ad avere un andamento molto “lento” o cronico» chiarisce Paolo Corradini.
Se è certo che, essendo i tumori patologie tipiche dell’invecchiamento, due terzi dei malati oncoematologici sono persone con più di 65 anni, molto più complicato è rispondere alla domanda: come si cura la leucemia? «Impossibile dare una risposta valida per tutti, la decisione viene presa innanzitutto in base al sottotipo di tumore in questione e poi considerando diversi fattori, a partire dall’età e dalle condizioni di salute generali del paziente» spiega Fabrizio Pane.
Quali sono i sintomi che devono insospettire?
«I segnali iniziali sono sempre piuttosto vaghi e poco specifici e potrebbero essere spia di molte altre patologie, non di rado simili a quelli di una brutta influenza) – conclude Corradini —. È però importante parlare con un medico in presenza di: febbre o febbricola (in particolare pomeridiana o notturna) e un senso di debolezza che perdurano senza cause apparenti per più di due settimane; dolori alle ossa o alle articolazioni che non regrediscono; perdita di appetito e dimagrimento improvviso e ingiustificato; emorragie sottocutanee (piccole chiazze rosse chiamate petecchie) e/o sanguinamenti delle mucose spontanei (epistassi e; sanguinamenti e ulcerazioni del cavo orale); gonfiore indolore di un linfonodo superficiale del collo, ascellare o inguinale. Possono essere presenti anche una sudorazione eccessiva, soprattutto di notte, che obbliga a cambiare gli indumenti e un prurito persistente diffuso su tutto il corpo».
Nuova cura per un tumore raro e letale, il carcinoma anaplastico della tiroide. Storia di Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2023.
Il carcinoma anaplastico della tiroide è un tipo di tumore molto raro, ma particolarmente aggressivo e di difficile gestione perché cresce velocemente e dà metastasi a distanza molto precocemente, tanto da lasciare ancora oggi pochi mesi di vita ai pazienti. C'è però una nuova cura che riesce a rallentare la progressione della malattia, ridurne le dimensioni e allungare in modo significativo la sopravvivenza dei malati. La combinazione di due farmaci mirati, dabrafenib e trametinib, è infatti stata approvata pochi giorni fa dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e il nostro è il primo Paese europeo a rendere disponibile l'innovativa terapia per questo tipo di cancro, per il quale tuttora scarseggiano le opzioni efficaci.
Un sottotipo raro e letale
Con oltre 13.200 nuovi casi registrati ogni anno, il carcinoma della tiroide è uno dei tumori più frequenti in Italia, in particolare nelle donne giovani sotto i 40 anni (fra le quali è al secondo posto per diffusione dopo il cancro al seno), ma è anche fortunatamente uno dei meno pericolosi, tanto che a 10 anni dalla diagnosi è vivo circa il 97% dei pazienti. Si tratta infatti, nella grande maggioranza di casi, di «microcarcinomi» assai poco pericolosi che vanno molto spesso tenuti sotto osservazione senza intervenire, per non sottoporre inutilmente le pazienti alle conseguenze indesiderate delle terapie. «Il carcinoma anaplastico è un sottotipo di cancro tiroideo fortunatamente molto raro (rappresenta circa l'1% dei nuovi casi annui, ovvero interessa poco più di 1.300 connazionali), ma purtroppo a elevata mortalità — spiega Laura Locati, direttore dell’Oncologia medica all’IRCCS Maugeri di Pavia —. Generalmente colpisce persone fra i 60 e gli 80 anni. È molto aggressivo, caratterizzato da una crescita locale nella tiroide e nel collo con coinvolgimento di vasi sanguigni, laringe, esofago e con rapida disseminazione agli altri organi, tanto che il 70-80% dei pazienti è inoperabile alla diagnosi. Così la sopravvivenza media dei malati è di soli sei mesi dopo la scoperta della neoplasia».
I sintomi e le terapie
Il sintomo più comune del tumore della tiroide è il riscontro alla palpazione (o all’osservazione in esami eseguiti per altri motivi) di un nodulo sul collo. Solo una minima parte (il 3-5% circa) di tutti i noduli della tiroide sono però forme tumorali maligne. La presenza di un nodulo comunque non va mai sottovalutata: bisogna parlarne con il medico di famiglia, che prescrive la visita con uno specialista, un’ecografia del collo ed esami ormonali specifici per appurare la natura della lesione. «Il carcinoma anaplastico cresce in fretta, spesso causa rigonfiamenti evidenti, difficoltà nella deglutizione (disfagia), modifiche del tono della voce (disfonia) — chiarisce Locati, professore associato di Oncologia medica al Dipartimento di Medicina interna e terapia medica dell'Università di Pavia —: sono segni di una neoplasia che generalmente è già in fase avanzata. Quando l'intervento chirurgico non è possibile, si valuta (considerando anche le condizioni generali di salute del singolo paziente) la possibilità di procedere con radioterapia e chemioterapia che possono fornire un controllo locale del tumore, ma non hanno impatto sulla sopravvivenza generale nei pazienti con metastasi».
La nuova terapia per i pazienti con mutazione BRAF
Con la combinazione di dabrafenib e trametinib, però, si possono ottenere risultati migliori: «In più della metà dei pazienti con malattia metastatica si riescono a raggiungere regressioni importanti delle lesioni tumorali — dice l'esperta —, aumentando la sopravvivenza media da 6 a 14 mesi. In malati con neoplasia confinata alla tiroide (quindi senza metastasi) ma inoperabile alla diagnosi, questa terapia mirata in alcuni casi ha addirittura ridotto così tanto il tumore da consentire l’intervento chirurgico, che è il passo indispensabile per poter sperare in una guarigione definitiva. Cosa non meno rilevante, questi farmaci sono ben tollerati, infatti meno del 20% dei pazienti deve interrompere la cura per tossicità». La combinazione di medicinali è approvata negli Stati Uniti dal 2018, ma in Europa, nonostante questi risultati ottenuti peraltro in un tumore orfano (ovvero per il quale non ci sono altre strategie di cura efficaci), l'Italia è il primo Paese ad aver dato il via libera: « Grazie alla legge 648/96, che consente di erogare un farmaco a totale carico del Servizio sanitario nazionale quando non esiste un’alternativa terapeutica valida, dabrafenib e trametinib sono ora disponibili per i pazienti con carcinoma anaplastico della tiroide BRAF mutato — conclude Locati —. Circa il 40-50% dei carcinomi anaplastici tiroidei presenta la mutazione di BRAF. Si tratta di medicinali cosiddetti “inibitori della crescita tumorale” che agiscono contro i tumori in modo più selettivo rispetto alla chemioterapia tradizionale, in quanto riconoscono alcune proteine che si trovano sulla parete o all’interno delle cellule tumorali e bloccano i meccanismi con i quali queste si riproducono».
Angioma, che cos’è e come trattarlo. L’angioma è formato dalla dilatazione sottocutanea di alcuni capillari, ha le sembianze di un puntino dal colore rosso rubino ed è spesso sporgente. Mariangela Cutrone il 14 Maggio 2023 su Il Giornale.
L’angioma è una formazione cutanea che ha le sembianze di un piccolo neo, spesso sporgente dal colore rosso rubino.
Si forma in seguito alla dilatazione sottocutanea di alcuni capillari. Non è assolutamente pericoloso. Si forma indistintamente sulla cute sia delle donne che degli uomini soprattutto dopo i 30 anni e anche durante la vecchiaia soprattutto dopo i settantacinque anni.
Nella sua formazione c’è una componente genetica che predispone alla sua presenza. Può fare la sua prima comparsa anche durante l’infanzia. Ci sono infatti alcuni tipi di angioma definiti prematuri o noti anche come “voglie” che sono presenti sulla pelle del 10% di neonati.
Perché si forma l’angioma
La sua comparsa in età adulta è spesso legata ad alcuni sbalzi ormonali, al vizio del fumo, all’abuso di alcol o all’eccessiva esposizione al sole soprattutto quando non è usata la giusta protezione legata al proprio fototipo. Si riscontra in molte donne durante e dopo la gravidanza per questioni ormonali legati a questa particolare fase. Nella maggior parte dei casi, essendo innocuo, si risolve spontaneamente non lasciando alcun segno o cicatrice cutanea.
Quando però si trova vicino ad un determinato organo e ne compromette il funzionamento può essere necessaria la rimozione. Soprattutto gli angiomi che sono localizzati vicino l’orbita oculare o all’interno del padiglione auricolare o all’interno del naso posso risultare fastidiosi e dannosi. Ben note sono tre categorie di angiomi, ossia gli emangiomi, gli angiomi tuberosi e i linfangiomi.
I primi si presentano ciclicamente. Hanno le sembianze di macchie piatte color rosso- viola. Quelli tuberosi invece sono sporgenti e dall’estensione variabile. I linfangiomi sono molto rari e sono causati da malformazioni linfatiche e possono essere pericolosi se tendono a comprimere gli organi interni.
Quando e come si rimuove l’angioma
Il riconoscimento e la diagnosi precisa dell’angioma è effettuata da un dermatologo con la regolare osservazione. A volte sono necessari esami più approfonditi per cercare di capire la loro estensione. Si decide di rimuoverlo solo per una questione estetica o perché risulta dannoso. Può creare infatti problemi funzionali soprattutto quando localizzato vicino l’occhio o il labbro. Lo sfregamento di queste parti potrebbe provocare delle piccole emorragie essendo l’angioma formato da vasi sanguigni estesi.
Le tecniche di rimozione dell’angioma fanno uso del laser che risulta un metodo molto sicuro ed efficace. Il periodo migliore e consigliato dai dermatologi per rimuoverlo è durante la stagione invernale perché quando ci si sottopone a laserterapia è preferibile non esporsi ai raggi del sole. Inoltre prima del trattamento è vietato assumere farmaci e sostanze fotosensibilizzanti.
Dieci falsi miti (e altrettante verità) sui tumori della pelle. Diagnosi, terapie. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2023
Quasi tutti i tipi di cancro cutaneo sono collegati alle radiazioni ultraviolette provenienti da sole o lettini abbronzanti, ma non solo. Rischia anche chi ha la carnagione scura (Bob Marley morì per un melanoma a soli 36 anni)
Esiste un unico tipo di cancro alla pelle?
«Spesso i tumori cutanei sono benigni: hanno un brutto impatto estetico ma non sono pericolosi – spiega Mario Santinami, direttore della Struttura Complessa Melanoma Sarcoma alla Fondazione Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori Milano -. Quelli maligni sono invece il carcinoma a cellule basali (o basocellulare), il più frequente in assoluto che rappresenta quasi l'80% dei casi, il carcinoma a cellule squamose (o spinocellulare) e, infine, il più aggressivo, il melanoma, che fortunatamente è anche il meno frequente, ma che, se scoperto tardi, può essere letale. Aggressivo e correlato ai raggi UV è pure il carcinoma a cellule di Merkel, fortunatamente è raro, ma proprio per questo poco riconoscibile dai non esperti».
Diverse forme
«I tumori della pelle possono presentarsi sotto innumerevoli forme: alcuni sembrano semplici macchioline rosacee, altre delle piccole ferite aperte, altre ancora appaiono come macchie giallognole che ricordano una cicatrice – chiarisce Paolo Ascierto, direttore dell’Unità Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell'Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale di Napoli -. Ci sono tumori che hanno l’aspetto di una verruca, altri che compaiono come escrescenze più o meno grandi, altri ancora sono nei con forme e colori particolari. È difficile quindi stilare un catalogo delle caratteristiche da tenere sotto controllo. La cosa fondamentale è ispezionarsi regolarmente la pelle (meglio farlo in coppia, oppure davanti a uno specchio) e, se si notano anomalie, parlarne subito con un dermatologo».
Nei, occhio non solo a colore e dimensione
Non è solo il colore o la dimensione a dover essere un campanello d’allarme. «Per quanto riguarda i nei, è fondamentale che le persone imparino l’abitudine di auto-controllarsi la pelle alla ricerca di eventuali cambiamenti che devono insospettire e far prenotare una visita dal dermatologo ogni qual volta si noti qualcosa di strano — sottolinea Santinami—. Bisogna concentrarsi sulle lesioni diverse dalle altre, non a caso il melanoma è spesso indicato come il “brutto anatroccolo”. Il metodo più semplice è quello noto, in tutto il mondo, come ABCDE, uno schema in cinque punti molto semplice: A sta per asimmetria, B per bordi, C per colore, D per diametro ed E per evoluzione. Se un neo cambia in uno di questi aspetti è meglio non temporeggiare e andare dallo specialista. Tenendo anche presente che maggiore è il numero di nei presenti sul corpo di una persona, maggiore è la possibilità che sviluppi un tumore cutaneo. È quindi essenziale monitorare la comparsa di nuovi nei e i cambiamenti che dovessero caratterizzare nei già esistenti».
Attenzione alle scottature
Tutti i tumori si verificano quando il DNA delle cellule accumula errori che fanno sì che la cellula cresca senza controllo e formi una massa di cellule cancerose. Nel caso dei tumori della pelle, la principale causa di danno al DNA (ma non l’unica) è l’esposizione ai raggi ultravioletti contenuti principalmente nella luce solare e nelle lampade abbronzanti. L’entità del danno è condizionata da molti fattori: il tipo di pelle, l’intensità del sole (in base anche all'ora del giorno), il luogo in cui ci si trova. «Le bruciature, troppo spesso sottovalutate, possono diventare un serio problema perché alla lunga finiscono per favorire la formazione di una neoplasia – ricorda Ascierto —. A rischiare di più un melanoma sono le persone che appartengono al fototipo cutaneo chiaro (occhi, pelle e capelli chiari) spesso con lentiggini, capelli biondi o rossi, cute molto sensibile al sole che devono proteggersi più degli altri».
Chi ha la pelle scura non rischia?
Chiunque può sviluppare un tumore cutaneo, indipendentemente dalla razza o dal colore della pelle. L’etnia africana ha bassi numeri di certi tipi di melanoma che sono più frequenti tra i caucasici, ma l’incidenza è pari o anche superiore per il melanoma acrolentigginoso del piede (una rara e aggressiva forma che fu letale per il cantante Bob Marley) e quello delle mucose. Altro discorso va fatto invece e per le persone con carnagione olivastra: i «più scuri» fra i bianchi sono molto più colpiti dai tumori cutanei degli africani e, sebbene meno esposti al pericolo ustioni rispetto a chi è più chiaro di loro, tendono a farsi controllare meno i nei e a proteggersi in maniera meno adeguata.
Lampade e lettini abbronzanti
Anche senza scottarsi, lampade e lettini abbronzanti non fanno bene alla salute. Tanto che nel 2009 sono stati catalogati dall’Organizzazione mondiale della sanità fra le sostanze cancerogene certe (nella stessa categoria di pericolo di fumo, amianto e arsenico) e che dal 2011 in Italia sono stati vietati a minorenni e donne incinte perché accusati di far crescere considerevolmente il rischio di sviluppare tumori cutanei (soprattutto gli epiteliomi). «Il sole fa bene alle ossa e all’umore. Uno dei suoi effetti principali è lo stimolo della sintesi di vitamina D, un vero toccasana per rafforzare le ossa e contro malattie infettive, autoimmuni e cardiovascolari – ricorda Ascierto -. Per questo la regola per esporsi è una: basta proteggersi, anche in considerazione del proprio tipo di carnagione».
Colpa dei raggi UV
«Le probabilità di sviluppare una neoplasia aumentano con l’avanzare dell’età, anche per via dell’effetto cumulativo dell’esposizione alle radiazioni che si “immagazzinano” negli anni – chiarisce Santinami –, ma non tutto dipende dal sole. Ci sono altri fattori che possono esporre a rischi maggiori di cancro alla pelle: ad esempio alcuni trattamenti con radiazioni e alcuni medicinali che sopprimono l’attività del sistema immunitario somministrati a pazienti sottoposti a trapianto d’organo. È poi stato identificato un legame tra il tabacco e il carcinoma squamocellulare, specie nell’area delle labbra. L’Hiv, lo stesso virus che causa l’Aids, nell’indebolire tutto il nostro sistema immunitario può favorire anche l’insorgenza di carcinomi della pelle (basaliomi e spinaliomi). E poi c’è la genetica: in alcuni casi il melanoma può essere ereditario». I dati statistici indicano che chi ha già avuto un carcinoma basocellulare, squamocellulare o un melanoma ha maggiori probabilità, rispetto alla popolazione generale, di svilupparne un altro. Il 10% dei pazienti colpiti da un melanoma ha almeno un parente di primo grado con la stessa neoplasia.
Il melanoma interessa solo la pelle?
Alcune forme di melanoma possono interessare gli occhi e le membrane mucose, in particolare di naso, bocca o labbra. Si tratta di casi molto rari, ma in generale l’incidenza del melanoma cutaneo è in costante aumento (specie tra i giovani adulti), tanto che in Italia nell’ultimo decennio siamo passati da 7mila a 14mila nuovi casi annui e questo è diventato il terzo tipo di cancro più comune sotto i 50 anni.
Rimozione chirurgica
«Se la diagnosi è tempestiva, la cura può consistere nella semplice rimozione chirurgica e il paziente può considerarsi guarito – dice Santinami –, ma le cose si complicano quando la malattia viene scoperta tardi. Anche tumori “buoni” come basalioma e spinalioma possono richiedere terapie più complesse e creare gravi disagi, specie quando interessano il volto. Il melanoma, poi, in stadio avanzato e metastatico è una neoplasia molto aggressiva e letale: nonostante i molti progressi fatti negli ultimi anni resta una neoplasia che causa migliaia di decessi ogni anno e per curarlo, oltre al bisturi, serve l’immunoterapia».
Protezione solare anche in città
Tutto dipende dal proprio tipo di pelle: chi ha maggiori probabilità di bruciarsi (bambini, anziani, fototipi chiari, persone che assumono farmaci fotosensibilizzanti come alcuni antibiotici, diuretici, FANS, contraccettivi orali e retinoidi sistemici) deve utilizzare sempre la crema protettiva, specie se si esce nelle ore più calde, e indossare magliette, occhiali, cappellini. Anche una passeggiata in città può rappresentare un pericolo. La cosa fondamentale è evitare le scottature.
I sarcomi possono colpire qualunque parte del corpo: che cosa sono e cosa serve sapere. Vera Martinella su Il Corriere della Sera venerdì 28 luglio 2023.
Esistono un centinaio di sottotipi diversi di sarcomi, tumori rari che interessano bambini, adolescenti e adulti. Serve una diagnosi precisa e un centro con esperienza per ottenere le terapie più indicate.
Sono circa 3.500 gli italiani che ogni anno devono fare i conti con un sarcoma, tumore raro che comporta molte difficoltà per i pazienti. A partire dalla diagnosi che spesso avvieni in ritardo ed complicata anche perché esistono circa 100 diversi tipi istologici (i sarcomi che interessano i tessuti molli sono i più frequenti, mentre molto più rari sono quelli dell'osso e quelli stromali gastrointestinali), fino alle terapie, per le quali è fondamentale affidarsi a un centro specializzato. Proprio per aiutare malati e familiari è stata organizzata a luglio, mese dedicato a queste neoplasie a livello internazionale, la campagna di sensibilizzazione e informazione «Pazienti, esperti e istituzioni insieme nella sfida ai sarcomi», promossa e organizzata da Fondazione Paola Gonzato-Rete Sarcoma ETS, che punta a migliorare il percorso dei pazienti e a fornire strumenti utili per orientarsi nel percorso di malattia, senza dimenticare l'aspetto psicologico e la qualità di vita dei diretti interessati.
Sarcomi, cosa serve sapere
A rendere particolarmente complesse queste neoplasie non c'è soltanto la rarità (interessano meno di 5 persone su 100mila all’anno, alcuni ultra rari meno di una persona su un milione), ma anche il fatto che possono colpire tutte le fasce di età (bambini, adolescenti, adulti), da quella pediatrica a quella tardo adulta, e che possono interessare qualsiasi zona del corpo. «Quando parliamo di sarcomi parliamo di diverse patologie - spiega Franca Fagioli, direttore del Dipartimento Patologie e Cura del Bambino all'Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino -. Sono tumori dei tessuti connettivi che si trovano ovunque nell'organismo perché sono i tessuti di “sostegno” del corpo: muscoli, osso, nervi, cartilagine, tendini, strati profondi della pelle, vasi sanguigni, tessuto adiposo. Le varie neoplasie poi vengono suddivise in numerosi sottogruppi anche sulla base delle caratteristiche biomolecolari. A seconda dell’istotipo e dell’estensione della malattia la prognosi può cambiare e avere una diagnosi accurata, precisa, è un passo indispensabile per scegliere la terapia migliore possibile». Ulteriori difficoltà derivano poi dal fatto che i sarcomi non presentano sintomi specifici in fase iniziale così vengono spesso diagnosticati tardi, non riconosciuti, confusi con patologie traumatiche o tumori benigni molto più frequenti.
Diagnosi
Prima di iniziare qualsiasi trattamento terapeutico è necessaria una diagnosi che deve essere sempre una diagnosi patologica, eseguita tramite una biopsia. «La diagnosi istopatologica dei tumori rari è molto problematica e, come per le cure, l'esperienza è decisiva - prosegue Paolo Casali, -. Il problema è che i centri di riferimento nei tumori rari per definizione sono pochi, quindi i malati hanno da gestire un ulteriore problema logistico: la distanza verso l'ospedale specializzato, non sempre così semplice da individuare. Le reti dovrebbero essere la soluzione, ma la Rete Nazionale Tumori Rari, frutto di una intesa Stato-Regioni del 2017, non è stata ancora istituita, però almeno abbiamo la lista dei centri che dovrebbero partecipare e questo è un passo molto importante». A cinque anni dalla diagnosi è vivo, in media, il 55% dei malati. «Le probabilità migliorano significativamente se i pazienti sono trattati in maniera appropriata fin dall’inizio in centri specialistici all’interno di reti dedicate - sottolinea Ornella Gonzato, fondatrice e presidente della Fondazione Paola Gonzato Rete Sarcoma ETS -. I dati disponibili mostrano che oltre il 30% delle diagnosi di sarcoma sono inaccurate: a causa della rarità e complessità biologica dei sarcomi, nonché della complessità delle tecnologie e delle competenze specialistiche necessarie, la diagnosi deve essere effettuata da patologi esperti nei sarcomi. È di vitale importanza che malati e familiari ne siano a conoscenza».
Terapie
La terapia va, infatti, prescritta in base allo specifico istotipo. La valutazione di ogni paziente da parte di un team multidisciplinare di specialisti è essenziale per la decisione del trattamento: «Si tratta perlopiù di cure multidisciplinari (chemioterapia, chirurgia con o senza radioterapia o immunoterapia) - aggiunge Fagioli -. Non ci sono tante differenze fra bambino e adulto, ma è importante tenere conto di tante variabili correlate al tipo della malattia ed essere seguiti da centri specialistici esperti nel trattamento dei sarcomi».«I pazienti con sarcoma soffrono non solo per la malattia ma anche per una gestione ancora sub-ottimale dell’assistenza, che impatta direttamente sulla loro vita, sia in termini di probabilità sopravvivenza sia di qualità, oltre a incidere su costi sanitari e sociali - conclude Gonzato -. Eppure, il modello della Rete Nazionale Tumori Rari, “cerniera” tra le Reti di Riferimento Europee (ERN) e le Reti Oncologiche Regionali (ROR), quale rete virtuale di teleconsulti, capace di muovere conoscenze e competenze specialistiche prima che malati, non è ancora pienamente operativo. In questo contesto, le organizzazioni pazienti hanno un ruolo cruciale perché costituiscono un “ponte” tra i bisogni dei malati e i clinici, i ricercatori e le istituzioni, interlocutori fondamentali nel processo di continua, ma faticosa, evoluzione per il miglioramento dell’assistenza e della ricerca. Le organizzazioni di pazienti possono non solo far da ponte ma accelerare il processo, cercando di stimolare e co-progettare, assieme a esperti e istituzioni, un sistema migliore».
Linfoma cutaneo, il tumore (per lo più maschile) difficile da riconoscere. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2023
La diagnosi è complessa perché esistono diversi sottotipi e i sintomi sono diversi, spesso confusi con quelli di altre malattie della pelle. Così i pazienti impiegano anche tre o quattro anni prima di sapere che cos’hanno
È un tumore poco conosciuto e di diagnosi complessa perché ne esistono numerosi sottotipi con caratteristiche diverse e sintomi variabili, non di rado molto simili a quelli di malattie comuni della pelle. Così quei circa 500 italiani ai quali ogni anno viene diagnosticato un linfoma cutaneo devono fare i conti con una serie di problemi aggiuntivi, perché i sintomi e segni possono essere all’inizio fuorvianti e può essere necessario molto tempo (anche tre o quattro anni) prima di incontrare uno specialista esperto in grado di arrivare a una diagnosi precisa.
Identikit del paziente
Il linfoma cutaneo fa parte dei linfomi non-Hodgkin è un tumore del sistema linfatico che ha origine nella pelle a partire da cellule del sistema immunitario, chiamate linfociti. Si tratta, in realtà di un gruppo eterogeneo di malattie del sistema linfatico che coinvolgono i linfociti, con la cute come organo interessato all'esordio e, spesso, come unico organo colpito. Non è affatto semplice classificarli in modo preciso perché ne esistono diverse varianti e per di più si tratta di tumori non molto frequenti. «Colpisce soprattutto le persone sopra i 50 anni ed è complessivamente più comune negli uomini rispetto alle donne, anche se la prevalenza di genere varia nei diversi sottotipi» spiega Nicola Pimpinelli, ordinario di Dermatologia all’Università di Firenze, fra i maggiori esperti italiani in questa patologia.
Quali sono i sintomi
«I sintomi e segni iniziali sono variabili a seconda dei sottotipi e possono cambiare nel tempo — continua Pimpinelli, che con altri colleghi esperti coordina la ricerca clinica sul linfoma cutaneo all’interno sia della Società italiana di Dermatologia e Venereologia (SIDeMaST) sia di gruppi multidisciplinari nazionali e internazionali —. Sostanzialmente ci sono casi che iniziano sotto forma di macchie e chiazze superficiali, arrossate e talvolta desquamanti, accompagnati da intenso prurito, che nel corso di mesi o addirittura anni possono estendersi a tutta (o quasi) la superficie corporea oppure ispessirsi fino a diventare placche o noduli o anche grossi tumori. Mentre in altri casi le lesioni iniziali sono già placche o noduli di dimensioni variabili, che in tempi più o meno lunghi crescono fino a diventare grossi noduli o tumori».
A causa del ritardo diagnostico, poi, i malati spesso soffrono di problemi del sonno, con conseguente stanchezza cronica, e di depressione dovuti al disagio provocato sia dai disturbi della pelle sia dall’intenso prurito.
Come si effettua la diagnosi
Capita spesso che, almeno inizialmente, le lesioni cutanee vengano scambiate per una diversa patologia della pelle, come psoriasi e dermatite, o per un'infezione. Per arrivare a una diagnosi ben definita serve una visita approfondita con uno specialista dermatologo, che deciderà come procedere. La biopsia è l'esame fondamentale (si preleva un piccolo campione di pelle della regione sospetta e lo si analizza al microscopio, anche al fine di identificare specifici marcatori presenti sulla membrana delle cellule tumorali o gli eventuali cambiamenti in geni e cromosomi) per identificare il sottotipo; bisogna poi procedere con ulteriori indagini (analisi del sangue, Tac, Pet ed eventuale biopsia del midollo osseo) per capire se la malattia è eventualmente estesa ai linfonodi e agli organi interni.
Quali sono i sottotipi
«La prima suddivisione dei linfomi cutanei si basa sull'identificazione del tipo di linfociti coinvolti nella crescita del tumore — chiarisce Pimpinelli —: esistono infatti linfomi cutanei a cellule T, che coinvolgono i linfociti T (cellule immunitarie che difendono l’organismo dai microrganismi attaccandoli direttamente o producendo sostanze che aiutano a sconfiggerli) e linfomi cutanei a cellule B, le cellule immunitarie responsabili della produzione degli anticorpi». La micosi fungoide, il più conosciuto tipo di linfoma a cellule T, è anche la forma più diffusa di linfoma cutaneo. In alcuni casi la malattia può evolvere e trasformarsi in sindrome di Sézary (più rara ma più aggressiva), che in realtà rappresenta una patologia distinta e può svilupparsi e presentarsi indipendentemente dalla micosi fungoide.
La cure a disposizione
L’obiettivo delle cure è alleviare sintomi come dolore, prurito, bruciore e arrossamento, controllare la malattia e fornire una la migliore qualità di vita possibile. Grazie alla ricerca medico-scientifica oggi sono disponibili nuove terapie per i linfomi cutanei che hanno dimostrato di poter ritardare la progressione della malattia. È fondamentale, per arrivare a una diagnosi precisa e stabilire la terapia più indicata nel singolo paziente, un lavoro multidisciplinare tra dermatologo ed ematologo.
«I metodi di cura del linfoma cutaneo variano in base ai sottotipi e allo stadio di malattia, se è interessata solo la cute o se ci sia già un coinvolgimento ematico o dei linfonodi — conclude l’esperto —. I trattamenti son sostanzialmente distinguibili in terapie dirette alla cute (fototerapia, chemioterapia topica), radioterapia e terapie sistemiche (modificatori della risposta biologica, chemioterapia, immunoterapia, immuno-chemioterapia). Per i pazienti con malattia ad alto rischio, inoltre, può rendersi necessario il ricorso al trapianto di cellule staminali». Ad oggi, nei pazienti che regrediscono l’obiettivo non è solo la remissione ma anche ottenere una risposta stabile nel tempo.
Tumori alla bocca, i sintomi a cui fare attenzione per limitare i rischi ed evitare trattamenti demolitivi. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2023.
Candidosi, protesi dentali trascurate, cattiva igiene orale, fumo e alcol aumentano il pericolo. Questo tumore aggredisce lingua, gengive, guance, palato e labbra. Ogni anno 4mila nuove diagnosi in Italia
Candidosi, protesi dentali trascurate, cattiva igiene orale, parodontite, fumo e alcol: la prevenzione dei tumori passa anche dall'attenzione alla salute della bocca. Ogni anno, in Italia si registrano circa 4mila nuovi casi di carcinoma orale che viene, molto spesso, diagnosticato in fase avanzata anche perché molte persone non sono consapevoli che il cancro possa colpire anche quest'area e aspettano mesi prima di chiedere un parere al medico o al dentista. «La diagnosi precoce di questo tipo di neoplasia è semplice e non richiede metodi invasivi - sottolinea Andrea Edoardo Bianchi, direttore del Comitato tecnico-scientifico dell’Istituto Stomatologico Italiano di Milano -. Se il tumore viene individuato ai primi stadi non solo le probabilità di guarire definitivamente sono maggiori, ma è possibile anche intervenire con una chirurgia conservativa ed evitare trattamenti demolitivi con conseguenze gravemente invalidanti, specie quando si parla del viso».
Attenzione a questi sintomi
Il cavo orale comprende lingua, gengive, guance, pavimento (ovvero la parte inferiore) della bocca, palato e labbra. Tumefazioni ed escrescenze, lesioni bianche o rossastre e ferite che non si rimarginano spontaneamente possono essere la manifestazione di lesioni pre-tumorali o tumorali e spesso basta una visita con il medico di base o il dentista per individuare segnali sospetti e iniziare i dovuti accertamenti. Capire se qualcosa non va è «semplice» perché si tratta di disturbi ben visibili, ma ancora troppe persone li trascurano.
La prevenzione
In occasione del World Cancer Day, che si celebra il 4 febbraio, dall'Istituto Stomatologico ricordano le principali norme di prevenzione per limitare il rischio di cancro alla bocca. «Per prevenire questi tumori, è importante un corretto stile di vita, curare l’igiene orale, fare particolarmente attenzione ai microtraumi cronici della mucosa della bocca dovuti alle protesi dentarie - dice Bianchi, specialista in chirurgia maxillo facciale -. Fumo e alcol, specie associati tra loro, fanno lievitare le probabilità di ammalarsi. Le più ricorrenti infezioni al cavo orale riguardano i denti e i tessuti parodontali di supporto come la gengiva, il legamento parodontale e l’osso: di norma nel primo arco della vita determinano patologie cariose, ma in seguito possono causare gengivite e parodontite profonda (comunemente chiamata piorrea). Alcuni studi hanno dimostrato anche un’associazione tra parodontite grave e tumori di altri distretti, una correlazione che può essere spiegata dal passaggio di batteri patogeni dalla bocca al resto del corpo, in particolare al tratto digerente».
Il microbiota della bocca per la salute di tutto il corpo
Mantenere un buono stato di salute della bocca è quindi importante anche per evitare che un’infiammazione dei tessuti duri e molli del cavo orale possa essere direttamente o indirettamente mediatrice di patologie a distanza. «Pure le carie destruenti tali da determinare fratture della dentina e dello smalto sono cause traumatiche per la lingua e le guance rappresentando un fattore di rischio per un’eventuale trasformazione di lesioni dei tessuti molli in tumori maligni del cavo orale» aggiunge l'esperto. Non va trascurata neppure la candidosi orale, un'infezione che può portare all'insorgenza di carcinoma squamocellulare. «I meccanismi d'azione che fanno salire il rischio paiono diversi: l’aumentata attività infiammatoria, l’immunosoppressione, la promozione della trasformazione maligna, la secrezione di agenti cancerogeni - dice Bianchi -. Dalla ricerca scientifica arrivano dati che illustrano sempre più sia la centralità del microbiota orale per la salute di tutto l'organismo sia la forte influenza che la malattia parodontale può avere non solo sul rischio di tumore, ma anche sull’aggravamento di malattie infiammatorie croniche (in primis l’aterosclerosi, con l’interessamento di organi bersaglio come cuore e rene) e sui meccanismi di insulino-resistenza che possono aggravare il diabete».
Regola uno: pulizia
Secondo uno studio commissionato da Straumann Group nel 2022 durante gli anni di pandemia oltre la metà degli italiani ha trascurato la salute della bocca, complice anche l'uso della mascherina. Diversi i motivi: timore del virus, costo delle visite dentistiche, problemi economici, minor frequenza con cui ci si rapporta alle persone e, in minima parte, anche una bassa per l’igiene. «È invece fondamentale eseguire scrupolosamente la pulizia quotidiana dei denti e delle protesi - conclude lo specialista -. Così come decisivo è curare la malattia parodontale nelle sue cause e, quando possibile, sostituire protesi mobili con protesi fisse attraverso metodiche implanto-protesiche comprovate. L’implantologia dentale, condotta attraverso rigidi protocolli scientifici, è una realtà terapeutica che permette una migliore qualità di vita e talvolta evita possibili lesioni determinate dal movimento o dall’affondamento nei tessuti orali di protesi mobili instabili, possibile causa dell’insorgenza di alterazioni delle cellule».
Tumore alla gola: quali sono i sintomi e le cure disponibili. Sono molteplici le cause che danno origine al tumore alla gola: ecco quali sono e le possibili soluzioni di cura in base allo stato della malattia. Alessandro Ferro il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Quali sono i sintomi
Quali sono le cause
Le cure disponibili
Anche se non è molto diffuso, il tumore alla gola è una neoplasia che colpisce laringe, faringe e le tonsille del palato, in pratica le strutture anatomiche che compongono la gola. Tra gli ultimi dati disponibili si sa che la malattia colpisce normalmente gli over 60 e maggiormente a rischio sono gli uomini con un rapporto di quattro casi a uno rispetto alle donne.
Quali sono i sintomi
Senza farsi prendere dal panico, la sintomatologia iniziale è quella classica che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sperimentato: mal di gola, raucedine e difficoltà a deglutire. Altri segnali della malattia riguardano uno strano dolore alle orecchie, linfonodi ingrossati e la perdita di peso. È chiaro che non è necessario fare esami specifici se questi segnali passano in fretta come accade nella stragrande maggioranza dei casi quando si ha, ad esempio, la classica influenza stagionale. Viceversa, se il problema persiste per almeno un paio di settimane ed è particolarmente grave, bisogna rivolgersi agli specialisti che indagheranno con biopsia, endoscopia, laringoscopia e la diagnostica per immagini. Nel caso di voce rauca, ad esempio, bisogna tenere come campanello d'allarme la durata per più di 2-4 settimane.
Quali sono le cause
Così come avviene per tante altre tipologie di tumore, quello alla gola è dovuto innanzitutto a mutazioni genetiche che colpiscono le cellule di quell'area dell'organismo che, tutt'ora, sono ancora per lo più sconosciute. Tra i fattori di rischio esterni, invece, compaiono:
abuso di tabacco (dalle sigarette alla pipa)
abuso di alcol
papilloma virus
dieta con poca frutta e orgaggi
età avanzata
Gli esperti spiegano, poi, che a essere maggiormente esposti al cancro alla gola anche quei lavoratori che per anni sono stati a contatto con sostanze tossiche respirate nell'aria (quindi chi lavora in fabbrica e in alcune tipologie di industrie). Del tumore alla gola ci sono quattro stadi:
nel primo, la neoplasia è ridotta e le metastasi non sono ancora molto diffuse;
il secondo ha un tumore più esteso ma in un'area ben definita;
il terzo stadio può presentare metastasi anche diffusi ad altri organi o possono interessare, ad esempio, tutta la laringe;
il quarto e ultimo stadio mette in luce i tumori più gravi che hanno già contaminato altri organi oltre alla gola.
Le cure disponibili
Per curare questo cancro, lo specialista deve prima capire qual è la situazione del paziente per operare la scelta migliore: questo dipende dallo stadio della malattia, la grandezza della massa tumorale e lo stato di salute generale della persona che necessita di essere curata. In questo senso, tra i vari trattamenti abbiamo:
radioterapia;
chemioterapia;
trattamenti chirurgici mirati per rimuovere tumore ed eventuali linfonodi;
laringectomia (asportazione della laringe);
faringectomia (asportazione della faringe);
terapia mirata (medicinali specifici);
immunoterapia.
Tumore al polmone, scoperto meccanismo resistente all'immunoterapia. Una proteina regolerebbe, in maniera positiva o negativa, la risposta immunoterapica per il tumore al polmone: ecco di cosa si tratta e perchè è così importante questa scoperta per i nuovi trattamenti. Alessandro Ferro l'11 Settembre 2023 su Il Giornale.
Importanti passi in avanti nella lotta al tumore del polmone: alcuni ricercatori dell'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena (Ire) di Roma hanno scoperto un nuovo meccanismo che resiste all'immunoterapia utilizzata per questo tipo di malattia. Nel dettaglio, è stata individuata una proteina come fattore "chiave" che innesca il meccanismo. Lo studio è stato pubblicato sul Journal for immunotherapy of cancer: si prospetta un futuro diverso grazie a nuove terapie per i pazienti che non hanno risposte soddisfacenti alle cure immunoterapiche.
Cosa succede con la proteina
Come detto, c'è una proteina chiamata hMENA che può esistere in due varianti: "una svolge un'azione anti-invasiva, l'altra al contrario favorisce la progressione del tumore. I risultati dello studio dimostrano che la minore espressione della variante 'buona 'di hMENA, anti-invasiva, attiva nella cellula tumorale dei segnali che mimano la presenza di un virus", ha spiegato un comunicato dell'Ire. Se si innesca questo meccanismo, ecco che arriva la produzione di interferone (tipologia 1) che ha effetti benefici e anti-tumorali. Lo stesso interferone, però, se viene prodotto in continuazione può causare l'effetto opposto, ossia una maggiore aggressività delle cellule tumoral creando i presupposti per l'inefficacia dell'immunoterapia.
La risposta dei ricercatori
"Alcuni anni fa, il nostro gruppo di ricerca aveva dimostrato che la proteina hMENA produce diverse forme proteiche", ha spiegato Paola Nisticò, dirigente del laboratorio di immunologia all'Ire. Le due varianti di hMena sono coinvolte nella progressione o riduzione del tumore a seconda del meccanismo che si innesca e di cui abbiamo appena parlato. "I pazienti che non hanno la versione anti-invasiva di hMENA sono a maggiore rischio di ricaduta e per questo potrebbero essere candidati a una terapia post-chirurgica mirata", sottolinea l'esperta.
L'ultimo studio ha messo in luce che la proteina, quando è in modalità anti-invasiva, attiva un sensore virale e, per questa ragione, numerosi mediatori dell'infiammazione possono diventare immunosoppressivi. Questi dati sperimentali ottenuti "possono rappresentare una nuova frontiera nella medicina di precisione per selezionare i pazienti da trattare con l'immunoterapia". Questa ricerca è stata finanziata dall'Airc e condotta dalla dottoressa Paola Trono, adesso ricercatrice del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e da Annalisa Tocci dell'Unità di Immunologia e Immunoterapia dell'Ire.
I numeri italiani
Nel nostrro Paese il tumore al polmone è la seconda tipologia di cancro più frequente negli uomini e la terza nelle donne: nel 2020 sono stati diagnosticati 41mila nuovi casi ma, negli ultimi anni, sono stati molto importanti i progressi della prevenzione con le diagnosi precoci oltre a trattamenti molecolari e immunoterapici. "Gli inibitori dei check-point immunitari hanno rivoluzionato le possibilità di cura di questa neoplasia, anche se solo in una percentuale dei pazienti la risposta è efficace", hanno spiegato gli esperti. Ecco perché questo studio dà un nuovo slancio per comprendere nuovi meccanismi di resistenza e attuare nuove e più efficaci cure nel prossimo futuro.
Tumore al polmone, nuova cura rallenta la malattia nei pazienti con una mutazione genetica rara. V. Mart. su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023.
Un farmaco allunga la sopravvivenza di chi ha un sottotipo di carcinoma non a piccole cellule in stadio avanzato e non trae benefici dalla chemioterapia
Il tumore ai polmoni resta un «osso duro» da affrontare anche perché, poiché non da sintomi chiari agli esordi, più del 70% dei pazienti arriva alla diagnosi quando la neoplasia è già in stadio avanzato e inevitabilmente più difficile da curare. Negli ultimi anni però la ricerca scientifica ha fatto progressi importanti: sono state scoperte diverse mutazioni genetiche responsabili della malattia e, di conseguenza, messi a punto diversi nuovi farmaci in grado di bloccarne o rallentarne l'avanzata con il risultato di far guadagnare ai pazienti mesi e persino anni di vita. Proprio per i malati con una forma rara di carcinoma polmonare non a piccole cellule, legata a una specifica e poco diffusa alterazione del Dna, è da poco stato approvata anche dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) una nuova molecola che può essere prescritta a chi ha un tumore in fase avanzata e non ottiene risultati dalla chemioterapia.
Una mutazione rara e «aggressiva»
Amivantamab è un anticorpo bispecifico completamente umano e viene rimborsato dal Servizio sanitario nazionale per i pazienti adulti con carcinoma polmonare avanzato, con mutazioni da inserzione dell’esone 20 attivanti del recettore del fattore di crescita dell'epidermide (EGFR), dopo il fallimento della chemioterapia a base di platino. «I pazienti con questo specifico sottotipo di cancro hanno a disposizione poche opzioni terapeutiche, non solo per numero ma anche per efficacia — spiega Filippo de Marinis, direttore della Divisione di Oncologia toracica e vicedirettore del Programma sul carcinoma polmonare all'Istituto Europeo di Oncologia di Milano —. Basti pensare che solo l’8% delle persone con questa mutazione sopravvive a cinque anni dalla diagnosi». Sono circa 41mila i nuovi casi di tumore al polmone diagnosticati ogni anno in Italia e circa il 15% (più o meno seimila persone in tutto) presenta una mutazione di EGFR. Nel 10% dei casi la mutazione EGFR è un’inserzione dell’esone 20: un gruppo di mutazioni non comuni su una proteina che causa una rapida crescita delle cellule, e di conseguenza, aiuta il cancro a diffondersi e proliferare. Per questo sottogruppo di malati, all'incirca 600, il rischio di progressione della neoplasia è molto elevato: «Parliamo di un rischio maggiore del 93% rispetto alle mutazioni più comuni dell’EGFR — continua de Marinis —. In questo contesto, l’arrivo di amivantamab in Italia è un traguardo importante perché rappresenta la prima terapia specifica per chi soffre di questa tipologia di cancro al polmone. Inoltre gli studi clinici condotti con questo farmaco hanno mostrato una superiorità rispetto alle terapie standard in termini di efficacia, permettendo di raddoppiare l’aspettativa di vita dei pazienti».
Un esame fa la differenza
Indagare se e quali alterazioni genetiche sono presenti all'interno della neoplasia di ciascun paziente è quindi un passo fondamentale: «È un’informazione che può fare una grande differenza — sottolinea Silvia Novello, professore di Oncologia medica presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e responsabile della Struttura di Oncologia toracica al San Luigi Gonzaga di Orbassano —: è anche in base alle eventuali mutazioni del Dna, infatti, che per molti tipi di cancro oggi si decide la terapia. Gli oncologi optano per un farmaco o una combinazione di medicinali proprio in base al cosiddetto “profilo molecolare” della neoplasia. I test genetici, soprattutto la Next-Generation Sequencing (NGS), sono insomma uno strumento cardine non solo per una corretta diagnosi, ma anche per un approccio personalizzato alla terapia dei tumori, inclusi ovviamente quelli polmonari con le mutazioni da inserzione dell’esone 20 dell’EGFR». Gli studi che hanno portato all'approvazione di amivantamab hanno dimostrato una sopravvivenza mediana dei pazienti libera da progressione di malattia (ovvero il tempo trascorso senza che il tumore avanzi) di poco più di 8 mesi e una sopravvivenza globale media di quasi 23 mesi.
Rallentare la neoplasia
«Circa il 75% dei pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule è in stadio terzo o quarto (il più avanzato) al momento della diagnosi, quando sono già presenti metastasi — prosegue Novello, che è anche presidente di Women against lung cancer in Europe (Walce) —. Purtroppo, infatti, i sintomi della malattia sono poco specifici: tosse, affaticamento, dolore al petto, dispnea, perdita di peso. Anche per questo è importante che le persone più a rischio di ammalarsi, cioè i forti fumatori attuali o ex, si sottopongano all'esame di screening con Tac spirale che oggi è disponibile gratuitamente in molti Centri e smettano di fumare prima possibile». Nei pazienti con un tumore avanzato, rallentare l'evoluzione della malattia e guadagnare tempo con una buona qualità di vita sono gli obiettivi ai quali oggi è possibile puntare. «La nuova terapia rappresenta una speranza per tutti coloro che soffrono di questa tipologia di carcinoma polmonare, sia in termini di allungamento della prospettiva di vita, sia di miglioramento della qualità — conclude Bruno Aratri, presidente Associazione IPOP (Insieme per i pazienti di oncologia polmonare) —. Ci auguriamo che queste cure innovative, sempre più mirate ed efficaci, siano rese disponibili in tempi rapidi ed equamente garantite su tutto il territorio nazionale ai pazienti che ne hanno bisogno».
Nuove terapie per il cancro al polmone. Daniela Mattalia su Panorama il 27 Gennaio 2023
In futuro, grazie anche a finanziamenti dell’AIRC, sarà possibile curarsi con molecole che aggrediscono in maniera selettiva le cellule protumorali Nuove terapie per il cancro al polmone
Tra i vari tipi di tumore, quello al polmone è tuttora uno dei più difficili e aggressivi. Anche perché quasi sempre metastatizza rendendo lontana, se non impossibile, la guarigione. Per questo , nei vari studi finanziati da Fondazione AIRC, una particolare attenzione è rivolta al cancro polmonare. Uno dei lavori più interessanti, in questo senso, è quello condotto dall’équipe di Rita Mancini dell’Università La Sapienza di Roma che a Panorama spiega i progressi e l’obiettivo finale delle sue ricerche (pubblicate sulla rivista Journal for Immunotherapy opf cancer).
Che tipo di cancro è l’adenocarcinoma polmonare? «È la forma più diffusa di tumore e colpisce soprattutto i fumatori. Purtroppo ancora oggi quello al polmone è la principale causa di morte per cancro al mondo. Oggi però ci sono nuove possibilità di cura, come l’immunoterapia... L’immunoterapia, che mira a riattivare le cellule del sistema immunitario contro quelle neoplastiche, ha cambiato un po’ scenario terapeutico per diversi tipi di tumore. Il tasso di risposta tuttavia è ancora basso, solo 20-30 per cento dei pazienti con adenocarcinoma trae beneficio da questi trattamenti». Come mai? «Quasi sempre a causa di meccanismi di resistenza del tumore, in parte dipendenti dalle caratteristiche delle cellule maligne, in parte legati al microambiente tumorale». Che cos’è esattamente il microambiente tumorale? «È tutto ciò che si trova intorno alle cellule tumorali e che è costituito da un lato da cellule immunitarie anti-tumorali, comprese cellule T e B del sistema immunitario, dall’altro da cellule che hanno invece una funzione pro-tumorale, tra cui i macrofagi, le cellule T regolatorie, i mastociti e così via, che nel tempo finiscono per predominare. È questo il motivo per cui il sistema immunitario non riconosce il cancro come qualcosa di estraneo ma che fa parte del nostro organismo». E in questo scenario come si inserisce il vostro lavoro? «Nel nostro studio, finanziato da Airc in collaborazione con l’Istituto Regina Elena di Roma, siano andati a esplorare proprio il microambiente tumorale. Mi spiego meglio: studiamo i versamenti pleurici di pazienti con adenocarcinoma del polmone. Dentro questi versamenti ci sono sia le cellule tumorali metastatiche che quelle del microambiente. Noi isoliamo le cellule tumorali e, grazie a nuove tecniche, possiamo identificare le firme molecolari specifiche del microambiente». Come fate nel concreto? «In laboratorio, dalla sacca del versamento pleurico del paziente isoliamo le cellule immunitarie, ne estraiamo Dna e Rna e poi Con l’aiuto di bioinformatici, biologi e medici otteniamo quei geni oggetto che rappresentano, come dicevo, la firma del tumore». Che risultati avete ottenuto finora? «E con quali ricadute concrete sul piano clinico? In laboratorio, dalla sacca del versamento pleurico del paziente prelevata nella routine clinica per permettergli di respirare meglio, e che altrimenti andrebbe poi buttata via, isoliamo le cellule tumorali e immunitarie, ne estraiamo Dna e Rna che vengono sequenziati. Poi, con l’aiuto di bioinformatici e mediante software disponibili, riusciamo a ricostruire la percentuale relativa di cellule immunitarie presenti nel microambiente.. Quindi: il malato arriva in ospedale, i medici individuano, nel suo versamento pleurico, la firma cellulare del tumore e, in tal caso, potranno utilizzare un’immunoterapia che vada a bloccare i macrofagi protumorali». Giusto? «È una prospettiva clinica reale, ma non a breve. Per ora abbiamo identificato una firma molecolare composta da 33 geni che caratterizzano i macrofagi protumorali e ne stiamo studiando alcuni. Poi procederemo per validare i bersagli migliori mediante studi su modelli cellulari e animali. In futuro pensiamo che dalla nostra ricerca potranno essere identificati farmaci che agiscano come inibitori dei macrogafi protumorali, in combinazione con le attuali immunoterapie. In questa strada lavorate da soli o con altri centri all’estero? «Oltre alla collaborazione con il Regina Elena di Roma, siamo in contatto con altri centri europei, proprio perché, nella ricerca, l’unione fa la forza».
Tumore al seno, scoperta l’origine ereditaria di una forma rara. Vera Martinella l'11 Settembre 2023 su Il Corriere della Sera.
Il carcinoma metaplastico è poco frequente, ma molto aggressivo e risponde poco alle terapie disponibili. Una ricerca scopre che può essere collegato a mutazione del gene BRCA1 e apre nuove prospettive di cura
Ogni anno in Italia si ammalano di tumore al seno circa 55mila donne (e più o meno 500 uomini: sebbene sia una malattia assai poco frequente nel sesso maschile, non vanno trascurati i possibili campanelli d’allarme). La ricerca scientifica ha ormai indicato chiaramente che esistono tanti tipi diversi di questa forma di cancro ed è fondamentale conoscere quale sottotipo istologico e molecolare si ha di fronte per poter scegliere, fra le tante terapie disponibili, quella più efficace in base al singolo caso: un passaggio decisivo per avere maggiori probabilità di guarire. Sul carcinoma mammario metaplastico, però, una forma rara e particolarmente aggressiva, ancora non si sa molto, ma uno studio italiano ha recentemente fatto un importante passo avanti.
Mutazione del gene BRCA1
La ricerca condotta dall’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e da poco pubblicata sulla rivista scientifica European Journal of Human Genetics , dimostra infatti per la prima volta l’esistenza di un legame fra questo temibile sottotipo di carcinoma mammario e mutazioni del noto gene BRCA1: i risultati ottenuti su un’ampia casistica di pazienti sottoposte al test genetico dei geni BRCA1 e BRCA2, selezionate quindi sulla base della loro storia oncologica personale e familiare, mostrano che un’alta percentuale dei tumori metaplastici diagnosticati è ereditario. «Un dato finora del tutto sconosciuto — sottolinea Giovanni Corso, chirurgo senologo Ieo, ricercatore universitario della Statale di Milano e primo autore dello studio —. Il tumore al seno metaplastico è ancora per lo più un mistero: sappiamo che è raro (meno del 5% di tutti i tumori del seno), che colpisce di frequente le donne giovani e che purtroppo risponde pochissimo alle terapie. Ma non sappiamo il perché. Per questo la scoperta del suo possibile legame con BRCA1 apre finalmente orizzonti inediti di cura, con i farmaci di nuova generazione che hanno dimostrato efficacia contro i tumori che presentano questa mutazione». L’importanza di questa novità (come sottolinea Gareth Evans, autorevole genetista del Manchester University Hospital, in un editoriale pubblicato sulla stessa rivista scientifica) risiede nella possibilità di capire meglio i meccanismi di nascita e sviluppo di un sottotipo di cancro particolarmente complesso ed eterogeno, quale quello metaplastico, per aumentarne le opzioni di cura, ad oggi limitate e scarsamente efficaci.
Le terapie e il test genetico
«Il carcinoma mammario metaplastico, attualmente, può essere curato (quando operabile) solo con la chirurgia — spiega Corso —. Tuttavia, molto spesso, e soprattutto nei casi avanzati, si presenta con metastasi a distanza, dove le possibilità di cura si riducono davvero al minimo. Purtroppo, non esistono terapie “mirate”: un precedente studio Ieo ha dimostrato la scarsissima efficacia della chemioterapia e alla stessa conclusione è giunto uno studio americano del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York». Concretamente cosa cambia, quindi, con la nuova scoperta? «Ci permette di classificare il tumore metaplastico come una nuova sindrome rara ereditaria — risponde il ricercatore —. Tutte le donne con nuova diagnosi di questo sottotipo di neoplasia devono essere testate per il gene BRCA1, indipendentemente dall’età e dalla storia familiare. La presenza di una mutazione BRCA1 permette, infatti, di valutare nuove strategie terapeutiche come l’utilizzo dei PARP-inibitori, finora non ammessi, ma già utilizzati con successo per altri tipi di cancro positivi a BRCA».
Chirurgia più invasiva
Non solo. Alla luce di questa novità può cambiare anche la scelta del chirurgo, come illustra Paolo Veronesi, direttore del Programma di Senologia Ieo: «Aldilà delle nuove opzioni terapeutiche farmacologiche previste per i tumori metaplastici che sicuramente aprono nuovi orizzonti di cura, i nostri risultati dimostrano chiaramente che la chirurgia conservativa (la quadrantectomia per esempio) potrebbe non essere più sufficiente per curare questa variante rara di carcinoma mammario, soprattutto in presenza del gene BRCA1. Il rischio di recidiva potrebbe essere altissimo, particolarmente nelle donne giovani. Quindi le opzioni chirurgiche dovrebbero essere più “aggressive”, come la mastectomia terapeutica, ma anche la mastectomia profilattica “risk reducing” controlaterale (ovvero l’asportazione preventiva anche della mammella “sana” per limitare il pericolo di cancro) e ricostruzione plastica integrata». Certo servono ulteriori conferme su casistiche più ampie di pazienti, ma come accade per altri tumori rari, spesso poco curabili, anche risultati iniziali aprono uno spiraglio concreto al trattamento.
Lo studio su 5.226 pazienti
Alcuni studi avevano già segnalato il possibile ruolo di BRCA1 nell’aumentare il rischio di tumore metaplastico, «ma il nostro lavoro è il primo che dimostra, con un’analisi retrospettiva di 5.226 pazienti con cancro al seno sottoposte a test genetici in Ieo, che oltre il 50% dei tumori metaplastici è associato significativamente alla presenza di BRCA — dice Bernardo Bonanni, direttore della Divisione di Prevenzione e Genetica oncologica e coautore dello studio, insieme a Mariarosaria Calvello, coautrice e Monica Marabelli, corresponding author dell’articolo (entrambe della stessa Divisione) —. In primo luogo abbiamo osservato una frequenza maggiore di tumori metaplastici nelle pazienti portatrici di mutazioni nei geni BRCA: 1,2% rispetto allo 0,2% rilevato nelle pazienti non mutate. Poi abbiamo trovato che in questo sottogruppo tutte le pazienti erano portatrici di BRCA1 e nessuna di BRCA2. Questi risultati confermano che il tumore metaplastico ha una chiara predisposizione ereditaria associata al BRCA1. Si tratta tuttavia di risultati ottenuti su una casistica fortemente selezionata. Per questo sono necessari altri studi su popolazioni di pazienti non selezionate con test genetico per capire quale sia il vero ruolo del gene BRCA1 nell’insorgenza del tumore metaplastico della mammella. Sarà importante inoltre studiare il coinvolgimento di altri geni nell’origine di questa rara forma di tumore».
Tumore al seno e alle ovaie, scoperto il meccanismo di protezione. La scoperta potrebbe a migliorare il trattamento per le donne affette dal carcinoma mammario e ovarico. Maria Girardi il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Le cause del tumore al seno e alle ovaie
Tumore al seno e alle ovaie, scoperto un complesso proteico
Una speranza
Sono le forme cancerose più frequenti nel sesso femminile. Secondo l'Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) e l'Associazione di oncologia medica, le diagnosi di tumore al seno sono in aumento. Solo nel 2020 si sono ammalate 54.976 donne. Non va meglio sul versante tumore alle ovaie. Nel nostro Paese, infatti, il killer silenzioso fa registrare oltre 5mila nuovi casi e oltre 3mila decessi.
L'unica speranza è rappresentata dalla ricerca scientifica. Di recente gli studiosi dell'Università di Friburgo sono giunti alla conclusione che contrastare le modifiche metaboliche del cancro con il farmaco zolendronato potrebbe rendere l'immunoterapia con cellule T gamma delta più efficace contro il carcinoma mammario triplo negativo. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
I ricercatori dell'Università di Helsinki hanno invece compreso il modo in cui le cellule cancerose ovariche interagiscono con il sistema immunitario, eludendolo al tempo stesso. Questa importante scoperta apre la strada alla messa a punto di nuove terapie. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
Le cause del tumore al seno e alle ovaie
Le cause del tumore al seno e di quello alle ovaie sono ancora in parte sconosciute, tuttavia si pensa che la loro insorgenza sia legata ad alterazioni genetiche, in particolare a mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2. Esistono, poi, fattori di rischio che predispongono alla comparsa delle malattie. In particolare quelli del carcinoma mammario includono:
La menopausa tardiva;
Il menarca precoce;
La nulliparità;
Il seno denso;
Le terapie ormonali;
Il sovrappeso e l'obesità;
L'abuso di alcol;
Il fumo di sigaretta;
La radioterapia.
Oltre al sovrappeso, all'obesità, alle terapie ormonali, alla radioterapia e al fumo di sigaretta, sono fattori di rischio del cancro ovarico:
L'età avanzata;
Il numero elevato di ovulazioni;
La familiarità;
L'endometriosi;
L'esposizione all'asbesto.
Tumore al seno e alle ovaie, scoperto un complesso proteico
Gli scienziati del Francis Crick Institute hanno scoperto e approfondito la struttura e la funzione di un complesso proteico necessario per riparare il DNA danneggiato e in grado di proteggere dal cancro. Lo studio, condotto dai ricercatori Luke Greenhough ed Eric Liang, è stato pubblicato sulla rivista Nature. Ogni volta che una cellula si replica, possono verificarsi errori sotto forma di mutazioni, tuttavia esistono proteine specializzate per sanare il DNA incidentato.
Le donne con mutazioni in una proteina del DNA nota come BRCA2 sono predisposte al tumore al seno e a quello delle ovaie che spesso si sviluppano in giovane età. Nella clinica le neoplasie vengono trattate con un farmaco che inibisce PARP, ovvero un'altra proteina necessaria per la riparazione del DNA.
Gli studiosi hanno usato la microscopia crioelettronica per rivelare la struttura anatomica di quattro di queste proteine. Esse si uniscono per formare un complesso chiamato BCDX2. Ciò ha consentito loro di mappare le mutazioni associate alle neoplasie sulla struttura 3D, di rivelare le regioni importanti del complesso e di comprendere perché alcune mutazioni impediscono la riparazione del DNA, con conseguente instabilità dei geni e possibile avvento della malattia.
Una speranza
Il team ha altresì analizzato il ruolo di BCDX2 nella cellula, scoprendo che agisce come uno "chaperone molecolare", ovvero aiuta a colpire un'altra proteina (RAD51) permettendo il suo riconoscimento e assemblamento nelle aree dove deve avvenire la riparazione del DNA. Dunque BRCA2, BCDX2 e RAD51 sono le proteine protagoniste del processo di riparazione del DNA noto come ricombinazione omologa.
Luke Greenhough ha affermato: «Per la prima volta siamo stati in grado di mostrare i legami diretti fra la struttura e la funzione del complesso proteico e di comprendere il perché le mutazioni in un qualsiasi componente di BCDX2 favoriscono la comparsa del cancro. Abbiamo finalmente appreso il suo ruolo cruciale nella riparazione del DNA».
Secondo gli scienziati le donne con una storia familiare di tumore al seno e alle ovaie dovrebbero essere sottoposte a screening per le mutazioni nelle proteine che compongono BCDX2 per ottenere un quadro completo del loro rischio. I ricercatori sperano ora di fare luce su un altro complesso proteico, CX3, anch'esso coinvolto nella genesi del cancro.
Estratto dell'articolo di Dario Rubino per repubblica.it venerdì 1 dicembre 2023.
Sfruttare le potenzialità dell'intelligenza artificiale per migliorare la diagnosi del tumore della prostata evitando tante biopsie inutili, a tutto vantaggio dei pazienti ma anche della sostenibilità del sistema sanitario. È questo l'obiettivo del progetto FLUTE (Federate Learning and mUlti-party computation Techniques for prostatE cancer) che vuole integrare i più avanzati modelli di intelligenza artificiale in una piattaforma che al tempo stesso garantisca la sicurezza dei dati sanitari e la privacy dei pazienti.
All'iniziativa, finanziata per i prossimi tre anni con 7 milioni di euro nell'ambito del programma quadro Horizon Europe, dallo scorso luglio è al lavoro un team multidisciplinare messo a disposizione da un consorzio di 11 partner clinici e tecnici di cui fa parte l'Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori 'Dino Amadori' - IRST IRCCS di Meldola. [...]
In Italia, nel 2022, sono state 40.500 le diagnosi di questo tumore, il più frequente negli uomini nel nostro Paese. Nella maggior parte dei Paesi occidentali la mortalità per tumore della prostata è diminuita, ma l'entità della riduzione varia da Paese a Paese. Per questo motivo è fondamentale sviluppare strumenti di supporto ai clinici nel processo di diagnosi.
Il progetto FLUTE è destinato a rivoluzionare l'utilizzo dei dati sanitari grazie a una piattaforma progettata per fornire un ambiente sicuro per lo sviluppo, il test e la diffusione di soluzioni di Intelligenza Artificiale sanitaria. "Uno degli obiettivi di FLUTE è validare il modello di Federated Learning nella cura del tumore della prostata", afferma Nicola Gentili, coordinatore Data Unit dell'IRST 'Dino Amadori' IRCCS e Principal Investigator del progetto.[...]
Un aspetto fondamentale del progetto FLUTE è lo sviluppo dell'HL7 FHIR (Fast Healthcare Interoperability Resource), standard di interoperabilità di nuova generazione progettato per favorire uno scambio di dati sanitari clinici e amministrativi veloce ed efficiente. Inoltre, il progetto definirà nuove linee guida per l'apprendimento federato (Federated Learning) transfrontaliero conforme al GDPR nel settore sanitario, assicurando la conformità normativa e la protezione dei dati.
Svolta per il tumore alla prostata: addio bisturi e radioterapia, cosa cambia. Grazie alla rete di sorveglianza attiva, si possono evitare interventi chirurgici e radioterapia nei pazienti con tumore alla prostata a basso rischio: ecco cosa dice lo studio. Alessandro Ferro il 19 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I risultati dello studio Start
Cos'è la sorveglianza attiva
Il compito degli specialisti
Si tratta di una vera e propria svolta sui tumori alla prostata a basso rischio per i quali non sarà più necessario l'intervento chirurgico e neanche la radioterapia: la notizia è stata data dalla Rete oncologica di Piemonte e Valle d'Aosta con lo studio coordinato dall'Epidemiologia clinica del Cpo (Centro di riferimento per l'epidemiologia e la prevenzione oncologica del Piemonte) della Città della Salute di Torino.
I risultati dello studio Start
Nel dettaglio, 904 pazienti con una diagnosi di tumore alla prostata a basso rischio sono stati seguiti per tanti anni dal 2015 al 2021: a loro è stata data la possibilità di scegliere le cure tradizionali con chemio e radio ma anche la cosiddetta "sorveglianza attiva", ossia check periodici con analisi, controlli di laboratorio, controlli clinici ed esami strumentali. È emerso che oltre l'80% di essi ha scelto quest'ultima opzione con lo studio che ha dimostrato le stesse identiche possibilità di sopravvivere al tumore dopo cinque anni dalla diagnosi.
Cos'è la sorveglianza attiva
In poche parole, se il paziente non si ammala ma rimane ad uno stadio di tumore alla prostata iniziale (per questo motivo si chiama a basso rischio), può evitare un trattamento radicale come radio e chemioterapia per molti anni pur con una sorveglianza a intervalli regolari del suo stadio di salute. Se non si aggrava, quindi, la qualità di vita migliora perché si riducono le conseguenze negative dei trattamenti più invasivi che portano a un peggioramento della vita sessuale ma anche dell'area intestinale e urinaria. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Jama Network.
Il compito degli specialisti
"La sorveglianza attiva ha risultati rassicuranti a lungo termine confermati da studi randomizzati che non hanno mostrato effetti benefici dei trattamenti radicali immediati sulla sopravvivenza globale", spiegano i ricercatori. Il protocollo Start è stato sviluppato da un gruppo multidisciplinare di specialisti composti da urologi, radioterapisti, patologi, oncologi, epidemiologi. Gli specialisti di ogni settore hanno richiesto una revisione indipendente e centralizzata delle biopsie al momento della diagnosi così da migliorare l'interpretazione delle diagnosi borderline e più complesse.
I pazienti che hanno scelto di affidarsi alla sorveglianza attiva, tra gli altri esami, hanno effettuato valutazioni cliniche e biopsie ripetute a 12 e 48 mesi dalla diagnosi di tumore alla prostata. È chiaro che nonostante la strada intrapresa sarebbero potuti passare "al trattamento attivo in qualsiasi momento, a seconda della scelta del paziente, o se veniva loro consigliato di farlo a causa del peggioramento dei parametri clinici", spiegano gli studiosi. "Lo studio di coorte Start rappresenta un prezioso contributo alle prove sulla sorveglianza attiva e un esempio di come la ricerca pragmatica, integrata nella pratica clinica, può promuovere miglioramenti della qualità dell’assistenza sanitaria", hanno concluso gli esperti.
Giornata europea della prostata, 6 regole per mantenerla in salute. In occasione di questa giornata dedicata, scopriamo insieme come prendersene cura prevenendo infiammazioni gravi. Mariangela Cutrone il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.
Il 15 settembre 2023 si celebra la Giornata europea della prostata istituita per invitare la popolazione maschile a prendersi cura di questa ghiandola localizzata al di sotto della vescica.
I primi campanelli d’allarme di un cattivo funzionamento non devono essere assolutamente sottovalutati. In Italia il cancro alla prostata è il tumore più diffuso tra gli uomini. Rappresenta il 18,5% di tutti i tumori diagnosticati nell'uomo. Fattori di rischio sono la genetica, uno stile di vita sedentario, l’obesità, il diabete e un’alimentazione non sana. Intorno ai cinquant’anni si può manifestare un ingrossamento benigno della prostata che tende ad esercitare una pressione fastidiosa sulla vescica e sull’uretra provocando un bisogno frequente di urinare o difficoltà durante la minzione stessa. Nei casi più gravi si può verificare un vero e proprio blocco della minzione con perdita di sangue, chiamata ematuria.
Per mantenere in salute la prostata gli urologi consigliano uno stile di vita sano e un’alimentazione bilanciata. Sotto alcuni piccoli e preziosi accorgimenti da seguire.
Effettuare una visita urologica ogni anno: questo appuntamento è valido soprattutto per gli uomini intorno ai cinquant’anni. Lo screening va regolarmente fatto intorno ai quarant’anni se in famiglia ci sono stati casi di cancro alla prostata.
Massima attenzione all’idratazione: bere almeno due litri di acqua al giorno consente di purificare il tratto urinario e prevenire infezioni urinarie dannose. Bisognerebbe avere l’abitudine durante la giornata di sorseggiare l’acqua a più intervalli e non solo durante la consumazione dei pasti.
Avere una vita sessuale regolare: l’astinenza sessuale provoca un ristagno di secrezioni che possono scatenare delle infezioni seminali. Inoltre da evitare è di non assecondare lo stimolo eiaculatorio che interrotto provoca il reflusso intraprostatico responsabile di molte infiammazioni.
Regolarizzare l’attività intestinale: chi soffre di stipsi cronica è più esposto al rischio di infiammazioni a carico di questa ghiandola. Prezioso è il consumo di cibi ricchi di fibre che depurano l’organismo da scorie e tossine in eccesso.
Consumare alimenti antiossidanti: a tavola ci si può prendere cura della prostata mangiando cibi ricchi sostanze antiossidanti come le vitamine A, E, C, il licopene, il manganese, lo zinco e il selenio. Via libera quindi a carote, albicocche, frutta secca, frutti rossi, cereali integrali, legumi, verdure a foglie verde e tuorlo d’uovo. Da limitare invece sono i cibi ricchi di grassi come insaccati, formaggi grassi, molluschi, crostacei, spezie in primis il pepe e il peperoncino, caffè e alcolici.
No alla vita sedentaria: l’attività sportiva costante stimola la circolazione pelvica. Bisogna però fare attenzione alla cylette perché la posizione su di essa può scatenare dei microtraumi perineali che possono scatenare infiammazioni e irritazioni fastidiose.
Prostata ingrossata, i sintomi e le terapie di un problema legato all’età. Antonella Sparvoli Il Corriere della Sera il 13 maggio 2023.
L’ipertrofia prostatica comporta disturbi come la necessità di urinare spesso o l’urgenza di andare in bagno ma anche fatica a fare pipì. Esistono farmaci efficaci ma con alcuni effetti collaterali
L’ipertrofia prostatica è una condizione con cui pressoché tutti gli uomini che raggiungono il traguardo degli 80 anni devono fare i conti, prima o poi. Solo la metà però mostra disturbi correlati all’ingrossamento benigno della ghiandola prostatica e di questi circa il 50 per cento necessita di un trattamento mirato, farmacologico o chirurgico.
Quali sono i tipici sintomi?
«L’ingrossamento della prostata associato all’invecchiamento può farsi sentire con diversi tipi di disturbi — premette Emanuele Montanari, professore di urologia dell’Università degli Studi di Milano e direttore dell’Unità operativa complessa di urologia della Fondazione Irccs Policlinico di Milano —. Necessità di urinare spesso e urgenza a urinare, con il rischio di non fare in tempo a raggiungere il bagno, sono i tipici disturbi iniziali. Tuttavia se la prostata si ingrossa ulteriormente possono comparire altri disturbi legati alla compressione dell’uretra, come fatica a fare la pipì e ritenzione di urina. Nei casi più gravi si può arrivare a una ostruzione completa che richiede un intervento rapido in Pronto soccorso per posizionate un catetere per consentire lo svuotamento vescicale».
In che cosa consiste la terapia medica?
«La terapia medica si basa sul ricorso a farmaci sintomatici. I più utilizzati, da soli o in combinazione, sono gli alfa-litici e gli inibitori della 5 alfa reduttasi. I primi rilassano la muscolatura liscia della prostata. Agiscono molto rapidamente, ma alla loro sospensione l’effetto svanisce. Possono causare eiaculazione retrograda e la riduzione della pressione arteriosa. Gli inibitori della 5 alfa reduttasi hanno un’azione antiandrogena. Sono molto efficaci ma richiedono dai 3 ai 6 mesi per fare effetto, riducendo il volume della prostata e il Psa (antigene prostatico specifico). Inoltre diminuiscono del 70% il rischio di ritenzione acuta di urina, e quindi la necessità di un catetere, nonché l’eventualità di dover ricorrere all’intervento chirurgico. Hanno però effetti collaterali che possono limitarne l’accettazione da parte del paziente. Possono infatti ridurre la libido con conseguenti problemi di erezione e determinare aumento del volume delle mammelle».
Quando è necessario l’intervento chirurgico?
Quando i disturbi legati all’ipertrofia prostatica non rispondono alle terapie o il paziente non vuole più prendere i farmaci, si ricorre all’intervento chirurgico, che elimina solo la parte centrale adenomatosa della prostata. La parte caudale rimane, quindi non si annulla il rischio di sviluppare il tumore prostatico. «L’ipertrofia prostatica è una patologia benigna, quindi non c’è un’indicazione cogente all’intervento. Tuttavia ci sono cinque circostanze in cui l’operazione non può essere evitata: ritenzione di urina con conseguente posizionamento di un catetere; infezioni recidivanti; ematuria (sangue nelle urine) importante; complicanze come calcolosi e/o diverticolosi vescicali, sofferenza renale. Di solito chi non ha problemi di continenza prima, non li ha neanche dopo l’operazione e lo stesso vale per la potenza sessuale. L’orgasmo viene conservato mentre viene persa l’eiaculazione perché il liquido seminale refluisce in vescica» spiega Montanari
Estratto dell'articolo di Alessandro Ferro per ilgiornale.it il 10 maggio 2023.
Per la prima volta si può curare il tumore alla prostata con un farmaco di ultima generazione che promette meno effetti collaterali sulla sfera sessuale ma soprattutto elimina la castrazione farmacologica indispensabile in molti casi. Sono i risultati straordinari dello studio Embark appena presentato Congresso dell’American Urological Association, a Chicago, ma la ricerca parla anche la lingua italiana.
Come agisce il farmaco
Dopo decenni di cure con la cosiddetta "deprivazione androgenica", grazie all'enzalutamide si riducono del 58% le possibilità che la malattia possa interessare altre zone dell'organismo e addirittura un miglioramento del 93% sulla progressione dell’antigene prostatico specifico (PSA) e si elimina del 64% la necessità di dover ricorrere alla chemioterapia. Come ricorda InSalute, la sperimentazione è stata condotta su 1.068 pazienti che presentavano carcinoma prostatico in fase precoce.
Il successo della ricerca
"Siamo orgogliosi di aver contribuito alla realizzazione dello studio Embark ed è la conferma del ruolo di primo piano dell’Italia nella ricerca internazionale", ha dichiarato alla stampa il prof. Ugo De Giorgi, Direttore Oncologia Clinica e Sperimentale dell’IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori ‘Dino Amadori’, IRST, di Meldola, unico italiano coinvolto nello studio e tra i pochissimi europei che hanno firmato il lavoro che ha visto il coinvolgimento di poco più di mille pazienti tra il 2015 e il 2018.
"Embark è uno dei primi studi che ha valutato un farmaco anti-androgeno di nuova generazione associato a terapia di deprivazione androgenica, quando il tumore della prostata è in fase molto precoce e vi sono ancora concrete possibilità di guarigione. La terapia è stata iniziata dopo prostatectomia o radioterapia radicali, in presenza di segni biochimici di ricomparsa della malattia, come il rapido tempo di raddoppiamento del PSA”, ha spiegato De Giorgi.
Estratto dell'articolo da blitzquotidiano.it il 28 marzo 2023.
Aumentano le diagnosi di tumore alla prostata e un fattore potrebbe essere il nitrato contenuto nell’acqua che beviamo. È questa la conclusione a cui giunge un nuovo studio spagnolo. Il nitrato ingerito in età adulta, attraverso il rubinetto e l’acqua in bottiglia, potrebbe essere determinante. A suggerirlo il Barcelona Institute for Global Health (ISGlobal), centro promosso dalla Fondazione “la Caixa”. I risultati di questo lavoro scientifico sono stati pubblicati su Environmental Health Perspectives.
Tumore alla prostata e acqua del rubinetto, cosa sono i nitrati
Lo scopo dello studio era valutare se esistesse una relazione tra l’assunzione di nitrati e trialometani (THM) attraverso l’acqua potabile e il tumore alla prostata. Da dove provengono? Il nitrato presente nell’acqua proviene dai fertilizzanti e dagli escrementi dell’agricoltura intensiva e dell’allevamento. È la pioggia che lo porta nelle falde acquifere e nei fiumi.
“È un composto che fa parte della natura, ma ne abbiamo alterato il ciclo naturale”, spiega la riceratrice Cristina Villanueva a ISGlobal, specializzata in inquinamento delle acque. Ora si sta studiando se l’esposizione prolungata ai nitrati per tutta la vita adulta possa scatenare il cancro.
Come si assorbono i trialometani
I THM, invece, sono sottoprodotti della disinfezione dell’acqua: cioè composti chimici che si formano dopo aver disinfettato l’acqua per il consumo, generalmente con cloro.
A differenza del nitrato, la cui unica via di ingresso è l’ingestione, i THM possono anche essere inalati e assorbiti attraverso la pelle facendo la doccia, nuotando in piscina o lavando i piatti.
L’esposizione a lungo termine ai THM è stata associata ad un aumentato rischio di cancro alla vescica.
[…] I partecipanti con una maggiore assunzione di nitrato attraverso l’acqua (più di 14 mg/giorno in media per tutta la vita) hanno moltiplicato per 1,6 la probabilità di soffrire di cancro alla prostata […]
Tumore alla prostata, casi in aumento in Italia: colpa dell'invecchiamento, ma non solo. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023
Nel 2022, oltre 40.500 diagnosi. Gli specialisti fanno il punto su prevenzione, terapie e cause. Chi rischia di più e quali sintomi non vanno trascurati
Un uomo su otto in Italia farà i conti con una diagnosi di tumore alla prostata, il tipo di cancro più frequente fra i maschi e i cui casi nel nostro Paese sono ai aumento da anni. Da un lato perché cresce il numero di anziani e questa neoplasia (come tutte, del resto) nella grande maggioranza dei casi interessa uomini over 65enni. Dall'altro perché sono sempre più diffusi quegli stili di vita scorretti, a partire da sovrappeso e cattiva alimentazione, che fanno salire il pericolo di ammalarsi, anche prima dei 50 anni. Infine bisogna considerare che, sottoponendosi a controlli regolari soprattutto con il test del Psa, un numero maggiore di uomini scopre la presenza di un tumore poco aggressivo, ai primi stadi, prima che provochi sintomi. Ne hanno discusso gli specialisti dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), riuniti nei giorni scorsi a Bari per il convegno nazionale «News in GU Oncology» dedicato alle neoplasie genito-urinarie e alle novità medico-scientifiche emerse dal congresso americano «Asco Genitourinary Cancer (GU) Symposium».
Chi rischia di più
«Nel 2022 i nuovi casi di carcinoma prostatico registrati in Italia sono stati 40.500, erano 34.800 nel 2017: c'è quindi stato un aumento del 16% in soli cinque anni — dice Saverio Cinieri, presidente nazionale Aiom —. Le cause possono essere diverse, a cominciare dal continuo invecchiamento generale della popolazione. È poi fondamentale che gli uomini, di tutte le età, si impegnino a limitare i fattori di rischio noti per questo e molti altri tipi di cancro: dalle cattive abitudini alimentari, al conseguente sovrappeso, alla sedentarietà. Una recente ricerca americana lo ha ribadito: con una dieta ricca di verdure e frutta cala anche, per chi già rientra nella categoria dei pazienti, il rischio di progressione del tumore e ricadute. Per i sani a far lievitare le probabilità di ammalarsi sono soprattutto un alto contenuto di proteine nella dieta e la sindrome metabolica, una patologia caratterizzata da aumento della circonferenza dell’addome, ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia, ridotti livelli di colesterolo “buono” Hdl e aumento della glicemia a digiuno. Se si hanno anche solo tre su cinque di queste caratteristiche si soffre di sindrome metabolica e sale il rischio di cancro perché si crea un microambiente favorevole alle cellule cancerose per svilupparsi e prolificare».
Chi ha una familiarità per questa patologia è poi più a rischio non solo di ammalarsi, ma anche di avere una neoplasia più aggressiva e in età più precoce: ovvero gli uomini con parenti di primo grado (padre e fratelli) con la tumore della prostata, soprattutto se manifestata in età inferiore ai 55 anni. Oppure quelli che hanno familiari con un tumore ereditario della mammella e/o dell'ovaio (per via dei geni BRCA).
Il test del Psa
La crescita dei casi può essere anche in parte ricondotta all’uso «a tappeto» dell’esame del Psa che si effettua tramite un normale prelievo di sangue e misura l’antigene prostatico specifico. È un utile strumento di diagnosi precoce del tumore alla prostata: può favorire la scoperta della malattia in stadio iniziale, quando è più facile da curare e si può guarire definitivamente. Oggi è però anche certo che può portare a molti casi di diagnosi e trattamenti in eccesso perché vengono anche individuati i tumori cosiddetti «indolenti», che clinicamente non sono significativi (in pratica potrebbero non comportare mai alcuna conseguenza per la salute degli uomini), con il rischio di un conseguente sovra-trattamento (cioè l’adozione di terapie inappropriate che comportano costi inutili per il Sistema sanitario e, in termini di effetti collaterali, anche per i pazienti).
Oggi, secondo gli esperti, il Psa è utile e va consigliato agli uomini che hanno sintomi prostatici, ovvero problemi urinari, a partire dai 50 anni e quelli che hanno familiarità dovrebbero iniziare tra i 40 e i 45 anni. Spiegando però bene quali sono i vantaggi e i limiti della metodica e cosa potrebbe essere necessario effettuare qualora questo esame risultasse non nei limiti di normalità.
Le terapie
Quando viene diagnosticato un tumore alla prostata le terapie oggi a disposizione sono molte: negli stadi iniziali chirurgia, radioterapia e brachiterapia si sono dimostrate in grado di offrire risultati molto buoni, in termini sia di guarigione sia di lungo-sopravvivenza. Sono opzioni valide e sovrapponibili soprattutto per quelle forme a rischio di progressione basso e intermedio (ovvero, in pratica, con poche probabilità di evolvere e dare metastasi), che sono la maggioranza. Alle persone con un carcinoma di piccole dimensioni e minima aggressività, viene anche proposta la sorveglianza attiva, che consiste in esami e controlli periodici.
«Nei casi di neoplasia in fase avanzata o metastatica si può poi procedere con diversi farmaci che vengono prescritti in base alle caratteristiche del singolo paziente — spiega Marcello Tucci, direttore dell’Oncologia all’Ospedale Cardinal Massaia di Asti —. Abbiamo sia l'ormonoterapia, sia diversi altri trattamenti che sono efficaci nel prolungare, anche di anni, la sopravvivenza con una buona qualità di vita. Le evidenze scientifiche presentate all'ASCO GU di San Francisco aprono novità interessanti sull’utilizzo di terapie ormonali sia per la malattia ormono-sensibile che per quella resistente alla castrazione. Stiamo “raffinando” le cure utilizzabili, sempre in un’ottica di una maggiore personalizzazione dei trattamenti. È una tendenza che è in corso da almeno 20 anni e ci ha consentito di arrivare ad oltre il 90% di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi».
I sintomi
Difficoltà a iniziare la minzione, flusso urinario debole, incompleto svuotamento della vescica, elevata frequenza delle minzioni, urgenza di svuotare la vescica e presenza di minzioni notturne: sono i sintomi (molto comuni nei maschi over 50 perché tipici anche dell’ipertrofia prostatica benigna) che non devono essere sottovalutati e ignorati. Basta parlarne con il medico di famiglia che valuterà se è necessaria la visita con lo specialista urologo.
«Individuare un tumore ai primi stadi significa avere maggiori probabilità di combatterlo in modo risolutivo e con cure meno invasive — ricorda Camillo Porta, ordinario di Oncologia medica all’Università Aldo Moro di Bari e direttore della Divisione di Oncologia medica del Policlinico di Bari —. Mentre prosegue la ricerca di nuove terapie che offrano soluzioni utili in quei casi di neoplasie metastatiche per le quali oggi non abbiamo soluzioni efficaci, dal congresso negli Stati Uniti arrivano anche nuove e interessanti conferme sull’intelligenza artificiale multimodale e sono stati presentati i dati di uno studio pubblicato di recente sul Journal of Clinical Oncology. Queste nuove tecnologie sono utilizzate per sviluppare biomarcatori che possano darci informazioni prognostiche più dettagliate e anche una serie di parametri predittivi sulle possibili risposte ad alcuni trattamenti.
«In altre parole possiamo favorire la medicina oncologica personalizzata e prevedere se alcune terapie mirate sono efficaci, o meno, sul singolo caso. Quello americano è uno studio di fattibilità, un trial randomizzato di fase 3 cha coinvolto oltre mille uomini con carcinoma prostatico localizzato ad alto rischio. I primi dati emersi sono molto interessanti, ma andranno confermati coinvolgendo altri gruppi di pazienti. I biomarcatori, creati grazie all’intelligenza artificiale, non sono però ancora utilizzabili nella pratica clinica quotidiana (in Europa e negli Usa). Rappresentano comunque una prospettiva futura dalle grandi potenzialità e la ricerca deve proseguire», conclude Porta.
Perché mi scappa la pipì così spesso? Le cause più probabili e quando preoccuparsi. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023
Il freddo intenso può aumentare il numero di minzioni giornaliere mentre alzarsi di notte è un disturbo che interessa uomini e donne, più spesso over 40. Talvolta però andare in bagno spesso indica la presenza di qualche disturbo di salute che merita di essere indagato
Quante volte al giorno
In media la stragrande maggioranza delle persone deve urinare dalle quattro alle otto volte nel corso del giorno, ma non esiste un numero “giusto”. La frequenza dell’enuresi è infatti influenzata da molti fattori, non solo da quanto si beve, ma anche da quali tipi di fluidi si stanno bevendo: caffeina e alcol sono irritanti per la vescica, tanto da far venire più spesso lo stimolo (la minzione notturna dopo aver bevuto una birra a cena è un esempio tipico). Fare pipì circa 8 volte nel corso della giornata è comunque nella media. Anche alzarsi una volta durante la notte è considerato “normale”. Durante i lunghi viaggi in auto il disagio di doversi fermare solo per andare in bagno contribuisce certamente alla percezione di doverci andare troppe volte rispetto ad essere a casa o in ufficio dove il bagno è a portata di mano.
Le dimensioni della vescica (e come allenarla)
Anatomicamente ognuno è fatto in modo diverso: la maggior parte delle vesciche hanno la capacità totale di circa 2 bicchieri di liquidi. Se andate in bagno spesso ma ogni volta producete meno di 2 bicchieri di urina, probabilmente non è una situazione normale. La buona notizia è che si può allenare la vescica a trattenere più liquidi. «Più la vescica si riempie, più si attivano i meccanismi muscolari della continenza. Per cui in una persona normale che beve due litri di acqua al giorno è corretto urinare in linea di massima ogni 4 ore durante il giorno e secondo la necessità di notte» spiega Francesco Montorsi direttore dell’Unità di urologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Quando la vescica è piena è possibile « allungare un po’ i tempi»: molti pensano sia un esercizio dannoso, in realtà è un po’ come lo stretching, ma bisogna fermarsi appena si sente una sensazione spiacevole di fastidio-dolore perché «abituarsi sin da giovani a trattenersi ad oltranza prima di urinare - spiega il professor Francesco Montorsi - può provocare una iperdistensione vescicale con, a lungo termine, una perdita progressiva di funzionalità dell’organo».
Le conseguenze (inaspettate) di bere poco
Bere poca acqua può sembrare l’ancora di salvezza per urinare di meno, ma non è affatto così. Sembra un controsenso, tuttavia il meccanismo funziona così: quando si beve meno, l’urina diventa più concentrata e più “irritante” per la vescica, innescando quindi la sensazione di dover urinare. Più si beve invece, più si è in grado di trattenere maggiormente. Quindi bere meno per andare meno in bagno potrebbe non essere una buona idea. Allo stesso modo non bisogna esagerare con l’acqua: la giusta idratazione si vede anche dal colore della pipì che deve essere giallo paglierino. «Un soggetto adulto sano dovrebbe produrre due litri di pipì al giorno - aggiunge l’esperto - . Bisogna ovviamente considerare che se si beve anche durante le ore notturne, ci si alzerà più spesso di notte!».
Alzarsi di notte, un fastidio per molti
Alzarsi per andare in bagno di notte è un fenomeno molto comune. «Svegliarsi di notte per urinare è un fenomeno è spesso correlato per gli uomini con la presenza di una prostata ingrossata e infiammata - spiega il professor Montorsi - . Di fronte a questo problema è bene farsi visitare dallo specialista urologo perché è un disturbo da non sottovalutare». Questo fenomeno può verificarsi a tutte le età ma l’incidenza cresce man mano che si invecchia. Naturalmente può avere un ruolo anche l’abitudine di bere molto prima di andare a dormire. In tal caso non c’è da preoccuparsi perché si tratta di una normale risposta fisiologica dell’organismo. Il consiglio in questi casi, se si vuole migliorare la qualità del sonno è bere meno liquidi a partire dalle 17.
La vescica «iperattiva»
Se avete bisogno di urinare in continuazione, anche di notte, magari con un’impellenza tale da rischiare perdite involontarie di urina, potreste far parte della nutrita schiera di persone che soffrono di vescica iperattiva. Si calcola che questa condizione interessi circa il 10-15 per cento degli adulti, fino a raggiungere punte del 40 per cento passati i 40-45 anni. È questa una condizione in cui si trovano sempre più donne quando invecchiano ma che tuttavia interessa anche gli uomini. L’età aumenta anche la probabilità di avere disturbi che influiscono su questo, come soffrire di mal di schiena: le vertebre possono spingere sui nervi che a loro volta possono dare la sensazione di vescica piena. Una volta diagnosticata la vescica iperattiva si può intervenire sugli stili di vita con l’eliminazione del fumo, di sostanze irritanti come teina, caffeina, alcolici e alimenti piccanti e il ricorso ad esercizi di riabilitazione del pavimento pelvico (esercizi di Kegel)
Presenza di calcoli renali o infezione
Sia un’infezione delle vie urinarie (tipo la cistite, favorita proprio dal trattenere l’urina) sia i calcoli renali possono irritare la vescica, aumentando la frequenza con cui si sente il bisogno di fare pipì. Ad entrambe le casistiche però si associano altri sintomi: un calcolo renale crea dolore alla schiena o sui fianchi e le infezioni del tratto urinario forte dolore durante la minzione. «In entrambe le situazioni, bere due litri di acqua al giorno è una vera e propria terapia», consiglia Montorsi.
L’utilizzo di determinati farmaci
I diuretici sono spesso usati per trattare la pressione alta e quindi possono aumentare la produzione di urina anche del doppio. Un’altra classe di farmaci chiamati anticolinergici, che sono usati per trattare l’ansia e la depressione, possono far in modo che la vescica non riesca a svuotarsi completamente, lasciando la sensazione di dover andare di nuovo. «Se parlate con un medico dei vostri disturbi urinari ricordatevi di citare sempre tutti i farmaci che state assumendo», dice il professor Montorsi.
Sintomo del diabete
Se lo zucchero nel sangue è troppo alto i reni cercheranno di smaltirlo tramite le urine. Ecco perché anche mangiare cibo o caramelle con molto di zucchero è sufficiente per aumentare il numero di minzioni giornaliere. In questo caso non si tratta di un problema legato alla vescica ma alla produzione di urina. Con una maggiore eliminazione dei liquidi ci si disidrata, quindi si beve di più e ci si sente costantemente assetati. Alcuni pazienti che non sanno di essere diabetici placano la sete con bevande zuccherate gassate o succhi di frutta, aumentando così lo zucchero nel sangue e peggiorando dunque la situazione. Quindi il fatto che ci si senta improvvisamente particolarmente assetati senza che si sudi per l’eccessivo caldo o per un allenamento intenso, con un conseguente aumento della produzione di urina potrebbe essere un sintomo di diabete. «L’esame delle urine può identificare la presenza di zucchero, cosa non normale e da segnalare al vostro medico», consiglia l’urologo.
Temperature fredde
Quando la temperatura esterna scende, il corpo fa di tutto per mantenersi al caldo. Parte di questo processo consiste nella costrizione dei vasi sanguigni in piedi e mani: questo porta più sangue verso il cuore, il che aumenta la pressione sanguigna. Allora il corpo reagisce alla pressione alta cercando di abbassarla e lo fa sbarazzandosi dei liquidi extra, proprio come agiscono alcuni farmaci contro l’ipertensione.
C’è un problema di salute più serio
Solo voi sapete davvero quanto è normale fare pipì per il vostro organismo e per questo solo voi potete notare variazioni significative e soprattutto apparentemente immotivate nella frequenza. È piuttosto questo a dover mettere in allarme: sono vari i disturbi che possono legarsi al bisogno di urinare, dall’ernia del disco, ai tumori dell’addome, alla sclerosi multipla, ai tumori della via urinaria. Evenienze comunque molto rare. Solo il medico può aiutarvi in questi casi (anche a fugare i timori).
Tumore alla prostata, dove vado a farmi curare? A chi rivolgersi per avere la terapia «migliore»? Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.
Chirurgia, radioterapia, brachiterapia o sorveglianza attiva sono le opzioni per i primi stadi. Come orientarsi nella scelta dello specialista e del Centro
Quello alla prostata è il tumore più frequente nel sesso maschile e i nuovi casi registrati nel 2022 in Italia sono stati circa 40.500. Grazie a diagnosi precoci e terapie sempre più efficaci, oggi oltre il 90% dei pazienti riesce a guarire o a convivere anche per decenni con la malattia, ma come? A chi bisogna rivolgersi per ottenere la cura «migliore»? «Prima di tutto occorre fare una premessa — sottolinea Giuseppe Procopio, direttore del Programma Prostata e dell’Oncologia medica genitourinaria alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano —. Anche grazie alla diffusione del test del Psa, che consente una diagnosi precoce, il 90% dei casi viene individuato ai primi stadi, quando il carcinoma è localizzato e non ha ancora dato metastasi. In queste circostanze non esiste la “cura migliore” in assoluto, universalmente valida per tutti. La scelta fra chirurgia, radioterapia, brachiterapia e sorveglianza attiva dovrebbe essere condivisa con i pazienti, per decidere qual è l’alternativa migliore per la propria situazione, valutando anche le probabili conseguenze indesiderate».
Qual è il trattamento più efficace?
«Le possibili scelte terapeutiche di cui oggi disponiamo (ovvero chirurgia, radioterapia e brachiterapia) si sono dimostrate in grado di offrire risultati molto buoni in termini sia di guarigione sia di lungo-sopravvivenza — chiarisce Giario Conti, segretario della Società italiana di urologia oncologica (SIUrO) —. Sono opzioni valide e sovrapponibili soprattutto per quelle forme di tumore che sappiamo a rischio di progressione basso e intermedio (ovvero, in pratica, con poche probabilità di evolvere e dare metastasi), che sono la maggioranza. Mentre per le forme ad alto rischio vengono in genere proposti trattamenti “multimodali”, che combinano cioè fra loro diverse terapie. A parità di efficacia per i risultati che si ottengono contro la malattia, la scelta va dunque fatta prendendo in considerazione i possibili effetti collaterali, le preferenze e le aspettative del diretto interessato. Sono gli uomini che, soppesando pro e contro di ogni opzione, devono stabilire cosa è meglio per la loro qualità di vita».
E cos’è invece la sorveglianza attiva?
«Con la sorveglianza attiva si propongono, alla persona colpita da tumore di piccole dimensioni e minima aggressività, esami e controlli periodici — risponde Conti —. Questa vale per tutta la vita o fino a quando la malattia non modifica le sue caratteristiche iniziali. Il che permette di evitare o di dilazionare il trattamento attivo e quindi i relativi effetti collaterali (primi fra tutti incontinenza e disfunzione erettile), al momento della modifica delle caratteristiche iniziali della malattia. Per molti pazienti è difficile accettare l’idea che non si intervenga subito per rimuovere il tumore e di diventare invece un “sorvegliato speciale”, ma è ormai una strategia consolidata da diversi anni e le statistiche indicano che meno del due per cento degli uomini abbandona il protocollo per motivi di ansia. È inoltre dimostrato da diverse ricerche internazionali che la sorveglianza attiva non riduce le possibilità di guarigione né la qualità di vita».
Quanto pesano gli effetti collaterali delle terapie sulla qualità di vita degli uomini?
Tanto, secondo un sondaggio recente sondaggio promosso dalla SIUrO. Otto pazienti su dieci affermano che le loro attività ordinarie risultano compromesse a causa della malattia: tra queste ci sono il lavoro (61%), il sesso (57%) gli hobby (48%) e lo sport (27%). Più del 90% dei pazienti ha riscontrato dei cambiamenti a livello psico-fisico e la neoplasia ha un impatto negativo soprattutto a livello uro-andrologico. Infatti il 21% dei malati sostiene di aver avuto problemi di impotenza, il 19% di incontinenza e l’11% d’infertilità.
A quale medico è meglio affidarsi?
«Diverse ricerche hanno dimostrato, a livello internazionale, che la scelta della cura viene molto influenzata dallo specialista che si vede all'inizio — risponde Procopio —. L'urologo tende a operare, il radioterapista a proporre radiazioni, ma la terapia “migliore” deve essere personalizzata, valutando diversi parametri, e calibrata sul singolo paziente. Urologo, radioterapista, oncologo? Meglio un unico team, che valuta il singolo caso e poi decide. Come avviene all'INT con il Programma Prostata, nato nel 2004 per garantire al malato una presa in carico totale, dalla diagnosi e per tutto il percorso della malattia, fino alla riabilitazione e al supporto psicologico, senza trascurare la sfera intima. Le competenze e le diverse professionalità si integrano e si completano per raggiungere nuovi risultati nella ricerca e, al contempo, ottimizzare il percorso diagnostico e terapeutico del paziente».
Come valutare scegliere il centro «giusto»?
Nella grande maggioranza dei casi non serve spostarsi e restare vicino a casa è importante, per pazienti e familiari. Meglio affidarsi a un ospedale che abbia un’Unità dedicata alla cura dei tumori della prostata (o Prostate cancer unit), che sono sempre più diffuse anche in Italia. Al loro interno è presente un team multidisciplinare che consente di fare scelte terapeutiche più corrette, come hanno dimostrato ormai diversi studi scientifici: il confronto fra i vari esperti (urologo, radioterapista, oncologo, psicologo, sessuologo, riabilitatore) sul singolo caso permette di offrire al paziente tutte le opzioni a disposizione, spiegando pro e contro di ogni trattamento. Aiutandolo anche a un migliore recupero per quanto concerne la sessualità e la gestione degli effetti collaterali.
Estratto dell'articolo di Vera Martinella per corriere.it il 16 maggio 2023.
Parlarne può essere difficile o particolarmente imbarazzante, ma la posta in gioco è alta: «confessare» a un medico che si soffre di diarrea in modo continuativo o che si hanno perdite di sangue dal retto può salvare la vita perché potrebbero essere i sintomi iniziale di un cancro al colon-retto.
Soprattutto prima dei 50 anni, quando si è poco propensi a pensare di avere un tumore perché ancora giovani, ma è proprio in questa fascia d'età (per la quale non sono previsti controlli di routine) che si sta verificando un aumento notevole dei casi. Con l'intento di favorire la diagnosi precoce, e scoprire la malattia quando le possibilità di guarire sono maggiori, un gruppo di ricercatori americani ha condotto uno studio che ha individuato alcuni campanelli d'allarme da non ignorare.
Quattro sintomi da non ignorare
La ricerca degli esperti della Washington University School of Medicine di St. Louisha coinvolto 5.075 pazienti con un carcinoma colon-rettale ai primi stadi e i risultati, appena pubblicati sulla rivista Journal of the National Cancer Institute , indicano che ci sono quattro segnali importanti da non trascurare perché potrebbero permettere di scovare un tumore agli inizi, anche due anni prima di quanto non accada nella maggior parte dei casi: diarrea frequente e perdurante, perdite di sangue (rosso vivo, insieme alle feci o meno), dolori addominali continui e che persistono per lunghi periodi, anemia. Quasi la metà dei partecipanti, infatti, aveva sofferto di uno o più di questi disturbi almeno tre mesi prima della diagnosi o anche più.
[…] Con 48.100 nuovi casi registrati ogni anno, il cancro al colon-retto è il secondo tipo di tumore più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo nella poco ambita classifica dei più letali, nonostante ci sia un modo efficace per diagnosticarlo agli inizi e salvarsi la vita: lo screening (offerto gratis in Italia a tutti le persone fra 50 e 70 anni) con il test Sof, per la ricerca del sangue occulto nelle feci.
«Sette cittadini su dieci, però, non eseguono il test che il Sistema sanitario offre gratuitamente ogni due anni e che consentirebbe di evitare quasi il 90% dei casi visto che i carcinomi colon-rettali si sviluppano a partire da adenomi o polipi che impiegano anni, in media una decina, per trasformarsi in forme maligne — Antonino Spinelli, responsabile della Chirurgia del colon-retto all'Istituto Clinico Humanitas di Milano —.
C'è poi un altro problema: se è vero che queste neoplasie sono in aumento in chi ha meno di 50 anni, prima di questa età non sono previsti esami o visite di routine. Proprio per questo motivo negli Stati Uniti è stato recentemente abbassato a 45 anni l'inizio dello screening». Che il test Sof e, quando indicata (se ci sono sospetti), l'esecuzione di una colonscopia possano fare una grande differenza lo dimostrano i numeri: i casi di cancro al colon retto sono in calo dopo i 50 anni, proprio grazie ai controlli, mentre sono in crescita fra i più giovani.
Le cause dell'aumento fra i giovani
A cosa si deve l'aumento dei casi prima dei 50 anni? Negli Stati Uniti da anni il tumore del colon è in crescita in particolare nei ragazzi fra 20 e 34 anni (le stime prevedono addirittura un raddoppio dei casi entro il 2030) e fra i maggiori indiziati ci sono gli stili di vita scorretti. «[…] Sovrappeso, obesità, cattiva alimentazione e sedentarietà sono tra i principali fattori di rischio per questo tumore, anche se il loro ruolo nei pazienti giovani non è ancora ben chiaro».
Fattori dietetici quali il consumo di carni rosse e insaccati, farine e zuccheri raffinati e il consumo di cibi salati, conservati o affumicati fanno salire il pericolo di ammalarsi, come l’eccessivo consumo di bevande alcoliche e il fumo.
[…] Una protezione può essere prodotta dal consumo di frutta e verdure, carboidrati non raffinati, vitamina D e calcio. […]
Tumore del colon-retto in aumento tra i giovani: sette italiani su dieci non fanno i controlli (gratuiti). Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 21 Marzo 2023
Oltre 48 mila nuove diagnosi nel 2022: il 90% si potrebbe prevenire con il test Sof di screening (offerto ogni due anni ai 50-69enni), ma accetta l'invito della Asl solo il 45% dei cittadini al Nord, il 31% al Centro e il 10% al Sud
Quello del colon è uno dei tipi di cancro più diffusi in tutto il mondo e anche dei più letali, nonostante ci sia un modo efficace per diagnosticarlo agli inizi e salvarsi la vita. Non solo: i casi sono in aumento, anche in Italia e, purtroppo, pure fra i giovani (persino prima dei 40 anni). Nel 2022 sono state stimate 48.100 nuove diagnosi di tumore del colon-retto , mentre nel 2020 erano state poco più 43.700. E c'è di peggio: se proprio questa neoplasia, in epoca pre-Covid, era stata l’esempio dell’efficacia dei programmi di prevenzione con lo screening per cui erano diminuiti sia casi sia la mortalità, a causa della pandemia e dei ritardi accumulati durante l’emergenza sanitaria abbiamo fatto dei passi indietro. «Sette cittadini su dieci non eseguono il test per la ricerca del sangue occulto, che il sistema sanitario offre gratuitamente ogni due anni a tutti i 50-69enni — sottolinea Saverio Cinieri, presidente dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) —. Per questo Aiom ha promosso un grande progetto di sensibilizzazione per migliorare l’adesione al test. Saranno realizzati spot, opuscoli, una forte campagna social ed è previsto il coinvolgimento attivo delle farmacie».
Nove casi su dieci si potrebbero evitare
L'obiettivo, in sostanza, è duplice: fare in modo che gli italiani che ricevono la lettera d'invito a fare lo screening con il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci non la buttino via e sensibilizzare tutti, giovani e meno, a non ignorare i possibili campanelli d'allarme. Su entrambi i fronti il tempo è un alleato prezioso contro il cancro. Prima si scopre un'eventuale neoplasia, maggiori sono le possibilità di guarire definitivamente e di farlo con terapie meno invasive. «Il fatto, importantissimo, è che nove casi su dieci si potrebbero evitare se tutti facessero i controlli, ma la metà degli italiani non coglie l’opportunità — chiarisce Sara Lonardi, direttore facente funzione dell’Oncologia 3 all’Istituto Oncologico Veneto IRCCS di Padova —. C'è un metodo efficace, gratis (in Italia) e del tutto indolore per eliminare le lesioni pre-cancerose prima che si trasformino in una neoplasia vera e propria: il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (Sof). I carcinomi colon-rettali si sviluppano a partire da adenomi o polipi che impiegano anni, in media una decina, per trasformarsi in forme maligne ed è in questa finestra temporale che lo screening con il Sof consente di fare una diagnosi precoce ed eliminare i polipi intestinali prima che abbiano acquisito caratteristiche pericolose ed evolvano in un tumore maligno». Se il Sof risulta positivo, si invia il paziente a fare una colonscopia che permette di evidenziare e asportare un’eventuale lesione precancerosa o di eseguire una biopsia.
I sintomi e chi rischia di più
All'inizio un tumore del colon non dà segnali evidenti. «I segni della malattia precoce non sono specifici e includono modifiche delle abitudini intestinali, fastidio addominale, perdita di peso e stanchezza persistente — continua Lonardi —. Quando la patologia è più avanzata si possono manifestare perdite di sangue durante l’evacuazione, dolori addominali, nausea o vomito. Il 20% dei casi, purtroppo, è scoperto tardi». Un ruolo cruciale nella prevenzione è invece dato dall’alimentazione sana ed equilibrata: fattori dietetici quali il consumo di carni rosse e insaccati, farine e zuccheri raffinati e il consumo di cibi salati, conservati o affumicati fanno salire il pericolo di ammalarsi, come l’eccessivo consumo di bevande alcoliche e il fumo. Le probabilità aumentano anche per chi è sovrappeso, obeso e fa poca attività fisica. Una protezione, invece, può essere prodotta dal consumo di frutta e verdure, carboidrati non raffinati, vitamina D e calcio. «Il tumore del colon-retto in Italia è il secondo più frequente dopo quello della mammella — sottolinea Cinieri —: mentre si cerca di recuperare i ritardi causati da Covid, è fondamentale che ognuno faccia del suo meglio per prevenirlo. Vanno anche colmate le differenze territoriali nello screening con il test Sof, visto che al Nord l’adesione raggiunge il 45%, al Centro il 31% e al Sud solo il 10%. Inoltre, è importante che il test sia esteso anche agli over 70. Così potremo salvare più vite. Solo cinque Regioni superano il target del 50% di adesione: il Veneto è il più virtuoso (quasi il 70%), seguono il Trentino, la Valle d’Aosta, l’Emilia-Romagna e il Friuli Venezia Giulia».
Il 20% dei casi scoperto in fase metastatica
In Italia il 65% dei pazienti è vivo cinque anni dopo la diagnosi e sono sempre di più i pazienti che, se anche non possono guarire, riescono a convivere anche diversi anni con la neoplasia e una buona qualità di vita. Tanto che circa 513mila connazionali oggi vivono dopo aver ricevuto la notizia di un tumore al colon-retto. Il 20% dei casi, purtroppo, viene ancora oggi scoperto tardi, quando sono già sviluppate metastasi, ma la prognosi di questi pazienti è migliorata sensibilmente negli ultimi anni. «I passi avanti sono legati da una parte alle nuove conoscenze biologiche, dall’altra all’individuazione di particolari bersagli molecolari che costituiscono il target di terapie innovative» dice Lonardi. Ovvero, conoscere le mutazioni del Dna presenti nella neoplasia di un paziente, le caratteristiche molecolari del singolo tumore, è oggi fondamentale per orientare le scelte terapeutiche: ci sono infatti alterazioni geniche che, se presenti, possono fornire al clinico informazioni molto importanti sull’aggressività biologica del tumore e sulla possibilità di rispondere o meno alle terapie. «In questo modo, possiamo individuare la migliore strategia per il singolo paziente, con risparmi pure per il sistema sanitario» ricorda Cinieri.
Mutazioni genetiche: perché serve il test
«Il carcinoma colon-rettale è una neoplasia estremamente eterogenea dal punto di vista genetico-molecolare — chiarisce Filippo Pietrantonio dell’Oncologia medica gastroenterologica alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano —. La maggior parte dei pazienti con tumore del colon-retto metastatico non è eleggibile a un intervento chirurgico potenzialmente curativo. Al momento di iniziare il trattamento, deve essere effettuata la valutazione dello stato mutazionale dei geni indicati con l’acronimo RAS (KRAS e NRAS), di BRAF e di quelli coinvolti nelle funzioni di riparazione del Dna “mismatch repair” e dell’“elevata instabilità dei microsatelliti”. Questi geni (che sono un indicatore di un deficit di funzionalità del sistema di riparazione del Dna) funzionano come “interruttori” che attivano i meccanismi di crescita e replicazione delle cellule tumorali e possono essere nello stato normale o mutato: oggi sappiamo che questo malfunzionamento è un fattore predittivo per la risposta a determinati farmaci». Circa il 5% dei pazienti metastatici mostra elevata instabilità dei microsatelliti, da cui deriva un alto numero di mutazioni: una caratteristica che sembrava ridurre la probabilità di trarre beneficio dalla chemioterapia tradizionale, ma ora si trasforma in una sorta di vantaggio, perché permette di selezionare un sottogruppo di pazienti molto responsivi all’immunoterapia. «Lo stato normale di KRAS e NRAS, che rappresenta circa il 40-45% del totale dei casi di carcinoma del colon-retto metastatico, indica che il paziente ha maggiori probabilità di rispondere alla terapia a base di anticorpi monoclonali anti-EGFR — conclude Pietrantonio, che è membro del direttivo nazionale Aiom —. La mutazione di BRAF è individuata in circa il 10% dei casi ed è associata a una prognosi peggiore, perché il tumore è più aggressivo e per una maggiore resistenza alle terapie. La mutazione V600E è la più frequente tra quelle di BRAF e il rischio di mortalità in questi pazienti è più che raddoppiato rispetto a quelli “non mutati”. In questi casi, però, la disponibilità di una terapia mirata permette miglioramenti della sopravvivenza».
(ANSA il 14 gennaio 2023) - Scoperto il punto debole di un tipo di tumore al colon-retto, la seconda causa di morte per motivi oncologici a livello mondiale: diventa ora possibile trasformare alcuni di questi, refrattari ai trattamenti con l'immunoterapia, in forme più vulnerabili e quindi curabili.
Il risultato, ottenuto sui topi, è tutto italiano: lo studio, pubblicato sulla rivista Cancer Cell che gli ha anche dedicato la copertina, è infatti frutto della collaborazione tra Università di Torino e Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare (Ifom) di Milano, con il contributo delle Università di Milano e di Palermo, l'Istituto per il Cancro di Candiolo, l'Istituto Nazionale Genetica Molecolare Ingm di Milano, l'Asst Grande Ospedale Niguarda di Milano e l'azienda Cogentech.
L'immunoterapia è un'opzione terapeutica estremamente promettente per molte patologie tumorali, ma per il tumore al colon-retto il suo impiego è fortemente limitato: questo perché, nel 95% dei casi, i tumori risultano refrattari a questo trattamento e vengono infatti definiti 'freddi'.
La differenza è probabilmente dovuta a meccanismi di riparazione del Dna: "Nella maggior parte dei pazienti, questi meccanismi sono ancora funzionanti", spiega Alberto Bardelli, direttore di ricerca all'Ifom e docente all'Università di Torino, che ha coordinato lo studio. "Solo nel 5% dei pazienti il tumore ha perso questo meccanismo e produce quindi proteine alterate che attivano il sistema immunitario".
Cercando di convertire i tumori 'freddi' in tumori 'caldi', i ricercatori guidati da Vito Amodio, di Ifom, Università di Torino e Istituto di Candiolo, hanno scoperto che alcuni dei tumori più resistenti nascondono parti più vulnerabili.
Utilizzando nei topi la 6-Tioguanina, un farmaco già utilizzato nel trattamento di alcune leucemie, sono riusciti ad allargare le zone 'calde' di questi tumori, che diventano quindi trattabili con l'immunoterapia. Gli autori dello studio stanno ora verificando se è possibile estendere agli esseri umani i risultati ottenuti negli animali da laboratorio.
Il tumore al colon con metastasi che ha ucciso Matteo Messina Denaro: caratteristiche e sintomi. Il boss è morto a causa di un tumore al colon-retto: ecco di cosa si tratta, quali sono i campanelli d'allarme, come si cura e l'aspettativa di vita. Alessandro Ferro il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Caratteristiche del tumore al colon
Quali sono i sintomi
Diagnosi e cure
Studi e sopravvivenza
L'ultimo padrino, Matteo Messina Denaro, è morto a causa di una grave forma di tumore al colon di cui soffriva da anni, dalla diagnosi nel 2020, fin quando le sue condizioni di salute non si sono aggravate irreversibilmente nelle ultime settimane. Durante i mesi della sua cattura che ha trascorso in regime di 41 bis nel carcere de L'Aquila è stato sottoposto ad alcuni interventi chirurgici direttamente collegati al cancro fin quando è arrivato al coma irreversibile negli ultimissimi giorni e i medici hanno optato per la sospensione dell'alimentazione secondo le volontà di Messina Denaro.
Caratteristiche del tumore al colon
Il tumore del colon si sviluppa quando avviene una crescita fuori controllo delle cellule epiteliali della mucosa che riveste la parte interna dell’intestino crasso (il cui nome è, appunto, colon) che si manifesta soprattutto nella sua parte finale (chiamata sigma), nel colon ascendente e più raramente anche nel colon trasverso e discendente, la parte più vicina al retto.
Allarme tumore al colon negli under 50: scoperte le cause
Quali sono i sintomi
Alcuni segnali non vanno sottovalutati, e riguardano soprattutto la perdirta di peso e la comparsa di sangue nelle feci. Altre volte, però, può essere più complicato identificare il tumore del colon retto che può presentarsi in maniera più subdola inizialmente con stitichezza o diarrea. Gli esperti dell'Irccs Ospedale San Raffaele del Gruppo San Donato spiegano che in altri casi "i sintomi possono essere talmente sfumati tanto da non essere riconosciuti dal paziente. La sola anemizzazione ne è un esempio: il paziente si accorge tramite gli esami del sangue di avere dei valori alterati, causati dal sanguinamento spontaneo del tumore".
Diagnosi e cure
Prima di capire quali sono le terapie disponibili, bisogna sottolineare che per scovare il tumore del colon-retto si utilizzano i seguenti strumenti come affermano dall'Istituto Humanitas:
Ecografia addominale e pelvica;
Colonscopia con biopsia per esame istologico;
Tomografia computerizzata torace-addome-pelvi;
Anoscopia;
Rettoscopia.
Per provare a rimuovere il tumore si utilizza l'intervento chirurgico, normalmente il primo step della terapia. Nelle fasi più avanzate, invece, si procede con radio o chiemioterapia. In alcuni casi, ad alcuni pazienti vengono somministrati nuovi farmaci biologici quando non c'è la risposta desiderata con i farmaci antitumorali mirati.
Studi e sopravvivenza
ll tumore al colon-retto è tra i più diffusi nei Paesi occidentali, Italia compresa dove soltanto nel 2022 sono state fatte quasi 50mila nuove diagnosi con una leggera prevalenza della malattia negli uomini (26mila) rispetto alle donne (22mila). Nel nostro Paese convivono con questa malattia oltre mezzo milione di persone tra cui, anche in questo caso, 280mila uomini e circa 230mila donne. "La buona notizia è che oggi disponiamo di uno strumento formidabile per identificare questi tumori ben prima della comparsa dei sintomi per intervenire tempestivamente, ossia lo screening precoce. Mi piace pensare che in un mondo ideale e non troppo futuro il tumore del colon-retto sarà in gran parte curabile proprio grazie all'identificazione precoce tramite gli appuntamenti con la prevenzione", ha spiegato il prof. Silvio Danese, direttore dell'Unità di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva dell'Irccs Ospedale San Raffaele.
Come abbiamo visto sul Giornale.it, i ricercatori stanno mettendo a punto una nuova cura con l'immunoterapia. Ma qual è la speranza di vita? "A oggi la sopravvivenza di un paziente con cancro al colon retto metastatico può raggiungere anche i 24-36 mesi", ha spiegato al Corriere il prof. Carmine Pinto, direttore dell’Oncologia medica all’Ausl-Irccs di Reggio Emilia ma in molti casi si possono raggiungere anche i cinque anni di vita. Tutto dipende dalla tolleranza del malato alle cure, se è in grado di tollerare le terapie e se il singolo paziente riesce a superare, "quanto si è diffuso il tumore, quanto è aggressivo, se e quanto le cure fanno effetto".
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Benessere
Tumore al colon: 4 segnali da non sottovalutare. Alessandro Ferro il 18 Maggio 2023 su Il Giornale.
Il tumore al colon-retto si diffonde sempre di più anche nella popolazione più giovane. Ecco i sintomi a cui prestare la massima attenzione e l'importanza della prevenzione
Tabella dei contenuti
Ecco i 4 campanelli d'allarme
Cosa dice lo studio
L'importanza della prevenzione
Sebbene il tumore al colon-retto possa colpire tutte le età, dai giovani agli adulti, negli ultimi tempi alcuni ricercatori hanno riscontrato un preoccupante aumento dei casi tra i soggetti che hanno meno di 50 anni tanto da parlare di "esordio precoce" della malattia. Un importante studio condotto dalla Washington University School of Medicine di St. Louis e pubblicato sul Journal of the National Cancer Institute ha messo in risalto quali sono i campanelli d'allarme che devono far subito richiedere il parere di un medico specialista.
Ecco i 4 campanelli d'allarme
I quattro segnali che possono indicare l'esordio della malattia sono i seguenti:
Dolore addominale: soprattutto se è persistente, può essere un sintomo importante. "È consigliabile prestare attenzione a eventuali crampi, sensazioni di gonfiore o disagio che si protraggono nel tempo", spiegano gli esperti di MicrobiologiaItalia
Sanguinamento: la presenza di sangue nelle feci o nel tratto anale può indicare un problema del colon. Anche con tracce minime bisognerebbe richiedere l'attento parere di un esperto
Diarrea: se gli episodi si fanno frequenti e persistenti ci può essere un legame con il tumore del colon così come quando si verificano lunghe alterazioni del ritmo intestinale
Bassi livelli di ferro: bassi livelli di ferro nel sangue, ossia l'anemia da carenza di ferro, può essere un altro dei sintomi del tumore al colon-retto. "La carenza di ferro può causare affaticamento, debolezza e pallore, tra gli altri sintomi. È importante sottoporsi a un esame del sangue per valutare i livelli di ferro e discutere i risultati con un medico", spiegano i microbiologi
Cosa dice lo studio
La ricerca in questione ha analizzato circa 5mila casi già diagnosticati di cancro al colon-retto negli under 50 per capire quale fosse l'andamento della malattia ma soprattutto i campanelli d'allarme a partire dai due anni precedenti fino a tre mesi prima dalla diagnosi definitiva. "Il cancro del colon-retto non è semplicemente una malattia che colpisce le persone anziane; vogliamo che i giovani adulti siano consapevoli e agiscano in base a questi segni e sintomi potenzialmente molto significativi", ha dichiarato il coordinatore dello studio, Yin Cao.
Tumore al colon: possibile cura senza chemioterapia
I ricercatori hanno spiegato che la sola presenza di uno dei quattro sintomi sopra menzionati raddoppia la possibilità che il tumore al colon sia presente: se poi i segnali negativi fossero due il rischio sarebbe di 3,59 volte che aumenta a 6,52 volte con tre sintomi su quattro. "In questa analisi abbiamo scoperto che alcuni giovani adulti avevano sintomi fino a due anni prima della loro diagnosi. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui molti di questi pazienti più giovani avevano una malattia più avanzata al momento della diagnosi rispetto a quella che normalmente vediamo nelle persone anziane che vengono sottoposte a screening regolarmente", ha sottolineato la prima firma di questa ricerca, Cassandra D. L. Fritz.
L'importanza della prevenzione
Come abbiamo visto su ilGiornale.it, è di fondamentale importanza aderire alle campagne di prevenzione come quella chiamata "Step Up" che durerà tutto l'anno. Il 2022 ha fatto registrare, soltanto in Italia, 48mila nuovi casi di tumore previsti in aumento quest'anno ma si cerca, in tutti i modi, di arginare questa importante problematica. Quando non concorrono fattori genetici, massima attenzione va riservata al regime alimentare, evitando abuso di alcol e fumo che aumentano esponenzialmente il rischio di veder insorgere questo tumore.
Tumore al colon: possibile cura senza chemioterapia. Alcuni ricercatori hanno individuato una potenziale cura contro il tumore del colon-retto con l'immunoterapia: ecco cosa dice lo studio e l'importanza della prevenzione. Alessandro Ferro il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I passi avanti della ricerca
Cosa può cambiare
L'importanza della prevenzione
Sarebbe una svolta molto importante sulla battaglia al tumore del colon-retto: alcuni ricercatori dell’Ifom di Milano e dell’Università degli Studi di Torino grazie ad alcuni esperimenti condotti su animali di laboratorio e coltura cellulare hanno trovato una nuova potenziale cura per i tumori eterogenei al colon-retto con l'immunoterapia. In questo modo, aumenterebbe il beneficio per tanti pazienti che possono ricorrere soltanto all'intervento chirurgico o alla chemioterapia e che per ora si può applicare soltanto al 5% di queste neoplasie.
Step Up, parte la campagna di prevenzione contro il tumore del colon-retto
I passi avanti della ricerca
I risultati della ricerca, sostenuta dall'Aric, sono stati pubblicati sul giornale scientifico Cancer Cell. Ad oggi, l'immunoterapia è davvero un'opzione molto rara per curare il cancro così come in quello del colon-retto che rimane il secondo a più alta mortalità nel mondo perché soltanto il 5% può trarre beneficio da questo tipo di trattamento. "Due anni fa ci siamo chiesti se fosse possibile aumentare la percentuale dei pazienti che possono beneficiare dell’immunoterapia identificando quei 'tumori freddi' che al loro interno nascondono una componente calda", ha spiegato a Unitonews il prof. Vito Amodio, ricercatore di Ifom, Università degli Studi di Torino e Istituto di Candiolo Irccs.
Quando si parla di tumori freddi si intende l'impossibilità di curare quella patologia con l'immunoterapia: viceversa, se c'è una parte "calda" il discorso cambia ed è la direzione che ha intrapreso lo studio in questione. "Abbiamo scoperto che nel piccolo gruppo di tumori eterogenei per lo status del MMR coesistono aree tumorali potenzialmente fredde e calde da un punto di vista immunologico. Ci siamo chiesti se ci fossero terapie già disponibili in grado di aumentare l’efficacia dell‘immunoterapia per i tumori del colon-retto che al momento non ne beneficiano", ha aggiunto Amodio.
Cosa può cambiare
I ricercatori hanno studiato in laboratorio questa condizione di "eterogeneità molecolare" come potenziale bersaglio per trasformare un tumore "freddo" e refrattario al sistema immunitario in "caldo" così da poter rispondere all’immunoterapia. I nuovi dati pongono le basi per raddoppiare gli sforzi e arrivare ad aumentare il numero di pazienti, in maniera considerevole, che possono beneficiare di questo nuovo metodo di cura. "Questo studio, che è stato possibile grazie all’essenziale sostegno di Fondazione Aiar, sottolinea l’importanza di comprendere a fondo l’ecosistema di ogni singolo tumore per poter comprendere quali siano le migliori opzioni terapeutiche utilizzabili", ha spiegato il prof. Alberto Bardelli, Direttore del programma di ricerca Ifom Genomica dei tumori e terapie anticancro mirate e docente Ordinario all’Università degli Studi di Torino. Ancora, però, è presto per cantare vittoria. "Seppur incoraggianti, i risultati ottenuti sono stati generati in animali di laboratorio e stiamo al momento verificando se possano essere trasferiti a breve in clinica", conclude Bardelli.
L'importanza della prevenzione
Come abbiamo visto sul ilGiornale.it, è partita la campagna di prevenzione Step Up per il tumore al colon-retto che durerà per tutto il 2023. Il campanello d'allarme deriva anche dai numeri dello scorso anno quando soltanto tre italiani su 10 si sono sottoposti allo screening per la diagnosi precoce che è gratuito da 50 anni in poi. Nel 70% dei casi l'invito non è andato a buon fine. "Avremo un'epidemia di tumori del colon retto nei prossimi anni, individuati in forma più avanzata, a causa degli effetti della pandemia che ha fatto saltare gli screening, ma anche per la scarsa propensione dei cittadini a farli", ha sottolineato Fortunato Ciardiello, professore ordinario del Dipartimento di Medicina di precisione dell'Università della Campania Luigi Vanvitelli.
Nel 2022 sono stati più di 48mila i nuovi casi di cancro del colon retto in Italia. "Nel 2023 aumenteranno ancora - aggiunge Ciardiello - Inoltre, iniziamo a vedere sempre più casi sotto i 50 anni d'età". Tra le cause principali compaiono un'alimentazione sbagliata, l'abuso di alcol e il fumo. "Vogliamo ribadire che la prevenzione passa attraverso corretti stili di vita e che scoprire un tumore in fase precoce fa la differenza in termini di guarigione".
Tumore allo stomaco, come riconoscerlo dall'occhio. Libero Quotidiano il 23 dicembre 2022
È stato scoperto un nuovo sintomo che permette di sapere se si ha un tumore allo stomaco. Tutto è partito da un caso clinico, come riporta il Messaggero. Nell'articolo apparso sul Cureus Journal of Medical Science i medici hanno scritto che una donna di 52 anni aveva visto i suoi occhi diventare gialli durante le tre settimane di mal di stomaco continuo. Alla paziente è stato poi diagnosticato un cancro allo stomaco mortale, chiamato adenocarcinoma gastrico.
Solitamente se il tumore viene individuato per tempo la cura ha più possibilità di successo. Ma nel caso citato dalla rivista il tumore della donna era cresciuto così tanto che aveva intaccato anche l'intestino, rendendolo perciò incurabile. E causando un blocco intestinale che faceva ingiallire gli occhi della donna: condizione nota come ittero.
L'ittero si manifesta quando c'è un accumulo di bilirubina nel sangue. Si verifica spesso quando le persone hanno condizioni come calcoli biliari o danni al fegato. I medici hanno evidenziato che gli occhi gialli sono un "raro" primo sintomo di tumore allo stomaco. La donna si è sottoposta a un intervento chirurgico per alleviare i suoi sintomi, ma non per curare il cancro. Successivamente è stata dimessa, ma ha rifiutato ulteriori trattamenti con la chemioterapia ed è morta due mesi dopo.
Tumore al pancreas, nuova speranza di cura da vaccino a mRna. La prima fase di sperimentazione promette bene: un vaccino a Rna messaggero riuscirebbe a migliorare il decorso della forma più aggressiva di tumore al pancreas, ecco come. Alessandro Ferro su Il Giornale l'11 Maggio 2023
Tabella dei contenuti
I risultati della ricerca
I "bersagli" da colpire
La speranza per il futuro
È ancora uno dei tumori più difficili da curare e al quarto posto come indice di mortalità ma un vaccino a Rna messaggero promette di bloccare l'avanza della forma più aggressiva di tumore al pancreas, l'adenocarcinoma duttale pancreatico letale nel'88% dei pazienti. Lo studio pubblicato su Nature parla degli esiti positivi in fase di sperimentazione con una buona risposta immunitaria sui pazienti e un ritardo sulla recidiva nella metà dei casi assieme ad altri trattamenti.
Tumore al pancreas, il dispositivo impiantabile lo riduce
I risultati della ricerca
Il vaccino è in fase di sperimentazione nel Centro per il cancro "Memorial Sloan Kettering" di New York: come abbiamo visto sul ilGiornale.it, questa forma così aggressiva è, purtroppo, anche la più diffusa con l'aspettativa di vita che non va al di là dei cinque anni. La ricerca, guidata da Luis Rojas e Zachary Sethna, ha visto la somministrazione a 16 pazienti del vaccino a Rna messaggero in combinazione con chemioterapia e immunoterapia: in questa fase (la prima) si sta testando la sicurezza del farmaco e si osservano gli eventuali effetti collaterali. Come detto, le prime risposte sono state molto positive nel 50% dei casi con ricadure che si sono ripresentate soltanto dopo un anno e mezzo mentre, coloro che non hanno avuto apprezzabili miglioramenti, hanno visto un peggioramento delle loro condizioni fisiche dopo 13,4 mesi.
I "bersagli" da colpire
Adesso, però, la ricerca ha bisogno di andare avanti arruolando un numero sempre maggiore di pazienti. Questo tumore al pancreas si caratterizza per l'elevata presenza di antigeni (proteine) sulle cellule tumorali che compaiono dopo alcuni cambiamenti del Dna: con il vaccino, quindi, si potrebbero colpire direttamente queste proteine cercando di migliorare le condizioni del paziente con una nuova e diversa efficacia delle cure. Sappiamo bene, con il Covid, come l'Rna messaggero abbia migliorato nettamente l'evoluzione della pandemia, protetto dalle forme più gravi e aperto una nuova era nella lotta ai tumori.
Speranza per il tumore al pancreas: come funziona la nuova cura
La speranza per il futuro
La multinazionale Moderna, come abbiamo visto su ilGiornale.it, qualche settimana fa ha annunciato che entro il 2030 potrebbero essere pronti numerosi vaccini a Rna messaggero per le forme più disparate di tumore, non soltanto quello al pancreas. Il suo direttore sanitario, Paul Burton, ha dichiarato alla stampa che i nuovi vaccini "saranno molto efficaci, e potranno salvare centinaia di migliaia se non milioni di vite. Credo che saremo in grado di offrire vaccini personalizzati contro numerosi diversi tipi di tumore alla popolazione mondiale". La molecola di Rna messaggero agisce con "istruzioni" in grado di stimolare il sistema immunitario a distruggere le cellule malate: ecco anche perché, in futuro non molto lontano, si potrebbero avere vaccini anche contro le malattie cardiovascolari e autoimmuni.
Tumore pancreas, la combinazione che potenzia la chemio: la scoperta al Pascale con antiepilettico e farmaco per colesterolo. Redazione su il Riformista il 14 Aprile 2023
La combinazione di un farmaco solitamente usato per abbassare il colesterolo e un antiepilettico potenzierebbero l’effetto della chemioterapia in pazienti affetti da adenocarcinoma metastatico del pancreas modificando la biologia del tumore. La felice intuizione nasce da uno studio condotto al Pascale dall’Unità di Farmacologia Sperimentale, coordinata da Elena Di Gennaro che insieme con le ricercatrici Federica Iannelli, Serena Roca, Francesca Bruzzese e Alessandra Leone, il prossimo mese arruoleranno i primi pazienti.
Lo studio clinico si chiama VESPA è coordinato dal direttore scientifico dell’Istituto dei tumori di Napoli, Alfredo Budillon e dal direttore dell’Unità di Oncologia Clinica e Sperimentale per i tumori addominali, Antonio Avallone, ed è stato finanziato dal progetto Europeo REMEDI4all, che vede il Pascale partner con altri 23 Istituzioni con l’obiettivo di costruire una struttura permanente in Europa sul “riposizionamento” dei farmaci, l’utilizzo cioè di farmaci già approvati e o utilizzati nell’uomo per scopi diversi rispetto alla loro indicazione originaria. E’ questo il caso dell’acido valproico e della simvastatina una strategia sperimentata per molte malattie, con il vantaggio di poter risparmiare costi e tempi nello sviluppo del farmaco
“Lo studio VESPA– spiega il direttore scientifico del Pascale, Alfredo Budillon – è stato concepito fin dall’inizio come “centrato sui pazienti” ed è stato disegnato e sviluppato in collaborazione con una delle principali organizzazioni europee di pazienti oncologici, la “Cancer Patient Europe” che avrà infatti un suo rappresentante nel comitato di direzione dello studio con la direttrice dell’organizzazione basata a Bruxelles, Antonella Cardone, che affiancherà me e Antonio Avallone e la statistica Diana Giannarelli del Policlinico Gemelli”.
Lo studio clinico ha ricevuto anche un finanziamento dal Ministero della Salute nell’ambito della Ricerca Finalizzata e si avvale di tre partner italiani principali, l’Istituto San Raffaele di Milano con l’Unità diretta da Michele Reni, l’Università di Verona con l’Unità di Oncologia Diretta da Michele Milella e il Policlinico Gemelli di Roma con l’Unità di Oncologia diretta da Gianpaolo Tortora, e di un importante partner spagnolo, l’Istituto Raymon Y Cajal, la principale Istituzione di Ricerca Clinica di Madrid con il suo direttore scientifico Maria Laura Garcia Bermejo e la dottoressa Mercedes Rodriguez Garrote.
“Complimenti al nostro direttore scientifico – dice il direttore generale del polo oncologico partenopeo, Attilio Bianchi – per l’approvazione di un progetto di tale portata. Guardare il mondo con gli occhi del paziente è la dimensione con cui sempre più dobbiamo essere capaci di confrontarci”.
Pancreas, il cancro big killer: ricostruito l’ecosistema dello sviluppo delle cellule. Pubblicata sulla rivista Acs Nano una ricerca dell’Istituto di nanotecnologia del Cnr di Lecce. Dalla piattaforma nuove combinazioni di farmaci per la cura. Redazione Primo Piano su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Febbraio 2023
Una ricerca, pubblicata sulla rivista Acs Nano, condotta dai ricercatori dell’Istituto di nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche di Lecce (Cnr-Nanotec) in collaborazione con l’Instituto Biofisika (Spagna), la Fondazione Ikerbasque (Spagna), l’Istituto Italiano per la Medicina Genomica - IIGM - ente strumentale della Fondazione Compagnia di San Paolo, il Politecnico di Torino, l’Università del Salento (Lecce) e l’Istituto tumori «Giovanni Paolo II» Ircss di Bari, ha visto la realizzazione di una nuova piattaforma che ricostruisce l’ecosistema che sta alla base dello sviluppo dei tumori, partendo dall’analisi del metabolismo delle cellule. Questo tipo di studi, focalizzato sulle singole cellule, viene applicato in diversi ambiti, nelle patologie tumorali, nell’immunologia e nella neurologia, ed è importante perché individua meccanismi che non sarebbero identificabili attraverso indagini eseguite sull’intera popolazione cellulare. Tuttavia, le tecniche che attualmente vengono utilizzate per la misurazione delle caratteristiche metaboliche delle cellule sono molto spesso costose e invasive.
«Siamo riusciti a creare un microambiente simile a quello naturale per lo sviluppo delle cellule tumorali, realizzando membrane nanofibrose contenenti sensori ottici che simulano la struttura della matrice extracellulare, la parte dei tessuti nei quali non sono presenti cellule. Queste membrane permettono di ricostruire, con un’elevata risoluzione spaziale e temporale, i flussi di protoni e le reti di scambio tra cellule all’interno di una popolazione cellulare eterogenea: le differenze tra singole cellule, infatti, influenzano fortemente il comportamento collettivo dei sistemi biologici e, di conseguenza, possono inficiare l’efficacia dei trattamenti medici» spiega Loretta L. del Mercato, del Cnr-Nanotec.
«La scelta del modello di studio, il tumore del pancreas, è da considerarsi strategica perché questa patologia rientra tra i tumori big killer ed è particolarmente resistente ai trattamenti farmacologici» precisa Amalia Azzariti dell’Istituto tumori Bari.
«È importante notare che in questo ecosistema le cellule tumorali e non tumorali possono scambiarsi i ruoli, in contrasto con l’idea diffusa che le tumorali operino soprattutto come donatrici di acido lattico e non come accettori, ovvero come cellule che lo accolgono. Pertanto, le strategie che puntano a limitare la crescita dei tumori riducendo la loro capacità di espellere acido lattico potrebbero rivelarsi inefficaci» continua Andrea De Martino del Politecnico di Torino. «Analizzando l’acidificazione di massa di una coltura tumorale, nota come effetto Warburg, che è un segno distintivo del cancro, abbiamo ricostruito il contributo apportato da ogni singola cellula. Si è potuto così constatare che l’acido lattico secreto dalle cellule donatrici funge sia da molecola di segnalazione nella comunicazione cellulare che da substrato per gli accettori» conclude Daniele De Martino dell’Istituto Biofisika/Ikerbasque».
Questo studio apre la strada all’analisi non invasiva, non costosa e in tempo reale del metabolismo delle singole cellule. La nuova piattaforma permetterà l’identificazione di nuove combinazioni farmacologiche che potrebbero rappresentare una svolta nel trattamento del tumore del pancreas.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l’11 gennaio 2023.
È uno dei tumori maligni meno studiati e analizzati dal mondo della ricerca italiana, nonostante le circa 14mila nuove diagnosi all'anno, la maggioranza delle quali arriva sempre tardivamente, quando il cancro è ormai in fase avanzata e diffuso localmente e a distanza.
Il carcinoma del pancreas è una delle patologie oncologiche più subdole e pericolose, perché questa grande ghiandola è in posizione profonda nell'addome, posta dietro lo stomaco, appoggiata alla colonna vertebrale e mascherata da fegato e colon, e soprattutto perché non manifesta, almeno inizialmente, sintomi chiari e riconoscibili.
Inoltre non sono stati identificati fattori di rischio evidenti, a parte il sovrappeso, il fumo, l'alimentazione ricca di grassi e la familiarità, ma nessuno di questi è riconosciuto ufficialmente come la causa scatenante e molte persone che si ammalano di questa patologia non presentano nessuno di questi fattori, come viceversa molti di coloro che ne sono affetti non si ammaleranno mai di questo male.
Oggi il carcinoma pancreatico è salito all'onore delle cronache sull'emozione per triste vicenda del calciatore Gianluca Vialli, sopravvissuto poco più di 5anni, come accaduto in precedenza a seguito della morte per identica patologia e decorso post operatorio di Luciano Pavarotti e Steve Jobs (anche loro arrivati alle cure con diagnosi tardiva), ma moltissimi personaggi famosi e non hanno affrontato e perso la vita a causa di questo tumore, oggi classificato come la quarta causa di morte, con una sopravvivenza a 5 anni di appena l'8% dei pazienti.
Il pancreas è deputato a produrre succhi pancreatici che favoriscono la scomposizione del cibo e la conseguente digestione, oltre a produrre ormoni vitali come l'insulina per controllare i livelli di zucchero nel sangue, per cui i sintomi iniziali sono sfumati e fuorvianti per una diagnosi precoce, confondono sia il paziente che il medico, vanno dalla difficoltà di digestione con perdita di peso, al dolore nella parte superiore dell'addome, sopra l'ombelico, e della schiena, dolore che non si modifica cambiando posizione, è costante e può essere da lieve a violento, fino all'ittero, ovvero la colorazione gialla che inizia dalle sclere degli occhi per poi diffondersi con un prurito costante a tutta la pelle del corpo, cosa che provoca la produzione di urine scure color marsala e feci chiare, segno questo dovuto alla ostruzione da parte del tumore delle vie biliari pancreatiche che riversano il siero digestivo nel sangue anziché nell'intestino come di norma.
A volte può insorgere il diabete, quando la compromissione pancreatica è già estesa e la massa tumorale ha invaso gran parte dell'organo, cosa che può provocare anche episodi di pancreatite acuta, una infiammazione molto dolorosa con coliche addominali che richiede quasi sempre il ricovero ospedaliero.
A tutt' oggi non esistono esami di screening utili alla valutazione dei soggetti che non presentano sintomi o alterazione dei dati di laboratorio, perché il carcinoma pancreatico può essere sospettato con una ecografia molto accurata, o essere individuato radiologicamente con la Tac, l'ecografia endoscopica, o la Rmn (risonanza magnetica nucleare), esami radiologici che in genere non vengono richiesti dai pazienti apparentemente sani.
I tumori maligni del pancreas sono diversi per zona di insorgenza nella ghiandola (testa, corpo o coda) ed istologia, e vanno dal neuroendocrino al gastrinoma, oltre a quelli che compromettono la produzione ormonale di somatostatina, del glucagone o dell'insulina, molto poco sintomatici, ma il più frequente di tutti è appunto l'adeno-carcinoma pancreatico, che inizialmente, per motivi ancora sconosciuti, indurrebbe quasi sempre un abbassamento del tono dell'umore e segnali di depressione, prima di manifestare i sintomi tipici della malattia.
Il tumore del pancreas è in lento ma costante aumento nella popolazione italiana, parallelamente a quello del cervello, e non sono note le cause, ma colpisce individui di ogni età, dai 20 ai 100 anni, anche se l'incidenza è maggiore sopra i 65 anni, progredisce più o meno velocemente a secondo della sua aggressività istologica (e non in base all'età del paziente) e la terapia di elezione resta quella chirurgica, associata alle già note cure mediche oncologiche ed immunologiche oggi a disposizione.
In Regione Lombardia l'assessore al Welfare Guido Bertolaso due giorni fa ha annunciato un gruppo di lavoro sulle "Pancreas Unit" coinvolgendo tutti i Centri di Ricerca di eccellenza lombarda, incluso lo IEO (Istituto Europeo Oncologico), coordinati da un'unica regia dai vertici dell'assessorato, per costruire una rete di scambio, di informazioni cliniche, mediche, diagnostiche e dati di ricerca, per far sì che si riesca ad arrivare ad un metodo di prevenzione e ad una diagnosi precoce, oltre che ad una terapia bersaglio, un segnale forte e chiaro di una "task force" lombarda finora assente in tutta Europa.
Nella sola Lombardia le nuove diagnosi di tumore del pancreas sono state 4.031 nel 2019, 3.529 nel 2020 (anno del Covid), 3.444 nel 2021, e la Regione metterà a disposizione ulteriori fondi per ottimizzare gli sforzi di questo importante modello organizzativo, che speriamo farà da apripista anche nelle altre regioni italiane, per individuare e sconfiggere in tempo questa patologia considerata ancora invincibile.
Da open.online il 7 gennaio 2023.
La malattia che ha portato via Gianluca Vialli è il tumore al pancreas. Si tratta di una patologia che colpisce circa 14 mila pazienti all’anno. Tra le vittime illustri ci sono il tenore Luciano Pavarotti e il fondatore di Apple Steve Jobs. Si localizza nel 70% dei casi sulla testa del pancreas, sul corpo per il 15-20%, sulla coda per il 5-10%.
La malattia è attualmente la quarta causa di morte nelle donne e la sesta negli uomini, con una sopravvivenza a 5 anni di appena l’8%. Solo il 3% di chi si ammala riesce a sopravvivere 10 anni. La malattia si manifesta sotto diverse forme. La più comune è l’adenocarcinoma, ma in tutti i casi non si manifesta con sintomi riconoscibili. Per questo motivo uno dei problemi più grandi è la diagnosi, che molto spesso arriva quando il tumore è ormai in una fase avanzata e ha generato metastasi.
La malattia del campione
Alessandro Zerbi, responsabile dell’unità operativa di chirurgia pancreatica dell’Humanitas di Milano, spiega oggi che il primo sintomo di Vialli è stato un ittero. Ovvero l’ingiallimento della pelle e della parte bianca degli occhi. Ma l’Istituto Superiore di Sanità avverte che qualsiasi malattia che interferisca con il trasporto della bilirubina dal sangue al fegato e con la sua eliminazione può causarlo.
Altri segni dell’ittero sono le feci chiare e le urine scure. Ce ne sono di tre tipi diversi. L’ittero intra-epatico e l’ittero post-epatico sono più frequenti nelle persone di mezza età e negli anziani rispetto ai giovani. L’ittero pre-epatico può colpire persone di tutte le età, compresi i bambini. Zerbi ha operato Vialli nel 2017. Di tumore del pancreas sono morte anche la prima astronauta americana Sally Ride e le attrici Anna Magnani e Mariangela Melato. Nel mondo del calcio Giacinto Facchetti, Giuseppe Meazza e Omar Sivori.
L’intervento
«Quell’intervento di duodenocefalopancreasectomia era andato bene», ricorda oggi il dottore in un’intervista al Giornale. L’intervento consiste «nell’asportazione del duodeno e della testa del pancreas. È estremamente complessa». Perché «può dare infezioni, emorragie e fistole nelle prime settimane dopo l’intervento. La convalescenza non è rapidissima, ci vogliono alcune settimane». I fattori di rischio, spiega Zerbi, sono «il fumo, il sovrappeso, un’alimentazione ricca di grassi e povera di fibre e uno stile di vita sedentario. Anche la familiarità definita come avere due casi di parenti stretti che si sono ammalati di questo tumore». Il dottore sfata anche una leggenda metropolitana molto comune: «Non è vero che il tumore progredisce più lentamente se l’età del malato è più alta. Ogni tumore progredisce più velocemente o più lentamente a seconda di quanto è aggressivo. E quello al pancreas è un tumore molto aggressivo dal punto di vista biologico. Tanto che ha una prognosi mediamente peggiore degli altri».
Gli altri sintomi
Oltre all’ittero, gli altri sintomi del tumore al pancreas sono una pancreatite, ovvero un’infiammazione che dà dolori fortissimi. E un diabete improvviso, che di solito è sintomo di uno stadio precoce della malattia. Uno screening «purtroppo non c’è. Solo nel 10% dei casi, ovvero i pazienti che hanno familiarità con la malattia perché hanno avuto due parenti malati.
Si possono fare controlli periodici: una risonanza magnetica all’anno per tenere sotto controllo la situazione. Solo nel 20-30% dei casi i pazienti se ne accorgono in tempo». In questi casi l’intervento più comune è «l’asportazione del pancreas. Altrimenti si ricorre a chemioterapia o altre cure e radioterapia. Dopo 5 anni dall’intervento sopravvive il 20/30 per cento dei pazienti poiché c’è un alto rischio di metastasi o recidiva: purtroppo è quello che è successo a Vialli».
L’oncologo e il tumore al pancreas
In un colloquio con l’agenzia di stampa Dire Michele Reni, professore associato di Oncologia dell’Università Vita e Salute e coordinatore dell’area oncologica Irccs San Raffaele di Milano, spiega che «l’unica terapia a bersaglio che era stato dimostrato avesse un certo vantaggio nel controllare la malattia più a lungo era il farmaco Olaparib, indicato per i pazienti Brca mutati. Ma l’Aifa non ha concesso la rimborsabilità e quindi ci impedisce di usarlo».
Il tumore del pancreas, nota l’oncologo, «purtroppo non fa distinzioni. Colpisce un po’ tutti. Ed è una neoplasia in crescita dal punto di vista numerico. Di fatto noi abbiamo in cura pazienti di ogni età, dai 20 ai 100 anni. È vero che l’incidenza è maggiore nelle persone al di sopra dei 65 anni ma, in effetti, il cancro del pancreas colpisce tanti. Non c’è una categoria particolare di persone a rischio e questo rappresenta una delle difficoltà che incontriamo di fronte a questa malattia, perché non potendo identificare con precisione la popolazione a rischio, di fatto non possiamo fare screening».
Tumore al pancreas, la malattia di cui è morto Vialli: i sintomi e le cure. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.
I fattori di rischio e i sintomi iniziali per la diagnosi precoce. Si tratta di un tumore che spesso viene scoperto tardi proprio a causa dei sintomi, che non sono chiari fino a quando non si è già diffuso. Nel caso di Vialli, la diagnosi era arrivata per la comparsa dell’ittero. Fondamentale farsi curare in Centri con grande esperienza
Resta un nemico difficile da combattere il tumore del pancreas che si è portato via Gianluca Vialli , dopo aver segnato il destino anche di altri personaggi illustri, come il tenore Luciano Pavarotti, l’attore Patrick Swayze e il co-fondatore di Apple Steve Jobs . Non si può fare molto per prevenirlo, non esistono test in grado di scovarlo precocemente e quando è agli inizi non dà sintomi particolari, mentre i primi segni evidenti compaiono quando ha già iniziato a diffondersi. Per questo, ancora oggi, a cinque anni dalla diagnosi è vivo soltanto il dieci per cento dei pazienti, anche se negli ultimi anni si sono fatti progressi. E cinque anni sono passati anche da quando l'amatissimo ex campione aveva scoperto la malattia e iniziato le cure.
L'operazione a Milano nel 2017
«Gianluca era arrivato alla diagnosi per la comparsa di ittero , un campanello d'allarme che aveva poi dato il via agli esami di approfondimento necessari — racconta Alessandro Zerbi, responsabile dell'Unità operativa Chirurgia pancreatica dell’Istituto Clinico Humanitas IRCCS di Milano, che con la sua equipe ha operato il calciatore a novembre 2017 —. Proprio perché questo tumore è insidioso e aggressivo, i segnali più evidenti compaiono quando ha ormai iniziato a diffondersi agli organi circostanti o ha ostruito le vie biliari, la chirurgia è applicabile solo a un ristretto e selezionato numero di pazienti (il 20-30% circa). Nel suo caso, però c'erano i margini per un'operazione, che abbiamo eseguito con successo. Ma l'intervento dev'essere comunque integrato con la terapia oncologica (principalmente chemioterapia, che può essere fatta prima o dopo l’intervento) per l’elevato rischio che, al momento della diagnosi, siano già presenti micro-metastasi».
Le altre cure in Inghilterra
Vivendo ormai da anni a Londra con tutta la famiglia, per le cure successive Vialli si era poi fatto seguire in Inghilterra. Che il tumore non fosse sparito lo aveva detto lui stesso, in diverse occasioni, come a dicembre 2021: «L’ospite indesiderato è sempre con me — raccontava alla tv della sua città natale, Cremona1 —. Ogni tanto è un po’ più presente a volte meno. Adesso sto facendo un periodo di manutenzione e quindi si va avanti. Speriamo mi possiate sopportare per tanti anni. Sono fiducioso e ottimista in questo senso».
Le cure: chemioterapia e chirurgia
La chemioterapia ancora oggi è l’arma più importante nell’affrontare un tumore del pancreas e, sostanzialmente, le possibilità di guarigione definitiva dipendono dalla sua capacità di distruggere la malattia «invisibile». Negli ultimi 20 anni l’efficacia e la sicurezza della chemioterapia sono migliorate grazie all’aumento dei farmaci disponibili e al loro utilizzo in combinazione. «Abbiamo fatto progressi e l’aspettativa di vita, che era per lo più di pochi mesi, per un numero crescente di malati che oggi si riescono a operare, arriva anche fino a tre anni — spiega Zerbi —. Certo molto meno rispetto ad altri tipi di cancro, che si riescono a guarire del tutto o con i quali sempre più persone convivono per decenni. Si fa troppa poca ricerca su questo tumore ed è quasi del tutto finanziata dalle associazioni nate per lo più da familiari che hanno perso qualcuno».
Il ricordo di Fedez: «Da lui una mano incredibile, ho subito lo stesso intervento»
Diversi studi hanno dimostrano, numeri alla mano, che servono Centri specializzati nella cura e che è fondamentale rivolgersi a Centri di grande esperienza, soprattutto per quanto riguarda la chirurgia che è particolarmente complessa. «L’operazione va fatta solo in Centri con determinati requisiti, dove si concentrano più mani esperte — continua Zerbi —. Purtroppo però la neoplasia è aggressiva e in molto casi si ripresenta, anche in tempi brevi. Così si procede con i vari cicli di chemio, sperando di debellarla e cercando di guadagnare tempo prezioso».
Chi rischia di più
Ogni anno in Italia si registrano circa 14mila nuove casi di tumore del pancreas, la maggior parte dei quali in persone fra i 60 e gli 80 anni. Fumo e chili di troppo (soprattutto l’obesità) aumentano il rischio di ammalarsi, così come la pancreatite cronica (uno stato d’infiammazione permanente fra le più gravi conseguenze di un abuso cronico di alcol) e l'essere portatori di una mutazione dei geni BRCA.
I sintomi
Quanto ai sintomi, è bene non trascurare la comparsa improvvisa del diabete in un adulto, dolore persistente nella zona dello stomaco o a livello della schiena al punto di passaggio tra torace e addome, importante calo di peso non giustificabile, steatorrea (cioè feci chiare, oleose, poco formate, che tendono a galleggiare), comparsa di trombi nelle vene delle gambe o diarrea persistente non spiegata da altre cause.
Da Avvenire l’8 gennaio 2023.
L’Avvenire prende spunto dalla morte di Gianluca Vialli e Sinisa Mihajlovic per parlare dell’incidenza del tumore al pancreas tra i calciatori. Un problema sollevato nel 2005 da uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità, che aveva rilevato già all’epoca il doppio dei casi di morte tra i calciatori a causa di questa tipologia.
Il quotidiano ricorda la frase sibillina del tecnico della Roma Zdenek Zeman, quando nella stagione 1998-99 disse: «È ora che il calcio esca dalle farmacie». E scrive che quello di Zeman è “un monito da rileggere con attenzione, specie in questi giorni di lutto stretto per il calcio italiano per la perdita di due campioni cinquantenni, Sinisa Mihajlovic (leucemia) e Gianluca Vialli (tumore al pancreas) che ha prepotentemente riaperto negli spogliatoi l’armadietto dei sospetti”.
Sul tema si è espresso anche il presidente della Lazio, Claudio Lotito, che qualche settimana fa dichiarò:
«Bisogna approfondire alcune malattie che potrebbero essere legate al tipo di stress e di cure che venivano fatte all’epoca ai calciatori, ai trattamenti che venivano fatti sui campi sportivi».
L’Avvenire scrive di Lotito che è stato “il primo a forzare lo scrigno segreto dell’omertoso mondo del pallone italico”.
Un’indagine del tipo di quella chiesta da Lotito fu eseguita dall’ex giudice della Procura di Torino Raffaele Guariniello, che istruì il primo processo penale per doping nella storia del calcio, quello alla Juventus in cui aveva militato anche Gialuca Vialli. Allora, Guariniello, contestualmente al processo per doping, affidò all’Istituto Superiore di Sanità di Roma la ricerca epidemiologica che venne effettuata su un campione di 24mila calciatori di Serie A, B e C rintracciati tramite l’album delle figurine Panini in attività tra il 1960 e il 1996. L’Avvenire intervista, sul tema, il dottor Vanacore, che partecipò allo studio.
«Sto rileggendo proprio in queste ore quello studio, primo e unico, che pubblicammo nel 2005 e confesso che avverto un certo disagio, anche perché credo sia tempo di aggiornarlo. Nella nostra ricerca che si chiuse con il riscontro di 350 calciatori morti per diverse patologie, il dato epidemiologico più significativo che emerse già allora fu che dei 4,99 casi attesi di calciatori morti di tumore al pancreas ne trovammo 9. Il doppio, e lo stesso, ma con una percentuale non giudicabile come “significativa” quanto quella del pancreas, valeva per i casi di carcinoma al fegato, 4.8 attesi e 9 trovati e la leucemia, casi attesi 5,08, trovati 9».
In quello studio, ricorda L’Avvenire, per la prima volta si denunciava anche l’incidenza della Sla tra i calciatori. Vanacore continua:
«Nel 2005 l’incidenza delle morti di Sla nel calcio era 12 volte superiore, ma quel dato è stato aggiornato nel 2019 dal gruppo di ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano che arrivando fino al 2018 con un follow-up allargato rispetto al nostro studio ha riscontrato 32 casi di morte per Sla nella popolazione calcistica ed un rischio doppio rispetto alla popolazione generale. Ma ora occorre un contributo importante da parte delle istituzioni scientifiche, delle società calcistiche e della società civile tutta, perché venga finanziata una ricerca ad ampio spettro che consenta prima di aggiornare il dato epidemiologico per tutte le cause di morte e successivamente capire le cause del fenomeno».
L’Avvenire ricorda il caso di Bruno Beatrice, mediano della Fiorentina, morto in conseguenza di una terapia per curare la pubalgia e lo collega al caso Mihajlovic. Scrive:
“Siamo partiti dalle morti per tumore al pancreas nel calcio, come quella di Vialli e chiudiamo con quella che per noi da sempre rappresenta il “caso madre”: la morte del mediano della Fiorentina metà anni ‘70 Bruno Beatrice. Il mediano viola è stato “ucciso” da una serie killer di Raggi Roentgen per curare una pubalgia. Da perizia medico scientifica la Roetngen terapia causò la leucemia linfoblastica acuta che nel 1987, a 39 anni, portò Beatrice alla morte. L’inchiesta condotta dai Nas e dal pm di Firenze Bocciolini, appurò che in quella Fiorentina degli anni ’70 si fece «sperimentazione medica».
Da qui, le possibili conseguenze letali per le morti premature degli ex viola e compagni di Beatrice: Nello Saltutti, Giuseppe Longoni, Ugo Ferrante, Massimo Mattolini, Giancarlo Galdiolo (oltre ai casi di Giancarlo Antognoni, infarto a 51 anni e Domenico Caso, tumore al fegato da cui è guarito). Bruno Beatrice è morto il 16 dicembre, come Mihajlovic, oltre alla leucemia forse una seconda coincidenza su cui fare luce una volta per tutte”.
"Aiuterà tanti malati perché una diagnosi precoce salva". Il chirurgo che lo operò al pancreas: "Questa malattia è tabù, ma parlarne aiuta a riconoscerla in tempo". Marta Bravi il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.
Alessandro Zerbi, responsabile del reparto di Chirurgia pancreatica dell'Irccs Istituto Clinico Humanitas e docente dell'Humanitas University, lei aveva operato Gianluca Vialli. «Sì, Vialli si era accorto di avere un tumore al pancreas perché aveva sviluppato l'ittero, un sintomo che l'ha portato a una diagnosi precoce. Era il novembre del 2017 e quell'intervento di duodenocefalopancreasectomia era andato bene». In che cosa consiste? «Nell'asportazione del duodeno e della testa del pancreas. L'operazione è estremamente complessa, ma grazie al suo stile di vita, al fisico atletico e ella dieta già sana che seguiva, l'aveva superato molto bene». Che complicazioni può dare questo intervento? «È un intervento molto complesso che può dare infezioni, emorragie e fistole nelle prime settimane dopo l'intervento. La convalescenza non è rapidissima, ci vogliono alcune settimane, a volte un mese, ma poi la vita prosegue regolarmente».
Non ci sono poi conseguenze dirette dell'intervento?
«No, si deve seguire qualche accorgimento nell'alimentazione, quindi una dieta povera di grassi e di zuccheri, ma ricca di fibre. E poi tenere conto del fatto che si diventa più delicati. L'intervento non è invalidante e la vita poi può proseguire normalmente».
Quali sono i fattori di rischio?
«Il fumo, il sovrappeso, un'alimentazione ricca di grassi e povera di fibre e uno stile di vita sedentario. Anche la familiarità definita come avere due casi di parenti stretti che si sono ammalati di questo tumore».
Quali sono le caratteristiche comuni ai malati?
«Si tratta di un tumore che colpisce più gli uomini delle donne (55 per cento contro il 45) e una fascia di età avanzata da 60 anni in su. Ne approfitto per sfatare un mito: non è vero che il tumore progredisce più lentamente se l'età del malato è più alta. Ogni tumore progredisce più velocemente o più lentamente a seconda di quanto è aggressivo. E quello al pancreas è un tumore molto aggressivo dal punto di vista biologico, tanto che ha una prognosi mediamente peggiore degli altri».
Quali sono i sintomi?
«Purtroppo i sintomi sono spesso tardivi. Tra i sintomi precoci ci sono l'ittero, sintomo legato al tumore alla testa del pancreas che è un tipo specifico di cancro: la massa tumorale comprime le vie biliari facendo tornare indietro la bile responsabile del colore giallo dell'epidermide. Oppure si può verificare una pancreatite, ovvero un'infiammazione del pancreas che dà dolori forti, impossibili da ignorare. Possibile anche un diabete improvviso, segno di uno stadio precoce della malattia».
Esiste uno screening?
«Purtroppo non c'è: solo nel 10 per cento dei casi, ovvero nei pazienti che hanno familiarità per aver avuto due parenti stretti malati, si possono fare dei controlli periodici: una risonanza magnetica all'anno per tenere sotto controllo la situazione. Negli altri casi non esiste uno screening: l'unica via è scoprirlo precocemente. Solo nel 20/30 per cento dei casi, infatti, i pazienti se ne accorgono in tempo per poter essere sottoposti all'intervento di asportazione del pancreas, altrimenti si ricorre a chemioterapia o altre cure e radioterapia. Dopo 5 anni dall'intervento sopravvive il 20/30 per cento dei pazienti poichè c'è un alto rischio di metastasi o recidiva: purtroppo è quello che è successo a Vialli. Però bisogna anche dire che la ricerca e quindi le cure di adesso gli hanno consentito di vivere quei 5 anni con grandi risultati e soddisfazioni».
In che cosa è progredita la ricerca?
«Nella conoscenza dei diversi tipi di carcinoma al pancreas e quindi nella personalizzazione delle cure, nella possibilità cioè di scegliere delle terapie mirate a seconda del tipo di paziente e di tumore. Tutto grazie una complesso lavoro di equipe che vede lavorare insieme patologo, gastroenterologo, chirurgo e oncologo. Gianluca credeva molto nella ricerca, aveva fatto un appello per sostenere Fondazione Humanitas per la Ricerca in questa area».
Qual è l'eredità di Vialli?
«Questa malattia è vista come un tabù perché fa particolarmente paura: ma parlarne aiuta le persone a conoscerlo, a esserne più consapevoli e quindi a essere in grado di sospettare di eventuali sintomi e quindi ad arrivare a una diagnosi precoce che è la cosa più importante. E in questo Vialli, che era una persona stupenda, con il suo modo discreto e sobrio di parlarne, sicuramente ha aiutato e aiuterà tante persone».
L'altro insegnamento che lascia con il suo esempio è il fatto di non arrendersi
«Certo, tutti i pazienti afflitti dallo stesso male sapevano che anche Vialli stava lottando, ma lo vedevano a bordo di un campo da calcio conseguire un successo dopo l'altro».
In questo ricorda il ciclista Lance Armstrong....
«Sì, anche se aveva un tumore diverso, il fatto di sapere trasportare l'agonismo nella vita, anche e soprattutto quando le cose vanno male. Il non mollare mai è un insegnamento che certamente rimarrà. E aiuterà tante persona».
Quali sono le cure più efficaci contro il colangiocarcinoma? Lorenza Rimassa su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.
È un tumore raro (sono circa 5mila i nuovi casi diagnosticati ogni anno in Italia), ma in aumento e aggressivo. Una volta ottenuta la diagnosi, la prima cosa da capire è se il paziente sia candidabile all’intervento chirurgico
Dopo l’improvvisa comparsa di ittero, a nostro zio (72enne che godeva di ottima salute) è stato diagnosticato un colangiocarcinoma, purtroppo già in fase avanzata. Non abbiamo mai sentito parlare di questo tumore e siamo sotto choc. Quali sono le cure migliori?
Risponde Lorenza Rimassa, professore associato di Oncologia medica a Humanitas University
Il colangiocarcinoma è un tumore che nasce dai dotti biliari, all’interno o all’esterno del fegato, o dalla colecisti, molto spesso non dà sintomi iniziali e cresce rapidamente. Anche quando presenti, i primi segni sono piuttosto generici, come per esempio dolore addominale, perdita di peso, nausea, stanchezza, che possono essere facilmente sottovalutati o confusi con quelli di altre patologie. Non di rado viene così diagnosticato quando è già in stadio avanzato o metastatico. È un tumore raro (sono circa 5mila i nuovi casi diagnosticati ogni anno in Italia), ma in aumento e aggressivo. Una volta ottenuta la diagnosi, la prima cosa da capire è se il paziente sia candidabile all’intervento chirurgico, che potrebbe consentirgli di ottenere la guarigione definitiva. Purtroppo solo il 25% dei malati circa è operabile e, anche così, un’elevata percentuale va incontro a recidiva di malattia.
Per questi malati si procede con la chemioterapia da sola o, più di recente, combinata con l’immunoterapia con durvalumab (farmaco non ancora rimborsato dal nostro il Sistema sanitario italiano, ma disponibile gratuitamente tramite cosiddetto programma di «early access», per cui l’oncologo fa richiesta alla casa farmaceutica produttrice per ogni paziente), e con nuovi farmaci a bersaglio molecolare. È dunque fondamentale eseguire il test di profilazione molecolare che serve a capire se siano presenti delle alterazioni geniche (ne conosciamo ormai diverse come le mutazioni di IDH1, le traslocazioni di FGFR2, le amplificazioni di HER2, per citarne alcune), che rendono la malattia potenzialmente trattabile proprio con i nuovi farmaci a bersaglio molecolare. Uno di questi, pemigatinib, è già disponibile tramite il Sistema sanitario italiano, per i pazienti con tumori con traslocazioni di FGFR2; altri sono ancora in attesa di approvazione. La possibilità di utilizzo dipende però dall’eventuale mutazione presente nel tumore del singolo paziente. Pochi giorni fa, per esempio, è arrivato il via libera europeo (e si attende quello italiano) per i malati con colangiocarcinoma localmente avanzato o metastatico, precedentemente trattati con almeno una linea di terapia medica, a ricevere ivosidenib, un farmaco target mirato contro la mutazione IDH1, che funziona rallentando l’evoluzione del tumore e prolungando quindi la vita dei pazienti.
Un aspetto altrettanto importante è la cura è ben tollerata e ha dimostrato di offrire un beneficio ai pazienti anche in termini di qualità di vita. Speriamo quindi di poterlo utilizzare al più presto anche per i nostri pazienti, nell’ambito del Sistema sanitario nazionale o anche di programmi di ricerca volti a conoscere ancora meglio le caratteristiche di questo farmaco. Poiché per i pazienti non operabili l’obiettivo che ci poniamo con la terapia medica è quello di allungare la sopravvivenza mantenendo una buona qualità di vita, i nuovi farmaci a bersaglio molecolare sono di grande aiuto in quanto consentono una più lunga sopravvivenza senza gli effetti collaterali della chemioterapia. Infine, poiché il colangiocarcinoma è un tumore raro e la definizione della strategia terapeutica è complessa, è fondamentale farsi curare in un Centro di riferimento, dove ci sia un team multidisciplinare e i medici abbiano un’esperienza specifica in tutti gli aspetti della patologia, dalla diagnosi alla profilazione molecolare, dalla chirurgia (non semplice per l’area stessa in cui si trova la neoplasia) alla terapia medica.
Cancro al fegato, individuata una firma molecolare che predice l’efficacia dell’immunoterapia. Valentina Guglielmo su La Repubblica il 13 Dicembre 2022
Uno studio, in parte italiano, ha identificato 11 geni in grado di predire la risposta all’immunoterapia. Che in futuro potrebbe permettere il trapianto di fegato anche in alcuni casi oggi esclusi da questa possibilità
Individuare i pazienti con tumore al fegato che rispondono meglio all'immunoterapia. A renderlo possibile è uno studio, in parte italiano, che ha identificato per la prima volta una firma molecolare del carcinoma epatico che predice al sensibilità a questi farmaci. Una scoperta importante se si considera che, anche grazie ad essa, la Società europea per il trapianto degli organi (Esot) ha deciso di includere l’immunoterapia per i tumori del fegato come trattamento neo-adiuvante (che si esegue prima della chirurgia) nelle sue prossime linee guida: un cambiamento che potrebbe consentire il trapianto in alcuni casi oggi esclusi da questa possibilità.
Epatite C, un nuovo test per trovare l’infezione in fase precoce
di Barbara Orrico21 Luglio 2022
Una firma molecolare per prevedere l’efficacia dell’immunoterapia
Nello studio pubblicato su Gastroenterology, i ricercatori - tra cui Vincenzo Mazzaferro, Direttore della Struttura Complessa di Chirurgia Epato-Gastro-Pancreatica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) e professore di chirurgia all’Università di Milano (UniMi) - hanno individuato una sorta di “etichetta molecolare” in grado di determinare a monte la probabilità di successo dei farmaci immunoterapici. “Abbiamo identificato una firma molecolare predittiva, denominata IFNAP, che è costituita dalla combinazione di undici geni”, spiega Mazzaferro: “Questa firma predice la sensibilità delle cellule tumorali del carcinoma epatico alla classe di farmaci immunoterapici anti-PD1, indipendentemente dall’origine del tumore stesso”.
Per identificare la presenza della firma molecolare IFNAP sul tumore, gli scienziati hanno testato due metodi: una biopsia prognostica eseguita direttamente sul tessuto tumorale e una biopsia liquida, in grado di identificare e prelevare frammenti di cellule tumorali nel sangue. Quest’ultima, come mostra un secondo studio pubblicato su Gut, si è mostrata in grado di identificare correttamente i pazienti trattabili nel 90% dei casi. Con un indubbio vantaggio anche per il paziente che viene sottoposto solo a un prelievo di sangue.
L’immunoterapia nel tumore del fegato
I farmaci immunoterapici negli ultimi anni stanno giocando un ruolo sempre più importante nel trattamento di tumori prima considerati incurabili. Si tratta di una terapia che potenzia l’azione del sistema immunitario reclutando un gran numero di cellule in grado di riconoscere e distruggere le cellule tumorali. Il problema, nel caso del tumore al fegato, è che solo il 20% dei pazienti trattati risponde in maniera positiva, e fino ad ora la ricerca non è stata in grado di identificare da quali fattori dipenda l’esito. Ecco perché aver individuato una firma molecolare in grado di predire l’efficacia dell’immunoterapia è tanto importante.
Potenziare l’efficacia dei farmaci immunoterapici
Oltre a identificare in quali casi l’immunoterapia può funzionare per combattere il tumore al fegato, i ricercatori stanno anche studiando le strategie per aumentarne l’efficacia, come dimostra un'ulteriore ricerca pubblicata sempre su Gut. “Trattamenti fisici quali la radio-embolizzazione possono preparare il terreno alla terapia vera e propria - prosegue Mazzaferro -. In pratica, stimolano la produzione di antigeni specifici tumorali, in grado di attivare gruppi di cellule immunocompetenti contro il tumore, che verranno quindi potenziati dai farmaci immunoterapici”.
La decisione dell'ESOT
Questi studi non solo ampliano il ventaglio di possibilità di soluzioni terapeutiche per la cura del tumore epatico - attualmente la quinta più frequente causa di morte per cancro a livello mondiale – ma possono cambiare l’approccio strategico al trattamento di questa tipologia di tumore. “Ci vorranno ancora ulteriori ricerche per ottenere terapie sempre più personalizzate”, conclude Sherrie Bhoori, specialista in gastroenterologia ed epatologia dell’INT - ma è significativa la decisione della European Society for Organ Transplantation: esaminati i risultati dei lavori scientifici, è stato approvato l’inserimento dell’immunoterapia neo-adiuvante nelle prossime Linee Guida europee. Questo approccio terapeutico diventa quindi una tra le possibili strategie da adottare in casi selezionati, in particolare quando è presente la firma molecolare”.
La SMA Atrofia Muscolare Spinale.
La terapia genica e gli screening neonatali. Faccio politica per tutte le piccole me che convivono con un’intrusa maledetta. Lisa Noja su Il Riformista il 5 Maggio 2023
Molte testate hanno parlato dei risultati sorprendenti della terapia genica somministrata a una bambina di Bari affetta da atrofia muscolare spinale (Sma), una patologia genetica rara. La Sma può essere più o meno grave, ma fin qui averla significava nella maggior parte dei casi non poter correre, ballare, camminare e, piano piano, perdere la capacità di compiere gesti quotidiani scontati per la gran parte delle persone: vestirsi, lavarsi, portarsi il cibo alla bocca. Insomma, significava vivere con la necessità di dipendere da qualcun altro.
I dati che stanno emergendo dall’impiego della terapia genica e di altri trattamenti sviluppati negli ultimi anni dicono che quello potrebbe non essere più il futuro di tanti bambini affetti da Sma. Per me, che convivo dalla nascita con questa malattia che mi ha costretta mille volte a riadattarmi alla perdita di capacità motorie e a misurarmi con un futuro dettato da un’intrusa maledetta che decide se e come condizionare la mia vita, è difficile spiegare l’impatto emotivo della notizia di un tale miracolo, tutto umano.
Me ne parlò all’inizio del mio mandato parlamentare l’allora Presidente dell’Associazione Famiglie Sma. Mi disse che si stava spalancando una porta che noi malati avevamo da sempre considerato blindata, che quella apertura non avrebbe riguardato me, perché la terapia era somministrabile solo in età precocissima, ma che avrebbe forse potuto cambiare il futuro di tanti bambini. Ho sempre pensato che, per esercitarsi a essere felici, bisogna anzitutto non chiedersi mai “perché proprio a me”, una domanda che rischia di trasformarci in un coacervo di rabbia e frustrazione verso il mondo.
Durante quell’incontro c’era la domanda opposta che mi investiva con la forza di un uragano: perché non a me? Dopo una prima angoscia così profonda da togliere il fiato, la mia risposta è stata la stessa: non ha nessun senso domandarselo. La scienza ha un suo tempo che a volte coincide con quello delle nostre vite, a volte no. Soffermarsi su questo avrebbe significato privarsi della gioia di farsi travolgere dalla meraviglia dei miracoli compiuti dall’ingegno umano e dal senso di struggente tenerezza verso le tante Lisa non ancora nate che non dovranno portare sulle loro spalle, ancora piccole e fragili, pesi a volte immensi.
I miracoli della scienza, però, non sempre bastano. Oggi, l’opportunità avuta dalla piccola di Bari non è garantita a tutti i bimbi perché l’accesso alla terapia genica presuppone una diagnosi tempestiva della Sma attualmente assicurata solo in alcune Regioni. Da anni, insieme a tante associazioni di malati rari, portiamo avanti la battaglia per includere negli screening neonatali nazionali offerti a tutti i nuovi nati la Sma e altre patologie per cui cominciano a esserci delle terapie avanzate. Durante la scorsa legislatura abbiamo approvato miei emendamenti per semplificare le procedure e stanziare fondi aggiuntivi. Ora non c’è nessuna ragione che impedisca di procedere. C’è solo una sciatteria inumana che rischia di rubare a piccoli pazienti opportunità di cura rivoluzionarie offerte dalla scienza.
Sin da bambina ho accettato che alcuni fatti della vita di ciascuno di noi siano fuori dal nostro controllo e ad essi non siano applicabili le categorie umane del giusto o dell’ingiusto. Non mi rassegnerò mai, invece, a non vedere accadere tutto ciò che di buono dipende dal nostro agire. È il motivo per cui ho scelto di impegnarmi nelle istituzioni ed è per questo che, per me, la politica può avere solo un tempo, quello dettato dall’imperativo di incidere concretamente sull’esistenza delle persone. Diversamente è inutile testimonianza o intollerabile chiacchiericcio.
Per tale ragione l’estensione degli screening neonatali deve avvenire ora. Perché ogni giorno di ritardo comporta il rischio di un danno irreparabile, a volte mortale, per questi bambini ed è una colpa imperdonabile.
Lisa Noja
La SLA Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Venticinque anni fa la diagnosi della malattia che non le ha tolto le ali. “Le mie parole in un battito di ciglia”, la storia di Lola D’Arienzo la ballerina immobilizzata dalla Sla. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Gennaio 2023
Da ragazza indossava le punte e volava sul palcoscenico danzando. Aveva anche aperto una sua scuola di danza a cui insegnare il suo dono artistico alle allieve. Poi 25 anni fa la Sla ha costretto Apollonia D’Arienzo, che tutti chiamano Lola, al letto, immobile. Ma questo non le ha certamente tolto la voglia di vivere e di tenersi attivissima nonostante sia costretta a stare nel suo letto a Cava de’Tirreni, provincia di Salerno. Lola, 62 anni, da lì ha scritto libri, organizza attività benefiche e si mantiene in contatto con tutti e tutto sebbene la sua malattia le abbia progressivamente bloccato tutti i muscoli e anche la possibilità di parlare e respirare. Ma lei non ha mai smesso di comunicare e lo fa con il suo linguaggio, il battito delle ciglia.
A raccontare questa storia di forza, coraggio e determinazione è il Corriere del Mezzogiorno. Lola ha risposto a tutte le domande del giornalista con il suo linguaggio e tramite la mediazione della sorella di Lola, Maria Rosaria, che ha tradotto ogni “battito” in lettere. Ha raccontato la sua infanzia, il mare di Vietri, la città dove è nata, gli anni all’Università a Sociologia. A 19 anni poi apre la scuola di danza contro il volere di sua madre, poi il matrimonio a 24 anni e la nascita del figlio Vittorio. Una vita vissuta a pieno ritmo rallentata dalla terribile diagnosi della Sla. Le fu anche tolto il figlio quando iniziò a stare male: “Credo che in assoluto quello sia stato il periodo più devastante della mia vita: accanto alle difficoltà fisiche si aggiunse anche il viavai di psicologi, assistenti sociali, avvocati che dichiararono la mia impossibilità di essere ancora una mamma. Pensi che una psicologa del tribunale di Salerno stabilì che non potevo accudire Vittorio perché ero disabile e che sarei morta di lì a poco”. Ma non è andata affatto così: “Se sono ancora qua è proprio grazie a mio figlio. Una volta diventato grande si è riavvicinato a me. Ora si sta laureando in Architettura”.
Racconta che quando le diagnosticarono la Sla non capì subito la gravità della malattia. “Se solo avessi preso coscienza subito delle infauste conseguenze che la Sla arreca, avrei gettato la spugna fin dall’inizio, avrei smesso di lottare – racconta – I miei familiari hanno sempre cercato di tranquillizzarmi, visto che la prognosi dei medici di Napoli era di un paio di anni di vita. Nessuno avrebbe mai pensato, 25 anni fa, che potessi vivere tanto”. Poi la malattia ha lentamente preso il possesso del corpo di Lola impedendole di respirare autonomamente, inghiottire e muoversi da sola.
Il momento più brutto per Lola è stato quando ha subito la tracheotomia nel 2002: “non volevo accettare di essere legata ad una macchina; in ospedale avevo perso la mia umanità. Si parla tanto di umanizzare il percorso dei malati ma si lasciano poi le strutture ospedaliere in condizioni da sembrare dei veri e propri lager”. Lola non si è mai arresa: “Credo che a questa ‘bestia’ di malattia non riesco ancora ad arrendermi, il fatto però di essere nel pieno delle mie facoltà mi ha permesso di scrivere, tornare sul palco del teatro Verdi di Salerno e soprattutto di essere ancora una madre. Pure nella sofferenza c’è una speranza che ti fa risollevare dalla tua condizione, tanto da volare al di là del tuo stesso dolore”.
Anche Lola non può fare a meno di notare quanto in Italia i disabili siano abbandonati a loro stessi.”In questo periodo particolarmente problematico per tutti, i bisogni sono triplicati. La spesa per l’assistenza è diventata insostenibile e noi disabili siamo come puri fantasmi inseriti, nostro malgrado, in una società dove conta più l’apparire che l’essere”, ha detto. Al giornalista del corriere del mezzogiorno che le chiede se ha paura della morte, risponde: “È quasi un rapporto quotidiano il mio con la morte, perché la mia vita è appesa ai fili degli apparecchi che mi tengono in vita e spesso qualche allarme mi fa sobbalzare. Ho paura del dolore”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
La Sclerosi Multipla.
La sclerosi multipla e le nuove prospettive di cura con cellule staminali neurali: lo studio italiano. Luigi Ripamonti su Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2023.
Per la prima volta sono state usare cellule staminali neurali su pazienti con forma «progressiva in stadio avanzato» della malattia. Ecco i risultati dello studio dei ricercatori del San Raffaele di Milano: prima di poterla considerare una terapia saranno tuttavia necessari ulteriori passaggi
Una terapia a base di cellule staminali neurali apre nuove prospettive per la cura della sclerosi multipla progressiva in stadio avanzato.
Lo indicano i risultati, pubblicati sulla rivista Nature Medicine dello studio STEMS, iniziato nel 2017 e coordinato da Gianvito Martino, direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano.
Il trattamento consiste in un’infusione di queste cellule tramite puntura lombare nel liquido cerebrospinale. In modelli animali era già stata dimostrata la capacità delle staminali neurali di poter raggiungere, una volta infuse, le lesioni cerebrali e midollari e promuovere meccanismi di neuroprotezione e riparazione, rilasciando sostanze immunomodulanti e pro-rigenerative.
Lo studio in questione però, per la prima volta, ha permesso di valutare gli effetti sull’uomo.
Lo studio
La sperimentazione ha coinvolto 12 persone con sclerosi multipla progressiva ed elevata disabilità che avevano già ricevuto, senza risultati soddisfacenti, le cure a oggi disponibili.
I pazienti, suddivisi in 4 gruppi, hanno ricevuto, con un’unica puntura lombare, un numero di cellule crescente, da circa 50 milioni a 500 milioni.
«I risultati hanno dimostrato, oltre a sicurezza e tollerabilità della terapia, una significativa riduzione della perdita di tessuto cerebrale, valutata tramite risonanza magnetica nei due anni successivi il trattamento (il primo avvenuto nel 2017), nel gruppo che ha ricevuto il maggior numero di staminali neurali. A conferma del riscontro, l’analisi del liquido cerebrospinale ha evidenziato un cambiamento della sua composizione dimostrando un arricchimento in termini di fattori di crescita e di sostanze neuroprotettive» spiega Angela Genchi ricercatrice del laboratorio di Neuroimmunologia e primo firma della pubblicazione.
Le basi scientifiche
Le staminali neurali non erano mai state utilizzate prima in pazienti con sclerosi multipla e, a differenza di quelle ematopoietiche (usate nelle forme recidivanti remittenti di malattia ma inefficaci nelle forme progressive) e di quelle mesenchimali (che non hanno dato benefici in pazienti con sclerosi multipla progressiva), avevano mostrato negli studi preclinici condotti in laboratorio di poter avere un elevato potenziale pro-rigenerativo. Le basi scientifiche di questo trial sono state infatti gettate da una serie di lavori del gruppo diretto da Gianvito Martino che, tra il 2003 e il 2009, hanno dimostrato l’efficacia delle staminali neurali in piu modelli sperimentali di sclerosi multipla. «È un traguardo importante quello raggiunto, anche se rappresenta solo la prima tappa del percorso clinico-sperimentale che porta a una vera e propria terapia. Il mio primo pensiero va, soprattutto, alle persone malate e alle loro famiglie che hanno sostenuto la nostra ricerca in tutti questi anni, certo drammatici dal punto di vista della sanità pubblica, con pazienza, speranza, dedizione e sacrifico. Non saremmo arrivati fin qui senza il loro contributo».
Non è ancora una terapia: i prossimi passi
«La strada intrapresa è però ancora lunga», sottolinea il professor Martino. «I dati pubblicati non sono ancora sufficienti per considerare questa opportunità, appunto, come una vera e propria cura, il passo successivo sarà quello di procedere con un nuovo studio clinico sperimentale che coinvolga un gruppo più ampio di pazienti, con l’obiettivo di dimostrare, da un lato l’efficacia delle cellule staminali neurali nel bloccare la progressione di malattia, dall’altro lato la loro capacità di favorire la rigenerazione delle aree del sistema nervoso danneggiate. Il fine ultimo, che è la grande sfida che abbiamo deciso di affrontare 20 anni fa, è quella di sviluppare una terapia innovativa ed efficace per persone con forme progressive di SM che hanno, a oggi, opzioni terapeutiche limitate».
Le cellule utilizzate per il trapianto erano di origine fetale e sono state preparate con la collaborazione con il Laboratorio di Terapia Cellulare Stefano Verri, sostenuto della Fondazione Matilde Tettamanti e Menotti De Marchi Onlus e con la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico. La ricerca è stata condotta grazie a sostegno di diversi partner, in particolare l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM) e la sua Fondazione (FISM), e di Fondazione Cariplo, Associazione Amici Centro Sclerosi Multipla (ACeSM), BMW Italia, Comitato Maria Letizia Verga Onlus.
Il Diabete.
Quel farmaco per il diabete sparito per colpa di TikTok. Giovanni Vasso su L’Identità il 9 Marzo 2023
Si chiama semaglutide. In rete lo pubblicizzano come il segreto di bellezza (sic!) di Elon Musk. È un farmaco contro il diabete ma gli influencer su TikTok lo pubblicizzano come l’ultimo, portentoso, ritrovato per abbattere i chili di troppo. I medici già sono sul piede di guerra. Perché il semaglutide sta scomparendo dalle farmacie e i pazienti che ne avrebbero davvero bisogno rischiano di restare senza.
La “moda” social arriva, come sempre, dagli Stati Uniti. E impazza sulla cassa di risonanza cinese di Tik Tok. Il farmaco, che è un brevetto della casa danese Novo Nordisk, è studiato per i pazienti affetti da diabete di tipo due. Ha trovato un testimonial d’eccezione niente meno che in Elon Musk che ha ammesso di farne uso per tenere sotto controllo il suo peso corporeo. In America, nel 2022, il semaglutide è stata la 129esima medicina più venduta, assunta da quasi quattro milioni di persone e s’è guadagnata la copertina dell’Economist. Il successo della siringa che arriva dalla Danimarca sta nel fatto che chiunque lo assuma dimagrisce. In alcuni casi, addirittura si arriva a perdere il 20% del proprio peso. Un recente studio del New England Journal of Medicine, su 2mila pazienti obesi e non diabetici, ha dimostrato che, senza dieta e con la sola assunzione del semaglutide, si dimagrisce, in media, di 15 chili. Gli scienziati, quindi, stanno studiando se il farmaco potrà essere utile per combattere anche l’obesità. Il problema, però, è che per il momento non ci sono sufficienti studi in grado di dimostrare se, eventualmente, l’assunzione del semaglutide in soggetti sani comporti controindicazioni, tranne quelle già note, come diarrea, stanchezza, vomito. L’efficacia dimagrante del farmaco sta nel fatto che si comporti come l’ormone Gpl-1, prodotto naturalmente dall’intestino. Cioè alza la produzione di insulina, regola la glicemia, rallenta lo svuotamento dello stomaco, inibisce la fame. Il combinato disposto di questi effetti comporta il dimagrimento, vistoso, di chi ne fa uso. Come Elon Musk.
Il problema (vero) è che la corsa al semaglutide sta complicando la vita a chi, di quel farmaco, avrebbe davvero bisogno. L’Aifa, nei giorni scorsi, ha emanato un alert. Si rischia una carenza della medicina e potrebbe durare per tutto l’anno. I diabetologi sono già sul piede di guerra. E all’Adn Kronos, Graziano Di Cianni, presidente dell’associazione dei medici specializzati nella cura del diabete, lancia l’allarme: “Un grosso problema per i pazienti in cura con questi farmaci che hanno efficacia nel ridurre la glicemia, offrono sicurezza cardiovascolare, effetto positivo sul peso. A ciò si aggiunge la facilità di somministrazione, una puntura alla settimana con un device facile. Ora si rischia di dover cambiare cura, con tutti i problemi che ne derivano”. Secondo il presidente dei diabetologi: “Sono farmacisoggetti a prescrizione, non possono essere acquistati nemmeno con semplice ricetta bianca e sono distribuiti dalle Asl per conto. Le regole sono rigide, ma anche se non è chiaro come si è creato un fenomeno di utilizzo fuori dalle corrette indicazioni. Purtroppo questi farmaci nel sentire comune si sono affermati come farmaci dell’obesità. E in Rete passano messaggi che ne esaltano le capacità di riduzione del peso, senza tenere conto del fatto che si tratta di un farmaco per la cura del diabete”. Di Cianni si auspica che sia una moda e che, come (quasi) tutte le mode, duri poco: “Speriamo che il problema duri poco, ma se dovesse perdurare. bisognerà capire come affrontare la situazione per evitare disagi ai pazienti”.
Ma non solo soltanto i medici a essere preoccupati. Ci sono anche gli agricoltori. La grande paura è che la gente, sedotta dalla speranza degli effetti portentosi della siringa magica, abbandoni anche solo il proposito di vivere e mangiare sano.
La pressione alta.
I cibi realmente utili per chi soffre di pressione alta. Gianpaolo Usai su L'Indipendente l’8 Febbraio 2023.
L’ipertensione arteriosa, o pressione alta, è il più importante fattore di rischio modificabile (cioè prevenibile) per tutte le cause di malattia e di mortalità in tutto il mondo ed in particolare è associata ad un aumentato rischio di malattie cardiovascolari. Oltre 1 miliardo di persone in tutto il mondo soffre di pressione alta.
I farmaci sono comunemente usati per ridurre i livelli di pressione sanguigna. Tuttavia, i cambiamenti dello stile di vita, comprese le modifiche dietetiche, possono aiutare a riportare i livelli di pressione sanguigna a valori ottimali e ridurre il rischio di malattie cardiache. La ricerca ha dimostrato che l’inclusione di determinati alimenti nella dieta, in particolare quelli ricchi di nutrienti specifici come il potassio e il magnesio, riduce i valori della pressione sanguigna.
Vediamo quindi un elenco di cibi e consigli alimentari che possono contribuire ad avere giusti livelli di pressione sanguigna.
Agrumi
Gli agrumi, tra cui pompelmi, arance e limoni, possiedono potenti effetti di abbassamento della pressione. Sono ricchi di vitamine, minerali e composti antiossidanti che aiutano a mantenere il cuore sano. Uno studio giapponese ha dimostrato che l’assunzione giornaliera di succo di limone combinata con la deambulazione era significativamente correlata con la riduzione del valore massimo della pressione, un effetto che i ricercatori hanno attribuito al contenuto di acido citrico e flavonoidi dei limoni. Altri studi hanno anche dimostrato che bere succo di arancia e pompelmo può aiutare a ridurre la pressione sanguigna. Tuttavia, il pompelmo e il succo di pompelmo possono interferire con i comuni farmaci per abbassare la pressione sanguigna, pertanto se prendete dei farmaci per la pressione consultate sempre il medico prima di aggiungere questo frutto alla vostra dieta.
Pesci fonte di grassi Omega-3
I grassi Omega-3 hanno notevoli benefici per la salute del cuore. Questi grassi aiutano a ridurre la pressione sanguigna agendo tramite una diminuzione dell’infiammazione e di alcuni composti che fanno restringere i vasi sanguigni, chiamati ossilipine. La ricerca scientifica collega una maggiore assunzione di pesce grasso ricco di Omega-3 a livelli più bassi di pressione sanguigna.
Bietole
Le bietole sono ortaggi ricchi di potassio e magnesio. Nelle persone con pressione alta, ogni aumento di 0,6 grammi al giorno di potassio nella dieta è associato a una riduzione di 1 punto del valore di pressione massima e mezzo punto di pressione minima. Una porzione da 145 grammi di bietole contiene 0,7 milligrammi di potassio, esattamente la dose giusta per far abbassare i valori come descritto. Anche il magnesio è essenziale nella regolazione della pressione: aiuta a ridurre i valori attraverso vari meccanismi, tra cui quello che blocca il calcio in eccesso nel cuore e nelle arterie, permettendo ai vasi sanguigni di rilassarsi.
Semi di zucca
Questi semi sono di piccole dimensioni, ma la natura li ha caricati al loro interno di molti nutrienti che quando si tratta di nutrizione sono determinanti. Sono una dose concentrata di magnesio, potassio e arginina, un aminoacido necessario per la produzione di ossido nitrico, essenziale per il rilassamento dei vasi sanguigni e per l’abbassamento conseguente della pressione del sangue. Anche l’olio di semi di zucca ha dimostrato di essere un potente rimedio naturale per l’abbassamento dei livelli di pressione sanguigna: uno studio sulle donne in menopausa ha mostrato che l’integrazione con 3 grammi al giorno di olio di semi di zucca ha portato a riduzioni significative dei valori di pressione massima.
Pistacchi
I pistacchi sono altamente nutrienti e il loro consumo è stato collegato a livelli di pressione sanguigna regolari. Una revisione di 21 studi ha rilevato che fra tutta la frutta secca l’assunzione di pistacchio ha avuto l’effetto più forte sulla riduzione sia del valore di pressione minima che di quello di massima.
Pomodoro e derivati del pomodoro
I pomodori e i derivati del pomodoro sono ricchi di molte sostanze nutritive, tra cui il potassio e il pigmento licopene, una sostanza antiossidante della famiglia dei carotenoidi. Il licopene è stato significativamente associato a effetti benefici sulla salute del cuore e mangiare cibi ricchi di questo nutriente, come i prodotti a base di pomodoro, può aiutare a ridurre i fattori di rischio di malattie cardiache come l’ipertensione. Una revisione di studi del 2017 pubblicata sulla rivista medica Atherosclerosis ha concluso infatti che il consumo di pomodoro e prodotti a base di pomodoro migliora la pressione sanguigna e può aiutare a ridurre il rischio di malattie cardiache o morte correlata a malattie cardiache.
Erbe e spezie
Alcune erbe e spezie contengono potenti composti che possono aiutare a ridurre la pressione sanguigna agendo sui vasi sanguigni permettendo loro di rilassarsi e migliorare l’elasticità.
Coriandolo, zafferano, citronella, cumino nero, ginseng, cannella, cardamomo, basilico dolce e zenzero sono solo alcune delle erbe e spezie che hanno dimostrato di essere responsabili di un potenziale abbassamento della pressione sanguigna, secondo i risultati emersi su animali e esseri umani.
Semi di chia e lino
I semi di chia e di lino sono minuscoli semi che pullulano di sostanze nutritive essenziali per una corretta regolazione della pressione sanguigna, tra cui potassio, magnesio e fibre.
Uno studio su persone con pressione alta ha rilevato che l’integrazione con 35 grammi di farina di semi di chia al giorno ha portato a riduzioni della pressione sanguigna sia nelle persone in cura con farmaci ipertensivi che in quelle che non prendevano farmaci, rispetto a un gruppo placebo. Inoltre, i risultati di una revisione di 11 studi hanno suggerito che il consumo di semi di lino può aiutare a ridurre i livelli di pressione sanguigna, specialmente se consumati nella loro forma di semi interi per 12 settimane o più.
In conclusione, insieme ad altre modifiche dello stile di vita, come la pratica di una regolare attività fisica quotidiana o di più giorni a settimana, l’adozione di una dieta sana può abbassare significativamente i livelli di pressione sanguigna e contribuire a ridurre il rischio di malattie cardiache.
[di Gianpaolo Usai]
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Il Cuore.
Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” venerdì 11 agosto 2023.
Ha suscitato profonda commozione e soprattutto sconcerto la notizia di ieri della morte del consigliere Rai Riccardo Laganà, deceduto nella notte, a soli 48 anni, per «arresto cardiaco improvviso» […].
Una morte imprevista, dal momento che, a quanto pare, non fosse stato riscontrato in vita alcun segnale di allarme o di malattia premonitoria, ma la verità è che la «morte improvvisa» non esiste, poiché nasconde sempre una patologia sottostante, nota al paziente oppure mai diagnosticata, e quindi non curata, poiché il nostro cuore è programmato per battere molti decenni ininterrottamente, e per non arrestarsi mai «improvvisamente».
Perché allora alcune persone in apparente buona salute, compresi giovani atleti iper controllati, […] muoiono per arresto cardiaco fulminante […] perché il loro cuore smette improvvisamente di pulsare portando al decesso il paziente?
In questi casi, […] l’attenzione della cardiologia internazionale si è concentrata su malattie elettriche del muscolo cardiaco, ovvero su anomalie della conduzione elettrica che genera il battito vitale del cuore, come per esempio la «Sindrome del QT lungo», o di altre anomalie del ritmo cardiaco, genetiche od acquisite, ma sempre nascoste, non curate e non trattate.
[…] I casi di morte improvvisa infatti, compreso l’infarto fulminante di cui spesso si parla, non sono decessi casuali o legati al destino, ma sono tragedie preannunciate sempre da sintomi vascolari od elettrici del muscolo cardiaco che compaiono almeno mesi o settimane prima, come lipotimie, svenimenti, aritmie, stanchezza cronica, ma che spesso vengono sottovalutati, minimizzati o non riconosciuti, soprattutto dagli uomini, e che sovente vengono attribuiti a cause minori come lo stress o dolori muscolari o articolari.
Un cuore che batte da anni non si ferma mai «improvvisamente» se non è affetto da patologie, se non è malato o arrivato allo stremo, perché il cuore […] non è muto, non tradisce, […] ma parla, avverte, manda campanelli di allarme prima di fermarsi per sempre, come anche ogni organo del nostro corpo esprime sempre segnali quando si ammala o sintomi specifici quando smette di funzionare a dovere per qualunque patologia.
Il 95% dei casi definiti di «morte improvvisa» sono quindi legati al cuore, ed ogni anno in Italia 1.000 persone sotto i 30anni, apparentemente sane, muoiono di arresto cardiaco imprevisto, come prima manifestazione di una patologia purtroppo esistente, mai diagnosticata o curata.
Il bypass compie 56 anni Dall’intuizione di Favaloro alle innovazioni di oggi. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 26 Maggio 2023
Il 9 maggio 1967, 56 anni fa, fu eseguito alla Cleveland Clinic il primo intervento di bypass aortocoronarico. L’artefice fu René Geronimo Favaloro, medico di origini italiane – i nonni erano originari di Salina emigrati in Argentina – che nacque a La Plata nel 1923. A raccontarci la sua storia e il percorso innovativo, Ugolino Livi, già professore di cardiochirurgia dell’Università di Udine. Prima dell’intervento innovativo di Favaloro erano stati registrati tentativi precedenti, per risolvere la mancanza di flusso di sangue in alcune aree del miocardio, ma senza contezza della lesione che ne era la causa. Bisogna aspettare l’inizio degli anni ’60, con Mason Sones che eseguì la prima cine-angiografia coronarica che mise in evidenza la causa del mancato flusso coronarico. Vi furono anche intuizioni precedenti: nel 1951 a Montreal, Weinberg ebbe l’intuito di irrorare il miocardio con il sangue proveniente dall’arteria mammaria interna. Un altro chirurgo americano, Murray, nel 1954, fece un bypass sperimentare e, a Zurigo, Senning, intervenne sulla coronaria inserendo una patch di allargamento. Tuttavia, il primo a dimostrare l’efficacia del bypass fu Favaloro che operò una donna di 57 anni con ostruzione completa della coronaria destra. L’intuizione fu quella di utilizzare un segmento di vena superficiale preso dalla gamba: la prelevò e fece un ponte tra aorta e coronaria a valle della lesione, riportando sangue dove non c’era. Favaloro si era laureato in Argentina e arrivò a Cleveland nel 1965, dove rimase abbagliato dalle angiografie di Sones ed ebbe lì l’intuizione di bypassare la lesione con segmento di vena. Favaloro, quattro anni dopo, tornò in Argentina con l’idea di replicare la struttura di Cleveland e creò a Buenos Aires la fondazione che inaugurò nel ’75. Ma in quegli anni di dittatura, soffriva della mancanza di fondi. Così a seguito di insuccessi e della crisi finanziaria, nonché provato dalla morte della moglie di due anni prima, nel 2000 si suicidò, sparandosi al cuore. Favaloro rimase nel cuore degli argentini e nella storia della medicina, tant’è che la sua data di nascita è diventata in Argentina la giornata nazionale della medicina. Ma cos’è il bypass? Il bypass vuole affrontare la patologia dell’ischemia miocardica legata a lesioni coronariche, che si riconosce come la causa di morte più frequente nei Paesi occidentali. Oggi la mortalità per le patologie cardiache annuale si è ridotta: da 283 a 160 casi per 100mila abitanti grazie a migliori stili di vita, alimentazione, terapia medica, maggior accesso alle cure. Anche sul lato tecnico il bypass ha avuto la sua evoluzione. A fronte dell’intervento classico che si fa tutt’ora, ovvero con apertura del torace dalla parte anteriore, con circolazione extracorporea, arrestando il cuore e operando a cuore fermo, sono intervenute alcune variazioni. Già nel ‘71, sono state propagandate alternative alla vena come le arterie mammarie o segmenti di arteria radiale dal braccio, nell’ipotesi (dimostrata) che questi condotti arteriosi avessero durata nel tempo maggiore. Alcune variazioni riguardano un minore ricorso alla circolazione extracorporea che ebbero successo tra gli anni ‘90 e ’00, anche se, col tempo si è verificata una minore riuscita. Ulteriore passo avanti, nell’accesso al cuore, creando un pertugio attraverso il torace (mini-toracotomia) attraverso cui si può isolare l’arteria mammaria e impiantarla sulla discendente anteriore. Ancora, l’intervento robotico a torace chiuso, su uno o due vasi coronarici. Questo cambiamento di approcci è stato stimolato anche dall’inizio del trattamento delle lesioni con interventi di angioplastica coronarica. Il primo fu fatto 1977: attraverso un catetere, nella coronaria, gonfiando un pallone si poteva dilatare la coronaria e ristabilire il flusso. Una procedura che ha preso piede facendo concorrenza al bypass. Col tempo si è capito meglio quali casi trattare con quale intervento (per caratteristiche del paziente e per patologia). Infatti, le angioplastiche sono aumentate al 2021 a circa 0,84 per mille abitanti, mentre per i bypass siamo passati da 15mila casi pre-Covid a 10-12mila. L’intuizione di Favaloro ha segnato una tappa importante nella storia della chirurgia cardiaca, impattando in maniera significativa sulle terapie di pazienti cardiopatici e garantendo sempre migliori aspettative di vita.
Infarto, riconoscerne i sintomi per salvare la vita. Una crisi cardiaca può essere fatale, ma riconoscerla in tempo e intervenire tempestivamente può salvare la vita: attenzione dunque ai “segnali” del corpo. Mariagiulia Porrello il 23 Aprile 2023 su Il Giornale
Tabella dei contenuti
Oppressione toracica
Dolore dal petto al braccio sinistro e alla schiena
Dolore prolungato e sudore
Nausea e vomito
Mancanza di respiro e affanno, anche a riposo
Capogiri, formicolii e stanchezza
L’infarto è la necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa. Una crisi cardiaca purtroppo può essere fatale, ma riconoscerla in tempo e intervenire tempestivamente può salvare la vita.
L’attacco di cuore è in molti casi la conseguenza di una malattia che colpisce le coronarie, le arterie che portano il sangue al muscolo cardiaco. Queste ultime, restringendosi a causa della formazione di lesioni o di placche ricche di grasso, impediscono al cuore di ricevere sangue a sufficienza. Anche per questa ragione i segnali di un attacco di cuore possono comparire prima che l’evento cardiovascolare giunga alla sua fase acuta, cioè quella dell’infarto miocardico.
Dunque occorre fare molta attenzione ai campanelli d’allarme per agire tempestivamente.
I sintomi dell'infarto non sono uguali per tutti e possono variare a livello di intensità. Addirittura vi sono infarti silenti, in cui il soggetto colpito nemmeno si accorge di quello che sta subendo. Ecco una lista di 6 sintomi che in generale devono destare l'attenzione.
Oppressione toracica
Chi sta per avere un infarto in genere ha una sensazione di pienezza o sente un dolore costrittivo al centro del petto, come una morsa. Tale stato può durare parecchi minuti, solitamente più di venti, senza interruzione e senza che vi sia alcuna risposta ai farmaci.
Come ogni muscolo il cuore ha bisogno di un approvvigionamento costante di sangue e dell’ossigeno da esso trasportato. Senza sangue le cellule del cuore subiscono immediatamente gravi danni e ciò provoca dolore ed una sensazione di pressione. Il dolore dell’infarto è intenso e, soprattutto, prolungato: infatti può durare anche giorni. Oppure può presentarsi a più riprese senza apparenti situazioni scatenanti.
Il dolore al petto normalmente, come detto, è molto forte ma non biosgna lasciarsi ingannare. Ci sono casi in cui invece tale dolore viene percepito in modo lieve, con una sensazione simile a quella dell'indigestione. A volte si imputa il male ad una cattiva ed eccessiva alimentazione o al mancato digerimento di un cibo quando invece la causa è molto più grave.
Talvolta addirittura può non essere presente alcun dolore al petto e ciò accade specialmente nelle donne, nelle persone anziane e in quelle affette da diabete.
Dolore dal petto al braccio sinistro e alla schiena
Il dolore può arrivare perfino ai denti e alla mandibola. La spiccata lateralità sinistra di tutte queste manifestazioni deve mettere in allarme il paziente: e ciò anche se l'intensità del dolore non è troppo intensa e si potrebbe attribuire a un malessere generale. L'aggravamento infatti può essere repentino.
Dolore prolungato e sudore
Questo può comparire non solo durante sforzi intensi, ma anche a riposo, ad esempio di prima mattina o mentre si sta dormendo, associato in taluni casi a forte sudorazione.
La causa del sudore freddo è riconducibile a intensi processi di vasocostrizione, che stimolano le ghiandole sudoripare a funzionare in maniera anomala. In presenza di infarto viene a mancare il controllo termoregolatorio e il corpo è sottoposto a uno stress funzionale.
Nausea e vomito
Tra i sintomi di infarto miocardico si possono riconoscere anche dolori alla porzione superiore dell'addome, con spasmi gastrici accompagnati da intensa sensazione di pirosi (acidità e bruciore di stomaco). Molto spesso insorge anche una forte nausea, che si manifesta improvvisamente e senza che il soggetto sia in fase digestiva: si tratta della tipica "nausea cardiaca", provocata dalla sofferenza delle cellule.
Mancanza di respiro e affanno, anche a riposo
La mancanza di fiato, o dispnea, è una sensazione di respirazione difficile, solitamente accompagnata dalla fame d'aria, per cui il paziente cerca invano di aumentare la profondità della fase inspiratoria ma senza nessun beneficio. La dispnea è legata alla ridotta e brusca funzione della pompa cardiaca.
Capogiri, formicolii e stanchezza
Anche ciò che accade nei giorni precedenti l’episodio acuto non è da sottovalutare. Prima ancora che l’infarto sia in atto infatti possono comparire capogiri, difficoltà a respirare e formicolii al braccio e alla mano sinistra. Ricordiamo che per funzionare a dovere, tutto il corpo, cuore compreso, deve essere irrorato di sangue e con esso ricevere ossigeno a sufficienza. Proprio per questo talvolta prima dell’attacco si può avvertire una stanchezza anomala, un senso di grande fatica tanto che anche i più semplici gesti quotidiani risultano difficili da portare a termine.
Alcuni sintomi, va detto, possono essere confusi con dolori intercostali o con problemi gastroesofagei. In ogni caso, anche solo si sia in dubbio, è bene chiamare i soccorsi.
Federico Mereta per lastampa.it il 25 dicembre 2022.
Più sono i nemici, più occorre predisporre le adeguate contromisure per affrontarli. La metafora bellica ben si presta alla situazione del cuore di tante persone in Italia, dove le malattie cardiovascolari sono ancora la causa del 36% dei decessi. In questo caso, l'alleanza pericolosa per la salute di cuore ed arterie ha un nome: lipitensione.
E' la particolare condizione in cui sia la pressione sale oltre i livelli di guardia sia il colesterolo Ldl, quello cattivo, tracima oltre la soglia desiderata. Stando alle ricerche, è più facile che una persona presenti entrambi i fattori di rischio, soprattutto con l'età che avanza.
E proprio per queste persone, in base all'effettivo pericolo per cuore e arterie, occorre studiare strategie su misura per controllare la situazione.
"In prevenzione primaria conta molto lo stile di vita: bisogna fare attività fisica (in Europa tra gli adulti poco meno di uno su quattro si muove quanto dovrebbe), combattere la sedentarietà (quasi il 40% dei soggetti tra i 50 e i 70 anni non si muove a sufficienza) combattere il fumo e agire anche sulle condizioni economiche e sociali - spiega Leonardo De Luca, che lavora presso la Cardiologia dell'Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma - la situazione ovviamente si fa più complessa se si parla invece di prevenzione secondaria, ovvero di persone che già soffrono di patologie cardiovascolari.”
“In questi casi bisogna avere obiettivi ben più stringenti per contrastare la lipitensione, con valori ammessi di colesterolo Ldl e pressione arteriosa che necessitano di trattamenti farmacologici per essere raggiunti. Pensate che chi ha livelli di questi due parametri oltre i limiti può presentare un rischio di malattia cardiovascolare e di decesso che può essere anche undici volte maggiore rispetto a chi invece presenta livelli nella norma".
Il problema, in questi casi, è duplice. Da un lato occorre individuare chi è rischio, dall'altro, questa è la sfida, fare in modo che assuma regolarmente i trattamenti indicati dal medico. Purtroppo le statistiche dicono che l'aderenza alle cure è uno scoglio difficile da superare: in chi soffre di "lipitensione", in due casi su tre dopo soli sei mesi da un evento acuto la popolazione a rischio non segue pedissequamente le cure.
E, altrettanto con dispiacere, i cardiologi rivelano che basterebbe una valida aderenza ai trattamenti per avere un 20-25% di rischio in meno di sviluppare una malattia. "Oggi sappiamo che la mancata aderenza può essere considerata un vero e proprio fattore di rischio aggiuntivo per i cardiopatici - segnala De Luca - basti pensare che anche il Piano Nazionale Cronicità del Ministero della Salute segnala come occorre individuare soluzioni che consentano di aumentare questo parametro per un più efficace controllo dei rischi.
“In questo senso va la raccomandazione verso le cosiddette "polipillole", ovvero compresse che consentano di somministrare in un'unica soluzione diversi principi attivi, sia per il solo controllo dell'ipertensione sia per ridurre tanto i valori della pressione arteriosa quanto quelli del colesterolo Ldl. Oggi la Società Europea di Cardiologia consiglia proprio questa strategia già in fase iniziale in chi soffre di "lipitensione", visto che consente di ottenere esiti migliori sia in termini di eventi ischemici come l'infarto sia di mortalità".
Come se non bastasse, ci sono anche studi che mostrano come la semplicità di somministrazione per i pazienti ipertesi, "compattando" i farmaci possa anche avere un beneficio superiore rispetto ad un aumento del dosaggio del singolo medicinale. Si tratta di informazioni importanti in termini di gestione delle persone a rischio cardiovascolare che oggi, complici le problematiche diffuse a carico del metabolismo, sono sempre più frequenti.
"C'è un altro dato che fa riflettere in senso positivo - conclude l'esperto - ci sono osservazioni che mostrano come l'associazione di una statina per ridurre il colesterolo possa influire positivamente sui livelli di pressione ottenibili con la terapia antipertensiva e come i farmaci per ridurre la pressione in combinazione con quelli per la dislipidemia possano dare un ulteriore vantaggio sotto l'aspetto del controllo delle Ldl.”
“Se a questo si aggiunge la maggior aderenza che il paziente può avere grazie al minor numero di "appuntamenti" con le terapie, si può dire che la polipillola, quando l'indicazione è appropriata, può rappresentare un'arma efficace per controllare la "lipitensione" nei soggetti a rischio cardiovascolare".
Tachicardia: i sintomi, cosa fare e quando è pericolosa. Spesso è una condizione normale, legata ad esempio a uno sforzo fisico o a uno stato di agitazione. In alcuni casi però può essere la spia di una situazione a rischio. Sofia Gorgoni l'1 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Cos’è la tachicardia
Distinguere le aritmie
A cosa stare attenti
Sentire il cuore in gola al primo appuntamento o durante un colloquio di lavoro è un fenomeno normale. Il corpo si attiva per avere più energia e sangue e accelera il battito cardiaco. Sebbene la tachicardia sia spesso innocua, ci sono casi in cui può essere la spia di una situazione sottostante, anche grave. Non riconoscere questi casi può avere delle conseguenze serie. Per esempio, la tachicardia può indicare la presenza di aritmie, condizioni severe che espongono a un grave rischio.
Cos’è la tachicardia
La tachicardia è una frequenza del battito cardiaco superiore a 100 battiti al minuto. In un adulto normalmente si assesta tra i 60 e i 100 battiti. Si tratta di una condizione normale in molti casi, ad esempio legata a uno sforzo fisico, o a un pasto abbondante. Subentra anche in uno stato di agitazione, quando di prova ansia o paura, in quanto condizionato dalle emozioni. In questi casi, il cuore batte veloce ma con intervalli regolari.
In generale, la frequenza cardiaca può aumentare per tanti fattori, tra cui la nicotina, l'alcol, la caffeina in eccesso e gli stati febbrili. In quest’ultimo caso, infatti, le pulsazioni aumentano di circa 8 bpm per ogni grado di temperatura superiore ai 37°C, e anche il metabolismo accelera. La tachicardia può dipendere anche da condizioni patologiche esistenti, tra cui: ipertiroidismo, cardiopatie, alcuni farmaci o abuso di stupefacenti.
Distinguere le aritmie
La tachicardia, nota anche come cardiopalmo si distingue dall’extrasistole, il cosiddetto “tuffo al cuore”. In quest’ultimo caso si percepisce un battito mancante. Nel caso della tachicardia, i battiti sono ritmici e regolari e in genere preoccupa solo quando ha un esordio e fine improvvisa.
Se invece il battito è sempre diverso e caotico, potrebbe trattarsi di un’aritmia, che si verifica per un’anomalia degli impulsi elettrici del cuore. I sintomi sono: respiro corto, sensazione di svenimento e palpitazioni. Le aritmie, se non trattate, possono peggiorare condizioni patologiche gravi, come insufficienza cardiaca, ictus, infarto e arresto cardiaco. La fibrillazione atriale è tra le aritmie più comuni, più frequente dopo i 60 anni e in presenza di patologie cardiovascolari e polmonari.
Più severa è invece la tachicardia ventricolare, che porta il cuore a battere molto velocemente e può causare anche morte improvvisa. Questo tipo di aritmia è associata alle cardiopatie e, in particolare, può svilupparsi durante o anche molto dopo un infarto del miocardio.
Un’aritmia viene diagnosticata dallo specialista cardiologo con un elettrocardiogramma. Talvolta è parossistica, cioè compare in alcuni momenti della giornata. In questi casi viene prescritto un Holter 24h ECG, un elettrocardiogramma portatile che registra ogni battito e che il paziente indossa per le 24h. Se l’aritmia è di tipo ipercinetico, cioè con battito veloce, potrebbe essere prescritta una terapia farmacologica o elettrica, ad esempio impiantando un defibrillatore. In caso di bradicardie, invece, può essere necessario un pacemaker.
A cosa stare attenti
Certe forme di tachicardia non richiedono alcun trattamento, in altri casi è importante intervenire il prima possibile. Le palpitazioni non vanno sottovalutare se c’è il dubbio di una possibile cardiopatia. Uno dei fattori di rischio è la presenza in famiglia di casi di svenimento o di morte per motivi cardiologici.
Oggi non esistono ancora terapie preventive contro le aritmie. In generale, chi ha familiarità con patologie cardiovascolari dovrebbe fare riferimento allo specialista cardiologo che prescriverà degli esami di controllo cadenzati. Lo stesso vale in presenza di una cardiopatia nota come un precedente infarto, una cardiomiopatia, una malattia valvolare.
In generale, riduce il rischio di aritmie uno stile di vita equilibrato. Ad esempio, una delle abitudini associate al rischio cardiovascolare è un’alimentazione ricca di grassi saturi, ma anche il fumo di sigaretta e la vita sedentaria. Il rischio si riduce, invece, con una dieta equilibrata, ricca di legumi e vegetali e un’attività sportiva, anche blanda ma regolare.
Aritmie cardiache, cos’è la sindrome del «cuore in vacanza». Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.
Più persone muoiono per attacchi di cuore tra Natale e Capodanno rispetto a qualsiasi altro periodo dell’anno. I troppi brindisi mettono a rischio di fibrillazione atriale: di che cosa si tratta, quali sono i sintomi e chi deve stare più attento
Attacchi di cuore a Natale
Protagonista nel periodo di feste sarà senz’altro il cibo, ma i brindisi non saranno da meno. Dai cenoni aziendali, all’aperitivo con gli amici, dalla Vigilia al Natale, fino a Capodanno e oltre, vale la pena soffermarsi sulla quantità di alcol che verrà bevuta rispetto al solito.
Secondo i medici, le prossime vacanze saranno il momento in cui si registreranno più problemi cardiovascolari: più persone muoiono per attacchi di cuore tra Natale e Capodanno rispetto a qualsiasi altro periodo dell’anno, tanto che negli Usa è nato il termine «Holiday heart» che indica quella che possiamo chiamare la «sindrome del cuore durante le vacanze».
In queste settimane beviamo e mangiamo molto più del consueto e in genere facciamo meno attività fisica rispetto a qualsiasi altro periodo dell’anno. Le celebrazioni sono a base alcolica, il consumo di bevande è così normalizzato che sembra strano che qualcuno non festeggi con un brindisi, così spesso ci si dimentica che l’alcol è una sostanza tossica per l’organismo. Anche in piccole dosi e specie per il cuore.
La «sindrome del cuore in vacanza»
Uno studio ha dimostrato, infatti, che un solo drink al giorno può aumentare il rischio di fibrillazione atriale anche del 16%. L’alcol influisce in modo negativo soprattutto sul cuore. Se in un dato giorno la possibilità di soffrire di fibrillazione atriale è una su 1.000, con un bicchiere di birra o vino questa probabilità può arrivare a 3 su 1.000. Se i festeggiamenti si protraggono e i bicchieri crescono, potremmo avere effetti non desiderati di celebrazioni troppo «allegre».
Come l’alcol influisce sul cuore
«In linea generale dosi eccessive di alcol esercitando un’azione eccitante sulle cellule del cuore – conferma il professor Claudio Tondo, Direttore del Dipartimento di Aritmologia del Centro Cardiologico Monzino, IRCCS —, possono determinare un aumento della frequenza cardiaca e facilitare l’insorgenza di aritmie come la fibrillazione atriale. Bisogna inoltre ricordare che l’assunzione cronica di alcol in dosi significative può portare allo sviluppo di cardiomiopatia dilatativa, che provoca un incremento dei volumi delle camere cardiache (atri e ventricoli) e una riduzione della contrattilità: due presupposti cruciali per l’insorgenza di fibrillazione atriale. E attenzione: le anomalie del ritmo indotte dall’alcol spesso si verificano in concomitanza di un’alimentazione più abbondante, per cui la moderazione è anche rivolta alla quantità di cibo introdotta».
Che cos’è la fibrillazione atriale
La fibrillazione atriale, quindi, è il pericolo più incombente, ma di cosa si tratta? «È un’anomalia del battito cardiaco, uno dei disturbi più diffusi – spiega Tondo —: il cuore, battendo in modo irregolare, non riesce a pompare adeguatamente il sangue che potrebbe formare coaguli pericolosi. La fibrillazione atriale può aumentare il rischio di avere un ictus ed è anche stata anche collegata alla demenza e all’insufficienza cardiaca».
Chi colpisce (anche le persone alte)
Il rischio di fibrillazione atriale aumenta con l’età: a 80 anni si ha circa il 10% di possibilità di avere questo disturbo. Altri fattori di rischio sono l’obesità, una storia familiare di fibrillazione atriale a esordio precoce e l’altezza (uno studio ha scoperto che le persone più alte di 1 metro e 70 cm erano a maggior rischio).
Diagnosi
I medici in genere diagnosticano la fibrillazione atriale attraverso un elettrocardiogramma. Ma poiché gli smartwatch con cardiofrequenzimetri sono diventati più popolari, adesso è possibile notare da soli i cambiamenti nel proprio ritmo cardiaco e rivolgersi a un cardiologo.
Sintomi
«Non sempre ci si accorge di avere il problema: alcuni non avranno sintomi, e altri potrebbero sperimentare palpitazioni cardiache, dolore toracico o mancanza di respiro, estrema stanchezza e persino svenimenti. Per alcune persone, la fibrillazione atriale si manifesta per brevi periodi, ma per altre la condizione può diventare permanente», chiarisce l’esperto.
Non aspettare se...
In particolare, nel periodo festivo molti sono portati a trascurare i primi sintomi e ad aspettare fino al nuovo anno per ricevere cure mediche. Invece è fondamentale cercare assistenza se si ha un battito cardiaco anomalo persistente e dolore al petto, o se si fa fatica a respirare. Ogni minuto può essere importante.
Consigli
Limitare la quantità di alcol che si consuma può aiutare anche a proteggere il cuore, ma se si vuole brindare si possono adottare alcuni accorgimenti: bere acqua, perché la disidratazione aumenta il rischio di «sindrome del cuore in vacanza», e non smettere con gli esercizi fisici. Anche solo una passeggiata può far bene.
Meglio zero
In assoluto, anche se ci sono quantità di assunzione di alcol considerate a «basso rischio» (1 bicchiere di vino al giorno per le donne e 2 per gli uomini) non significa che siano salutari, né un obiettivo da raggiungere. Negli ultimi anni sono aumentate le evidenze di relazioni causa-effetto tra l’alcol e alcuni tipi di tumore (cavo orale, faringe, laringe, esofago, colon-retto, mammella e fegato) e altri 200 problemi di salute. Per non parlare degli incidenti alla guida. L’unico consumo sicuro di alcol è quello pari a zero.
Il Fegato.
Cirrosi epatica, come riconoscere e curare la patologia. La patologia altera la funzionalità del fegato, che diviene incapace di processare i nutrienti ed eliminare le tossine. All’inizio può essere asintomatica. Mariagiulia Porrello il 6 maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I sintomi della cirrosi epatica
Le cause della cirrosi epatica
Diagnosi e cura
La cirrosi epatica è una malattia del fegato, frutto di danni reiterati o continui all’organo. Ogni volta che quest’ultimo subisce un danno si autoripara generando una cicatrice. Alla lunga però la sostituzione del tessuto sano con quello cicatriziale diventa un problema perché tale tipo di tessuto non è più funzionante.
La conseguenza è l’incapacità dell’organo di eliminare le sostanze tossiche per l’organismo. Le ripercussioni sono gravi. Il fegato inoltre si indebolisce perché non è più in grado di processare adeguatamente le sostanze nutritive: il rischio in questo caso è la malnutrizione.
Se il processo progredisce e finisce per interessare gran parte del fegato, può insorgere l’insufficienza epatica. Una condizione, quest’ultima, potenzialmente fatale.
In passato la cirrosi era considerata irreversibile, mentre oggi vi sono anche evidenze diverse.
I sintomi della cirrosi epatica
In fase iniziale la patologia può essere asintomatica, paucisintomatica o può manifestarsi con sintomi non specifici. Tra questi vi sono:
sonnolenza
stanchezza
febbre
inappetenza
nausea e vomito
diarrea
ittero (il colorito della pelle e delle sclere è giallastro)
stati confusionali
difficoltà digestive
Quando la normale funzionalità del fegato è completamente compromessa, nascono le complicanze. Può accumularsi liquido nell’addome, possono insorgere encefalopatia, varici esofagee e gastriche, ipertensione portale (si ostruisce l’arteria che porta sangue al fegato), alterazioni della funzione dei reni, alterazioni cutanee, alterazioni della coagulazione, compromissione della funzione respiratoria e cardiaca e addirittura si può arrivare alla formazione di noduli tumorali.
Le cause della cirrosi epatica
La patologia può essere causata da:
infezioni croniche del fegato come epatite B ed epatite C
abuso di alcol: steatosi epatica alcolica
patologie caratterizzate da deposito di sostanze nel fegato
steatosi epatica non alcolica, dovuta ad uno stile di vita non sano: i fattori di rischio sono obesità, diabete, ipercolesterolemia, ipertensione
patologie autoimmuni del fegato o delle vie biliari
Diagnosi e cura
La diagnosi di cirrosi epatica si basa, oltre che sull’esame del paziente, su analisi del sangue ed esami specifici.
Purtroppo non esiste una cura. Ciò che si può fare è rallentare il decorso della patologia, agire sui sintomi e le complicanze. Inoltre, generalmente, per quanto riguarda i comportamenti, bisogna astenersi dal consumare alcool, prediligere una dieta equilibrata e praticare attività fisica.
Nei casi particolarmente gravi viene preso in considerazione il trapianto di fegato.
Il Fegato. Pietro Lampertico su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.
Questo forum è pensato come uno strumento per l’approfondimento di tematiche relative alle malattie di fegato. Risponde ai lettori un team coordinato dal professor Pietro Lampertico, direttore dell'Unità operativa di Gastroenterologia ed Epatologia - CRC “A.M. e A. Migliavacca” per lo Studio e la Cura delle Malattie del Fegato alla Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico e professore associato di Gastroenterologia all'Università degli Studi di Milano. Gli altri autori sono Massimo Alberto Iavarone, responsabile attività MAC e DH presso l'Unità operativa di Gastroenterologia ed Epatologia, e Roberta D’Ambrosio, responsabile attività ambulatoriale presso la stessa Unità operativa alla Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.
Lo scenario clinico è profondamente cambiato negli ultimi anni: esistono terapie molto efficaci per il trattamento delle epatiti croniche virali, quali HCV e HBV. Inoltre, nuove molecole saranno a breve disponibili per il trattamento dell’infezione delta (HDV), fino ad oggi rimasta senza cura. Esistono farmaci in avanzata fase di sviluppo anche per il trattamento di condizioni emergenti, quali l’epatopatia metabolica (NAFLD) e la steatoepatite (NASH), per le quali si pensa, quindi, di poter disporre a breve di cure. Inoltre, nuove prospettive si aprono per il trattamento delle complicanze cliniche della cirrosi, tra cui il carcinoma epatocellulare (HCC), e per la gestione del Paziente con insufficienza epatica e ipertensione portale, grazie all’ottimizzazione degli algoritmi gestionali multidisciplinari, che spaziano da tecniche di radiologia interventistica al trapianto di fegato. Di questo, e altre patologie meno comuni si parla nel forum.
Le risposte sono pubbliche. Non sempre è possibile fornire una soluzione ai problemi, ma si cerca almeno di indicare i giusti indirizzi di comportamento. Non possiamo garantire una risposta immediata a tutti i quesiti: consigliamo di tornare sul forum nei giorni successivi per verificare se il moderatore ha soddisfatto la richiesta.
L'archivio delle domande e risposte
Steatosi epatica
Egregio Professore,
Ho 53 anni e sono affetto da steatosi epatica da almeno sette anni (l'eco mostrava già allora che la percentuale di cellule sane era attorno al 5%).
Non so se c'è correlazione, ma sono in sovrappeso da quasi 15 anni, e tecnicamente ( sempre più ) obeso da cinque anni.
Soffro di ipercolesterolemia, ma pare essere ben controllata farmacologicamente.
Le transaminasi non sono alterate in modo significativo.
Le conseguenze della steatosi sono solo a livello digestivo?
Ha dei suggerimenti da darmi per migliorare le performances del fegato (so che la malattia ė irreversibile)?
Può tale malattia degenerare in cirrosi epatica?
Infine, la cirrosi epatica può essere rimossa tramite trapianto di fegato?
Leggo infatti che il trapianto viene sfruttato (quando possibile) per epatocarcinomi, persino in caso di ingerimento di funghi come amanite falloidea, ma non per cirrosi (da qui la mia domanda).
Grazie. Cordiali saluti. di Stefano69
LA RISPOSTA A CURA DELLA DOTTORESSA ROBERTA D’AMBROSIO
Gentile Sig. Stefano,
la steatosi epatica è dimostrabile nel 25% della popolazione, con prevalenza maggiore nei soggetti obesi e/o diabetici. Le cause più frequenti sono rappresentate dal sovrappeso (e dall'obesità in particolare), dal diabete e dalle dislipidemie, a cui spesso si associa uno stile di vita sedentario. Nei soggetti obesi e diabetici, la steatosi può determinare la comparsa di una infiammazione cronica (steatoepatite), che nel corso degli anni può portare alla comparsa di fibrosi epatica, e potenzialmente cirrosi.
Al momento non sono disponibili trattamenti farmacologici per la steatosi, nè per la steatoepatite. L'unica terapia è rappresentata dalla perdita di peso (almeno il 7-10%) e dalla regolare pratica di esercizio fisico (almeno 20 minuti di attività aerobia tutti i giorni o a giorni alterni). Questi provvedimenti sono in grado di determinare una regressione del danno epatico, inclusa la fibrosi.
La cirrosi è un evento raro, e tardivo. Il trapianto può essere una terapia, ma viene considerato solo in soggetti che abbiano sviluppato anche le complicanze di malattia, ossia il tumore del fegato (HCC) o l'insufficienza epatica. Nei soggetti affetti da epatopatia metabolica, inoltre, le comorbidità cardiologiche e respiratorie rappresentano spesso controindicazioni importanti al trapianto stesso.
In tutti i soggetti affetti da steatosi, soprattutto in presenza di diabete e obesità, è fondamentale un inquadramento clinico "di base" sulla base del quale valutare la necessità di una presa in carico epatologica. Al Medico di Medicina Generale sono sufficienti esami del sangue ed ecografia per ottenere informazioni importanti.
La Sterilizzazione.
La sterilizzazione forzata è una pratica ancora diffusa in Europa. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 4 Gennaio 2023
In Europa la sterilizzazione forzata è una pratica tutt’altro che abbandonata: questa la denuncia presentata dal report Sterilizzazione forzata delle persone con disabilità nell’Unione europea, redatto dal Forum europeo sulla disabilità (EDF). Pur trattandosi di una pratica lesiva dei diritti umani e vietata da diverse convenzioni internazionali, tra le quali la Convenzione di Istanbul e lo Statuto di Roma, numerosi tra i Paesi membri (inclusa l’Italia) ne prevedono ancora il ricorso, in particolare ai danni di persone con disabilità o appartenenti alla comunità Rom o ai soggetti intersessuali.
Con sterilizzazione forzata si intende il procedimento eseguito senza conoscenza libera, preventiva e informata del soggetto sul quale verrà praticata. La pratica diventa coercitiva quando la persona è costretta ad accettarla a seguito delle pressioni avanzate dalla propria famiglia o dei medici, o se ad imporla sono la legislazione o determinate politiche – in alcuni Stati europei, come Francia e Belgio, può costituire requisito per l’accesso agli istituti residenziali.
Ad agosto dello scorso anno erano 9 gli Stati dell’Unione ad aver messo al bando per legge la sterilizzazione forzata, nello specifico Belgio, Francia, Lussemburgo (dove in tutti e tre costituisce crimine di guerra), Malta, Polonia, Romania (il quale ha classificato la sterilizzazione forzata come crimine di guerra e contro l’umanità, oltre che come forma di violenza di genere), Slovacchia, Spagna e Svezia. Nonostante ciò, nella legislazione di alcuni di questi Stati sono previste alcune eccezioni, come quelle citate sopra riguardanti l’ingresso nelle strutture residenziali. Ciò significa che i genitori (o i tutori) dei soggetti possono essere spinti ad autorizzare la sterilizzazione della figlia, se non sono previste alternative. Tuttavia, specifica il rapporto di EDF, Francia e Belgio hanno recentemente cambiato la propria legislazione e non è chiaro se tali eccezioni siano ancora previste.
Altri 14 Stati membri, invece, consentono ancora alcune forme di sterilizzazione forzata all’interno della propria legislazione: si tratta di Austria, Bulgaria, Croazia, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Portogallo, Slovacchia e Ungheria. Qui un tutore o un rappresentante legale può autorizzare l’esecuzione della pratica su di una persona con disabilità per suo conto. In Repubblica Ceca, Ungheria e Portogallo è possibile eseguire sterilizzazioni forzate anche sui minori.
In Italia la sterilizzazione forzata delle persone con disabilità è vietata, ma possono essere fatte delle eccezioni nel caso, per esempio, di misure urgenti o “terapeutiche” – non potendo costituire così la pratica reato a sé. Tuttavia, nel nostro ordinamento la procedura può costituire circostanza aggravante ai sensi dell’art. 583 c.p. D’altronde, la maggior parte degli Stati europei non prevede una specifica fattispecie di reato per la sterilizzazione forzata ma lascia che rientri sotto altre voci, quali lesioni fisiche, aggressione, percosse, coercizione, violenza o crimini internazionali, tra i quali quelli di guerra e contro l’umanità. All’interno degli Stati in cui è previsto esplicitamente come reato, inoltre, le pene possono essere molto diverse, andando dalla reclusione fino a 10 anni a Malta al pagamento di un’ammenda e massimo sei mesi di carcere in Svezia.
Pur essendo talvolta esplicitamente prevista dallo Stato o da un tribunale, la pratica è considerata ancora un tabù, motivo per il quale, denuncia EDF, i dati disponibili al riguardo sono inesistenti o obsoleti – configurando così anche una certa mancanza di trasparenza da parte degli Stati. Tra i (pochissimi) dati recenti disponibili, vi è quello riguardante la Germania, dove nel 2017 è stato sterilizzato il 17% di tutte le donne con disabilità, rispetto al 2% delle donne a livello nazionale. Nel 2016 inoltre, su 31 richieste di approvazione di sterilizzazione forzata su persone con disabilità presentate da un tutore legale, ne sono state approvate ben 23. Nello stesso anno in Spagna sono state eseguite 140 sterilizzazioni su persone con stabilità, mentre sono circa un migliaio le persone disabili sottoposte a sterilizzazione negli ultimi dieci anni.
Tra le motivazioni principali per avanzare la richiesta da parte di tutori o simili, ad essere spesso citati sono il “miglior interesse della persona”, i motivi medici, il voler “proteggere la persona dagli abusi sessuali”, l’alleggerimento dal peso della contraccezione e la persistenze convinzione – “paternalistica, infantilizzante e patriarcale” – secondo la quale una persona con disabilità non sarebbe in grado di prendersi cura di un bambino. Si tratta, evidentemente, di motivazioni non adeguate per giustificare una mutilazione del genere, dal momento che l’impossibilità di avere gravidanze non protegge certo le donne dal subire abusi sessuali. La legittimazione del procedimento risiede evidentemente tutta nella limitata capacità giuridica delle persone che vi sono sottoposte, in genere affette da disabilità intellettive e/o psicosociali. E se è difficile reperire dati certi sui numeri riguardanti la pratica, altrettanto vale per l’applicazione delle misure di “salvaguardia” dei soggetti, quali l’esame del consenso o della volontà delle persone interessate – tra i casi denunciati da EDF, vi è anche quello di una donna sorda sottoposta inconsapevolmente a sterilizzazione in età adulta, che lo scoprì solamente successivamente in quanto non riusciva a rimanere incinta.
Così, l’Europa dei diritti si rivela in realtà scrigno di pratiche che sembrano avere più a che fare con l’eugenetica che non con l’effettiva tutela dei soggetti fragili. E se già con lo scandalo del Qatargate era evidente – se mai ci fosse bisogno di ulteriori conferme – come la formula “diritti umani” non sia nulla di più che un mero esercizio di retorica politica, il persistere di questi fenomeni non fa altro che gettare ulteriori ombre sull’effettivo peso dei diritti fondamentali di ogni individuo nella democratica Unione Europea. [di Valeria Casolaro]
La Disfunzione Erettile.
Da blitzquotidiano.it il 24 gennaio 2023.
Il viagra fa bene al cuore e aiuta a migliorare la salute. Secondo un nuovo studio, la pillola blu nota per la disfunzione erettile, ridurrebbe il rischio di malattie cardiache negli uomini.
Il viagra riduce il rischio di malattie cardiache
Per confermarlo, i ricercatori della University of Southern California (USC) hanno esaminato 70mila uomini adulti con un’età media di 52 anni, con una diagnosi di disfunzione erettile dal 2006 al 2020. Utilizzando le cartelle cliniche, i ricercatori hanno determinato quali avevano assunto farmaci per la disfunzione erettile e li hanno confrontati con quanti hanno avuto un successivo problema cardiaco durante il periodo di follow-up. I decessi per malattie cardiache sono diminuiti drasticamente di quasi il 40%.
Gli utenti di farmaci per la disfunzione erettile avevano anche il 17% in meno di probabilità di soffrire di insufficienza cardiaca, quando il cuore non pompa come dovrebbe. Il 15% degli utenti aveva una probabilità di richiedere una procedura di rivascolarizzazione coronarica. C’era anche una probabilità ridotta del 22% di sviluppare angina instabile, quando la placca nell’arteria coronaria nega ossigeno e sangue al cuore. Ognuna di queste condizioni può essere mortale se non trattata e aumentare significativamente la probabilità che una persona subisca un infarto fatale.
Gli esperti ritengono, in un articolo pubblicato sul Journal of Sexual Medicine, che il farmaco aumenti il flusso sanguigno nelle arterie del cuore e migliori il flusso di ossigeno in tutto il corpo. Il farmaco agisce rilassando i muscoli del pene di un uomo, che consente il flusso di più sangue nel corpo. Quando eccitato, l’aumento del flusso sanguigno consente all’uomo di avere un’erezione maggiore.
I precedenti studi
Già ricerche precedenti avevano collegato l’uso del viagra a un ridotto rischio di Alzheimer, che può essere causato da una mancanza di afflusso di sangue al cervello. Sebbene i risultati di questo studio siano promettenti, i medici non raccomandano di assumere il farmaco off-label, cioè per una indicazione diversa da quella prescritta. Ad oggi, il farmaco ed è stato approvato solo per il trattamento della disfunzione erettile.
Barbara Fiorillo per today.it il 5 gennaio 2023.
La disfunzione erettile è l’incapacità a raggiungere e/o mantenere un’erezione adeguata a portare a termine un rapporto sessuale soddisfacente. Un disturbo causato da fattori psicologici o organici (o da entrambi), che interessa il 40% degli over 50 e il 50% degli over 70. Alcuni sperimentano la Malattia di Peyronie (interessa il 7% dei maschi italiani tra i 50 e i 70 anni), caratterizzata dalla formazione anomala di tessuto fibroso-cicatriziale in corrispondenza dei corpi cavernosi, che dà luogo al cosiddetto “pene curvo”
Questa condizione viene solitamente trattata innestando nel pene tessuti prelevati da altre parti del corpo del paziente per sostituire l'area danneggiata. Ma il più delle volte il sistema immunitario respinge questi innesti di materiale biologico estraneo seppure riusciti, causando nuovi problemi come l'accorciamento del pene.
Una svolta nella cura di questa malattia, e di altre forme di disfunzioni erettili di natura organica, arriva da un team di ricerca della South China University of Technology di Guangzhou (Cina), che ha sviluppato un tessuto sintetico (una sorta di cerotto) che imita il tessuto fibroso naturale necessario per mantenere l'erezione. Il tessuto - chiamato "Tunica albuginea artificiale" (o ATA) - si è mostrato capace di riparare le lesioni e ripristinare la normale funzione erettile nei suini. Secondo i ricercatori, questo cerotto bionico potrebbe tracciare la strada a nuove terapie per riparare le lesioni del pene anche negli esseri umani. I risultati della sperimentazione sono stati pubblicati sulla rivista Matter.
Come fa il pene a mantenersi eretto
Il pene dei mammiferi è costituito da uno scheletro idrostatico (che mantiene l’equilibrio tra i fluidi) chiamato Tunica albuginea (TA), una sorta di “fodera” che riveste i corpi cavernosi del pene (che si riempiono di sangue). La TA è una struttura elastica, ma molto resistente, che favorisce il mantenimento dell’erezione grazie al passaggio delle vene attraverso la sua struttura. Quando i corpi cavernosi si riempiono di sangue e si allungano, la TA si distende sino al suo limite e strozza in questo modo le vene che la attraversano, così da trattenere il sangue al suo interno. In questo modo il pene raggiunge l’erezione completa per tutta la durata del rapporto.
La forma del pene è quindi decisa dalla disposizione del tessuto fibroso all'interno dello scheletro idrostatico che può resistere alla deformazione esterna quando il pene è eretto. Tuttavia, la Tunica albuginea può subire delle lesioni per una rottura traumatica (la cosiddetta “frattura del pene”) o andare incontro ad accorciamento come succede nella Malattia di La Peyronie. In questi casi il pene può deformarsi e non riuscire a mantenere l'erezione.
Lo studio
Per risolvere questi disturbi, i ricercatori della South China University of Technology di Guangzhou hanno sviluppato una Tunica albuginea artificiale (o ATA). Un tessuto sintetico, a base di alcol polivinilico, che ha una struttura di fibre arricciate simile alla Tunica albuginea naturale e le stesse proprietà biomeccaniche. I ricercatori hanno, quindi, effettuato esperimenti di laboratorio per studiare la tossicità del tessuto artificiale e la sua compatibilità con i vasi sanguigni, poiché è stato progettato per rimanere nel corpo per lungo tempo. Una volta visto che non era dannoso per altri tessuti, lo hanno testato in maiali nani di razza Bama con lesioni alla Tunica albuginea (tessuto fibroso del pene).
Come funziona il cerotto bionico
I nuovi cerotti ATA hanno ripristinato con successo la funzione erettile dei maiali, mostrando di sapere imitare efficientemente la funzionalità dei tessuti fibrosi naturali del pene. Dopo un mese dall'esperimento, i ricercatori hanno controllato l'effetto dei cerotti, e scoperto che gli ATA non avevano ripristinato la microstruttura del tessuto naturale circostante, ma avevano viluppato una fibrosi (formazione di ingenti quantità di tessuto connettivo-fibroso) paragonabile a quella del tessuto naturale e consentito di raggiungere un'erezione normale dopo che nel pene era stata iniettata una soluzione salina.
“Storicamente - ha spiegato l'autore dello studio Xuetao Shi -, i trapianti di tessuto utilizzati per trattare il tessuto danneggiato della Tunica albuginea, erano soggetti a rigetto e scarsa funzionalità poiché le loro microstrutture non corrispondevano a quelle del tessuto circostante. Pertanto, siamo rimasti sorpresi dai risultati eccellenti dei nostri esperimenti, in cui il pene degli animali ha riacquistato la normale erezione subito dopo l'uso dell'ATA".
Prossimi passi
La ricerca ha ancora molta strada da fare per stabilire l'efficienza a lungo termine di questo cerotto bionico, poiché la rottura è un possibile rischio. Sebbene i cerotti ATA vadano testati per la biocompatibilità prima di essere sperimentati negli esseri umani, il team di studiosi è convinto che questa nuova tecnologia porterà importanti benefici alla salute riproduttiva maschile.
"Il nostro lavoro in questa fase - ha spiegato Shi - si è concentrato sulla riparazione di un singolo tessuto del pene, la fase successiva sarà quella di considerare la riparazione del difetto generale del pene o la costruzione di un pene artificiale da una prospettiva olistica".
L’Ernia inguinale.
Ernia inguinale: cos'è, i sintomi e le indicazioni per curarla. Tutto quello che c'è da sapere su questa patologia e le indicazioni in caso di intervento chirurgico. Maria Girardi il 6 Giugno 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Cause e fattori di rischio dell'ernia inguinale
Sintomi e complicanze dell'ernia inguinale
Ernia inguinale e chirurgia
Fase pre-operatoria
Fase post-operatoria
Con il termine ernia inguinale si indica la fuoriuscita a livello dell'inguine di un viscere addominale. Quasi sempre si tratta dell'intestino; più raramente, invece, è la vescica. Gli uomini hanno una possibilità di soffrire del disturbo 7-10 volte maggiore rispetto alle donne, ciò a causa della marcata dimensione del canale inguinale che rende questa zona assai vulnerabile. Tipica degli individui di mezza età, l'ernia inguinale può anche svilupparsi nei bambini e negli anziani, soprattutto nella parte destra del corpo. Scopriamo insieme quali sono le cause, i sintomi e in che modo si può trattare.
Cause e fattori di rischio dell'ernia inguinale
L'ernia inguinale si forma nel momento in cui la muscolatura addominale subisce un allentamento nei pressi del canale inguinale. Si viene quindi a creare un foro attraverso cui i visceri addominali possono fuoriuscire. Sicuramente il sovrappeso e l'obesità non sono condizioni favorevoli, così come l'attività fisica intensa e prolungata. Attenzione anche alla gravidanza, agli sforzi eccessivi durante la defecazione e alla tosse cronica. Talvolta la problematica non è altro che la conseguenza di un difetto congenito.
Esistono poi fattori di rischio che predispongono alla comparsa dell'ernia inguinale:
Sesso maschile;
Età avanzata;
Familiarità con il disturbo;
Nascita prematura;
Sedentarietà;
Stitichezza cronica;
Fumo di sigaretta.
Sintomi e complicanze dell'ernia inguinale
Nella maggior parte dei casi l'ernia inguinale provoca solo una tumefazione visibile che può dare lieve fastidio o essere asintomatica. Nel momento in cui il rigonfiamento si accresce compaiono una serie di sintomi caratteristici, tra cui dolore inguinale, bruciore, sensazione di peso o di corpo estraneo. Negli uomini l'algia può irradiarsi allo scroto, ai testicoli e alla gamba.
Il dolore è la conseguenza della compressione delle terminazioni nervose presenti nel canale inguinale esercitata dal viscere. Si esacerba con gli starnuti, con i colpi di tosse e durante gli sforzi fisici. Al contrario, tende ad attenuarsi se il paziente assume la posizione distesa.
Una delle complicanze più pericolose dell'ernia inguinale è il suo strangolamento che si verifica nel momento in cui essa non viene più irrorata dal sangue. La sintomatologia dell'ernia strozzata include: algia improvvisa e acuta alla zona inguinale, febbre, nausea, vomito, incapacità di defecare e di espellere gas.
Ernia inguinale e chirurgia
Il trattamento dell'ernia inguinale varia a seconda dell'entità dei sintomi. Se essi sono assenti o lievi ci si limita alla sorveglianza attiva. Lo specialista può anche prescrivere l'uso di mutande elastiche contenitive o del cosiddetto cinto erniario. Diversamente l'unica soluzione è l'intervento chirurgico che ha lo scopo di riposizionare il viscere fuoriuscito e di chiudere il foro attraverso una piccola rete in materiale biocompatibile. L'operazione, che può essere classica o laparoscopica, avviene generalmente in regime di day hospital.
Fase pre-operatoria
In previsione dell'intervento il paziente deve:
Sottoporsi ad una serie di accertamenti clinici;
Smettere di fumare;
Sospendere 10-14 giorni prima l'assunzione di farmaci anticoagulanti, antinfiammatori e antiaggreganti.
Fase post-operatoria
Dopo l'intervento il paziente deve:
Praticare un'accurata igiene personale;
Attendere una-due settimane per la ripresa delle attività quotidiane più leggere;
Attendere almeno sei settimane prima di riprendere lavori manuali pesanti;
Attendere circa tre mesi prima di dedicarsi ad attività sportive impattanti;
Utilizzare uno slip contenitivo solo di giorno;
Evitare sollevamenti di pesi;
Assumere farmaci lassativi in caso di forte stitichezza.
Il Fibroma e le Cisti ovariche.
Un fibroma all’utero rappresenta un ostacolo per la gravidanza? Paolo Vercellini su Il Corriere della Sera l’1 Aprile 2023
Il moderato aumento di rischio di complicazioni può suggerire una chirurgia preventiva, ma la decisione va presa valutando diversi fattori
Mesi fa mi è stato diagnosticato un fibroma all’utero e ho consultato alcuni medici, che mi hanno proposto diverse terapie. Sono molto in ansia perché vorrei cercare presto una gravidanza. Qual è la strada migliore per risolvere il problema senza mettere a rischio la possibilità per me di avere un figlio nei prossimi mesi, o anche nei prossimi anni?
Risponde Paolo Vercellini, direttore Unità di Ginecologia, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
I fibromi sono tumori benigni del miometrio, ovvero il tessuto muscolare che forma la parete uterina. Sono lesioni nodulari molto frequenti in periodo riproduttivo e la loro crescita è stimolata dagli ormoni prodotti dalle ovaie. I sintomi associati dipendono non solo dal loro numero e dalla dimensione, ma in larga parte dalla posizione rispetto alla cavità uterina. In generale più il fibroma si sviluppa verso l’interno dell’utero, più causa mestruazioni abbondanti e aborti. I fibromi che si formano verso l’esterno della parete uterina tendono a dare pochi disturbi, a meno che non siano molto voluminosi. Quando si combinano la ricerca di una gravidanza e flussi mestruali abbondanti o senso di peso pelvico, la risposta è semplice: i fibromi vanno rimossi chirurgicamente e se possibile per via endoscopica, cioè evitando l’incisione della parete addominale.
Altre tecniche mini-invasive come ultrasuoni focalizzati, termoablazione con radiofrequenze ed embolizzazione delle arterie uterine devono essere considerate con cautela: i dati disponibili per valutare potenziali benefici e danni nelle donne che cercano una gravidanza sono al momento limitati. Alcune terapie farmacologiche (GnRH agonisti e antagonisti) riducono le dimensioni dei fibromi ma inibiscono l’ovulazione, impedendo così la gravidanza. Inoltre le probabilità di concepimento non aumentano alla loro sospensione, dopo un uso di alcuni mesi. Gli analoghi del GnRH possono quindi essere impiegati solo in fase preoperatoria, per correggere uno stato anemico e facilitare la chirurgia.
La risposta è invece più difficile nei casi (frequenti) di donne con fibromi asintomatici di medie dimensioni che non interessano la cavità uterina. Da una parte l’associazione tra fibromi e moderato aumento di rischio di alcune complicazioni in gravidanza (dolori del primo trimestre, aborto, rottura intempestiva delle membrane, parto pretermine, emorragia al parto) potrebbe suggerire una chirurgia preventiva; dall’altra la scelta di rimuovere fibromi asintomatici sottopone la paziente a disagi e rischi in assenza di prove definitive di efficacia e ritarda sostanzialmente la ricerca di prole: servono almeno sei mesi dopo l’intervento per garantire la buona guarigione della parete uterina e spesso ciò impone il taglio cesareo ad ogni successiva gravidanza.
La scelta può rivelarsi ancor più complessa in caso di percorsi di fertilizzazione in vitro (Fivet), ma l’indicazione delle principali Società scientifiche di Medicina della riproduzione è di rimuovere i fibromi che interessano tutto lo spessore della parete uterina e astenersi dalla chirurgia in caso di fibromi che si sviluppino esclusivamente verso l’esterno dell’utero. Il ginecologo dovrà considerare poi anche il numero di queste lesioni e la loro dimensione. La decisione va condivisa con la donna dopo dettagliata informazione sui pro e contro, sia della miomectomia (l’intervento per rimuovere i fibromi uterini) sia dell’astensione chirurgica, tenendo conto delle priorità e preferenze della paziente, come è doveroso fare ogni volta che le evidenze disponibili non indicano chiaramente una scelta migliore rispetto alle altre.
Cistite, «incubo» che dura nel tempo. La soluzione? No agli antibiotici fai da te. Vera Martinella su Il Corriere della Sera l’1 Aprile 2023
Moltissime donne combattono con il disturbo per settimane o mesi, ma le cure efficaci ci sono. Le terapie auto-prescritte rischiano di essere controproducenti, serve il parere dello specialista
Peregrinano fra medico di base, ginecologo, farmacista, a volte anche urologo, transitando persino dal Pronto soccorso a causa del dolore. Seguono una cura (per lo più con antibiotico) e l’indicazione a bere («tanta acqua, che fa bene») e poi rifanno l’urinocoltura per verificare la situazione. Se il problema persiste: ripetere la terapia. Capita così che moltissime donne combattano con la cistite per settimane, a volte mesi, senza riuscire a risolvere il problema definitivamente. Non di rado optando per il «fai da te», che non porta risultati o rischia persino di peggiorare la situazione. Eppure esistono cure efficaci per questo disturbo che riguarda quasi una donna su due nel corso della vita, a partire dall’adolescenza, ai primi rapporti sessuali e fino dopo la menopausa.
Il rischio dell'antibiotico resistenza
Le statistiche indicano che fino al 40% delle donne italiane (ovvero ben 10 milioni di connazionali in tutto) viene colpito almeno una volta nella vita da infezioni urinarie e circa il 20% di loro racconta di aver avuto episodi che si sono ripetuti nel tempo. In quattro casi su cinque si tratta di cistite, un’infiammazione della vescica causata quasi sempre da batteri presenti nella flora intestinale che, per diversi motivi, possono arrivare a far danno nelle vie urinarie. «La soluzione non sta, come troppo spesso si pensa, in cure antibiotiche auto-prescritte perché rischiano di essere controproducenti, facendo aumentare la probabilità di sviluppare l’antibiotico-resistenza — sottolinea Andrea Salonia, responsabile dell’Ufficio educazionale della Società italiana di urologia (SIU) —. È necessario rivolgersi all’esperto del settore, ovvero all’urologo, che può indicare il percorso terapeutico più adatto alla cistite, che spesso passa anche da piccoli interventi nello stile di vita».
Quali i sintomi da non trascurare?
«I campanelli d’allarme con cui si presenta la cistite di solito sono sempre gli stessi: uno stimolo urgente e spesso doloroso a urinare, un forte bruciore durante la minzione, la sensazione di non riuscire mai a svuotare completamente la vescica — risponde Andrea Salonia, professore di Urologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano —. Le urine possono apparire torbide e maleodoranti, talvolta con tracce di sangue. Soprattutto si avverte un senso di pesantezza e fastidio nella parte bassa dell’addome».
Quali le terapie efficaci?
«Le strategie per risolvere il problema passano anzitutto da un intervento sugli stili di vita — spiega l’esperto —. Una regola d’oro in caso di cistite episodica, che però vale anche come forma di prevenzione, è quella di bere tanto: almeno 8 bicchieri di acqua al giorno, per depurare l’organismo ed evitare l’accumulo di tossine e batteri responsabili dell’infiammazione. Per le stesse ragioni è molto importante cercare di non trattenersi, ma assecondare subito lo stimolo a urinare, perché il ristagno di urina nella vescica facilita la proliferazione di batteri. È poi consigliato urinare prima e dopo il rapporto sessuale, usare detergenti intimi a pH neutro e non aggressivi. Per controllare la stipsi, potenziale promotrice e alleata della cistite, può essere utile mangiare un paio di kiwi al giorno: regolano l’intestino e sono ricchi di vitamina C, che riduce la basicità dell’urina».
E per quanto riguarda i farmaci?
«Se l’urinocoltura, cioè l’esame delle urine che identifica i batteri responsabili dell’infezione in corso, rivela una carica batterica bassa sarebbe più opportuno intervenire assumendo probiotici, che tra gli effetti benefici contribuiscono a rendere più acida la superficie delle mucose genitali, inibendo l’azione dei batteri patogeni. Se invece la carica batterica fosse elevata, lo specialista stabilisce un’eventuale terapia antibiotica specifica sulla base dei risultati dell’urinocoltura e delle caratteristiche della paziente. Gli antibiotici sono efficaci, bisogna però parlare con un medico, meglio se con un urologo, in modo che scelga quello più indicato nel singolo caso, con i dosaggi e la durata della cura. Facendo di testa propria si rischia di non ottenere la soluzione del problema e in più, sul lungo periodo, di diventare resistenti a questi farmaci, non traendone più alcun beneficio, perché i batteri sviluppano una capacità di sopravvivere all’azione di uno o più farmaci. Così, poi, cresce il rischio di cistiti sempre più frequenti e molto spesso di avere fastidiose candidosi vaginali».
Come capire quando il problema diventa cronico?
«C’è una forma di cistite molto diversa e molto più invalidante di quella provocata dalle infezioni batteriche: è la cistite interstiziale, un’infiammazione cronica e dolorosa della parete della vescica, che colpisce con grande prevalenza le donne (in rapporto di 5 a 1 rispetto agli uomini). In pratica, è come avere una cistite ostinata che non vuole saperne di guarire, con gravi conseguenze sulla qualità della vita quotidiana, dal lavoro ai rapporti sociali, fino, ovviamente, a compromettere la sessualità. Bisogna ipotizzare una cistite interstiziale nel momento in cui la sintomatologia prevalente sia un dolore a livello della regione sovrapubica e del basso addome, associata al riempimento della vescica, alla necessità di urinare con frequenza marcata e con urgenza. A ciò segue l’imperiosità di urinare anche immediatamente dopo aver urinato, nonostante si abbia da poco svuotato la vescica. La cistite interstiziale tipicamente non si associa a un’infezione urinaria e la diagnosi viene di solito confermata con una cistoscopia. Anche in questo caso esistono delle strategie terapeutiche: quella farmacologica (che comprende anche terapie a base di glicosaminoglicani utilizzati per ripristinare e rafforzare il tessuto mucoso della vescica) e quella endoscopica, con una procedura chiamata idrodistensione della vescica, che oltre ad avere scopo diagnostico può agire sulle terminazioni nervose responsabili dei dolori».
Quali sono le cause e i fattori di rischio delle cistiti batteriche?
«Il primo motivo è di carattere anatomico: nelle donne l’uretra, cioè il canale che porta alla vescica, è più corta rispetto agli uomini e più facilmente transitabile da parte degli agenti microbici — conclude Salonia —. L’anatomia femminile nella zona genitale rende peraltro le vie urinarie e l’ultimo tratto dell’intestino molto vicini tra loro, certamente più che negli uomini, rendendo più facile il compito ai batteri che possono arrivare con facilità alla vescica. I fattori scatenanti, poi, sono vari. Per esempio, i rapporti sessuali penetrativi, a seguito dei quali i batteri possono più facilmente entrare nelle vie urinarie. Oppure la stipsi e la sindrome del colon irritabile, quando gli stessi batteri si moltiplicano e possono diffondersi dal distretto intestinale a quello delle vie urinarie. O ancora la menopausa, perché la carenza di estrogeni altera il pH della mucosa vaginale, impoverendola, e favorisce le infezioni. Infine, un’igiene intima scorretta: oggi c’è una tendenza a esagerare con saponi troppo aggressivi, che indeboliscono le difese e rendono più probabili le infezioni vaginali».
Cisti ovariche, cause e cure: quando serve intervenire e quali sono i sintomi da tenere d’occhio. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2023.
Esistono diversi tipi di cisti che possono interessare una o entrambe le ovaie, in qualsiasi periodo di vita di una donna (da pochi mesi dopo la nascita in poi) e con dimensioni variabili, da pochi millimetri fino a svariate decine di centimetri. Sono molto frequenti, prevalentemente benigne e, di solito, non causano disturbi. La maggior parte regredisce spontaneamente, ma a volte può servire l’intervento chirurgico. Ecco quel che serve sapere
Cosa sono?
Le cisti ovariche sono delle sacche ripiene di materiale liquido o solido o misto, che si formano internamente o esternamente alle ovaie. Nella maggior parte dei casi, sono piccole e innocue, mentre in altre occasioni possono essere grandi e dolorose o, ancor peggio, rappresentare il segno di un tumore maligno dell'ovaio. «Sono formazioni totalmente liquide (cosiddette cisti semplici) o con parti solide (cisti complesse) all’interno – spiega Domenica Lorusso, professore associato di Ostetricia e ginecologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e responsabile Programmazione ricerca clinica della Fondazione Policlinico Universitario Gemelli di Roma —. Appaiono più frequentemente nell'età dello sviluppo sessuale (pubertà) e in adolescenza, quando la produzione ormonale da parte delle ovaie è irregolare, specie nei primi anni dopo la comparsa delle mestruazioni».
Quali sono le cause?
Le cisti sono di varia natura: alcune sono definite funzionali e sono legate cioè a un inceppamento del meccanismo che produce il follicolo e poi lo fa scoppiare con l’ovulazione (cisti follicolari o luteiniche); altre sono legate a una proliferazione atipica dei tessuti embriogenici da cui il corpo umano si è formato (teratomi). Altre ancora sono legate a una malattia che si chiama endometriosi in cui il tessuto normalmente situato all’interno dell’utero (endometrio) durante la mestruazione ha un percorso retrogrado attraverso la tuba e si localizza nelle ovaie. Le cisti dermoidi si sviluppano a partire dalle cellule primordiali che producono le varie componenti del corpo umano durante la vita embrionale (per questo motivo, al loro interno è possibile rintracciare porzioni di tessuti umani come capelli, ossa, denti), possono assumere dimensioni importanti (raggiungere anche i 15 centimetri di diametro) e sono tumori benigni che assai di rado diventano maligni. Anche i cistoadenomi sono tumori benigni che possono contenere acqua (sierosi) o muco (mucinosi). Infine, esistono cisti solide o liquide con all’interno gettoni solidi che spesso sono sospette per malignità.
Chi rischia di più?
Quasi tutte le donne nell’arco della vita hanno delle cisti ovariche, nella maggior parte dei casi senza neppure saperlo. «Le cisti funzionali, endometriosiche e i teratomi sono più tipici delle donne in età fertile — spiega Lorusso —. In età adulta le cisti sono più rare e, soprattutto in post menopausa, quando le ovaie non producono più ormoni, la loro comparsa dev’essere sempre attentamente valutata perché può trattarsi di un tumore».
Quali sintomi?
Le cisti ovariche benigne generalmente non danno sintomi e spesso sono destinate a scomparire spontaneamente nell’arco di uno o due cicli mestruali. «In molti casi vengono scoperte per caso durante i controlli ginecologici — dice l’esperta —, ma soprattutto quando si ingrandiscono possono dare sintomi. I più frequenti sono irregolarità mestruali, perdite ematiche o dolore pelvico o necessità di urinare spesso, se la cisti preme costantemente sulla vescica. Se una donna avverte disturbi (in particolare dolore addominale o pelvico), è importante contattare subito il proprio medico curante o il ginecologo per accertamenti».
Quali esami fare per la diagnosi?
«L’ecografia, meglio se effettuata con sonda transvaginale, aiuta a distinguere le forme benigne quelle maligne, che in genere sono complesse, cioè hanno parti solide e sono vascolarizzate — chiarisce Lorusso —. Di solito nascono già benigne o maligne, ma alcune volte la cisti benigna può evolvere e rappresentare la lesione pre-cancerosa di un tumore maligno (quella endometriosica in rari casi può trasformarsi in tumore a cellule chiare o nel tumore endometrioide ovarico). In caso siano necessari approfondimenti il medico può richiedere una risonanza magnetica e specifici esami del sangue che verificano la presenza di specifici marker tumorali (CA125 o CA19,9) che, va sempre ricordato, sono indiziari ma non diagnostici e, se positivi non portano necessariamente alla diagnosi di tumore, perché possono essere positivi anche in tante patologie benigne, come per esempio l’endometriosi».
Quando preoccuparsi?
Forma (irregolare a meno), dimensioni (quelle più grandi possono dare sintomi dunque creare fastidio), la composizione (la cisti contiene materiale liquido o solido?) e la vascolarizzazione sono i parametri da valutare. Le cisti che meritano maggiore attenzione sono quelle complesse, cioè con componenti solide che spesso sono vascolarizzate, perché potrebbe trattarsi di tumore. In generale, comunque, ogni volta che sono accompagnate da sintomi meritano un’attenzione per accertare la causa del disturbo e risolverlo.
Come si curano?
«Le cisti funzionali spesso spariscono da sole nell’arco di uno o due cicli mestruali — conclude Lorusso —. Mentre le cisti endometriosiche, i teratomi e le cisti neoplastiche si asportano chirurgicamente. Si opta per l’intervento anche quando le dimensioni sono tali da creare disagi. In alcuni casi lo specialista può prescrivere un contraccettivo orale che può permettere il riassorbimento o la riduzione volumetrica della cisti funzionali, ne riduce il rischio della formazione di nuove e abbiamo dati che possa avere un ruolo protettivo e prevenire lo sviluppo di tumori ovarici».
L’Eclampsia.
Francesco Oliva, Lucia Portolano per repubblica.it il 27 dicembre 2022.
Una lettera per ringraziare i medici nonostante la morte della moglie nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale "Perrino" di Brindisi. E una telefonata arrivata da Papa Francesco. La vicenda è quella di Viviana, l'insegnate di 41 anni, originaria di Pezze di Greco (frazione di Fasano) morta giovedì 22 dicembre, subito dopo aver dato alla luce due gemelli: Edoardo Maria ed Emilia Maria. Purtroppo, nonostante tutti i tentativi di tenere in vita la donna, non c'è stato nulla da fare.
Viviana lascia un'altra figlia oltre ai due gemelli e al marito, Giacomo. Quest'ultimo, nonostante il dolore, ha reagito nel modo più bello scrivendo una lettera per ringraziare i medici "della loro professionalità, impegno e umanità dimostrati". "Viviana era una donna, una moglie, una mamma fuori dal comune - si legge nella lettera diffusa dall'Asl di Brindisi - e mi spiace che non abbiate avuto la possibilità di conoscerla".
"Amava la vita ma soprattutto amava la famiglia tanto da sacrificare la sua vita per darla a due fantastiche creature: Edoardo Maria ed Emilia Maria. In realtà tutte queste sue caratteristiche non moriranno mai. È vero, il normale schema della vita non dovrebbe essere questo. Non è giusto - prosegue la missiva - che due splendidi gemelli non avranno mai la possibilità di conoscere la loro mamma né che una bimba di sei anni (Emma Maria) non possa più abbracciare la sua stella. Ma dietro tutto questo dolore, dietro tutta questa ingiustizia c'è comunque un aspetto positivo".
"Aver conosciuto tutti voi, di cui non ricordo i nomi, ma che per cinque lunghi e speranzosi giorni siete stati gli angeli custodi di mia moglie, della mamma dei miei figli. Aver visto le lacrime nei vostri occhi mi ha fatto capire tutta la vostra umanità e quanto abbiate sudato, studiato per cercare di dare una speranza a Viviana. Purtroppo così come mi avete insegnato, in medicina due più due non fa mai quattro. Sento comunque il dovere di ringraziarvi da parte mia, di mia figlia (che spero possa fare il vostro lavoro) e di tutta la mia famiglia - conclude il marito della donna - per l'impegno, la professionalità e l'umanità che vi rendono dei veri e propri angeli custodi in carne e ossa. Con affetto, Giacomo".
Dopo la lettera l'uomo ha ricevuto anche una telefonata di Papa Francesco, come raccontato su Facebook da Don Donato Liuzzi che al Pontefice aveva indirizzato un messaggio dopo la morte di Viviana. "Ho sentito nel cuore l’ardire di bussare al cuore di Papa Francesco per raccontare di Viviana e dei gesti di vicinanza del nostro popolo ha scritto su Facebook - Questa mattina il Papa con umiltà disarmante mi ha indirizzato una lettera di vicinanza e nel tardo pomeriggio ha telefonato a Giacomo.Abbiamo sentito il cuore del Pastore attento e sensibilissimo. Ringraziamo il Signore per questa carezza sulla carne umana ferita che Egli viene a salvare. Ringraziamo la maternità della Chiesa, visibile negli umili gesti del Papa. È un Natale che non dimenticheremo mai!".
Sulla vicenda non è stata aperta alcuna inchiesta dall'Asl così come dalla Magistratura e i funerali si sono già celebrati. La donna era arrivata in ospedale circa una settimana prima accusando già malesseri importanti. Considerate le sue condizioni di salute, i medici avevano deciso di operarla d'urgenza facendo nascere i piccoli al settimo mese di gravidanza con un cesareo d'urgenza mettendo poi in atto tutte le procedure mediche per cercare di salvarla. Nonostante gli sforzi dei medici con interventi chirurgici e di terapia intensiva purtroppo la 41enne non ce l'ha fatta.
Cesare Bechis per corriere.it il 27 dicembre 2022.
Viviana Delego è morta la mattina del 22 dicembre all'ospedale di Brindisi. È morta dopo aver partorito due gemelli, un maschietto e una femminuccia. Viviana, insegnante di inglese 41enne di Pezze di Greco (Fasano), nel Brindisino, era arrivata in ospedale con un quadro clinico già compromesso.
Il parto prematuro, crisi convulsive, distacco della placenta e rottura delle membrane. I medici sono intervenuti d'urgenza con un taglio cesareo, ma una forte emorragia, non compensata neanche dalle venti sacche di sangue trasfuso, ha reso inutili tutti i tentativi di salvarle la vita. I gemellini, invece, stanno bene. Viviana ha lasciato anche un'altra bimba, di sei anni, e il marito, Giacomo Cofano, maitre di sala in un albergo di Fasano. Una tragedia che ha colpito una famiglia bella e perbene proprio a Natale. Eppure, nel dolore che non si può descrivere, proprio il giorno di Natale questa casa colpita dal lutto è stata illuminata da un raggio di luce. Don Donato Liuzzi, il parroco del paese, aveva voluto informare la segreteria del Papa dell'accaduto. E il 25 dicembre Francesco ha chiamato il vedovo.
A che ora è arrivata la telefonata di papa Francesco?
«Esattamente alle 19.20».
Le era stata preannunciata?
«Don Donato, a cui mi lega un rapporto di amicizia, mi aveva chiesto se ero solito rispondere a numeri sconosciuti. E mi aveva invitato a farlo. Potrebbe arrivarne una dal Vaticano, mi aveva detto...».
Alle 19.20 squilla il telefono. E lei?
«Stavo rientrando dall'ospedale con Edoardo Maria, il gemellino appena nato, ho risposto e ho sentito: pronto, sono papa Francesco. Mi sono emozionato moltissimo e abbiamo cominciato a parlare. Siamo stati al telefono qualche minuto».
Cosa le ha detto?
«Parole di conforto. Ha compreso la tragedia di una mamma che ha dato la vita per i figli e il dolore che ha colpito la mia famiglia. L'emozione era fortissima, non ricordo le parole precise, sono rimasto stupito dal fatto che abbia pensato a me e trovato alcuni minuti per chiamarmi e rincuorarmi. Giuro, mi sembrava di parlare con una persona cara, con un amico. È stato quasi come una confessione. Ha chiuso dicendomi di essere a disposizione per qualsiasi cosa. Sembra assurdo dirlo con quello che ci è successo, ma è stato un bel Natale. Gli ha dato un senso. Fra l'altro c'è una coincidenza: i gemellini sono nati il 17 dicembre, lo stesso giorno del Papa».
Lei come sta?
«Un'altalena di emozioni, ma bisogna andare avanti. Ho tre figli, la più grande, Emma Maria, ha sei anni, fa la prima elementare, è stata lei a scegliere i nomi dei fratellini».
Ha già saputo della mamma?
«Sì, le ho parlato io, non poteva farlo nessun altro. Mi sono confrontato con alcuni esperti che mi hanno suggerito il modo di comunicarglielo. Ora sa che la sua mamma è diventata un angelo».
Ora che farà? Tornerà al suo lavoro?
«No, cambierò vita. Con tre figli così piccoli non posso continuare a fare il maitre, è un lavoro che non agevola la gestione di una famiglia. Voglio essere sempre presente con i miei figli. Appena passato questo periodo mi darò da fare, come sempre. Resterò qui, la mia vita è dove sono nato e cresciuto. Se si vuole, si può fare tutto».
Lei ha voluto ringraziare i medici del reparto dov' è morta sua moglie. Perché?
«Ho scritto la lettera la stessa notte. Ho voluto ringraziare il personale per aver tentato tutto il possibile per salvare Viviana. So che lo hanno fatto davvero».
Eclampsia: che cos’è, quali sono i sintomi e quali rischi corre la donna in gravidanza. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2022
Si tratta di una grave sindrome che rientra tra i problemi ipertensivi in gravidanza (pre-eclampsia o gestosi) possono essere molto pericolosi sia per la mamma, sia per il feto, come accaduto nel caso di Vivana Delego
Che cos’è l’eclampsia gravidica
Tra le complicanze legate alla gravidanza e potenzialmente pericolosa sia per la salute della mamma che del suo bambino , l’eclampsia è la più temibile e molto pericolosa, come accaduto nel caso di Viviana Delego, morta durante il parto: si manifesta con contrazioni generalizzate e si associa a coma e a possibili lesioni degli organi interni. Può comportare anche il distacco della placenta. Si può manifestare nell’ultimo trimestre di gravidanza (nel 50% dei casi), o nel travaglio di parto (nel 30% dei casi) o nell’immediato puerperio (nel 20% dei casi), caratterizzata dalla comparsa di crisi convulsive generalizzate, simili a quelle dell’epilessia, accompagnate da spasmi generalizzati la crisi ha una durata che può variare da 30 a 60 secondi, e lascia la donna in un profondo coma.
Le cause dell’eclampsia
In realtà non si ancora arrivati a scoprire quali siano, in modo definitivo. Sono state avanzate molte ipotesi per spiegarne la comparsa. È certo che alla base stanno gravi alterazioni metaboliche, endocrine e neurovegetative, che modificano profondamente l’equilibrio biologico che regola i rapporti tra madre e feto.Esistono, senza dubbio, numerosi fattori predisponenti. Infatti si osserva, con maggiore frequenza, presso quelle popolazioni e in quelle donne che si sottopongono a diete non bilanciate, con eccessi di proteine, idrati di carbonio e grassi. Inoltre, nelle gestanti che si sottopongono a periodici controlli medici e che rispettano le norme dietetiche consigliate per la gravidanza, l’incidenza dell’eclampsia è praticamente nulla.
Anche una certa «predisposizione» individuale ha una notevole importanza: si è visto, infatti, che nel 60% delle donne eclamptiche si possono scoprire precedenti manifestazioni di tipo convulsivo, e che spesso si possono rilevare alterazioni dell’elettroencefalogramma. Attualmente le teorie più accreditate sono quelle che attribuiscono grande importanza a fattori come: l’associazione di una cattiva irrorazione uterina, dovuta ad eccessiva distensione dell’utero come avviene nelle primipare, con la presenza in circolo di tossine prodotte da zone infartuate placentari e l’accumulo di prodotti metabolici fetali o epatici materni.
Tutte queste cause concorrono tra loro a scatenare la malattia attraverso un meccanismo non ben precisato, ma che probabilmente trova la sua essenza in un fenomeno di autointossicazione, che una volta scatenatosi tende sempre più ad aggravarsi per l’incapacità da parte degli organi destinati all’eliminazione di queste tossine ad assolvere il loro compito.
I sintomi dell’eclampsia
L’eclampsia è preceduta da alcuni segni caratteristici, tra cui vomito, dolore addominale a sbarra, disturbi visivi, cefalea, ecc. In presenza di questi segnali spia, il ginecologo dovrà indurre il parto per prevenire l’attacco eclamptico. Quando questo avviene in epoca di prematurità, cioé tra la 22esima e la 37esima settimana di gestazione, le complicanze materno-fetali possono essere drammatiche, fino alla morte di madre e bimbo.
La pre-eclampsia
Molto spesso la comparsa dell’eclampsia vera e propria è preceduta da un insieme di sintomi indicato con il nome di pre-eclampsia (un tempo conosciuta come gestosi): persistente mal di testa, prevalentemente localizzato alla fronte, disturbi della vista (punti o macchie davanti agli occhi ecc.), dolore alla regione epigastrica, vomito. Si osservano, inoltre, notevole quantità d’albumina nelle urine, ipertensione arteriosa, grave diminuzione della quantità di urina emessa. Particolari alterazioni si possono rilevare mediante l’esame del fondo dell’occhio.
I fattori di rischio
I principali fattori di rischio, sono quelli legati allo sviluppo di disturbi ipertensivi.
La prevenzione
È molto importante prevenire l’insorgenza sorvegliando attentamente l’evoluzione della gravidanza, con controlli periodici del peso, delle urine e della pressione arteriosa, se necessario si può ricorrere al ricovero ospedaliero per il controllo della patologia. Per ridurre la comparsa di disordini ipertensivi in gravidanza in donne a rischio, si può intervenire sia farmacologicamente, sia a monte con lo stile di vita.
La terapia
La terapia della crisi richiede la somministrazione di sedativi, diuretici, vitamine, ossigeno. Se non si riesce a prevenire il peggioramento della sintomatologia per evitare l’insorgenza di eclampsia. si può eventualmente affrettare la conclusione della gravidanza mediante l’induzione del parto o il taglio cesareo.
La sindrome del bambino scosso.
Da ansa.it il 28 dicembre 2022.
Neonati scossi dai genitori per interromperne il pianto al punto da farli finire all'ospedale, dove, in uno dei due casi registrati di recente al Policlinico di Modena, la vittima, sui cinque mesi, ha riportato danni celebrali.
Viene definita 'shaken baby syndrome', la sindrome del bambino scosso, e nella città emiliana ha portato all'apertura di due fascicoli da parte della magistratura, che ora indaga per maltrattamenti, e il conseguente allontanamento dalle rispettive famiglie dei minori coinvolti e vittime di quanto sarebbe avvenuto fra le mura di casa.
Fatti recenti, dell'autunno appena concluso, quelli che al Policlinico modenese vengono ricordati ripercorrendo le attività svolte all'interno del reparto di Pediatria. La pericolosità di un'azione che può provocare danni permanenti sul bambino, come appunto successo nel Modenese, la riassume Lorenzo Lughetti, il professore che il reparto di Pediatria del Policlinico modenese lo dirige: "Il lattante - dice Lughetti a proposito dei due casi registrati a distanza di pochi mesi l'uno dall'altro e che hanno comportato ricoveri durati diverse settimane - ha l'incapacità di controllare il capo e questi movimenti ripetuti possono essere paragonati a quando noi veniamo tamponati in auto.
Per il neonato - continua il direttore di Pediatria - sono come decine di tamponamenti che il bambino subisce. Si 'strappano' delle vene - entra più nel dettaglio Lughetti - a livello cerebrale e vi è un sanguinamento. Il bambino cessa sì di piangere, ma in realtà lo fa perché è andato in coma".
Si tratta di episodi non isolati, fa notare sempre Lughetti: "Comportamento a cui i genitori, soprattutto i nuovi genitori, devono stare attenti, episodi del genere non sono così rari. Non si scuote mai un bambino".
Dalla Pediatria del Policlinico modenese sottolineano anche come spesso di fronte al fatto compiuto i genitori respingano l'accusa di aver scosso il proprio figlio, ma che in realtà la 'shaken baby syndrome' lascia segni inequivocabili nei neonati che subiscono lo scuotimento, in modo particolare in casi come quelli avvenuti a Modena. Negli episodi più gravi di questo tipo possono anche portare a conseguenze estreme, come la morte del neonato.
Sindrome «del bambino scosso», effetti gravissimi: dalle lesioni permanenti al coma alla morte. Storia di Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 28 dicembre 2022.
La sindrome del bambino scosso (shaken baby syndrome, chiamata anche abusive head trauma, ovvero trauma cranico conseguente a un abuso) può portare alla morte i bambini piccolissimi, sotto l’anno di età. Come suggerisce il nome, è conseguenza di un violento scuotimento del bambino (magari con l’obiettivo di calmare il pianto) o del fatto che venga lanciato contro una superficie, non necessariamente dura (per esempio il suo lettino). Può sembra assurdo, ma queste cose succedono, come dimostrano le indagini avviate su due episodi nel Modenese.
Come si riconosce
I segni e i sintomi della sindrome possono essere estrema agitazione o irritabilità del piccolo, difficoltà a rimanere sveglio, problemi di respirazione, scarsa alimentazione, vomito, pelle pallida o bluastra, crisi epilettiche, paralisi, coma. Sebbene a volte siano presenti lividi sul viso, è possibile che non si notino segni di lesioni fisiche all’esterno del corpo del bambino. Possono però essere presenti emorragie cerebrali e oculari, danni al midollo spinale e fratture di costole, cranio, gambe o altre ossa. Molti bambini affetti dalla sindrome del bambino scosso presentano segni di precedenti abusi. Le conseguenze dello scuotimento possono essere gravi danni neurologici, fino al coma e alla morte. Solo nel 1972 il radiologo pediatra americano John Caffey ha dato un nome alla malattia (che aveva già descritto nel 1946): fino ad allora alcuni bambini piccolissimi morivano e non si sapeva perché.
I danni neurologici
Come detto, spesso gli effetti dello scuotimento violento non si vedono a occhio nudo: in Pronto soccorso, per valutarne la portata, è necessario eseguire una Tac o una risonanza magnetica. Anche se non si arriva al coma o alla morte, i danni neurologici possono essere molto seri e permanenti (cecità parziale o totale, ritardi nello sviluppo, problemi di apprendimento o di comportamento, disabilità intellettiva, disturbi convulsivi, paralisi cerebrale) e comportare una lunga riabilitazione che però molto raramente fa tornare la situazione alla normalità. Nei casi lievi di sindrome del bambino scosso il piccolo appare magari normale, ma nel tempo può sviluppare problemi di salute o comportamentali. È importante dunque non sottovalutare i primi segni, campanello d’allarme per una corretta diagnosi.
Il 25-30% dei piccoli muore
Il problema, sottolineano i pediatri, è che alcuni genitori, nonni e babysitter non hanno la consapevolezza di quanto possa essere rischioso cercare di calmare in questo modo un neonato. È comprensibile la frustrazione di chi ha a che fare con un piccolo che piange di continuo, ma è fondamentale mantenere la lucidità: pensare che si ha tra le mani una persona ancora fragile, con organi in formazione. Dietro il pianto disperato di un bambino piccolo c’è un motivo, quasi sempre fisico (dolore, fame, sete, sonno, caldo, freddo, pannolino sporco o semplicemente il bisogno di un contatto fisico per essere rassicurato). Piangere è l’unico strumento che il neonato ha per comunicare che qualcosa non va. E comunque nulla giustifica uno scuotimento. Secondo uno condotto in Scozia, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Svizzera, l’incidenza della shaken baby syndrome sarebbe di 14-38 casi ogni 100mila bambini. Il 25-30% dei piccoli muore e solo il 15% sopravvive senza conseguenze drammatiche. In Italia non esistono dati certi sul fenomeno, si ritiene che l’incidenza possa essere di 3 casi ogni 10mila bambini sotto l’anno, ma il dato ufficiale potrebbe rappresentare solo la punta di un iceberg sommerso.
Condizioni socioeconomiche
È molto difficile dire quanto violento o protratto debba essere lo scuotimento per causare danni irreparabili. Da alcune dichiarazioni dei responsabili (più spesso maschi), si deduce che di solito il bambino viene afferrato a livello del torace o delle braccia e scosso energicamente circa 3-4 volte al secondo per 4-20 secondi. Le vittime sono in genere bambini tra i 4 e i 6 mesi, non solo perché necessitano di cure costanti che possono esasperare genitori fragili, ma anche perché la loro testa è molto pesante rispetto al resto del corpo e i muscoli del collo non sono ancora in grado di sostenerla adeguatamente. Fattori di rischio che possono aumentare le probabilità di sindrome del bambino scosso sono, secondo le statistiche: famiglia monogenitoriale, età materna inferiore ai 18 anni, basso livello di istruzione della madre, uso di alcol o sostanze stupefacenti, disoccupazione, episodi di violenza da parte del partner o comunque in ambito familiare, disagio sociale. In generale, condizioni socioeconomiche difficili comportano un rischio maggiore di violenza, a volte anche inconsapevole, da parte dei genitori.
Cefalea ed Emicrania.
Cefalea ed emicrania: le principali differenze e come riconoscerle. Il mal di testa a volte è una spia del proprio stile di vita ed è generalmente temporaneo. Tuttavia, per un certo numero di persone è una sofferenza che cronicizza nel tempo ed è in questo caso che si parla di emicrania. Francesca Bocchi il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Mal di testa
Mal di testa da tensione
I sintomi
I trattamenti
Emicrania
I sintomi
Le cause
I trattamenti
Poco più della metà della popolazione mondiale soffre di mal di testa almeno una volta all'anno, secondo uno studio pubblicato su The Journal of Headache and Pain. Spesso benigni, i mal di testa a volte possono essere indicativi di una malattia più grave. È quindi importante non confondere mal di testa ed emicrania, che compaiono per crisi. Se nella maggior parte dei casi le cefalee non sono gravi, sono comunque fastidiose, a volte anche invalidanti. Quindi facciamo luce sui due tipi più comuni: mal di testa da tensione ed emicrania.
Mal di testa
La cefalea tensiva è la cefalea “ordinaria”, quella che si associa a fattori psicosomatici, come stress, ansia, stanchezza ma può anche essere causato da una malattia o da un farmaco.
Chiunque può soffrire di mal di testa ma le donne sono più spesso colpite rispetto agli uomini.
Esistono diversi tipi di mal di testa: le due delle forme più comuni sono cefalea tensiva ed emicrania.
Mal di testa da tensione
Questo tipologia può essere occasionale o cronica. L'intensità dei sintomi è da bassa a media e si avverte una pressione (o una sensazione di oppressione) sulla fronte e sulle tempie, a volte accompagnata da dolore al collo. Questo tipo di mal di testa non provoca nausea o vomito.
I sintomi
La cefalea provoca dolore da lieve a moderato e può verificarsi a qualsiasi età. La persona poi dice di sentire una pressione costante, simile a quella di una morsa, su ciascun lato della testa. Può anche sentire tensione agli occhi, alle tempie, al collo e alla nuca.
Di solito, il dolore si manifesta gradualmente e può persistere ininterrottamente per ore o addirittura giorni. Ovviamente, se si soffre di mal di testa che si protrae per diversi giorni, è meglio consultare il proprio medico.
I trattamenti
Il rilassamento è un modo efficace per combattere il mal di testa da tensione. Il riposo dovrebbe, quindi, essere il trattamento di scelta. Tuttavia, se ciò non bastasse, le strategie terapeutiche possibili possono essere un antidolorifico, come ibuprofene, paracetamolo o acido acetilsalicilico (chiamato anche ASA o aspirina), per alleviare il dolore.
Emicrania
L'emicrania è una malattia comune che colpisce il 18% delle donne e il 7% degli uomini. Si dice che sia causato dalla dilatazione e dall'infiammazione dei vasi sanguigni che circondano il cervello. Tuttavia, l'origine precisa di questo tipo di mal di testa è ancora sconosciuta, nonostante numerosi studi scientifici sull'argomento.
I sintomi
I sintomi dell'emicrania di solito si manifestano gradualmente. Un episodio può durare da quattro ore a pochi giorni. Le emicranie sono ricorrenti, cioè si verificano ripetutamente. Alcune persone hanno poche crisi all'anno, altre ne hanno diverse ogni settimana. L'emicrania provoca, a livello della scatola cranica, un dolore lancinante o una fitta la cui intensità può variare da moderata a intensa. La sensazione di solito si verifica su un lato della testa, spesso vicino a un occhio, e può rimanere localizzata o diffondersi in tutta la testa.
Questo mal di testa è spesso accompagnato da nausea e vomito. Durante un attacco, la maggior parte dei malati di emicrania diventa molto sensibile alla luce, al rumore e all'olfatto.
L'emicrania è talvolta preceduta da segni particolari, come un'aura visiva (fulmini, distorsione, punti ciechi, ecc.) o fisica (intorpidimento, formicolio, ecc.), una sensazione di debolezza o difficoltà a parlare. I malati di emicrania sono incoraggiati a identificare questi indizi, in quanto possono utilizzarli per prevedere l'arrivo del prossimo attacco e agire rapidamente, prima che l'emicrania si manifesti.
Le cause
Diversi fattori possono scatenare un'emicrania: stress, vari alimenti, come caffè, cioccolato o vino, ormoni nelle donne e persino cambiamenti nella pressione atmosferica. Questi fattori variano notevolmente da persona a persona e da attacco ad attacco. Sono quindi difficili, se non impossibili, da evitare.
Piuttosto che concentrare le proprie energie sull'evitare i fattori scatenanti, si consiglia a chi soffre di emicrania di concentrarsi sul miglioramento delle proprie abitudini di vita, come ridurre l'assunzione di caffeina e dormire un numero di ore adeguate. La meditazione o le tecniche di respirazione e lo yoga possono avere un impatto molto benefico sulla qualità del sonno e sulla gestione dello stress.
Per quanto riguarda il cibo, ci sono alimenti che possono scatenare un attacco di emicrania:
alcol, in particolare vino rosso e birra;
caffè e bibite;
formaggi stagionati;
aspartame, solfiti e glutammato monosodico;
cioccolato;
carni cotte;
alimenti fermentati o in salamoia.
Meglio mangiare sano e, soprattutto, non saltare i pasti.
I trattamenti
Il trattamento dell'emicrania mira a "rompere" la crisi per consentire alla persona di riprendere le proprie attività. Infatti, senza trattamento, l'attacco di emicrania generalmente costringe la persona a interrompere ogni attività professionale o familiare. Fortunatamente, esistono trattamenti molto efficaci che possono ridurre significativamente i sintomi.
Per massimizzare le possibilità di successo del trattamento è importante assumere un antidolorifico ai primi segni di un attacco. Se si aspetta troppo a lungo, la nausea o il vomito possono rendere difficile o impossibile assumere farmaci. Inoltre, è meno probabile che l'attacco risponda bene al trattamento farmacologico.
Quando l'intensità dell'attacco è moderata, l'uso di farmaci da banco (ad esempio l'ibuprofene) può essere sufficiente mentre per gli attacchi più gravi è solitamente più efficace una prescrizione di farmaci (ad esempio i triptani)
Quando gli attacchi sono molto frequenti, a volte è possibile prendere in considerazione l'assunzione di un trattamento preventivo. Questo trattamento mira a ridurre il numero di attacchi e la loro intensità e dovrebbe essere preso ogni giorno, su base regolare. Solo il medico può prescrivere un trattamento preventivo.
L’Insonnia.
Insonnia: da cosa dipende? Perché gli anziani ne soffrono di più? E che differenza c'è tra «allodole» e «gufi»? Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2023.
Un approfondimento dopo la lettera in cui Benedetto XVI ha rivelato che il disturbo è stato la causa delle sue dimissioni. Il rischio maggiore per chi è avanti con l'età sono le cadute, i cibi da evitare e le terapie più efficaci
Che cos’è l’insonnia?
È un sonno di scarsa qualità, di breve durata e caratterizzato da difficoltà addormentamento, o da continui risvegli che lo rendono frammentato, o anche da un risveglio anticipato mattutino. Ma oltre a questi sintomi deve esserci una ripercussione diurna in termini di stanchezza, sonnolenza, irritabilità.
L’insonnia dipende dalle ore di sonno?
No, è un mix tra qualità e quantità delle ore di sonno. La durata cambia da persona a persona, mediamente è di 7 ore e mezzo a volte 5. Il fabbisogno individuale è variabile e si modifica con l’età. C’è chi si addormenta e si sveglia presto, prima dell’alba, e allora è allodola. È chi si addormenta e sveglia più tardi, gufo.
Gli anziani ne soffrono di più?
Si, negli anziani l’insonnia peggiora, o compare per la prima volta nella vita, perché la produzione di melatonina, l’ormone che regola il ritmo sonno-veglia, diminuisce in modo fisiologico. Inoltre mutano le abitudini di vita. Con l’avanzare dell’età si tende a riposare durante il giorno e ad avere minor desiderio di andare a dormire la sera. Si tende poi ad uscire poco di casa e la mancanza di ore di luce interferisce nel normale ciclo sonno/veglia. Infine alcune patologie degenerative interferiscono col sonno.
Insonni si nasce?
In parte sì, per fattori genetici che predispongono all’insonnia e anche per familiarità. Può essere attivata da un episodio particolare della vita, negativo o positivo, origine di stress. Può perdurare e diventare cronica.
Chi non ha avuto problemi da giovane, in vecchiaia può sviluppare l’insonnia?
Sì e non deve sottovalutare perché il disturbo tende a cronicizzare. A volte basta fare attenzione agli stili di vita. Passeggiare alla luce del giorno, bere acqua soprattutto al mattino per reintegrare i liquidi perduti durante la notte, fare pasti regolari rispettando possibilmente gli stessi orari. Evitare il consumo di caffè, cioccolato e fumo la sera.
I farmaci sono utili?
Sì, ma devono essere prescritti dal medico e sarà lui a indicare l’eventuale aumento della posologia. Mai commettere l’errore di sospenderli da un giorno all’altro o di aumentare la dose autonomamente. La maggior parte dei farmaci agiscono su uno stesso recettore, il neurotrasmettitoregaba, e per questo si chiamano gabaercici. Esercitando un’azione sedativa sul sistema nervoso, accompagnano verso il sonno e inducono l’addormentamento.
È rischioso interrompere l’uso di farmaci?
È stato dimostrato che le terapie cognitivo/comportamentali non sono inferiori ai farmaci in termini di efficacia. Arriva il momento in cui, dopo un uso prolungato, bisogna disintossicarsi per evitare effetti collaterali da accumulo che si manifestano con stanchezza, fatica, senso di irritabilità, rilassamento dei muscoli. Per gli anziani il rischio sono le cadute, dovute proprio all’indebolimento generale. Una storia di insonnia è compatibile con quanto racconta Papa Benedetto XVI nella sua lettera.
Quando subentra l’assuefazioni da farmaci?
Di solito dopo alcuni mesi. La dissuefazione va fatta gradualmente, cercando di individuare la dose minima efficace.
(Hanno risposto alle domande del Corriere, Giuseppe Plazzi, direttore centro del sonno Istituto delle scienze neurologiche di Bologna, e Pierluigi Innocenti, presidente associazione SonnoRem)
CFS/ME (Sindrome da Stanchezza Cronica).
Fatica cronica, la patologia invalidante invisibile. Ricorre il 12 maggio la "Giornata internazione del malato di CFS/ME", la Sindrome da Fatica Cronica, una patologia invalidante e invisibile che cambia radicalmente la vita dei pazienti. Roberta Damiata su Il Giornale l'11 Maggio 2023
Se ne parla poco ed è difficile da diagnosticare, per questo spesso viene definita "invisibile", in realtà per tutti i pazienti che soffrono, di CFS/ME (Sindrome da Stanchezza Cronica), la vita cambia letteralmente. Si tratta di una patologia grave ed invalidante, che presenta una sintomatologia evidenziata da fatica estrema non giustificata dalle attività svolte, accompagnata da mal di testa, dolori ai linfonodi, problemi di memoria e concentrazione, difficoltà a reperire la parola giusta, mal di gola, febbricola e alterazioni della termoregolazione oltre a dolori muscolo scheletrici.
Le azioni concrete
Per aiutare a conoscere questa patologia, spiegarne le cause e le possibili soluzioni, ricorre il 12 maggio la Giornata Internazionale del Malato di CFS/ME. In questo ambito l’Associazione Malati di CFS (AMCFS), da sempre in prima linea sul fronte divulgazione scientifica e supporto per i malati e loro familiari, intende accendere i riflettori sulla patologia, in particolare su due aspetti fondamentali: ricerca e informazione scientifica e l’importanza della visita medica e del relativo esame obiettivo.
Per questo motivo sono stati sponsorizzati due convegni EMC: uno a settembre a Palermo e uno ad ottobre a Venezia, il primo sul dibattito relativo alle cause e meccanismi del fenomeno del mimetismo molecolare che potrebbe spiegare varie patologie come la CFS/ME e il LONG COVID organizzato da AMCFS che vedrà come relatori i membri del Comitato Scientifico dell’associazione, insieme ad esperti locali e stranieri. Il secondo, patrocinato da AMCFS, su occuperà dell’importanza dell’esame obiettivo, nello specifico di quello neurologico.
Cosa comporta la patologia
Si tratta di una malattia che oltre all'enorme disagio fisico, crea un forte impatto negativo sulla socialità dei pazienti, che riducono al minimo il proprio stile di vita, dosando le proprie energie, fino ad arrivare al grave livello di allettamento e la totale mancanza di autonomia. Da qui si può comprendere non solo lo stato del paziente ma anche della famiglia che ne viene coinvolta.
Colpisce maggiormente le donne, per questo viene considerata una malattia di genere, che impatta nel periodo di vita produttivo, ma può colpire anche in età pediatrica e adolescenziale rendendo impossibile il corso di studi anche primario, con le conseguenze sia di apprendimento sia di socialità. La gravità della patologia e le sue molteplici ripercussioni, dopo decenni di invisibilità anche rispetto alle altre patologie rare, hanno goduto di discreta visibilità con l’avvento del Covid soprattutto con il Long Covid ritenuto sovrapponibile alla CFS/ME.
Entrambi le condizioni infatti sono aggravate da infezioni virali e presentano simile sintomatologia. Questa giornata internazionale quindi, assume una grande importanza, per attirare l'attenzione su questo tipo di malattia invalidante, che si scontra con la grave difficoltà di essere riconosciuta, e soprattutto compresa, anche in ambito medico. I pazienti spesso, pur patendo una grande sofferenza, non vengono compresi e fatti sentire "sbagliati e fuori luogo", sia in in ambito familiare, sociale, lavorativo e scolastico e, come detto, quando non riconosciuta, soprattutto in ambito medico.
Fibromialgia.
Fibromialgia, che cos’è e come riconoscerla. In occasione della Giornata mondiale della fibromialgia che si celebra il 12 maggio, scopriamo insieme come si manifesta questa malattia non ancora riconosciuta ma che colpisce 3 milioni di italiani, soprattutto donne. Mariangela Cutrone il 12 Maggio 2023 su Il Giornale.
La fibromialgia è nota come sindrome del dolore miofasciale.
È una malattia cronica che procura dolore acuto diffuso in diverse parti del corpo accompagnato da astenia e rigidità muscolare. È una sindrome diffusa maggiormente tra le donne. Può comparire nel corso della propria esistenza a qualsiasi età. Ad essa il 12 maggio è dedicata una giornata in tutta Italia. Nel corso di questa giornata sono state organizzate diverse attività, incontri e conferenze miranti a sensibilizzare l’opinione pubblica su questa malattia che purtroppo non è stata riconosciuta tra le malattie invalidanti e che colpisce circa 3 milioni di Italiani.
È una malattia che influenza molto lo stile di vita di chi ne è affetto e che risente tanto delle sue condizioni psicologiche. Non ha carattere congenito e risulta davvero difficile da diagnosticare. Si manifesta maggiormente nell’età compresa tra i 25 ed i 55 anni ed è considerata la seconda malattia reumatica più diffusa, dopo l’artrosi.
Come riconoscere la fibromialgia
Non è facile riconoscere i primi sintomi di questa malattia. Si manifesta soprattutto dopo un evento traumatico di tipo psichico o fisico ma non è una malattia psicosomatica. Si scatena attraverso una percezione diffusa di dolore che si propaga ai muscoli, ai tendini e alla cute. Le aree del corpo maggiormente coinvolte sono le spalle, la zona lombare, il collo e la nuca.
Il dolore percepito aumenta di intensità gradualmente ed è accompagnato da una stanchezza generale sia di tipo fisico che psicologico, sin dal risveglio. A volte questi sintomi sono accompagnati da insonnia, stati di ansia e disturbi gastrointestinali. Le cause di questa sindrome non sono ancora note. Al momento la comunità scientifica collega la comparsa dei primi sintomi ad alterazioni a livello dei neurotrasmettitori, squilibri ormonali e a stati di stress generalizzato e frequente.
Come si cura la fibromialgia
Per i pazienti affetti da fibromialgia non esiste una terapia specifica da seguire o misure preventive. È una malattia che richiede inevitabilmente un approccio multidisciplinare mirante a ridurre la percezione del dolore acuto e difficile da sopportare nel condurre uno stile di vita qualitativo. Solitamente il trattamento farmacologico viene associato ad un vero e proprio percorso educativo del paziente. Grazie a questa combinazione il paziente è in grado di acquisire maggiore consapevolezza della propria malattia ed impara a gestire al meglio la propria routine.
Gli specialisti consigliano ai pazienti di dedicarsi all’esercizio fisico che consente una migliore gestione del dolore grazie al rilascio di endorfine. Le attività sportive ideali sono il nuoto, l’aquagym, la camminata veloce, la bicicletta, lo yoga e il tai-chi. Un trattamento molto utile è quello dell’agopuntura che risulta efficace nel miglioramento del dolore, dell’astenia e del sonno. Questo tipo di terapia è in grado di far rilasciare all’organismo dei neurotrasmettitori che svolgono una preziosa azione sedativa oltre a migliorare l’umore.
L’Astenia.
Elena Meli corriere.it il 2 gennaio 2023.
Altro che crisi del gas e bollette alle stelle, la vera emergenza è la «crisi di energia umana». La stanchezza è il male dei tempi moderni e sentirsi con le batterie scariche perfino prima di iniziare la giornata non è affatto raro: nella popolazione generale, senza cioè tener conto di chi soffre di malattie croniche o ha motivi specifici e già ben noti per essere esausto, uno su cinque ammette di essere privo di energie al punto da vedere compromesse le consuete attività quotidiane.
Lo ha dimostrato di recente un’indagine dell’Università svizzera di Losanna, che analizzando circa tremila persone dai 45 anni in su ha tracciato l’identikit dell’affaticato cronico: una persona di mezza età, più spesso una donna, con qualche chilo di troppo e un livello socioeconomico mediamente basso, che non è soddisfatta della propria salute in generale e non di rado ha anche qualche problema medico di cui l’affaticamento è stata una prima spia, dall’insonnia all’anemia, dalla depressione a bassi livelli di ormoni tiroidei.
Perché la stanchezza è un sintomo vago e frequente che spesso può dipendere da mancanza di sonno o da motivi evidenti come uno sforzo fisico eccessivo o un’influenza, ma che non deve essere banalizzato proprio perché può essere un indizio di disturbi fisici e/o psicologici a cui fare attenzione.
«L’astenia (il termine medico per stanchezza, ndr) che richiede un approfondimento è innanzitutto quella che compare più o meno all’improvviso in chi non ha mai avuto difficoltà a portare a termine le incombenze della giornata: se ciò che di norma non richiedeva grosso sforzo diventa una fatica, è bene porsi qualche domanda — spiega Annamaria Colao, presidente della Società italiana di endocrinologia —. La stanchezza in questi casi può dipendere da disturbi su base organica e fra i più comuni c’è l’ipotiroidismo, ovvero la riduzione nella sintesi degli ormoni tiroidei: in genere, quando la “colpa” è della tiroide c’è anche sonnolenza».
L’ipotiroidismo, che in molti casi ha una componente autoimmune ovvero dipende da anticorpi diretti contro la tiroide, è assai comune e si stima riguardi il 5-6% della popolazione generale, con picchi di oltre il 10% nelle donne dopo i 60 anni perché con la menopausa la ghiandola funziona un po’ peggio; oltre a stanchezza e sonnolenza, sono tipici l’aumento di peso, le difficoltà di concentrazione, la pelle secca e capelli e unghie fragili».
I sintomi di contorno sono utili anche per identificare un’altra causa ormonale della stanchezza, cioè le alterazioni nella concentrazione di cortisolo, l’ormone dello stress. «Una carenza provoca stanchezza e calo di peso, correlato alla perdita muscolare: chi è stanco per deficit di cortisolo si ferma come fosse rimasto a secco di benzina, perché c’è un esaurimento funzionale del muscolo — osserva Colao —. Anche il cortisolo in eccesso affatica, ma in questo caso il peso aumenta: le gambe restano magre, pancia e viso sono più pieni».
«Possono non esserci differenze di peso, invece, nel caso della stanchezza dovuta a un diabete non ben compensato — prosegue l’esperta —. In questo caso il sintomo, associato alla sonnolenza, compare dopo i pasti perché lo squilibrio metabolico si manifesta con il cibo, che per colpa del diabete non viene gestito nel modo giusto». L’iperglicemia dopo mangiato rende stanchi e assonnati ma, dopo un paio d’ore, tutto passa. Non così con la sindrome da long-Covid in cui alcuni disturbi connessi all’infezione durano settimane e mesi dopo il tampone negativo: «L’astenia è uno dei sintomi più frequenti del long-Covid: può durare mesi e probabilmente dipende da una compromissione muscolare e tiroidea da parte del virus — dice l’endocrinologa —. Anche la mononucleosi, un’altra infezione virale, ha come strascico frequente la stanchezza (può restare anche per mesi dopo aver risolto mal di gola e ingrossamento dei linfonodi tipici della patologia, ndr). L’affaticamento inoltre accompagna anche le malattie croniche, perché tutte impoveriscono l’organismo di energie».
Inquadrare le condizioni generali di chi si lamenta di essere sempre stanco, quindi, è fondamentale perché capire quel che c’è dietro può significare risolvere alla radice la spossatezza; questo è ancora più vero quando la stanchezza è diretta conseguenza di patologie organiche come la celiachia, che comporta un malassorbimento di nutrienti e quindi un calo di energie, o l’anemia da mancanza di ferro, una delle cause più comuni di stanchezza nelle donne in menopausa, in gravidanza o durante il ciclo.
In queste condizioni le energie si possono recuperare nel primo caso con la dieta priva di glutine, nel secondo con un’adeguata integrazione di ferro; in entrambe le situazioni a guidare verso la diagnosi sono, di nuovo, i sintomi associati alla stanchezza ovvero la diarrea e la perdita di peso nella celiachia, la sensazione di pesantezza muscolare e sfinimento anche con piccoli sforzi fisici con l’anemia da carenza di ferro.
La quantità di condizioni che può provocare affaticamento però è tale da poter disorientare. Per questo, come consiglia Colao, «ancor prima di chiedere consiglio al medico di famiglia è bene far chiarezza con sé stessi e per esempio domandarsi da quanto si è sempre stanchi, se l’astenia è comparsa all’improvviso o la proviamo da settimane e mesi, se c’è stato qualche evento che può essere causa di un affaticamento su base psicologica, se abbiamo o abbiamo avuto una malattia che potrebbe giustificarla, quali sono gli altri sintomi.
Gli errori più comuni? Per esempio fare incetta di integratori, magari su suggerimento di qualcuno che dice di averne tratto vantaggio: per definizione integrano sostanze di cui si è carenti, così perché assumerli abbia un senso è indispensabile un’indicazione precisa da parte del medico, dopo specifici accertamenti. L’altra tentazione in cui molti “stanchi cronici” cadono è sottoporsi a batterie di test variegati ma inutili: la stanchezza è un sintomo molto generico che può dipendere da troppe condizioni fisiche e psicologiche, serve un inquadramento della situazione da parte del medico di famiglia per capire che cosa cercare eventualmente con gli esami».
Siamo tutti esausti, ma attenzione a non derubricare come stanchezza sintomi che sono in realtà qualcosa di differente: è il caso della debolezza muscolare, che si manifesta con una scarsa forza in braccia e gambe, peggiora con il movimento e può essere segno di problemi muscolari, ormonali o a carico del sistema nervoso centrale. Meglio non confondere con la semplice astenia, poi, il respiro affannoso che compare dopo piccoli sforzi o per una dose di esercizio che in passato non impensieriva: può essere segno di disturbi cardiopolmonari come insufficienza cardiaca o malattie polmonari come bronchite cronica o enfisema, si riconosce anche perché a riposo non ci si sente stanchi e non va sottovalutato, vista la gravità delle condizioni che lo provocano.
Fondamentale, inoltre, conoscere le «bandierine rosse» che possono accompagnarsi alla stanchezza ed essere indicative di problemi di salute di una certa severità: un calo di peso che non si spiega con una dieta dimagrante in corso, una febbre o febbriciattola che non passano, i linfonodi ingrossati, il mal di testa o i disturbi visivi concomitanti a un affaticamento cronico possono dipendere da patologie anche gravi come tumori, malattie infettive serie (per esempio un’epatite) o disturbi del sistema nervoso centrale, perciò vanno considerati campanelli d’allarme tali da consigliare subito un approfondimento medico.
Tanti sono stanchi semplicemente perché hanno qualche chilo di troppo: il sovrappeso stanca, ma non solo per colpa dello sforzo nel portarsi appresso il grasso in eccesso. Il tessuto adiposo produce leptina, un ormone che segnala al cervello che il corpo ha sufficienti energie ed è stato associato a un maggior senso di spossatezza: se l’organismo ha sufficienti risorse, del resto, non è necessario che vada in giro a cercarne altre, inoltre chi di tanto in tanto si astiene dal cibo riferisce di sentirsi poi più energico. Il sovrappeso inoltre aumenta la produzione di molecole infiammatorie e un’infiammazione lieve ma cronica è stata dimostrata capace di alterare l’attività dell’insula, una zona cerebrale deputata a «sentire» l’affaticamento corporeo.
La stanchezza è uno dei sintomi più spesso riferiti durante i consulti dal medico di famiglia: secondo una ricerca delle Università tedesche di Münster e Marburgo, nel 20 per cento delle visite è la prima o la seconda delle ragioni che hanno spinto dal medico. L’indagine ha anche valutato i motivi alla base dell’affaticamento che porta dal dottore, scoprendo che nella maggioranza dei casi si tratta di disturbi del sonno o depressione. Dormire poco o male inevitabilmente porta a vivere giornate in preda alla sonnolenza, sintomo chiave di cui tener conto per capire se qualcosa non va nel riposo; se almeno tre volte a settimana, per oltre tre mesi, ci si addormenta con difficoltà oppure ci si sveglia troppo presto o più volte durante la notte senza riuscire a riaddormentarsi, è verosimile che ci sia un disturbo del sonno da risolvere.
Guai però a tentare il fai da te con i sonniferi, che devono essere prescritti da un medico dopo un’adeguata valutazione: i farmaci da usare se il problema è l’addormentamento difficile o un risveglio troppo precoce sono differenti, per esempio, ma è essenziale il controllo medico soprattutto perché si tratta di medicinali con effetti collaterali, da usare a basse dosi per il tempo necessario perché possono dare assuefazione, ovvero rendere necessario aumentare il dosaggio per ottenere lo stesso effetto, ma anche dipendenza o perfino un’insonnia «di rimbalzo», se vengono interrotti senza gradualità.
In molti casi di stanchezza associata a sonnolenza però non c’è una riduzione significativa delle ore di sonno, bensì uno squilibrio nei ritmi della vita quotidiana che fa sballare l’orologio biologico e provoca fiacca fin dal mattino: tutto dipende dall’attività del nucleo cerebrale soprachiasmatico, un pugno di circa 20mila neuroni che danno il ritmo alle giornate in base al ciclo luce/buio. «A questo nucleo arriva dalla retina un fascio nervoso diretto e ancestrale che indica solo se c’è o meno luce; sulla base dell’informazione i neuroni inviano segnali per la produzione di ormoni come la melatonina, l’ormone del riposo che viene secreto col buio e provoca sonnolenza — spiega Roberto Manfredini, cronobiologo dell’Università di Ferrara —.
In inverno quindi si produce più melatonina e anche per questo motivo è possibile provare più spesso un affaticamento che non è fisico né dovuto al lavoro, quanto piuttosto mentale: ci si sente giù di tono, il sonno non è riposante, viene voglia di mangiare carboidrati che a loro volta inducono sonnolenza. Per evitarla è bene esporsi alla luce quanto più possibile: chi al mattino fatica ad alzarsi deve cercare di stare fuori alla luce naturale fin dalle prime ore della giornata, per esempio andando a piedi in ufficio; chi a metà pomeriggio con l’arrivo del buio sente accentuarsi la stanchezza deve provare a ritardare la produzione di melatonina esponendosi alla luce artificiale, magari quella blu degli schermi di tablet e telefonini in questo caso assai utile. È infatti una luce molto efficace nel bloccare la melatonina e tenere svegli, per cui nel pomeriggio può essere una risorsa per chi è più fiacco perché allontana il sonno, mentre va sempre evitata dopo cena. Al pomeriggio, inoltre, meglio non mangiare carboidrati per non accentuare la sonnolenza: le proteine sono da preferire, favoriscono l’allerta». L’alterazione dei ritmi circadiani che sballa un buon sonno è la causa più comune della stanchezza nei giovanissimi: si «recupera» con un miglioramento nello stile di vita, dall’attività fisica regolare al cercare di seguire il ritmo giorno/notte senza passare le ore di buio attaccati allo schermo dello smartphone.
Esiste, infine, un altro disturbo del sonno che poi di giorno provoca un affaticamento profondo: è la sindrome delle apnee ostruttive notturne, una malattia per cui le vie aeree collassano e riducono od ostruiscono il passaggio dell’aria. Quando l’ostruzione è solo parziale il sintomo è il russamento; se il problema peggiora, si arriva a vere e proprie apnee di qualche secondo in cui il cervello raggiunge uno stato di quasi-veglia perché si attiva per tornare a respirare.
Tutto questo comporta un sonno agitato e poco riposante, che durante la giornata poi induce stanchezza e sonnolenza. Le apnee notturne, che sono più frequenti negli uomini e nelle donne in post-menopausa, se non sono di livello grave possono essere risolte anche solo con un po’ di dieta.
La stanchezza mentale è «pesante» tanto quella fisica: quando siamo impegnati in un’attività cognitiva intensa e prolungata per ore, nel cervello si producono scorie che si accumulano nella corteccia prefrontale, un’area del cervello associata alle decisioni e al controllo degli impulsi. Lo ha dimostrato di recente Mathias Pessiglione dell’Università Pitié-Salpêtrière di Parigi, che spiega: «Alcune teorie suggeriscono che la fatica mentale sia una sorta di illusione creata dal cervello per farci interrompere un’attività impegnativa in favore di un’altra più gratificante; i dati che abbiamo raccolto monitorando l’attività cerebrale di un gruppo di volontari attraverso una risonanza magnetica mostrano che la stanchezza cognitiva si manifesta a livello biologico, con un maggior accumulo di glutammato nella corteccia prefrontale».
Questo neurotrasmettitore, che attiva molto le cellule cerebrali, accumulandosi rende ancora più complesso e «costoso» per il cervello accendere l’area della corteccia che sovrintende al controllo degli impulsi: un’evidenza confermata dal fatto che i volontari costretti al superlavoro mentale, oltre ad avere una chiara dilatazione delle pupille indicativa di uno stato d’ansia, avevano anche la tendenza a preferire dove possibile opzioni che comportassero una ricompensa immediata con un minore sforzo.
Dopo una giornata di duro lavoro mentale, quindi, il controllo cognitivo sulle nostre azioni si affievolisce perché il cervello è realmente spossato. «La stanchezza mentale ed emotiva è anche quella che si associa molto spesso a disturbi d’ansia e depressione — sottolinea Annamaria Colao —. L’affaticamento psicologico è più difficile da inquadrare rispetto a quello che ha cause organiche, ma è molto frequente. Spesso per esempio la stanchezza è la reazione che scegliamo di avere in situazioni che ci sembrano difficili da sostenere e governare emotivamente».
L’affaticamento fisico, emotivo e cognitivo è fra i sintomi della depressione ed è anche peggiorato dalla difficoltà a dormire bene e a sufficienza che spesso si accompagna alla malattia; l’ansia dal canto suo stanca perché comporta il rilascio di ormoni coinvolti nella risposta di attacco o fuga, come l’adrenalina, che per esempio aumentano la tensione muscolare e la frequenza cardiaca e respiratoria. Non esiste però il cosiddetto affaticamento surrenale, ovvero l’esaurimento delle ghiandole surrenali che producono adrenalina nelle situazioni di stress prolungato e che secondo alcune teorie porterebbe poi a esaurimento fisico e mentale, con un’inesplicabile e irriducibile spossatezza: una recente revisione di tutti gli studi in materia ha stabilito che non c’è alcuna prova scientifica dell’esistenza dell’affaticamento surrenale ed è quindi rischioso pensare di superare la sensazione di fatica con qualche mix ormonale.
Esiste un altro tipo di fatica che ci ha contagiato, è il caso di dirlo, durante gli ultimi tre anni: è la stanchezza pandemica, ovvero la sensazione di sfinimento e demotivazione nel seguire le regole per proteggersi dal virus che ha attanagliato molti durante i mesi in cui le regole per il contenimento del virus Sars-CoV-2 erano più stringenti. Uno stress da pandemia che è stato indagato in un recente studio danese pubblicato su PNAS, in 13 Paesi (Italia compresa): stando ai risultati la stanchezza pandemica cresce con il passare del tempo, diventa più acuta nei momenti in cui le restrizioni sono più necessarie e si affievolisce quando sale la conta delle vittime, perché l’aumento dei decessi giustifica le misure rigide e quindi allevia l’affaticamento emotivo da pandemia.
«Allentare le limitazioni quando è possibile sulla base dei dati epidemiologici diminuisce la stanchezza pandemica, che può contribuire al peggioramento della qualità di vita e della salute dei singoli ma perfino costituire un problema per la democrazia — spiega Michael Bang Petersen, coordinatore dello studio —. I nostri dati mostrano infatti che l’affaticamento pandemico in questi mesi è stata una causa diretta di scontento politico e ha favorito la radicalizzazione di alcuni gruppi e la destabilizzazione di varie democrazie occidentali.
Purtroppo le crisi che si sono succedute nei mesi successivi, da quella climatica a quella energetica, stanno gettando benzina sul fuoco e le persone, stanche dopo mesi e mesi di difficoltà, sono sempre più frustrate e maldisposte verso le autorità. Una stanchezza di cui tenere conto, se oltre alla salute della popolazione si vuol pensare anche a quella della democrazia».
La Podofobia.
Podofobia: l'irrazionale paura dei piedi. Una paura irrazionale concentrata sulla vista dei propri e degli altri piedi che finisce per limitare fortemente la buona qualità della vita. Sofia Dinolfo su Il Giornale il 2 Gennaio 2023
Più diffusa di quanto si possa immaginare, la podofobia è la paura irrazionale dei piedi. Come noto, sono tante le fobie, più di 500 quelle riconosciute, ma quella dei piedi è davvero tra le più difficili da gestire rispetto alle altre. Facciamo qualche esempio per capire il livello di difficoltà. L’aracnofobia (paura dei ragni), si può superare allontanandosi dai ragni; la paura della folla (agorafobia), si combatte evitando i luoghi pieni di gente e così via. Ma i piedi fanno parte del proprio corpo e gestire questa paura irrazionale diventa davvero un dilemma. Come nasce questa fobia? Come si manifesta?
I disagi di chi soffre di podofobia
Il termine podofobia deriva dal greco podos, che vuol dire piedi e, fobia, che significa paura. Quindi paura dei piedi. Cosa accade a chi soffre di questa patologia? Le persone che soffrono di podofobia non tollerano la vista dei piedi perché ne hanno proprio paura. Non sopportano di guardare i propri piedi, ne averli osservati o toccati e non riescono a guardare o toccare quelli degli altri. Non vogliono nemmeno che si pronunci questo termine. Nei casi più gravi, il livello di ansia è così forte che il soggetto interessato tiene i calzini per un lungo periodo di tempo senza riuscire a toglierli, favorendo l’insorgere di problemi di carattere igienico-sanitario. La vista dei piedi in queste persone causa ansia, tachicardia, sudorazione. Nella stagione estiva si arriva addirittura a non uscire di casa per non vedere i piedi delle altre persone che indossano sandali e infradito.
Le cause
Non ci sono delle cause specifiche che possano in qualche modo delineare il confine che determina il sorgere di questa fobia. Gli esperti però sono concordi nel ricondurla a fonti traumatiche. Si tratta di quegli eventi accaduti durante l’infanzia, legati ai piedi, che possono aver traumatizzato il soggetto a livello inconscio. L’evento magari è stato dimenticato ma gli effetti sono riaffiorati sottoforma di fobia. Ci sono poi le fonti patologiche, ovvero quelle che si ricollegano ad un problema fisiologico legato ai piedi, come una frattura, una malattia della pelle ecc. Da valutare anche le fonti ereditarie, perché le fobie possono essere tramandate dai genitori ai figli, per via del DNA, o possono essere trasmesse per via di continue raccomandazioni che un genitore iperprotettivo e fobico fa ai suoi figli.
Come si cura
Per curare la podofobia si possono mettere in atto alcune strategie specifiche con la psicoterapia. L’importante è affidarsi ad un bravo psicoterapeuta che utilizzerà la psicoterapia cognitiva e strategica. La prima analizza il nesso fra pensieri, paure e comportamenti. La seconda mira ad eliminare il problema del soggetto fobico. Vi è poi la fase della desensibilizzazione che consiste nell’affrontare il momento stressante col paziente ma in modo graduale.
L’Ictus.
Estratto dell’articolo di Ruggiero Corcella per il “Corriere della Sera” il 21 febbraio 2023.
L’uso della stimolazione elettrica per cercare di riattivare le comunicazioni tra diversi distretti nervosi rimasti danneggiati dopo un ictus non è una novità. In uno studio sperimentale condotto dall’Università di Pittsburgh, dalla Carnegie Mellon University e da UPMC (University Pittsburgh Medical Center) e pubblicato ieri su Nature Medicine, questa tecnologia è stata però sperimentata con un approccio diverso per la prima volta su due donne di 31 e 47 anni con risultati preliminari interessanti.
Entrambe hanno recuperato in tempo record l’uso del braccio e parzialmente anche della mano, rimasti paralizzati dopo l’ictus, grazie alla stimolazione elettrica del midollo spinale. […]
La ricerca dimostra che un paio di sottili elettrodi metallici impiantati lungo il collo permettono ai pazienti che hanno subito danni a causa di un ictus di aprire e chiudere completamente il pugno, fino a poter usare ancora una volta forchetta e coltello, di sollevare il braccio sopra la testa o di utilizzare nuovamente le mani, riacquisendo in questo modo la mobilità degli arti superiori e delle zone periferiche e diminuendo la propria invalidità.
Attualmente non esistono trattamenti efficaci per curare la paralisi nella cosiddetta «fase cronica dell’ictus», che inizia circa sei mesi dopo l’evento. Secondo i ricercatori, la nuova tecnologia rappresenta un importante passo in avanti nel miglioramento della quotidianità dei convalescenti. […] Le valutazioni cliniche hanno dimostrato che la stimolazione delle radici nervose cervicali migliora immediatamente la forza, l’ampiezza di movimento e la funzionalità del braccio e della mano. […]
Ischemia cerebrale: i sintomi, come intervenire e prevenirla. L’ictus è la prima causa di disabilità in Italia. Nell'80% dei casi ha origine da un’ischemia e colpisce soprattutto le persone over 65. Riconoscere i segnali e i fattori di rischio può fare la differenza. Sofia Gorgoni il 19 aprile 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
I fattori di rischio
I segnali a cui prestare attenzione
Come intervenire
La prevenzione
L’ictus è la prima causa di disabilità in Italia, la seconda di demenza e la terza di morte. La maggior parte degli ictus – l’80% circa – si sviluppa a partire da un’ischemia. Nel 75% dei casi colpisce individui che hanno superato i 65 anni, il restante sono più giovani. Alla base dell’ischemia vi è un’ostruzione del flusso sanguigno. Infatti, ogni organo ha bisogno di nutrimento e ossigeno per funzionare, incluso il cervello. Questo flusso di sostanze viene assicurato dai vasi sanguigni che includono arterie e vene.
Quando il flusso sanguigno è bloccato da un ostacolo, e il cervello non riceve più abbastanza ossigeno e nutrimento per soddisfare i suoi bisogni metabolici, si parla di ischemia cerebrale. L’ostruzione può risolversi in tempi brevi, in modo spontaneo o con un intervento tempestivo. In questi casi, in cui l’ischemia è temporanea e i sintomi si risolvono entro le 24 ore, si parla di attacco ischemico transitorio (TIA). Quando invece l'ischemia perdura a lungo, si tratta di ictus vero e proprio. Ne esistono due forme: l’ictus emorragico si verifica a seguito della rottura di un’arteria, l’ictus ischemico (ischemia) è provocato da un trombo, cioè un coagulo di sangue che ostruisce l’arteria.
I fattori di rischio
L’ictus ischemico colpisce in particolare le persone più anziane. Tra i fattori di rischio si annoverano il diabete, l’ipertensione e alti livelli di colesterolo e glicemia. Predispongono all'ischemia soprattutto le patologie cardiovascolari, oltre all’età avanzata e uno stile di vita non sano. Ad aumentare il rischio concorrono il fumo, un’alimentazione sbagliata, l’obesità e la scarsa attività fisica. Il pericolo di subire un attacco ischemico non si eredita ma la familiarità incide sulla possibilità di sviluppare malattie che ne agevolano la comparsa, prime fra tutte l’ipertensione arteriosa e il diabete.
I segnali a cui prestare attenzione
La gravità dei sintomi è variabile ma i segnali non sono trascurabili. Saperli riconoscere in tempo può fare davvero la differenza. Ad esempio, uno dei disturbi è un’improvvisa difficoltà di movimento o un persistente formicolio agli arti, slegato da altre cause. In particolare, fra i sintomi più comuni dell’ischemia sono inclusi: problemi alla vista (come cecità da un occhio e visione doppia), difficoltà a parlare, nei movimenti e perdita di conoscenza. Può manifestarsi anche con un senso di debolezza a un braccio, a una gamba, a una metà del corpo o esteso a tutto l'organismo. Infine, un altro campanello d’allarme è una cefalea molto intensa, improvvisa e insolita. I sintomi dell'ischemia cerebrale hanno sempre la caratteristica di insorgere all'improvviso o, comunque, nel giro di alcuni minuti.
Come intervenire
Una volta riconosciuti i sintomi, la prima cosa da fare è chiamare il pronto intervento al 112. La persona interessata deve essere presa in carico il più presto possibile in un pronto soccorso dotato di Stroke Unit, l’Unità Urgenza Ictus. In questi casi, ogni minuto è prezioso e non va perso tempo, magari aspettando che i sintomi si risolvano da soli. Quando si manifesta un ictus, infatti, è necessario intervenire entro 6 ore per avere la certezza che i trattamenti siano risolutivi e non, al contrario, controproducenti. Per questo è opportuno che qualsiasi dubbio non posticipi l’intervento ospedaliero. Prima si interviene, prima si interrompe il progresso dell’ictus e meno zone del cervello del paziente saranno compromesse.
La prevenzione
Il modo migliore per prevenire l'ischemia cerebrale è avere uno stile di vita salutare. Evitare, quindi, il fumo e l’alcol, praticare un'attività fisica regolare, mantenere un peso nella norma e avere un'alimentazione sana. Il consumo di grassi saturi favorisce l'aumento dei livelli di colesterolo nel sangue, mentre il sale in eccesso fa aumentare la pressione del sangue. Per quanto riguarda il movimento, secondo la letteratura scientifica bastano 30 minuti al giorno per prevenire gran parte delle malattie cardiovascolari. Se si è soggetti a rischio, a causa dell'età o per la presenza di altre condizioni patologiche, è consigliabile sottoporsi ad accertamenti periodici, tra cui il controllo regolare della pressione arteriosa. In generale, è essenziale attenersi alle indicazioni del medico.
Ictus, differenza tra ischemico ed emorragico, come si previene, sintomi, cure. Maria Giovanna Faiella su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2023
È la prima causa di morte, la seconda di demenza, la terza di invalidità. L’80% degli eventi potrebbe essere evitato modificando le abitudini di vita e curando patologie quali pressione alta, colesterolo alto, diabete, fibrillazione atriale
L’ictus cerebrale colpisce ogni anno circa 150 mila connazionali; è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e i tumori; la prima di invalidità, la seconda causa di demenza , secondo i dati di ALICe Italia, Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale. La lesione cerebro-vascolare è causata dall’interruzione del flusso di sangue al cervello, dovuta a ostruzione o a rottura di un’arteria.
Differenza tra ictus ischemico ed emorragico
Ma qual è la differenza tra ischemia ed emorragia cerebrale? «Ictus significa letteralmente “colpo” (in inglese stroke), cioè la comparsa improvvisa di un deficit neurologico — premette il professor Danilo Toni, direttore dell’Unità “Trattamento Neurovascolare” al Policlinico Umberto I di Roma e presidente del Comitato tecnico-scientifico di ALICe Italia —. Si parla di ischemia, che significa carenza di sangue, quando l’ictus (ischemico) è dovuto alla chiusura di un’arteria, per cui non arriva sangue al cervello; l’ictus emorragico (o emorragia cerebrale), invece, è dovuto alla rottura di un’arteria, quindi il sangue stravasa nel cervello, il tessuto cerebrale soffre perché non riceve sangue e anche perché è compresso dal sangue che si è accumulato fuori dalle arterie».
Cos’è l’attacco ischemico transitorio (Tia)
Che cos’è invece l’attacco ischemico transitorio (Tia - Transient ischaemic attack)? «Si parla di TIA quando l’afflusso di sangue al cervello si interrompe per breve tempo, quindi si tratta di una forma di ischemia ma di durata così breve da non lasciare sintomi nel giro di pochi minuti e, soprattutto, non provoca nessun danno visibile neanche con la risonanza magnetica – chiarisce il professor Toni –. La differenza tra attacco ischemico transitorio e ictus ischemico, quindi, sta nella durata dei sintomi e nell’assenza della lesione ischemica nel TIA, lesione che è invece presente nell’ictus. Il TIA – sottolinea il neurologo – è un importantissimo campanello d’allarme dell’ictus tanto che è stato predisposto uno score di rischio, “ABCD2 score”, in considerazione di alcuni parametri, ovvero: età; pressione arteriosa; caratteristiche cliniche (deficit motorio, sensitivo o di linguaggio); durata dei sintomi e diabete. Dalla combinazione di queste variabili si ricava un punteggio: più è alto, maggiore è il rischio che nelle successive 48 ore si possa verificare un nuovo evento ischemico».
Chi rischia di più
Quali sono i principali fattori di rischio che possono provocare l’ictus? «Ipertensione arteriosa, fumo, diabete sono fattori di rischio sia per l’ictus ischemico che per quello emorragico — ricorda il professor Toni —. Colesterolo alto e fibrillazione atriale sono fattori di rischio soprattutto per l’ictus ischemico».
Come prevenire l’ictus
L’ictus si può prevenire (e come)? Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’80 per cento degli eventi potrebbe essere evitato, modificando le proprie abitudini di vita e curando alcune patologie che possono causare l’ictus, quali pressione alta, colesterolo alto, diabete, alcune anomalie della funzione cardiaca, in particolare la fibrillazione atriale. «Occorre tenere sotto controllo i fattori di rischio che si possono modificare — sottolinea il neurologo —. La prevenzione comincia dalle buone abitudini nella vita quotidiana, quali non fumare, mantenersi attivi fisicamente, evitare un’alimentazione scorretta che comporta la tendenza al sovrappeso fino all’obesità, non consumare alcol o, quantomeno, limitarne la quantità al minimo».
Se ci sono problemi di salute, poi, si fa ricorso alle terapie necessarie. Per esempio, sottolinea lo specialista: «Chi ha la pressione alta assumerà farmaci antipertensivi, chi ha il diabete dovrà seguire le terapie per il controllo della glicemia, chi ha la fibrillazione atriale la curerà con farmaci anticoagulanti e con quelli che regolano la frequenza cardiaca».
Sintomi più frequenti
Quali sono i segnali “spia” di un ictus? I sintomi più comuni sono:
• perdita improvvisa di forza (o anche di sensibilità) a un braccio o a una gamba o a entrambi, dallo stesso lato;
• bocca storta;
• difficoltà a parlare perché non si riesce ad articolare bene le parole (disartria) o non si riescono proprio a pronunciarle, o a capire cosa dicono gli altri;
• non riuscire a coordinare i movimenti né a rimanere in equilibrio;
• perdita della vista;
• mal di testa violento e improvviso, mai provato.
In questi casi va chiamato subito il numero di emergenza 118 (o 112 laddove è attivo). Il mezzo di soccorso accompagnerà il paziente colpito da ictus in ospedale, possibilmente dotato di Unità Neurovascolare (o Centro Ictus o Stroke Unit) dove ricevere le terapie più appropriate in modo tempestivo. Più precoce è la somministrazione delle terapie, infatti, più sono efficaci le cure.
Terapie disponibili
Come si cura l’ictus? Per l’ictus ischemico sono disponibili da tempo farmaci fibrinolitici che dissolvono il materiale ostruttivo a livello arterioso (trombolisi), permettendo di ripristinare il flusso di sangue e limitare i danni al tessuto cerebrale. In alcuni casi, la terapia farmacologica può essere associata o sostituita dai trattamenti endovascolari (trombectomia meccanica), che talvolta sono anche possibili quando la trombolisi non si può fare. Si tratta di tecniche che richiedono un’alta specializzazione e, per questo, non possono essere effettuate ovunque ma solo negli ospedali dotati di Unità Neurovascolari (o Stroke Unit) di secondo livello. Per l’emorragia cerebrale esistono una serie di indicazioni per contenere l’estensione del sanguinamento, mentre sono in fase di sviluppo terapie specifiche.
Unità ictus (o Neurovascolari o Stroke unit)
«Attualmente sono 220 le Unità ictus in cui è possibile fare la trombolisi rispetto alle 300 necessarie; in 65 di questi centri si può fare anche la trombectomia meccanica — riferisce il professor Toni —. Le carenze si registrano soprattutto al Sud, anche se si sta cercando di recuperare i ritardi».
Disturbi cognitivi dopo l’ictus (seconda causa di demenza)
Dopo un ictus quali sono i disturbi più frequenti? «Possono essere di tipo motorio e non motorio — chiarisce lo specialista —. Le conseguenze a livello motorio consistono nella paralisi di un lato del corpo e, nel giro di 2-3 mesi, si può sviluppare anche una spasticità della parte paralizzata. Ci sono poi i disturbi cognitivi: l’ictus è la seconda causa di demenza, dopo l’Alzheimer — ricorda Toni —. Di frequente, poi, il paziente con ictus va incontro a depressione, che in parte è una reazione depressiva alla menomazione che si ha, in parte è dovuta proprio all’alterazione anatomica e fisiologica delle aree del cervello preposte al controllo delle emozioni. È una conseguenza importante perché influisce sulla qualità di vita e, a sua volta, rappresenta una condizione di rischio per una prognosi peggiore, addirittura per una recidiva di ictus».
Tutti questi disturbi vanno tenuti in considerazione e curati adeguatamente, con le terapie adatte.
Quanto si vive dopo l’ictus
Quanto si vive dopo un ictus? Risponde il professor Toni: «Dipende dalla gravità dell’ictus e da quanto si è riusciti, nella fase acuta, a limitare la gravità dei danni somministrando tempestivamente le terapie specifiche, quali trombolisi o trombectomia meccanica».
Longevità e invecchiamento.
Longevità e invecchiamento: cause e rimedi naturali per contrastarlo. Luca Romano il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.
Perchè invecchiamo e come possiamo rallentare questo processo e mantenere la giovinezza più a lungo? Lo scopriamo con il Prof Luca Martirani
Il passare del tempo è associato a una serie di processi biologici degenerativi che avvengono a livello cellulare. Quali sono i principali e come possiamo fronteggiarli? Ne parliamo con il Prof Luca Martirani, specialista in Biotecnologie e docente di Microbiologia, tecniche Farmaceutiche e Microbiologia applicata.
Quali sono le cause dell’invecchiamento?
L’invecchiamento è un fenomeno complesso e multifattoriale. Possiamo però dire che le cause sono principalmente in tre processi che si influenzano a vicenda: la degradazione cellulare, l’aumento dello stress ossidativo e il rallentamento del metabolismo.
Come ci può spiegare la degradazione cellulare?
In sostanza, con l’età le cellule diventano meno efficienti nel riparare i danni al DNA e ad altre componenti e nel replicarsi. Questo comporta che hanno una minore capacità di eliminare i prodotti di scarto e le tossine e, di conseguenza, l’organismo ha una minore capacità di rigenerare i tessuti, combattere le infiammazioni e rispondere alle lesioni.
Cos’è lo stress ossidativo e perché aumenta?
Questo fenomeno è correlato all’aumento dei radicali liberi, molecole reattive utili per varie funzioni come, per esempio, aggredire patogeni. Quando l’organismo produce più radicali liberi di quelli che neutralizza, questi, con il tempo, s’accumulano e causano danni alle cellule e ai tessuti del corpo attraverso reazioni di ossidazione.
Il metabolismo come cambia con l’età?
Il metabolismo tende a rallentare e il nostro organismo diventa meno efficiente nel trasformare il cibo in energia, nell’eliminare scarti metabolici ed in altre funzioni. Gli effetti? Una minore capacità di assorbimento dei nutrienti, aumento del peso, riduzione della massa muscolare, minore energia e resistenza agli sforzi.
Che cosa fa invecchiare più velocemente?
Dipende da fattori biologici, fisiologici, genetici ma anche psicologici e sociali. Gli studi dimostrano come tutti i fenomeni degenerativi dell’età accelerano in caso di alimentazione poco salutare, ritmi di vita stressanti, poco sonno, eccessi di tabacco e alcol, eccessiva esposizione al sole e poco esercizio fisico.
Quali soluzioni possono contrastare l’invecchiamento?
Oggi lo stile di vita rende difficile assumere macro e micro nutrienti in modo equilibrato e ciò accelera i processi degenerativi. Per i tre fenomeni ho citato, si può compensare con l’uso di integratori che contengano vitamine e minerali, antiossidanti e omega 3/6/9: soluzioni naturali che aiutano e preventive ma che non sostituiscono un’alimentazione salutare, uno stile di vita sano e l’esercizio fisico, fattori di longevità.
Felixofia propone 3 soluzioni naturali
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Apporto naturale di energia fisica, immunitaria e mentale. Contiene pappa reale, polline, vitamine B6, B12, C e zinco. Scopri il prodotto
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(ANSA il 20 aprile 2023) - Con l'avanzare dell'età i capelli diventano grigi per colpa di alcune cellule staminali che perdono la capacità di muoversi su e giù nei follicoli piliferi, condizione necessaria per maturare in melanociti e produrre pigmento. Questo meccanismo a yo-yo, scoperto per la prima volta nella pelle dei topi, potrebbe essere presente anche nell'uomo, aprendo la strada a nuovi trattamenti per mantenere il colore della chioma.
Lo indica lo studio pubblicato sulla rivista Nature dai ricercatori della New York University Grossman School of Medicine. Nei loro esperimenti sui topi, grazie a tecniche per la visualizzazione in vivo in 3D e a tecnologie per il sequenziamento dell'Rna, i ricercatori sono riusciti a seguire e tracciare le cellule in tempo reale mentre invecchiavano e si muovevano tra un compartimento e l'altro del follicolo pilifero, maturando e poi ritornando ancora staminali.
I dati raccolti dimostrano che col passare del tempo, man mano che i capelli cadono e ricrescono, sempre più staminali perdono la loro peculiare capacità di muoversi su e giù nel follicolo pilifero. In pratica restano intrappolate nel rigonfiamento della zona soprabulbare, non maturano e non riescono a scendere nella zona germinale del bulbo dove la proteina Wnt le avrebbe indotte a trasformarsi in melanociti che producono pigmento.
"Questi risultati suggeriscono che la motilità e la differenziazione reversibile delle cellule staminali dei melanociti sono fondamentali per mantenere i capelli sani e colorati", afferma la coordinatrice dello studio, Mayumi Ito. Per questo il suo gruppo di ricerca intende sviluppare nuove strategie per ripristinare la motilità delle staminali o per spostarle direttamente nel compartimento germinale del follicolo dove possono produrre pigmento.
Estratto dell'articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza per corriere.it mercoledì 27 settembre 2023.
Il botulino è una tossina, prodotta dal batterio Clostridium botulinum, che impedisce la trasmissione dello stimolo nervoso e quindi il muscolo non si contrae più. L’uso terapeutico riguarda il trattamento di vari tipi di spasticità come il blefarospasmo (una contrazione che causa la chiusura involontaria dell’occhio), la distonia cervicale (una contrazione involontaria dei muscoli del collo), la spasticità degli arti superiori e inferiori e patologie della vescica.
Il 18 marzo 2004 l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) autorizza per la prima volta l’uso a scopo estetico per ridurre le rughe del volto. Il primo farmaco autorizzato è il Vistabex (o Botox) della multinazionale farmaceutica Allergan. Da allora viene dato il via libera all’immissione in commercio di altri 5 farmaci: Azzalure della Galderma (21/7/2009); Bocouture della Merz (13/1/2011); Nuceiva della Evolus (22/11/2019); Alluzience ancora della Galderma (5/10/2021) e Letybo della Croma (5/4/2022).
La vendita al pubblico è vietata: l’utilizzo è riservato agli specialisti durante la visita ambulatoriale. Il prezzo medio per una puntura di botox è sui 300/400 euro. A livello globale il mercato è stimato in 7,23 miliardi di dollari che potrebbero diventare 10,62 nel 2030. Ma dopo 20 anni dal suo arrivo cosa sappiamo sulle regole di utilizzo e sui rischi?
Per cosa è autorizzato
Prima di farselo iniettare, i pazienti firmano (spesso senza nemmeno leggere) un consenso informato che può essere più o meno dettagliato, a discrezione del medico.
[…]
La somministrazione della tossina botulinica di tipo A è autorizzata per fini estetici per punti del viso ben precisi: 1) le rughe d’espressione verticali tra le sopracciglia (rughe glabellari);
2) le zampe di gallina (rughe cantali laterali);
3) le rughe frontali.
Le rughe devono essere da moderate a gravi e la loro gravità deve avere un importante impatto psicologico in pazienti adulti. Non è raccomandato l’uso in pazienti con più di 65 anni.
L’uso off label
Se il botulino viene iniettato intorno alle labbra o sul collo e sopra i 65 anni è a rischio e pericolo del paziente. È il cosiddetto uso off label, ossia in siti d’iniezione diversi da quelli approvati e al di fuori delle indicazioni per cui è stato autorizzato dall’Aifa, e può determinare seri rischi per la salute dei pazienti […]
Le tempistiche
Generalmente il risultato distensivo si vede dopo 2-3 giorni e l’effetto dura 3-4 mesi, fino a un massimo di 6. L’intervallo minimo tra un trattamento e l’altro dev’essere di 3 mesi. Ma «l’efficacia e la sicurezza delle iniezioni ripetute oltre i 12-24 mesi non sono valutate». Non ci sono studi, dunque, che accertano la sicurezza del botulino contro possibili effetti collaterali per chi va avanti per anni a farsi iniettare il botox.
Le reazioni avverse
I 6 farmaci sono stati testati complessivamente su 8.192 pazienti. Le reazioni avverse dichiarate, sempre nelle schede informative del prodotto sono le seguenti:
• molto comuni, più di 1 su 10: lividi e prurito nella sede d’iniezione;
• comuni, 1 su 100: cefalea, ptosi palpebrale (abbassamento della palpebra), nausea, secchezza oculare, contrazione muscolare intorno all’occhio, paresi facciale temporanea e debolezza muscolare localizzata, segno di Mefisto (sollevamento della parte esterna delle sopracciglia);
• non comune, 1 su 1.000: vertigini, capogiri, emicrania, disturbo della parola, visione offuscata, spasmi muscolari, disturbi alla vista e chiusura involontaria dell’occhio, contusioni;
• rare, 1 su 10.000: infezioni delle vie respiratorie superiori, depressione, disturbi sensoriali e del movimento oculare, sangue dal naso, diarrea, orticaria;
• molto rare, oltre 1 su 10 mila: difficoltà di deglutizione (disfagia) e di respirazione gravi e che possono portare alla morte, ed è possibile che siano correlate alla diffusione della tossina a distanza dalla sede dell’iniezione […]
Chi può iniettare il Botox
Per tutti i motivi elencati sopra il botulino dev’essere somministrato esclusivamente da medici con adeguate qualifiche ed esperienza nel trattamento delle rughe e la presenza in studio di adrenalina per le reazioni anafilattiche.
[…]oggi per iniettare botulino basta definirsi medici estetici, specialità che non rientra tra le Scuole di specializzazione riconosciute per la facoltà di Medicina e Chirurgia in Italia.
Le segnalazioni di effetti collaterali
Le prime segnalazioni di sospette reazioni avverse alla tossina botulinica per uso estetico vengono registrate dalla rete nazionale di farmacovigilanza a partire dal 2008: da allora a oggi si sono registrati 138 casi, le reazioni avverse con maggiore frequenza sono dolore in sede di iniezione (12%), cefalea (12%), ptosi palpebrale (9%) e orticaria (9%).
Le segnalazioni sono classificate gravi nel 14% dei casi. Nel maggio 2022 la rivista medica Aeshetic Surgery Journal pubblicata dall’Oxford University Press divulga un’analisi sistematica della letteratura disponibile sulle reazioni avverse da tossina botulinica di tipo A per uso estetico (qui) che arriva a queste conclusioni: «La maggior parte delle complicanze sono lievi e transitorie. Il tasso complessivo di complicanze è stato del 16%.
Tuttavia, la letteratura dimostra una segnalazione eterogenea delle complicanze e una mancanza di coerenza nella definizione di complicanze correlate al trattamento, nonché una mancanza di dettagli sul profilo del professionista. Ci sono aree importanti per ulteriori studi per sostenere i più alti standard di sicurezza del paziente in questo campo in rapida espansione».
È il caso di aggiungere che i medici estetici sono tutti liberi professionisti e questa branca della medicina è una delle più remunerate, e che oggi la richiesta di mercato supera di gran lunga l’offerta. Chi pensa che siano solo le donne a farsi spianare le rughe si sbaglia: degli uomini che si rivolgono ai centri specializzati, l’85% lo fa per una puntura di botulino.
La Demenza Senile. L'Alzheimer.
Testimonianze.
Prevenzione.
Demenza frontotemporale.
Alzheimer.
Estratto da “Corriere della Sera” il 4 aprile 2023.
Amarezza, rabbia e delusione: sono queste le emozioni che l’attrice Guia Jelo, che ha lavorato anche con Roberto Benigni e Carlo Vanzina, ha affidato a un video sulla sua pagina Facebook dopo che si è vista rifiutare il sostegno psicologico perché ha più di 70 anni.
«Ho sentito il bisogno di rivolgermi a un consultorio pubblico, con ricetta del mio medico curante, per superare il trauma della perdita di mia madre — ha raccontato l’attrice — e il servizio di Igiene mentale mi ha mandata in un altro ufficio, dove mi hanno risposto che dopo i 70 anni prendono in cura solo i malati di . Lì mi hanno consigliato di fingere i sintomi, e anche così avrei avuto l’appuntamento fra 8 mesi».
Jelo ha rifiutato la proposta, denunciando la situazione sul social con il neologismo «Incazzhaimer» […]
Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” il 30 marzo 2023.
“Ha la demenza, io divorzio”. “Mr. Porsche rottama la moglie”. “Wolfgang Porsche divorzia dalla moglie perché lei ha la demenza”. Da giorni leggo titoli come questi sui principali siti e giornali italiani e non posso fare a meno di pensare a quanto sarebbe importante conoscere la malattia – quella malattia – prima di semplificare la vita altrui. […] Wolfgang Porsche, 79 anni, presidente del consiglio d’amministrazione della omonima Casa automobilistica, ha chiesto il divorzio dalla moglie Claudia Hübner, 74 anni, dopo una relazione durata circa 15 anni. Lei si era ammalata di demenza senile due anni fa, è immobile, deve essere assistita dalla figlia e dalle badanti 24 ore su 24.
I comportamenti della donna sarebbero molto cambiati divenendo anche aggressivi, e questo avrebbe reso impossibile la convivenza. Il marito ha una nuova relazione con una vecchia amica, Gabriela di Leiningen. L’opinione pubblica tedesca ha accusato Porsche di cinismo, in Italia non è andata meglio.
[…]
Credo e spero che quest’orda di penne giudicanti non abbia la più pallida idea di cosa sia la demenza […]
Quando mia mamma un anno fa è stata ricoverata in una Rsa per via dell’Alzheimer e della sua immobilità, per la prima volta nella mia vita ho esplorato quel mondo spaventoso, struggente, malinconico che è una casa di riposo. Mia mamma aveva una forma di demenza quieta, quasi timida. […] Sua madre, che aveva vissuto con noi molti anni fa, invece era stata colta da una demenza feroce, con sbalzi d’umore che per me ancora bambina erano tanto incomprensibili quanto terrorizzanti.
La notte, soprattutto, ci svegliava con grida oscene, ci accusava di averla rapita, di volerla uccidere, ci chiamava bastardi. Alzava le mani su mia madre. […]
In quella casa di riposo in cui mia madre forse aveva davvero trovato riposo, il tempo con lei era infinito. Fuori da ogni retorica, comunicare con una persona affetta da demenza che non parla, non cammina, ti oltrepassa con lo sguardo oppure ti fissa per un tempo indefinito chiedendosi chi tu sia e cosa tu ci faccia lì, è un’agonia.
[…]
E lo strazio era anche guardarmi intorno, osservare come la demenza avesse un abito diverso a seconda del corpo che vestiva. C’era una signora con i capelli bianchissimi che mi chiedeva sempre “aiuto, fammi uscire di qui” e provava a infilarsi in ascensore quando andavo via. Mi faceva pena e paura perché voleva la mia mano, ma la stringeva troppo forte e mi diceva che sua figlia l’aveva abbandonata, poi all’improvviso chiamava sua madre. “Mammaaaa mammaaaa”, urlava.
Un’altra signora non diceva niente, come mia mamma. Alle volte le trovavo vicine, nella saletta in cui mangiavano, e sembravano due statue di un tempio. […]
mentre voi che giudicate il milionario tedesco evidentemente non sapete nulla e avete un’idea romantica della demenza, pensate che il malato si istupidisca un po’, che si diventi delle bambole tristi da accudire come bambini. Docili e malleabili.
Non sapete cosa significhi perdere la memoria e la parola, gradualmente, sentire che la tua essenza ti sta abbandonando. Non sapete cose significhi la quotidianità con chi non ti riconosce più, con chi non riconosci più, doverti difendere dall’aggressività inattesa di chi ti ha accarezzato tutta la vita o assistere alla resa triste di chi amava vivere in battaglia.
[…] Io non giudico Wolfgang Porsche. Non ha abbandonato sua moglie. Ha una situazione economica che gli consente di affidarla alle migliori cure. Si occuperà ancora di lei e delle sue necessità, ma evidentemente ha il desiderio di non essere inghiottito da quell’oblio senza ritorno, di assaporare il presente. Non ha abbandonato sua moglie perché è la malattia della moglie che costringe a un abbandono prematuro. Quando mia madre è morta ho pianto poco. Le avevo detto ciao molto tempo prima. Non l’avevo abbandonata. L’avevo salutata. Se non lo capite, i dementi siete voi.
Demenza, la pressione alta danneggia il cervello e può causare deterioramento cognitivo. Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.
Grazie a innovative tecniche d’indagine, un gruppo di ricercatori internazionali ha individuato nove aree cerebrali che vengono gradualmente danneggiate dalla pressione sanguigna elevata
L’ipertensione è una condizione che affligge più di un miliardo di persone in tutto il mondo e le sue ripercussioni sul cervello sono state oggetto di numerosi studi. Finora però non si conoscevano i meccanismi alla base del declino cognitivo, ora identificati grazie allo studio condotto da un team di ricercatori internazionali che ha coinvolto le Università di Edimburgo e Cracovia, l’Irccs Neuromed di Pozzilli. Analizzando la risonanza magnetica cerebrale di 33mila persone inserite in un progetto della Uk Biobank, alle quali è stato affiancato un gruppo di pazienti (ipertesi e non) del Neuromed di Pozzilli, e combinandoli con i risultati di test cognitivi e genetici e con osservazioni cliniche su migliaia di pazienti, la ricerca ha permesso di individuare le strutture cerebrali che vengono gradualmente danneggiate dalla pressione arteriosa elevata, causando così il deterioramento cognitivo.
Aree del cervello
«Il nostro studio ha identificato le aree del cervello che sono potenzialmente associate all’aumento della pressione sanguigna e al deterioramento cognitivo — ha spiegato il biologo Mateusz Siedlinski —. Ciò è stato possibile grazie alla disponibilità di dati della biobanca del Regno Unito e grazie a ricerche precedenti, che hanno identificato varianti genetiche in grado di influenzare la struttura e la funzione di oltre tremila aree del cervello». Le zone cerebrali nelle quali sono stati riscontrati dei cambiamenti correlati all’ipertensione e al peggioramento della funzione cognitiva sono nove. Una di queste è chiamata putamen (si tratta di una sezione situata alla base del cervello anteriore, essenziale per le risposte agli stimoli e all’apprendimento), mentre le altre sono coinvolte nella funzione esecutiva e nella pianificazione di attività quotidiane semplici e complesse, nel processo decisionale e nella gestione delle emozioni.
Pressione minima e massima
«Abbiamo pensato che queste aree potessero essere quelle in cui l’ipertensione influisce sulla funzione cognitiva, come la perdita di memoria, la capacità di pensiero e la demenza. E quando abbiamo controllato i nostri risultati, studiando un gruppo di pazienti italiani che soffrivano di pressione arteriosa elevata, abbiamo scoperto che le aree del cervello che avevamo identificato risultavano effettivamente colpite», ha sottolineato Tomasz Guzik, docente di Medicina cardiovascolare. Un’altra scoperta di rilievo riguarda i possibili effetti distinti della pressione arteriosa sistolica (comunemente definita «massima») e di quella diastolica (o «minima»): in particolare la pressione diastolica da sola non sembra correlata a declino cognitivo ma al contrario sembra avere un effetto protettivo quando si tiene conto di quella sistolica.
Pazienti più a rischio
Pubblicato sull’European Heart Journal , lo studio è basato su dati provenienti prevalentemente dalla Uk Biobank e riguardanti pazienti bianchi di mezza età, il che rappresenta un limite — fanno notare gli autori —, perché i risultati potrebbero non valere su altri campioni demografici. «Speriamo che le nostre scoperte possano aiutare a sviluppare nuovi modi per curare il deterioramento cognitivo in persone ipertese — ha concluso Guzik —. Studiare i geni e le proteine in queste strutture cerebrali potrebbe aiutarci a capire come l’ipertensione colpisca il cervello e causi problemi cognitivi. Inoltre, osservando queste specifiche aree cerebrali, potremmo essere in grado di prevedere chi soffrirà di perdita di memoria e demenza più velocemente nel contesto dell’ipertensione e questo potrebbe permetterci di individuare terapie più efficaci per prevenire il deterioramento cognitivo nei pazienti a rischio».
Per la salute del cervello dopo i 60 anni bisogna pensare a quella del cuore (fra i 20 e i 30). Cesare Peccarisi su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.
Per evitare o quantomeno ritardare la comparsa di declino cognitivo, i primi decenni di vita sono cruciali per instaurare uno stile di vita volto a prevenire le patologie cardiovascolari o per intervenire con terapie in caso si presentino
Sviluppare da giovani coronaropatie, scompenso cardiaco, malattie della carotide o delle arterie periferiche espone a un rischio triplicato di compromissione delle funzioni cognitive con declino intellettivo e ridotta salute cerebrale nella mezza età. Lo dice uno studio appena pubblicato sulla rivista Neurology dai ricercatori della California University diretti da Xiaqing Jiang, famoso per aver sviluppato l’indice MCC per l’ictus ischemico, che predice le sequele funzionali dell’attacco in base alle condizioni generali del paziente.
Oltre tremila pazienti
I ricercatori americani hanno seguito per trent’anni 3.146 soggetti da quando avevano un’età compresa fra 18 e 30 anni fino a 55 circa. Il 5% di loro, attorno ai 48 anni, ha presentato almeno uno dei sintomi cardiocircolatori indicati all’inizio. Il danno cerebrale che tali eventi hanno determinato nel tempo è risultato evidente alla fine dello studio quando tutti i soggetti sono stati sottoposti a test neuropsicologici per valutare le loro capacità di pensiero e di memoria indagando la cognitività globale, le funzioni esecutive, cioè la capacità di portare a termine un compito, la velocità di ragionamento, la fluenza verbale e la memoria verbale ritardata, cioè la capacità di ricordare una lista di parole a distanza di dieci minuti.
Punteggi scadenti
In quest’ultimo test, per esempio, il punteggio va da un minimo di 0 a un massimo di 15: quello medio di questa prova è 8,5 punti, ma chi era stato vittima di eventi cardiovascolari non è andato oltre 6,4. Nel test che valuta la cognitività globale il punteggio va da un minimo di 0 a un massimo di 30: in questo caso il punteggio medio è stato 23,9 punti, ma chi aveva avuto problemi cardiaci non ha superato i 21,4 punti. Nella media dai 26 punti in su siamo nella normalità, ma attorno ai 22 si è nell’ambito del cosiddetto MCI, acronimo di mild cognitive impairment, cioè compromissione cognitiva lieve, la cosiddetta smemoratezza patologica che può diventare l’anticamera della demenza.
La conferma della risonanza
I ricercatori sono andati oltre la valutazione neuropsicologica e hanno voluto verificare, tramite scansione cerebrale, se erano visibili alterazioni della materia grigia: sono stati così scelti a caso 656 soggetti da sottoporre a valutazione di neuroimaging con risonanza magnetica DTI e si è visto che la materia grigia di chi aveva avuto eventi cardiovascolari era iperintensa, un tipico segno di danno vascolare cerebrale. Anche dopo aver eliminato fattori confondenti come diabete o ipertensione, è risultata evidente la connessione fra eventi cardiovascolari precoci e iperintensità e ridotta diffusività media intracerebrale, due indici di neuroimaging che depongono inequivocabilmente per un decadimento dell’integrità del tessuto cerebrale.
Entro cinque anni
Peraltro il decadimento sembra avere precisi tempi di sviluppo: nei soggetti sottoposti a due sessioni di test neuropsicologici, prima a 25 anni e poi a 30 dall’inizio dello studio, i ricercatori hanno scoperto che il triplicarsi del rischio di decadimento si esplica nell’arco di 5 anni. In chi aveva avuto problemi cardiovascolari era del 13% in confronto al 5% di chi non li aveva avuti, una percentuale in linea col decadimento legato all’età: a 65 anni i soggetti con demenza sono il 5% circa, ma a 85 anni la diagnosi di demenza di Alzheimer nella popolazione generale supera il 40%. In generale, in Europa, la prevalenza media di deterioramento cognitivo è più bassa che negli Usa: rispettivamente 5,1 - 24,5%, in confronto al 13,8 - 28,3% degli americani, verosimilmente a causa dei diversi stili di vita e alimentazione.
Un monito per tutti
Le conclusioni dei ricercatori americani suonano dunque come un monito soprattutto per i loro connazionali, ma sono valide anche per noi: per evitare o quantomeno ritardare la comparsa di declino cognitivo conservando un cervello sano per tutta la vita, i 20 e i 30 anni sono cruciali per instaurare uno stile di vita volto a prevenire le patologie cardiovascolari (attività fisica, sonno regolare, alimentazione corretta, niente fumo, alcol, droghe) o per intervenire su di esse con terapie opportune in caso si presentino (antipertensivi, ipolipemizzanti o ipocolesterolemizzanti). Molti credono che le malattie cardiovascolari colpiscano solo gli adulti, ma sono purtroppo disturbi comuni anche negli adolescenti e talora riguardano anche i bambini. Sono i soggetti in cui si può intervenire con maggior successo, regalando loro una vita di salute per il cuore e il cervello.
Che cos’è la demenza frontotemporale diagnosticata a Bruce Willis. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023.
Colpisce generalmente persone tra i 45 e i 60 anni e ha una familiarità più elevata rispetto all’Alzheimer. Ad oggi non esistono terapie
La demenza frontotemporale (FTD), diagnosticata a Bruce Willis (67 anni), comprende diverse condizioni patologiche caratterizzate dal coinvolgimento dei lobi frontale e temporale dell’encefalo, importanti per il controllo del linguaggio, del comportamento, della capacità di pensiero e in parte del movimento. È una malattia neurodegenerativa caratterizzata dal progressivo deterioramento dei neuroni dei lobi frontale e temporale. Rappresenta una delle cause più frequenti di demenza insieme all’Alzheimer. Colpisce generalmente persone tra i 45 e i 60 anni (di entrambi i sessi), ma anche soggetti più giovani o più anziani. Rispetto alla malattia di Alzheimer presenta una familiarità più elevata, legata probabilmente a una predisposizione genetica. Circa una persona su tre colpita da demenza frontotemporale ha altri casi di demenza tra i familiari.
La demenza frontotemporale è causata da un accumulo di proteine difettose all’interno delle cellule del cervello, che le danneggia e ne impedisce il corretto funzionamento, spiega IssSalute. Come altri tipi di demenza, tende ad aggravarsi con il passare del tempo, con una perdita progressiva delle capacità mentali. Quando i disturbi del comportamento costituiscono il problema principale si parla di variante frontale della demenza frontotemporale (bv-FTD), si legge sul sito dell’Associazione italiana malattia frontotemporale. Se invece è il linguaggio ad essere colpito (come nel caso di Willis), con difficoltà a denominare oggetti comuni, articolare le parole o capire ciò che viene detto, si parla di afasia non fluente progressiva (PNFA) o demenza semantica (SD). Esistono anche forme con disturbi motori caratterizzati da rallentamento, rigidità e tremori: paralisi supranucleare progressiva (PSP) e sindrome corticobasale (CBS). In rari casi la malattia frontotemporale si può presentare con riduzione della forza agli arti e in questo caso viene definita demenza frontotemporale con malattia del motoneurone (FTD-MND). Ad oggi non esistono cure per la demenza frontotemporale.
Che cos’è la demenza frontotemporale diagnosticata a Bruce Willis: sintomi, diagnosi e cure. Appena pubblicata sui social e sul sito della AFTD (The Association for Frontotemporal Degeneration) la notizia della malattia di cui soffre l'attore, l'interesse per questa forma di demenza sta crescendo. A che età i primi segnali? Ci sono terapie utili? E come si diagnostica? LAURA SALONIA su iO Donna il 17 Febbraio 2023.
A poche ore dalla notizia della nuova diagnosi di demenza frontotemporale dell’attore statunitense Bruce Willis, 67 anni, Google registra un’impennata di ricerche sull’argomento. Meno di un anno fa, l’ex moglie Demi Moore, ancora molto vicina a Willis, annunciava sui social che gli era stata diagnosticata l’afasia. E proprio a causa di questa malattia l’attore aveva deciso di lasciare il cinema. Ma ieri l’aggiornamento della famiglia con un post sui social e sul sito della AFTD (The Association for Frontotemporal Degeneration): «Le condizioni di Bruce sono progredite e ora abbiamo una diagnosi più specifica: la demenza frontotemporale (nota come FTD)». Ma che cos’è la demenza frontotemporale, quali sono i sintomi, chi è più a rischio di esserne colpito, e quali sono le possibili terapie e cure più innovative? Ce ne ha parlato Matteo Pardini, Professore Associato in Neurologia presso l’Università di Genova e il Policlinico S.Martino ed esperto in disturbi cognitivi.
Che cos’è la demenza frontotemporale
«La demenza frontotemporale è la più frequente demenza neurodegenerativa nei soggetti con meno di 65 anni. Come la malattia di Alzheimer, anche la demenza frontotemporale è data dall’accumulo di proteine patologiche a livello cerebrale, tossiche per i neuroni, specialmente a livello di due zone cerebrali specifiche, i lobi temporali e frontali, da cui il nome», spiega il Professor Pardini.
Secondo la definizione della The Association for Frontotemporal Degeneration, “Il FTD è anche spesso indicato come demenza frontotemporale, degenerazione lobare frontotemporale (FTLD) o malattia di Pick. Rappresenta un gruppo di disturbi cerebrali causati dalla degenerazione dei lobi frontali e/o temporali del cervello”. “La demenza fronto-temporale è una malattia che colpisce principalmente la parte frontale e laterale del cervello e causa anormalità del comportamento, della personalità, del linguaggio e del movimento”, aggiunge l’Istituto Superiore di Sanità. “Con il termine demenza si indicano un insieme di malattie che portano a una perdita progressiva delle capacità mentali. Sono causate da danni alle cellule nervose (neuroni) che ostacolano sempre più gravemente le normali funzioni del cervello. A differenza delle altre demenze, che affliggono generalmente persone di oltre 65 anni di età, la demenza fronto-temporale tende a manifestarsi in persone più giovani. La maggior parte dei casi accertati (diagnosticati) riguarda persone tra i 45 ed i 65 anni di età, sebbene possa manifestarsi anche in persone più giovani o più anziane. Come altri tipi di demenza, la demenza frontotemporale tende a progredire e a diventare più grave con il passare del tempo”.
Quali sono i sintomi
I sintomi causati dalla demenza frontotemporale sono moltissimi e possono includere:
cambiamenti nella personalità e nel comportamento, comparsa di apatia, mancanza di iniziativa, comportamenti impulsivi o socialmente inappropriati, egoismo o incapacità di mostrare interesse per i sentimenti altrui, trascuratezza dell’igiene personale, comportamenti ossessivamente ripetitivi, eccessi nell’alimentazione
cambiamenti progressivi del linguaggio, parlare lentamente, far fatica a pronunciare correttamente una parola, mettere le parole in ordine sbagliato in una frase, usare una parola per un’altra, avere difficoltà nella comprensione delle frasi udite o lette
peggioramento delle abilità mentali, distrarsi facilmente, avere difficoltà nella pianificazione e nell’organizzazione delle attività
problemi di memoria, tendono ad insorgere più tardi rispetto ad altre forme di demenza come, ad esempio, la malattia di Alzheimer
problemi muscolari, rigidità e lentezza nei movimenti, perdita di controllo della vescica o dell’intestino, debolezza muscolare o difficoltà nell’inghiottire. Tali disturbi tendono a presentarsi più tardivamente.
I disturbi possono non essere presenti tutti insieme e la loro gravità può essere variabile da persona a persona. Con il progredire della malattia, possono rendere la normale attività quotidiana sempre più difficile, fino ad arrivare alla perdita dell’autosufficienza.
Che cosa fare in caso di sintomi
Come raccomanda l’Istituto Superiore di Sanità, “In presenza di disturbi (sintomi) che possano far sospettare la demenza fronto-temporale, è necessario recarsi dal medico curante che potrà eseguire dei controlli per scoprirne la causa e, qualora lo ritenga necessario, prescrivere una visita dal medico specialista o in un centro specializzato. In Italia è possibile individuare le disponibilità e i diversi tipi di servizi sanitari e socio-sanitari per le persone con disturbi cognitivi e con demenze sul sito dell’Osservatorio Demenze, creato e gestito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) su mandato del Ministero della Salute”.
Come si diagnostica la demenza frontotemporale
«La diagnosi è complessa. Richiede una valutazione clinica e cognitiva approfondita da specialisti nelle demenze nonchè degli esami strumentali per vedere quali zone del cervello hanno perso volume (mediante risonanza magnetica) o hanno un metabolismo ridotto (mediante la PET cerebrale). Molto utili anche gli esami genetici, poiché spesso queste forme di demenza hanno una base genetica e la ricerca di alcune proteine patologiche su fluidi come il liquido cerebrospinale e in prospettiva il sangue», aggiunge il Professor Pardini.
Per accertare la demenza frontotemporale è possibile sottoporsi a un insieme di esami:
valutazione dei disturbi (sintomi), da eseguire in presenza del malato e di un suo familiare, o conoscente, che possa descriverne i disturbi qualora non possa farlo da solo. Chi soffre di demenza fronto-temporale, infatti, non si accorge dei cambiamenti del suo comportamento
valutazione delle abilità mentali, esame che consiste nell’esecuzione di alcune semplici attività e nella risposta ad una serie di domande
indagini strumentali al cervello (risonanza magnetica, TAC o PET), per identificare le parti del cervello danneggiate
puntura lombare, per analizzare il fluido spinale; può essere utile per distinguere la demenza fronto-temporale da altre demenze
esami del sangue, per escludere malattie che causano disturbi simili a quelli della demenza
Demenza frontotemporale e Alzheimer: che differenza c’è?
«Mentre la demenza di Alzheimer si caratterizza classicamente per difficoltà della memoria e dell’orientamento nelle prime fasi, la demenza frontotemporale si caratterizza per alterazioni del comportamento sociale e comportamentale, della capacità di pianificazione e delle capacità linguistiche. Le forme di demenza frontotemporale con disturbi del linguaggio prevalenti si chiamano afasie progressive primarie, come il caso di Bruce Willis», spiega il Professor Pardini.
L’Alzheimer è riconosciuta come la causa più comune di demenza nella popolazione over 65, ma può avere anche un esordio precoce, intorno ai 50 anni. Caratterizzata dal deterioramento irreversibile delle funzioni cognitive, questa patologia comporta sintomi che limitano fortemente le normali attività della vita di tutti i giorni fino a portare chi ne soffre a non essere più autosufficiente. Sebbene solo in Italia si stimano circa 500mila ammalati di Alzheimer, le cause scatenanti non sono ancora del tutto note così come, nonostante gli sforzi compiuti dalla scienza, non esiste ad oggi una terapia in grado di sconfiggerlo.
«Alla base sappiamo esserci un’alterazione del metabolismo di una proteina che venendo metabolizzata in modo alterato porta all’accumulo nel cervello di una sostanza neurotossica, la beta amiloide tale proteina si accumula lentamente nel cervello portando a morte neuronale progressiva. Tuttavia non è ancora stato chiarito quali siano le cause scatenanti di questo processo», spiega Cecilia Perin, Professore Associato in Medicina Fisica e Riabilitativa e responsabile dell’Unità Operativa Complessa Clinicizzata di Riabilitazione Specialistica delle Gravi Cerebrolesioni presso gli Istituti Clinici Zucchi di Carate Brianza.
Quali terapie ci sono per la demenza frontotemporale?
Come spiega la famiglia di Bruce Willis nel post Instagram pubblicato poche ore fa anche sul sito della AFTD (The Association for Frontotemporal Degeneration) «La FTD è una malattia crudele di cui molti di noi non hanno mai sentito parlare e può colpire chiunque. E al momento non c’è una cura. Per le persone sotto i 60 anni, la FTD è la forma più comune di demenza e, poiché ottenere la diagnosi può richiedere anni, la FTD è probabilmente molto più diffusa di quanto sappiamo. Oggi non esistono cure per la malattia, una realtà che speriamo possa cambiare negli anni a venire. Mentre le condizioni di Bruce avanzano, speriamo che qualsiasi attenzione dei media possa essere focalizzata sul far luce su questa malattia che ha bisogno di molta più consapevolezza e ricerca».
I progressi della ricerca ci sono
«La ricerca sulle terapie della demenza frontotemporale è molto vivace. Abbiamo alcuni farmaci che possono aiutare a controllare i sintomi comportamentali, mutuati dalla psichiatria dell’adulto. La ricerca attuale si sta concentrando su trovare approcci capaci di rallentare il decorso della malattia, per esempio agendo sulle componenti genetiche. Il paziente va poi seguito anche sul versante non farmacologico per esempio per la deglutizione attraverso la riabilitazione, e molte speranze ci sono anche per le tecniche di stimolazione cerebrale elettrica», prosegue Pardini.
I trattamenti per alleviare i disturbi
A oggi non ci sono cure per la demenza frontotemporale. Sono però disponibili alcuni trattamenti che aiutano a controllare i disturbi anche per lunghi periodi.
farmaci, utili per controllare alcuni problemi del comportamento
fisioterapia, terapia occupazionale, terapia del linguaggio, utilizzate per alleviare i problemi del movimento e attenuare gli effetti della malattia sulle attività quotidiane e sulla comunicazione
incontri con gruppi di supporto, utili per fornire indicazioni alle persone colpite dalla malattia, e ai loro familiari, sui modi di fronteggiare i disturbi della demenza
Nuove cure, ma solo per l’Alzheimer
«Dal 2000 in poi si è spinta molto la ricerca in tema di farmaci in grado di potenziare la memoria: sono nati infatti i cosiddetti farmaci anticolinesterasici – continua l’esperta – che possono ritardare o contenere il peggioramento dei sintomi. Ora la ricerca sta prendendo un indirizzo più preciso: si sta cercando di sviluppare delle molecole che possano agire sul sistema immunitario aiutando l’organismo a degradare le molecole che non vengono smaltite».
Incoraggianti a tal proposito i risultati di un recente studio realizzato dai ricercatori della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta, in collaborazione con i colleghi dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e pubblicato sulla rivista “Molecular Psychiatry”.
Agisci! I consigli dell’Association for Frontotemporal Degeneration
È questo l’appello della The Association for Frontotemporal Degeneration, una delle maggiori associazioni che si occupano della Demenza frontotemporale, pubblicato sul sito ufficiale in seguito alla notizia di Bruce Willis. L’obiettivo è quello di informare quante più persone possibile sui sintomi e le azioni per contrastare il progredire della malattia.
Informati sulla malattia e sui suoi sintomi.
FTD è anche spesso indicato come demenza frontotemporale, degenerazione lobare frontotemporale (FTLD) o malattia di Pick. Rappresenta un gruppo di disturbi cerebrali causati dalla degenerazione dei lobi frontali e/o temporali del cervello.
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iO Donna
Estratto dell'articolo di tgcom24.mediaset.it il 17 febbraio 2023.
Ha ricevuto la diagnosi di Alzheimer a soli 19 anni, un ragazzo cinese destinato ad essere il più giovane malato al mondo di questa forma di demenza senile.
Secondo quanto pubblicato sul Journal of Alzheimer's Disease dall'equipe del professor Jia Jianping, neurologo del Friendship Hospital e del National Clinical Research Center for Geriatric Diseases di Pechino, tutto è iniziato quando il ragazzo aveva solo 17 anni, con problemi di studio e concentrazione fra i banchi del liceo.
Non riusciva più a leggere come prima, faceva difficoltà a concentrarsi e a portare a termine i compiti, con evidenti deficit della memoria a breve termine. Il giovane, inoltre, non era in grado di ricordare dove riponeva i suoi effetti personali, se avesse già mangiato o bevuto e si isolava dalla famiglia e dagli amici.
[...]
Alzheimer, i primi segnali d’allarme (da non confondere con i cambiamenti dovuti all’età). Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.
Non è semplice capire se alcune piccole difficoltà che talvolta si riscontrano nella vita quotidiana sono da considerarsi un tipico cambiamento legato all’età o costituiscono campanelli dall’allarme da non sottovalutare della malattia. Il Centro Alzheimer IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia ha descritto alcuni esempi molto concreti utili per capire le differenze
Perdita di memoria su eventi recenti
Demenza e perdita di memoria che compromette le vite di tutti i giorni non sono tipiche dell’invecchiamento normale e meritano di essere portate a conoscenza di un medico. In generale il più precoce ed evidente sintomo di Alzheimer è la significativa perdita di memoria che si manifesta, soprattutto all’esordio, con difficoltà a ricordare eventi recenti. Possono poi comparire disturbi del linguaggio e difficoltà nel denominare oggetti, impoverimento del linguaggio fino alla perdita di una corretta espressione di pensieri. Un altro sintomo comune è il disorientamento spaziale e temporale. Sono frequenti anche le alterazioni della personalità, sospettosità nei confronti delle persone accusate di rubare oggetti e cambiamenti del tono dell’umore. Alcune difficoltà sono in realtà da considerarsi come un tipico cambiamento legato all’età mentre altri comportamenti potrebbero rappresentare campanelli d’allarme da non sottovalutare. Ecco come orientarsi grazie ai consigli del Centro Alzheimer IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia
Difficoltà di memoria
Deficit dell’abilità ad apprendere nuove informazioni o a richiamare informazioni precedentemente apprese
Quando potrebbe essere un sintomo di malattia:
- Dimentichi facilmente informazioni appena apprese.
- Ti capita di scordare anniversari, compleanni o appuntamenti.
- I tuoi familiari lamentano che domandi o ripeti spesso le stesse cose.
- Utilizzi molto più frequentemente appunti o altre strategie per ricordare.
- Ti succede di mettere le cose in posti inconsueti.
- Ti è capitato di non trovare il portafoglio, le chiavi o gli occhiali, neppure ripensando con attenzione all’ultima volta in cui li hai usati.
- Hai accusato altri di averti rubato questi oggetti.
Quando è un tipico cambiamento legato all’età:
- Ti è capitato, raramente, di dimenticare un appuntamento, un compleanno oppure il nome di qualcuno, ma dopo un po’, oppure concentrandoti, l’hai ricordato.
Piccoli lapsus di memoria sono normali!
Disorientamento spazio-temporale
Perdita della capacità di riconoscere luoghi o percorsi familiari; su un piano temporale, difficoltà nel percepire lo scorrere del tempo e di indicare l’ora e la data.
Quando potrebbe essere un sintomo di malattia?
- Ti è capitato di perderti sulla strada verso casa.
- Dimentichi dove sei o non ricordi come ci sei arrivato.
- Ti senti spesso confuso rispetto alla data attuale.
- Fatichi a ricordare se un evento è accaduto qualche ora o qualche giorno fa.
Quando è un cambiamento legato all’età?
- Ti capita di confondere il giorno sia, ma velocemente ti correggi.
- Fatichi a orientarti in percorsi o luoghi che non frequenti abitualmente.
- Talvolta perdi le cose di uso più frequente ma, poi, le ritrovi, ricostruendo a ritroso le ultime azioni svolte.
- Perdi gli occhiali e il telecomando di volta in volta
Deficit del linguaggio
Possono palesarsi come difficoltà ad esprimere un concetto oppure a comprenderlo.
Quando potrebbe essere un sintomo della malattia?
- Quando parli, non sempre trovi la parola corretta.
- Trovi complesso seguire una conversazione lunga.
- Ti succede di interromperti a metà e non avere idea di come proseguire nel discorso.
Quando è un tipico cambiamento legato all’età?
- A tutti può essere capitato di avere in mente una parola precisa e di sperimentare la sensazione di averla “sulla punta della lingua”!
Deficit di pianificazione o di problem solving
Difficoltà crescente nello svolgere una determinata attività, anche usuale, e/o nel trovare strategie utili a risolvere difficoltà o imprevisti.
Quando potrebbe essere un sintomo di malattia?
- Hai difficoltà a pianificare le tue giornate.
- È per te difficile seguire tutti i passaggi di una ricetta, anche quelle che hai usato tante volte.
- Fatichi a concentrarti sui compiti dettagliati, soprattutto se coinvolgono numeri (ad esempio, tenere traccia delle fatture e gestire il conto in banca).
- Alcune attività che hai sempre fatto senza problemi, ora ti appaino complesse
- Non ricordi alcune regole del tuo gioco preferito.
- Hai perso iniziativa nell’occuparti del tuo passatempo.
Quando è un tipico cambiamento legato all’età?
- Ti sei accorto di aver saltato un passaggio nell’esecuzione di una ricetta.
- Hai commesso errori occasionali non gravi di cui in seguito ti sei accorto, ad esempio, quando hai compilato il libretto degli assegni.
- Hai bisogno di aiuto per imparare ad utilizzare un nuovo elettrodomestico. Dopo qualche difficoltà iniziale, ora lo usi in autonomia.
Disturbo di critica e giudizio
Difficoltà a prendere decisioni
Quando potrebbe essere un sintomo di malattia?
- Hai preso decisioni poco opportune, come acquisti giudicati insensati dai tuoi familiari.
- Ti occupi meno del tuo aspetto estetico (es sei uscito in pigiama o con vestiti non consoni alla situazione)
Quando è un tipico cambiamento legato all’età?
- Hai preso di tanto in tanto decisioni sbagliate, ma senza gravi effetti su te stesso e la tua famiglia.
Apatia
Diminuzione della motivazione nel compiere una qualsiasi azione o comportamento. Spesso produce ritiro dalla vita sociale
Quando potrebbe essere un sintomo di malattia?
- Non ti dedichi con lo stesso entusiasmo di sempre a progetti di lavoro o al tuo hobby preferito.
- Ti manca la motivazione ad iniziare conversazioni e a frequentare gli amici di sempre.
- Ti ritrovi a guardare la televisione o dormire più del solito.
Quando è un tipico cambiamento legato all’età?
- A volte ti senti stanco e oppresso dal lavoro, dalla famiglia e dagli obblighi sociali, ma non per questo li trascuri o abbandoni definitivamente.
Cambiamenti dell’umore e della personalità
Quando potrebbe essere un sintomo della malattia?
- Ti senti frequentemente confuso, triste o ansioso.
- Fuori dal tuo ambiente familiare le sensazioni di insicurezza e di timore aumentano.
- I tuoi familiari e ti fanno notare cambiamenti nella tua personalità.
Quando è un tipico cambiamento legato all’età?
- Tendi a costruirti una routine e ad irritarti, se questa viene in qualche modo alterata.
Difficoltà visive
Non secondarie a patologie dell’occhio, quali cataratte, glaucoma.
Quando potrebbe essere un sintomo di malattia?
- Trovi difficile leggere le parole scritte, a riconoscere le lettere o percepire differenze tra i colori.
- Non è facile giudicare le relazioni spaziali tra gli oggetti e le distanze.
Quando è un tipico cambiamento legato all’età
- Sono presenti alcune difficoltà di vista legate all’invecchiamento, ma con il giusto paio di occhiali o una visita dall’oculista, il problema si risolve!
Alzheimer, tutti dimentichiamo qualcosa a volte. Ma quando è il momento di chiedere aiuto? Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2023.
Alcune dimenticanze sono accettabili e fanno parte dei disturbi legati all’età; altre volte entrano in gioco in realtà stanchezze e distrazione. Il declino cognitivo lieve è reversibile «aggiustando» gli stili di vita
Devo andare a destra o sinistra? Dopo aver percorso per anni la stessa strada può effettivamente sorprendere il fatto di trovarsi a dubitare sulla via da seguire e dunque sulla reale portata di una dimenticanza: sarà il segno di un declino cognitivo dovuto all’età o l’inizio di qualcosa di più grave come la malattia di Alzheimer o altre patologie neurodegenerative? Come succede per tutto il corpo anche le cellule cerebrali invecchiano con l’età: con meno connessioni tra i neuroni qualche defaillance di memoria potrebbe essere dovuta a un fisiologico invecchiamento cerebrale anche se, merita sottolinearlo, non tutti i vuoti di memoria sono dovuti ai cambiamenti legati all’età dei nostri neuroni. In molti casi entrano in gioco altri fattori più banali come la stanchezza, l’ansia, la distrazione.
Quali sono le dimenticanze accettabili e quali no
Un certo grado di dimenticanza può essere giudicato normale: troppe informazioni non necessarie rischiano di rallentare o ostacolare il recupero di ricordi specifici. Non siamo noi a decidere che cosa ricordare (sfortunatamente) ma è il cervello che lo fa e in genere preferisce informazioni sociali (come ad esempio gli ultimi pettegolezzi) alle informazioni astratte (come formule matematiche). La perdita di memoria diventa tuttavia un problema quando comincia a influenzare l’andamento della vita quotidiana. «Può succedere di essere sovrappensiero e di ritrovarsi in macchina, lungo una strada che si percorre automaticamente tutti i giorni, e andare verso il lavoro invece che fermarsi in stazione, meta che in realtà si voleva raggiungere. Un pensiero pervasivo può interferire e farci sbagliare, ma non è il caso di allarmarsi» chiarisce Alessandro Padovani, direttore della Clinica di Neurologia all’Università di Brescia. «Piuttosto può alimentare l’idea che ci sia qualcosa che non va- dice - il fatto di dimenticare il perché ci si trova in auto o non essere in grado di recuperare la via del ritorno se ci sono interruzioni stradali, perché non si “riaggiustano” le coordinate geografiche».
La memoria spaziale e la memoria associativa
La malattia di Alzheimer, così come altre malattie neurodegenerative, è molto insidiosa e ci vogliono anni prima che il disturbo diventi così invalidante da portare il paziente, spesso tardivamente, dal medico di famiglia o dallo specialista. «I primi disturbi interessano la memoria spaziale, ovvero quella che usiamo per “navigare” nello spazio e la cosiddetta memoria binding, ovvero quella che utilizziamo per legare due informazioni, ad esempio il volto di una persona al suo nome: sono infatti due tipi di memoria che subiscono deficit in seguito ad alterazioni neuropatologiche a carico dell’ippocampo e del precuneus» chiarisce Padovani, che è anche neo presidente eletto della Società italiana di Neurologia (in carica dall’ottobre 2023). Nella maggior parte dei pazienti di Alzheimer i primi disturbi riguardano la capacità di apprendere nuovi percorsi o nuove associazioni di nomi a persone. Come sottolinea Padovani alcuni persone hanno riferito di aver avuto problemi ad orientarsi per diversi giorni una volta arrivati alla casa al mare dopo un’assenza di un anno. «Apprendere un nuovo itinerario in una nuova realtà– spiega il neurologo - impone una certa capacità di legare aspetti diversi tra di loro in una nuova dimensione temporale per creare il cosiddetto percorso. La stessa cosa succede con i nomi delle persone: apprendere nuovi nomi per nuove persone non è affatto facile e non è automatico. I pazienti con Alzheimer riconoscono una persona di dominio pubblico, ma non sono in grado di dirne il nome. Quando chiedo una cosa che sembra banale come il nome del papa molti pazienti fanno fatica a ricordarlo o non lo ricordano affatto e questo non è un disturbo accettabile, ma il segnale che qualcosa davvero non va».
Gli aspetti confondenti
La difficoltà di capire se ci si trova di fronte a un declino cognitivo che potrebbe rappresentare il prodromo di una malattia neurodegenerativa oppure a disturbi legati all’età è rappresentata dal fatto che i 2/3 dei pazienti comincia a manifestare disturbi di memoria in età avanzata, a partire dai 75 anni, quando possono subentrare altre problematiche legate all’età, come disturbi del sonno o l’assunzione di farmaci che possono interferire con le capacità neurologiche. «L’età, soprattutto nelle fasi più avanzate della vita – sottolinea Padovani - determina un disturbo di memoria che apparentemente è simile al declino cognitivo ma che riguarda la capacità di apprendere nuove procedure o nuovi schemi come ad esempio imparare ad usare un nuovo cellulare o a usare uno SPID: in altre parole ad utilizzare correttamente tutte le informazioni che compongono una memoria e le strategie utili a rafforzare la traccia». Non è del tutto facile distinguere clinicamente i due disturbi, soprattutto quando in età avanzata si presentano simultaneamente. «Leggiamo un libro in modo quasi automatico – fa un altro esempio Padovani – ma lo ricorderemo meglio se poniamo maggiore attenzione alla storia, se riflettiamo sulla trama o ci appuntiamo qualche dettaglio. Con l’età questa abilità di registrare e di mettere in atto strategie per ricordare meglio gli eventi si fa meno efficace e può succedere di non ricordarsi completamente un libro o un film perché non si è messa in atto alcuna strategia per farlo, ma non è un segnale preoccupante perché è una problematica strettamente correlata all’invecchiamento e non ha niente a che fare con l’Alzheimer».
Non tutto è perduto
Rendersi conto che la memoria non funziona più come una volta è un passo inziale, avere una diagnosi di lieve decadimento cognitivo è un elemento in più che tuttavia potrebbe essere visto come un’arma a doppio taglio perché le persone anziane rischiano di vivere con ansia e preoccupazione il fatto di scoprire che le loro defaillance di memoria sono anormali e potrebbero (ma non è certo) trasformarsi in demenza. Andare incontro a un declino cognitivo lieve è infatti correlato a un aumento del rischio (da tre a cinque volte) di sviluppare in futuro malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. «Ogni anno circa il 10-15% di persone con una diagnosi di decadimento cognitivo lieve svilupperà demenza; un altro 15% lo farà dopo due anni, un altro 15% dopo tre: osserviamo una certa evoluzione della malattia che interessa un numero crescente di persone a distanza di tempo» puntualizza Padovani. Ma non si tratta di un destino ineluttabile. Nelle fasi precoci si può fare ancora molto per rallentare o addirittura invertire la tendenza. «Abbiamo dati convergenti sul fatto che migliorare gli stili di vita aiuta a rallentare l’evoluzione della malattia» aggiunge il neurologo. «Curare meglio l’ipertensione, il diabete, trattare una depressione, migliorare la dieta, dormire meglio, camminare di più, eliminare il fumo e l’alcol sono tutte strategie utili ad allungare la fase di declino senza entrare in una fase di aggravamento che a distanza di tempo risulta compatibile con una demenza. Addirittura il 20% dei pazienti con lieve decadimento cognitivo riacquista le abilità perdute “aggiustando” stili di vita scorretti». Per una quota di pazienti, dunque, il declino cognitivo può essere reversibile. «Nelle persone con disturbi gastrici e pancreatici, in particolare se fanno un uso prolungato di gastroprotettori – conclude Padovani - il decadimento cognitivo può essere in parte legato ad una riduzione dell’assorbimento della vitamina B12: in questi casi, quando correttamente accertati, può essere utile una supplementazione di vitamina B12 , meglio se in combinazione con acido folico e omega 3con Omega 3».
(ANSA il 6 gennaio 2023) - La Food and Drug Administration americana autorizza l'atteso farmaco per l'Alzheimer di Eisai e Biogen. Negli studi eseguiti il Leqembi ha mostrato risultati promettenti per la cura della malattia, da cui sono affetti circa 6,5 milioni di americani, con un evidente rallentamento della malattia. La Fda ha garantito al farmaco il via libera accelerato e questo significa che le due società dovranno condurre altri studi.
L’Alzheimer si può fermare (se diagnosticato in tempo) con un nuovo farmaco studiato anche a Bari. Logroscino: cambia l’approccio alla malattia. La molecola approvata dalla Fda: allo studio ha partecipato anche l’Università di Bari. DANIELE AMORUSO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Gennaio 2023
La ricerca contro l’Alzheimer è a un punto di svolta. Una nuova molecola, lecanumab, ha ottenuto l’approvazione accelerata dell’agenzia americana del farmaco, l’Fda, dimostrando di avere, se somministrata nelle fasi iniziali, la capacità di rallentare sensibilmente l’evoluzione della malattia.
Il nuovo anticorpo agisce direttamente sul principale meccanismo di decadimento cerebrale. Per la prima volta abbiamo un farmaco che dimostra di potere spazzare via l’amiloide, la sostanza che il cervello non riesce più a smaltire e che blocca l’attività dei neuroni.
Lecanemab è dunque non un semplice sintomatico, ma il primo vero farmaco «causale» anti Alzheimer e come tale ha ottenuto il percorso più rapido di approvazione da parte delle autorità americane, superando in pieno l’esame dello studio Clarity Ad.
A questo trial internazionale ha contribuito anche l’équipe del professor Giancarlo Logroscino dell’Università di Bari. «La molecola approvata da Fda, il Lecanemab, - spiega Logroscino, che ha creato all’ospedale Panico di Tricase uno dei più importanti Centri Alzheimer italiani - rappresenta il primo trattamento capace di intervenire sul meccanismo che produce la malattia di Alzheimer, che si manifesta quando il cervello è investito da una specie di pioggia di sabbia, costituita da proteine che il cervello stesso non riesce più a metabolizzare. Noi stiamo lavorando dal 2015 al più alto livello, nei trials clinici internazionali che studiano esattamente questi meccanismi e abbiamo avuto un ruolo importante anche nello studio Clarity, che ha sperimentato l’efficacia di lecanumab»...
Cervello, ecco perché scordiamo nomi e cose: cosa succede davvero. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 15 gennaio 2023
Capita a chiunque ogni giorno di avere piccole lacune di memoria, di non ricordare il nome di una persona, di dimenticare dove si sono messe le chiavi o parcheggiata l'auto, o di perdere il filo di una conversazione, e sebbene tali disturbi memonici tendano a farsi più frequenti con il passare degli anni, tale fenomeno, molto diffuso, non è per forza l'annuncio di una demenza in arrivo. La capacità di ricordare tutto e in qualunque momento viene meno durante i periodi stressanti ed emotivamente coinvolgenti, quando si è in ansia e si dorme poco, quando si è sempre connessi o iper-performanti, quando si è costantemente sollecitati da stimoli e informazioni che impegnino o affatichino l'attenzione, ed è naturale che spesso il cervello smetta di focalizzare situazioni o ricordi non ritenuti importanti o significativi che possono essere messi in pausa. A volte capita di non ricordare anche le cose più semplici o quotidiane, ci si dimentica sempre qualcosa dalla lista della spesa odi richiamare una persona, ed entro certi limiti questi leggeri vuoti di memoria sono da considerarsi normali e sono stati definiti "Doorway Effect", ovvero un effetto soglia che si verifica quando una persona viene distratta da un altro evento o pensiero che si inserisce in quello primario, obbligando la mente a fare un salto o una scelta di priorità.
Ad interrompere il flusso di pensieri, e di conseguenza determinare questi piccoli vuoti, sarebbe lo stesso meccanismo mentale che si verifica quando si interrompe involontariamente un movimento, di fronte a un ostacolo o ad un nuovo ricordo, anche se resta da capire perché questo accada. I vuoti di memoria sono più frequenti nelle persone affette da diabete, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, circolatorie e metaboliche, oltre che da stati emotivi traumatici e da depressione, e non sempre chi soffre di tali disturbi ne ha consapevolezza, mentre è frequente che se ne accorgano i familiari, anche se tali deficit mnemonici hanno mille sfumature e non coinvolgono affatto la sfera cognitiva.
IL LIMITE
Ma allora quando bisogna preoccuparsi e consultare un neurologo? Le malattie neurodegenerative, che implicano la morte a cascata di cellule cerebrali, e colpiscono ogni anno in Italia oltre 250mila soggetti, spesso insorgono con amnesie frequenti, ravvicinate e sempre più importanti, ma queste sono sempre associate a cambiamenti della sfera comportamentale ed affettiva, con deflessioni evidenti delle semplici funzioni, del tono dell'umore, con impoverimento del linguaggio o la difficoltà a risolvere i comuni problemi del quotidiano.
La demenza e le sue molte forme cliniche collegate purtroppo in Italia sono un problema sempre più diffuso, visto anche l'aumento dell'età media della popolazione considerata un fattore di rischio per tali patologie, ma non vanno affatto confuse con le situazioni fisiologiche dei vuoti di memoria transitori che non sono da considerarsi l'inizio di malattie neurologiche, bensì situazioni fisiologiche dovute ai motivi suddescritti. Il declino cognitivo ha sempre una causa patologica, mentre i transitori deficit di memoria spesso dipendono dallo stile di vita frenetico che si conduce, oltre a numerosi altri fattori, di tipo emotivo e psicologico.
Quando per esempio una preoccupazione o un disturbo d'ansia prende il sopravvento e diventano un fardello pesante da sopportare, ecco comparire durante la giornata diverse piccole amnesie, con un difetto selettivo di fissazione per cose non ritenute importanti o fondamentali, una forma difensiva del cervello che interrompe di colpo il flusso dei pensieri, provocando il vuoto mnemonico transitorio, per riabilitare o ristabilire equilibrio e connessioni nei suoi neuroni sottoposti a stress.
UNO SU TRE
Sono forme cosiddette funzionali, assolutamente comuni e per le quali non bisogna preoccuparsi, essendo presenti in oltre un terzo della popolazione mondiale, e che nulla hanno a che fare con le capacità cognitive, e queste lievi smemoratezze non devono allarmare, poiché, sebbene attribuite a stati emotivi, alla diminuzione di interesse oppure all'età, in realtà nella maggioranza dei casi la reale causa resta sconosciuta, come lo è ancora gran parte della azione e vitalità della sconfinata memoria encefalica. Talvolta l'aspetto vacillante di ricordarsi nomi e cose può essere collegato alle sindromi da fatica cronica, all'intestino irritabile con difficoltà digestive oppure all'assunzione di farmaci contro l'insonnia, contro il dolore fisico, o contro la depressione (le benzodiazepine hanno potenti effetti amnesici), tutti medicinali che rallentano ogni funzione fisiologica e metabolica inclusa quella mnemonica, sintomo che di norma viene superato con la sospensione del farmaco. Per mantenere allenata la mente e conservare una buona riserva cognitiva, per cercare di restare sempre iper concentrati e tenaci nei propri pensieri, bisognerebbe imparare a fare quello che il nostro cervello attua più volte sia di giorno che di notte, e che bene ha descritto il poeta Eugenio Montale, ovvero : "Il primo compito di una buona memoria è saper dimenticare", perché, come accade spesso nella vita quotidiana, fare pulizia di pensieri e ricordi è l'unica terapia utile ed infallibile per ricordare meglio solo quello che si vuole.
Il primo farmaco contro l’Alzheimer approvato negli USA, ma ci sono molti dubbi. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 10 gennaio 2023.
Il processo di approvazione della FDA (Food and Drug Administration) risulta essere “pieno di irregolarità”: è questa una delle osservazioni contenute in un recente rapporto del Congresso degli Stati Uniti (l’organo legislativo del Governo federale) con cui è stata posta la lente di ingrandimento sul farmaco per l’Alzheimer denominato Aduhelm, che nel giugno del 2021 ha ricevuto l’ok da parte dell’organo statunitense. Un via libera controverso nei cui confronti non possono non esservi dubbi e perplessità, visto che i problemi emersi dal rapporto sembrano alquanto rilevanti. “I documenti e le informazioni ottenute dai Comitati, inclusa la revisione interna della FDA, mostrano che il processo di revisione e approvazione di Aduhelm da parte dell’agenzia era altamente atipico e si discostava dalle linee guida e dalle procedure della FDA in ambiti significativi”: questo si legge infatti nel rapporto – che precisamente contiene i risultati di un’indagine di due Comitati del Congresso americano – in cui vengono poi illustrate le vicende alla base di tale affermazione. Tra queste, certamente da menzionare è la collaborazione tra FDA e Biogen nel processo di approvazione del farmaco, che “ha superato la norma per alcuni aspetti”.
Nel giugno 2019 – dopo che Biogen aveva inizialmente interrotto gli studi clinici di Aduhelm a causa di un’analisi che aveva considerato inutile proseguire le ricerche – la FDA e Biogen hanno infatti avviato un “gruppo di lavoro” sul tema, dando vita ad una collaborazione che sembra alquanto eccessiva: il rapporto infatti documenta oltre 115 incontri, chiamate e scambi di mail avvenuti tra l’azienda e il personale dell’agenzia tra il luglio del 2019 e quello del 2020. Successivamente, la FDA ha collaborato con Biogen per redigere un documento da presentare al comitato consultivo indipendente della stessa agenzia, riunitosi nel novembre 2020. Una riunione in cui nessuno dei membri del comitato ha sostenuto che gli studi presentassero una forte evidenza a sostegno dell’efficacia del farmaco nei confronti dell’Alzheimer. Una decisione che però non ha impedito al farmaco di ottenere l’approvazione, visto che – dopo che per nove mesi la FDA aveva deciso di rifarsi al “percorso di approvazione tradizionale” – ha “cambiato bruscamente rotta e ha concesso l’approvazione in base al percorso di approvazione accelerato“, che prevede requisiti meno rigorosi: del resto, l’autorizzazione del farmaco si basa sull’evidenza che esso possa ridurre le placche cerebrali considerate un segno distintivo dell’Alzheimer, ma non sulla prova che esso rallenti la progressione della malattia. Per non parlare poi del fatto che “la FDA ha approvato Aduhelm per il trattamento di ‘persone con malattia di Alzheimer'”, definizione con cui viene rappresentata “una popolazione molto più ampia di quella oggetto degli studi clinici di Biogen”.
Il rapporto, inoltre, si sofferma altresì sui processi che hanno portato alla determinazione del prezzo del farmaco e alla sua commercializzazione, ed anche in questo caso ciò che emerge sembra essere tutt’altro che rassicurante. Infatti, viene sottolineato che “i documenti ottenuti dai Comitati mostrano che Biogen considerava l’Aduhelm un’opportunità finanziaria senza precedenti, stimando un potenziale picco di entrate di 18 miliardi di dollari all’anno, e ha sviluppato piani di lancio e marketing aggressivi per massimizzare le entrate durante tutto il ciclo di vita del farmaco”. “Questi documenti interni mostrano che Biogen ha inizialmente fissato il prezzo di Aduhelm a 56.000 dollari all’anno”, si legge inoltre nel rapporto, che non solo lo definisce un “prezzo ingiustificatamente alto” ma precisa altresì come tutto ciò sia stato fatto “nonostante la mancanza di benefici clinici dimostrati in un’ampia popolazione di pazienti e l’impatto finanziario previsto sui pazienti e sul programma Medicare”, l’assicurazione sanitaria federale. Nel rapporto, infatti, viene specificato che la società ha fissato il prezzo iniziale – ridotto solo dopo diversi mesi a 28.000 dollari – pur sapendo che avrebbe costituito un problema importante per Medicare.
Venendo poi alle reazioni dei diretti interessati, mentre da un lato Biogen ha affermato di «sostenere l’integrità delle azioni intraprese», dall’altro la FDA ha dichiarato – secondo quanto riportato dal The Guardian – di aver già «iniziato ad attuare modifiche coerenti con le raccomandazioni del comitato». Affermazioni rassicuranti dunque, se non fosse che proprio negli scorsi giorni l’organo statunitense ha approvato in maniera accelerata il Leqembi, un altro farmaco anti-Alzheimer prodotto da Biogen e dalla società biofarmaceutica Eisai sul quale parimenti sembrano esservi dubbi. Come sottolineato all’interno di un articolo pubblicato dalla rivista scientifica Nature, infatti, a gettare un’ombra sul via libera al farmaco sono stati alcuni decessi segnalati e potenzialmente legati al trattamento. La nuova approvazione, insomma, non sembra rappresentare il modo migliore con cui rispondere alle evidenze emerse dal rapporto. [di Raffaele De Luca]
Alzheimer, approvato negli Usa un nuovo farmaco che rallenta il declino cognitivo: ma funziona davvero? Ed è sicuro? Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.
Leqembi, un anticorpo monoclonale, riceve l’approvazione accelerata della Fda: riduce le placche amiloidi nel cervello, ma solleva dubbi per gli importanti effetti collaterali. L’esperto: «I benefici clinici sono modesti»
La Fda (food and drug administration) statunitense ha concesso l’approvazione accelerata per un nuovo farmaco contro l’Alzheimer, il Leqembi (lecanemab-irmb).
Il farmaco, un anticorpo monoclonale, promette di rallentare l’avanzamento della malattia di Alzheimer se assunto nella fase precoce, quando cioé la malattia si manifesta ancora in modo lieve.
I dati dello studio di fase 3 (anticipati a settembre con un comunicato stampa delle due aziende che lo hanno sviluppato, Eisai e Biogen, che peraltro aveva fatto impennare le loro azioni) erano molto attesi e sono da poco stati pubblicati sul New England Journal of Medicine da un gruppo di scienziati dell’Università di Yale.
risultati di questi studi, secondo il comunicato della Fda, «supportano la decisione di concedere l’approvazione accelerata». Eisai ha comunicato che il prezzo di listino per Leqembi sarà 25.500 dollari all’anno (poco meno di 25 mila euro), ma un’organizzazione indipendente che valuta il valore dei medicinali negli Stati Uniti (l’Institute for Clinical and Economic Review) ha giudicato che il prezzo è troppo elevato e non soddisfa le tipiche soglie del rapporto costi-benefici.
Secondo gli autori del lavoro, però, «il lecanemab è stato associato a un minor declino clinico delle capacità cognitive e funzionali rispetto al placebo, ma sono stati registrati effetti avversi e saranno necessari studi più lunghi per determinare l’efficacia e la sicurezza del farmaco». Nel foglietto illustrativo del farmaco sono segnalati i possibili effetti avversi gravi come edema cerebrale e emorragia cerebrale, in particolare per chi utilizza farmaci fluidificanti per il sangue o chi presenta una particolare mutazione genetica.
Il farmaco, ha dichiarato Eisai, sarà lanciato al costo annuale di 26.500 dollari.
o studio
Il farmaco, somministrato per infusione ogni due settimane, è stato sperimentato per 18 mesi su 1.795 adulti tra i 50 e i 90 anni colpiti da un deterioramento cognitivo lieve: a 900 volontari è stato somministrato lecanemab, all’altra metà un placebo (sostanza senza principi attivi).
I dati del test evidenziano che i pazienti che avevano ricevuto il lecanemab hanno poi fatto registrare un declino cognitivo del 27% più lento rispetto ai pazienti trattati con placebo. Su una scala di valutazione della demenza, che valuta le persone da 0 a 18 sulla memoria, sulla risoluzione dei problemi e su altri compiti, i pazienti trattati con il farmaco hanno ottenuto però solo 0,45 punti in meno (minor progressione).
Nel dettaglio all’inizio dello studio entrambi i gruppi avevano una «valutazione di demenza clinica» con punteggio 3,2, coerente con l’Alzheimer precoce. Dopo 18 mesi il punteggio è aumentato di 1,21 punti nel gruppo lecanemab e di 1,66 nel gruppo placebo. Il declino cognitivo si è registrato in entrambi i gruppi, ma è stato più lento tra chi ha assunto lecanemab.
Gli entusiasmi e la cautela
È la prima volta che in una sperimentazione clinica con un farmaco destinato all’Alzheimer viene registrato un rallentamento del declino cognitivo ed è questo il motivo dell’approvazione accelerata da parte dell’Fda.
Per gli autori, guidati da Christopher van Dyck, direttore del Yale Alzheimer’s Disease Research Center, questo risultato potrebbe significare mesi in più per riconoscere coniugi, figli e nipoti, ritardando il declino cognitivo e funzionale, proprio come succede con i trattamenti che prolungano la vita di coloro che sono colpiti da malattie terminali.
Tuttavia tra la comunità scientifica c’è molta cautela perché questa riduzione è poco marcata e non è effettivamente chiaro se abbia risvolti quotidiani che possano davvero essere notati dai pazienti e dai loro familiari.
«Il risultato è certamente statisticamente significativo a favore del farmaco ma di scarsa rilevanza dal punto di vista clinico e potrebbe non significare molto per i pazienti spostare il punteggio da un 3,2 di partenza a un 4,4 con il farmaco e un 4,8 con placebo, tenuto conto anche del numero enorme di pazienti coinvolto, del periodo abbastanza lungo dello studio, un anno e mezzo, e degli importanti effetti collaterali» rileva il professor Alberto Albanese, responsabile dell’Unità di Neurologia all’istituto Humanitas di Milano e professore di Neurologia all’Università Cattolica di Milano.
«Lo studio è ben fatto ed è incoraggiante - commenta Alfredo Berardelli, professore di neurologia all’università La Sapienza di Roma e presidente della Società Italiana di Neurologia - e anche se non offre un dato risolutivo e va preso con la giusta prudenza è lo stimolo giusto che serve per proseguire nella ricerca: nella scienza gli avanzamenti si fanno così, a piccoli passi».
Le placche amiloidi
Il farmaco prende di mira l’amiloide , una proteina che si accumula nel cervello formando le tipiche placche, segno distintivo della malattia degenerativa. In un numero più ristretto di pazienti (688) è stato misurato il carico di placche amiloidi nel cervello dei volontari grazie a tecniche di imaging e si è vista un’importante riduzione dell’amiloide tra chi è stato trattato con lecanemab.
All’inizio dello studio, il livello medio di amiloide dei partecipanti era di 77,92 centiloidi nel gruppo lecanemab e di 75,03 centiloidi nel gruppo placebo. Dopo 18 mesi il livello medio di amiloide è sceso di 55,48 centiloidi nel gruppo lecanemab ed è salito di 3,64 centiloidi nel gruppo placebo. «Dimostrare che con una terapia si può contrastare l’accumulo di sostanze proteiche è in teoria un risultato importante. I precedenti studi avevano solo fatto vedere che con anticorpi monoclonali si rallentava la formazione di placche» sottolinea Alfredo Berardelli. «Colpisce che ci sia stata una riduzione così importante di placche amiloidi - aggiunge Alberto Albanese - ma la terapia avrebbe dovuto essere “spazzina”, e portare via tutte le placche amiloidi che invece evidentemente continuano a formarsi, seppur più lentamente e con risvolti clinici ancora da approfondire».
Il timore di effetti avversi
Dal momento che dal punto di vista clinico le differenze rispetto al placebo non appaiano così significative molti esperti si stanno chiedendo se valga la pena offrire trattamenti di questo tipo, molto costosi e con importanti effetti avversi come edemi cerebrali (13% dei pazienti contro il 2% di chi ha assunto placebo) e emorragie cerebrali (17% dei pazienti rispetto al 9% di chi ha assunto il placebo).
Circa il 6,9% dei partecipanti allo studio nel gruppo lecanemab ha interrotto la sperimentazione a causa di eventi avversi. Lo studio non ha riportato una diversa incidenza di decessi: sei tra gli 898 pazienti trattati con lecanemab e sette tra gli 897 pazienti trattati con placebo. Gli autori hanno scritto che nessun decesso è stato considerato correlato al lecanemab e che in nessun caso si è verificato edema o sanguinamento cerebrale.
Tuttavia negli ultimi mesi ha fatto discutere la morte di tre pazienti per edema ed emorragia cerebrale avvenuti dopo i 18 mesi di sperimentazione clinica (motivo per cui non sono stati inseriti nel report da poco pubblicato). Non è noto se i due pazienti deceduti avessero assunto il farmaco o il placebo, tuttavia tutti i partecipanti al termine dei 18 mesi di osservazione hanno scelto di assumere il farmaco e partecipare in modo attivo alla sperimentazione che proseguirà almeno altri cinque anni. Una paziente era una donna di 65 anni che aveva subito un ictus trattato con anticoagulanti, prima di morire per una emorragia celebrale. Un neuropatologo che ha condotto un’autopsia su richiesta del marito della donna ha riferito alla rivista STAT che il lecanemab probabilmente aveva indebolito i suoi vasi sanguigni rendendoli vulnerabili. Il secondo paziente deceduto era un ottantenne che stava assumendo un anticoagulante per un problema cardiaco e poco prima di morire aveva avuto un’ischemia ed era caduto più volte.
In un comunicato stampa Eisai, citando la storia clinica dei due pazienti ha concluso, che le due morti non potevano essere collegate all’assunzione di lecanemab, sollevando però numerose perplessità da parte degli esperti. Nel mondo reale è probabile che i pazienti soffrano di più malattie (oltre che di Alzheimer) e che debbano assumere fluidificanti per il sangue, per questo preoccupano gli effetti avversi. «La domanda da porsi è se valga la pena, facendo un’attenta analisi su costi e benefici, offrire questo farmaco ai pazienti. Su questo punto lo studio non fa affermazioni , gli autori concludono che serviranno altre indagini, ma uno studio che ha coinvolto quasi 1800 persone è già davvero molto ampio» riflette Albanese
Il progresso biologico e le difficoltà sui benefici clinici
Come spesso accade nella ricerca sulle malattie neurodegenerative, in ambito biologico si vedono importanti risultati, che però non si traducono ancora in benefici clinici: «Si fa sempre più fatica - conclude il professor Albanese - a declinare queste scoperte in terapie efficaci, che diano risultati tangibili per i pazienti. Sta emergendo in modo sempre più chiaro uno iato tra gli aspetti biologici e quelli clinici per le malattie neurologiche. Negli studi, come è successo in quest’ultimo sul lacanemab, vediamo spesso che i meccanismi biologici migliorano altrettanto, si riducono gli “indicatori di degenerazione”, ma poi i pazienti clinicamente non migliorano, e questo è molto frustrante. Siamo in questa fase transitoria della ricerca, ma non è una brutta notizia. Arrivare qui è un importante passo in avanti se pensiamo che 5 anni fa non avevamo alcun risultato o effetti modestissimi. Questa ricerca rappresenta uno step che non va sottovalutato».
Il Parkinson.
Farmaci e terapie. Morbo di Parkinson, gli occhi "predicono" la malattia 7 anni prima. Grazie alle scansioni oculari sulla retina è possibile scovare segni precoci della malattia anche molti anni prima che si manifesti: ecco la scoperta degli scienziati e le implicazioni in campo medico. Alessandro Ferro il 22 agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Cosa dice la ricerca
L'importanza degli occhi
"Importante strumento di pre-screening"
Altri passi in avanti nella lotta al morbo di Parkinson: alcuni ricercatori dell'University College di Londra e con l'aiuto dei colleghi del Moorfields Eye Hospital hanno scoperto che questa terribile malattia potrebbe essere "predetta" anche sette anni prima della sua comparsa grazie ad analisi approfondite agli occhi, nel caso specifico con screening sulla retina.
Cosa dice la ricerca
Cambiamenti dello spessore retinico interno nella malattia di Parkinson prevalente e incidente: un potenziale biomarcatore con valore prognostico?, è il titolo del lavoro pubblicato sulla rivista scientifica Neurology. Il team di ricerca avrebbe quindi individuato specifici marcatori che indicano la presenza della malattia di Parkinson in media sette anni prima della presentazione clinica. "È la prima volta che qualcuno ha mostrato questi risultati diversi anni prima della diagnosi, e questi risultati sono stati resi possibili dal più grande studio fino ad oggi sull'imaging retinico nella malattia di Parkinson", scrivono i ricercatori.
Il risultato è stato ottenuto grazie alle scansioni oculari per mezzo dell'intelligenza artificiale: l'utilizzo di questi dati ha svelato anche segnali di altre condizioni neurodegenerative oltre all'Alzheimer tra cui la sclerosi multipla e, più recentemente, la schizofrenia in un campo di ricerca emergente chiamato "oculomica".
L'importanza degli occhi
Gli esperti del settore sanno già da tempo che gli occhi possono essere come una sorta di "finestra" diretta sull'organismo umano perché in grado di fornire una visione diretta di molti aspetti della nostra salute. Le immagini ad alta risoluzione della retina sono diventati di routine grazie a una scansione tridimensionale conosciuta come "tomografia a coerenza ottica" (Oct) che viene ampiamente usata nelle cliniche oculistiche e negli studi ottici di alto livello. "In meno di un minuto, una scansione oct produce una sezione trasversale della retina (la parte posteriore dell'occhio) con dettagli incredibili, fino a un millesimo di millimetro", spiegano i ricercatori del Moorfields Eye Hospital.
Oltre alla salute degli occhi, le immagini fornite dalla retina vanno molto oltre perché si tratta "dell'unico modo non invasivo per visualizzare strati di cellule sotto la superficie della pelle". Grazie all'apprendimento automatico derivato dall'intelligenza artificiale, i calcolatori sono in grado di scovare informazioni nascoste su tutto il corpo partendo soltanto da queste immagini. Ecco, quindi, cos'è l'oculomica: la capacità di far venire a galla questo enorme potenziale.
"Importante strumento di pre-screening"
"Questo lavoro dimostra il potenziale dei dati oculari, sfruttati dalla tecnologia per rilevare segni e cambiamenti troppo sottili per essere visti dagli esseri umani. Ora possiamo rilevare segni molto precoci del Parkinson, aprendo nuove possibilità di trattamento", ha dichiarato Alastair Denniston, consulente oftalmologo presso gli University Hospitals Birmingham, professore all'Università di Birmingham e membro del Moorfields Eye Hospital. "Continuo a essere stupito da ciò che possiamo scoprire attraverso le scansioni oculari. Anche se non siamo ancora pronti a prevedere se un individuo svilupperà il Parkinson, speriamo che questo metodo possa presto diventare uno strumento di pre-screening per le persone a rischio di malattia", ha dichiarato Siegfried Wagner, ricercatore clinico presso il Moorfields Eye Hospital, ricercatore dell'UCL Institute of Ophthalmology e ricercatore principale di questo e altri studi sulla materia. "Trovare segni di una serie di malattie prima che emergano i sintomi significa che, in futuro, le persone potrebbero avere il tempo di apportare modifiche allo stile di vita per prevenire l’insorgere di alcune condizioni e i medici potrebbero ritardare l’insorgenza e l’impatto dei disturbi neurodegenerativi che cambiano la vita".
Parkinson, la diagnosi con l’analisi della voce per intercettare i sintomi prima dei tremori. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.
Scienziati lituani hanno sviluppato un algoritmo in grado di riconoscere le alterazioni vocali che si manifestano precocemente. In futuro la tecnologia anche in un’app
Oltre dieci milioni di persone in tutto il mondo convivono con il Parkinson, malattia neurodegenerativa ad evoluzione lenta, ma progressiva, che coinvolge funzioni quali il controllo del movimento e l’equilibrio. Non esiste una cura, ma se i sintomi vengono intercettati in modo precoce la malattia può essere controllata. «I sintomi precoci non motori possono manifestarsi fino a dieci anni prima della diagnosi della malattia. Quando compaiono i sintomi caratteristici del Parkinson come i tremori o la rigidità, la metà dei neuroni che producono dopamina sono già morti» sottolinea Gianni Pezzoli, neurologo, presidente dell’Associazione Italiana Parkinsoniani e della Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson.
Difficoltà nella parola
Uno di questi sintomi è caratterizzato dall a difficoltà nel pronunciare le parole. La voce diventa via via più flebile, spesso monotona, con difficoltà nel pronunciare le parole e talvolta ad aprire la bocca. In genere il paziente parla in modo meno espressivo, più lento, più frammentato e non è sempre semplice rendersene conto a orecchio nudo. Con il progredire della malattia la raucedine, la balbuzie, la pronuncia confusa delle parole e la perdita delle pause fra una parola e l’altra diventano più evidenti. Chi ascolta si trova spesso a dover chiedere di alzare il tono perché non sente.
Le modifiche nel linguaggio sono graduali e un gruppo di ricercatori dell’Università tecnologia di Kaunas (KTU), in Lituania insieme ai colleghi dell’Università di Scienze della Salute hanno lavorato proprio per cercare di identificare i primi sintomi del morbo di Parkinson utilizzando i dati vocali.«I cambiamenti nel linguaggio spesso si manifestano molto prima dei disturbi della funzione motoria, motivo per cui l’alterazione discorso potrebbe essere uno dei primi segnali della malattia» dice Rytis Maskeliūnas, ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Multimediale della KTU. Oggi, con l’avanzare delle tecnologie sta diventando possibile estrarre sempre più informazioni dalla lingua parlata e il gruppo di lavoro lituano ha utilizzato l’intelligenza artificiale per analizzare e valutare i segnali vocali e i calcoli vengono eseguiti in pochi secondi, facilitando così la diagnosi. «Non stiamo creando un percorso alternativo agli esami di routine necessari: il nostro metodo è progettato per facilitare la diagnosi precoce della malattia e per monitorare l’efficacia del trattamento», afferma Maskeliūnas.
In futuro un’app
Per ora l’algoritmo creato (lo studio è pubblicato su Applied Sciences) è stato testato solo su pazienti con diagnosi di Parkinson. «Il nostro sistema è in grado di distinguere le persone con Parkinson da persone sane utilizzando un campione vocale» spiega Kipras Pribuišis, docente di Otorinolaringoiatria e tra gli autori dello studio. In una cabina insonorizzata è stato utilizzato un microfono per registrare un discorso pronunciato da persone con Parkinson e persone sane. Un algoritmo di intelligenza artificiale ha «imparato» ad elaborare il segnale valutando le registrazioni. I ricercatori sottolineano che l’algoritmo non richiede un hardware particolarmente potente e in futuro potrebbe funzionare anche con un’app. «I nostri risultati hanno un potenziale scientifico molto elevato, anche se la strada è ancora lunga per poter applicare il sistema nella pratica quotidiana» affermano i ricercatori. I prossimi passi saranno di ampliare la platea di pazienti per raccogliere più dati possibile e sarà anche necessario verificare se l’algoritmo funziona bene non solo in ambienti di laboratorio ma anche in uno studio medico o addirittura a casa del paziente.
L’Autismo.
Bottura, il figlio Charlie e il Tortellante per i ragazzi autistici: «La normalità è come un biglietto della lotteria». Daniele Mencarelli su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.
«I genitori dei sani non sanno niente». Quando si parla di autismo viene naturale pensare ai bambini, non ad adulti spesso abbandonati al proprio destino. Sentirsi a posto con la coscienza, aver fatto il possibile, nella nostra società è permesso solo ai ricchi. Il coraggio dell’utopia
Lo chef Massimo Bottura, 60 anni, con il figlio Charlie nei locali del Tortellante di Modena, laboratorio terapeutico riabilitativo per ragazzi e ragazze autistici (foto di Francesco Cocco)
Questo articolo di Daniele Mencarelli è stato pubblicato su 7 in edicola venerdì 13 gennaio. Lo proponiamo online per i lettori di Corriere.it
«I genitori dei figli sani non sanno niente. Se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata, un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che un figlio è come un elettrodomestico, costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano». Questo dice Pietro, il protagonista di Fame d’aria , il mio nuovo romanzo, mentre osserva Jacopo, suo figlio, autistico a basso funzionamento, bassissimo, come lo definisce lui. È un tema gigantesco, epocale, per molti uno dei rovesci tragici del progresso, ancora in gran parte da svelare, esplorare. I disturbi del neurosviluppo infantile, dal più famoso, famigerato, autismo, sono una delle nuove categorie patologiche che reclamano più ascolto e assistenza.
Ascolto e assistenza.
Parole da pronunciare con attenzione, dall’essenza granitica. Massimo Bottura, classe 1962, mi accoglie con un sorriso spontaneo, semplice, altrettanto immediata è la simpatia, credo, spero, reciproca. Ma i modi non riescono a celare gli occhi, mobilissimi, aperti e in perenne movimento su tutto, con una speciale attenzione per quello che lo circonda.
Da sinistra: Daniele Mencarelli, Charlie e Massimo Bottura con altri ragazzi e protagonisti del Tortellante, laboratorio di pasta fresca, scuola di autonomia, centro di socializzazione
Ci siamo dati appuntamento al Tortellante, a Modena, un laboratorio terapeutico riabilitativo creato nel 2016 da Massimo e sua moglie Lara assieme a Erika Coppelli, che ne è anche la presidente, insieme a un’altra manciata di genitori con figli autistici della zona. Al Tortellante, si insegna a ragazzi affetti da autismo a produrre pasta a mano, nello stesso stabile ci sono le stanze dove dormono. Un’idea semplice quanto straordinaria, di lavoro e comunità. Un’idea che va a riempire un vuoto drammatico. Perché quando si pensa all’autismo, infatti, viene naturale pensare ai bambini, non ai giovani uomini e donne che convivono con questo disturbo e che sono spesso abbandonati al proprio destino e a quello dei propri genitori. Pensare al loro futuro, umano, sociale, economico, è un impegno che noi e le nostre istituzioni dovremmo prendere e pianificare con ben altra lucidità e risorse.
Ma su questo torneremo.
Non so se ne esistano, ma, per chi non lo sapesse, Massimo Bottura è uno degli chef più titolati al mondo, la sua Osteria Francescana ha tre stelle Michelin e da tempo è il numero 1 dei ristoranti italiani. Senza contare gli altri sparsi nello Stivale e nel mondo, tutti riconosciuti ai massimi livelli. Un artista, senza se e senza ma. Ma un uomo, che sia artista o pescatore, falegname o architetto, è anche tanto altro. In primis, quando decide di esserlo, padre.
Torniamo così al punto di partenza.
Ai genitori dei figli sani che non sanno niente, e ai figli malati, che curvano le schiene di chi li ama e vorrebbe fare, guarire, anche quando non è possibile. Su questo io e Massimo abbiamo qualcosa in comune. Le nostre storie hanno tratti simili e altri molto diversi.
Ci scherziamo sopra.
Massimo ha reagito al disturbo del figlio con una visione concreta, da buon modenese ha trasformato l’idea in realtà, in eccellenza come capita a tante esperienze produttive e imprenditoriali della zona.
Lui per suo figlio Charlie ha dato vita al Tortellante. Io, da artigiano che lavora con la parola, sulla vicenda ho inchiodato su pagina tutti i demoni che un genitore si ritrova a vivere quando è in gioco la salute neuropsichiatrica del figlio. Salute per fortuna meno compromessa dalle tante valutazioni e diagnosi fatte nel corso degli anni.
In Fame d’aria Pietro, cinquantenne mai cresciuto come tutta la sua generazione, è in viaggio con suo figlio Jacopo quando per un guasto alla vecchia Golf di famiglia è costretto a fermarsi. Erano diretti in Puglia, dove li raggiungerà Bianca, moglie di Pietro e madre di Jacopo, per festeggiare l’anniversario di matrimonio. Bianca, com’è nello spirito della maternità, ha vissuto e vive la disabilità del figlio con altro spirito, pazienza. Pazienza ha la stessa radice etimologica di patire. Sa soffrire come tanti uomini non riescono né riusciranno mai a fare.
Il guasto all’automobile costringe padre e figlio a fermarsi per un fine settimana in uno sperduto paesino del Molise.
È così che conosciamo la loro storia. Quella di Jacopo, affetto da una forma di autismo gravissimo che lo ha riportato a una specie di stato neonatale, ma soprattutto quella di Pietro. Suo padre.
Pietro è un uomo solo. Ha vissuto la malattia del figlio come una specie di sconfitta personale, capita purtroppo a tantissimi uomini, e, cosa che aggrava drammaticamente la sua situazione, si è indebitato mortalmente per permettere al figlio di fare tutte le terapie prescritte dal caso, purtroppo senza ottenere grandi risultati clinici. A parte la crisi economica in cui è precipitato, oramai fuori controllo. Massimo Bottura è colpito dal racconto del romanzo, soprattutto lo atterrisce l’idea di una famiglia con un figlio unico affetto da autismo. Il loro Charlie ha una sorella più grande. Ovvero un affetto che resisterà al tempo più di lui e sua moglie.
È un fatto puramente istintivo, animale. Quando si ha un figlio con problemi di salute si guarda al futuro con un diverso approccio negli occhi, e la consapevolezza di un appoggio, come avere una sorella al fianco, fa tutta la differenza del mondo. Ma non è solo questo che rende me e Bottura diversi dalla vicenda di Pietro e suo figlio Jacopo, da Fame d’aria.
In questa giostra che dona a tanti un figlio con problemi di salute, noi siamo i fortunati. Quelli che hanno potuto sopperire ai bisogni richiesti dalla patologia, come le terapie, in nove casi su dieci a pagamento. Inoltre, abbiamo potuto predisporre, pianificare, lavorare, detta in altre parole: non abbiamo lasciato niente di intentato. La nostra coscienza è a posto.
Parliamo di questo. Sentirsi a posto con la coscienza, avere fatto il proprio dovere di genitore per come richiesto dal destino. Aver fatto tutto il possibile.
Dovrebbe essere permesso a qualsiasi genitore sulla faccia della terra, ma sappiamo che non è così.
I disturbi del neurosviluppo ci ricordano qualcosa che oramai facciamo finta di aver superato, vinto.
Ci sono i ricchi. E ci sono i poveri.
La malattia è ugualmente terribile, ma i primi possono fare a meno di torturare la propria coscienza. I secondi no. Per i secondi, i poveri, rimane il non fatto, il rimpianto di qualcosa che poteva avere altro futuro, più umano, benigno, se solo ci fosse stata la possibilità. In molti casi viene detto esplicitamente che il bambino ha un potenziale che può essere tirato fuori.
Ma ci vogliono i soldi.
Servono i soldi.
Tanti.
C’è da impazzire.
E in tanti, infatti, impazziscono. Sino alle estreme conseguenze.
Bottura e gli altri genitori che hanno dato vita al Tortellante sono stati portatori di una visione, e l’hanno realizzata. Con credibilità e ascolto, Bottura ripete queste due parole all’infinito, poi mi racconta del lavoro che ha fatto con i suoi dipendenti, tutti ragazzi e ragazze tra i venti e i quarant’anni, sull’importanza del buongiorno. Perché dare il buongiorno a una persona è un gesto d’affetto, che richiede attenzione, sincerità.
Questione di parole, come sempre.
Riappropriarci di quelle sporcate dal tempo.
Una su tutte. Utopia.
Guardare al futuro con spirito utopistico, creare dal niente quello che non esisteva. Questo ci chiederanno le migliaia di adulti affetti da autismo, o da qualsiasi altra patologia, e noi dovremo rispondere, facendo magari le veci dei loro genitori, che non ci sono più. Con parole che diventano visione, poi realtà.
In tanti si stanno svegliando, tanti iniziano a guardare al mondo per quello che sarà dopo, dopo di noi. In Italia, maestra di diritto, si è creata sulla spinta di decine di famiglie la Legge n. 112/2016 detta proprio Dopo di noi, che intende dar vita a nuove forme di accoglienza e convivenza per chi vive il disagio e la malattia in tutte le sue forme. Alle parole seguano i fatti.
Come Massimo Bottura, Charlie e tutti i magnifici ragazzi del Tortellante, contro quell’inferno in terra che si chiama abbandono sociale e che fa strage tutti i giorni.
Autismo, scoperto un nuovo gene responsabile. Lo studio ha permesso di dimostrare che le mutazioni di un gene sono responsabili di alterazioni di specifici meccanismi neuronali che provocano una forma di disturbo dello spettro autistico. Valentina Dardari il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Grazie a uno studio multicentrico internazionale, coordinato dal professore Alfredo Brusco, docente di Genetica medica del dipartimento di Scienze Mediche dell'Università di Torino e della Genetica medica universitaria della Città della Salute di Torino, che ha collaborato con l'Università di Colonia, è stato scoperto il ruolo di un nuovo gene nell’autismo. La ricerca, che è stata pubblicata sulla rivista Brain, ha infatti permesso di dimostrare che mutazioni nel gene Caprin 1 sono responsabili di alterazioni di specifici meccanismi neuronali che, dal punto di vista clinico, provocano una forma di disturbo dello spettro autistico.
Cosa hanno scoperto i ricercatori
Secondo quanto reso noto, il lavoro in questione si basa sulle nuove tecnologie di sequenziamento del Dna, oltre che sullo sviluppo di modelli in vitro di cellule neuronali. I ricercatori hanno dimostrato il ruolo del gene Caprin 1 nello sviluppo di una rara forma di autismo. Un ulteriore passo avanti nella comprensione delle basi genetiche dell'autismo avviene nell'ambito del Progetto NeuroWes dell'ateneo di Torino. L'utilizzo di tecnologie di sequenziamento dei geni umani, analisi dell'esoma e analisi del genoma, ha reso possibile, attraverso una collaborazione internazionale, di identificare 12 pazienti colpiti da questa forma di disordine del neurosviluppo e di capirne i meccanismi biologici associati.
Il gruppo di ricerca del Progetto NeuroWes lavora dal 2015 allo studio della genetica dei disturbi dello spettro autistico, grazie alla collaborazione con diversi gruppi italiani e il Mount Sinai di New York. Come spiegato, l'analisi di centinaia di pazienti ha dato la possibilità di individuare un caso piemontese in cui era persa un'ampia regione di un cromosoma che comprendeva il gene Caprin 1. Proprio questa iniziale osservazione ha permesso di ipotizzarne il ruolo nella patogenesi dell'autismo.
I pazienti con mutazione del gene
La successiva identificazione dei 12 pazienti con una mutazione nel gene ne ha dimostrato il ruolo patogenico. I pazienti presi in esame presentano ritardo del linguaggio, disabilità intellettiva, deficit di attenzione e iperattività, disturbo dello spettro autistico. La ricerca ha dimostrato che perdere una delle due copie di Caprin 1 porta a una alterazione della organizzazione e della funzione dei neuroni, oltre che della loro attività elettrica.
Questo studio è molto importante anche per quanto concerne la definizione del ruolo biologico di Caprin 1, perché è stato possibile dimostrare che regola la sintesi di molte proteine nei neuroni andando a regolare l'espressione di molti geni nell’encefalo. Caprin 1 risulta essere una proteina molto importante, quindi uno snodo all'intersezione di numerosi meccanismi biologici dei neuroni, che renderà possibile identificare numerosi altri geni che sono associati a disordini del neurosviluppo. L'identificazione di nuovi geni associati a forme di disturbo dello spettro autistico è in rapida evoluzione e si prevede siano più di mille i geni implicati nella patogenesi di questa condizione.
Perché è importante questa scoperta
La notizia odierna relativa alla scoperta di un nuovo gene responsabile di alcune forme di autismo è di indubbia rilevanza. La sottosegretaria al ministero dell'Università Augusta Montaruli (FdI) ha affermato in una nota stampa che siano di fronte a una novità che, si spera, nel tempo potrà portare a ulteriori sviluppi e conoscenze. "Questo risultato è stato reso possibile grazie al lavoro realizzato dal Progetto NeuroWes, dell'Università di Torino: uno studio internazionale, coordinato da Alfredo Brusco, docente dell'UniTo e della Città della Salute di Torino. A lui e tutta l'equipe di medici e ricercatori che in questi anni hanno lavorato al conseguimento questo importante risultato vanno le mie congratulazioni e un sincero ringraziamento. Infine, è doveroso segnalare come, sotto il profilo universitario e della ricerca, Torino continui a confermarsi una realtà di eccellenza", ha concluso.
La sindrome di Pandas.
Cos'è la sindrome di Pandas, la malattia di cui soffre la bambina di 12 anni che ha scritto alla Meloni. La giovanissima che ha scritto una lettera alla premier è affetta da una rara patologia che colpisce i bambini e per la quale non c'è ancora una cura: ecco cos'é la sindrome di Pandas. Alessandro Ferro l’1 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il 28 febbraio è stata la giornata mondiale delle malattie rare e, per l'occasione, una ragazzina di soli 12 anni ha deciso di scrivere una lettera alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, chiedendo aiuto perché affetta dalla sindrome di Pandas, patologia ancora poco conosciuta che colpisce i bambini e si associa alle malattie da streptococco.
Di cosa si tratta
Il termine Pandas deriva dall'inglese e significa Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorders Associated with Streptococcus infections, che tradotta in italiano sta per "Disturbi neuropsichiatrici autoimmuni pediatrici associati a infezioni da streptococco". Si tratta di una malattia rara la cui origine è ancora piuttosto sconosciuta tra gli scienziati. Come scrive il Network che si occupa di divulgare notizie in merito alla patologia, Pandas è un sottogruppo di Pans, cioé un disturbo caratterizzato dall'improvvisa insorgenza di sintomi ossessivo-compulsivi (Doc) o restrizioni alimentari che vanno di pari passo al deterioramento acuto che riguarda il comportamento come la regressione comportamentale, il cambiamento repentino d'umore e i cattivi rendimenti scolastici oltre ad ansia e disturbi del sonno.
Qual è la diagnosi
Scoperta per la prima volta dai ricercatori del National Institute of Mental Health nel 1998, questa malattia ha alcuni tratti caratteristici per la diagnosi tra cui
un disturbo ossessivo compulsivo "notturno" unita a tic drammatici e invalidanti;
un decorso dei sintomi che tendono a ripetersi ed essere recidivi;
l'età in cui si manifesta (intorno ai 6-7 anni);
la presenza di anomalie neurologiche
l'associazione temporale tra l'inizio dei primi sintomi unita all'infezione da streptococco di gruppo A.
Gli esperti spiegano che si tratta di una malattia autoimmune o autoinfiammatoria: secondo alcune ipotesi, la contemporanea esposizione a diverse infezioni potrebbe inibire i naturali meccanismi di difesa del sistema immunitario che non sarebbe più capace di attaccare l'auto-antigene ma, anzi, attaccherebbe le cellule neuronali, ossia quelle preposte alla scambio dei segnali.
Gli scienziati fanno sapere che la sindrome di Pandas è quasi sempre accompagnata dall'infezione allo streptococco perché nasce proprio a causa degli agenti infettivi che colpiscono il sistema immunitario dei più piccoli. In alcuni casi, però, questa patologia non avrebbe evidenziato la connessione precedente con il batterio anche se è difficile scoprire il fattore scatenante a causa del lasso di tempo che intercorre tra l'infezione e la comparsa dei sintomi (a volte alcuni mesi). L'Organizzazione PandasItalia spiega che attualmente non esiste nessuna terapia in grado di curare Pans e Pandas.
Le attuali terapie di contenimento, si basano sullo stadio in cui si trova la malattia: nei casi lievi sono richieste una o due ore nell'arco della giornata per il trattamento con antibiotici, corticosteroidi e antinfiammatori non-steroidei con i bambini che riescono a condurre una vita sociale quasi normale riuscendo ad andare a scuola e frequentare gli amici. Nei casi in cui c'è gravità moderata, uno degli aspetti più importanti è l'ansia che occupa il 50-70% delle ore di veglia e interferisce con le normali attività quotidiane tali da poter impedire, in alcuni casi, la frequentazione di scuola e vita sociale. Oltre alle terapie dei casi più lievi si aggiunge anche quella cognitivo-comportamentale e se necessario pure l'intervento con psicofarmaci a bassissimo dosaggio.
Infine, nei casi più severi, il bambino rischia la sua vita quando c'è un dimagrimento evidente o nei casi di autolesionismo: i piccoli pazienti hanno bisogno anche del 100% del tempo dei loro genitori e non sono in grado né di poter andare a scuola e nemmeno di avere una vita sociale normale.
Sindrome di Gilles de la Tourette.
Sindrome di Gilles de la Tourette. Il Corriere della Sera il 23 marzo 2022.
Malattia ereditaria, caratterizzata da tic motori e vocali cronici, spesso associati a comportamenti ossessivo-compulsivi e a disturbi attenzionali, descritta per la prima volta da Gilles de la Tourette nel 1885, a probabile trasmissione autosomica dominante.La maggior parte dei casi è sporadica, sebbene vi sia occasionalmente un’anamnesi familiare, e l’espressione parziale del tratto può verificarsi nei fratelli o nei discendenti dei pazienti.Il DSM-IV ha incluso la sindrome nei disturbi da tic e ne ha stabilito i criteri diagnostici nel seguente modo:- esordio prima dei 18 anni - presenza di tic motori multipli e di uno o più tic vocali - durata dei sintomi >1 anno, con possibile periodo asintomatico non più lungo di 3 mesi - significativa compromissione del funzionamento del soggetto - primitività del disturbo, non dovuto dunque a condizione medica generale o all’effetto di una sostanza.L’età di esordio è compresa tra 2 e 17 anni, ma per lo più avviene nella fanciullezza o nella prima adolescenza (età media 7-8 anni) l’evoluzione è fluttuante e cronica, solitamente con riduzione della frequenza e della gravità dei sintomi entro la prima età adulta il disturbo dura, comunque, tutta la vita, sebbene possano verificarsi periodi di remissione di settimane o anni.Sono stati descritti casi con totale scomparsa dei sintomi entro la prima età adulta. La prevalenza del disturbo è stimata intorno allo 0,05% è 1,5-3 volte più frequente nel sesso maschile. Il rischio familiare è più elevato nei parenti di primo grado rispetto alla popolazione generale e ciò vale soprattutto per i figli di madri affette.Studi condotti su coppie di gemelli omozigoti hanno rilevato una concordanza del 53%, contro l’8% per i dizigoti. Esistono dimostrazioni a favore di un’associazione genetica tra la sindrome e il disturbo ossessivo-compulsivo e forse con il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Nel 10% circa degli affetti non risulta però una familiarità evidente.
· Cause
Le cause sono ancora oggi in parte oscura, anche se si ipotizza un’eziologia organica, contrariamente alle ormai superate ipotesi eziologiche psicodinamiche, che interpretavano la sindrome come espressione di conflitti inconsci e di aggressività repressa.Esiste attualmente un generale consenso sulla familiarità della sindrome, come comprovato da numerosi studi epidemiologici la “vulnerabilità” al disturbo (intesa come base genetica e costituzionale per lo sviluppo di un disturbo da tic) verrebbe trasmessa secondo una modalità autosomica dominante a penetranza variabile: la penetranza del gene nelle portatrici di sesso femminile sarebbe del 70% circa, mentre nel sesso maschile del 99%.La diversa espressione fenotipica del gene giustificherebbe la concomitante presenza, in aggregati familiari, di soggetti affetti non solo dalla sindrome in questione, ma anche da disturbo con deficit di attenzione e iperattività, disturbo ossessivo-compulsivo e altri disturbi da tic. Da molti anni, l’indagine eziopatogenetica della malattia si è rivolta alle possibili alterazioni a livello del corpo striato e del sistema limbico esami autoptici hanno messo in evidenza riduzione di volume a carico dello striato, soprattutto del pallido, mentre studi in pet avrebbero evidenziato ipofunzionalità dei neuroni in alcune aree striatali e corticolimbiche.Studi clinici e farmacologici hanno suggerito che le alterazioni geniche potrebbero tradursi in una disfunzione del sistema dopaminergico centrale, nei gangli della base e nel tronco: una esaltazione dell’attività dopaminergica (consistente in supersensitivizzazione dei recettori sinaptici con loro eccessiva stimolazione), sarebbe responsabile delle manifestazioni ticcose. Tale ipotesi sarebbe indirettamente comprovata dal miglioramento clinico in seguito a somministrazione di farmaci dopamino-bloccanti e dall’aggravamento ottenuto con la somministrazione di levodopa, amfetaminici e di altri dopamino-agonisti.
· Sintomi
Inizialmente, graduale insorgenza di tic motori semplici, inizialmente localizzati al volto e al collo (strizzamento degli occhi, smorfie facciali, scuotimento del capo da un lato all’altro), ai quali possono aggiungersi in seguito tic vocali semplici (emissione compulsiva di suoni inarticolati, ad esempio grugniti latrati e sibili, lo schiarirsi la voce o tossire e simili) e tic complessi vocali, sotto forma di espressioni verbali inclusa la coprolalia (parole volgari o oscene) ecolalia (ripetizione delle parole altrui), e palilalia (ripetizione di parole o frasi).Anche tic motori complessi possono comparire, come toccare, accovacciarsi, inginocchiarsi, eseguire piroette durante la marcia, saltare sul posto e ipercinesie simil-coreiche e simil-miocloniche, ecoprassia (imitazione dei movimenti altrui). I tic variano nel tempo per gravità, carattere e gruppi muscolari coinvolti.Si verificano anche tic sensitivi consistenti in pressione, solletico e sensazioni di caldo e freddo. La coprolalia, caratteristicamente associata al disturbo, può essere tra i primi sintomi: è, però, presente soltanto nel 10% dei soggetti e non è ritenuta dunque essenziale ai fini diagnostici. I tic possono essere talvolta soppressi dalla volontà e accentuati dalle emozioni Gilles de la Tourette, nella sua descrizione originale, notava che anche la temperatura del corpo poteva influenzare la severità dei sintomi, risultando questi meno marcati durante episodi febbrili. Essi compaiono di solito in modo accessuale, più volte al giorno quasi ogni giorno. Manifestazioni e disturbi associati comprendono più frequentemente ossessioni e compulsioni, iperattività, distraibilità (spesso precede l’esordio dei tic) e impulsività, la cui relazione con i tic è incerta, raramente automutilazioni, determinate da alcuni tic per attività quali l’onicofagia (mangiarsi le unghie) o la tricotillomania (strapparsi i capelli) o il mettersi le dita nel naso, o mordersi labbra e lingua. concomitano spesso disagio sociale, vergogna e senso di umiliazione.Le persone colpite in maniera grave possono andare incontro a episodi depressivi maggiori. Il funzionamento sociale, scolastico e lavorativo può risultare compromesso per il rifiuto da parte degli altri o per l’ansia connessa al timore di andare soggetti a tic in situazioni sociali. L’esame obiettivo neurologico e il quoziente intellettivo risultano solitamente nella norma tuttavia, studi selettivi delle funzioni cognitive hanno indicato spesso una non perfetta integrazione visuo-spaziale, permettendo quindi di ipotizzare una disfunzione a carico dell’emisfero destro e vi è una incidenza maggiore del previsto di mancinismo o ambidestrismo. È stata osservata una disorganizzazione dell’architettura del sonno, con incremento delle fasi III e IV e notevole riduzione della quota rem, associata a un aumento dei risvegli notturni. Sono state evidenziate anomalie aspecifiche alla TAC dell’encefalo nel 10% dei casi.
· Terapia
I trattamenti farmacologici sono i più efficaci, mentre la psicoterapia, inefficace come trattamento primario, può aiutare il paziente a convivere con il disturbo, mentre dubbi e limitati sono i benefici ottenuti con la chirurgia (cingolotomia anteriore, criotalamectomia). Il farmaco più usato è l’aloperidolo che produce un relativo miglioramento nel 70% dei soggetti. In alternativa, sono risultati utili altri neurolettici grazie alla loro interazione con l’attività dopaminergica. Altri farmaci utilizzati sono la clonidina che agirebbe riducendo l’irritabilità, le compulsioni e i sintomi motori e fonici.
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Lo Stress.
Stress, una proteina «sentinella» scoperta con l’esame del sangue. La riduzione della «Mecp2» favorirebbe lo sviluppo di patologie, soprattutto nelle donne. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Gennaio 2023.
Una riduzione nel sangue della proteina MECP2 sembrerebbe favorire il rischio di sviluppare patologie stress-correlate, in persone, soprattutto donne, che, durante l'infanzia o l’adolescenza, abbiano vissuto esperienze particolarmente avverse. A questa conclusione sono giunti i ricercatori del Centro di riferimento per le Scienze comportamentali e la salute mentale dell’ISS, in uno studio pubblicato su «Translational Psychiatry», suggerendo che «MECP2» possa essere un marcatore di suscettibilità allo stress. Al centro delle indagini la proteina «MECP2», ovvero Methyl-CpG binding protein 2, fondamentale per il funzionamento delle cellule nervose, nota perché alcune mutazioni del gene che la codifica sono la principale causa della «Sindrome di Rett», una malattia neurologica rara, molto grave, che colpisce fin dalla prima infanzia prevalentemente il genere femminile.
Gli studi dimostrerebbero che questa proteina, oltre a essere implicata in numerosi processi del neurosviluppo, svolge un ruolo fondamentale nel determinare gli effetti che l’ambiente in cui viviamo ha sul nostro organismo, suggerendo un suo coinvolgimento nei processi che predispongono allo sviluppo di psicopatologie indotte dall’esposizione a eventi stressanti nel corso della vita.
Sulla base di queste evidenze, i ricercatori hanno analizzato i livelli di «MECP2» in campioni di sangue di 63 persone clinicamente sane. I risultati hanno confermato le loro ipotesi, ovvero che esiste una connessione tra i livelli ridotti di «MECP2» e gli esiti disadattivi - quali ansia e depressione - delle esperienze avverse vissute in infanzia, e che tale legame è più forte tra le donne. Ulteriori studi finalizzati ad approfondire i meccanismi alla base di questa associazione potranno svelare nuovi bersagli per l'implementazione di interventi preventivi personalizzati. I disturbi mentali rappresentano un grave problema di salute pubblica, con esiti altamente debilitanti e impatto significativo sia sugli individui colpiti che sulla società.
L’onere associato alle malattie mentali è considerevole: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una persona su 8 in tutto il mondo soffre di disturbi mentali come ansia, disturbi dell’umore o disturbi legati ad eventi traumatici e stressanti. L’accesso alle cure è limitato e, spesso, chi non riceve assistenza sviluppa importanti disabilità e va incontro a morte prematura dovuta a condizioni fisiche altrimenti prevenibili o a suicidio.
Troppo stress ultimamente? Prova con la mindfulness. Francesca Santamaria Palombo il 9 Gennaio 2023 su Il Giornale
Capita spesso che le persone prese dai vari impegni, dai ritmi quotidiani, si rendano conto di essere profondamente stressate e provate. Può succedere, soprattutto quando ci si rende conto che la tabella di marcia è tanto fitta e i troppi impegni incombono all’orizzonte. La mindfulness in tal senso, può venire in aiuto.
In cosa consiste quest’approccio?
Questa pratica, di origine buddista, ci permette di essere consapevoli del “qui” ed “ora”, favorisce l’attenzione e la concentrazione. Recenti ricerche hanno evidenziato che la pratica costante ci permette di:
migliorare l’umore;
la salute;
la vita sociale;
l’autocontrollo;
la produttività;
le connessioni neurologiche del tuo cervello;
l’introspezione, l’assenza del giudizio, ci consentono di essere più padroni del nostro corpo e consapevoli delle emozioni che viviamo.
Come iniziare?
In quest’articolo vorrei condividere con te due semplici attività, che richiederanno pochi minuti al giorno tra la mattina e la sera.
Pratica della mattina
Svegliati una decina di minuti prima. Siediti sul letto o su un cuscino e fai dei lunghi respiri profondi inspirando aria dal naso ed espirandola dalla bocca. Concentrati sul corpo, sulle sensazioni che vivi. Se subentrano dei pensieri è normale: con gentilezza e amichevolezza torna al respiro. Prenditi tutto il tempo che serve. Quanto senti che è il momento, con calma e con i tuoi tempi puoi aprire gli occhi.
Pratica della sera
Sdraiati sul letto. Concentrati come sempre sul respiro, partendo dai piedi e concentrati su ogni singola parte del corpo, inspirando ed espirando. Se noti delle parti più tese o irrigidite respiraci più profondamente. Quando la pratica si è conclusa, con calma e con i tuoi tempi puoi aprire gli occhi.
Francesca Santamaria Palombo
Lo Svenimento.
Svenimenti senza un motivo apparente: quale può essere la causa? Massimo Mapelli su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2023
Negli svenimenti l’attivazione del sistema vagale - che si contrappone a quello simpatico - si associa a una riduzione dei valori di pressione arteriosa e frequenza cardiaca, soprattutto in soggetti predisposti (donne giovani e spesso anemiche)
Ho 22 anni. Un anno fa ho accusato un dolore al petto fortissimo, senso di vomito, mal di testa e poi ho avuto uno svenimento. Ora mi è capitato di nuovo, con due svenimenti in una settimana. La pressione è calata di colpo a 65/55 per poi risalire dopo una mezzora. Devo preoccuparmi?
Risponde Massimo Mapelli, Dipartimento Cardiologia critica e riabilitativa, Centro cardiologico Monzino, Milano (VAI AL FORUM)
Nei fumetti di «Topolino» che leggevo da giovane, Paperon de’ Paperoni spesso perdeva i sensi cadendo rovinosamente a terra. Nella maggior parte dei casi il fenomeno si verificava mentre il protagonista era in piedi, in un luogo caldo e affollato e appena dopo un’intensa reazione emozionale. Poi riprendeva pian piano coscienza, chiedendo: «Portatemi i miei sali». Ho appena descritto quella che viene abitualmente definita una reazione vagale, in termini di presentazione clinica. Il vago è un nervo - o meglio un insieme di impulsi nervosi - che attraversa il nostro organismo e incide per metà sul nostro sistema nervoso autonomo. Si tratta di tutta quella serie di input in grado di regolare, come in una centralina indipendente della nostra diretta volontà, una vasta serie di funzioni fisiologiche, tra cui la motilità intestinale, lo stimolo a urinare o l’ampiezza delle nostre pupille. Non solo. L’attivazione del sistema vagale - che si contrappone a quello simpatico - si associa a una riduzione dei valori di pressione arteriosa e frequenza cardiaca, soprattutto in soggetti predisposti (donne giovani e spesso anemiche).
Quando questa risposta diventa molto accentuata, i valori di pressione e frequenza si abbassano tanto da farci perdere i sensi. Si tratta di un’evenienza che spaventa molto ma che, al netto del rischio di un trauma nella caduta, è benigna e rappresenta anzi un ancestrale meccanismo di difesa del nostro organismo che permette, in posizione sdraiata, di favorire il ritorno venoso al cuore dei fluidi che tendono ad accumularsi negli arti inferiori, migliorando la perfusione cerebrale. Questa è solo una delle cause che possono indurre uno svenimento, ma è in assoluto la più probabile. Con un’anamnesi accurata e qualche esame, il cardiologo dovrebbe riuscire a scongiurare cause più gravi (molto rare) di sincope. Se il nervo vago fosse l’origine dei problemi, la terapia farmacologica è limitata. Ci si concentra su un trattamento di natura comportamentale, atto a ridurre l’esposizione a situazioni predisponenti: serve bere molta acqua per evitare disidratazione, sedersi (o sdraiarsi) alla prima comparsa di sintomi e, in casi selezionati, prevedere l’utilizzo di calze elastiche per aiutare il ritorno venoso.
Cinetosi: mal d’auto.
Cinetosi: cos’è, i sintomi e i consigli per curare il «mal di auto». Storia di Antonella Sparvoli su Il Corriere della Sera il 10 agosto 2023.
A che cosa è dovuto il «mal da movimento»? Viaggiare in auto, nave, aereo o treno è un incubo per molte persone a causa della cinetosi o mal da movimento, che si presenta in condizioni di movimento passivo, colpisce fino a 3 bambini su 10, ma è comune anche fra gli adulti. «Chiunque, se sottoposto a uno stimolo di intensità sufficiente, può sviluppare la cinetosi — spiega Claudio Albizzati del Servizio di Otorinolaringoiatria, Multimedica di Milano —. La condizione è scatenata da un conflitto tra gli stimoli provenienti dagli occhi e quelli provenienti dall’orecchio interno. In pratica l’orecchio percepisce un movimento che l’occhio non vede o viceversa. Questa disomogeneità dà l’avvio a una serie di sintomi che, in genere, culminano con il vomito. Per spiegare perché sono state formulate varie ipotesi, ma sono due quelle più note. La prima presuppone che il cervello induca il vomito per liberarsi di qualche “veleno” che sta intossicando i recettori, producendo stimoli discrepanti. La seconda teoria presuppone un’interazione tra gli stimoli che provengono dal nervo vago e l’azione dei muscoli che muovono gli occhi».Da che cosa è indotta la cinetosi? «In genere la si collega all’automobile. In realtà si può verificare anche in aereo, treno o nave oppure quando si sale su giostre, si oscilla in altalena, si ruota su se stessi e addirittura giocando con un videogame in cui la grafica fa presupporre al cervello un movimento che non c’è», risponde Albizzati. Esistono categorie di persone più sensibili? «I bambini sono più suscettibili, soprattutto tra i 2 e i 12 anni, mentre prima dei due anni sono in genere immuni. La cinetosi è comune anche nelle donne in gravidanza e in quelle che assumono terapie ormonali, oltre che durante i giorni del ciclo mestruale. Esistono poi diversi farmaci che possono favorire i disturbi tra cui alcuni antibiotici, la pillola contraccettiva, alcuni antiasmatici. Infine è più facile osservare il mal da movimenti in coloro che soffrono di emicrania», spiega lo specialista. Come si può prevenire? «Per cercare di prevenirla si possono prendere alcuni accorgimenti molto semplici come partire a stomaco pieno, dopo aver fatto un pasto leggero meglio se secco/salato, evitando quindi cibi difficili da digerire e di assumere troppi liquidi che occupano volume e stimolano la nausea; cercare di stare il più possibile nella parte anteriore del mezzo; muoversi il meno possibile, non girare la testa di scatto, posizionarsi sempre verso il senso di marcia; mantenere l’abitacolo fresco nonché evitare di scrivere o leggere», consiglia l’esperto.Sono disponibili rimedi specifici contro il mal da movimento? «Se nonostante tutto la cinetosi persiste si può contare anche su qualche rimedio farmacologico e non. Negli adulti si possono usare farmaci antistaminici e la scopolamina. Nei bambini l’unico farmaco utilizzabile è il dimenidrinato. Tuttavia, se possibile, è meglio preferire, almeno in prima battuta, rimedi non farmacologici privi di effetti collaterali come i ben noti braccialetti anti-nausea che funzionano secondo i principi della medicina Cinese (agopuntura/digitopressione). Il bracciale va applicato nel punto P6 dell’agopuntura che è posto circa quattro centimetri sopra la linea distale del polso. Con la pressione di questo punto, si otterrebbe una riduzione della nausea».
Quanti gradi può sopportare il corpo umano. Le ondate di caldo più forti mettono a dura prova il nostro organismo: ecco cosa hanno scoperto gli studiosi circa la temperatura più alta che siamo in grado di reggere. Alessandro Ferro il 29 Luglio 2023 su Il Giornale.
Le ondate di caldo che hanno interessato, in un luglio da record, varie parti del mondo (in Italia ne sappiamo qualcosa) con record caduti come birilli anche a causa della persistenza delle stesse, hanno posto l'accento su una problematica non di poco conto: ma qual è la temperatura più che alta che l’organismo è in grado di sopportare? Per scoprirlo, alcuni ricercatori della Penn State University hanno arruolato uomini e donne nel loro laboratorio per sperimentare la soglia massima dello stress da calore all'interno di una camera ambientale controllata.
Cos'è la pillola telemetrica
Gli studiosi hanno dato ai propri partecipanti una speciale pillola chiamata telemetrica che, una volta ingoiata, ha iniziato a fornire informazioni sulla temperatura profonda dell'organismo. A quel punto hanno iniziato a simulare, all'interno della camera climatica, le normali attività quotidiane come mangiare, cucinare, ecc. Gli esperimenti sono stati centinaia ed è stato monitorato attentamente il momento in cui, a causa della fatica e altri fattori, la temperatura corporea è iniziata a salire: il mix con l'umidità è stato chiamato "limite ambientale critico".
Ecco la soglia di tolleranza
Sotto certi limiti, il nostro organismo può mantenere una temperatura stabile che non ci faccia soffrire e in grado di far svolgere le normali attività quotidiane ma se i limiti si alzano ecco che il termometro del nostro organismo accende la spia segnalandoci che ci troviamo in pericolo per l'aumentato rischio di patologie se siamo esposti in maniera prolungata a certe temperature: ecco spiegati i colpi di calore, ad esempio. "I nostri studi su giovani uomini e donne sani mostrano che questo limite ambientale superiore è persino inferiore ai 35°C teorizzati", spiegano a TheConversation i ricercatori. Infatti, la soglia massima di tolleranza si verifica quando ci troviamo a 31°C in un ambiente con umidità relativa maggiore del 50%, in pratica 31°C con il 100% di umidità o 38°C con il 60%.
Il problema è che, quest'anno e negli anni passati, sono state tantissime le località che hanno avuto ondate di caldo maggiori e prolungate nel tempo: dall'Europa agli Stati Uniti, dall'India e dal Pakistan, ogni giorno sono arrivati bollettini con temperature massime registrate maggiori. Ciò significa che sono a rischio soprattutto i lavoratori che si trovano esposti a questi valori termici per molte ore nel corso della giornata. "Bisogna tenere presente che questi limiti si basano esclusivamente sull'impedire che la temperatura corporea aumenti eccessivamente. Anche temperature e umidità più basse possono sottoporre a stress il cuore e altri sistemi del corpo", sottolineano i ricercatori.
Il caldo è tra i principali dell'aumento della frequenza cardiaca che aumenta ancor prima della temperatura interni ma lo scenario peggiore è rappresentato dall'esposizione prolungata che può diventare disastrosa per popolazioni vulnerabili come gli anziani e le persone con malattie croniche. I consigli per stare al sicuro sono sempre gli stessi: bere tanta acqua, idratarsi ed evitare le ore più calde all'esterno. Vivere in ambienti climatizzati e cercare di non assumere cibi pesanti in presenza delle temperature che abbiamo appena descritto per non sovraccaricare l'organismo con una fase digestiva complessa.
Patrizia Tanzini, morta di caldo a Lecce: febbre a 42 gradi. Il 118: «Non avevamo il ghiaccio». La donna era giunta in ospedale in condizioni gravissime. Marco Roberti su Il Mattino Venerdì 28 Luglio 2023
Morta di caldo, con la febbre che ha raggiunto i 42 gradi. Il ricovero d’urgenza all’ospedale Vito Fazzi di Lecce è servito a poco. Gli operatori sanitari intervenuti a soccorrere la donna non avevano il ghiaccio per la terapia del freddo. E del resto, fino a pochi giorni fa, in piena allerta meteo e con centinaia di emergenze in corso, il più grande ospedale del Salento ne era sprovvisto. Tanto da ringraziare pubblicamente una ditta di prodotti ittici per avere donato 60 chili di ghiaccio alla struttura sanitaria. È accaduto a Magliano (frazione di Carmiano), nel Salento, dove Patrizia Tanzini, 59 anni, si è spenta in poche ore. La tragedia si è consumata lo scorso 24 luglio quando l’aria era irrespirabile e l’allerta meteo ha interessato tutto il sud Italia. Forse il ghiaccio l’avrebbe salvata.
La storia
La donna era svenuta in casa, dove si trovava con il figlio quattordicenne che, quando vede la mamma sul letto, priva di sensi, chiede l’intervento dei soccorsi chiamando il 118. L’auto medica arriva nel primo pomeriggio. La donna viene stesa sul pavimento, probabilmente per avere un po’ di refrigerio, il personale si rende conto che il caso di Patrizia Tanzini è grave. Ma non hanno ghiaccio, troppi interventi. In un primo momento per tentare di far scendere la temperatura viene utilizzato un lenzuolo bagnato, gli operatori avvolgono la testa della paziente. Il ghiaccio per la terapia del freddo è esaurito. Troppi interventi. A quel punto la donna viene portata in ospedale, al Vito Fazzi.
Il pronto soccorso del capoluogo è intasato. I telefoni del 118 continuano a squillare, chiamate di emergenza per colpi di calore, cali di pressione. La donna non risponde alle terapie, neppure alla flebo di paracetamolo. Muore nella notte, prima di essere trasportata da Lecce nel reparto di rianimazione di Casarano. Il marito, che era fuori per lavoro, non ha fatto neppure in tempo a vederla. «La donna è arrivata al Fazzi di Lecce il 24 luglio alle ore 17.51 già in coma – ha spiegato in una nota la Asl - è deceduta per arresto cardiaco in ipertermia maligna, la notte tra il 24 e il 25 alle ore 1.17. La Signora, ci viene riferito dal Pronto soccorso, ha ricevuto tutte le cure, rianimatore compreso, in emergenza ma non è fuoriuscita dallo stato di coma in cui era giunta».
Il ghiaccio
La situazione paradossale si era creata anche all’ospedale pochi giorni prima. Tanto da spingere il direttore generale della Asl di Lecce a ringraziare pubblicamente non soltanto il personale medico, che aveva lavorato in una situazione emergenziale, ma anche la ditta (un’impresa ittica) che aveva fornito il ghiaccio all’ospedale. La nota è stata affidata alla pagina Facebook della Asl: «Questa settimana - si legge nel post del 23 luglio - si è aperta con il black out nel Vito Fazzi dovuto al sovraccarico della rete Enel, che il 18 luglio ha mandato anche in corto circuito uno dei generatori supplementari ospedalieri, lasciando al buio tutti i reparti, tranne il Dea, per ore. Vorrei ringraziare anche la direzione medica, che si è trovata a gestire il trasferimento di numerosi pazienti, e l’Area Tecnica che ha lavorato per il ripristino della corrente elettrica a notte fonda. Nel week end in corso, il pronto Soccorso del Fazzi ha dovuto gestire decine di codici rossi contemporaneamente, tra cui ben sei pazienti con colpo di calore e febbre fino a 41 e 42 gradi. Per il protrarsi delle elevate temperature corporee e dopo aver constatato insieme ai rianimatori l’inefficacia della sola terapia medica, nella tarda serata di venerdì, una dottoressa del pronto soccorso ha interpellato il medico di turno della direzione medica facendo presente la necessità di un ulteriore quantitativo di ghiaccio per ridurre la temperatura dei pazienti che non rispondevano alle cure. Il Medico ha interpellato la Ditta De.Mar. che ha provveduto alla consegna gratuita e immediata di sei sacchi di ghiaccio da 10 kg, direttamente nel pronto soccorso. Grazie di cuore a De.Mar. e a chi ha contribuito a scrivere questa storia di resilienza e solidarietà».
La Vista.
Estratto dell’articolo di Corrado Zunino per repubblica.it il 25 dicembre 2022.
L''homo smartphone' perderà la vista lunga, diversi studi medici convergono verso questa conclusione. "Un tempo si attribuiva molta importanza alla genetica, oggi invece sappiamo che anche i fattori ambientali giocano un ruolo cruciale nell'insorgenza della miopia", ha già illustrato il professor Paolo Nucci, direttore della clinica universitaria dell'Ospedale San Giuseppe di Milano, promotore del primo congresso che, nel 2017, portò a Milano centocinquanta oculisti e rese pubbliche le prime, preoccupanti proiezioni. Erano queste: entro il 2050, in Italia e nel resto d'Europa, il 75-80 per cento della popolazione sarà miope. "La patologia, in virtù dello stile di vita caratteristico dei Paesi industrializzati, è in costante aumento".
Secondo un recente lavoro scientifico internazionale, guidato dal Dipartimento di Oftalmologia dell'Università Emory di Atlanta (Usa) e puntato sugli effetti sulla vista regalati dai due anni di pandemia, il confinamento domestico provocato dal coronavirus si è associato a un aumento dell'incidenza del difetto della vista tra i bambini (-0,3 diottrie). Rispetto ai cinque anni precedenti, nel 2020 la prevalenza della miopia è significativamente aumentata nella fascia preadolescenziale.
Ancora, il corso di laurea in Ottica e Optometria del Dipartimento di Matematica e Fisica dell'Università del Salento ha avviato uno studio che punta alla prevenzione della progressione miopica coinvolgendo un campione di più di duemila alunni dagli 8 ai 14 anni (scuola primaria e secondaria di primo grado). I dati di partenza sono questi: entro metà secolo la miopia sarà diffusa in oltre il 30 per cento delle persone in Europa (stima migliore rispetto a quella di cinque anni fa del professor Nucci), nel 40 per cento dei residenti negli Stati Uniti e in oltre l'80 per cento degli abitanti di Cina, Singapore e Corea del Sud. L'Organizzazione mondiale della sanità ha realizzato una stima globale, puntata sempre al 2050: il 52 per cento degli esseri umani avrà difficoltà nella vista da lontano.
"I Paesi più tecnologici hanno problemi acuti"
"L'impiego costante di dispositivi che richiedono attività visiva ravvicinata fa dire che la miopia sarà il modo di vedere più funzionale al nostro attuale stile di vita", dicono gli esperti. "L'occhio umano è programmato per la visione da lontano, cioè per lo sguardo all'infinito che garantisce una messa a fuoco spontanea", spiegano, "mentre la visione da vicino richiede un processo attivo di accomodazione con conseguente dispendio di energia e facile affaticamento". Non esiste ancora la prova scientifica che tutto questo sia figlio dell'era del telefonino, ma gli esperti traggono queste conclusioni: "Leggere gli schermi digitali e vivere al chiuso comporta uno sforzo continuo per gli occhi".
Di certo, stare all'aria aperta riduce il rischio di miopia.
(…)
A fianco della questione smartphone, hanno un'incidenza sul difetto della vista l'illuminazione e l'ampiezza degli ambienti, la postura delle persone e, abbiamo visto, il movimento fisico all'aperto. (…) Gli esperti sdoganano tv e console per videogame che, a differenza di smartphone e tablet, implicano una visione più fisiologica, a una distanza di almeno due metri.
L’Udito.
Estratto dell’articolo di Antonella Sparvoli per il “Corriere della Sera” domenica 13 agosto 2023.
Tanto fastidiosa quanto comune, l’otite esterna, nota anche come «otite del nuotatore», è una condizione che in estate vede un vera e propria impennata di casi. Le nuotate e le tante ore passate in acqua, al mare o in piscina, possono infatti facilitarne lo sviluppo.
A che cosa è dovuta?
«L’otite esterna è un’infezione del condotto uditivo esterno, in genere dovuta a batteri o, talvolta, a funghi — premette Claudio Albizzati del Servizio di Otorinolaringoiatria della Multimedica di Milano —. Il suo sviluppo è legato al ristagno di acqua nel canale uditivo dove, complice la macerazione delle cellule […] e l’eventuale presenza di residui di cerume, si crea un microambiente favorevole alla proliferazione dei microrganismi.
Se è vero che la presenza di cerume può favorirne lo sviluppo, è anche vero che può insorgere anche in orecchie perfettamente pulite qualora ci si immerga in acque particolarmente contaminate. Poi ci sono eccezioni, come quella, apparentemente paradossale, delle Maldive: l’acqua è spettacolare ma molto ricca di microrganismi.
Tant’è che l’immersione in questo mare cristallino è l’unico caso in cui, una volta usciti dall’acqua, è raccomandato lavare le orecchie con acqua dolce[…]».
Quali sono i disturbi che si presentano?
«La prima sensazione è quella che sia rimasta l’acqua nell’orecchio: il cerume è infatti “igroscopico ”, cioè in grado di assorbire l’acqua. In pratica si gonfia, si imbeve d’acqua e facilita la crescita dei batteri.
Senza contare che quando le persone hanno questa sensazione di orecchie bagnate, iniziano a toccarle e a cercare di togliere l’acqua con bastoncini o fazzolettini peggiorando le cose. All’inizio avvertono un po’ di prurito […] e poi arriva il dolore, soprattutto di notte. Un altro sintomo comune è l’ipoacusia, ovvero la riduzione dell’udito, perché il tappo di cerume si è espanso oppure perché il canale si è gonfiato e così facendo riduce il lume del condotto».
Come si può contrastare?
«Nel momento in cui l’orecchio si gonfia e fa male l’ideale è consultare uno specialista che pulisce l’orecchio, […] non con il lavaggio (che è altamente sconsigliato) ma con un apposito aspiratore o specifici uncini. Una volta rimossi i detriti, si ricorre a una terapia locale con gocce auricolari, in genere a base di antibiotici e cortisonici […].
Per rendere più rapida la guarigione talvolta si inserisce nell’orecchio uno stoppino (wick) , molto usato negli Stati Uniti, che si imbeve delle gocce e le mantiene all’interno del canale uditivo. Se, passata una settimana, non si vedono miglioramenti, è sempre bene consultare uno specialista».
Che cosa si può fare per prevenirla?
«[…] fare una visita con un otorino prima di partire per le vacanze in modo tale che possa pulire il condotto uditivo da eventuali detriti di cerume o di cellule morte. Altrettanto importante è evitare di pulirsi le orecchie con bastoncini cotonati. Ancora, se si sentono le orecchie bagnate è utile asciugarle con il phon, mentre i tappi sono sconsigliati perché possono spingere ancora più in giù il cerume [….]».
Estratto dell’articolo di Maria Rita Montebelli per “Il Messaggero” il 6 luglio 2023.
Uno "shock acustico" in cuffia ha incattivito gli acufeni che tormentavano da tempo Pelù, rendendoli «molto aggressivi», al punto da costringerlo a far slittare di alcuni mesi il tour Estremo, in calendario quest'estate. […] Lo scorso anno, sorte analoga era toccata a Caparezza. In questo caso il cantante pugliese ha ammesso di aver provato di tutto, dalle pillole, alle iniezioni, alla psicoterapia, nei sette anni trascorsi in compagnia degli acufeni, prima di capire che alla fine sarebbe stato costretto a "tenerseli", cercando di distrarsi, magari pensando ad altro.
Ma l'elenco dei cantanti famosi, tormentati dagli acufeni, è davvero lungo e comprende artisti del calibro di Chris Martin (Coldplay), Phil Collins, Bono degli U2, Eric Clapton, solo per citarne alcuni.
E non sorprende, perché gli acufeni sono quasi una malattia "professionale" indotta dal fragore dei concerti rock, che a volte supera i 100 decibel. Ma se è vero che ascoltare la musica a tutto volume dà un senso di appagamento, di liberazione e può provocare il rilascio di endorfine (i neurotrasmettitori del benessere), è bene ricordare che dai 100 decibel in su la musica può provocare gravi danni all'apparato uditivo.
[…]
Ma cosa sono gli acufeni e quando è il caso di preoccuparsi e di cercare aiuto professionale? È una domanda che potrebbero porsi in molti, visto che questo disturbo interessa fino al 15% della popolazione. Per capire cosa sono gli acufeni bisogna seguire le onde sonore che, accolte dal padiglione dell'orecchio, vengono convogliate nel canale uditivo e da qui nell'orecchio medio e infine in quello interno, dove alcune cellule specializzate (le cellule capellute o ciliate) all'interno degli ossicini dell'orecchio interno (la coclea), trasformano le onde sonore in impulsi elettrici, che viaggiano verso la corteccia uditiva del cervello, attraverso il nervo acustico.
Il problema nasce quando queste cellule "capellute" superspecializzate vengono danneggiate (da un rumore fortissimo o da un farmaco, ad esempio); questo provoca uno stimolo anomalo delle cellule nervose, che fanno parte di questo circuito cerebrale, che vanno a generare l'illusione di un suono inesistente, l'acufene appunto.
Da un punto di vista descrittivo gli acufeni sono dei rumori di vari tipo (ronzii, fischi, campanelli, sibili, urla, ecc.) […]
A volte l'acufene è "pulsante", come se si sentisse il battito del cuore nelle orecchie; in questo caso si avverte soprattutto la notte, quando si è a letto ed è spesso legato allo scorrere del sangue, sincrono appunto con il battito cardiaco, all'interno di arterie indurite dagli anni e dall'aterosclerosi. Se il problema persiste, vale la pena avvertire il medico perché potrebbe essere segno di un danno ai vasi o di altra natura, da un problema di tiroide, ad un tumore ricco di vasi. Oltre all'esposizione a un forte rumore, a volte gli acufeni sono provocati da farmaci come l'aspirina o altri anti-infiammatori non steroidei assunti a dosaggio elevato, ma anche da antibiotici, farmaci antimalarici e anticonvulsivanti, diuretici e antidepressivi.
LE STRATEGIE A volte il problema si associa ad una perdita anche parziale dell'udito; altre volte è causato da un'infezione (otite) dell'orecchio medio oppure può essere un sintomo della sindrome di Menière (un problema dell'orecchio interno, che causa vertigini invalidanti). Altre volte gli acufeni sono causati da un tappo di cerume. […] per gli acufeni "idiopatici" (cioè senza una causa) non ci sono terapie risolutive, ma a volte questi tendono a scomparire spontaneamente o diventano più sopportabili e gestibili col tempo.
Un beneficio può venire tuttavia da alcune strategie comportamentali (terapie cognitivo-comportamentali, biofeedback, ecc) o da apparecchi che generano rumore bianco' (simile ad una radio o un televisore fuori sintonia), che possono ridurre la percezione dell'acufene.
Un'app per smartphone può curare l'acufene. Tra i malati celebri Bono, Caparezza, Streisand e Liam Gallagher. Romualdo Gianoli su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.
Se il cervello ci inganna facendoci sentire suoni inesistenti, perché non ricambiarlo inducendolo a ignorare quei suoni?
Chi non ha mai sperimentato quel fastidioso fischio o ronzio nelle orecchie anche quando, in realtà, non c’è nessun suono nell’ambiente? È l’acufene o tinnitus, (può essere anche un cinguettio o un urlo) che esiste solo nella nostra testa, prodotto dal nostro cervello senza sorgente esterna e che possiamo avvertire da un orecchio o da entrambi ed essere costante o intermittente. Ne sanno qualcosa cantanti e musicisti come Phil Collins, Bono, Eric Clapton, Bob Dylan, Liam Gallagher, Barbra Streisand o il nostro Caparezza, tanto per fare qualche nome. Statisticamente, infatti, il 30-50% dei musicisti è vittima di acufene perché la prolungata esposizione a forti suoni è una delle cause scatenanti. Tuttavia può essere causato anche da disturbi neurologici, da alcune patologie o dall’assunzione di certi farmaci e si stima che ne soffra tra il 15 e il 20% della popolazione adulta, soprattutto quella anziana.
La cura con lo smartphone
Se la maggior parte delle persone, però, può sperimentare l’acufene in maniera occasionale, per il 5% circa questo disturbo diventa una presenza costante in ogni momento del giorno o della notte e per tutta la vita. Insomma un disturbo che può diventare invalidante e prendere il sopravvento su qualunque altro aspetto della nostra vita, determinando problemi di sonno, difficoltà a svolgere le attività quotidiane, stress e depressione. Le cause dell’acufene sono complesse e sfuggenti e quindi anche i trattamenti sono di varia natura (farmacologica, chirurgica, neurologica, etc.) ma nessuno, finora, è stato risolutivo. Dopo 20 anni di studi per una cura all’università di Auckland in Nuova Zelanda, un gruppo di ricerca guidato da Grant Searchfield e Phil Sanders ha ottenuto risultati incoraggianti con la sperimentazione di una terapia basata sulla tecnologia degli smartphone nella quale la chiave del trattamento è una valutazione iniziale da parte di un audiologo che sviluppa un piano personalizzato, combinando una gamma di strumenti digitali basati sull’esperienza individuale dell’acufene. Alla base c’è questo ragionamento: se l’acufene è un suono fantasma, una sorta di allucinazione del nostro cervello che ci inganna facendoci sentire qualcosa che non c’è, allora perché non applicare questo stesso principio al cervello, inducendolo in qualche modo a ignorare questo suono? Insomma, perché non ingannare a nostra volta il cervello o, quanto meno, distrarlo quel tanto che basta per fargli ignorare quel suono? «Ciò che fa questa terapia - spiega Searchfield - è essenzialmente riconfigurare il cervello in modo da deenfatizzare il suono dell’acufene, riducendolo a un rumore di fondo che non ha significato o rilevanza per l’ascoltatore».
Cosa hanno fatto i ricercatori?
Hanno condotto uno studio clinico su un prototipo di terapia digitale sonora personalizzata attiva/passiva e basata sul gioco, per verificare se potesse fornire risultati superiori (ma con usabilità simile) a una popolare App per la terapia passiva del suono, su un periodo di 12 settimane. Lo studio è stato condotto in modalità detta a singolo cieco con la quale, cioè, i soggetti non sanno se stanno ricevendo il placebo oppure il vero farmaco (in questo caso la terapia sperimentale). Ciò riduce gli errori dovuti al fatto che alcuni soggetti, sapendo di assumere il placebo, potrebbero fornire risultati spuri. Ovviamente, gli sperimentatori che conducono il test sanno quali individui hanno ricevuto il placebo.
Come è stato condotto lo studio?
Il test della terapia digitale sperimentale (chiamato ‘UpSilent’) si è basato sull’uso di un’app per smartphone (iPhone o Android) appositamente sviluppata, di cuffie Bluetooth a conduzione ossea, di un cuscino per il collo con altoparlanti incorporati e di un quadro di controllo (dashboard) per i medici basato su cloud, per consentire la personalizzazione dell’app e la messaggistica per ogni partecipante allo studio. Per il controllo, invece, è stata usata ‘White Noise’, una popolare app di auto-aiuto (disponibile su App Store e Play Store) basata su una terapia del suono passiva. In questo caso ai partecipanti sono state fornite cuffie cablate in-ear, ma erano anche liberi di usare le proprie cuffie, se preferite. Nel caso di UpSilent il ricercatore aveva un controllo parziale sul sistema complessivo, potendo abilitare o disabilitare da remoto le funzionalità, le modalità e i contenuti dell’app di ogni paziente tramite la dashboard. In questo modo è stato ricavato un profilo personalizzato per ciascun paziente in base alle sue esigenze e alla valutazione del suo acufene. L’app, infine, aveva tre diverse modalità: ascolto passivo, ascolto attivo e consulenza. Nella fase passiva i pazienti hanno ascoltato tracce audio da una libreria di suoni selezionati in base alle loro preferenze e ai loro obiettivi di miglioramento. Così, dei suoni detti di ‘sollievo’, hanno interagito con l’acufene creando un mascheramento mentre con quelli di ‘rilassamento' si è ottenuto un effetto emotivo positivo, associato a situazioni di calma come, ad esempio, il suono di una dolce cascata. Infine, con i suoni di ‘riqualificazione’ (suoni di natura più complessa) i partecipanti al test hanno imparato a concentrare l’attenzione solo su questi, distogliendola dall’acufene. Con l’ascolto attivo, invece, ai partecipanti sono stati fatti ascoltare dei suoni simili al loro acufene (una sorta di ‘avatar’) dandogli, però, la possibilità di manipolarli, così da identificarne la collocazione spaziale, per poi spostare l’attenzione da e verso l’origine di quei suoni.
Risultati che lasciano ben sperare
Alla fine della sperimentazione clinica, in media, il gruppo trattato con questo nuovo approccio digitale politerapeutico (31 persone) ha mostrato miglioramenti significativi dopo sole 12 settimane, mentre nell’altro gruppo (30 persone) questi miglioramenti non ci sono stati. «Questo risultato - ha sottolineato Grant Searchfield - è più significativo di alcuni dei nostri lavori precedenti, è un metodo più veloce ed efficace che impiega solo 12 settimane e non 12 mesi per ottenere un certo controllo del disturbo in più individui ed è probabile che abbia un impatto diretto sul futuro trattamento dell’acufene». Ancora più ottimista è stato Phil Sanders, l’altro autore dello studio, secondo il quale i risultati sono stati «entusiasmanti», dato che «il 65% dei partecipanti ha riportato un miglioramento e per alcune persone dove l’acufene stava prendendo il sopravvento, ne ha addirittura cambiato la vita. Altre persone, invece, non hanno notato un miglioramento ma il loro feedback servirà comunque per un’ulteriore personalizzazione». Lo studio è stato pubblicato sulla rivista 'Frontiers in Neurology'.
Acufene, quel sibilo all'orecchio che non dà pace. Di cosa si tratta e i migliori integratori per curarlo. Non si tratta di una vera e propria patologia, ma il disturbo provocato dall'acufene, nelle forme più gravi, può arrivare a creare anche problemi invalidanti. Di cosa si tratta e quali sono i rimedi. Roberta Damiata l’ gennaio 2023 su Il Giornale.
Il termine acufene (o tinnito) indica una condizione fisica, in cui viene percepito un rumore in una o in entrambe le orecchie, anche se dall’esterno non proviene alcun suono. È un tipo di disturbo molto frequente che colpisce fino al 15% della popolazione, anche se nella maggior parte dei casi viene ben tollerato. Esiste però una piccola percentuale, circa il 2%, per cui il disturbo, e le conseguenze, possono risultare invalidanti. Il suono percepito, può essere debole o forte, continuo o intermittente, e può arrivare solo da un orecchio, (acufene unilaterale) oppure da entrambi (acufene bilaterale).
In Italia sono quasi 6 milioni le persone che convivono con questa sorta di patologia, di cui circa 400 mila in maniera severa. Esistono varie scale del disturbo, che differiscono secondo il personale livello di tolleranza. Anche se può colpire ad ogni età, sono rari i casi legati ai bambini; quando accade solitamente i problemi di udito sono presenti sin dalla nascita, e come gli anziani, possono esserne a rischio se esporti a rumori molto forti. Spesso l'acufene, è il sintomo finale di potenziali malattie della parte interna dell'orecchio, e ancora più frequentemente di possibili malattie neurologiche.
Acufene, le cause
Nonostante la ricerca medica stia facendo passi in avanti, non è ancora ben chiaro come si sviluppa. Si ipotizza che il gruppo di cellule nervose che di norma regolano i segnali di rumore e di dolore, possano alterarsi sviluppando una percezione cronica di queste sensazioni. Le aree del cervello, responsabili di questi sibili e ronzii, sono il nucleo accumbens e numerose altre zone tra cui la corteccia prefrontale ventro-mediale e la corteccia cingolata anteriore. Il nucleo accumbens che fa da interfaccia fra i circuiti dei sistemi limbico, cognitivo e motorio è però stimolato anche dal principale ormone dello stress, e la sovrapposizione di questi due elementi potrebbero essere una delle causa della scomparsa del sibilo.
Ci sono poi alcuni fattori che generano l’acufene, detti eziologici, dovuti ad alcune patologie come ad esempio:
Patologie dell’orecchio (cerume, otiti, corpi estranei, ipoacusia, al neurinoma acustico-vestibolare)
Malattia di Ménière (sindrome caratterizzata da crisi di vertigini frequenti)
Esposizione a suoni di elevato volume
Stress emotivo
Alcuni farmaci (acufene ototossico)
Problemi dell’articolazione temporomandibolare
Contratture muscolari
Problemi cardiovascolari
Conflitto neurovascolare
Danni neurologici (ad esempio dovuti a sclerosi multipla)
Le diverse tipologie
Nonostante la natura soggettiva del disturbo, che varia per ogni persona, e la limitata conoscenza dei processi che la causano, l'acufene si divide in tre principali categorie:
acuto - quando persiste fino a tre mesi;
subacuto - quando persiste fino a sei mesi;
cronico - quando persiste da più di sei mesi.
Trattanddosi di un disturbo soggettivo non può essere misurato tramite test medici, quindi la visita dallo specialista si basa solo sul racconto del paziente, un esame dell'udito o una risonanza magnetica, che possano escludere cause specifiche come conseguenza del fastidioso rumore percepito.
I fattori a rischio
Esistono poi fattori considerati a rischio per la comparsa del disturbo.
L’età è un fattore determinante: negli anziani, in cui più frequentemente si verifica una perdita dell’udito, può quindi fare la comparsa.
Cause ambientali, come ad esempio l’esposizione al rumore: questo pone a rischio anche alcune categorie di lavoratori, come quelli edili, musicisti, e soldati.
Anche se sono ancora poche le evidenze scientifiche a sostegno di questi aspetti, il fumo di sigarette, il consumo di alcolici, l’obesità e l’alimentazione, possono diventare fattori di rischio.
Presenza di patologie concomitanti, come la sindrome di Meniére, disordini temporo-mandibolari, neurinomi acustici, traumi cranici, e malattie cardiovascolari.
L'uso di alcuni farmaci tossici per l'orecchio, che possono contribuire all’insorgenza di acufeni o addirittura al loro peggioramento.
Acufene, i rimedi
Generalmente il tinnito viene trattato tramite la risoluzione della patologia medica che ne è all’origine e che lo ha scatenato. Spesso la causa alla base dell’acufene rimane sconosciuta (acufene idiopatico). In questi ultimi casi il trattamento si basa sulla tecnica che mira a spegnere l’informazione sonora a livello cerebrale (habituation) a volte utilizzando apparecchi produttori di “rumori bianchi” capaci di mascherare il messaggio sonoro al cervello. Molto utili sono anche gli integratori per acufeni le cui sostanze aiutano a migliorare lo stimolo uditivo agendo sul nervo acustico, favorendo il microcircolo e contrastando l’azione dei radicali liberi che provocano infiammazione e innescano processi degenerativi cronici.
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I Dolori.
Rimedi naturali. Dolori intercostali, cause e rimedi naturali. Durante la stagione fredda i dolori intercostali sono uno dei problemi più ricorrenti. Scopriamo insieme quali sono le cause più diffuse e i rimedi naturali. Mariangela Cutrone il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.
I dolori intercostali sono uno dei problemi più ricorrenti durante la stagione fredda.
Colpiscono quando meno ce lo aspettiamo e destano tanta preoccupazione perché spesso sono confusi con problemi più seri come i sintomi di un infarto che minaccia la salute del nostro cuore.
Quali sono le cause dei dolori intercostali
Si manifestano sotto forma di fitte improvvise all’altezza delle costole e del torace. La sua origine è svariata. Di fatto il dolore acuto attraverso il quale si manifestano può provenire dalle ossa, dallo stomaco, dai polmoni o addirittura dallo stomaco. Le cause variano a seconda della circostanza in cui si presenta e scatena il sintomo stesso. Si verificano spesso dopo aver compiuto uno sforzo fisico eccessivo, dopo aver preso freddo a causa di repentini sbalzi di temperatura o dopo aver mangiato. Potrebbero essere anche causati da un disturbo alle vie respiratorie in seguito a polmonite, pleurite o tosse persistente.
Alcune volte si verificano prima di avere la febbre o l’influenza stagionale. Questi dolori fastidiosi possono essere scatenati anche a causa di un disturbo gastrico ricorrente, noto come il reflusso gastroesofageo che è spesso accompagnato da un fastidioso dolore toracico e che si manifesta solitamente dopo aver consumato i pasti o nelle ore serali.
Cosa fare in caso di dolori intercostali
In caso di dolori intercostali il primo consiglio è quello di capire prima di tutto l’origine del problema. Gli esperti consigliano dopo una fitta dolorosa e le loro prime manifestazioni di non sottovalutare il problema. Quindi bisogna prima di tutto evitare di fare sforzi fisici e stare al riposo il più possibile.
Se dovessero diventare persistenti e difficili da gestire il medico curante sarà costretto a prescrivere degli antinfiammatori e antidolorifici per lenire il dolore e l’infiammazione locale. Se la causa è una contrattura muscolare dovuta d’un colpo di freddo o ad uno sforzo eccessivo molto utili sono i massaggi.
Tra i rimedi naturali più diffusi e dall’indubbia efficacia vi è l’artiglio del diavolo, noto per le sue proprietà analgesiche e antinfiammatorie. In questi casi è prezioso sia sotto forma di pomata che di gocce da applicare grazie a massaggi leggeri e da ripetere almeno due o tre volte al giorno. Tra gli altri unguenti di origine naturale molto efficaci vi è l’olio di arnica che in questi casi aiuta ad alleviare il dolore al torace provocato dalle fitte.
In particolare il massaggio da effettuare nella zona toracica deve essere operato con una certa delicatezza senza effettuare inutili e fastidiose pressioni. Va effettuato fino a quando la pomata o l’unguento non viene assorbito completamente. Uno dei rimedi della nonna molto diffusi per risolvere questo problema quando però è legato a particolari disturbi gastrici è quello di preparare una soluzione di limone e bicarbonato. Fa tanto bene stare al caldo e quindi usare la borsa dell’acqua calda da tenere sulla zona toracica.
Il Mal di pancia.
Capire i disturbi più comuni.
Sindrome del colon irritabile.
Disturbi intestinali e della digestione: a cosa sono dovuti e come curarli. La Redazione de La Voce di Manduria il 18 gennaio 2023.
Mal di pancia
Lo stomaco è uno dei principali organi addominali; è costituito da una sacca, all’interno del quale si raccoglie il cibo ingerito e masticato. Qui, grazie all’azione dei succhi gastrici, l’organismo avvia la digestione degli alimenti, a cominciare dalle proteine e dai carboidrati; lo stomaco svolge anche altre funzioni, tra cui la secrezione endocrina.
La salute di questo organo dipende in buona parte dall’alimentazione e dallo stile di vita che si conduce; esistono diversi fattori di rischio che possono provocare disturbi a carico dello stomaco e dell’apparato gastrointestinale nonché, più in generale, interferire con il corretto sviluppo del processo digestivo.
QUALI SONO I DISTURBI PIÙ COMUNI
L’espressione “disturbi gastrointestinali” è molto comune e viene impiegata per designare una vasta gamma di condizioni, alcune lievi altre gravi, che interessano lo stomaco e l’apparato gastrointestinale. In particolare, tali disturbi possono spaziare dalle semplici difficoltà di digestione a nausea, vomito e diarrea. A questi si aggiungono acidità e bruciore di stomaco, gonfiore, pesantezza e reflusso gastroesofageo.
LE CAUSE PRINCIPALI
Non esiste una causa univoca scatenante per i disturbi gastrici e i problemi di stomaco; ciascuna condizione può avere cause molteplici e, al contempo, bisogna tenere in conto abitudini, stile di vita e predisposizione (tra cui, ad esempio, ipersensibilità della flora intestinale) da parte del singolo individuo.
La ‘cattiva digestione’ (o “dispepsia”, in gergo clinico) comporta molti dei più diffusi disturbi gastrointestinali, riconducibili molto spesso ad una cattiva alimentazione: il consumo di pasti abbondanti, composti da cibi pesanti (fritti, ricchi di grassi o molto conditi) rende la digestione più lenta e difficoltosa, provocando gonfiore addominale, pesantezza, meteorismo ed eruttazione.
L’acidità di stomaco (iperacidità gastrica) si manifesta a seguito di una eccessiva secrezione di acido gastrico; può scaturire non solo da cattive abitudini alimentari (consumo smodato di cibi e bevande quali pomodoro, caffè, fritti, alcolici e pietanze piccanti) ma anche da condizioni di forte stress e da uno stile di vita poco sereno ed equilibrato. Lo stesso dicasi per il bruciore di stomaco, del quale possono soffrire anche i tabagisti e chi abusa di bevande alcoliche. Anche alcune terapie farmacologiche possono indurre, tra gli effetti collaterali, l’acidità di stomaco così come una particolare infezione batterica.
Il reflusso gastrico, invece, consiste in una risalita anomala del contenuto dello stomaco nell’esofago; il fenomeno può essere dovuto sia ad un rallentamento dello svuotamento gastrico (lo stomaco non ‘smaltisce’ tempestivamente il cibo ingerito) sia ad una copiosa risalita di acido dallo stomaco. In aggiunta, anche alcune condizioni quali sovrappeso, forte stress o gravidanza possono contribuire all’insorgere di tale disturbo.
COME AFFRONTARE I DISTURBI GASTRICI
I problemi digestivi e di tipo gastrico possono essere contrastati anzitutto con farmaci specifici come, ad esempio, Biochetasi effervescente. Si tratta di una formulazione per la quale non è richiesta la prescrizione medica, tant’è che può essere acquistata sia in farmacia sia online, rivolgendosi a e-commerce autorizzati come Anticafarmaciaorlandi.it. Ciò nonostante, è consigliabile rispettare sempre dosaggio e posologia indicati sulla confezione o sul foglietto illustrativo.
In aggiunta, in base al tipo di disturbo, è possibile fare ricorso ad altri farmaci senza obbligo di prescrizione come, ad esempio, digestivi o antiacidi. Nel caso in cui, invece, i sintomi si protraggono nel tempo o assumono carattere cronico, è bene consultare il proprio medico di fiducia per valutare l’opportunità di una terapia farmacologica.
Naturalmente, molti dei disturbi gastrointestinali possono essere attenuati tramite la prevenzione, ossia rendendo la propria alimentazione più sana ed equilibrata; in aggiunta, è bene limitare fumo ed alcool e cercare di condurre uno stile di vita salutare, evitando fonti di stress e tensione eccessive.
Sindrome del colon irritabile, scoperto il ruolo della diversità batterica. Diarrea alternata a stipsi, gonfiore e dolore addominale. Sono tutti sintomi della sindrome del colon irritabile. La diversificazione del microbioma intestinale sembra svolgere un ruolo importante nella sua comparsa. Maria Girardi l’1 Febbraio 2023 su Il Giornale.
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Le cause e i fattori di rischio della sindrome del colon irritabile
I sintomi della sindrome del colon irritabile
La sindrome del colon irritabile e la diversità batterica
La sindrome del colon irritabile o IBS, dall'inglese "Irritable Bowel Disease", è un insieme di disturbi intestinali cronici che interessano appunto il colon, ovvero l'ultimo tratto dell'intestino crasso. L'intestino, uno degli organi più estesi del corpo, è una porzione dell'apparato digerente e si divide in intestino tenue ed intestino crasso. Nel primo si completa la digestione degli alimenti iniziata nello stomaco e si assorbono i prodotti della stessa. Nel secondo, invece, si accumulano i residui del processo digestivo che vengono successivamente smaltiti.
Dati alla mano, la colite spastica (altro nome della problematica) colpisce il 15-20% della popolazione, in particolare donne di età compresa fra i 20 e i 30 anni. Nel sesso femminile, infatti, si registra il doppio delle diagnosi. Nonostante la sintomatologia molto fastidiosa, la sindrome del colon irritabile non è un disturbo grave e non può in alcun modo essere paragonato ad altre patologie infiammatorie intestinali come la colite ulcerosa e il morbo di Crohn. Queste ultime non solo alterano la normale anatomia intestinale, ma predispongono altresì al tanto temuto cancro dell'intestino.
Le cause e i fattori di rischio della sindrome del colon irritabile
Attualmente le cause della sindrome del colon irritabile sono sconosciute. Basandosi sulla definizione di intestino quale secondo cervello, molti scienziati sono giunti alla conclusione che il disturbo è l'esito di un'anomala comunicazione tra encefalo, muscoli intestinali e fibre nervose innervanti l'organo. Ulteriori studi hanno svelato che i sintomi si scatenano in seguito all'attivazione dei cosiddetti "triggers", ovvero condizioni peculiari come lo stress psicofisico intenso, le malattie infettive del tratto gastrointestinale e l'assunzione di particolari alimenti.
Se l'ansia e la depressione hanno un ruolo chiave nella comparsa della sintomatologia, non si deve dimenticare l'influenza delle alterazioni ormonali soprattutto durante il periodo mestruale. Attenzione, infine, ad alcuni fattori di rischio: iperalgesia viscerale (aumento patologico della sensibilità al dolore dei visceri addominali), squilibri dei neurotrasmettitori, movimenti anomali dell'intestino, sindrome da proliferazione batterica intestinale, precedente gastroenterite di origine virale o batterica.
I sintomi della sindrome del colon irritabile
Le manifestazioni della sindrome del colon irritabile variano da persona a persona. In linea di massima si può affermare che esiste un'alternanza fra periodi di benessere e momenti in cui i sintomi compaiono in maniera più o meno intensa. Tra questi rientrano:
Dolori e crampi addominali che si attenuano con la defecazione;
Stipsi o diarrea;
Distensione addominale;
Presenza di muco nelle feci;
Meteorismo;
Urgenza di evacuare dopo i pasti;
Sensazione di incompleto svuotamento intestinale dopo la defecazione;
Mal di schiena;
Ansia e depressione;
Problemi urinari;
Dispareunia.
Da tempo è appurato che l'ingestione di determinati alimenti peggiora la sintomatologia. Nel 2006 gli scienziati Peter Gibson e Susan Sheperd della Monash University di Melbourne hanno ideato la dieta FODMAP. Si tratta di un regime alimentare che elimina per poi reintrodurre in maniera graduale i carboidrati. Sono invece consigliati i legumi (lenticchie, fave, fagioli, ceci), la verdura (asparagi, cicoria, carciofi, cavolo cappuccio), la frutta (uva, pere, mele, prugne, banane acerbe o molto mature), il latte e i latticini, i dolcificanti (sorbitolo, fruttosio), il tè e il caffè.
La sindrome del colon irritabile e la diversità batterica
Gli scienziati dell'American Society for Microbiology e della Korea University College of Medicine di Seul hanno scoperto che le persone con sindrome del colon irritabile presentano nell'intestino una minore diversità batterica rispetto agli individui sani. Lo studio, condotto da Jung Ok Shim professore di gastroenterologia pediatrica, epatologia e nutrizione, è stato pubblicato su Microbiology Spectrum. In condizioni normali l'intestino umano è popolato da più di diecimila specie di microrganismi. L'alterazione di questo microbioma può innescare sintomi quali gonfiore, dolore addominale e diarrea.
Precedenti indagini sui batteri intestinali di pazienti con colite spastica si sono rivelate insoddisfacenti a causa delle piccole dimensioni dei campioni e della mancanza di metodi analitici coerenti. Questa volta il team ha combinato il proprio set di dati con quello di 9 set includenti 576 soggetti con sindrome del colon irritabile e 487 persone sane. I ricercatori sono giunti alla conclusione che negli individui con IBS la comunità batterica intestinale è meno diversificata. Nei pazienti sani vi erano ben 21 specie batteriche in più.
Nonostante gli scienziati abbiano dimostrato che il microbiota intestinale alterato è associato alla colite spastica, non si è ancora sicuri che tale relazione sia casuale. Conclude Jung Ok Shim: «Sulla base degli studi epidemiologici degli individui con IBS, l'alterazione della comunità batterica è stata proposta come una delle possibili cause del disturbo. La gastroenterite batterica acuta, ad esempio, può provocare infiammazione cronica, asintomatica e di basso grado della parete intestinale sufficiente ad alterare la funzione delle cellule epiteliali e neuromuscolari. Sono ora necessari ulteriori studi funzionali».
Malattie virali delle vie aeree.
Malattie virali delle vie aeree: sintomi, complicanze e interventi efficaci (o inutili). Panorama l’08 Febbraio 2023
Le differenze tra i virus che sono in circolazione in questo periodo: come si interviene. I rimedi efficaci, senza esagerare con gli antibiotici. La parola all’esperto.
L’inverno con freddo e giornate gelide è nel picco. Sono diversi i virus che questo inverno stanno portando bambini e adulti nel Triage dei Pronto Soccorso italiani: sono quelli dell'influenza, del Covid-19 e del RSV. Alcuni attaccano prevalentemente le vie aeree, ma in circolazione ci sono anche quelli ad esordio gastrointestinale. Non esiste solo il Coronavirus con le sue numerose varianti, a complicare la trama di diagnosi e cure, ci sono anche l'influenza australiana e il virus respiratorio sinciziale. La pandemia ha portato l’attuale scenario: per due anni ci siamo "solo" dovuti confrontare con il Covid-19 e questo ha presumibilmente diminuito la nostra immunità a queste altre famiglie di virus. Molti bambini nati durante la pandemia, inoltre, non hanno nemmeno avuto alcuna immunità, specie se non sono stati vaccinati. La conseguenza è che un numero maggiore di persone risulta vulnerabile ai comuni virus invernali, soprattutto ora che non vige più l'obbligo delle mascherine e che gli spostamenti sono permessi pressoché ovunque nel mondo. Le patologie più comuni e i sintomi Si stima che circa l’80% dei processi infettivi delle vie respiratorie riconosca una eziologia virale (rinovirus, virus parainfluenzali tipo 1-4, virus influenzali tipo A-B) sia nell’adulto che nel bambino. Le patologie più comuni- spiega il Prof. ANDREA NACCI, Specialista in Otorinolaringoiatria. Dirigente Medico. U.O. Otorinolaringoiatria, Audiologia e Foniatria Universitaria, Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana, docente presso l'Università di Pisa e Referente scientifico Schwabe- sono rappresentate da faringo-tonsilliti, laringiti, tracheiti, rinosinusiti, otiti medie e adenoiditi, queste ultime in età pediatrica. Meno frequenti ma talora associate a complicanze con necessità di ospedalizzazione, ricordiamo la bronchite, la bronchiolite e la polmonite. In genere queste condizioni si associano a febbre, mal di gola, ostruzione e secrezione nasale, tosse, malessere generale ed in alcuni casi respiro affannoso o dispnea. Sia in età pediatrica sia nell’adulto tali patologie virali possono diventare ricorrenti, determinando una netta riduzione della qualità della vita. Nei bambini le infezioni acute ricorrenti possono verificarsi anche cinque, sei o più volte all’anno e talora associarsi a polmoniti che complicano ulteriormente i quadri clinici (Infezioni Respiratorie Ricorrenti – IRR). Le complicanze delle patologie virali La complicanza più comune delle patologie virali delle vie aeree che non vanno incontro a tempestiva guarigione- prosegue il Prof Nacci- è la sovrapposizione batterica. Le complicanze infettive più temibili ad etiologia batterica, sono rappresentate dall’otomastoidite (una complicanza di un'otite media acuta) dall’ascesso peritonsillare e dalle complicanze endocraniche della sinusite acuta. Infezioni virali: quando l’uso degli antibiotici è inappropriato In caso di infezioni acute delle vie aeree quindi, essendo nella maggior parte dei casi di origine virale, non devono essere prescritti antibiotici. Anche nelle forme batteriche però, la maggior parte delle linee guida nazionali ed internazionali consiglia un periodo di attesa di 3-5 giorni prima della prescrizione di un antibiotico (naturalmente in funzione dell’organo interessato e delle condizioni generali del paziente), prescrizione che avverrà successivamente in caso di mancata guarigione o peggioramento dei sintomi. Considerando che l’80% circa dei processi infettivi delle vie aeree superiori ed inferiori è di origine virale e che le complicanze più temibili derivano dalla sovrapposizione batterica, è chiaro come sia fondamentale prima che sopraggiunga la complicanza, utilizzare dei farmaci che abbiano una attività antivirale ma che non siano caratterizzati da effetti avversi potenzialmente gravi. D'altronde, alla luce dell’uso inappropriato degli antibiotici e dell’aumento del tasso di resistenza batterica, è determinante l’utilizzo di un rimedio alternativo ed efficace per questa tipologia di malattie, tra l’altro particolarmente frequenti. Rimedi alternativi: l’efficacia del farmaco vegetale Dobbiamo però chiederci se esistono rimedi alternativi la cui efficacia sia provata dalla letteratura scientifica e dalle evidenze cliniche. Si inserisce in questo ambito- suggerisce il professor Nacci- il farmaco vegetale ed in particolare il Pelargonium sidoides, estratto dalle radici del geranio africano ed utilizzato per secoli dagli abitanti dell’Africa come rimedio, tra l’altro, per le infezioni delle vie aeree superiori, per il comune raffreddore e per la tubercolosi. Il Pelargonium sidoides, oltre ad avere un’attività secretomotoria, antibatterica e immunomodulante, si caratterizza per avere un’azione antivirale. Il Pelargonium agisce già nella fase precoce dell’infezione virale impedendo l'ancoraggio del virus alla superficie cellulare; inoltre, quando la cellula è ormai infettata, questo farmaco impedisce la fuoriuscita dei virioni replicati, e la conseguente diffusione dell'infezione. Infine, anche se la cellula è stata infettata dal virus, il Pelargonium agisce come immunomodulante, potenziando i sistemi di difesa cellulari e agendo quindi come citoprotettivo. La sua attività immunomodulante, antibatterica e meccanica (secretomotoria) inoltre, contribuisce a proteggere l’organismo dalle sovrapposizioni batteriche, riducendo quindi il rischio delle complicanze più gravi.
I cattivi odori.
I Peti.
Della Vulva.
Del Corpo.
I Peti.
Estratto da ilfattoquotidiano.it domenica 30 luglio 2023.
Saranno pure “politicamente scorrette” o anche semplicemente disgustose, ma le scorregge potrebbero avere un ruolo centrale per la nostra salute. Sia direttamente, quasi come fossero un toccasana. Sia indirettamente, diventando “spia” di problemi di salute ben più complessi.
Va in questa direzione, ad esempio, il lavoro di David Ancalle, uno studente di ingegneria meccanica presso la Georgia Tech Research Institute. Lo scienziato sta addestrando un sistema di intelligenza artificiale a riconoscere e ad analizzare il rumore delle scorregge, oltre che quello dell’urina e delle feci quando vengono rilasciate in bagno.
Insieme a un ingegnere aerospaziale, Maia Gatlin, Ancalle ha sviluppato un dispositivo meccanico, ribattezzato SHART, che si spera un giorno possa diagnosticare malattie, come il colera o anche il cancro, analizzando le funzioni corporali di una persona, tra cui appunto le scorregge.
Il sistema mette in relazione il suono delle scorregge con la geometria interna del retto per individuare eventuali cambiamenti anomali. I risultati finora raggiunti, che riguardano però anche la minzione e la defecazione, sono stati presentati recentemente alla conferenza annuale Fluid Dynamics della American Physical Society. L’obiettivo finale è quella di realizzare un dispositivo portatile, accessibile a tutti che possa fare la differenza, salvando migliaia o addirittura milioni di vite umane.
Ma ancora prima di sfruttare le scorregge come mezzo diagnostico, gli scienziati hanno provato a utilizzarle direttamente come terapia. O meglio a ispirarsi a esse per sviluppare nuovi trattamenti.
Come riporta un articolo di Sanità Informazione, uno studio dell’Università di Exeter, pubblicato sulla rivista Medicinal Chemistry Communicationsm, ha concluso che l’odore dei peti può avere inaspettati effetti benefici per la salute e potrebbe aiutare addirittura a prevenire il cancro, l’ictus, l’infarto e la demenza. Questo grazie al solfuro di idrogeno, uno dei numerosi gas potenti e maleodoranti prodotti dai batteri mentre si scompone il cibo nell’intestino. A grandi dosi è tossico, ma secondo gli scienziati in piccole quantità aiuta a proteggere le cellule e a combattere le malattie
Della Vulva.
Cattivi odori intimi, come eliminarli. Quando persiste un odore insolito nelle parti intime ciò può essere dovuto a fluttuazioni ormonali, infezioni vaginali, malattie sessualmente trasmissibili, tamponi dimenticati. Per limitare il fenomeno seguiamo alcuni semplici ma utili consigli. Francesca Bocchi il 30 Luglio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Come si caratterizzano gli odori vaginali
I sintomi associati a un cattivo odore intimo
Le cause di un cattivo odore
Infezione batterica (o vaginosi batterica)
Infezione parassitaria
Micosi vaginale
Altre cause di odore vaginale
Cattivo odore intimo: le conseguenze
Come trattarlo e prevenirlo
Previenire i cattivi odori
Ogni donna ha il proprio odore vaginale che può variare a seconda del ciclo mestruale. A volte un cambiamento nell'olfatto può rivelare la presenza di un'infezione parassitaria. Un cattivo odore vaginale è quindi generalmente il segno di uno squilibrio vaginale ma non deriva necessariamente da una scarsa igiene intima.
Come si caratterizzano gli odori vaginali
In ogni donna, la vagina ha un odore particolare. Questo può variare normalmente durante il ciclo mestruale e diventare, ad esempio, leggermente più acido durante le mestruazioni.
Una piccola differenza di odore non è quindi sempre un segnale allarmante, ecco perché è importante conoscere il proprio odore naturale. Tuttavia, se l'odore è molto diverso e sgradevole, potrebbe essere un segno di un'infezione (vaginosi).
La vagina è naturalmente sede di molti microrganismi che costituiscono quella che viene chiamata la flora vaginale ed è costituita principalmente da un batterio chiamato bacillo di Döderlein o lactobacillus che mantiene un ambiente acido nella vagina e contribuisce così alla sua protezione contro le infezioni. Qualsiasi cambiamento nell'equilibrio di questi microrganismi può influenzare l'odore delle perdite vaginali.
I sintomi associati a un cattivo odore intimo
L'odore vaginale anomalo non è l'unico sintomo caratteristico delle infezioni sopra menzionate. Altri sintomi possono accompagnarlo, come:
prurito;
una sensazione di bruciore;
dolore locale;
arrossamento;
perdite vaginali anormali (leucorrea).
Le cause di un cattivo odore
I motivi possono essere diversi per cui è bene conoscere le caratteristiche di ognuno così da poter individuare la causa scatenante corretta.
Infezione batterica (o vaginosi batterica)
Molto spesso, è causato dal batterio Gardnerella Vaginalis. Questo è naturalmente presente nella vagina ma in alcuni casi può moltiplicarsi in modo anomalo e prendere il sopravvento su altri batteri. Produce un cosiddetto odore di "pesce".
Infezione parassitaria
Un'infezione parassitaria da "trichomonas vaginalis" (tricomoniasi) è una causa comune di un cambiamento dell'odore e si tratta un'infezione a trasmissione sessuale facilmente curabile.
Micosi vaginale
L'infezione da lievito vaginale è un'infezione da Candida. La proliferazione di questo fungo è molto comune e ci sono molti fattori che contribuiscono, ad esempio, trattamenti ormonali, gravidanza o assunzione di antibiotici.
Altre cause di odore vaginale
Alcune malattie o comportamenti possono favorire le infezioni. Tra questi ci sono:
scarsa igiene o, al contrario, igiene eccessiva;
lo stress;
trattamento antibiotico;
una fistola rettovaginale (un'apertura anormale tra il retto e la vagina che provoca la fuoriuscita di feci nella vagina);
cancro cervicale;
cancro vaginale.
Le infezioni da lievito o Chlamydia e Neisseria gonorrhoeae (gonorrea) di solito non causano odore vaginale.
Cattivo odore intimo: le conseguenze
Se l'infezione responsabile del cattivo odore vaginale non viene trattata, può peggiorare e aumentare anche il rischio di contrarre altre infezioni. Ad esempio, la tricomoniasi aumenta il rischio di contrarre o trasmettere il virus dell'AIDS (HIV).
Infine, la vaginosi batterica durante la gravidanza aumenta il rischio di parto prematuro.
Come trattarlo e prevenirlo
In caso di odore vaginale anomalo, il medico farà fare un tampone per determinare se l'infezione sia dovuta a un batterio o a un parassita per proporre un trattamento antibiotico appropriato. In caso di tricomoniasi si può decidere di curare anche il partner sessuale.
Le infezioni sono più comuni nelle donne sessualmente attive e avere più partner aumenta il rischio di sviluppare vaginosi.
Previenire i cattivi odori
Una buona igiene intima è importante per limitare il rischio di infezione e non richiede alcuna tecnica particolare. Quindi meglio preferire l'uso di un sapone delicato ed evitare l'utilizzo eccessivo di lavande. Di seguito altri consigli utili.
Non utilizzare deodoranti, profumi vaginali o vaporizzatori vaginali . Questi prodotti possono indebolire le mucose e causare gravi irritazioni.
Usare mutandine mestruali o protezioni sanitarie in cotone organico, senza prodotti chimici, per limitare irritazioni e infezioni.
Cambiare regolarmente tamponi e assorbenti.
Scegliere biancheria intima di cotone ed evitare indumenti attillati.
Limitare l'assunzione di zucchero, alcool e tabacco.
Prestare attenzione durante la rasatura o la ceretta nella zona intima.
Usare probiotici per preservare il microbiota vaginale.
Barbara Costa per Dagospia l’8 gennaio 2023.
Se ti puzza di pesce non sta bene (c’è un’infezione batterica), se ti prude e ti s’arroventa e ti si trasforma in una yogurtiera neppure (c’è una micosi), se corri a pisciare non ogni momento ma quasi… probabilmente c’è una cistite. Una vulva è sana se è stabilmente umida e lubrificata, e chi lo dice che deve profumare di vaniglia o di qualche fiore?! Una vulva sana non profuma bensì odora di un "sapore" suo che è personale e che può essere “pepato, muschiato, dolce o salato, leggermente marino, simile al fieno tagliato, o alla cipolla fresca”.
È quanto scrivono la giornalista Élise Thiébaut e l’ostetrica Camille Tallet nel loro "V per Vulva. Benessere Intimo dalla A alla V" (Odoya ed.), manualetto che dei dubbi che la tua vulva ti pone offre facile e mirata soluzione. E ne asfalta i tabù. Perché non è vero che le vulve sono tutte uguali, no: le orientali ce l’hanno in un modo, le europee in un altro, le afroamericane in un altro ancora. E son normalissime le vulve che hanno le labbra asimmetriche, e è errato dire che la vagina interna alla vulva sia un buco: essa è “una fessura elastica piena di pieghe e grinze, in media lunga da 6 a 8 cm, e larga 3”.
Tutte le vulve sicché tutte le donne hanno le ghiandole di Skene che le fanno squirtare: se la quantità di squirto va da un cucchiaino a mezzo litro, perché non tutte le vulve squirtano? Perché o non sono né auto né da altrui a dovere stimolate, o perché hanno le ghiandole di Skene non bacate ma atrofizzate: sono nate così, e non generano squirto. Ma non vi abbattete, che non ve n’è alcun motivo! La capacità di fare squirto e quanto non inficia nel modo più assoluto sul volume e sulla qualità degli orgasmi, chiaro?
E non è nemmeno vero che il clitoride risponde festoso a ogni tocco. Se la ragione di vita di un clitoride è esclusivamente quella di farsi titillare per farci tanto godere, sta a chi ce lo sfrega centrare la maniera la più precisa per appagarlo, maniera che differisce da donna a donna. E sta a ognuna di noi guidare il o la partner verso la "strada" più esatta.
Mi sa che è proprio grazie alla vulva che l’umanità ha imparato a contare: è sempre più certo che le prime matematiche siano state donne, tenutarie di archeo-agende vieppiù mentali e combacianti con le fasi lunari che bissano il ciclo mestruale nei 28 giorni.
Se ancora oggi il toro è simbolo di virilità, nell’antichità era simbolo di femminilità, e per la forma della sua testa e corna simili a un utero. Nel corso della sua età fertile, una donna che non ha figli e non prende la pillola, ha in media 450 cicli mestruali! Sono 2400 giorni col ciclo, e però ogni volta la perdita di sangue riempie una tazza di thè (solo???). Sono cifre variabili perché ogni donna ha il suo, di ciclo, che varia e per durata e per densità, come varia per dolori più o meno sopportabili.
Un argomento più tabù del dolore da ciclo è quello della sindrome premestruale che c’è, esiste, e di solito sotto forma di dolori a gambe e reni, mal di testa, nausea, ansia, brufoli esagerati, e male e gonfiore al seno (com’è vero! Il mio aumenta e se ne fa accorgere…). Ogni donna ha la sindrome premestruale sua, ma non è dai suoi ormoni che va definita, né in quanto donna, né la sua sindrome: di conseguenza sarebbe ora di finirla di pensare e di rimarcarci che siamo nervose perché abbiamo le nostre cose!!!
Come dovremmo smetterla di pensare e dire che, se non facciamo sesso e penetrativo per lungo tempo, ci si arrugginisce... Ogni donna rimedia ai dolori premestruali e del ciclo in sé come ritiene, e però attenzione, è più che comprovato: masturbarsi pre e durante il ciclo porta sollievo, come per alcune è un toccasana fare sesso non necessariamente penetrativo pre e durante il ciclo.
Ci sono donne che prima e durante il ciclo hanno un calo netto del desiderio ed è normale, ci sono altre che prima e durante il ciclo gli aumenta pazzamente la voglia, ed è normale pure questo (e meno male!). E ci sono donne che hanno crampi mestruali strani, “intensi e profondi, paragonabili a un attacco di cuore”, e sono le donne che soffrono di endometriosi: malattia di lunga e faticosa diagnosi, le cui cause sono oggetto di studio.
Ogni vulva va lavata con cura ma non esasperatamente, e meglio evitare docce vaginali e saponi alteranti il suo ph fisiologico. Le autrici dicono che va bene anche lavarla solo con acqua (sarà…), consigliano di dormire lasciandola all’aria, cioè senza mutande, e di indossare di giorno quelle di cotone, e sentite qua: in più punti del manuale raccomandano di “cambiare le mutande una volta al giorno” (e che, ci son donne che non se le cambiano?!?).
E poi, già: le donne non perdono secrezioni: creano secrezioni! Sono segno di salute le perdite di muco comunemente dette bianche, ma non se diventano gialle o grigie o verdi, maleodoranti, in presenza delle quali bisogna correre dal medico. E il muco che esce quando si fa sesso e si è accese al massimo si chiama "ciprina" ed è essenziale: esso ci lubrifica la vulva quando non vede l’ora di accogliere in sé quel pene (o mani, o lingua o sex toy) che tanto ci piace.
DAGONEWS l’8 gennaio 2023.
Esiste un enorme quantità di prodotti per la pulizia della vagina, ma non sono necessari. È quanto sostiene la dottoressa Shirin Lakhani, fondatrice di Elite Aesthetics a Londra, che spiega come le vagine siano autopulenti e quindi basti utilizzare solo l’acqua.
Infatti una pulizia eccessiva con prodotti profumati o lavaggi può interrompere il delicato equilibrio. La dottoressa Shirin Lakhani consiglia: «Le nostre vagine sono aree sensibili. Lavatela una volta al giorno con acqua ed evitate profumi, coloranti e prodotti chimici aggressivi»
I sette consigli utili su cosa dovresti e non dovresti fare...
1. EVITARE GLI SPRAY
Molti prodotti contengono fragranze che possono potenzialmente irritare la vagina e causare infiammazioni, prurito e dolore. Le lavande possono sconvolgere l'equilibrio naturale dei batteri nella vagina, rendendola più suscettibile alle infezioni.
«Se il pH aumenta e diventa meno acido, la vagina può essere soggetta a infezioni, tra cui vaginosi batterica o mughetto».
2. SBAGLIATO NON PARLARE CON IL DOTTORE
Il dottor Lakhani afferma: "Siamo in un'epoca in cui non dobbiamo avere vergogna dei nostri problemi vaginali. Se hai la pelle irritata intorno alla vulva, la cosa migliore da fare è usare luna soluzione salina, che si ottiene aggiungendo due cucchiaini di sale a un litro d'acqua, e applicarla su un batuffolo di cotone idrofilo. Non essere imbarazzato ad andare da un medico».
3. EVITARE PRODOTTI PROFUMATI
Ci sono vari punti sul tuo corpo in cui mettere il profumo per farlo durare più a lungo, ma la vagina non è una di queste. «Penso che una delle cose peggiori che possiamo fare alle nostre vagine sia usare prodotti profumati per la pulizia. Sono irritanti e per nulla necessari
La vagina ha un odore naturale, il che non significa che non sia pulita».
4. SE QUALCOSA STA IRRITANDO LA TUA VAGINA, POTRESTI ESSERE ALLERGICO
Si stima che la metà delle donne di età superiore ai 24 anni sperimenterà almeno un episodio di vulvovaginite. I sintomi possono includere un cambiamento di colore, odore o quantità di secrezioni vaginali, prurito o irritazione e dolore durante il sesso.
«Potrebbe essere dovuto alle allergie. È abbastanza comune essere allergici alla carta igienica, ai lubrificanti, ai preservativi inlattice, agli antisettici e persino allo sperma. Il consiglio è sottoporvi a un test per le allergie.
5. NON IGNORARE LE PERDITE
L’incontinenza urinaria può avere un impatto devastante su fiducia e autostima delle donne. «Con i molti pazienti che vedo settimanalmente, so quanto sia comune questa condizione nelle donne, soprattutto dopo il parto. Ma ci sono olti trattamenti per risolvere il problema. Parlatene con il medico».
6. TRATTARE LA SECCHEZZA, MA EVITARE GLI IDRATANTI
La secchezza vaginale può essere causata da molte cose, dalla menopausa, al non essere eccitati e al diabete. Dovreste evitare di usare creme idratanti se sono profumate in quanto possono causare più irritazioni.
Si consiglia l’utilizzo di saponi non profumati intorno alla vagina e idratanti vaginali specializzati. Inoltre, anche i preliminari prima del rapporto sessuale possono aiutare.
7. COME GESTIRE I PELI INCARNITI
I peli incarniti causano protuberanze rosse e spesso pruriginose. Sono spesso causati dalla ceretta e possono essere molto fastidiosi. «La cosa migliore da fare è smettere di rimuovere i peli in quella zona fino a quando i peli incarniti non scompaiono. Applicate un impacco caldo nella zona per far riemergere il pelo e levatelo con una pinzetta sterilizzata.
Non depilatevi fino a quando l’area non sarà guarita. Non tentate di far uscire il pelo perché potreste causare delle infezioni».
La rasatura può anche creare irritazione sotto forma di eruzioni cutanee, che si presentano come protuberanze rosse, sensazioni di bruciore e prurito intenso.
I trattamenti per le eruzioni cutanee includono bagni caldi per aprire i pori e alleviare il gonfiore. Anche gli impacchi freddi possono essere lenitivi, così come indossare abiti larghi di cotone per evitare irritazioni sulla zona interessata.
5 cattivi odori del corpo che non andrebbero mai ignorati. Un odore del corpo anomalo potrebbe nascondere vari problemi di salute: ecco tutti i segnali da tenere in debita considerazione. Maria Rizzo l’1 Marzo 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Odore cuoio capelluto
Alito cattivo cause
Cattivo odore ascelle e parti intime
Cattivo odore urina
Cattivo odore piedi
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Svegliarsi con l'alito cattivo o avere le ascelle maleodoranti dopo un allenamento è considerato normale, ma ci sono alcuni odori del corpo strani che potrebbero segnalare che si ha un problema di salute, quindi mai da ignorare.
Se in generale si nota un odore corporeo più forte del solito, è sempre una buona idea rivolgersi al proprio medico di fiducia, ma ecco 5 segnali che potrebbero suggerire delle condizioni da monitorare.
Odore cuoio capelluto
L'odore del cuoio capelluto. Se si percepisce del cattivo odore proveniente dal cuoio capelluto, per prima cosa bisognerebbe osservare attentamente i capelli: potrebbero presentarsi unti e lucidi, sembrare sporchi anche se appena lavati o potrebbe esserci anche forfora grassa, con scaglie biancastre o giallastre. Spesso chi ne soffre ha anche fastidi alla pelle, come foruncoli, pori dilatati e, talvolta, acne, soprattutto su naso, fronte e mento. A causare il maleodore potrebbe essere anche la presenza di dermatite seborroica, ad esempio.
A questo punto il consiglio è quello di fare un check-up da uno specialista per capire se possano incidere la predisposizione genetica e gli sbalzi ormonali o se dipende da fattori esterni come stress, cattiva alimentazione e abitudini sbagliate. In rari casi, il cattivo odore potrebbe essere indicativo di un'infezione batterica o fungina.
Possibili rimedi naturali per contrastare il problema, da non sostituire ad una visita medica, potrebbero essere impacchi di bicarbonato di sodio, che è astringente e aiuta a neutralizzare gli odori. Possono essere d'aiuto anche il succo di pomodoro, la cui acidità tende ad equilibrare il livello del PH, il succo di limone e l’aceto di mele, che lasciano un sentore fresco e pulito. Anche il tea tree oil è un ottimo rimedio, essendo un disinfettante naturale. Anche il massaggio al cuoio capelluto può essere fonte di benessere.
Alito cattivo cause
Le cause dell'alitosi sono varie: dalla scarsa igiene dentale alle malattie gengivali, passando per l'ingestione di alimenti particolari, come i classici aglio e cipolla. Spesso, però, l'alitosi può essere legato ad un problema locale, inerente a denti cariati o affetti da piorrea, così come una cattiva igiene orale. Quando i rimedi naturali per combattere l'alitosi non bastano, il cattivo odore potrebbe essere, invece, indice di vere e proprie patologie, soprattutto per chi si lava i denti regolarmente e continua ad avere un alito sgredavole.
Questo sintomo è causato dal ristagno interdentale di residui alimentari degradati dai batteri della placca e un dente cariato, ad esempio, può trasformarsi in un piccolo serbatoio di detriti alimentari, che come tutte le sostanze organiche in via di decomposizione producono cattivi odori. Fortunatamente, la saliva e i sorsi d'acqua contribuiscono a ripulire i denti ed il cavo orale, allontanando sia i residui alimentari che i batteri.
Il riposo notturno diminuisce il flusso salivare e ciò spiega come mai l'alito cattivo sia particolarmente comune al risveglio e nei fumatori. Il fumo, infatti, oltre a contenere sostanze che conferiscono all'alito un odore sgradevole, favorisce la secchezza delle fauci.
Nel caso di infezioni rino-faringee, come riniti, sinusiti e faringiti, e di alcune malattie polmonari, quali bronchiectasia e ascesso polmonare, il maleodore è dovuto alla presenza di materiale mucopurulento e necrotico. L'alito cattivo può essere anche espressione di una patologia epatica avanzata, e in questo caso può assumere un odore simile al pesce e prende il nome di alitosi ammoniacale. Oppure ancora potrebbe essere dovuto a insufficienza renale, in particolare quando ricorda quello dell'urina. Anche se più gradevoli, anche le esalazioni "fruttate" devono essere ritenute un sintomo della chetoacidosi diabetica.
In qualche caso, anche l'assunzione di alcuni farmaci, come alcuni antibiotici, può conferire all'alito un odore poco piacevole.
Cattivo odore ascelle e parti intime
Se il sudore delle ascelle ha un odore già particolarmente sgradevole, ma in alcune occasioni potrebbe essere indicativo di un problema di stress. Anche in tal caso le cause potrebbero essere legate all'alimentazione: spezie, caffeina e alimenti ricchi di grassi potrebbero incidere. Tra le cose da non fare c'è l'applicazione eccessiva di deodorante, che potrebbe anche peggiorare la situazione. Anche indossare indumenti molto aderenti e sintetici non è consigliato.
Se, invece, la causa di una eccessiva sudorazione è da attribuire a eccessiva ansia e stress, alcuni farmaci, adeguatamente prescritti dal medico, possono essere un possibile rimedio.
Nel caso di cattivo odore delle parti intime femminili - nonostante una accurata e quotidiana igiene - le motivazioni potrebbero essere infezioni, dalla più comune candida alla più invasiva clamidia. Sicuramente, la scelta migliore è quella di rivolgersi a un ginecologo. Se accompagnato da prurito o bruciore, potrebbero essere correlate a diverse infezioni, a trasmissione sessuale e non, che possono influenzare gli odori vaginali. Potresti provare intanto, questi rimedi naturali contro il prurito intimo.
Cattivo odore urina
L'urina ha un odore sgradevole? La minzione non ha mai un buon odore, ma, esclusa l'assunzione di cibi rinomati per provocare urine maleodoranti come gli asparagi, dagli effetti benefici per l'organismo, non dovrebbe nemmeno essere insopportabile. Se è strano, simile a quello dell'ammoniaca, ed è accompagnato tipicamente da una sensazione di bruciore, si potrebbe avere un'infezione delle vie urinarie, come la cistite. Anche in questo caso, occorre pianificare una visita dal ginecologo di fiducia.
Ci sono anche dei farmaci che possono alterare il normale odore delle urine, ma anche integratori per disinfettare le vie urinarie anche a base di vitamina B, ad esempio.
Tra le patologie più gravi associate alle urine maleodoranti ci sono:
insufficienza renale
pielonefrite
prostatite
trichomonas
uretrite
calcoli renali
clamidia (Leggi qui: Clamidia, che cos’è e perché prevenirla)
diabete
gonorrea
insufficienza epatica
Cattivo odore piedi
Infine, il sudore accumulato nei piedi, che ristagna nel calzino pone le basi per creare un ambiente favorevole alla proliferazione di alcuni batteri che popolano abitualmente la superficie cutanea.
In alcune circostanze, quando l'odore di piedi diviene più intenso e nauseabondo, si può essere in presenza di forte stress, ansia o tensioni, quindi gli odori derivanti dai piedi viene alimentato poichè la sudorazione tende ad aumentare.
Allo stesso modo, anche la somministrazione di alcuni farmaci, come la penicillina, o alcune malattie, come ipoglicemia, ipertiroidismo e l'assunzione di alcol e sostanze nervine possono incidere negativamente sull'odore dei piedi.
Quando il sudore ristagna per troppo tempo nel piede, per esempio per scarsa igiene personale, il cattivo odore dei piedi può essere affiancato da bruciore, prurito, formazione di piaghe ed arrossamento locale.
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Il Respiro.
Perché imparare a controllare il respiro può giovare alla mente (e a tutto l’organismo). Anna Fregonara su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2023.
Inspirare ed espirare sono atti che ci accompagnano dall’inizio della nostra vita. Eppure la maggior parte di noi non li compie in modo efficace Invece riuscirci può avere effetti benefici sia a livello cardiovascolare sia su ampie aree del cervello e, di conseguenza, su cognizione e memoria
La maggior parte di noi respira male
Il respiro è il primo atto che compiamo quando nasciamo e l’ultimo quando ce ne andiamo. Vivere fino a 80 anni significa eseguire oltre mezzo miliardo di respiri considerando che ne facciamo circa 20mila al giorno. Respirare è un comportamento così semplice e automatico che si dà per scontato. «Eppure la maggior parte di noi respira male, utilizza meno del 50% della capacità respiratoria — puntualizza Mike Maric, medico specialista in Ortognatodonzia e professore all’Università di Pavia, autore del libro Il potere antistress del respiro (Vallardi), campione mondiale di apnea, oggi allenatore, tecnico europeo di 4° livello Coni —. Se riuscissimo a usare anche solo il 10% in più della nostra capacità polmonare potremmo guadagnarne in termini di benessere». Imparando a respirare efficacemente si può migliorare la pressione del sangue, il battito cardiaco e influire sull’attività di ampie aree del cervello e, di conseguenza, su cognizione, emozioni, umore, stress e memoria, come si legge su Annual Review of Neuroscience.
Neuroni specializzati
L’apparente semplicità dell’atto respiratorio nasconde un complesso sistema di controllo neurale. «Alla fine degli anni ‘80 i neuroscienziati identificarono un nucleo del tronco encefalico, chiamato Complesso preBötzinger (preBötC), che raggruppa una rete di neuroni pacemaker da cui origina il ritmo della respirazione — spiega Nicola Montano, professore di Medicina interna all’Università degli Studi di Milano e direttore dell’omonima divisione all’Irccs ospedale Policlinico del capoluogo lombardo —. I neuroni di questo generatore del ritmo respiratorio sono in contatto sinaptico con altri neuroni del tronco encefalico che regolano la frequenza cardiaca, garantendo quella sincronizzazione vitale tra respiro e battito cardiaco. Questo è il motivo per cui il cervello ci guida a respirare senza che noi ce ne accorgiamo e fa in modo che la respirazione cambi e si coordini con altri comportamenti, come mangiare, parlare, ridere, sospirare, assecondandoli».
Umore e stress migliorano
L’interfaccia chiave tra cervello-respiro-benessere è costituita dal sistema nervoso autonomo. «Questo regola tutte le funzioni viscerali, come la motilità gastroenterica e genitourinaria, la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, ed è legato a zone del cervello come l’amigdala, un attore importante nell’elaborazione delle emozioni — precisa Montano —. È costituito da due parti: il sistema nervoso simpatico, il nostro acceleratore, che si attiva in qualsiasi situazione di stress sia psichico sia fisico, e quello parasimpatico o vagale, il nostro freno, associato al relax e al recupero. Fa parte del cosiddetto “stress system” ed è collegato a quella parte del sistema nervoso centrale chiamato sistema limbico, che regola la risposta alle emozioni. «L’iperattività simpatica, che si esprime con un’aumentata liberazione di adrenalina e noradrenalina in circolo, è uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di patologie croniche come quelle cardiovascolari e metaboliche perché a sua volta attiva fattori di rischio intermedi: infiammazione, stress ossidativo, resistenza insulinica, alterazione della risposta del sistema immunitario, della qualità e della quantità del sonno. Uno dei modi per ridurre l’attività simpatica, e aumentare quella protettiva parasimpatica, è la modulazione del ritmo della respirazione: da qui i benefici su umore, stress, emozioni e sui fattori di rischio di malattia che possono così essere ridotti».
Yoga e mindfulness
È chiaro, quindi, come la respirazione sia il punto di incontro tra il nostro corpo e la nostra mente, attraverso il respiro possiamo governarli entrambi. «Chi pratica yoga è avvantaggiato — prosegue Montano —. In letteratura scientifica, le terapie cognitivo-comportamentali, in cui rientrano le tecniche di meditazione sia quelle orientali più antiche come lo yoga, sia quelle occidentali più recenti come la mindfulness, stanno raccogliendo sempre più evidenze della loro capacità antistress, o meglio di riduzione della risposta allo stress. Utilizzano il respiro lento e profondo come strumento per controllare il sistema nervoso autonomo, abbassando l’attività simpatica a favore di quella parasimpatica. L’effetto finale di questo tipo di respirazione è quello di ridurre l’eccessiva risposta allo stress cronico che è quello che può far ammalare. Lo stress acuto, infatti, non è quasi mai un problema perché è limitato nel tempo; è come quello che si vive prima di un esame universitario, si esaurisce appena si conclude la prova».
Depressione e insonnia
«Yoga ed esercizio fisico, integrati con le terapie prescritte dallo specialista, possono funzionare nei soggetti con depressione maggiore, disturbo che si associa a un’iperattività simpatica. La difficoltà è l’aderenza dei pazienti a questo tipo di percorso — precisa Montano —. Per quanto riguarda l’insonnia, invece, le linee guida sottolineano come l’unica evidenza per un trattamento senza effetti collaterali è quello delle terapie cognitivo-comportamentali. In questi ultimi anni stanno emergendo tecniche che vanno a stimolare, in modo non invasivo, l’attività vagale elettricamente: fanno parte della cosiddetta bioelectric medicine e in futuro potrebbero aiutare a migliorare la cura dell’insonnia».
Benefici sul cuore
Infine, i ricercatori hanno dimostrato che se durante un allenamento i pazienti con scompenso cardiaco respirano in modo più lento e profondo c’è un effetto protettivo enorme sul sistema cardiovascolare, perché si riduce la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. «Quando ci si allena a rallentare il respiro, espirazioni e inspirazioni diventano sempre più lunghe, dunque la variabilità del ritmo cardiaco aumenta: questo è un indice importante di salute cardiovascolare — conclude Andrea Zaccaro, psicologo e ricercatore post dottorato all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara e coautore di uno studio su respiro e cervello —. Per questo le pratiche respiratorie possono influenzare la variabilità del ritmo cardiaco che molti studi riportano come un predittore del recupero, dopo un infarto o come indice di sopravvivenza. Lavorare sul respiro significa anche migliorare l’enterocezione, la capacità che ha il cervello di percepire il corpo».
I quattro consigli
Ecco alcuni consigli pratici di Sergio Harari, direttore della Pneumologia all’Ospedale San Giuseppe Irccs Multimedica di Milano e professore di Medicina interna alla Statale di Milano, per proteggere i polmoni:
«Il primo: non fumare. Il fumo ha un impatto negativo sulla salute molto maggiore di qualsiasi esposizione a inquinamento. Fumo e inquinamento moltiplicano vicendevolmente la loro azione negativa».
«Il secondo: bere molta acqua aiuta a idratare bene le mucose, anche quelle respiratorie, e a fluidificare le secrezioni».
«Il terzo: prevenire le infezioni respiratorie. A tutti consiglio il vaccino contro Sars-Cov-2. Soprattutto alle categorie più a rischio raccomando, oltre a questo, quello antinfluenzale e i vaccini antipneumococco: sono due ed è importante farli entrambi perché si integrano a vicenda».
«Il quarto: fare più attenzione ai sintomi respiratori. Per esempio, bronchiti o episodi di tosse ricorrenti o fiato corto possono essere sottostimati e nascondere forme asmatiche che possono essere efficacemente trattate».
Microbiota polmonare
Esiste un microbiota polmonare, proprio come quello presente nell’intestino. «Per microbiota si intendono i microrganismi (batteri, virus, funghi e Archea) nei tessuti e negli spazi aerei che compongono i polmoni — spiega George Cremona, responsabile del servizio di Pneumologia e fisiopatologia respiratoria dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano —. Per molto tempo si pensava che quest’organo fosse sterile. Invece, ricorrendo alle più moderne tecniche di sequenziamento genico si è scoperto che i polmoni ospitano numerosi microrganismi, sebbene con densità minore rispetto, per esempio, a quella nell’intestino». Il microbiota si forma nelle prime settimane di vita e la sua modificazione può interferire con varie patologie polmonari. «Le evidenze che si stanno accumulando, infatti, sembrano suggerire che il microbiota polmonare abbia due ruoli importanti: regolare l’immunità dello strato superficiale delle vie aeree (mucosa); mantenere l’equilibrio fra infiammazione e tolleranza immunologica, vale a dire lo stato in cui il sistema immunitario non reagisce alla presenza di una sostanza o di un tessuto che altrimenti stimolerebbe una risposta infiammatoria». (Prosegue sotto l’immagine)
Il primo nemico è il fumo
La principale minaccia dell’apparato respiratorio è lo stress ossidativo. «Può essere favorito dall’esposizione a inquinanti ambientali, domestici, professionali, virus e batteri — sottolinea Maria Pia Foschino Barbaro, professore ordinario di Malattie dell’apparato respiratorio all’Università di Foggia —. Il fattore di rischio principale è, però, il fumo di sigaretta: con una boccata inaliamo circa 19 miliardi di radicali liberi, una fonte di ossidazione importante. Ogni volta che si presenta lo stress ossidativo si riduce la capacità del sistema immunitario di far fronte alle aggressioni esterne di virus e batteri, esponendo i polmoni a un possibile danno. Il primo passo da compiere è smettere di fumare. Inoltre lo stress ossidativo favorisce a sua volta processi infiammatori, due condizioni che si alimentano a vicenda e che sono responsabili di tante malattie croniche, da quelle respiratorie a quelle cardiovascolari o metaboliche».
Ossidazione
Per aumentare la capacità dei tessuti di eliminare i radicali liberi e favorire una risposta più efficace alle infezioni è importante acquisire buone abitudini: movimento, corretta respirazione e seguire un’alimentazione varia e sana. «Il principale antiossidante delle nostre cellule è il glutatione: è prodotto dal fegato, ma si riduce fisiologicamente dopo i 45 anni e in presenza di stress ossidativo — continua la professoressa Foschino —. Un suo deficit può comportare un maggiore rischio di danno polmonare, per questo è importante rigenerarlo e accrescerne le riserve endogene, non solo per contrastare l’azione ossidante, ma anche per incrementare le capacità di difesa immunitaria. Frutta e verdura contengono glutatione. Tuttavia, occorre considerare le difficoltà di assorbimento del glutatione da parte dell’organismo. Utile anche il consumo regolare di carne, pollo, pesce e formaggi che, ricchi di zolfo e selenio, sono in grado di stimolare la glutatione perossidasi, ossia un gruppo di enzimi ad azione antiossidante. In taluni casi può essere indicata l’N-acetilcisteina (NAC), una molecola che deriva da un amminoacido naturale e che ha la capacità di rigenerare il glutatione».
Dieta
In ogni caso l’alimentazione, più in generale, è utile a controllare l’infiammazione di fondo dell’organismo che incide non solo sull’apparato respiratori. Alcuni ricercatori hanno di recente studiato le associazioni trasversali tra l’indice infiammatorio dietetico (DII), il volume cerebrale e lo stato di salute dei vasi cerebrali. Il DII è un calcolatore di rischio basato su 45 componenti alimentari che promuovono o che contrastano l’infiammazione. Un punteggio alto indica una dieta più pro-infiammatoria. Lo strumento è stato sviluppato dagli studiosi dell’Università della Carolina del Sud ed è stato utilizzato in oltre 200 articoli scientifici. «In uno studio pubblicato nel 2022 su Alzheimer’s & Dementia, i ricercatori hanno esaminato 1.897 partecipanti della coorte di Framingham (analizzata con l’obiettivo di stimare il rischio delle patologie cardiovascolari), con un’età media di 62 anni, che hanno completato questionari sulla frequenza degli alimenti assunti e sono stati sottoposti ad analisi di risonanza magnetica cerebrale — spiega Michela Matteoli, direttrice dell’Istituto di Neuroscienze del Consiglio Nazionale delle Ricerche e coordinatrice del Neuro Center dell’ospedale universitario milanese Humanitas, dove è anche professoressa di Farmacologia —. Gli studiosi hanno trovato che coloro che consumavano più cibi pro-infiammatori - e quindi avevano punteggi DII più alti - mostravano un volume cerebrale totale e della materia grigia più piccolo». I dati sono interessanti anche se gli autori dello studio avvertono comunque che «è necessaria una replica per confermare i nostri risultati».
Invecchiamento
Di recente, sulla rivista scientifica Neurology è apparso anche uno studio che ha ulteriormente chiarito la relazione tra dieta, infiammazione e processo di invecchiamento. «È stato condotto su 1.059 adulti, con un’età media di 73 anni, residenti in Grecia, che non presentavano demenza all’inizio dello studio. I ricercatori hanno seguito queste persone per tre anni: 62 hanno sviluppato demenza — prosegue l’esperta —. I partecipanti le cui diete avevano un DII più alto avevano tre volte più probabilità di sviluppare demenza durante il periodo di studio rispetto ai partecipanti le cui diete avevano il punteggio infiammatorio più basso. Questi risultati supportano il concetto che la dieta svolge un ruolo importante nel contrastare l’infiammazione nel nostro corpo, favorita anche da stress, stile di vita sedentario e cattive abitudini, come il fumo di sigaretta». «Non esiste un’unica dieta antinfiammatoria. È lo schema generale a tavola che conta che dovrebbe comprendere: verdure a foglia verde, come spinaci, bietole, cavoli e broccoli, ricche di antiossidanti, incluso la luteina che si è vista svolgere un ruolo importante nel mantenere sano il cervello; frutta come fragole, mirtilli, ciliegie e arance, ricchi di antiossidanti naturali e polifenoli, composti protettivi che si trovano nelle piante; frutta secca come mandorle e soprattutto noci; pesci grassi come salmone, sgombro, tonno e sardine che abbondano di grassi omega-3; legumi, come fagioli e lenticchie, dovrebbero essere consumati almeno quattro volte a settimana, assieme ai cereali integrali; al posto del sale, erbe e spezie che forniscono polifenoli antinfiammatori; olio extravergine d’oliva». «Una dieta povera di fibre può contribuire all’infiammazione riducendo la diversità dei microbi intestinali e diminuendo quelli che hanno un ruolo antinfiammatorio — conclude Matteoli —. Troppi carboidrati raffinati, patatine e cibi fritti, bevande zuccherate, carni rosse, carni lavorate, margarina, grasso e strutto, dolci concorrono anche all’aumento di peso che è un fattore di rischio per l’infiammazione».
Meglio con il naso
Respirare con il naso o con la bocca non porta gli stessi benefici. «In una ricerca di cui sono stato coautore, pubblicata su Scientific Report, abbiamo stimolato con aria la volta nasale di alcuni soggetti a una frequenza lenta simile a quella delle tecniche meditative di Pranayama, la respirazione yogica — racconta Angelo Gemignani, professore ordinario di Psicobiologia e Psicologia fisiologica all’Università di Pisa —. Applicando 128 elettrodi, abbiamo misurato i cambiamenti dell’attività elettrica cerebrale registrando, quando si respirava attraverso il naso, un incremento delle attività delta e theta, tipiche del sonno, legate a un senso di calma e benessere. Insomma, quando le persone respirano lentamente dal naso anche le onde cerebrali rallentano, quindi parti del cervello come l’ippocampo, l’amigdala e tutto il mantello corticale sono indotti a sincronizzarsi con la respirazione. Questo amplifica i possibili benefici che disinnescano il sistema nervoso simpatico. La scoperta rappresenta un ulteriore passo avanti per capire come la respirazione può influire sul nostro benessere».
Effetto di rilassamento
L’errore principale che si compie è quello di non pensare al respiro, dice Mike Maric: «La conseguenza è una respirazione soprattutto attraverso la bocca che sfrutta solo la parte alta dei polmoni e che, essendo collegata al sistema nervoso autonomo simpatico ha un effetto ansiogeno che non favorisce il benessere. Respirazione e qualità dell’aria sono importanti: il solo fatto di portare l’attenzione al nostro respiro induce un effetto di rilassamento. Inoltre, lavorare sulla lunghezza della respirazione, sulla frequenza, creando anche momenti nella nostra giornata dove ci soffermiamo per “respirare”, aiuta a rallentare. Se è vero che alcune nostre abitudini non corrette di vita (fumo, sedentarietà, alcol e dieta) hanno un effetto booster sull’invecchiamento, così adottarne altre come il respiro consapevole hanno l’effetto opposto e rappresentano oggi la base del cosiddetto successful aging ossia invecchiare bene. Esistono diversi test per valutare il nostro respiro — continua Maric —. Senza ricorrere a esami strumentali specifici, una prima autoanalisi è capire se si ha una respirazione nasale o orale, se il respiro è corto/frequente oppure lungo/profondo, se lo percepiamo più su collo, spalle, petto, gabbia toracica o se invece è localizzato più sull’addome. Infine, se si è in buona salute, contare il numero di atti respiratori (inspiro-espiro) compiuti in un minuto: tra i 12 e i 16 è nella norma, se il valore fosse inferiore non è un problema. Se si avvicina a 20 il numero è lievemente alto. Se compreso tra 20 e 25 atti al minuto è mediamente alto, se superiore a 25 indica un alto livello di stress».
La tecnica anti-stress
Un esercizio per ridurre stress e frequenza cardiaca e aumentare la concentrazione è la cosiddetta respirazione quadrangolare. «Consiste nell’inspirare ed espirare in una precisa sequenza, intervallando pause di apnea» spiega Mike Maric. Ecco come farlo: il tempo medio per ognuno dei 4 passaggi è di 4 secondi.
1. Inspirare lentamente con il naso attraverso una respirazione diaframmatica;
2. trattenere il fiato, pausa apnea;
3. espirare attraverso il naso o la bocca;
4. trattenere il fiato, pausa apnea.
Ogni ciclo completo (inspirazione, pausa apnea, espirazione, pausa apnea) va ripetuto per 5 volte. Acquisiti coordinazione e controllo del ritmo senza affaticamento,
nelle pause di apnea ripetere mentalmente una frase di 2-3 parole, una sorta di ancoraggio mentale come «Sto bene»; «Sono pronto».
L’Asma.
Asma, attenzione a due inquinanti atmosferici. Secondo gli studiosi elevati livelli nell'aria di ozono e di particolato fine favoriscono l'insorgenza di crisi asmatiche in bambini e adolescenti. Maria Girardi il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo a soffrirne sono tra i 100 e i 150 milioni di persone. In Italia, invece, ogni anno si diagnosticano circa 3 milioni di casi soprattutto tra i bambini. Stiamo parlando dell'asma, una malattia infiammatoria cronica delle vie respiratorie. In particolare essa è caratterizzata dall'ostruzione reversibile dei bronchi. A causa del processo infiammatorio questi due organi si riempiono di liquido e iniziano a produrre quantità maggiori di muco. Tale condizione provoca un restringimento del diametro dei bronchi e dei bronchioli, con conseguente comparsa dei sintomi tipici.
La scienza fa continui passi in avanti. Di recente gli scienziati dell'Università di Bonn hanno scoperto che la dieta chetogenica, ossia un regime alimentare a basso contenuto di carboidrati, potrebbe rappresentare un valido aiuto contro l'asma. Protagoniste della ricerca sono le cellule linfoidi innate che svolgono un'importante funzione protettiva nei confronti dei polmoni, rigenerando le mucose danneggiate. L'indagine ha rivelato che il metabolismo di alcuni topi asmatici, con la dieta chetogenica, cambia. Si verifica, infatti, una riduzione della divisione delle cellule linfoidi innate e, dunque, un miglioramento della sintomatologia.
Cause e fattori di rischio dell'asma
Attualmente le cause dell'asma non sono note con precisione, tuttavia esistono alcuni fattori di rischio che facilitano la sua comparsa. In primis la predisposizione genetica. È stato dimostrato che la familiarità incide per il 30-60% e che la madre ha un ruolo determinante. L'inclinazione a sviluppare alcune malattie allergiche, inclusa l'asma, viene definita atopia. Sotto la lente di ingrandimento anche:
Gli allergeni. I più comuni sono i pollini e gli acari della polvere
Il reflusso gastroesofageo. Questa condizione provoca attacchi asmatici notturni
Le infezioni delle vie respiratorie. In particolar modo raffreddore e influenza
Il fumo di sigaretta sia attivo che passivo
L'assunzione di alcuni farmaci. Attenzione agli antinfiammatori non steroidei, agli antibiotici e all'aspirina
I sensibilizzanti professionali
L'obesità
L'eccessiva umidità dell'ambiente.
I sintomi e la diagnosi dell'asma
L'asma è facilmente riconoscibile per via di alcuni sintomi tipici: tosse secca, respiro sibilante e affannoso, difficoltà respiratoria, sensazione di oppressione toracica. Se queste manifestazioni diventano particolarmente intense, si parla di crisi asmatica. Il paziente allora accusa: senso di soffocamento, sibilo costante mentre respira, respiro accelerato, tosse continua, sudorazione, dolore al petto, contrazione dei muscoli del collo e difficoltà a parlare. In tal caso è necessario utilizzare subito il broncodilatatore e, nell'ipotesi che esso non sia sufficiente, è fondamentale recarsi al pronto soccorso.
La diagnosi si basa in prima battuta su un'accurata anamnesi. Il medico pone domande circa la familiarità per le malattie allergiche, l'eventuale esposizione a sostanze tossiche, l'intensità e la stagionalità della sintomatologia e il legame tra la comparsa di quest'ultima e i fattori scatenanti. La conferma della patologia è data dalla valutazione della funzionalità polmonare mediante l'esecuzione della spirometria. Potrebbero altresì rivelarsi necessari test per le allergie (prick test, rast test).
L'asma e gli inquinanti atmosferici
Gli scienziati del National Institutes of Health hanno scoperto che livelli moderati di due inquinanti atmosferici, l'ozono e il particolato fine, sono associati ad attacchi di asma nei bambini e negli adolescenti che vivono in aree urbane a basso reddito. Lo studio osservazionale, condotto dal professor M.C. Altman, è stato pubblicato su The Lancet Planetary Health. Per lo stesso sono stati coinvolti 208 pazienti di età compresa tra i 6 e i 17 anni con inclinazione alle crisi di asma e residenti in quartieri a basso reddito di nove città degli Stati Uniti.
Successivamente il team ha convalidato le associazioni individuate tra i livelli di inquinanti atmosferici e gli attacchi in una coorte indipendente di 189 individui di età compresa tra i 6 e i 20 anni. Anche questi soffrivano di asma persistente e vivevano in zone povere di quattro città degli Stati Uniti. I ricercatori hanno seguito i soggetti in prospettiva per un massimo di due malattie respiratorie e per circa sei mesi. Ogni disturbo è stato classificato come virale e non virale e come implicante una crisi d'asma o meno. Ciascuna patologia è stata abbinata con i valori dell'indice di qualità dell'aria e con i livelli di singoli inquinanti atmosferici registrati dall'Agenzia della protezione ambientale delle città interessate.
Asma, attenzione all'ozono e al particolato fine
Dopo una serie di valutazioni gli scienziati sono giunti alla conclusione che gli attacchi d'asma avevano una causa non virale in quasi il 30% dei pazienti; una percentuale questa nettamente superiore rispetto a quella osservata nei bambini residenti in zone non urbane. Tali crisi sono state associate a livelli localmente elevati di particolato fine e di ozono nell'aria. In seguito gli studiosi, analizzando campioni di cellule nasali durante le malattie respiratorie dei partecipanti, hanno collegato i cambiamenti nell'espressione di specifici gruppi di geni implicati nell'infiammazione delle vie aeree ai livelli localmente elevati dei due citati inquinanti atmosferici.
Alcuni dei modelli di espressione genica identificati hanno quindi suggerito che i percorsi biologici possono essere coinvolti nell'insorgenza di attacchi d'asma non virali. Questa ricerca è molto importante perché da un successivo approfondimento della stessa sarà possibile sviluppare e testare differenti strategie per la prevenzione e la riduzione delle crisi asmatiche nei piccoli residenti in aree urbane. Tra queste figurano i dispositivi per il monitoraggio personalizzato dei livelli locali di inquinanti atmosferici.
L’Acetone.
Che cos’ è l’acetone e come si fa a riconoscerlo? Ecco i sintomi e i rimedi. Antonella Sparvoli su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2023.
L’alito ricorda la frutta matura ma non è questo l’unico sintomo. La causa è una reazione metabolica dell’organismo che comincia a bruciare grassi dopo aver dato fondo agli zuccheri disponibili
Chi ha bambini piccoli sa bene quanto possa essere insidioso talvolta l’acetone. Se a tutti può capitare di soffrirne in modo occasionale, ci sono bambini che si trovano a fare i conti con i fastidiosi disturbi ciclicamente, magari a settimane alterne o con regolarità una volta al mese, con pesanti ripercussioni sulla qualità di vita. In questi casi, più che di acetone, si preferisce parlare di sindrome del vomito ciclico, un disturbo che potrebbe essere spia di una familiarità per l’emicrania. Ma facciamo un passo indietro e vediamo in che cosa consiste esattamente l’acetone e come si può contrastare.
Che cos’è l’acetone?
«Quando si parla di acetone, o chetosi, ci si riferisce a una risposta metabolica che si verifica nel momento in cui l’organismo, dopo aver bruciato tutti gli zuccheri disponibili, inizia a metabolizzare anche i grassi per far fronte alle proprie necessità — premette Carlo Dionisi Vici, responsabile dell’Unità operativa di malattie metaboliche dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma —. Ciò può accadere in diverse circostanze. Esistono infatti vari fattori che possono favorire l’acetone, a partire da condizioni di stress fisico».
Quali sono le cause più comuni di acetone nei bambini?
«L’acetone si può sviluppare durante un episodio febbrile, in concomitanza con una gastroenterite, nel caso in cui si segua una dieta ricca di grassi (dieta chetogenica) o anche dopo un digiuno prolungato. Queste condizioni comportano una maggiore richiesta di energia, in particolare di zucchero (glucosio), e quando le scorte si esauriscono, l’organismo inizia a bruciare i grassi. Il metabolismo dei grassi porta alla formazione dei cosiddetti corpi chetonici che sono tre: l’acetone, l’acido acetoacetico e l’acido beta-idrossibutirrico. Questi vengono trasportati attraverso il circolo sanguigno dal fegato (dove vengono prodotti) agli altri tessuti, soprattutto muscoli, cuore, rene e cervello, per soddisfare la richiesta energetica. Quando la produzione di corpi chetonici inizia a essere eccessiva, l’organismo provvede a eliminarli attraverso la respirazione e le urine. In particolare l’acetone viene espulso soprattutto attraverso la respirazione, dando all’alito l’inconfondibile odore simile alla frutta matura, mentre l’acido acetoacetico e quello beta-idrossibutirrico vengono eliminati attraverso le urine. La loro presenza nell’urina viene sfruttata per diagnosticare l’acetone. A questo scopo si utilizzano delle strisce reattive, che si possono comprare in farmacia: la parte reattiva di queste strisce vira di colore in presenza di corpi chetonici».
In che modo si manifesta l’acetone?
«Accanto all’alito dal tipico odore di acetone, i sintomi più tipici sono la nausea e il vomito, talvolta talmente insistente che il bambino rischia di andare incontro a uno stato di disidratazione perché non riesce a trattenere nulla. Se subentra la disidratazione possono comparire altri disturbi come lingua asciutta e patinosa, ridotta produzione di urine, sonnolenza e capogiri».
Che cosa si può fare?
«Il primo consiglio che danno i pediatri per ridurre la formazione di corpi chetonici e facilitarne l’eliminazione è quello di somministrare al bambino acqua e zucchero, accorgimento che serve anche per prevenire la disidratazione. In alternativa vanno bene anche i succhi di frutta o le bibite. Visto il vomito, spesso irrefrenabile, si può adottare l’espediente di dare queste bevande di frequente, a piccoli sorsi o con un cucchiaino. Appena il bambino riesce e ha voglia di mangiare qualcosa si possono proporre pasta o riso in bianco o comunque una dieta leggera. «Vanno invece evitati i cibi grassi, come latte intero, burro, formaggi, fritti, carni rosse, insaccati e cioccolato. In genere in breve tempo l’acetone tende a regredire a meno che il piccolo non riesca a idratarsi. Se subentrano segni di disidratazione bisogna andare in Pronto soccorso dove la chetosi verrà risolta tramite l’infusione in vena di soluzioni contenenti glucosio e sali minerali. In genere non è necessario ricorrere a farmaci anti-vomito. Se il bambino soffre della sindrome del vomito ciclico con episodi ricorrenti di acetone è bene fare qualche accertamento. Spesso questa condizione è indicativa di una familiarità per l’emicrania che, nel bambino, si manifesta tipicamente proprio con il vomito. Con la crescita spesso gli episodi di acetone tendono ad attenuarsi fino a cessare del tutto».
L’Allergia.
Estratto dell’articolo di Francesco Moscatelli per “la Stampa” il 7 febbraio 2023.
«Quello che è successo è terribile. Sono rimasta anch'io scioccata da questa notizia. Sono episodi rari ma purtroppo, quando si verificano, spesso colpiscono persone giovani, consapevoli e attente». Mona-Rita Yacoub, coordinatrice dell'Area Allergologica presso l'Unità di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare dell'ospedale San Raffaele, si occupa da anni di pazienti con gravi reazioni allergiche e forse per questo è ancora più scossa per quello che è successo nei giorni scorsi in un locale del centro di Milano.
Dottoressa Yacoub, com'è possibile morire a vent'anni per aver mangiato un tiramisù?
«Lo shock anafilattico è la reazione sistemica più grave di un paziente allergico.
Scientificamente la sua definizione è collegata proprio alla possibilità di un esito mortale, che la letteratura stima fra lo 0,25 e lo 0,33% del totale delle anafilassi. […] Anche se all'inizio i sintomi possono non sembrare gravi, se coinvolgono più organi bisogna bloccarli subito, perché il peggioramento può essere veloce».
Quali sono gli allergeni più pericolosi?
«Ci sono gli allergeni alimentari, quelli associati alle punture di insetti e quelli legati all'assunzione di farmaci. Il caso di questa ragazza rientra nella prima categoria perché […] era allergica al latte vaccino. […] ».
Pare che il dolce fosse in questione fosse contaminato da proteine del latte vaccino. Quanto incide la quantità di allergene presente?
«Un allergene può dare reazioni molto gravi anche in presenza di dosi molto basse».
Quanto è diffuso questo tipo di allergia?
«In età adulta è molto rara sia perché è raro che persista dopo essersi manifestata in età pediatrica […]. Ciò che è importante sottolineare è che un'allergia alle proteine del latte vaccino non è un'intolleranza al lattosio. Si fa ancora troppa confusione».
[…] Cosa accade a un paziente in shock anafilattico?
«Si va dall'orticaria all'affanno respiratorio, fino al più grave coinvolgimento dell'apparato cardiocircolatorio. I mediatori dell'infiammazione allergica liberandosi massivamente nel sangue provocano una vasodilatazione e un crollo della pressione arteriosa. […]».
Cosa vuol dire che una persona è iper-allergica?
«Ogni paziente può potenzialmente esserlo. Nel linguaggio comune può significare che ha già presentato gravi reazioni allergiche in passato. In casi del genere dovrebbe essere istruito ad avere sempre con sé l'adrenalina auto-iniettabile, che è l'unico salvavita.
In presenza di una reazione sistemica grave il paziente dovrebbe utilizzare l'auto-iniettore di adrenalina e, nel caso la reazione non passasse, in attesa dei soccorsi dovrebbe procedere anche con la seconda puntura». […]
Estratto dell'articolo di Paolo Russo per “la Stampa” il 7 febbraio 2023.
Un popolo di allergici un po' a tutto. Latte e latticini, glutine, crostacei, carni bianche e rosse, frutta, spezie e chi più ne ha più ne metta. A dar retta a quel che dicono gli italiani malati di allergie alimentari saremmo oramai venti milioni, secondo le ultime statistiche riportate dall'Istituto Veronesi. E così si finisce per perdersi per strada chi un problema ce l'ha realmente, fino al punto da rischiare la vita.
Perché fatta la tara sottraendo chi si dichiara allergico per moda, chi confonde una semplice intolleranza con una cosa ben più sera come l'allergia e i tanti che si sottopongono a test inaffidabile, secondo le statistiche Istat i veri allergici a un qualche alimento sono un milione e 800 mila, dei quali 300 mila allergici al latte e 600 mila al glutine.
«[…]Ma molti scambiano per allergia una semplice intolleranza alimentare, che al contrario non genera pericolose reazioni del nostro sistema immunitari fino alle estreme conseguenze dello choc anafilattico», spiega Marco Silano, direttore dell'unità operativa nutrizione e salute dell'Iss.
Però sommando chi rischia la vita a coloro che comunque soffrono di disturbi da intolleranza alimentare, come mal di pancia o reazioni cutanee, resta il fatto che secondo l'Istat gli italiani che hanno problemi con il cibo sta aumentando. E di molto. Erano il 2,9% della popolazione, ossia circa un milione e mezzo, negli Anni '80, sono ora il 12,7% (sei milioni). […]
«Al netto di chi si dichiara allergico per seguire una moda non c'è prova che i casi effettivi siano in aumento […]», afferma ancora Silano. Che sottolinea anche come «sia ancora oggi estremamente difficile arrivare a una diagnosi certa di allergia alimentare».
Questo perché «i test non sono standardizzati, sia quelli cutanei che quelli sul sangue danno spesso risultati di diversa interpretazione poiché l'abnorme reazione del sistema immunitario varia da persona a persona. […]». Dei test affidabili ci sarebbero e sono i cosiddetti "test di provocazione orale in doppio cieco". In pratica il medico somministra capsule contenenti dosi di singoli alimenti, tra cui quelli indiziati di scatenare la reazione allergica, senza che né il paziente, né il dottore, sappiano in quale capsula si trovi. Lo stesso medico verificherà poi se si scatena una reazione di tipo allergico.
«Ma si tratta di test che devono essere eseguiti in ospedale, con un dose di adrenalina a portata di mano per evitare il rischio di chock anafilattici", spiega l'esperto dell'Iss. Il problema, come denunciano gli esperti medici della Fondazione Veronesi, è che molti italiani si affidano a test fai da te o semplicemente inutili, ma costosi, visto che i prezzi vanno da 90 a 500 euro. Ma che in nove casi su dieci danno esito di "falso positivo". Attestano cioè una reazione spesso inesistente. […]
Che cosa è l’allergia al latte: i casi (e le reazioni gravi) sono in aumento. Elena Meli su Il Corriere della Sera il 6 Febbraio 2023.
Una diagnosi accurata secondo un preciso iter è importante per scelte alimentari in tutta sicurezza e senza inutili restrizioni alimentari. Le possibilità di terapia e prevenzione
L’allergia al latte è l’allergia alimentare più comune in età pediatrica e non solo, in Europa e in Italia. Le persone che soffrono di allergia al latte vaccino sviluppano anticorpi contro alcune sue proteine. Nei casi più gravi anche ingerire pochissime quantità di latte e derivati può essere sufficiente a scatenare una reazione allergica che può essere fatale. Gli ultimi dati indicano un incremento delle reazioni gravi e dei casi di shock anafilattico in tutto il continente. Tuttavia non è detto che per evitare tragedie come quella della ragazza allergica morta a Milano per uno shock anafilattico sia sempre necessario eliminare dalla dieta qualsiasi prodotto che contiene proteine del latte, perché non tutte le allergie al latte sono uguali e una diagnosi precisa è imprescindibile per non sottoporre i pazienti a restrizioni alimentari non necessarie, specialmente quando si tratta di bambini: alcuni pazienti infatti tollerano le proteine del latte una volta cotte, per esempio in prodotti da forno come i biscotti.
Aumento dei casi
Come spiega Antonella Muraro, responsabile del Centro di specializzazione per lo studio e la cura delle allergie e delle intolleranze alimentari della Regione Veneto, «Anche in Italia i casi di shock anafilattico in persone allergiche al latte sono aumentati rispetto a una decina di anni fa: nei bimbi con meno di un anno si è registrato un incremento di sette volte rispetto al 2010, nei piccoli con più di quattro anni c’è stata una crescita di cinque volte. La buona notizia è che il 70 per cento dei bambini tende a guarire fra i cinque e i sette anni; tuttavia al crescere dell’età aumentano anche le occasioni di contatto con le proteine del latte, per cui sale il pericolo di reazioni gravi».
Diagnosi accurata
Attenzione però, mai affidarsi al fai da te per scoprire se si possono «allentare» le limitazioni: in altri termini è vietato avventurarsi nella cottura del latte per capire se il bimbo lo tollera, l’iter diagnostico deve essere corretto e come specifica Muraro «Prevede la raccolta accurata della storia clinica e i test allergologici classici e molecolari (come il prick e il RAST test, che valuta la presenza nel sangue delle immunoglobuline tipiche degli allergici, le IgE, ndr). Negli Stati Uniti è arrivato di recente un test molecolare per valutare con ulteriore precisione la tipologia di allergia, perché si è osservato che non tollerare ‘pezzetti’ lineari delle proteine del latte, specialmente della caseina, si associa ad allergie più gravi e persistenti negli anni. In Italia il test non è ancora disponibile, così l’iter diagnostico prosegue con i test di provocazione, sotto controllo medico e in ambiente protetto, dando al bambino prodotti da forno e/o meno cotti e/o latticini a diversi dosaggi: in questo modo si può capire la soglia di reazione del paziente e anche valutare se possa essere candidato all’immunoterapia, che nel caso dell’allergia al latte è molto promettente». Con la terapia si tenta la desensibilizzazione, ovvero si cerca di «abituare» il sistema immunitario a tollerare le proteine del latte dandone in quantità man mano crescenti, seguendo protocolli molto rigorosi e sotto controllo medico: di nuovo, il fai da te è molto pericoloso e può esporre a shock anafilattico, vietato cimentarsi da soli.
La prevenzione
Ci sono poi novità anche in merito alla possibilità di prevenire l’allergia al latte: «A differenza di quanto si pensava in passato sembra che in bambini ad alto rischio, per esempio perché affetti da eczema, l’introduzione precoce fra il quarto e il sesto mese di allergeni del latte e dell’uovo possa facilitare lo sviluppo di una maggiore tolleranza», conclude l’allergologa.
Estratto dell'articolo di Elena Meli per il “Corriere della Sera” l’8 febbraio 2023.
1 Che cos’è l’allergia al latte vaccino?
Le allergie alimentari sono reazioni anomale a un elemento del cibo che il sistema immunitario riconosce come «pericoloso» anche se non lo sarebbe; al primo contatto avviene la sensibilizzazione, ovvero si formano anticorpi (immunoglobuline di tipo E) che poi innescano una risposta allergica rapida e violenta […]. Nel caso dell’allergia al latte vaccino […] il problema si manifesta nei primi anni di vita e in circa il 70% dei casi scompare verso i cinque-sette anni.
2 Che differenza c’è con l’intolleranza al lattosio?
L’intolleranza dipende da un deficit parziale o totale dell’enzima lattasi che serve a digerire il lattosio; questo non è assorbito e nell’intestino diventa «cibo» per batteri che lo fermentano, producendo gas e quindi disturbi come gonfiore, dolore, stitichezza o diarrea, da mezz’ora a due ore dopo il consumo. A differenza dell’allergia, nell’intolleranza non c’è coinvolgimento del sistema immunitario e non si verificano reazioni pericolose per la vita. […]
3 Come si riconosce l’allergia al latte?
La risposta è immediata e oltre a disturbi gastrointestinali (dolore, nausea, vomito) si possono avere sintomi respiratori (fra cui rinite, tosse, difficoltà di respiro) e cutanei (orticaria, rossore, irritazione e gonfiore), fino a reazioni gravissime come l’anafilassi. […]
4 Quali sono le precauzioni da prendere?
Latte e latticini devono essere eliminati dalla dieta; le restrizioni dipendono dalla proteina del latte che non si tollera, alcune possono degradarsi ad alte temperature consentendo a pazienti selezionati di tollerare prodotti da forno. È necessario […] avere sempre con sé l’autoiniettore con adrenalina.
5 Quali rischi si corrono?
Nei casi gravi si può arrivare allo choc anafilattico: inizia di solito con prurito, tosse secca e stizzosa, gonfiore di lingua e labbra o respiro affannoso/sibilante; poi può calare la pressione con vertigini e confusione, fino alla perdita di coscienza e al coma. […]
6 Chi dovrebbe avere con sé la «penna» con adrenalina?
Tutti i pazienti con allergia grave: è un salvavita che blocca la progressione della reazione anafilattica[…] Ogni paziente a rischio dovrebbe averne due e saperle usare ai sintomi iniziali[…]
7 Si può guarire dalle allergie alimentari?
Circa il 30% dei casi di allergia al latte è grave e persiste in adolescenza e da adulti. In pazienti selezionati è possibile l’immunoterapia, con la desensibilizzazione che «insegna» al sistema immunitario a tollerare il latte: alcuni possono arrivare alla tolleranza, altri accrescere la dose che riescono a ingerire senza reazioni, in caso di consumo accidentale. […]
Ha risposto alle domande Antonella Muraro, direttore del Centro di Specializzazione Regione Veneto per lo Studio e la Cura delle Allergie e Intolleranze alimentari, Azienda Ospedale-Università di Padova.
La Vitiligine.
Vitiligine: le cause, i sintomi e i rimedi. Questo disturbo è purtroppo fonte di notevole imbarazzo e disagio in chi ne soffre. La guarigione non è possibile ma i trattamenti attuali sono in grado di tenere sotto controllo la progressione delle macchie. Maria Girardi il 2 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Le cause della vitiligine
I sintomi e la diagnosi della vitiligine
Il trattamento della vitiligine
Secondo recenti stime, colpisce circa l'1-2% della popolazione mondiale e, sebbene possa interessare soggetti di tutte le età, la maggiore incidenza si registra dopo i 20 anni. Stiamo parlando della vitiligine, una malattia cronica della pelle provocata da un'alterazione della funzionalità dei melanociti, ossia delle cellule che producono la melanina. Pertanto sulla cute compaiono chiazze bianche di dimensioni variabili, circoscritte oppure diffuse su tutto il corpo.
A seconda della disposizione delle macchie, si distinguono due tipologie del disturbo che, ricordiamo, non è contagioso:
non segmentale o bilaterale: è la forma più comune. Le chiazze sono distribuite in maniera simmetrica. Sono sotto categorie la vitiligine: generalizzata, mucosale, focale e acrofacciale;
segmentale: è la forma meno frequente. Le macchie non sono distribuite in maniera simmetrica. Si manifesta soprattutto nei bambini e si stabilizza nel corso del tempo.
Le cause della vitiligine
Attualmente le cause della vitiligine non sono ancora note con certezza, tuttavia si ritiene che essa sia la conseguenza della combinazione di una serie di fattori genetici, metabolici e autoimmuni. Nonostante in circa il 30% dei pazienti venga riscontrata una predisposizione genetica, la malattia non è considerata ereditaria.
Un ruolo importante nella sua comparsa sembra essere svolto dallo stress ossidativo e dall'accumulo di radicali liberi e perossido di idrogeno. Attenzione, poi, all'attacco immunitario dei melanociti che smettono così di produrre melanina. Non è un caso se un terzo degli individui soffra contemporaneamente di vitiligine e di altre patologie autoimmuni.
Altri fattori da non sottovalutare sono i seguenti: esposizione a particolari sostanze chimiche, stress fisico e/o emotivo prolungato, danni alla pelle (tagli, scottature), assunzione di farmaci per il Parkinson, per l'alopecia areata, antimalarici e anticonvulsionanti.
I sintomi e la diagnosi della vitiligine
La vitiligine esordisce con la comparsa di macchie molto chiare, la cui zona centrale è più bianca rispetto a quella circostante. Solitamente le chiazze sono ben demarcata e simmetriche. La depigmentazione, localizzata o diffusa, interessa principalmente il viso, il dorso delle mani, le dita, le ascelle, gli avambracci, i gomiti, le ginocchia. Ancora i capezzoli, l'ombellico, le caviglie, la regione inguinale e ano-genitale.
Nelle zone colpite i peli sono bianchi, soggetti a caduta o a diradamento. Le chiazze sono asintomatiche, tuttavia un terzo dei soggetti manifesta prurito. Questo è un campanello d'allarme in quanto indice di peggioramento della problematica. La vitiligine ha un forte impatto a livello emotivo. Sono tanti, infatti, i pazienti che sperimentano sensazioni di imbarazzo e di disagio durante le interazioni sociali.
A diagnosticare il disturbo è il dermatologo che, a tal proposito dopo un'accurata anamnesi, si avvale della lampada di Wood. Si tratta di uno strumento a raggi ultravioletti (UV) i quali, quando colpiscono le macchie, emettono una fluorescenza specifica. In questo modo lo specialista può distinguere le lesioni della vitiligine da quelle provocate da altre patologie cutanee.
Il trattamento della vitiligine
Dalla vitiligine non si guarisce, tuttavia è possibile tenere sotto controllo la progressione delle macchie mediante l'applicazione topica di corticosteroidi e di farmaci immunosoppressori che, modulando la risposta immunitaria, sono in grado di ripristinare il colorito naturale della cute. Questi trattamenti vanno sempre associati alla fototerapia a raggi UVA e UVB.
In alcuni casi specifici, ovvero se non sono comparse nuove chiazze negli ultimi 12 mesi e se quelle già presenti non sono peggiorate, si può ricorrere all'innesto di pelle. La tecnica in questione prevede il prelievo di un piccolo lembo di epidermide da una zona sana e la sua applicazione sull'area cutanea danneggiata.
Vitiligine, non è solo un problema estetico, ma una malattia vera e propria (che pesa sulla psiche). Storia di Vera Martinella Corriere della Sera il 24 giugno 2023.
Più o meno 330mila italiani devono convivere con una pelle «maculata», ovvero con chiazze più chiare spesso molto evidenti perché interessano in modo particolare le aree più visibili: volto (soprattutto intorno agli occhi e alla bocca), gomiti, mani, piedi e ginocchia. Soffrono di vitiligine, una malattia che non è fortunatamente letale o dolorosa, ma che può avere conseguenze importanti a livello psicologico, come dimostrano anche i dati di uno studio recente presentato in occasione della Giornata Mondiale della Vitiligine, celebrata internazionalmente il 25 giugno. D'estate, poi, il problema si acuisce perché mentre la pelle sana si abbronza naturalmente, le zone bianche diventano ancora più evidenti e sono esposte a un altissimo rischio di scottature.
Ansia e depressione
«Alla base di questa malattia c’è un difetto intrinseco delle cellule dell’epidermide responsabili della produzione di melanina (i melanociti), che dà colore a pelle, capelli e peli e ha l’importante funzione di proteggere la cute dai raggi solari ultravioletti - spiega Giuseppe Argenziano, presidente della Società Italiana di Dermatologia SIDeMaST -. Spesso sconosciuta o considerata semplice inestetismo cutaneo, la vitiligine è una patologia autoimmune cronica che si manifesta con macchie bianche sul corpo che possono creare molto disagio ai pazienti, specie nelle zone più in vista o in quelle più intime. Tanto che molti soffrono di ansia e depressione». Infatti, da un'indagine da poco condotta dalla società di consulenza Kearney per la campagna di sensibilizzazione promossa dalla società biofarmaceutica Incyte (con il patrocinio di SIDeMaST e dell'Associazione Dermatologi Venereologi Ospedalieri Italiani, Adoi) con l'intento di aumentare la consapevolezza su questa patologia, l’ansia risulta il 72% più diffusa in chi soffre di vitiligine rispetto al resto della popolazione e i sintomi legati alla depressione sono più frequenti del 32%. E l’impatto psicologico appare particolarmente sentito nelle donne e negli adolescenti.
Cause e diagnosi
La malattia può insorgere a qualunque età, ma più frequentemente compare tra i 20 e i 40 anni, e il 40% dei pazienti ha altri casi di vitiligine o di altre malattie autoimmuni in famiglia. «L’associazione con altre patologie autoimmuni, in particolare l’ipotiroidismo, è abbastanza frequente - dice Francesco Cusano, presidente Adoi -, ma anche artrite reumatoide e lupus hanno un'incidenza maggiore. Le cause non sono ancora del tutto chiare, ma per arrivare alla diagnosi certa serve la visita con uno specialista, che utilizzerà una lampada speciale a raggi ultravioletti (luce di Wood), che permette di evidenziare lesioni non visibili con la luce normale e di distinguerle da altre condizioni dermatologiche con cui potrebbero essere confuse (per esempio micosi, eczemi, ecc.)». Il decorso è difficilmente prevedibile: in genere, dopo una comparsa rapida delle lesioni, si osserva un arresto della progressione.
Terapie
L’obiettivo della terapia è proprio fermare l’avanzata delle «chiazze» e poi cercare di re-pigmentarle. Le cure attuali si basano, da un lato, sull’uso di cortisonici topici (cioè da applicare sulla pelle) o sistemici, in relazione allo stato di attività e alla diffusione delle lesioni per bloccarne la diffusione; dall’altro sull’utilizzo di immuno-modulatori topici e soprattutto della fototerapia con raggi UVB a banda stretta per cercare di indurre la re-pigmentazione. «La vitiligine è stata sino a oggi orfana di trattamenti efficaci, non si può per ora guarire - conclude Ugo Viora, Associazione Nazionale Gli Amici per la Pelle -. Ultimamente si stanno però rendendo disponibili terapie mirate che sembrano offrire nuove speranze per i pazienti: si basano su farmaci che, agendo in modo specifico sui processi che causano l’insorgere della vitiligine, consentono una re-pigmentazione della pelle». Risultati incoraggianti sono stati ottenuti con i cosiddetti JAK-inibitori, farmaci già utilizzati con successo per via orale nella dermatite atopica. Per la vitiligine è stata messa a punto una formulazione in crema che è stata da poco approvata dall’Agenzia americana del farmaco (Fda) e da quella europea (Ema): la molecola ha proprietà antinfiammatorie, ma sono in corso altre sperimentazioni sia con diversi farmaci della stessa categoria, somministrati per bocca, sia con molecole biologiche.
L’Epilessia.
Si può morire di epilessia? Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2023
La morte improvvisa e inaspettata («sudden unexplained death in epilepsy») è la causa di decesso più comune tra coloro che soffrono della malattia neurologica. Ha un’incidenza di circa un caso su mille all’anno
L’epilessia può far morire? Purtroppo sì, per tanti motivi. Le persone che ne soffrono hanno un rischio di mortalità maggiore rispetto alle altre. Il decesso può essere legato alla malattia di base (malattie metaboliche geneticamente determinate, tumori cerebrali) o alle crisi (quadro clinico di «stato epilettico», annegamento, soffocamento da cibo inalato, traumi cranici). Esiste anche un rischio aumentato di suicidio tra i pazienti. Tra le morti causate da crisi, spiega la «Guida alle epilessie» della Lice (Lega italiana contro l’epilessia), merita una menzione particolare la morte improvvisa e inaspettata (la cosiddetta «sudden unexplained death in epilepsy», Sudep) che è la causa di decesso più comune legata all’epilessia. Colpisce un paziente su mille con epilessia ogni anno (circa 50mila all’anno a livello mondiale).
Si può verificare nel sonno
Il rischio di Sudep cambia in rapporto alle caratteristiche del paziente: è basso se la diagnosi è recente e se la terapia risulta efficace, maggiore nei pazienti gravemente farmacoresistenti e che presentano crisi molto intense e prolungate. Il più importante fattore di rischio di Sudep sembra essere l’elevata frequenza di crisi, in particolare quelle convulsive (crisi tonico-cloniche); questo suggerisce che la Sudep sia un fenomeno correlato proprio alle conseguenze della crisi, verosimilmente ad alterazioni cardio-respiratorie. La morte improvvisa si verifica più frequentemente nel sonno. Per cercare di prevenirla è fondamentale la corretta assunzione della terapia, in modo da ottenere il miglior controllo possibile delle crisi.
Il caso di Cameron Boyce
Nel 2019 Cameron Boyce, star di Disney Channel e del film «Descendants», è morto per una crisi epilettica: aveva 20 anni. In un’intervista, i genitori hanno rivelato che Cameron aveva avuto la sua prima crisi a 16 anni e che in tutta la vita ne aveva avute solo cinque, avvenute nel sonno. Dopo la sua morte, i genitori hanno dato vita alla Cameron Boyce Foundation, con lo scopo di finanziare la ricerca sull’epilessia e la Sudep. La farmacoresistenza interessa circa il 30% delle persone con epilessia (i farmaci non risultano efficaci per il controllo delle crisi), ma si calcola che il 15-20% dei pazienti farmacoresistenti potrebbe giovarsi di un intervento neurochirurgico, con l’obiettivo di rimuovere la parte di cervello responsabile delle crisi.
Il caso di Robby Lee
Un anno prima di Cameron Boyce, era morto a 24 anni Robby Lee, fratello di Amy Lee, cofondatrice e frontwoman del gruppo metal Evanescence. Robby soffriva di una grave forma di epilessia fin da quando aveva 7 anni. «Abbiamo sempre saputo che il nostro tempo insieme era prezioso: lui amava ogni giorno come se fosse l’ultimo» ha scritto la cantante sui social, annunciando la morte del fratello. Nel 2005 Amy Lee ha collaborato con la Epilepsy Foundation per una campagna chiamata «Out of the shadows», con l’obiettivo di diffondere maggior consapevolezza sull’epilessia.
Accettare l’epilessia
La diagnosi di epilessia è molto difficile da accettare, soprattutto da parte di un giovane, e può portare il paziente a sintomi psichici di tipo ansioso e depressivo. Sintomi che possono influire negativamente sulla qualità della vita, ancor più dell’epilessia stessa. Si rischia un circolo vizioso difficile da interrompere, che talvolta rende opportuni interventi psicoterapeutici o trattamenti farmacologici specifici. La difficoltà principale è accettare l’epilessia, un disturbo generato da un malfunzionamento del cervello, a insorgenza improvvisa e imprevedibile ma che, al di fuori delle crisi, è spesso compatibile con una vita normale. È fondamentale, nel momento della diagnosi, che il paziente riceva informazioni dettagliate sulle caratteristiche del suo tipo di epilessia, in modo che aderisca alle cure.
La Dermatite.
Dermatite del viso da freddo: come riconoscerla e curarla. L'inverno è spesso un periodo delicato se si soffre di eczema atopico a causa della pelle più secca che accentua l'eczema. Semplici gesti permettono di evitare l'insorgere di questa disidratazione e fastidioso prurito. Francesca Bocchi il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.
La dermatite atopica è scatenata da fattori genetici (predisposizione all'atopia, altre allergie) ma anche dallo stile di vita (alimentazione, allergeni dell'aria, agenti infettivi, abbigliamento, stress emotivo) o da fattori esterni, che alterano la funzione barriera della pelle con segni dermatologici specifici. In inverno l'aria è fredda e secca all'esterno e all'interno il riscaldamento asciuga l'aria dell'ambiente. Questa diminuzione dell'umidità colpisce tutti i tipi di pelle, che diventano più secche. Ma la pelle atopica, incline all'eczema, a causa della grande fragilità della sua barriera cutanea, ne risente ancora di più. La barriera cutanea regola il passaggio dell'acqua dall'interno verso l'esterno e viceversa. Quando l'aria è secca, l'acqua evapora ancora più velocemente dalla pelle, soprattutto se la barriera è indebolita, e la pelle si secca e diventa fragile molto più velocemente che in estate.
I sintomi
La forma più comune è la dermatite atopica (prima dei 2 anni), che inizia intorno ai 3 mesi con macchie rosse sulle guance. Se si tratta di un eritema (arrossamento), escoriazioni, papulo-vescicole o essudazioni (aree trasudanti) che si evolvono in croste accompagnate da intenso prurito causa, del disagio e dei disturbi del sonno.
La dermatite giovanile (bambini sopra i 2 anni) rappresenta un'altra forma che può verificarsi improvvisamente, presentandosi per la prima volta. In questo caso le lesioni sono meno gravi, si localizzano maggiormente sulle zone di flessione (gomiti, dorso del ginocchio, pieghe del collo, mani e polsi) ed evolvono in placche con tendenza all'eritema e al prurito. In questo caso la secchezza cutanea (xerosi cutanea) è permanente e richiede l'applicazione di creme specifiche.
Negli adolescenti e negli adulti, l'eczema atopico è raro (meno del 10%). Di solito si manifesta con sintomi residui (sulle mani, palpebre) e intensa secchezza della pelle.
L'eczema atopico peggiora in inverno?
La temperatura molto rigida e la mancanza di umidità durante l'inverno sono i principali fattori scatenanti della dermatite atopica e provocano un rapido asciugamento della pelle, seguita da un'alterazione della sua funzione di barriera che può intensificarsi ed essere all'origine di un'infezione. In questo caso è necessario ricorrere ad antibiotici e trattamenti locali che possono portare a sensibilizzazione e malessere temporaneo.
Quindi al di sotto di un certo livello di temperatura e umidità, l'applicazione degli emollienti deve essere costante e senza interruzioni. Il trattamento deve essere prontamente prescritto in caso di lesioni evidenti. Si consigliano anche docce brevi facendo attenzione che l'acqua sia tiepida e che si utilizzi un gel doccia specifico.
Come curare la dermatite atopica aggravata dal freddo
Il trattamento deve essere determinato da dermatologo, a seconda dello stadio e dell'aspetto clinico dei sintomi. Il protocollo si basa su corticosteroidi locali o inibizione della calcineurina, antistaminici per alleviare il prurito ed emollienti locali. Il trattamento richiede una buona collaborazione tra paziente e medico e la sua durata dipende dall'evoluzione dei sintomi. È molto importante controllare il circolo vizioso prurito/grattamento, che gioca un ruolo nello sviluppo della malattia, mantenendo un equilibrio sensoriale accettabile per il paziente.
I consigli
Utilizzare guanti, se la dermatite è alle mani, così da proteggerle dal freddo o, ad ogni modo e se possibile, coprire e tenere al caldo l’area interessata dalla patologia
Ricorrere a creme od unguenti idratanti anche più volte al giorno e con costanza
Ridurre, per quanto possibile, i lavaggi dell’area eczematosa per non disidratare ed impoverire ulteriormente la barriera lipidica ed utilizzare sempre detergenti delicati, possibilmente privi di sapone
Cercare di ridurre, se possibile, il contatto con le sostanze irritanti o allergeniche.
La Scarlattina.
Sintomi e cure della scarlattina. La scarlattina è una malattia che si manifesta attraverso un’eruzione cutanea accompagnata da febbre, nausea e stanchezza cronica. Risulta contagiosa ma meno pericolosa del morbillo. Mariangela Cutrone il 15 Febbraio 2023 su Il Giornale.
La scarlattina sembrava ormai una malattia debellata, invece in questo periodo a lanciare il suo ritorno è la rivista scientifica The Lancet e l’allarme di molti pediatri italiani.
È una malattia esantematica che si manifesta infatti attraverso un esantema e colpisce maggiormente i bambini dai due anni in su. È provocata da un batterio chiamato streptococco beta-emolitico di gruppo A (Streptococcus pyogenes). Il contagio dura durante tutto il decorso della malattia e si manifesta soprattutto durante i mesi più freddi. Anche se è altamente contagiosa non è pericolosa quanto il morbillo.
Il periodo di incubazione varia dai due ai cinque giorni. Dopo questi giorni si manifestano i primi sintomi. Si manifesta attraverso l’ingrossamento delle tonsille e dei linfonodi, la comparsa sulla lingua di un’anomala patina biancastra. Questa prima sintomatologia è accompagnata da un malessere generale caratterizzato da stanchezza cronica, cefalea, nausea. Le prime eruzioni cutanee sono localizzate a livello dell’inguine e delle ascelle per poi gradualmente raggiungere gli arti.
A comparire sulla pelle sono dei puntini e delle piccole macchie color rosso scarlatto da cui deriva il nome. L’epidermide risulta inoltre ruvida al tatto. L’eruzione dura circa quattro giorni ma è seguita da una desquamazione che si perdura fino ai venti giorni. Spesso la scarlattina è essere confusa con una reazione allergica. Essendo una malattia batterica per curarla si usa spesso l’uso di antibiotici come la penicillina. La terapia antibiotica può durare fino agli otto-dieci giorni. Il bambino che ha scarlattina deve essere rigorosamente allontanato da scuola.
Durante tutto il decorso di malattia i pediatri consigliano vivamente il riposo a letto soprattutto se l’eruzione cutanea è accompagnata dalla febbre alta. Importante in questo caso è garantire la giusta idratazione all’organismo con il consumo costante di acqua, frullati e tisane non zuccherate. La febbre può provocare durante il decorso della malattia molta inappetenza. In questi casi i pediatri suggeriscono un’alimentazione composta da cibi cremosi e morbidi come yogurt, gelati e formaggi freschi. Da evitare sono i cibi troppo caldi o acidi come il sugo di pomodoro o il succo di frutta.
Ad oggi purtroppo non esiste un vaccino contro la scarlattina. Questa malattia si contagia con facilità per via aerea attraverso le goccioline infette che emettiamo mentre starnutiamo, tossiamo o semplicemente parliamo. Per prevenire efficacemente il contagio le persone devono osservare una distanza di almeno 1,5 metri dal paziente affetto. A scopo preventivo è bene lavarsi spesso le mani, non condividere asciugamani, lenzuola o utensili per l’igiene personale.
La Setticemia.
Setticemia: cause e rimedi. Come si manifesta la setticemia negli over, da cosa è causata e quali sono le terapie e le strategie preventive efficacy. Teresa Barone il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.
La setticemia rappresenta un’emergenza medica da trattare in modo repentino, una vera e propria minaccia per la salute a prescindere dall’età e dai soggetti colpiti.
Negli over, in particolare, riconoscere tempestivamente la setticemia può incidere notevolmente sulle possibilità di guarigione, soprattutto perché una delle conseguenze più pericolose di questa patologia è l’evoluzione in sepsi e la formazione di coaguli di sangue in grado di generare trombi.
Cos’è la setticemia e come si manifesta
La setticemia è la grave complicazione di un'infezione batterica che non è stata trattata in modo adeguato, causando la diffusione di vari tipi di batteri in tutto l’organismo attraverso il sangue. Responsabili dell’infezione, in particolare, possono essere ad esempio streptococchi, stafilococchi, meningococchi o anche pneumococchi, localizzati inizialmente in un’area ristretta come ad esempio nei polmoni o nella pelle.
I sintomi della setticemia sono numerosi e la loro manifestazione dipende molto dalle fasi di avanzamento della malattia. Negli anziani, nello specifico, i campanelli d’allarme della setticemia sono soprattutto un aumento del ritmo della respirazione, stato confusionale, brividi e debolezza diffusa. Più in generale, appartengono alla lista dei sintomi:
comparsa di febbre;
aumento della frequenza cardiaca con brividi;
nausea e vomito;
ipotensione;
diarrea;
dolori a livello muscolare;
comparsa di puntini rossi sulla pelle;
perdita di coscienza.
Cause della setticemia
A causare la setticemia possono essere diverse tipologie di infezioni batteriche non contenute e diffuse nell’organismo, con il conseguente trasporto di batteri attraverso la circolazione del sangue.
La lista delle cause di setticemia più frequenti comprende:
polmonite;
infezioni addominali, come ad esempio l’appendicite e la peritonite;
infezioni alle vie urinarie;
endocardite, vale a dire infezione a carico del cuore;
infezioni della pelle in seguito ad abrasioni, ferite e ustioni.
Se da un lato qualsiasi intervento chirurgico può essere la causa scatenate della setticemia, dall’altro lato ci sono alcuni fattori di rischio da non sottovalutare come ad esempio un sistema immunitario debole o la presenza di malattie croniche, tra cui patologie renali o epatiche, tumori, diabete.
Cure e rimedi per la setticemia
Per guarire dalla setticemia ed evitare il rischio di evoluzione in sepsi è fondamentale intervenire prontamente, innanzitutto programmando una terapia a base di antibiotici, dopo aver individuato il batterio responsabile dell’infezione o utilizzando antibiotici ad ampio spettro. Il rischio che si corre, infatti, è quello di causare danni ai singoli organi.
In aggiunta è anche possibile ricorrere ad altre terapie da effettuare in ambito ospedaliero, come la somministrazione di vasopressori oppure la ventilazione meccanica o la dialisi qualora il quadro clinico sia evoluto rispettivamente in insufficienza polmonare o renale. Nel caso in cui l’infezione sia causata da un ascesso, ad esempio, potrebbe essere necessario un intervento chirurgico localizzato.
È possibile prevenire la setticemia?
Per prevenire la setticemia è determinante prevenire le infezioni, quindi sostanzialmente cercare di rispettare le principali norme igieniche e mettere in atto alcune strategie efficaci. È utile disinfettare con cura qualsiasi ferita anche superficiale, lavarsi bene le mani per evitare infezioni a carico dell’apparato respiratorio così come consultare il medico per programmare le vaccinazioni stagionali, ad esempio contro l’influenza e il Covid.
Formicolio alle mani.
Formicolio alle mani: da che cosa può dipendere e cosa fare. Può trattarsi solo di un disturbo passeggero ma se tende a ripresentarsi con una certa frequenza, non va trascurato. Quali sono le cause più comuni del formicolio alle mani e come gestirlo? Ne abbiamo parlato con il dottor Giorgio Pivato, responsabile di Chirurgia della mano in Humanitas. FRANCESCA GASTALDI su Io Donna il 21 Dicembre 2022.
Formicolio alle mani, un disturbo piuttosto comune eppure fastidioso. Il formicolio può infatti accompagnarsi anche a una sensazione di intorpidimento o perdita della sensibilità, soprattutto a carico dei polpastrelli. Le cause? Possono essere molteplici e se in alcuni casi si tratta di una condizione che non deve destare preoccupazione, in altri può trattarsi di un sintomo a cui è bene prestare attenzione. Per fare chiarezza abbiamo rivolto alcune domande al dottor Giorgio Pivato, responsabile di Chirurgia della Mano in Humanitas.
A cosa può essere dovuto il formicolio alle mani?
«Il formicolio alle mani è un sintomo puramente neurologico – spiega il dottor Pivato – dovuto a una riduzione dell’apporto vascolare al nervo. In altre parole, al nervo arriva meno sangue e questo può accadere a seguito di tante condizioni. La più comune e tipica è addormentarsi in una posizione strana che provoca una compressene sui nervi».
Formicolio alle mani e tunnel carpale
«Il nervo mediano passa nel tunnel carpale – spiega ancora lo specialista – che è un canale stretto all’interno del quale passano anche i tendini flessori, quelli cioè che permettono di piegare le dita: quando i tendini si infiammano diventano più grossi e a farne le spese è il nervo che viene schiacciato».
Formicolio alle mani: le cause
Se dunque in linea di principio l’origine del formicolio alle mani è solo una, ovvero l’ischemia dovuta ad uno schiacciamento del nervo, le cause di questa compressione possono essere molto diverse.
«Posture scorrete costituiscono una delle cause più comuni – spiega il dottor Pivato – ma all’origine della compressione del nervo può esserci anche un’infiammazione oppure la presenza di una massa che esercita una compressione diretta, come ad esempio una ciste, un tumore o un lipoma, o ancora la frattura del polso. Se infatti la frattura non guarisce in modo corretto, l’alterazione del profilo dell’osso può essere causa di compressione del nervo e quindi dare origine al formicolio».
Come capire se si tratta di un disturbo da approfondire
La prima cosa da fare, dunque, è cercare di capire se il formicolio alle mani è un sintomo che vale la pena sottoporre a uno specialista. Quali sono i criteri da tenere in considerazione?
«Sicuramente la persistenza del sintomo e l’intensità. – spiega lo specialista – Se il formicolio si presenta una volta al mese, non deve preoccupare. Se invece capita spesso o se l’intensità del sintomo è tale da procurare dolore, in quel caso è consigliabile rivolgersi a uno specialista. Non solo, conta molto anche la variazione e possibile evoluzione del sintomo. Se da una volta alla settimana, il fastidio si presenta due o più volte oppure improvvisamente il formicolio si presenta accompagnato da dolore, significa che qualcosa sta evolvendo e quindi quello è sicuramente un campanello d’allarme che va approfondito».
Formicolio alle mani: da quali patologie può essere causato?
Il formicolio alle mani può infatti essere la spia di un problema, come ad esempio la sindrome del tunnel carpale o la sindrome del nervo ulnare (o sindrome del tunnel cubitale), una neuropatia da compressione molto comune, causata da una sorta di ‘intrappolamento’ del nervo ulnare all’altezza del gomito per cause di varia natura.
«Se il disturbo è a livello del tunnel carpale e ha origine dalla compressione del nervo mediano, in genere il formicolio interessa le prime tre dita e il lato interno dell’anulare – precisa lo specialista – se invece l’origine è la compressione del nervo ulnare al gomito, il formicolio si percepisce a livello del mignolo e al lato esterno dell’anulare».
Non solo, tra le cause patologiche più comuni del formicolio alle mani ci sono anche molti disturbi a livello cervicale, come ad esempio artrosi o ernie.
Come viene eseguita la diagnosi
Per capire da quale disturbo può essere causato il formicolio e ricevere una corretta diagnosi è fondamentale chiedere il parere di uno specialista, che potrà valutare se si tratta di un disturbo sporadico o se invece è bene sottoporsi ad accertamenti.
«L’esame principale è l’elettromiografia – spiega il dottor Pivato – un esame che permette di valutare lo stato di salute del nervo e di capire il grado di compressione del nervo. Sulla base dell’esame clinico e dal risultato dell’elettromiografia si può indicare al paziente come è opportuno procedere».
Formicolio alle mani: i possibili rimedi
«Nello specifico, se si tratta di una sofferenza solo iniziale del nervo, si può procedere con rimedi conservativi, come il tutore. – spiega ancora l’esperto – Se l’esame invece mostra una sofferenza del nervo importante bisogna necessariamente ricorrere all’intervento chirurgico. Il nervo che rimane compresso a lungo, infatti, come tutte le strutture che non vengono vascolarizzate correttamente, va incontro ad una morte progressiva. Se sottoposto per lungo tempo a compressione, il nervo comincia a degenerare ed il paziente riferirà una perdita di sensibilità e di forza. Se la diagnosi non è tempestiva nemmeno l’intervento può garantire una completa guarigione».
In cosa consiste l’intervento
Quello che è bene sapere, però, è che oggi l’intervento chirurgico alle mani viene fatto con tecniche mini invasive che assicurano buoni risultati.
«Oggi l’intervento viene eseguito in endoscopia – conclude il dottor Pivato – con un taglio di 1 centimetro a livello del polso. Si tratta di un’operazione che dura pochi minuti in anestesia locale e in regime ambulatoriale. Senza contare che il paziente, già dal giorno successivo, può fare tutto quello che faceva prima senza nessuna limitazione. E dalla sera stessa non ha più sintomi». IO Donna
La sindrome autoinfiammatoria VEXAS.
Che cosa è la sindrome VEXAS, nuova malattia autoinfiammatoria che può essere letale. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.
La malattia è rara ed è stata scoperta solo nel 2020 e ha origine da una mutazione del gene UBA1. I sintomi sono simili a quelli di patologie ematologiche e reumatologiche
Si chiama sindrome VEXAS, è una nuova malattia autoinfiammatoria rara e grave che, se non curata, può essere letale. La malattia, indotta dall’immunità innata, in particolare dalla citochina interleuchina -1, ha caratteristiche cliniche che la pongono tra le malattie reumatologiche e quelle ematologiche. Chi ce l’ha spesso peregrina da uno specialista all’altro (pneumologo, reumatologo, urologo, dermatologo) nel tentativo di dare un nome a una patologia molto impattante sulla qualità della vita. Sebbene la sindrome sia rara ha una mortalità elevata: circa la metà delle persone over 50 muore entro 5 anni dalla diagnosi. «I sintomi della sindrome sono svariati: febbre inspiegabile, bassi livelli di ossigeno nel sangue, segni di infiammazione cronica, anemia, globuli bianchi ridotti, sintomi comuni alle sindromi mielodisplastiche, ovvero, malattie del midollo osseo che portano ad una ridotta produzione di cellule» spiega Carlo Selmi, responsabile di reumatologia e immunologia all’ospedale Humanitas di Milano e docente di Humanitas University.
La mutazione UBA1
VEXAS è l’acronimo di «vascuoles, E1 enzyme, X-linked, autoinflammatory, somatic»e si basa sulle caratteristiche più importanti della sindrome. Il fatto che arrivare a una diagnosi sia difficile ha un valido motivo: fino a poco tempo fa non se ne conosceva l’esistenza. La sindrome è stata scoperta solo nel 2020 dagli scienziati dei National Institutes of Health che l’hanno descritta sul New England Journal of Medicine. «La malattia è stata individuata attraverso la genomica “al contrario” – racconta Selmi - . Nella biobanca dell’NIH erano presenti una serie di campioni di casi di malattie senza un nome e gli scienziati hanno eseguito la sequenza del genoma di questi casi, trovando due pazienti con la mutazione UBA1, che si crea nel corso della vita, legata al cromosoma X». Dal momento in cui la malattia è stata scoperta ed è poi stata cercata è stata trovata in tutto il mondo in persone che fino ad allora avevano avuto diagnosi poco chiare, soprattutto vasculiti, ovvero infiammazione di vene o arterie.
Quanto è diffusa la sindrome
La sindrome infiammatoria sembra essere più diffusa di quanto si pensasse secondo i risultati di un’indagine che ne ha studiato la prevalenza appena pubblicati su JAMA. La ricerca stima che circa 1 persona su 13.500 negli Stati Uniti ha mutazioni nel gene UBA1, che portano a sviluppare con l’età la sindrome VEXAS. Nello studio osservazionale i ricercatori hanno analizzato le cartelle cliniche di 163.096 uomini e donne registrati nel sistema sanitario della Pennsylvania dal gennaio 1996 al gennaio 2022 che hanno accettato di sottoporsi a uno screening del DNA del sangue per identificare malattie genetiche. Undici di loro avevano la mutazione UBA1, tutti con sintomi VEXAS (nel gruppo solo due le donne). Solo tre di loro sono ancora vivi. Sette avevano l’arterite, ovvero una vasculite che colpisce le arterie, quattro la psoriasi o la sarcoidosi che causa la formazione di piccoli noduli gonfi sul corpo. Tutti soffrivano di anemia. Dal punto di vista statistico significa che 1 uomo su 4.269 over 50 e 1 donna su 26.238 ha o rischia si sviluppare la sindrome. Per i ricercatori la prevalenza è significativa in confronto ad altre condizioni infiammatorie come le vasculiti e le mielodisplasie. «Questo studio ha dimostrato che ci sono probabilmente migliaia di pazienti negli Stati Uniti che hanno questa malattia, e nella stragrande maggioranza dei casi questa non viene riconosciuta perché i medici non prendono in considerazione di allargare lo spettro per la diagnosi» afferma David Beck, genetista e ricercatore principale dello studio.
Malattia non è ereditaria, la diagnosi con un test genetico
La sindrome VEXAS non è ereditaria, quindi chi ne è affetto non la trasmette ai propri figli. Il gene UBA1 si trova sul cromosoma X. Per questo motivo colpisce prevalentemente gli uomini, portatori di un solo cromosoma X. Le donne hanno due cromosomi X quindi se uno è colpito dalla mutazione l’altro interviene silenziando quello difettoso. La notizia positiva è che esiste un test genetico per diagnosticare la malattia a cui possono essere sottoposti tutti quei pazienti anziani, con infiammazione sistemica e globuli rossi bassi che non rispondono ad altri trattamenti, se non ai cortisonici o altri immunosoppressori che tuttavia hanno effetti collaterali ben noti.
Le terapie
«Non esiste una cura o un trattamento standardizzato ma i sintomi possono essere gestiti con farmaci steroidei o immunosoppressori. Oggi viene trattata con gli stessi farmaci che utilizziamo nelle malattie autoinfiammatorie, ovvero glucocorticoidi e inibitori dell’interluchina 1 come i farmaci biologici anakinra e canakinumab» conclude Selmi. «Un trattamento efficace può essere il trapianto di midollo osseo che comporta certo dei rischi ma questo sottolinea quanto sia grave la malattia» commenta Becks. In Italia la sindrome VEXAS è stata diagnosticata per la prima volta nel dicembre 2022 a Reggio Emilia e da allora i reparti di Reumatologia ed Ematologia di molti ospedali italiani si sono attrezzati per effettuare i test genetici su pazienti la cui diagnosi è incerta.
La curiosità
Una curiosità. In un episodio della popolare serie tv Chicago Med uno dei medici alle prese con un paziente con malattia sconosciuta esclama davanti ai colleghi: «Ho appena letto sul New England della nuova sindrome VEXAS, è questa!». È successo appena due tre mesi dopo la vera pubblicazione sulla rivista scientifica. Si narra che i medici (veri) del National Istitute of Health siano orgogliosi della svolta pop della loro scoperta.
La Psoriasi a placche.
Psoriasi a placche: ne soffrono 500mila italiani. Nuove cure per le forme più gravi. Studi dimostrano l'efficacia e la sicurezza di un medicinale comodo (solo una compressa al giorno), ben tollerato dai pazienti. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023
Un forte prurito unito a dolore, sensazione di bruciore, tensione e secchezza della pelle, screpolatura, desquamazione, arrossamenti e addirittura sanguinamenti. Sono i sintomi di cui soffrono i pazienti con una forma moderata o grave di psoriasi a placche: circa 500mila italiani, su un totale di quasi due milioni di connazionali affetti da questa patologia infiammatoria cronica, caratterizzata da fasi di remissione alternati a fasi di peggioramento. Quella «volgare» (o «a placche») è il tipo più diffuso: insorge generalmente nella seconda o terza decade di vita e richiede poi una terapia per tutta la vita. «Può essere una malattia molto invalidante e compromettere sia la qualità di vita sia la produttività in ambito lavorativo, oltre alle relazioni sociali e affettive — ricorda Piergiorgio Malagoli, responsabile della PsoCare Unit all’IRCCS Policlinico San Donato di Milano —. Si calcola, infatti, che più del 90% dei pazienti lamenti un pesante impatto sul benessere emotivo. Per questo è importante avere strategie efficaci, ben tollerate e comode da assumere».
Il nuovo medicinale
Un ulteriore passo avanti nell’armamentario terapeutico a disposizione degli specialisti arriva dai risultati degli studi POETYK PSO-1 e POETYK PSO-2 (di fase tre, l'ultima prima dell'approvazione ufficiale di una nuova cura), che indicano l’efficacia significativa e duratura di un nuovo farmaco, deucravacitinib (recentemente approvato dall'agenzia europea per i farmaci Ema), su molteplici obiettivi-chiave, tra i quali la possibilità di ottenere una cute completamente libera da lesioni e la capacità di ridurre l’intensità dei sintomi. La molecola risulta ben tollerata: la reazione avversa più comune è l’infezione delle vie respiratorie superiori, non grave. «Deucravacitinib è un inibitore selettivo della tirosin-chinasi 2 (TYK2) con un meccanismo di azione unico, che fa parte di una nuova classe di small molecules — aggiunge Antonio Costanzo, ordinario di Dermatologia e direttore della Dermatologia all’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Milano —. È una terapia orale la cui somministrazione risulta molto agevole: una sola volta al giorno. Non richiede, inoltre, il monitoraggio di laboratorio. Riesce a bloccare solo una proteina, la TYK2, fondamentale per alcuni recettori alla base della patogenesi della psoriasi. Al tempo stesso, non inibisce altre proteine come JAK1, JAK2 o JAK3. Tutto questo si traduce in un’ottima efficacia del trattamento, che presenta anche buoni livelli di sicurezza e tollerabilità».
Diversi tipi di psoriasi
La psoriasi è una malattia cronica, dalla quale non si guarisce, ma che ora si controlla sempre meglio. Negli ultimi anni sono infatti arrivati nuovi medicinali che hanno consentito di raggiungere un obiettivo prima impensabile: avere la pelle pulita, libera dalle chiazze rossastre e ricoperte di squame (tipiche manifestazioni della patologia). Ne esistono diverse varianti e le lesioni tendono a comparire su alcune parti del corpo rispetto ad altre (gomiti, ginocchia, cuoio capelluto, regione lombo-sacrale, mani e piedi). «Sappiamo ormai che non riguarda solo la cute, ma è una malattia a interessamento sistemico, associata cioè a numerose altre patologie, prima fra tutti l’artrite psoriasica — spiega Malagoli —. Ma l’elenco è lungo e comprende l’associazione, documentata con crescente precisione, con alcune malattie metaboliche (tra cui diabete, obesità e sindrome metabolica), l’aumentato rischio cardiovascolare, la steatosi epatica non alcolica, le malattie infiammatorie croniche intestinali e l’uveite (una patologia degli occhi)».
Diverse terapie
Una forma moderata-severa di psoriasi a placche non può essere curata solo con i trattamenti topici o con le terapie convenzionali sistemiche: per trattarla sono però disponibili diversi nuovi farmaci biologici che si sono rivelati utili anche nei casi più gravi. «In Italia c’è un problema di accesso limitato ai farmaci ad alta specializzazione — aggiunge Malagoli —. Al momento, solo alcune strutture sanitarie di riferimento, autorizzate a livello nazionale, somministrano le terapie più innovative. I dermatologi del territorio difficilmente consigliano ai propri assistiti farmaci che non possono prescrivere. Questa situazione può creare problemi, soprattutto ai malati colpiti dalle forme più gravi di psoriasi». «Un altro bisogno insoddisfatto dei pazienti italiani è ottenere il controllo della malattia a lungo termine — conclude Costanzo —. Da diversi anni abbiamo a disposizione trattamenti molto avanzati, come gli anticorpi monoclonali o i farmaci biologici. Sono però terapie iniettive e che necessitano della catena del freddo. Quindi la loro somministrazione può essere molto complessa. Avere disponibili cure orali più “comode”, che presentano un buon livello di efficacia e sicurezza, può rappresentare un grande vantaggio».
Il Colesterolo.
Dieta e alimentazione. Colesterolo alto, ecco quali sono gli alimenti da preferire. La prevenzione inizia a tavola. Dalla noci al pompelmo, ecco cosa mangiare per prevenire l'ipercolesterolemia. Maria Girardi il 17 Aprile 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Le cause del colesterolo alto
Le conseguenze del colesterolo alto
I cibi ideali per contrastare il colesterolo
Il colesterolo è un grasso che viene prodotto in gran parte dall'organismo. Solo in proporzioni minori, invece, è introdotto con la dieta. Numerosi i suoi compiti: favorisce la costruzione delle pareti cellulari, partecipa alla sintesi della vitamina D, è coinvolto nel processo di digestione ed è il precursore di ormoni, quali estrogeni e testosterone. Esso viene trasportato nel sangue per mezzo di specifiche lipoproteine che si differenziano in base a dimensione e densità. Abbiamo quindi due tipologie:
HDL (Hight Density Lipoprotein): è il cosiddetto "colesterolo buono" o "spazzino" così chiamato perché, se in eccesso, è rimosso dai tessuti e diretto verso il fegato;
LDL (Low Density Lipoprotein): noto come "colesterolo cattivo", si deposita nelle pareti arteriose e ostacola il normale flusso del sangue.
Si parla di ipercolesterolemia nel momento in cui i valori delle LDL sono superiori a 100 mg/dl. Questa condizione, sempre più diffusa, non deve essere sottovalutata per via delle possibili conseguenze sulla salute.
Le cause del colesterolo alto
Dati alla mano, i dati riguardanti il livello di colesterolo in Italia non sono incoraggianti. Nella fascia d'età compresa tra i 35 e i 74 anni il 57% degli uomini e il 58% delle donne hanno un valore di colesterolemia totale uguale o superiore a 200 mg/dl. Per quanto riguarda, invece, le lipoproteine a bassa densità il 62% degli uomini e il 61% delle donne presentano un livello delle stesse maggiore o uguale a 115 mg/dl.
Le cause dell'ipercolesterolemia sono numerose. Tra queste si annoverano:
Una dieta ricca di alimenti grassi;
La sedentarietà;
La familiarità;
Il diabete;
L'insufficienza renale cronica;
Le epatopatie;
L'ipotiroidismo;
L'alcolismo;
L'assunzione di determinati farmaci (antibiotici, corticosteroidi, contraccettivi).
L'ipercolesterolemia può altresì essere geneticamente determinata. Gli scienziati dell'Istituto di ricerca "Incliva" dell'Ospedale Clinico di Valencia hanno infatti identificato una mutazione nel gene SREBF2 alla base di livelli elevati di colesterolo e di glucosio. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
Le conseguenze del colesterolo alto
Il colesterolo in eccesso, come già detto, si accumula nelle pareti delle arterie, rendendo così difficoltoso il flusso del sangue e facilitando la formazione delle placche aterosclerotiche. Questa particolare condizione aumenta il rischio di soffrire di malattie cardiovascolari, ossia un ampio spettro di patologie che interessano il cuore e i vasi sanguigni tra cui:
L'infarto;
L'angina pectoris;
L'ictus.
La rottura delle stesse placche può inoltre bloccare completamente lo scorrimento sanguigno e provocare una trombosi. Non bisogna infine dimenticare che l'ipercolesterolemia spesso si associa al diabete.
I cibi ideali per contrastare il colesterolo
Quando l'ipercolesterolemia diventa patologica viene trattata mediante farmaci chiamati statine che, oltre ad avere un effetto ipocolesterolemizzante, riducono altresì i livelli plasmatici dei trigliceridi. Tuttavia prevenire è sempre meglio che curare, soprattutto a tavola. Sono 15 gli alimenti che abbassano il colesterolo e che contribuiscono a mantenerne i livelli nella norma.
Noci: l'azione benefica è garantita dall'elevato contenuto di acidi grassi omega 3, omega 6, omega 9 e di fibre. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
Mele: i polifenoli antiossidanti presenti nella buccia rallentano l'ossidazione dell'HDL;
Uva: gli antociani contribuiscono a rimuovere i depositi di grasso nelle arterie;
Fragole: ricche di antiossidanti, evitano gli accumuli arteriosi di LDL;
Pompelmo: la vitamina A e C, il betacarotene, il licopene e i limonoidi promuovono la salute cardiovascolare;
Soia: i fitosteroli sono coinvolti nella riduzione dell'assorbimento intestinale del colesterolo;
Avena: il betaglucano abbassa i valori delle lipoproteine a bassa densità;
Semi di lino: i benefici derivano dalla presenza di omega 3;
Cereali integrali: i più ricchi di fibre solubili sono l'orzo e il riso;
Legumi: sono da preferire le lenticchie, i ceci e i fagioli;
Avocado: le fibre e i grassi polinsaturi prevengono gli accumuli di grasso;
Verdure a foglia verde: gli steroli vegetali preservano il benessere del cuore;
Pomodori: a fare la differenza è l'elevato contenuto di licopene;
Melanzane: anche in questo caso le fibre solubili aiutano lo smaltimento delle LDL;
Olio d'oliva: l'acido oleico aumenta i valori del cosiddetto colesterolo buono.
Effetti del Parto. Diastasi addominale.
Diastasi addominale, cos'è e come prevenirla. Un problema spesso sottovalutato o comunque sentito solo a livello estetico, la diastasi addominale è soprattutto un problema funzionale: per questo va curata correttamente. Giulia Consoli il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.
La diastasi addominale è un'alterazione della parete addominale dovuta a un indebolimento del tessuto connettivo che unisce i retti dell'addome (aponeurosi). Questo tessuto è un insieme di fibre che si intrecciano per formare la cosiddetta "linea alba", la quale unisce i muscoli retti dell'addome che si trovano verticalmente al centro della pancia. La diastasi addominale si sviluppa generalmente quando i muscoli addominali, sotto pressione, non riescono più a distendersi e a tornare in posizione originaria.
In gravidanza la separazione del retto addominale è una condizione fisiologica necessaria. La predisposizione a questa separazione, durante i novi mesi di maternità, permette al grembo materno di crescere per poter ospitare il feto.
Dopo il parto la linea alba presenta ancora un leggero distacco, perchè ha perso la sua elasticità. Il ginecologo, l’ostetrica o il fisioterapista verificheranno se il distacco è fisiologico o se la troppa pressione ha creato una diastasi patologica e valuteranno lo stato generale della parete addominale e del pavimento pelvico. È sempre sconsigliata l’autovalutazione della distasi, perché potrebbe peggiorare il grado della lesione del distacco.
Cos'è importante sapere?
La separazione dei retti dell’addome cresce con l’avanzare della gravidanza e con l’aumento del peso, per cui il controllo ponderale rappresenta uno strumento per evitare un eccessiva espansione dei tessuti e ci aiuta a conservare una buona postura.
Nella gravidanza e nel post parto, essere consapevoli del proprio corpo e conoscere quei movimenti ed esercizi, che aumento in modo eccessivo la pressione intraddominale, potrebbe prevenire la formazione di una diastasi patologica. Questo è il motivo per cui l’attività fisica in questa fase speciale deve essere adattata e specifica.
Sono sconsigliate le attività che aumentano in maniera eccessiva la pressione intraddominale, come allenamenti effettuati con i pesi o allenamenti ad alto impatto e alta velocità che non permettono un controllo qualitativo del movimento.
Gli esercizi di respirazione addominale sono tra i più importanti per la prevenzione della diastasi, attraverso l’espirazione consapevole possiamo attivare i muscoli trasversi dell’addome, stabilizzare e rafforzare il core, permettendo al pavimento pelvico di conservare la sua elasticità.
L’obiettivo dell’attività fisica, nel post parto, deve essere basato sulla rieducazione muscolare, la riattivazione della parete addominale, che non significa focalizzarsi sul recupero immediato della pancia piatta, ma piuttosto armonizzare il funzionamento generale dell’organismo che dopo 9 mesi deve riadattarsi alle nuove condizioni.
Molte volte dimentichiamo che il nostro corpo ha impiegato tanti mesi per adattarsi e per far crescere il nostro bambino, per questa ragione dobbiamo dedicarci il tempo necessario per il suo recupero, rispettando i cambiamenti fisiologici avvenuti.
Malattie sessuali.
DAGONEWS il 13 aprile 2023.
Allarme negli Usa dove i casi di clamidia, gonorrea e sifilide stanno aumentando a causa dell’uso sempre meno frequente del preservativo. Per cercare di invertire la tendenza, molti medici vedono la doxiciclina, un antibiotico economico che è stato venduto per più di 50 anni, come la panacea.
«I Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie stanno elaborando raccomandazioni per usarla come una sorta di pillola del giorno dopo per prevenire le malattie sessualmente trasmissibili» ha affermato il dottor Leandro Mena, direttore della divisione di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili dell'agenzia.
Il farmaco è già usato per trattare una serie di infezioni. Uno studio pubblicato la scorsa settimana sul “New England Journal of Medicine” ha mostrato il suo potenziale per prevenire le infezioni a trasmissione sessuale.
Nello studio condotto da ricercatori dell'Università della California, circa 500 uomini gay, bisessuali e donne transgender di Seattle e San Francisco con precedenti infezioni da malattie sessualmente trasmissibili hanno assunto una pillola di doxiciclina entro 72 ore dal rapporto sessuale non protetto. Coloro che hanno preso le pillole avevano circa il 90% in meno di probabilità di contrarre la clamidia, circa l'80% in meno di probabilità di contrarre la sifilide e oltre il 50% in meno di probabilità di contrarre la gonorrea rispetto alle persone che non hanno preso le pillole dopo il sesso.
Il Mississippi ha avuto il più alto tasso di casi di gonorrea, secondo i dati del CDC del 2021 rilasciati martedì. L'Alaska ha visto un forte aumento del tasso di casi di clamidia. Il South Dakota ha avuto il più alto tasso di sifilide allo stadio iniziale.
E l'Arizona ha il triste primato di avere il più alto tasso di mamme infette che trasmettono la sifilide ai loro bambini, portando potenzialmente alla morte del bambino o a problemi di salute come la sordità e la cecità.
L'uso di un antibiotico per prevenire questo tipo di infezioni non sarà "una ricetta magica, ma sarà un altro strumento", ha detto Chan, che insegna alla Brown University ed è direttore medico di Open Door Health, un centro sanitario per gay, pazienti lesbiche e transgender a Providence, Rhode Island.
La Dieta.
Nutrizionista e dietista: quali differenze.
L’Obesità.
Reflusso gastroesofageo.
Il Bagno dopo mangiato.
Mangiamo troppo e mangiamo male.
Il digiuno intermittente.
Dieta e alimentazione. Nutrizionista e dietista: quali differenze. Cosa intendiamo per dietista, nutrizionista, medico-nutrizionista e dietista-nutrizionista? Se questi professionisti hanno in comune il fatto di prendersi cura della dieta, ciascuno al proprio livello, non hanno però seguito la stessa formazione e hanno una funzione molto diversa. Francesca Bocchi il 29 Settembre 2023 su il Giornale.
Tabella dei contenuti
Cosa significa il termine “nutrizionista”
Il coach, l'allenatore della nutrizione
Il nutrizionista, di cosa si tratta
Perché consultare un nutrizionista
Il dietista, di cosa si tratta
Perchè andare da un dietista
A chi rivolgersi per perdere peso o mettersi a dieta
Questi professionisti della nutrizione hanno tutti una cosa in comune: rispondono ai problemi legati alla dieta. Allora, possiamo usare solo il termine “dietologo” o “nutrizionista” ? Qual è la differenza tra un medico-nutrizionista e un dietista-nutrizionista? Scopriamo insieme le diverse figure.
Cosa significa il termine “nutrizionista”
Normalmente, il termine nutrizionista non dovrebbe essere usato da solo ma dovrebbe essere associato alla professione esatta. Può quindi essere utilizzato da chiunque (medico, dietista,) che abbia una formazione in ambito nutrizionale.
Spesso però troviamo questo termine da solo, senza nessun altro qualificatore e deve quindi essere inteso come rappresentativo di un solo ambito di pratica. È sempre bene informarsi in anticipo sulla qualifica del professionista che si vuole consultare se si vuole essere certi delle sue conoscenze e competenze perché alcune formazioni non sono ufficialmente riconosciute.
Sono infatti sempre di più i corsi di formazione in nutrizione che non sono ufficialmente validati: per essere quindi sicuri di scegliere un professionista con una formazione adeguata, è meglio rivolgersi ad un medico-nutrizionista o ad un dietista-nutrizionista.
Il coach, l'allenatore della nutrizione
Il ruolo del "nutrition coach" o "food coach" è quello di motivare e consigliare da vicino le persone che vogliono perdere peso, cambiare dieta o che soffrono di un disturbo alimentare, il tutto con un approccio piuttosto psicologico. Da notare che la professione di coach nutrizionale non è riconosciuta né regolamentata dalla legge.
Il nutrizionista, di cosa si tratta
Il medico nutrizionista ha completato una formazione medica di base e una formazione specialistica aggiuntiva in nutrizione sottoforma di specializzazione in endocrinologia, diabetologia e nutrizione. Il nutrizionista anticipa, diagnostica e cura i disturbi legati all'alimentazione (diabete, allergie o intolleranze alimentari, obesità, colesterolo, anoressia, ecc.).
In qualità di medico ha la possibilità di prescrivere esami, approfondimenti diagnostici e farmaci. Può svolgere le sue funzioni in libera professione, all'interno di un'équipe medica o in ambiente ospedaliero.
Perché consultare un nutrizionista
Un nutrizionista, attraverso la sua formazione medica, ha un approccio medico. Lavora con persone affette da malattie in cui l'alimentazione e la dieta giocano un ruolo importante. Pertanto generalmente si consulta un nutrizionista quando esistono le seguenti condizioni
sovrappeso;
presenza di patologie cardiovascolari o malattie metaboliche (diabete, gotta, malattie della tiroide o colesterolo);
sindrome dell'intestino irritabile.
Esistono diverse specializzazioni all'interno delle professioni della nutrizione (in ambito sportivo, pediatrico, geriatrico), o approcci quali la micronutrizione e la crononutrizione.
Il dietista, di cosa si tratta
Il dietista svolge il ruolo di formatore ed educatore in nutrizione. Sviluppa programmi dietetici personalizzati e garantisce l'equilibrio nutrizionale dei suoi pazienti. Può esercitare la professione in libera professione, in ambiente ospedaliero, in collaborazione con medici o in comunità (mense scolastiche, centri vacanze, ecc..). Il dietista lavora spesso in collaborazione con medici e altri professionisti sanitari (infermiere, diabetologo, endocrinologo, ecc.).
Perchè andare da un dietista
Molto spesso ci rivolgiamo a un dietologo-nutrizionista quando desideriamo riequilibrare la nostra dieta e perdere un po' di peso, senza avere una malattia metabolica o cardiovascolare (anche se nulla vieta di farlo in questo caso). Il dietista-nutrizionista è l'ideale per ottenere una dieta personalizzata. La dieta può riguardare bambini, adolescenti o adulti.
Grazie al dietologo-nutrizionista, si impara a realizzare ricette adatte alla nuova dieta beneficiando di un monitoraggio regolare. È un po’ come un “educatore nutrizionale”, un alleato per migliorare la propria alimentazione a lungo termine.
A chi rivolgersi per perdere peso o mettersi a dieta
Se l'obiettivo principale è la perdita di peso, si possono consultare entrambi gli operatori sanitari. Se l'obiettivo di perdita di peso è legato a una malattia metabolica o cardiovascolare, è più consigliabile consultare un nutrizionista.
Se invece si desidera un programma alimentare dettagliato e adattato con delle ricette, meglio rivolgersi ad un dietista.
Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” domenica 5 novembre 2023.
È stata una delle più applaudite scoperte farmacologiche degli ultimi anni, un punto di svolta ed una concreta speranza per milioni di diabetici nel mondo, perché il Semaglutide, prodotto dalla Novo Nordisk in formato liquido e in diverse posologie, da iniettare sottocute, nell’addome, nella coscia o nella parte superiore del braccio, una volta a settimana, con una pennetta contenente la fiala, e noto con il nome commerciale OZEMPIC, abbassa realmente la glicemia, migliorando la qualità di vita e soprattutto la prognosi a lungo raggio di questi pazienti.
Durante la somministrazione sperimentale però, si è osservato casualmente che un diabetico su tre aveva anche una riduzione del 20% del peso corporeo di partenza, un risultato significativo, sorprendente ed inaspettato, mai raggiunto finora da altri principi attivi utilizzati nella lotta ai chili di troppo. In pochi mesi questo medicinale è quindi diventato il più ambito e ricercato da persone in sovrappeso, viene prescritto nei casi di obesità conclamata, ma sono milioni le persone non diabetiche, soprattutto donne, che lo acquistano per perdere quei quattro cinque chili in eccesso, oppure per mantenere il peso senza eccessive privazioni alimentari.
Infatti il Semaglutide, oltre a stimolare la produzione di insulina, e quindi accelerare il metabolismo dei carboidrati, agirebbe anche sui centri ipotalamici della fame e della sazietà, ritardando di ore lo svuotamento gastrico, con il risultato di aiutare chi lo assume, a mangiare di meno e di conseguenza diminuire l’apporto calorico quotidiano.
Il passaparola su questo farmaco, erroneamente definito “dimagrante” da chi lo compera senza consultare un medico, ha fatto sì che la sua richiesta nelle farmacie sia divenuta esagerata ( si parla di oltre un milione di non diabetici ) ed in Italia non si riesce a far fronte alla necessità, soprattutto per i veri diabetici. […]
La novità è che oggi il Semaglutide è stato prodotto e commercializzato anche in compresse, con il nome commerciale RYBELSUS, prodotto sempre dalla Novo Nordisk, in composizioni di 3mg, 7mg e 14mg, ( prezzo 208,14€ per 30cpr) da assumere quotidianamente con un aumento progressivo delle dosi di mese in mese, dalla minima fino a quella massima di mantenimento, in associazione con altri farmaci antidiabetici, per migliorare la stabilita dei livelli di glicemia nel sangue.
Di questo medicinale si assume 1 compressa a stomaco vuoto a qualunque ora del giorno, ed i pazienti devono attendere almeno 30minuti prima di mangiare o bere per evitare la riduzione dell’ assorbimento della pillola, ricordando che il suo principio attivo, il Semaglutide, ritardando di molto lo svuotamento gastrico, può confliggere con la corretta azione di molti altri farmaci assunti contemporaneamente.
[…] Gli effetti collaterali ci sono ed esistono come per molti altri farmaci ma in questo caso insorgono soprattutto nelle persone non diabetiche e non obese ( di basso peso corporeo) che assumono il farmaco per dimagrire qualche chilo, e sono principalmente reazioni avverse gastrointestinali, che vanno dal dolore addominale, dalla dispepsia e reflusso gastroesofageo, alla nausea, alla diarrea e al vomito, con aumento della frequenza cardiaca, specialmente nel primo mese di trattamento, cosa che spinge molti pazienti a sospendere la cura. Molte celebrità italiane e straniere fanno uso ed abuso di questo farmaco, mostrandosi sui red carpet con 5/10 kg di meno, sottovalutando il rischio che la perdita di peso facile e veloce è quasi sempre seguita dall’ effetto “rebound”, ovvero quello di riprendere tutti i chili persi appena si interrompe l’assunzione del farmaco, che di certo non può essere preso per tutta la vita.
A parte il diabete, l’obesità grave è una malattia a rischio di molte complicanze che merita l’uso del Semiglutide anche senza iperglicemie, e molti medici, e ahimè molti nutrizionisti che medici non sono, hanno iniziato a distribuirlo, allargando la platea anche a pazienti non obesi, ma desiderosi di affrontare degnamente la prova costume, senza fare prima gli accertamenti assolutamente necessari. Recentemente è stato registrato dall’ Ema un altro farmaco il Tirzepatide (nome commerciale Mounjaro) con meccanismo molto simile al Semaglutide, prodotto da Ely Lilly, con le stesse potenzialità, ma ad un prezzo più basso. […]
Ictus e infarti, un caso su due si può evitare: cosa dice lo studio. Eliminando cinque fattori scatenanti di rischio si può dimezzare il rischio di contrarre ictus e infarti: ecco i risultati di uno studio americano. Alessandro Ferro l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Cosa dice lo studio
Il problema dell'obesità
Le "spie" degli infarti
Prevenire è meglio che curare: l'espressione che fa parte del nostro linguaggio quotidiano si evidenzia anche quando si parla di malattie cardiovascolari come ictus e infarti. Se è vero che in una certa percentuale è "colpa" del destino, in tanti altri casi la responsabilità è nostra. Uno dei più grandi studi mai condotti in materia ha messo in evidenza che almeno in un caso su due queste due terribili patologie possono essere evitate e prevenute.
Cosa dice lo studio
Sul New England Journal of Medicine è stato pubblicata la ricerca su oltre un milione e mezzo di persone dal titolo Effetto globale dei fattori di rischio modificabili sulle malattie cardiovascolari e sulla mortalità effettuato dal Consorzio Globale per il Rischio Cardiovascolare. Ma quali sono i fattori di rischio modificabili? Sono cinque: obesità, pressione alta, fumo, diabete e colesterolo. In pratica, tenendo conto dei cinque fattori, lo studio ha dimostrato che il 57,2% delle donne e il 52,6% degli uomini si sono ammalati entro dieci anni. Invece, per quanto riguarda i decessi, la percentuale si attesta al 22,2% per le donne e il 19,1% tra gli uomini per qualsiasi tra quelle cinque cause.
Fare movimento da bambini, salva il cuore da ictus e infarto da grandi
Il maxi studio è stato condotto in 34 Paesi e 8 regioni geografiche diverse: l'età media dei partecipanti era di 54,4 anni. Problemi cardiovascolari si sono verificati in 80.596 partecipanti durante un follow-up (monitoraggio e osservazioni) di 7,3 anni e 177.369 partecipanti sono morti durante un follow-up di 8,7 anni. Lo studio dimostra come nei Paesi dell'America Latina siano stati riscontrati tassi più elevati di pazienti in sovrappeso e fumatori mentre in Europa le problematiche maggiori sono state rappresentate dagli elevati tassi di colesterolo e ipertensione (fumo nei Paesi orientali). Il diabete, invece, è tra le cause scatenanti di ictus e infarti in Nord Africa e Medio Oriente.
Lo studio ha messo in luce che a scatenare le patologie cardiovascolari sono soprattutto i valori elevati di colesterolo e della pressione: quest'ultima crea danni sia a persone giovani che anziani mentre il sovrappeso è una problematica che grava a tutte le età sul cuore. "Il nostro studio mostra chiaramente che oltre la metà di tutti gli infarti e gli ictus sono evitabili controllando e trattando i classici fattori di rischio. Allo stesso tempo, circa il 45% di tutti i casi non possono essere spiegati con questi fattori di rischio", ha dichiarato l'autore Stefan Blankenberg come scrive l'Ansa.
Il problema dell'obesità
In Italia è il 10% della popolazione, ossia sei milioni di persone, a soffire di obesità. "Di queste il 10% (600mila) ha un'indicazione al trattamento chirurgico secondo le più recenti linee guida italiane ed internazionali, ma nel nostro Paese annualmente si eseguono non più di 20-30.000 interventi di chirurgia bariatrica; questo fa capire quanta differenza ci sia tra la potenziale domanda e l'offerta", ha dichiarato il prof. Mario Musella, presidente del congresso della Società italiana di chirurgia dell'obesità. Il problema, come spiegato prima, è legato alle complicanze per le malattie cardiovascolari come ha spiegato il prof. Pasquale Perrone Filardi, presidente della Società italiana di Cardiologia. "Non solo lo scompenso cardiaco, ma anche il rischio di ictus e infarto. Oggi sappiamo con certezza che curare l'obesità con le nuove terapie farmacologiche e con la chirurgia bariatrica significa ridurre le complicanze al cuore e anche quelle oncologiche".
Le "spie" degli infarti
Tra uomini e donne ci sono importanti differenze che indicano l'insorgere di un infarto: uno studio americano portato avanti dai ricercatori dello Smidt Heart Institute di Cedars-Sinai, in California, ha scoperto che nelle donne il sintomo premonitore è la mancanza di respiro mentre negli uomini la spia è il dolore al petto. Lo studio, pubblicato su Lancet Digital Health, ha scoperto sottogruppi più piccoli di pazienti, uomini e donne, che hanno manifestato palpitazioni, attività simili alle convulsioni e sintomi simil influenzali. Alessandro Ferro
Maria Rita Montebelli per “Il Messaggero” domenica 27 agosto 2023.
Sdoganata da cappotti e maglioni oversize, la pancia è la protagonista suo malgrado della bella stagione. Ammiccante dalle magliette corte delle giovanissime, dalle tuniche morbide delle signore e dalle camicie degli uomini, potrà anche far simpatia, ma certo non contribuisce all'estetica, né all'eleganza. Né tanto meno alla salute.
LA DISTRIBUZIONE
La pancia, intesa come grasso viscerale, dà infatti tanti problemi, anche in persone che hanno il resto del corpo nella norma. Perché si associa ad un aumento del colesterolo cattivo (Ldl) e dei trigliceridi, altera la risposta all'insulina, contribuendo alla comparsa del diabete. È un fattore di rischio noto per ipertensione, infarto, ictus, fegato grasso, artrosi, tumori e depressione.
Se si vuole conoscere con precisione il rischio di incappare in questa pletora di problemi, la bilancia non basta. A determinare l'entità del rischio infatti non sono tanto il peso, o l'indice di massa corporea, quanto la distribuzione del grasso. Gambe e braccia magre, non compensano in termini di rischio cardio-metabolico un girovita abbondante, che è spia dell'accumulo del grasso più pericoloso, quello viscerale. Annidato tra gli organi addominali, fegato, intestino, stomaco.
IL FEGATO
È lui il grasso cattivo per antonomasia, che fa impennare i valori di pressione arteriosa e di glicemia. E che non va confuso con il grasso sottocutaneo che, pur contribuendo alle rotondità (anche sulla pancia), non fa danni cardio-metabolici. Il grasso viscerale è diverso: è tossico in quanto rilascia gli acidi grassi liberi nella circolazione del fegato, da dove si vanno ad accumulare in una serie di organi (cuore, pancreas, ecc.), ostacolandone il funzionamento ottimale.
Questo tipo di grasso produce anche la RBP4 (retinol binding protein 4), una proteina che aumenta la resistenza all'insulina e vari biomarcatori dell'infiammazione che contribuiscono ad aumentare il rischio di malattie croniche. Il grasso all'interno dell'addome insomma, lungi dall'essere solo un di più, un'innocente imbottitura, è un grasso cosiddetto attivo dal punto di vista metabolico, e può fare danni seri.
Una valutazione sulla condizione della nostra pancia consiste nel misurare la sola circonferenza vita con un metro da sarta non elastico. In posizione eretta con i piedi uniti, si espira tutta l'aria e, senza tirare in dentro la pancia, si misura il punto vita a livello dell'ombelico, con il metro parallelo al pavimento. Le misure del rischio variano anche in questo caso a seconda del genere: nell'uomo il rischio aumenta sopra i 94 cm, mentre per la donna compare al di sopra di 80 cm di circonferenza vita. Quindi, prima di tutto, controllare le misure.
Le linee guida prevedono, dunque, quattro differenti misure: 1) peso moderato, 80 cm per le donne e 90 cm per gli uomini; 2) sovrappeso, 90 cm per le donne e 100 cm per gli uomini; 3) obesità di primo grado, 105 cm per le donne e 110 cm per gli uomini; 4) obesità di secondo grado, 115 cm per le donne e 125 cm per gli uomini. La valutazione spannometrica del grasso addominale è dunque molto facile. Decisamente meno semplice è invece la terapia per questa condizione che richiede grande determinazione, restrizione calorica ed esercizio fisico.
LA DIETA
Mezz' ora al giorno di esercizi cardio (corsetta, bicicletta, circuit training, nuoto), alternati a esercizi di resistenza (pesetti, bande elastiche) almeno 5 giorni alla settimana sono una buona base di partenza. Yoga, pilates e meditazione sono valide strategie anche per tenere a bada lo stress, nemico assoluto della dieta.
Ma la protagonista della perdita di peso, anche per il grasso viscerale, è proprio la dieta che dev' essere ben bilanciata, povera di zuccheri e condimenti, ricca di carboidrati complessi (sono quelli contenenti amido ovvero pane, pasta, pizza), proteine magre e tanta verdura.
Estratto dell’articolo di Valentina Arcovio per repubblica.it giovedì 17 agosto 2023.
Più si ha bisogno di perdere peso e più è difficile riuscirci. Per gli obesi oltre il danno la beffa. Ma ci sarebbe una spiegazione scientifica a tutto questo o probabilmente anche più di una. A suggerirne una inedita è stato un gruppo di ricercatori dell'Università di Cambridge, Regno Unito, in uno studio pubblicato sulla rivista Neuroimage: Clinical.
I ricercatori hanno collegato la fatica a dimagrire delle persone in sovrappeso con una serie di alterazioni nel cervello che compromettono la capacità di percepire la sazietà. […]
[…] un totale di 1.351 persone, sottoposte a scansioni cerebrali dalle quali è emerso che coloro che sono in sovrappeso o obesi hanno un ipotalamo più grande. L'ipotalamo è un'area chiave del cervello che regola l'appetito. In particolare, le immagini suggeriscono che le persone con eccesso di peso presentano tre aree dell'ipotalamo più grandi del normale: sono tutte coinvolte nella ricezione dei segnali inviati dall'intestino e che dovrebbero dire al cervello "sei sazio, ora smetti di mangiare".
La maggiore estensione di queste aree, secondo i ricercatori, potrebbe impedire il passaggio corretto dei segnali. Quindi, per le persone in sovrappeso è più difficile seguire le regole di una dieta. "[…]
I numerosi segnali ormonali inviati dall'intestino al cervello, che ci dicono quando siamo affamati e sazi, sono notoriamente capricciosi. La carenza di sonno, ad esempio, sconvolge il sistema, facendoci sentire più affamati di quanto dovremmo essere. E i segnali ormonali di fame e sazietà possono anche essere interrotti da un ipotalamo più grande, almeno stando a quanto suggeriscono studi nei quali i topi che hanno subito cambiamenti nell'ipotalamo hanno mangiato più cibo prima di rendersi conto di essere sazi. […]
Se però, da un lato, i ricercatori stanno cercando di capire i motivi per cui una persona in sovrappeso oppure obesa fa fatica a dimagrire, dall'altro ci sono svariati gruppi di ricerca nel mondo alla caccia di un farmaco per dimagrire, indipendentemente da quanto si mangi.
Ci sono arrivati molto vicini gli scienziati dell'Università del Texas, sviluppando un farmaco che accelera il metabolismo e lo rende più efficiente nella scomposizione di zuccheri e grassi. E lo fa impedendo al magnesio di essere trasportato nei mitocondri, la parte della cellula responsabile della produzione di energia e della combustione delle calorie. Il magnesio, quindi, sembra rallentare la capacità dei mitocondri di produrre energia.
I topi a cui è stato somministrato il farmaco e che sono stati alimentati con una dieta occidentale ipercalorica "sono diventati magri", nonostante mangiassero più calorie di quante ne bruciassero. Mentre i topi che sono stati alimentati con la stessa dieta ipercalorica e non hanno ricevuto il farmaco hanno visto aumentare il grasso corporeo. Oltre al peso corporeo, i topi a cui era stato somministrato il farmaco avevano anche un colesterolo più basso e livelli di zucchero nel sangue inferiori a quelli registrati con una dieta tipica.
Questi risultati suggeriscono che il farmaco - chiamato CPACC - scongiura anche le conseguenze di una cattiva alimentazione sulla salute. "Un farmaco che può ridurre il rischio di malattie cardiometaboliche come infarto e ictus, e anche ridurre l'incidenza del cancro al fegato, che può insorgere in seguito alla malattia del fegato grasso, avrà un impatto enorme", spiegano i ricercatori. "Continueremo il suo sviluppo. Il team ha depositato una domanda di brevetto per il farmaco e spera di sperimentarlo sugli esseri umani nei prossimi anni".
I ricercatori hanno studiato per anni il ruolo del magnesio nel metabolismo, cioè quelle reazioni chimiche nelle cellule del corpo che trasformano il cibo in energia. In precedenza avevano dimostrato che troppo magnesio rallenta la produzione di energia nei mitocondri. Quella scoperta è stata l'ispirazione per il nuovo farmaco, che funziona eliminando un gene chiamato MRS2 e che promuove proprio il magnesio nei mitocondri. "Spegnendo" il gene, si riduce la quantità di magnesio che entra nella cellula e, quindi, si migliora il metabolismo.
[…]
Ci sono alcuni importanti limiti dello studio: il principale è che il farmaco è stato testato solo sui topi e saranno necessarie ricerche più approfondite per formularne una versione adatta agli esseri umani. E il gene MRS2 era completamente spento in alcuni topi, il che significa che i ricercatori non potevano studiarne gli effetti su organi specifici. MRS2 è presente in una varietà di organi, tra cui il cervello, il cuore, i reni e i polmoni: spegnerlo completamente potrebbe avere effetti negativi ancora sconosciuti.
Reflusso gastroesofageo, ecco i cibi alleati della salute. La risalita dei succhi gastrici nell’esofago è fisiologica entro certi limiti, dopo diventa un disturbo che può dare parecchi fastidi. Per attutirne gli effetti si possono cambiare le proprie abitudini alimentari. Mariagiulia Porrello il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Gli alimenti indicati in caso di reflusso gastroesofageo
I cibi da evitare
Il reflusso gastroesofageo è una malattia che si verifica quando i succhi gastrici, venendo in contatto con l’esofago, provocano bruciore e rigurgito acido. Il passaggio di acido tra stomaco ed esofago è normale, avviene tutti i giorni, soprattutto dopo i pasti. Ma quando la risalita dei succhi gastrici supera determinate soglie, allora sussiste una vera e propria patologia.
Ciò può dipendere da diversi fattori, alimentari, anatomici, ormonali e farmacologici.
Bruciore nella parte retrostante lo sterno e rigurgito acido in bocca sono i sintomi tipici del disturbo. Essi si possono manifestare in determinate occasioni oppure possono persistere nell’arco di tutta la giornata.
In alcuni casi la situazione può essere tenuta sotto controllo non solo grazie ai farmaci ma anche adottando alcuni comportamenti. L’alimentazione in questo senso è molto importante. In generale bisogna fare attenzione al peso, fare attività fisica regolare e prediligere una dieta sana ed equilibrata.
Gli alimenti indicati in caso di reflusso gastroesofageo
Frutta. Ottime sono in particolare le mele. Sconsigliati invece sono i frutti che aumentano l’acidità, come gli agrumi. No quindi a limoni, arance e pompelmi.
Verdura. Le patate, le carote, gli asparagi, i fagiolini e le zucchine sono ad esempio molto ben tollerati. Le zuppe vanno bene ma è meglio evitare i liquidi la sera.
Lo zenzero ha proprietà antinfiammatorie.
Yogurt e latticini freschi e magri come la ricotta o la mozzarella.
Pesce.
Carni bianche e magre come pollo, tacchino, coniglio, vitello.
Pasta.
Riso.
Per quanto riguarda le cotture, sono da preferire quelle al vapore o comunque quelle leggere e prive di intingoli.
In ogni caso è sempre bene consultare il proprio medico.
I cibi da evitare
Da bandire sono invece il fumo, le bevande gassate e gli alimenti che possono provocare un peggioramento dell’acidità. Tra questi vi sono:
il cioccolato
il caffè
il tè
gli alcolici
la menta
i cibi piccanti
frutta come gli agrumi
i fritti
Non va bene nemmeno coricarsi appena dopo i pasti o mangiare in maniera troppo abbondante, in special modo la sera. Quando si consuma un alimento inoltre occorre assaporarlo lentamente e masticare bene. E infine, va ridotto lo stress.
Estratto dell’articolo di Giorgio e Caterina Calabrese per repubblica.it sabato 19 agosto 2023.
[…] Fare il bagno in mare poco dopo aver finito di pranzare, senza attendere le classiche tre ore, che le nostre mamme ci imponevano da bambini, può rappresentare un rischio.
Una recente ricerca scientifica pubblicata sull’International Journal of Aquatic Research and Education, in controtendenza rispetto alle tre ore, afferma invece che non sono stati registrati casi in cui mangiando prima di nuotare ciò abbia causato o contribuito a causare annegamenti fatali o non fatali, questo perché il processo digestivo non è ancora cominciato e varia in base alla quantità e alla qualità di cibo ingerito durante il pranzo e, quindi, l’intervallo può variare e durare dai 30 minuti alle 2 ore.
Ma, come i veri atleti, se si ha l’intenzione di nuotare a lungo, bisogna restare leggeri. Il blocco della digestione, può causare una perdita di conoscenza e quindi, se ci si trova in acqua al mare, si rischia di annegare.
[…] la questione ha più a che fare con lo shock termico, con l’entrare improvvisamente in acque molto fredde e si può creare un collasso circolatorio con conseguente calo della pressione sanguigna, ciò può causare una sorta di sincope, con vertigini, vomito e, se si è in acqua in quel momento, questa sincope può causare l’annegamento, a causa della perdita di coscienza.
È consigliabile allora entrare in acqua sempre con cautela, lentamente e progressivamente, lasciando che il corpo si acclimati un poco per volta, evitando il classico tuffo, in tal modo si evita lo shock termico. Dopo aver mangiato, l’apparato digerente ha bisogno di una maggiore concentrazione di sangue e ossigeno, il che rende non molto vigili perché nel cervello c’è un minor apporto di ossigeno.
Se poi entrando in acqua si comincia a nuotare e quindi a fare subito un’attività fisica, i muscoli avranno bisogno maggior apporto di ossigeno e sangue, anche per l’aumento della frequenza respiratoria e cardiovascolare, ciò a scapito dell’attività digestiva.
Quindi l’immergersi in acqua subito dopo aver mangiato è una concausa dell’annegamento. Infatti, qualsiasi attività fisica a stomaco pieno può causare disturbi gastrointestinali, nausea, vomito o vertigini. Se questo accade mentre si corre non succede nulla, ma se si è in acqua, invece, si può annegare.
Riassumendo, i tre fattori che interagiscono tra di loro sono: temperatura, attività fisica e cibo. Il primo fattore cioè la temperatura è la causa dello shock termico che è un rischio anche quando si entra improvvisamente in acqua fredda, dopo aver trascorso molto tempo al sole o dopo aver fatto esercizio fisico, cioè se la nostra temperatura corporea è elevata.
[…] Questa evenienza potrebbe succedere anche facendo una doccia fredda dopo aver fatto sport, in questo caso, perdendo coscienza, si potrebbe cadere e battere. La questione del cibo, in ogni caso, è sempre da tener presente in relazione all’attività fisica.
La raccomandazione generale è di non fare esercizio fisico dopo aver mangiato e per questa ragione gli atleti mangiano diverse ore prima di una partita o di una gara, per evitare qualsiasi stress fisiologico, compreso l’ingresso in acqua fredda.
[…] se si entra in acqua subito dopo aver mangiato, ma non c’è molta differenza di temperatura tra l’acqua e il corpo o lo si fa progressivamente e solo per bagnarsi, i rischi sarebbero veramente ridotti o nulli. In ogni caso, occorre cautela per grandi e piccini, in quanto il funzionamento del corpo è il medesimo a tutte le età e i rischi d’estate al mare sono ben presenti.
L'esperto risponde. Si può fare il bagno a mare dopo mangiato? Quanto bisogna aspettare? La risposta alla ‘polemica’ estiva tra mamme e bambini. Redazione Web su L'Unità il 26 Luglio 2023
Quella sul bagno dopo mangiato è una delle questioni estive che crea più dibattito a ogni età. Ed è forse la questione più irrisolta di sempre. In supporto ai ‘tribunali’ da spiaggia di tutti i tempi arriva il pediatra Raffaele Troiano: “In acqua dopo mangiato? Certo che si può! Per evitare riflesso vagale e idrocuzione la cosa importante è entrarci nel modo giusto”. Dunque niente paura a tuffarsi ma attenzione a farlo nel modo corretto.
Il bagno dopo mangiato è pericoloso per i bambini?
Troiano, Responsabile U.O. Pediatria dell’ ospedale di Ariano Irpino e Docente in Pediatria Università Vanvitelli di Napoli, ha spiegato sui suoi social le verità sull’annosa questione. “La ‘sindrome da idrocuzione‘ per rapido ingresso in acqua fredda è infatti capace di indurre svenimento e annegamento ed è da sempre erroneamente attribuita al cibo”, spiega su Facebook il pediatra.
Il bagno dopo mangiato provoca congestione?
Ma perchè mai? Il falso mito del cibo nasce probabilmente dal fatto che tra i sintomi di esordio di idrocuzione vi è spesso dolore addominale, nausea e vomito. E ciò induce a pensare che il nocciolo del problema sia il pasto (tanto che alcuni la chiamano impropriamente anche ‘congestione alimentare’). In realtà il problema non è il pasto, ma lo sbalzo termico improvviso tantochè l’idrocuzione può verificarsi anche a stomaco vuoto! Una rapida immersione in acqua fredda può infatti causare l’iperattivazione di un nervo chiamato ‘nervo vago’: tale riflesso vagale oltre ai sintomi gastrici sopra descritti, provoca anche bradicardia (rallentamento cardiaco) e ipotensione e ciò può condurre alla perdita dei sensi in acqua”.
Il bagno dopo mangiato fa male?
E continua a spiegare cosa succede all’organismo: “Il ‘riflesso vagale’ è lo stesso che ci fa svenire in risposta anche ad altri tipi di stress: emozione, paura, caldo afoso, affollamento…In questo caso lo stress che lo innesca è lo sbalzo termico improvviso e c’è da aggiungere che una situazione di precedente stress già in corso può facilitarlo: ecco perchè l’idrocuzione è ancor più frequente se il tuffo in acqua fredda avviene dopo esercizio fisico, sudorazione, insolazione o anche…un pasto molto abbondante! In quest’ultimo caso l’organismo è ‘stressato’ dall’enorme carico di cibo da digerire per cui laddove diventi ‘fonte di stress’ anche l’idea di alzarsi semplicemente dalla sedia, figuriamoci quanto possa essere stressante un forte e improvviso sbalzo caldo/freddo sull’organismo! Un pasto normale invece, un gelato, uno spuntino, non stressano molto il sistema digestivo e l’ingresso in acqua avverrà quasi come se foste a pancia vuota”.
Quanto bisogna a spettare prima di fare il bagno dopo mangiato?
Dunque, secondo il pediatra non c’è bisogno di aspettare per fare il bagno dopo mangiato, però Troiano fa una raccomandazione importante: “Al di là di pancia piena o pancia vuota, la cosa davvero importante per evitare tale spiacevole e pericoloso riflesso capace di rallentarci il battito, è entrare in acqua gradualmente bagnandosi un po’ per volta, in particolar modo se l’acqua è fredda o avete già in atto altri tipi di stress”. Lo specialista ha spiegato cosa succede se si entra in acqua dopo aver mangiato e risolto l’enigma. Il suo post su ‘ilpediatraspiega’ ha raggiunto oltre 7 milioni e mezzo di visualizzazioni, segno che il tema è molto sentito. E qualcuno, nei commenti, ha ironizzato su quanto sia radicata la convinzione che dopo aver mangiato non si può fare il bagno. Convinzione che hanno soprattutto le nonne: “Puoi scrivere quello che vuoi ma non si convinceranno mai”, ironizza un’utente. Redazione Web 26 Luglio 2023
Estratto dell'articolo di Gemma Gaetani per “la Verità” il 23 gennaio 2023.
È possibile pensare alla dispensa come a una farmacia? Certamente sì […] ma a volte non sappiamo esattamente in che modo. Cioè come e perché il modo in cui ci alimentiamo può far bene e come e perché può far male. E forse non ci interessa nemmeno, perché pensiamo sempre di più al cibo come sapore e non come contenuto chimico. […]
Le librerie ormai esplodono di cookbook […] che ci vogliono spiegare come mangiare per vivere bene e spostano l’ago della bilancia dal gusto alla chimica degli alimenti. In questa categoria rientra Food Pharmacy. Il cibo è la migliore medicina di Lina Nertby Aurell e Mia Clase (Vallardi). Il manuale promette di insegnare a ottenere: batteri intestinali felici; messa al tappeto dell’infiammazione; nuova visione del cibo; microbiota rinvigorito; glicemia stabile; energia in più; più possente massa muscolare. E si incarica di spiegare vari meccanismi vitali e nutrizionali e l’interazione tra gli stessi […]
Cominciamo dal principio: poiché mangiamo troppo, mangiamo male e mangiamo troppo male, viviamo in uno stato perenne di infiammazione cronica che ci conduce a invecchiare precocemente, oppure in corrispondenza con la nostra età ma male e anche a molte malattie. Ma che cos’è questa infiammazione cronica? C’è differenza tra la comune infiammazione e l’infiammazione cronica. […]
L’infiammazione è solo la naturale reazione del corpo per contrastare intrusi come batteri, tossine e virus. La zona colpita attira dal sangue le cellule atte alla risposta immunitaria, ovvero i globuli bianchi, i quali rilasciano diversi meccanismi di difesa per riparare gli eventuali danni verificatisi. In questo senso l’infiammazione è un fatto positivo. Con un’unica eccezione: l’infiammazione cronica, di lunga durata e persistente.
Questo tipo di infiammazione rappresenta per l’organismo un danno […]nasce quando si indeboliscono le difese immunitarie: «[…]Una volta insediatosi nei polmoni, l’ossigeno si diffonde nel sangue per fornirgli energia. Nel corso di questa trasformazione non si sprigiona soltanto l’energia essenziale per la vita, ma anche alcune sostanze chiamate radicali liberi, che in grandi quantità danneggiano le cellule dell’organismo e causano infiammazione. Della produzione di radicali liberi è responsabile anche il nostro stile di vita. Se non ci prendiamo troppa cura di noi […] tutto questo produce una quantità di radicali liberi contro i quali l’organismo non riesce a difendersi».
«Questo provoca a sua volta», si legge ancora, «un indebolimento delle difese immunitarie, con la conseguenza che lo stato infiammatorio diventa cronico. Gli antiossidanti sono in grado di contrastare efficacemente i radicali liberi. Ci difendono dai danni che questi provocano alle cellule. Il nostro organismo riesce a produrre una piccola quantità di antiossidanti, che oltretutto si assottiglia con l’avanzare dell’età. Intorno ai 25 anni tale produzione cessa del tutto, e a quel punto diventa fondamentale per noi assumere antiossidanti attraverso il cibo, sotto forma, tra l’altro, di verdura, frutta e bacche (frutti di bosco) che grazie alla sinergia con i batteri intestinali difendono la nostra salute».
La maggior parte delle nostre difese immunitarie risiede nell’intestino: […] «Esistono più collegamenti fra l’intestino e il cervello di quanti ne immaginassimo, tanto che alcuni ricercatori hanno iniziato a chiamarlo “il nostro secondo cervello”». I batteri Gram+, quasi tutti benigni e perciò chiamati buoni, ci proteggono dalle malattie, quelli Gram- sono detti cattivi perché per la maggior parte causano malattie[…]
Le regole per preservare e ottimizzare (aumentare i tipi di batteri buoni) il nostro microbiota sono: innanzitutto assumere probiotici e simbiotici. […] Mangiando i giusti alimenti, per esempio molte verdure crude, fibre vegetali, antiossidanti, minerali e grassi buoni, aumentiamo e nutriamo i batteri buoni, i quali rafforzano le pareti intestinali in modo che non lascino filtrare sostanze tossiche che possano inquinare la circolazione del sangue e il resto dell’organismo.
I batteri buoni si trovano nell’intestino crasso, ma se mangiamo soprattutto o esclusivamente alimenti che vengono assorbiti dall’intestino tenue i batteri buoni restano senza cibo, e se gli antiossidanti calano, calano anche le difese immunitarie. […]
Ecco dunque le regole: innanzitutto, tenere sotto controllo glicemia e insulina, l’ormone che abbassa i livelli di glicemia. Poiché i dolci alimentano i batteri cattivi, bisogna ridurre drasticamente il consumo di dolci e preferire snack per esempio di verdure crude che danno energia più lentamente senza impennate glicemiche. […]
Se un tocchetto di cioccolato ogni tanto va benissimo, il problema è che tra zuccheri occulti (in primo luogo negli alimenti conservati industriali, dalle bibite al minestrone) e zuccheri consapevoli, che cerchiamo perché abbiamo sviluppato un’assuefazione, noi assumiamo un quantitativo di zucchero, comprese le bibite zuccherate, di circa 90 chili annui a persona. Questa vagonata di zucchero danneggia il microbiota, ci fa ingrassare e ingrossare il fegato […]. Il consiglio è quello di eliminare per sempre lo zucchero raffinato e dopo un mese reinserire il gusto dolce nella dieta ma in quantità e qualità virtuose.
Lo zucchero di qualità per Food Pharmacy è, sintetizzando, quello acquisibile mangiando la frutta: […] ma non bisogna esagerare, né pensare che tutta la frutta vada bene. Meglio, per esempio, la banana verde di quella matura, perché in quest’ultima le fibre si sono trasformate in «zuccheri di nessun nutrimento». Bene anche i chicchi d’uva. E le macedonie con frutta acidula. Tra i trucchetti consigliati in caso di crisi di astinenza da zucchero, bere una tazza di tè verde perché stabilizza la glicemia, prepararsi uno smoothie verde o lavarsi i denti.
Seconda regola, eliminare, ma noi suggeriamo di diminuire, non di eliminare, il consumo di cibi simili allo zucchero come pane, pasta, patate[…] E poi, fare il pieno di verdure, alla ricerca anche di fibre solubili e insolubili: le prime si trovano in fiocchi d’avena, bacche, frutta, verdure, lenticchie, ceci, fichi, semi di girasole, fagioli, semi di lino, di sesamo e di erba medica; le seconde in verdure a foglia verde, cereali integrali e l’involucro di molti tipi di frutta secca e di semi.
Le altre regole sono: limitare il consumo di carne, scegliere grassi «buoni» come quelli monoinsaturi dell’olio di oliva o dell’avocado e polinsaturi del pesce azzurro, dell’olio di semi o di lino e limitare quelli saturi dei grassi animali, eliminando quelli idrogenati […] Poi, riequilibrare il rapporto 1:1 tra omega 3 e omega 6, ora sbilanciato verso i secondi, cercando i primi nel mare in forma di Dha ed Epa e nel regno vegetale in forma di Ala.
E poi, cuocere a bassa temperatura per evitare di incappare nell’acrilammide, ossia sostanze che si legano tra loro come proteine e zuccheri detti Age (Advanced glycation end products), frutto del processo di glicazione, e proteina e grasso ossia gli Ale (Advanced lipoxidation end products) della lipossidazione[…]
Infine, riposare il corpo, […]nel senso di giovarsi di una pausa che sia il più lunga possibile tra un pasto e l’altro. Si chiama digiuno intermittente e favorisce la restrizione calorica, ossia incamerare i 2/3 delle calorie necessarie.
Si fa per 2 (al massimo 6) giorni la settimana limitando le ore dedicate ai pasti, anticipando quello finale prima del digiuno, per esempio la cena alle 16, e si organizza secondo lo schema 16:8, ossia 16 ore di digiuno e distribuzione dei pasti nell’arco di 8. […]
Il digiuno intermittente non serve a dimagrire quanto mangiare meno a tutti i pasti. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2023.
Un nuovo studio analizza gli effetti sul peso di orari e abitudini di 550 persone per 6 anni: la frequenza e le dimensioni caloriche dei pasti sono state un fattore determinante più forte rispetto al tempo trascorso tra il primo e l’ultimo pasto
Per la perdita di peso può essere più efficace la riduzione delle calorie a ogni pasto rispetto al digiuno intermittente.
Lo studio
La frequenza e le dimensioni dei pasti sono state un fattore determinante più forte (per l’aumento del peso) rispetto al tempo trascorso tra il primo e l’ultimo pasto. Lo sostiene uno studio recente pubblicato sul Journal of the American Heart Association che ha preso in esame quasi 550 adulti (di età pari o superiore a 18 anni) provenienti da tre sistemi sanitari del Maryland e della Pennsylvania per un periodo durato 6 anni. L’età media dei soggetti presi in esame era 51 anni e l’indice di massa corporea medio era 30,8, un parametro sufficiente per definire una persona «obesa». Il tempo medio di follow-up per il peso registrato nel Fascicolo Sanitario Elettronico e valutato nella ricerca è stato di 6,3 anni. Tramite una app creata appositamente per i volontari, i ricercatori sono stati in grado di misurare le ore trascorse tra il primo pasto e l’ultimo della giornata, tra il risveglio e il primo pasto e l’intervallo tra l’ultimo pasto e il sonno. Il tempo medio dal primo all’ultimo pasto è stato di 11,5 ore; il tempo medio dal risveglio al primo pasto 1,6 ore; il tempo dall’ultimo pasto al sonno è stato di 4 ore; e la durata media del sonno è stata calcolata in 7,5 ore.
Non determinante per la perdita di peso
I risultati hanno mostrato che né l’intervallo orario tra i pasti, né l’orario dei singoli pasti erano associati al cambiamento del peso corporeo. Viceversa, erano stati importanti per l’aumento di peso registrato dopo i 6 anni il numero totale giornaliero di pasti abbondanti (stimato in più di 1.000 calorie) e di pasti medi (stimato in 500-1.000 calorie). Precedenti studi hanno mostrato che il digiuno intermittente può migliorare i ritmi circadiani del corpo e regolare il metabolismo, ma quest’ultima analisi non ha rilevato un’associazione diretta con la perdita di peso. E non è l’unico studio a evidenziarlo.
I modelli alimentari che presuppongono l’adozione del digiuno intermittente sono basati principalmente su intervalli orari fondati su questi schemi: saltare un pasto, oppure digiunare una giornata intera in una settimana, o concentrare i pasti della giornata in 8 ore (lasciando a digiuno il corpo per le restanti 16).
Limiti dello studio e benefici del digiuno
Le prove sul digiuno intermittente usato per una dieta non sono conclusive. «La prima obiezione a questo studio — dice Stefano Erzegovesi, Nutrizionista e Psichiatra — è la natura osservazionale della ricerca, per cui non è affatto detto che la correlazione tra pasti più piccoli e minor peso corporeo sia collegata da un rapporto di causa ed effetto. Potrebbe essere un effetto di causazione inversa o reverse causation: non sono i pasti più piccoli a renderci più magri, ma sono i soggetti più magri che, per loro natura, fanno pasti più piccoli. L’altra obiezione è che, essendo il campione composto da persone obese l’inefficacia del digiuno potrebbe essere correlata all’abitudine, molto frequente nelle persone sofferenti di obesità, di mangiare pasti molto più abbondanti dopo periodo di digiuno di maggior durata, vanificando quindi gli effetti potenzialmente positivi del digiuno stesso. In conclusione, il digiuno di per sé non è certamente un toccasana per dimagrire ma, se condotto in maniera corretta — quindi senza compensazioni con pasti eccessivi post-digiuno — e con la supervisione di un medico, può essere un utile strumento per regolare il peso corporeo, i ritmi circadiani e l’infiammazione cronica di basso grado».
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 5 gennaio 2023.
Dopo le abbuffate delle festività appena trascorse il senso di pienezza e di pesantezza è evidente, come anche i 2 chili di troppo acquistati con panettoni e torroni, per cui diventa imperativo sottoporsi ad una restrizione calorica di qualche settimana per aiutare l'organismo a depurarsi, per far riposare l'apparato digerente e permettergli così di riprendere a lavorare e metabolizzare nelle migliori condizioni .
Il Digiuno Intermittente è la dieta seguita ormai da migliaia di persone che intendono perdere peso senza particolari rinunce o sofferenze dal punto di vista alimentare, e soprattutto senza patite la fame, e consiste in una restrizione calorica particolare, poiché mentre nei regimi dietetici comuni c'è un limite alle calorie giornaliere da non superare, qui c'è un vero e proprio digiuno di alcune ore, mentre nel resto della giornata si può mangiare regolarmente, ovviamente senza esagerare.
Ne esistono diversi tipi, mala Dieta Digiuno più gettonata è la cosiddetta Time-Restricted Feeding 16/8 (TRF), un regime dietetico che prevede di alimentarsi solo in un intervallo di ore nell'arco della giornata, cioè un digiuno intermittente che impone appunto sedici ore di digiuno e otto ore in cui, invece, si fanno pasti regolari. Ad esempio la mattina alle 10 è permessa una colazione libera mangiando cioè ciò che si desidera, senza dosi eccessive, ma con alimenti che contengano proteine, carboidrati e grassi, regola questa che vale per tutti i pasti successivi, che sono sempre liberi ma equilibrati negli elementi essenziali nutrizionali.
Poi continuando al pranzo delle 13 si ripete lo stesso schema di dieta libera con un ultimo spuntino tra le 16 e le 18, considerato l'ultimo pasto della giornata, perché da quest' ora in poi si digiuna totalmente fino alle 10 della mattina successiva, per cui trascorse le 16 ore in cui non si è mangiato davvero nulla, né introdotto alcun tipo di cibo, si può riprendere ad alimentarsi per le 8 ore successive. È importante durante le ore di astinenza bere molti liquidi (acqua, thè, tisane, caffè, ovviamente non zuccherati) per evitare la disidratazione nelle ore in cui l'organismo non riceve alcun alimento.
Altre forme più rigide di Digiuno Intermittente sono la Whole-day fasting, che comporta digiuni regolari della durata di un giorno a settimana, come anche la Day Fasting (ADF) che consiste nel digiuno a giorni alterni, cioè restare senza cibo per 24 ore seguite da successive 24 ore di normale alimentazione, come anche la Alternate Day Modified Fasting (ADMF) ovvero un digiuno a giorni alterni modificato, oppure una dieta con 5 giorni di alimentazione regolare e 2 giorni di digiuno totale o modificato con assunzione di 500/600 calorie totali, ma tutti questi sono regimi dietetici difficili da mantenere, anche perché molto dipende dallo stile di vita e di attività che si è costretti a svolgere durante la giornata.
Il vantaggio del Digiuno Intermittente è quello di veder scendere l'ago della bilancia rapidamente, di sentire migliorata la digestione e veder scomparire i sintomi del reflusso esofageo in chi ne soffre, di assistere allo stabilizzarsi il senso della fame, con effetti benefici per tutti gli organi coinvolti nel processo digestivo, come il fegato, il pancreas e il colon.
Inoltre questo regime dietetico, che fa davvero dimagrire e perdere peso, non intacca affatto la massa muscolare, che rimane solida e tonica, poiché i pasti concessi devono essere ben bilanciati ed equilibrati dal punto di vista nutrizionale, senza carenze deleterie per le fibre muscolari di tutto il corpo, cuore incluso. Naturalmente i due, tre pasti della giornata non possono essere consumati in totale libertà in termini di quantità, ed è sempre consigliabile svolgere una giusta attività fisica per accelerare la perdita di peso senza danneggiare la massa muscolare.
Qualche giornata di digiuno intermittente farebbe comunque bene ad ogni organismo, (tranne a chi è affetto da diabete insulino-dipendente, malattie oncologiche o disturbi alimentari), anche a chi non desidera perdere peso o a chi è avanti con gli anni, poiché il restringimento calorico mette a riposo gli impegnativi processi digestivi, modula l'equilibrio ormonale, migliora la sensibilità all'insulina, diminuisce il tasso glicemico nei diabetici di tipo 2, ed accelera la sintesi proteica, senza rallentare in alcun modo il metabolismo, attivando anche l'autofagia, ovvero il meccanismo fisiologico che elimina le cellule danneggiate sia dagli organi che dal sangue, in modo da far regredire eventuali processi infiammatori e depurando l'organismo dai pasti troppo abbondanti subiti, dall'eccesso calorico introdotto e dal lavoro digestivo e metabolico necessario ad eliminarlo.
Il principio cardine di questo regime alimentare è quello di creare una "finestra", ovvero un lasso di tempo di privazione totale dal cibo con una durata tale da incidere sul bilancio calorico complessivo e soprattutto sul metabolismo ormonale responsabile del deposito adiposo.
Per tutti questi motivi il Digiuno Intermittente è stato paragonato alla Dieta della Longevità molto pubblicizzata dal dott Walter Longo, dimostrando che le popolazioni che praticavano il digiuno vivevano più a lungo, e perché si tratta di un regime alimentare che fa effettivamente bene alla salute, migliora le aspettative di vita, un modo semplice per guadagnare benessere fisico e psicologico.
Forme di digiuno intermittente esistono da secoli nelle pratiche religiose di diverse comunità nel mondo (Ramadan, Mormonismo, Musulmani e Buddisti) ed è bene ricordare che nessuno dei soggetti che arrivano all'età centenaria è in sovrappeso, anzi si presentano pressoché sempre magri se non scheletrici, poiché è ormai accertato che mangiare poco fa bene, che l'obesità è una vera e propria patologia multifattoriale, la quale se non contrastata conduce a sicura morte prematura. Se si vuole vivere a lungo non ci resta quindi che rivolgersi ad un nutrizionista per digiunare ad intermittenza oppure andare a letto senza cena ogni tanto, soprattutto se si sono superati i 50 anni.
Bulimia, anoressia, binge eating: quali sono i disturbi alimentari più diffusi.
La moltiplicazione dei reati: istigazione a disturbi alimentari. VITALBA AZZOLLINI Il Domani il 30 marzo 2023 • 12:13
Il nuovo reato solleva alcuni dubbi. L’istigatore potrebbe essere chi a propria volta soffra di disturbi alimentari, e necessiterebbe di un approccio medico, più che penale, oltre al fatto di poter risultare non imputabile, in quanto non pienamente capace di intendere.
Inoltre, l’istigazione a condotte che causano disturbi alimentari è già sanzionabile in base alle norme attuali.
Continua la moltiplicazione delle fattispecie penali. Dopo l’introduzione del reato di rave party, il decreto Cutro, con il “reato universale” di chi causi morte o lesione mentre fa entrare in Italia immigrati irregolari in Italia, la proposta per rendere “reato universale” pure la gestazione per altri, un nuovo disegno di legge sanziona l’istigazione a condotte alimentari idonee a indurre disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia e altri). Come per i reati citati, anche per questo sorgono diversi dubbi.
IL DISEGNO DI LEGGE
Il recente disegno di legge è solo l’ultimo di una lunga serie in tema di disturbi del comportamento alimentare, poiché ricalca quasi alla lettera numerose altre proposte presentate nel corso degli anni, ma sempre sfociate nel nulla. A partire da quella di Beatrice Lorenzin, allora deputata del Pd, nel novembre 2008, fino ad arrivare a quella di Arianna Lazzarini, deputata della Lega, nell’ottobre 2022.
La nuova proposta introduce nel codice penale l’art. 580-bis, in base al quale chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, determini o rafforzi l'altrui proposito di ricorrere a condotte alimentari idonee a rafforzare o provocare disturbi del comportamento alimentare, e ne agevoli l'esecuzione, è punito con la reclusione fino a due anni e la sanzione amministrativa da euro 20mila a 60mila.
Se il reato viene commesso nei confronti di una persona in minorata difesa o di una persona minore di 14 anni o ancora su di una persona priva della capacità di intendere e di volere, si prevede l'applicazione della pena della reclusione fino a quattro anni e la sanzione amministrativa da euro 40mila a 150mila.
Negli altri articoli del disegno di legge si prevede l’istituzionalizzazione della giornata contro i disturbi alimentari, già ricordata ogni15 marzo con la giornata del Fiocchetto Lilla, un piano di interventi statali allo scopo di prevenire e curare tali disturbi e una relazione annuale del ministro della Salute alle camere con aggiornamenti sullo stato delle conoscenze e delle nuove acquisizioni scientifiche sulle malattie sociali.
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge – firmatario Alberto Balboni, senatore di Fratelli d’Italia - si spiega come «attualmente nel nostro paese siano 3.000.000 i soggetti affetti da questi disturbi, circa il 5 per cento della popolazione italiana, di cui il 96,4 per cento sono donne. Ogni anno i disturbi alimentari provocano la morte di 4.000 giovani, collocandosi come seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali, e dopo la pandemia si è registrato un aumento del 40 per cento dei casi». Questo è il motivo per cui si reputa di intervenire normativamente.
CRITICHE ALL’INIZIATIVA DI LEGGE
Sull’iniziativa di legge possono svolgersi alcune considerazioni. Innanzitutto, l’ambito di estensione. È vero che essa consentirà di perseguire i gestori di siti, blog e chat che diffondono comportamenti alimentari nocivi per la salute.
Tuttavia, essendo imputabile chiunque, con qualsiasi mezzo, istighi a pratiche idonee a provocare disturbi del comportamento alimentare, potranno essere incriminate ad esempio anche persone che siano a propria volta affette dai medesimi disturbi, dei quali esse non sempre sono coscienti.
Può trattarsi di ragazzi e ragazze che, al di là di qualunque strumento virtuale e organizzato, nella comunicazione quotidiana trasmettano messaggi che rischiano di portare i propri coetanei a disturbi alimentari, senza avere piena consapevolezza delle conseguenze che tali messaggi possono avere. La distorta percezione della realtà, del significato delle proprie condotte e delle loro eventuali ripercussioni, in termini giuridici può tradursi in una incapacità di intendere in modo pieno. 2
Dunque, l’approccio penalistico onnicomprensivo, da un lato, potrebbe colpire persone che necessiterebbero, invece, di un approccio medico su svariati piani, più che sanzionatorio; dall’altro, potrebbe portare ad escludere l’imputabilità dell’autore del reato, se a propria volta affetto dai disturbi in questione, anche perché il concetto di infermità recepito dal codice penale è molto ampio e, quindi, potrebbero esservi soggetti incapaci di intendere, nonostante non siano malati in senso stretto (Cass. pen. n. 19532/2003).
In secondo luogo, va considerato che i disturbi del comportamento alimentare non sono mai frutto di un’unica condotta, quella che si vorrebbe sanzionare.
Come spiegava la relazione di accompagnamento al disegno di legge sullo stesso tema, presentato nel 2014, si tratta di patologie «risultanti dalla complessa interazione di fattori biologici, genetici, ambientali, sociali, psicologici e psichiatrici. Alcuni insistono sull’influenza negativa che possono avere un eccesso di pressione e di aspettative da parte dei familiari o, al contrario, sull’assenza di riconoscimento e di attenzione (…). Altri sottolineano l’importanza di traumi vissuti durante l’infanzia, come le violenze e gli abusi sessuali, fisici o psicologici. Altri ancora condannano l’impatto che potrebbero avere alcuni messaggi veicolati dalla società: uno dei motivi per cui alcune ragazze inizierebbero a sottoporsi a diete eccessive sarebbe la necessità di corrispondere a determinati canoni estetici che premiano la magrezza, anche nei suoi eccessi».
Di tutto questo la nuova fattispecie penale sembra non tenere conto, prendendo di mira l’ultimo atto, quello dell’istigazione. Ma il medesimo atto di incitamento potrebbe avere un maggiore o minore impatto a seconda della situazione psicologica della persona cui è diretto. Situazione della quale l’autore della condotta, peraltro, potrebbe non avere contezza.
Individuare quale fattore induca il disturbo alimentare potrebbe essere non agevole, rendendo ardua la precisa valutazione della portata lesiva della condotta istigatrice considerata dalla nuova norma. Peraltro, è difficile tracciare la linea tra una condotta che può essere idonea a indurre un disturbo alimentare, passibile di essere sanzionata, e una condotta che non lo è.
Certe diete, a volte sbilanciate o estreme, pubblicizzate su social network lo sono? Le foto del prima e del dopo un percorso di personal training? Il principio di tassatività della norma penale richiederebbe maggiore precisione.
Infine, benché non vi sia nel nostro ordinamento il reato di istigazione all’anoressia, chi mette in pratica tale condotta è già oggi sanzionabile con l’applicazione di norme vigenti. La condotta, infatti, può ricadere in altri illeciti previsti dal codice penale. Spesso l’anoressia porta a sintomi depressivi che si manifestano anche con intenti di suicidio, e la malattia può evolversi in un lento lasciarsi morire.
Pertanto, chi induce all’anoressia potrebbe essere denunciato per istigazione a tale atto (art. 580 c.p.). Se non conduce alla morte, l’anoressia provoca lesioni (che possono essere gravi o gravissime), pure queste perseguibili penalmente (art. 583, cc. 1 e 2, c.p.). Dunque, anche se il nuovo reato non fosse introdotto, la condotta sarebbe comunque punibile, come la è stata finora.
Si potrebbe obiettare che la recente proposta di legge mira a focalizzare l’attenzione pubblica sui disturbi del comportamento alimentare, dei quali forse non si parla come servirebbe. Ma uno strumento normativo non può avere l’intento di “sensibilizzare” l’opinione pubblica.
Né serve una norma di legge per definire un piano di azione, ad esempio con iniziative di educazione sanitaria ed alimentare verso la popolazione e una formazione del personale sanitario e degli insegnanti, al fine di arrivare a diagnosi precoci dei disturbi alimentari, anche in un’ottica di prevenzione. Si tratta di interventi che possono essere disposti senza l’introduzione di un nuovo reato.
Un’ultima considerazione. Appena arrivato a via Arenula, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si era detto a favore di «una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati». Quale coerenza ci sia fra le affermazioni fatte da Nordio solo pochi mesi e l’inclinazione della maggioranza di governo a introdurre sempre nuovi reati non è dato saperlo.
VITALBA AZZOLLINI
Bulimia, anoressia, binge eating: quali sono i disturbi alimentari più diffusi. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023
Le caratteristiche dei problemi legati all’alimentazione e dei disturbi di origine psicologica che derivano dal troppo o mancato controllo sul cibo. Come si possono curare e a chi rivolgersi
Il 15 marzo in Italia è la Giornata dedicata alla sensibilizzazione sui disturbi alimentari, di cui soffrono oltre 3 milioni di persone, specialmente giovanissimi. I tre disordini alimentari più diffusi sono: anoressia, bulimia e binge eating e insieme rappresentano la seconda causa di morte degli adolescenti dopo gli incidenti stradali. L’età di esordio dei problemi con il cibo negli ultimi anni si è abbassata fino ad arrivare in alcuni casi a 8-11 anni, prima dello sviluppo puberale, ma ci sono malati anche di 40-50 anni e oltre.
Anoressia
L’anoressia nervosa è di origine psicologica ed è caratterizzata dal progressivo rifiuto del cibo che può arrivare fino a compromettere le funzioni vitali. Le persone che soffrono di anoressia hanno un’intensa paura di ingrassare e hanno la percezione distorta della propria immagine corporea. Molte persone con anoressia si considerano in sovrappeso, anche quando sono affamate o gravemente malnutrite. Ai comportamenti di restrizione alimentare si possono accompagnare episodi di abbuffata, vomito autoindotto, esercizio fisico eccessivo, uso improprio di farmaci lassativi e diuretici. Come problemi di salute correlati e iniziali, nelle donne le mestruazioni scompaiono, spesso costante è anche la stitichezza ostinata. Nelle fasi più avanzate della malattia, che può protrarsi per anni, è facile l’insorgenza di forme infettive, essendo l’organismo assai debilitato. La denutrizione, infine, può compromettere vari organi e portare a rischio cardiaco.
Bulimia
La bulimia nervosa è caratterizzata da abbuffate (mangiare grandi quantità di cibo in breve tempo, insieme alla sensazione di perdita di controllo su questo comportamento) seguita da azioni «compensative» come il vomito autoindotto, il digiuno e/o l’esercizio fisico eccessivo. A differenza dell’anoressia nervosa, le persone con bulimia possono rientrare nell’intervallo normale per il loro peso, ma come le persone con anoressia, spesso temono di ingrassare, vogliono disperatamente perdere peso e sono profondamente insoddisfatte delle dimensioni e della forma del loro corpo.
Binge eating
Il disturbo da alimentazione incontrollata (o «binge eating», in inglese) è caratterizzato da episodi ricorrenti di alimentazione incontrollata durante i quali una persona avverte una perdita di controllo e un marcato disagio per il proprio modo di mangiare. A differenza della bulimia nervosa, gli episodi di abbuffate non sono seguiti da comportamenti compensatori. Di conseguenza, le persone con disturbo da alimentazione incontrollata spesso sono in sovrappeso o obese.
A chi rivolgersi
Quando si sospetta di essere in presenza di un disturbo dell’alimentazione la prima cosa da fare è rivolgersi al medico di base o al pediatra. I medici daranno un’indicazione non per uno specialista singolo, ma per un centro dedicato ai disturbi alimentari. Sono ambulatori multi specialistici, perché questi disturbi hanno bisogno di un lavoro di equipe medica: quando c’è la diagnosi la terapia prevede almeno un medico, uno psichiatra e un nutrizionista.
Per individuare i servizi del territorio si può consultare la mappa nazionale (appena aggiornata al 2023) presente sul sito www.disturbialimentarionline.it o chiamare il Numero Verde «SOS DA» 800 180 969.
Ad oggi la mappatura dei Centri di cura conta 126 strutture su tutto il territorio nazionale, di cui 112 del Servizio Sanitario Nazionale e 14 del Privato accreditato: 63 centri al Nord (di cui 20 in Emilia Romagna), 23 al Centro Italia e 40 tra Sud e Isole.
Il Soffocamento.
Estratto dell'articolo di Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 6 aprile 2023.
[…] Ogni settimana in Italia una persona muore a causa di un boccone che va di traverso e occlude la trachea, impedendo il respiro. Succede agli adulti e soprattutto accade con grande frequenza ai bambini sotto i 3 anni, per cui è importante che i genitori sappiano come comportarsi in casi del genere per salvare la vita al proprio figlio, poiché oltre il 50% degli incidenti avviene in loro presenza.
I bambini piccoli vanno sempre sorvegliati mentre mangiano, dal momento che hanno una dentizione incompleta per la masticazione, un ridotto diametro delle vie aeree, una scarsa coordinazione tra il masticare e il deglutire, e spesso tali azioni avvengono in contemporanea con il gioco, il guardare la televisione, il parlare o il ridere, tutte cose che diminuiscono l’attenzione sull’atto del mangiare.
[…] La masticazione è la cosa più importante da insegnare per evitare il soffocamento, e un singolo boccone andrebbe triturato tra i denti 33 volte […]. Gli alimenti più pericolosi che inducono il soffocamento sono la carne, i bocconi di prosciutto e dei würstel appiccicosi, oltre al pane con mollica, le lische di pesce, gli ossicini di pollo, e tutti i cibi ovali o cilindrici, come i chicchi d’uva, le olive o le caramelle gommose, e tutti gli alimenti duri o di grandi dimensioni che possono scivolare nelle vie aeree prima che il bambino riesca a morderli o ad adattarli a boccone deglutibile.
Il primo campanello d’allarme di una ostruzione parziale delle vie aeree (non solo da cibo ma anche da piccoli oggetti) con cui il bambino istintivamente reagisce è un piccolo colpo di tosse o un tentativo di rigurgito, ma quando il blocco tracheale è profondo e diviene completo il bimbo non piange e non tossisce, non parla e non emette suoni, il volto e le mucose diventano cianotiche, di colore viola o grigio , […] fino a quando smette di respirare, si abbandona, perde conoscenza ed il torace appare immobile.
Naturalmente la prima cosa da fare è chiamare i soccorsi[…]mentre la strategia da adottare in attesa dell’ambulanza dipende dall’età del figlio. La vittima comunque va aiutata immediatamente, perché anche soli cinque minuti di ipossia, ciò e mancanza di ossigeno, può creare danni irreparabili. […] è considerato deleterio infilare le dita in gola cercando di rimuovere o estrarre il corpo estraneo, manovra che quasi mai risolve l’ostruzione ma la complica ulteriormente, spingendo ancora più in profondità l’oggetto o il cibo incastrato.
Fino ad un anno di età il piccolo va tenuto in braccio piegato in avanti, si deve posizionare una mano attorno alla sua mandibola e con l’altra vanno assestati piccoli colpi sulla schiena tra le scapole, alternando compressioni toraciche finché l’istruzione non si risolve […].
Nei bambini più grandi e negli adulti invece, in attesa dei soccorsi medici, è indispensabile effettuare la famosa “manovra di Heimlich”, ovvero abbracciare il soggetto dal retro sui fianchi e sotto le sue braccia, circondandolo dalla schiena per intenderci, ed utilizzando mani e braccia dell’operatore per esercitare una serie di rapide e continue pressioni proprio sotto lo sterno e sopra l’ombelico, dirigendo la spinta verso l’alto, in modo di stimolare il diaframma a comprimersi e dare la spinta sull’ albero tracheale per facilitare l’espulsione del boccone letale.
In pratica tale manovra imita un poderoso colpo di tosse indotto ed in genere risulta, se tempestiva, efficace e definitiva. Il soffocamento accidentale da cibo rappresenta la seconda causa di morte nei bambini da 0 a 4 anni, ed ogni anno in Italia sono 50 i decessi stimati da questo tipo di incidenti, che salgono a 500 in Europa. […]
Estratto dell'articolo di Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 6 aprile 2023.
[…] ad Aquino, in provincia di Frosinone, nel Lazio. Un ragazzo di 27 anni è soffocato per colpa di un trancio di pizza. Stava cenando assieme ai genitori, […]e quel dannato boccone gli è andato di traverso. Non è più riuscito a respirare, è collassato davanti a mamma e papà.
Quando è diventato livido si è portato le mani alla gola, i famigliari (tutti di origine cinese, ma questo c’entra un tubo) hanno capito subito che la situazione fosse grave. Hanno provato ad aiutarlo, hanno pure chiamato l’ambulanza: ma non c’è stato niente da fare. I paramedici e gli uomini del 118 accorsi sul posto, cioè nell’abitazione del ragazzo, non hanno che potuto constatarne decesso. È morto così.
[…]il punto è che episodi simili succedono sempre più spesso. […] con la vita frenetica che facciamo, coi fast-food e questa corsa infinita che pare il tempo non ci basti mai, l’impressione è che siano addirittura più frequenti.
«Non è una semplice impressione, è la verità», racconta Giuseppe Rotilio, nutrizionista ed ex presidente dell’Inn, ossia dell’Istituto nazionale della nutrizione. […]: «Statistiche in merito non ce ne sono, ma i tempi sono cambiati e sì, è vero: mangiamo più veloce, mastichiamo meno, ingeriamo anche meno liquidi e abbiamo modificato il nostro approccio con la tavola. Tutto questo influisce».
Primo: «Mangiare più lentamente riduce il rischio di soffocamento perché deglutiamo cibo più soffice e più morbido». Secondo: «Specie a pranzo, al giorno d’oggi, ci riempiamo di panini e prodotti solidi. Abbiamo ridotto nelle nostre diete le minestre e tutti quei cibi che si mangiano col cucchiaio, altro strumento che assottiglia di molto queste problematiche».
Terzo: «Anche la socialità è importante. Tempo fa si pranzava in famiglia, ci si sedeva a tavola tutti assieme e, di fronte a casi del genere, c’era chi era pronto a intervenire. Magari non “professionalmente”, ma con i classici colpetti sulla schiena o un bicchiere d’acqua. Oggi no, spesso siamo da soli, spesso mangiamo in piedi».
[…] A gennaio un uomo di 55 anni di Dorno, nel Pavese, è morto mentre mangiava una fetta di prosciutto, a cena, a casa del padre: gli è finita nella trachea e neanche i soccorsi hanno potuto salvargli la pelle.
A dicembre un bimbo di appena un anno e mezzo, a Faenza, Ravenna, ha perso conoscenza durante un pasto in famiglia, è diventato cianotico e ha iniziato a soffocare: è deceduto una settimana dopo, all’ospedale di Rimini, per le conseguenze cardiorespiratorie e celebrali dovute a quella drammatica ostruzione causata dal cibo.
[…]L’elenco è lungo, ma è sempre lo stesso (drammatico) copione. «La masticazione è essenziale per evitare problematiche di questo tipo»: sembra la nonna, ma è (ancora) Rotilio. «Una volta si diceva “mi è andato di traverso”, la saggezza popolare non sbagliava di tanto. Se un boccone, anziché nell’esofago, finisce nelle vie respiratorie e nella laringe è necessario applicare la famosa manovra di Heimlich. Ma anche gli accorgimenti che abbiamo appena dato sono importanti». […]
Il Movimento.
Estratto dell'articolo di Cristina Marrone per corriere.it martedì 31 ottobre 2023.
Svolgere regolarmente attività fisica aerobica è efficace quasi quanto il Viagra per combattere la disfunzione erettile , con il vantaggio che in questo modo si eviterebbero i possibili effetti avversi del farmaco.
Uno studio appena pubblicato sul Journal of Sexual Medicine ha analizzato i dati di 11 lavori che hanno testato da una parte l’impatto dell’ esercizio fisico e dall’altra dell’utilizzo di farmaci come Viagra o Cialis per combattere la disfunzione erettile ed ha scoperto che fare sport, oltre agli innumerevoli benefici già noti come miglioramento della salute cardiovascolare, dell’umore e della forma fisica può aiutare quegli uomini che con l’avanzare dell’età sperimentano problemi di erezione.
Disfunzione erettile e salute cardiovascolare
La disfunzione erettile, ovvero la difficoltà ad avere un’erezione e a mantenerla, è spesso collegata a una cattiva salute cardiovascolare e può essere il segnale della presenza di patologie a carico del cuore, del metabolismo o del sistema nervoso. […]
I ricercatori hanno scoperto che i volontari che hanno effettivamente svolto attività fisica hanno riscontrato in media un miglioramento di 5 punti nella funzione erettile (è stato utilizzato l’International Index of Erectile Function (IIEF). Tra l’altro i volontari in condizioni più gravi hanno ottenuto benefici migliori.
Chi invece aveva ricevuto Viagra o Cialis, due noti farmaci prescritti contro l’impotenza, ha raggiunto miglioramenti da 4 a 8 punti. […] L’attività aerobica dunque è una valida alternativa all’utilizzo di farmaci anche per combattere l’impotenza, un’opzione da tenere in considerazione soprattutto per chi preferisce evitare di assumere farmaci.
La camminata veloce mantiene giovani, lo studio. La camminata veloce è una delle abitudini giornaliere in grado di mantenere l’organismo più giovane rallentando il rischio di morte prematura. Mariangela Cutrone il 21 Ottobre 2023 su Il Giornale.
La camminata veloce è in grado di mantenerci giovani, più a lungo.
Questa abitudine quotidiana è un vero e proprio toccasana per il benessere psicofisico. A testimoniarlo è uno studio effettuato dall’Uoc di Recupero e Rieducazione Funzionale in collaborazione con la Scuola di Specializzazione in Medicina dello Sport e dell'Esercizio Fisico dell'Università di Verona. La ricerca scientifica completa è stata pubblicata di recente sull’International Journal of Molecular Sciences.
Dimostra che grazie alla camminata veloce è possibile inibire la molecola mIR-146b per ottenere quello che i ricercatori hanno definito un "invecchiamento sano". Lo studio veronese ha evidenziato come la molecola miR-146b è presente nell’organismo in molte condizioni fisiopatologiche e in alcuni processi degenerativi. Lo svolgimento di un’attività fisica costante rallenta in maniera efficace l’azione di questa molecola. Il rallentamento stimola efficacemente l’autoproduzione di cartilagine: basterebbe camminare per almeno 30/40 minuti al giorno per stare bene.
La camminata veloce è un’abitudine salutare che mano a mano che si esegue diventa più gratificante. Oramai è risaputo che al contrario uno stile di vita sedentario produce alterazioni alla base di molte malattie cronico-degenerative. I ricercatori hanno dimostrato che la camminata veloce è invece in grado di far diminuire i livelli di degenerazione cartilaginea e di conseguenza si prevengono molte patologie osteoarticolari. Apporta inoltre importanti benefici al cuore e ai polmoni e rafforza la massa muscolare ed è un’ottima alleata per perdere peso: la scienza ha infatti dimostrato che una camminata veloce è in grado di farci consumare circa 250 calorie in mezz’ora. Grazie all’attività fisica ci si ammala meno di diabete ed obesità.
Questo studio tutto italiano conferma i dati ottenuti in un’altra ricerca condotta sull’argomento e realizzata tempo fa dall’Università di Sidney. I ricercatori fecero emergere dai loro studi come la camminata veloce fosse in grado di contrastare il rischio di demenza, malattie cardiovascolari, tumori e morte prematura.
Questo studio svolto dal ricercatore Matthew Ahmadi dimostrava infatti che bastano anche solo 3.800 passi al giorno per trarre tanti benefici: questo numero di passi giornalieri infatti possono ridurre il rischio di demenza del 25%. Anche soli 2.000 passi giornalieri bastano per ridurre il rischio di morte prematura dell'8-11%, fino a circa 10.000 passi al giorno. Un numero maggiore di passi al giorno è stato associato a un rischio inferiore di ogni tipologia di demenza, mentre 9.800 passi al giorno è risultata la dose ottimale legata a un rischio di demenza inferiore del 50%.
Estratto dell’articolo di Antonella Sparvoli per il “Corriere della Sera” mercoledì 9 agosto 2023.
l crampo ti coglie all’improvviso e causa un dolore intenso, ma per fortuna dura poco.
In estate è più facile incorrervi. Alcuni studi hanno evidenziato una sorta di predisposizione genetica, ma la condizione più spesso associata a queste contrazioni involontarie e improvvise è la fatica muscolare.
Che cosa sono i crampi?
«Una contrattura involontaria e dolorosa di un muscolo o di una parte di esso — spiega Gianfranco Beltrami, specialista in Medicina dello sport e vicepresidente nazionale della Federazione medico sportiva italiana —. Tra i distretti più spesso interessati ci sono polpaccio, parte posteriore della coscia e piede».
A che cosa sono dovuti?
«Negli sportivi, le cause sono essenzialmente due: il sovraccarico muscolare, con la conseguente fatica, e l’eccessiva sudorazione. I muscoli molto affaticati si contraggono in modo involontario a causa di una iperattivazione del sistema neuromuscolare.
La sudorazione abbondante determina invece la diminuzione dei livelli di alcuni elettroliti, soprattutto il sodio, che hanno un effetto diretto sui crampi perché regolano il bilancio idrico, la conduzione nervosa e la contrazione muscolare. Esistono anche crampi secondari ad alcune condizioni come l’arteriopatia periferica e l’insufficienza venosa: in questi casi il crampo è conseguenza di problemi circolatori. […]».
In quali circostanze si manifestano maggiormente?
«Oltre che dopo una sessione di esercizio intenso, sono comuni nelle donne in gravidanza, soprattutto durante il terzo trimestre, e di notte, negli anziani e negli individui che esercitano professioni che portano a usare sempre lo stesso muscolo, richiedono posture anomale o torsioni particolari (dallo scrivano al musicista).
I crampi sono più comuni in estate perché caldo e umido possono favorire la disidratazione che, a sua volta, può accelerare la comparsa della fatica e quindi essere causa indiretta del crampo.
Per questo si sconsiglia di fare sport nelle ore più calde e si raccomanda di mantenere una corretta idratazione».
Come si può rimediare?
«[…] Durante l’attività sportiva bisogna sempre idratarsi e in caso di sport di resistenza, a maggior ragione nella stagione calda, vanno reintegrati anche i sali minerali persi. A fine sessione è sempre utile fare un po’ di stretching. Non ci sono evidenze scientifiche chiare sull’utilità di mangiare banane per prevenire o interrompere il crampo. […]».
Antonio G. Rebuzzi per “Il Messaggero” il 24 giugno 2023.
Fa sempre bene l'attività fisica? La risposta è meno ovvia del previsto. Almeno a quanto si evidenzia da un articolo di Andreas Holtermann e del suo gruppo danese del Copenhagen University Hospital, pubblicato recentemente sull'European Heart Journal. Gli autori hanno analizzato i dati raccolti da un registro nazionale (Copenhagen General Population Study) su oltre 104.000 soggetti seguiti per oltre dieci anni. I risultati emersi sono paradossali. Sembrerebbe, infatti, che gli effetti dell'attività fisica siano differenti se questa viene svolta durante il tempo libero o se è legata al lavoro.
Nel primo caso, paragonati a persone che durante il tempo libero hanno una modesta attività fisica, quelli che hanno un'attività moderata, alta o molto alta, hanno una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari del 10,18 e 9% a distanza di dieci anni. E questo indipendentemente da altri fattori come lo stato socio-economico, gli stili di vita e le abitudini alimentari. Al contrario, quelli che svolgono un lavoro che richiede un'attività fisica moderata, alta o molto alta durante la vita lavorativa hanno, rispetto a chi svolge un'attività lavorativa non pesante, un rischio cardiovascolare incrementato del 4,15 e 35%.
In particolare, dallo studio emergerebbe che svolgere un'attività fisica durante il tempo libero, sarebbe maggiormente protettivo per il cuore nei soggetti che fanno un lavoro sedentario, mentre gli effetti sarebbero più limitati nei soggetti che hanno un lavoro che richiede un consumo energetico maggiore. L'importanza dell'attività fisica per la riduzione del rischio d'infarto si deve all'intuizione del londinese Jerry Morris che, nel 1953, pubblicò sulla rivista The Lancet uno studio su 31.000 lavoratori dell'azienda dei trasporti di Londra. Morris osservò che gli autisti, che facevano un lavoro prevalentemente sedentario avevano una percentuale di eventi ischemici cardiaci quasi doppia dei controllori che salivano e scendevano dalle scale (a Londra gli autobus sono a due piani).
L'autore concluse che l'attività fisica costante esercita un ruolo importante nella prevenzione di effetti ischemici cardiovascolari. L'attività aerobica fa crescere la richiesta di ossigeno da parte del corpo e aumenta il carico di lavoro di cuore e polmoni, rendendo cuore e circolazione più efficienti. Da allora sono state fatte molte ricerche che hanno confermato l'intuizione iniziale tanto che l'attività fisica fa parte delle raccomandazioni di tutte le società scientifiche per la prevenzione delle malattie cardiache. Come può essere spiegato questo paradosso? In realtà vi sono differenze tra le due attività. Quella fatta durante il tempo libero è differente perché spesso è uno sforzo aerobico (nuoto, footing) durante il quale, se necessario, si ha la possibilità di recuperare. Lo sforzo lavorativo è molto spesso uno sforzo di resistenza (ad esempio sollevare pesi) fatto in maniera ripetitiva e soprattutto con scarso tempo di recupero.
Prescrivere la natura fa bene alla salute e riduce l’uso dei farmaci. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 10 aprile 2023
Passeggiate nella natura al posto dei farmaci o per prevenire malattie. Le ‘prescrizione naturali’, come vengono definite quelle che non prevedono l’assunzione di medicinali – oppure non solo – e che invece obbligano il paziente a stare più a contatto con il verde, sono sempre più diffuse. Sarà perché il loro potenziale è risultato essere triplice: spinge le persone a trascorrere più tempo all’aperto, alleggerisce il carico che grava sull’assistenza sanitaria convenzionale e riduce efficacemente ansia, stress, depressione e insonnia. Numerosi studi, infatti, indicano che il contatto con la natura è associato a una buona salute sociale, mentale e fisica, e che inoltre passeggiare nel verde riduce i rischi cardiaci e l’insorgere di malattie neurodegenerative negli anziani. Se ne sono accorti anche in Australia, dove un gruppo di accademici ha esaminato 92 studi in materia già esistenti ed elaborati in diversi Paesi, e in cui i partecipanti coinvolti hanno trascorso del tempo a interagire con la natura – un quinto di tutte le ricerche valutate si è svolto in Corea del Sud, il 17% negli USA e l’11% in Giappone.
Tale pratica coinvolge genericamente un medico o un professionista sociale (tipo un consulente del benessere). Questi prescrivono a chi gli si rivolge per curare determinate patologie di trascorrere un certo periodo di tempo alla settimana in un ambiente naturale, come un parco.
Dall’analisi è emerso che le prescrizioni naturali sono principalmente indicate per la riduzione della pressione sanguigna e per il miglioramento dei sintomi di ansia e depressione. Le attività più frequentemente consigliate sono state le passeggiate nella natura (46%), l’agricoltura o il giardinaggio (29%) e gli esercizi di consapevolezza (29%). Gli ambienti più suggeriti sono stati invece foreste e riserve naturali (35% delle prescrizioni), parchi (28%) e orti comunitari o domestici (16%).
Thomas Astell-Burt, esperto di salute e co-direttore della ricerca australiana, ha sottolineato quanto l’attività fisica all’aperto migliori numerosi aspetti della nostra vita. «Esci a fare una passeggiata in uno spazio verde: accresce la salute fisica, aiuta a migliorare la tua salute mentale, riduce la solitudine, migliora il sonno e può anche aiutare a ridurre la pressione sanguigna». Risultati, tra l’altro, interconnessi l’uno con l’altro.
Tuttavia, affinché tali scoperte entrino a far parte del sistema sanitario nazionale di ogni Paese, «sono necessari più studi controllati e randomizzati, affinché si possa rivelare una volta per tutte quanto possano essere efficaci e convenienti le prescrizioni naturali per un periodo di tempo prolungato, e anche quali tipi di prescrizioni naturali funzionano per chi». In questa direzione un passo avanti è stato compiuto proprio in Australia, un Paese in cui non capita così spesso che un medico inviti un paziente a passeggiare nel verde. Qui il ‘Medical Research Future Fund’ ha messo a disposizione un milione e mezzo di dollari proprio per portare avanti ulteriori studi che testino l’efficacia delle prescrizioni naturali sugli australiani di età superiore ai 45 anni – anche se già un ricerca precedente su quasi 50mila cittadini aveva scoperto che aree urbane con almeno il 30% di spazio verde o copertura di alberi apportava grossi benefici alla salute degli abitanti, riducendo le probabilità di soffrire di diabete o di disturbi psicologici.
Dei benefici del verde se n’è accorta anche Anu Turunen, una ricercatrice dell’istituto finlandese di salute e Welfare, dopo aver analizzato le risposte di 16.000 residenti di Helsinki, Espoo e Vantaa. Raccogliendo informazioni su come gli abitanti delle città vivono gli spazi – con e senza verde – sull’uso di psicofarmaci, medicinali per l’ipertensione e l’asma, e sul tempo trascorso a fare attività fisica all’aperto, è emerso che frequentare aree alberate almeno 3-4 volte a settimana comporta una riduzione del 33% delle probabilità di usare psicofarmaci, del 36% delle probabilità di usare farmaci per la pressione alta e del 26% delle probabilità di usare farmaci per l’asma. [di Gloria Ferrari]
Oggi è la giornata dell’attività fisica: i benefici della camminata veloce che tutti possono praticare. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023
I consigli dell’esperto dell’Ospedale Monzino su come avvicinarsi a una disciplina semplice, a basso costo che migliora umore, capacità ventilatoria, mobilità e aiuta a restare in forma. Attenzione alla posizione del piede
Non è una corsa, non è una corsa sul posto, non è neppure una corsetta o una passeggiata: è la camminata veloce , ovvero una camminata a passo sostenuto accompagnata dal movimento naturale delle braccia. Non ha in sostanza controindicazioni ed è adatta praticamente a tutti, anche a pazienti cardiopatici, per questo nella giornata mondiale dedicata all’attività fisica, il 6 marzo, la camminata veloce è un po’ la regina degli esercizi fisici perché non impatta sulle articolazioni ed è praticabile ovunque senza spese, se non quella di acquistare un buon paio di scarpe.
«La camminata veloce è un’attività fisica estremamente vantaggiosa perché è svolta in condizioni aerobiche: nella camminata a passo svelto non si va mai in debito di ossigeno ed è un’attività sostanzialmente di equilibrio tra quanto ossigeno entra e quanto se ne consuma con la ventilazione, quindi molto sicura» sottolinea Gianluca Pontone alla guida del Dipartimento di Cardiologia Perioperatoria e Imaging Cardiovascolare e Co-direttore dell’Unità operativa di Cardiologia dello Sport dell’Ospedale cardiologico Monzino con Claudio Tondo, Direttore del Dipartimento di Aritmologia.
Migliora la capacità ventilatoria
I benefici della camminata veloce sono scientificamente provati da tempo: migliora la circolazione sanguigna e l’ossigenazione di organi e tessuti. «Molto spesso potenzia la capacità ventilatoria: si impara a respirare meglio e in modo regolare durante lo sforzo. Progressivamente la soglia di resistenza aumenterà nel tempo. E se dopo un periodo continuativo di camminata veloce si vorrà passare al jogging, grazie alla maggiore capacità ventilatoria acquisita, non si sperimenterà l’affanno tipico di chi inizia a correre perché il fiato è stato progressivamente allenato» sottolinea Pontone.
Migliora la mobilità
La camminata veloce migliora anche la mobilità e la resistenza muscolare, allenando gradatamente il cuore. «Per chi accusa una mobilità parziale dovuta all’ artrosi o ad altri problemi di carattere ortopedico vale la stessa regola di chi ha problemi cardiaci: stando fermi si andrà peggiorando. L’attività fisica invece allena l’apparato cardiovascolare e quello locomotore» dice lo specialista del Monzino. La camminata a passo svelto inoltre previene l’osteoporosi , perché con l’impatto sul terreno viene stimolato il metabolismo osseo.
Benefici fisici
A livello cardiovascolare con la camminata veloce si riducono la pressione arteriosa e i grassi nel sangue, dal colesterolo ai trigliceridi; la frequenza cardiaca diminuisce e complessivamente c’è un effetto protettivo evidente su cuore e vasi. I distretti muscolari più tonificati dalla camminata sono gambe, glutei e addominali, ma anche l’efficienza della muscolatura toracica ne risente in positivo. Il lavoro muscolare delle gambe inoltre contrasta l’insufficienza venosa e previene le varici, per cui è un’ottima forma di esercizio per chi è più a rischio, come le donne in sovrappeso e in menopausa; il movimento, poi, favorisce il transito intestinale ed è perciò un alleato per chi soffre di stipsi .
Benefici mentali
A guadagnarci è anche la mente, soprattutto se la camminata si svolge all’aria aperta, in un parco o in montagna in particolare nel periodo primaverile quando anche il clima è piacevole, senza essere troppo freddo o troppo caldo. «I benefici mentali, con riduzione di ansia e stress sono immediati e sono mediati dal rilascio di endorfine , che hanno un documentato ruolo antidepressivo» spiega Pontone. «Ci vuole un po’ di tempo per osservare i benefici fisici (ed è il motivo per cui molti abbandonano l’attività fisica) mentre è più rapido entrare in un meccanismo di benessere psicologico che è poi quello porta ad un alto livello motivazionale che spinge a proseguire l’attività». Camminare insomma è una specie di bagno di positività: dopo ci si sente più sereni, ottimisti e si ha perfino maggior fiducia in se stessi. Non migliora solo l’umore: camminare ha un effetto protettivo anche sulla memoria e sul deterioramento cognitivo legato all’età: non a caso la «dose» di camminata è risultata direttamente correlata al volume di materia grigia cerebrale soprattutto in aree come l’ippocampo, connesso proprio alla memoria e all’apprendimento.
Fa dimagrire (con una dieta bilanciata)
La resa della camminata veloce in termini di performance calorica è molto alta. «Dal punto di vista energetico una passeggiata di 30 minuti rende anche di più della corsa vera e propria» sottolinea Pontone. Il meccanismo va cercato nelle modalità e nella proporzionalità con cui vengono consumate le calorie all’interno dell’organismo. «Quando svolgiamo attività molto intense come ad esempio lo sprint dei 100 metri - spiega l’esperto - consumiamo scorte energetiche facilmente reperibili, cioè i depositi di zucchero, subito a disposizione. Quando andiamo a fare sforzi più aerobici e prolungati nel tempo andiamo invece ad intaccare anche le riserve energetiche che derivano dal tessuto adiposo ed è per questo che la camminata veloce ha una resa maggiore rispetto a uno sforzo breve ma intenso. A patto però che l’attività fisica si prolunghi almeno per 20 minuti così da andare ad intaccare il grasso. La camminata veloce associata a un’alimentazione controllata e bilanciata è un’ottima strategia per dimagrire».
Come regolarsi con la velocità: piede sempre a contatto con la terra
Quali sono i tempi della camminata veloce? In realtà i tempi di camminata andrebbero personalizzati per età, sesso, condizioni di salute del paziente e le abitudini di camminata. Uno studio dell’Università del Massachusetts, pubblicato su un numero speciale del British Journal of Sports Medicine nel 2018 ha concluso che per camminata veloce dobbiamo intendere, in media, 100 passi al minuto. Ma questa è solo una standardizzazione. «In verità il singolo soggetto sa quale è la camminata rilassante per se stesso e deve adattare una camminata a passo svelto. La cosa importate da controllare è che non deve mai esseri il distacco dei piedi da terra quindi bisogna andare al massimo della velocità possibile mantenendo sempre il contatto del piede sulla terra altrimenti diventa una corsa, che non è adatta a tutti» suggerisce Gianluca Pontone. Il vantaggio della camminata veloce è che non c’è il rischio di esagerare perché la stessa persona si autolimita: «Se viene seguita la regola di non staccare i piedi dal suolo, quindi di non fare diventare quell’attività una corsa, e di procedere evitando di andare in affanno respiratorio, è un modo per autodeterminare la propria capacità funzionale».
Dove camminare e quando
Meglio camminare nella natura: boschi, parchi, sentieri di campagna o montagna. È naturalmente sconsigliata la camminata veloce in città a causa dell’inquinamento. «Si può lavorare anche sul tapis roulant in palestra, in particolare nella stagione invernale, anche se non c’è mai la resa come su strada perché le forze di attrito sono simulate e non sono quelle che abbiamo nel mondo reale: la resistenza del rullo non è identica a quella del corpo sul terreno fermo».
Non esiste in realtà un orario migliore su quando camminare, meglio farlo quando ci si sente energicamente nelle migliori condizioni e questo dipende dal ritmo circadiano di ciascuno. «In genere la mattina porta maggiori vantaggi - riflette Pontone - mentre per la sera ci sono vantaggi e svantaggi, ed è molto soggettivo. Lo sport nell’immediato riduce l’appetito e muoversi prima di cena potrebbe ridurre l’apporto calorico serale, che nei regimi dietetici è quello che pesa di più perché le calorie della cena sono quelle che si assimilano di più. Di contro l’attività sportiva può fare aumentare il circolo dell’adrenalina e può determinare un po’ di insonnia ».
Come iniziare la camminata veloce
Per chi si avvicina alla camminata veloce per la prima volta è consigliabile porsi piccoli obiettivi, cominciando nelle prime settimane con sessioni da venti minuti 2-3 volte alla settimana per poi allungare a 30 minuti 3 volte alla settimana. «Chi se la sente può continuare ad aumentare i tempi, arrivando anche a 45-60 minuti tre volte alla settimana» consiglia l’esperto. «Camminare fa sentire bene quindi è facile che una volta “scaldati i motori” si allunghino i tempi della camminata proprio per la sensazione di benessere che si prova». Tuttavia non bisogna andare in eccesso e vanno seguiti adeguati tempi di recupero, in particolare se si è avanti con l’età. «È bene intervallare il lavoro con un giorno di riposo - conclude il cardiologo del Monzino - da qui l’indicazione di svolgere attività fisica tre volte alla settimana, per fare sedute alternate»
Antonio, maratoneta a 90 anni. «Facevo scarpe per Liz Taylor, ora 60 chilometri a settimana». Valerio Vecchiarelli su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023
Roma, è primatista mondiale di categoria. «Mental coach? Mia moglie». Il segreto? «Non c’è, è che mentre corro i pensieri e anche gli acciacchi svaniscono. A tavola mi piace il cotto e mangiato»
Correre lo fa sentire libero. A 90 anni Antonio Rao, calabrese di Polistena trapiantato a Roma subito dopo la guerra, all’Acea Run Rome The Marathon, la Maratona di Roma, ha stabilito senza saperlo il nuovo primato del mondo della categoria over 90: 6 ore, 14 minuti, 44 secondi, viaggiando tra i monumenti della Capitale alla velocità di 6,8 chilometri l’ora. Spazzato via dal librone dei record il 93enne statunitense Ernest Van Leeuwen, che nel 2005 a Los Angeles ci aveva messo una mezzoretta in più a percorrere i canonici 42 km e 195 metri della più classica delle corse fatte fatica.
Dalla Calabria
Il racconto parte da lontano, dalla Calabria, dove il 12 febbraio 1933 nella casa paterna si festeggiava la nascita del piccolo Antonio: «La nostra era una vita semplice — racconta il nuovo primatista mondiale — famiglie numerose e mamme che dovevano badare a tirare avanti. Io avevo un amichetto che per strada mi batteva sempre: aveva uno scatto micidiale, poi dopo 800 metri iniziavo a carburare... così è iniziata la mia passione per la corsa».
Si viveva in strada e si correva... «Io mi distinguevo perché ero un mago ad arrampicarmi sugli alberi e perché avevo un amore innato per il mare. Una volta presi a correre, arrivai a Nicotera, feci il bagno al mare e tornai indietro. Avevo 12 anni, 24 chilometri ad andare e 24 a tornare. Mamma non si accorse di nulla, forse fu quella la mia prima maratona».
La famiglia
Poi la vita arriva e chiede il conto: «Nel 1945 papà morì per le ferite riportate nella Grande guerra, dopo quasi trent’anni passati praticamente a letto. Eravamo in tanti e c’era chi emigrò in cerca di fortuna. Mio fratello faceva il calzolaio a Roma, così a 13 anni un cognato mi accompagnò da lui per imparare un mestiere. Facevo il garzone, aveva una bottega a Primavalle. Come potevo scappavo di corsa, un tuffo nel Tevere dal barcone di “Er Cirìola” e via di ritorno. Credo non abbia mai saputo di queste mie scappatelle».
Un calabrese a Roma: «Seguivo dei corsi di perfezionamento e poi mi sono messo in proprio: creavo scarpe da donna di alta qualità. Ho avuto tra le mie clienti Ava Gardner e Liz Taylor mi ordinò sei paia di scarpe. Poi con la fine della dolce vita il lavoro andò in crisi e decisi per il posto fisso, vinsi il concorso da operaio alla Stefer (l’azienda di trasporto pubblico regionale, ndr) e là sono andato in pensione come capostazione. Su quella scelta pesò anche la mia passione per la corsa: con i turni potevo organizzarmi gli allenamenti, la sede di lavoro era sulla via Appia e non appena finivo andavo al parco dell’acquedotto romano a correre. Conosco ogni sanpietrino di quella zona».
La festa
Adesso Antonio ha 3 figli, 5 nipoti e 2 pronipoti: «Il 12 febbraio mi hanno fatto una sorpresa commovente: ero a Fregene per una corsa, sul traguardo sono arrivati tutti, anche dalla Germania, per festeggiare i miei 90 anni. Pure le nozze d’oro con Edda, la mia mental coach e motivatrice personale, le ho festeggiate in gara. Ci siamo sposati il 18 aprile 1960 e, guarda caso, l’Atletica Monte Mario, la società per cui sono tesserato, il 18 aprile 2010 partecipava con alcuni suoi atleti alla maratona di Vienna. Ci unimmo al gruppo , prima gareggiai, poi festeggiammo i nostri primi cinquant’anni insieme».
Ma dove ha trovato questo elisir di lunga vita? «Non c’è un segreto, è che mentre corro i pensieri, le difficoltà e anche gli acciacchi svaniscono. Mi alleno tre volte alla settimana: esco di casa a Monte Mario e faccio più o meno 10 chilometri fino a Valle Aurelia e altri 10 al ritorno. A tavola mi piace il cotto e mangiato, niente di pronto. Mia moglie è un’ottima cuoca, vado matto per le sue fettuccine all’uovo, funghi e piselli sono una favola. Meglio se porcini, naturalmente»
Per gli anziani bastano 500 passi in più al giorno per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.
Dopo aver camminato circa un chilometro e mezzo, ogni 400 metri in più percorsi è associato a un rischio inferiore del 14% di andare incontro a malattie cardiache e ictus per chi ha oltre 70 anni
Solo tre giorni fa un articolo pubblicato sul British Journal of Sports Medicine ha di fatto sentenziato un contrordine: basterebbero 11 minuti al giorno di camminata veloce per prevenire una morte prematura su 10 causata da malattie cardiache, ictus e una serie di tumori. Lo studio è il risultato di una revisione di 196 articoli che hanno coinvolto più di 30 milioni di partecipanti. Ma che cosa possono fare gli anziani che in genere fanno più fatica a muoversi e soprattutto a svolgere attività ad alta o moderata intensità?
I 400 metri in più
Un nuovo studio presentato dall’American Heart Association ha scoperto che per chi ha più di 70 anni camminare 500 passi in più al giorno (all’incirca 400 metri) è associato a un rischio inferiore del 14% di andare incontro a malattie cardiache e ictus . «I passi sono un modo semplice per misurare l’attività fisica e percorrere più passi al giorno è stato associato a un minor rischio di un evento correlato a malattie cardiovascolari negli anziani» ha detto Erin E. Dooley, professore di Epidemiologia all’Università dell’Alabama che ha seguito il lavoro e sottolinea però come la gran parte degli studi si sia concentrata su adulti fino alla mezza età con obiettivi giornalieri anche di 10 mila o più passi, difficilmente raggiungibili da individui anziani.
Come si è svolto il monitoraggio
Da qui l’esigenza di dare obiettivi di camminata anche a persone più in là con l’età per salvaguardare la loro salute. I ricercatori hanno analizzato i dati di 452 partecipanti, parte di un gruppo più ampio reclutati per lo studio Atherosclerosis Risk in Communities. Tutti i volontari hanno indossato un accelerometro sull’anca, una sorta di contapassi che ha misurato i loro passi giornalieri.I partecipanti avevano un’età media di 78 anni (59% donne). I dispositivi sono stati indossati per tre o più giorni, per dieci o più ore e in media il numero di passi percorso è stato in media di 3500 al giorno. Durante il periodo di follow-up di tre anni e mezzo il 7,5% dei partecipanti ha manifestato un evento di malattia cardiovascolare come una malattia coronarica, un ictus o un’insufficienza cardiaca.
I risultati
Ma che cosa ha rilevato l’analisi dei passi in associazione agli eventi cardiovascolari? Rispetto agli adulti che facevano meno di duemila passi al giorno coloro che ne facevano 4.500 avevano un rischio di subire un evento cardiovascolare inferiore al 77%. Quasi il 12% degli anziani che percorrevano al giorno meno di duemila passi sono andati incontro a un evento cardiovascolare rispetto al 3,5% dei partecipanti che hanno camminato circa 4.500 passi al giorno. In conclusione ogni 500 passi in più al giorno è associato a un rischio inferiore del 14% di malattie cardiovascolari, partendo da una base minima di duemila.
Meglio poco che niente
«È importante mantenere l’attività fisica anche con l’avanzare dell’età, ma anche gli obiettivi di passi giornalieri dovrebbero essere raggiungibili. Siamo rimasti molto sorpresi che ogni 500 passi in più di camminata abbia avuto un così forte beneficio per la salute del cuore» ha sottolineato Dooley che aggiunge: «Non vogliamo sminuire l’importanza di un’attività fisica di maggiore intensità ma incoraggiare piccoli incrementi del numero di passi giornalieri perché sono evidenti significativi benefici cardiovascolari».
Non è mai troppo tardi
«Anche per chi ha fatto una vita sostanzialmente sedentaria - dice Gianfranco Beltrami, docente di Scienze motorie all’Università di Parma e vice presidente Federazione italiana medico sportiva - non è mai troppo tardi per iniziare a intraprendere un’attività fisica che, se correttamente eseguita, sicuramente potrà dare importanti benefici alla sua salute. Per l’organismo umano il movimento è vitale. Non a caso le caratteristiche che accomunano le popolazioni più longeve del pianeta e con il maggior numero di centenari sono una corretta alimentazione abbinata a uno stile di vita molto attivo, con tanta attività fisica fino a tardissima età».
Che cosa fare
«L’attività fisica, in special modo per le persone anziane - aggiunge Beltrami - rappresenta un vero e proprio farmaco in grado di prevenire quasi tutte le patologie e di ritardare l’invecchiamento.Come ogni farmaco anche l’attività fisica deve essere attentamente dosata e personalizzata tenendo conto del grado di allenamento delle caratteristiche del soggetto e di eventuali patologie presenti. Non basta però camminare o fare una attività di tipo aerobico ma bisogna anche fare esercizi per mantenere la forza che è la qualità atletica che cala più velocemente, la destrezza ,l’equilibrio e la corretta postura seguendo le linee guida che prevedono almeno 150 minuti alla settimana di attività aerobica , due sedute settimanali di almeno mezz’ora di esercizi per la forza ed una decina di minuti dopo ogni sessione di attività fisica da dedicare all’allungamento e alla postura»
I limiti
Lo studio, su stessa ammissione dei ricercatori ha dei limiti: il dispositivo indossato sui fianchi non riesce a registrare attività alternative alla camminata che possono comunque essere utili per la salute del cuore come ad esempio andare in bicicletta o nuotare; il campione generale di partenza formato per la maggioranza da donne bianche aveva maggiori probabilità di avere un’istruzione universitaria; infine i passi sono stati misurati per un breve periodo.
Camminatori urbani a Milano: a piedi lungo le tangenziali e in fila indiana sulla traiettoria dei caselli autostradali. Marta Ghezzi su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023
Gianluca Migliavacca, ex presidente di Trekking Italia, propone con Georama itinerari inediti per scoprire la città dai «margini»
A piedi sulle tangenziali? Gianluca Migliavacca capisce lo smarrimento e subito precisa, «il traffico resta lontano, non si rischia la vita». Ugualmente: in fila indiana sulla traiettoria dei caselli autostradali, Milano non offre trekking urbani più piacevoli? Lui abbozza e chiarisce, «non si tratta di escursionismo, offriamo esperienze uniche e indimenticabili della città».
Da un anno l’architetto che ha nello zaino 35 anni di accompagnamenti di gruppi sui sentieri di tutta la penisola — ex presidente di Trekking Italia, fra i fondatori di Sentieri Metropolitani — e un brevetto da Mountain leader (è la guida per la media montagna), propone con l’associazione «Georama Esplorazioni Contemporanee» lunghe sgambate dentro e fuoriporta.
Percorsi non scontati, mai classici: l’affaccio su Milano è da scorci laterali, dai cosiddetti «margini» che regalano una visione non solo inedita, ma anche intrigante e curiosa. «Invece di scappare via nel fine settimana, fughe nel territorio di casa. I milanesi sono assetati di socialità e queste esperienze sono per tutti, anche per chi non ha il passo del montanaro, quattro ore sembrano impossibili la prima volta, ma è il gruppo che traina. Inoltre prevediamo soste per rifocillarsi».
Quindi: a piedi lungo le tangenziali, la novità di Georama per il 2023. A nord-est il tragitto prende il via da Sesto e passando per Ortica e il parco Lambro raggiunge San Giuliano; a sud-est si dipana fra i corsi del Seveso e dell’Olona e i presidi religiosi della bonifica, le abbazie di Monluè, Viboldone e Chiaravalle; a sud-ovest, dai paesi-satellite (Noverasco, Quinto de Stampi, Rozzano e Trezzano) raggiunge l’enclave di Muggiano e la Certosa di Garegnano, mentre l’ultima sezione interseca l’ospedale Sacco, San Maurizio al Lambro e Cusanino. «Centodieci chilometri in sette tappe, a sabati alterni. Aspettiamo solo temperature più clementi per iniziare». E azzarda: «Sarà come il cammino di Santiago, anche se nella natura mineralizzata della metropoli!».
Nel palinsesto di Georama, avviato lo scorso anno — per 584 giorni di cammino —, oltre a follie di nicchia (Milano-Genova o addirittura Milano-Passo dello Spluga, senza alcun mezzo di trasporto) anche esplorazioni accessibili, che non si allontanano dalla cintura urbana. Come l’itinerario che dal Cavalcavia Bussa si spinge al Cimitero Maggiore, «con in tasca, a fare da guida, il romanzo “Un’educazione milanese” di Alberto Rollo». O quello che da piazza Conciliazione arriva a Baggio, «e svela la relazione fra lo sviluppo edilizio milanese e le cave». O ancora, il giro in Bovisa attraverso il «Goccia» e poi dritti verso Villapizzone, Vitalba e il Gallaratese. «Par nanca de vess a Milan», ha commentato una volta uno stupito camminatore. Migliavacca (felice) ha replicato: «È una biografia diversa della città». Per chi vuole mettersi alla prova, già sabato 4 febbraio 12 chilometri Cascina Gobba-piazza del Duomo. «La Gobba è una delle porte d’ingresso di Milano, quasi sempre vista in auto. Può invece avvenire un incontro inedito...». Si toccano Parco Lambro e collinetta che cela i detriti della guerra, piazza Novelli (con la Milano disegnata di inizi ’900), il Conservatorio, la Chiesa della Passione.
Quanto bisogna camminare se si sta seduti per otto ore al giorno? Francesca Naima su L'Indipendente il 21 gennaio 2023.
Muoversi per evitare gli effetti negativi della sedentarietà, ma con quale frequenza? Stando ai risultati raggiunti dal team di studiosi e scienziati autori di un nuovo studio pubblicato su Medicine&Science in Sports&Exercise, rivista dell’American College of Sports Medicine (ACSM, organizzazione che promuove la ricerca scientifica nel settore dello sport) quando si passa molto tempo seduti è bene prendere l’abitudine di alzarsi e muoversi per qualche minuto. Secondo i risultati dello studio, sono sufficienti cinque minuti per ogni mezz’ora che si passa seduti. Potrebbe sembrare un nonnulla, eppure distaccarsi dalla sedentarietà frequentemente ma per poco tempo, giova alla salute più di quanto si pensi, contribuendo a prevenire malattie cardiache, diabete, obesità e altri generi di disturbi.
Non sarebbe infatti necessario iscriversi in palestra o frequentare i corsi di una qualche disciplina sportiva per giovare dei benefici del movimento fisico. Attraverso uno studio cross-over randomizzato (RCT, randomized controlled trial, che permette di minimizzare possibili errori e distorsioni e nel quale il soggetto viene esposto a uno o più trattamenti in sequenza casuale), a undici adulti sani di mezza età è stato chiesto di restare seduti su una sedia per otto ore, ovvero la durata media di una giornata lavorativa nei Paesi industrializzati. Attraverso il monitoraggio degli indicatori principali della salute cardiovascolare, ovvero la pressione sanguigna (ogni 60 minuti) e la glicemia (ogni 15 minuti), è stato provato quale fosse il miglior tipo di “interruzione sedentaria”.
Dallo studio è emerso come cinque minuti di camminata ogni mezz’ora contribuissero a ridurre di circa il 60% il glucosio presente nel sangue a seguito di un pasto abbondante. Maggiori riduzioni nella pressione sistolica sono invece state osservate per pause di un minuto ogni 60 minuti (-5,2[1,4] mmHg) e di cinque minuti ogni 30 minuti di sedentarietà (-4,3[1,4] mmHg). Infine, il movimento fisico ha giovato anche alla salute mentale dei soggetti presi in esame, che hanno colto i benefici dal punto di vista dell’umore rispetto ai colleghi rimasti seduti. I test effettuati sui livelli di umore, affaticamento e prestazioni cognitive dei partecipanti hanno infatti dimostrato come camminare per 5 minuti ogni mezz’ora riduca la sensazione di affaticamento.
A fronte di una classica giornata lavorativa, dunque, un livello adeguato di movimento per il corpo non deve per forza implicare ore di attività fisica intensa. D’altro canto, il mondo contemporaneo è strutturato in modo tale da stimolare la sedentarietà: come ha segnalato l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), questa ha tutte e caratteristiche per affermarsi come prossima pandemia, in realtà già cominciata. Entro il 2030 circa 500 milioni di persone subiranno le conseguenze dell’inattività fisica, denuncia il rapporto sullo stato globale dell’attività fisica 2022 dell’OMS pubblicato lo scorso ottobre. [di Francesca Naima]
L’Artrosi.
Artrosi: cos’è, cause, sintomi, terapie. Si può prevenire? Differenze con l’artrite. Elena Meli su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2023
Questa patologia degenerativa cronica (diversa dall’artrite di origine infiammatoria) è in continuo aumento. L’età avanzata e i chili di troppo contribuiscono all’usura delle articolazioni
In aumento i casi di artrosi (soprattutto al ginocchio)
Un esercito sempre più nutrito di persone con ginocchia, schiena, anche e mani doloranti. L’artrosi è in continuo aumento: secondo un’analisi dei dati raccolti dal Global Burden of Disease study, che ha esaminato l’impatto di diverse patologie nel mondo dal 1990 al 2019, i casi di artrosi in trent’anni sono aumentati del 113 per cento e oggi sono quasi 530 milioni, distribuiti in prevalenza nei Paesi occidentali ad alto reddito come il nostro. Unica nota positiva la leggera diminuzione dei casi di artrosi della mano, in calo dello 0,36 per cento l’anno. L’artrosi del ginocchio fa la parte del leone ed è di gran lunga la più diffusa con 365 casi per milione di abitanti, seguita dalla mano con 143 e l’anca con 33 casi per milione; secondo gli autori dell’analisi la colpa è soprattutto dell’invecchiamento della popolazione e dell’epidemia di obesità, perché età avanzata e chili di troppo contribuiscono parecchio all’usura della cartilagine del ginocchio.
Si associa ad altri disturbi
Il dilagare dell’artrosi peraltro preoccupa non solo perché siamo sempre più dolenti e anchilosati, ma anche perché la malattia si associa a molti altri disturbi. Lo ha dimostrato una recente ricerca olandese per cui sono stati esaminati oltre 1,8 milioni di pazienti, «scansionandoli» per 58 malattie oltre all’artrosi. Undici vengono spesso diagnosticate dopo i problemi articolari e sono, non soltanto mal di schiena o cervicalgia, ma pure anemia, cataratta, coronaropatie, calo dell’udito, disturbi del sonno: non è detto che l’artrosi provochi direttamente questi problemi, tuttavia l’associazione esiste ed è bene tenerne conto quando si scopre di avere un ginocchio usurato. Il primo passo per riconoscere l’artrosi è sapere che cos’è. Non è così banale: quanti di noi dicono di avere un po’ di artrite quando le articolazioni sono doloranti? Eppure nella maggior parte dei casi si tratta appunto di artrosi. Un equivoco che è bene fugare perché, come spiega Gian Domenico Sebastiani, presidente della Società Italiana di Reumatologia e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Reumatologia dell’ospedale San Camillo di Roma, «sono due malattie molto diverse con manifestazioni, diagnosi e possibilità di intervento differenti. L’artrosi è la più frequente patologia reumatica cronica: si stima ne soffra almeno un adulto su dieci, dopo i sessant’anni almeno uno su due. Il problema diventa più comune all’aumentare dell’età perché dipende dall’usura delle articolazioni: la cartilagine pian piano degenera e poi il danno si estende a tutte le strutture articolari, dall’osso alla capsula articolare (un “manicotto” di tessuto connettivo che circonda i due capi dell’articolazione e contiene il liquido sinoviale, una sorta di lubrificante, ndr), dai muscoli ai legamenti».
Cosa sono le artriti
La artriti sono invece un gruppo di malattie eterogenee, relativamente più rare: l’artrite reumatoidee l’artrite psoriasica, le due forme più diffuse, riguardano ciascuna circa lo 0,5 per cento della popolazione. Quella che viene confusa con l’artrosi è l’artrite reumatoide, che colpisce anch’essa le articolazioni ma si sviluppa in maniera pressoché opposta perché la cartilagine è “vittima” anziché artefice del danno, come specifica Sebastiani: «L’artrite inizia nella membrana sinoviale, che ricopre l’interno della capsula articolare: questo tessuto si infiamma, si ispessisce e aggredisce l’articolazione, erodendo cartilagine e osso e portando pian piano ad alterazioni che comportano una grossa invalidità». Si potrebbe credere che da un certo punto in poi, una volta che tutta l’articolazione sia stata interessata dalla malattia, artrosi e artrite siano identiche, ma non è così, perché, per esempio, cambiano le aree coinvolte. Mentre l’artrosi colpisce soprattutto la colonna cervicale e lombare, le ginocchia, le anche, l’alluce del piede e le dita delle mani, l’artrite può riguardare tutte le articolazioni, anche quelle che l’artrosi risparmia, come polsi e gomiti.
Artrosi e artriti: sintomi diversi
«Il dolore da artrosi dipende dall’uso e dal carico dell’articolazione (ovvero se la stiamo o meno muovendo e se stiamo o meno “caricandola” di un peso, per esempio quello del corpo che grava sulle ginocchia quando camminiamo), perciò l’artrosi migliora con il riposo. Al mattino non c’è rigidità e l’impaccio nei movimenti è solo temporaneo», spiega il reumatologo. «In caso di artrite invece il dolore infiammatorio prescinde dal carico e dall’uso dell’articolazione, perciò provoca una notevole rigidità mattutina e alla ripresa del movimento comporta difficoltà che durano a lungo. Solo nell’artrosi molto avanzata le caratteristiche del dolore tendono a sfumare e ad assomigliare di più all’artrite. Queste differenze guidano nella diagnosi, così come l’età del paziente», prosegue Sebastiani. «In un over 50 articolazioni dolenti fanno supporre un’artrosi, in persone dai 20 ai 40 anni è più probabile siano manifestazione di un’artrite. Ci sono però eccezioni: oggi vediamo artrosi anche in chi non ha compiuto 50 anni e casi di artriti che compaiono in età più avanzata».
Come viene diagnosticata l’artrosi
La diagnosi non è complessa: spesso non servono esami complicati ma una visita dal medico di famiglia, che può essere di aiuto per indirizzare i sospetti, o dal reumatologo, lo specialista di riferimento in caso di disturbi alle articolazioni. «Ascoltare i sintomi riferiti dal paziente è il primo passo, poi con una visita approfondita si può già capire se c’è artrite o artrosi: la modalità con cui si presentano il gonfiore, il dolore e le limitazioni della funzionalità delle articolazioni è molto indicativa», dice Sebastiani. «Se si sospetta un’artrosi poi non serve prescrivere esami del sangue, perché in genere sono normali; nella maggior parte dei casi invece può essere utile una semplice radiografia delle articolazioni interessate, per rilevare i segni tipici di artrosi, mentre gli esami di secondo livello come la risonanza magnetica vanno riservati a situazioni particolari, come quando si sospetta che ci sia un’ernia espulsa. Sottoporsi a una Tac o a una risonanza per la diagnosi di artrosi non ha molto senso, anche perché per esempio la risonanza evidenzia bene i tessuti molli ma non le ossa, mentre la radiografia è ottima per valutare le condizioni dell’osso com’è necessario fare quando c’è artrosi», conclude il reumatologo.
Prevenzione: esercizio regolare, no al fumo e ai chili di troppo
Per la prevenzione serve anche smettere di fumare, oltre all’esercizio fisico regolare. Basterebbe dimagrire per tenere alla larga l’artrosi, per lo meno quella del ginocchio che è una delle più comuni: uno studio australiano pubblicato su Arthritis and Rheumatology, per il quale nell’arco di cinque anni sono stati seguiti i destini di oltre 15mila ginocchia grazie a radiografie ripetute, ha dimostrato che perdere peso può diminuire fino a circa il 22 per cento la probabilità che l’artrosi compaia o progredisca. Riducendo di un punto l’indice di massa corporea, ovvero il valore che si ottiene dividendo il peso in chili per il quadrato dell’altezza in metri, il rischio di sviluppare artrosi o di vederla peggiorare se già se ne soffre cala del 5 per cento nei successivi 5 anni; se si perdono 5 punti di indice di massa corporea (che può equivalere al passaggio dalla categoria sovrappeso a quella normopeso) la probabilità diminuisce del 22 per cento.
Predisposizione, scarso tono muscolare, fratture, altre malattie
I chili di troppo pesano sulle articolazioni, sollecitano la cartilagine e la assottigliano; sono perciò fra gli elementi più critici nello sviluppo dell’artrosi primaria, quella più comune, che non ha cause specifiche e come spiega Gian Domenico Sebastiani, presidente della Società Italiana di Reumatologia, «è correlata a fattori genetici di predisposizione familiare, al sovrappeso e allo scarso tono muscolare. L’artrosi secondaria invece dipende da difetti nelle articolazioni, quando gli elementi ossei e cartilaginei non si “incastrano” fra loro come dovrebbero accelerando l’usura: può accadere in caso di displasie congenite, come quella dell’anca, o a seguito di fratture». Anche per questo sono fattori di rischio i traumi o gli interventi in artroscopia per togliere i menischi, nel caso delle ginocchia. Facilitano l’artrosi pure il sesso femminile e l’età che avanza: la cartilagine invecchiando diventa fisiologicamente più soggetta all’usura, perciò non stupisce che l’artrosi sia molto comune per esempio nelle donne dopo la menopausa. Sono fattori di rischio poi malattie endocrino-metaboliche come il diabete, la gotta, i disturbi tiroidei e le patologie reumatiche infiammatorie oppure le sollecitazioni meccaniche legate ad attività lavorative in cui si passa tanto tempo in piedi, si sollevano pesi, si sta molto in ginocchio. Su età, sesso e predisposizione genetica c’è poco da fare, gli incidenti a volte è difficile evitarli e il lavoro non sempre si può cambiare, ma l’usura eccessiva si può prevenire con lo stop al fumo, che ha conseguenze negative su cartilagine e tessuto osseo, l’esercizio fisico e la dieta.
Stili di vita sani, a partire dallo sport (senza esagerare)
Lo sport è protettivo perché potenzia la muscolatura rendendo le articolazioni più efficienti, basta non esagerare: a rischio l’usura delle cartilagini. Un’alimentazione corretta, inoltre, aiutando a mantenere il peso forma, può contribuire a ridurre il sovraccarico specialmente su anche e ginocchia. Attenzione però, non esistono cibi miracolosi e la dieta anti-artrosi va intesa come nutrirsi in modo sano per evitare di ingrassare. Una task force dell’European League Against Rheumatism ha pubblicato i risultati di un’indagine iniziata cinque anni fa per valutare tutti gli studi sugli effetti dell’alimentazione sull’artrosi: i risultati sono chiari, l’impatto di elementi come olio di pesce, avocado, soia, vitamina D e simili (ipotizzati come fattori anti-artrosi), è minimo. Lo stesso vale per gli integratori a base di glucosamina, condroitin solfato o altri composti che potrebbero aiutare a preservare la cartilagine: non c’è ancora certezza che ci siano reali benefici, anche se è probabile che riducano la sofferenza della cartilagine nelle fasi iniziali. A oggi non c’è nulla che possa metterci al riparo dall’artrosi prima che compaia: l’unica prevenzione possibile passa da uno stile di vita sano.
Obesi o in sovrappeso? Più probabile la protesi al ginocchio
Dimagrire serve anche a scongiurare la necessità di doversi sottoporre a un impianto di protesi al ginocchio perché l’artrosi si è «mangiata» tutta l’articolazione: secondo un’indagine australiana condotta su oltre 25mila persone seguite per più di 12 anni, il maggior numero di interventi avviene in persone normopeso che poi, con la mezza età, sono diventate sovrappeso o obese. Gli autori hanno stimato che anche solo evitando di accumulare dai 6 agli 8 chili di troppo intorno agli «anta» si potrebbe ridurre di circa il 28 per cento la probabilità di una protesi al ginocchio, che è necessaria quando l’articolazione è danneggiata e la limitazione funzionale interferisce con la mobilità e la qualità di vita. Ogni anno nel nostro Paese si impiantano circa 50mila protesi del ginocchio: con una buona prevenzione e diagnosi precoci, il numero potrebbe diminuire non poco.
Cure (future): studi in corso
Forse per i nostri nipoti l’artrosi non sarà più un problema, ma un fastidio da risolvere con poche pillole. Lo suggeriscono alcuni ricercatori dell’università di Oxford, che a fine anno hanno pubblicato su Science Translational Medicine uno studio preliminare su tessuti umani di pazienti con artrosi: le cellule sono state esposte a una molecola, il talarozolo, che aumenta i livelli di acido retinoico con effetti antinfiammatori positivi. Stando agli autori questo metabolita della vitamina A, conosciuto soprattutto come ingrediente delle creme antietà, sarebbe carente nei tessuti delle articolazioni colpite dall’artrosi; farmaci capaci di colmare il deficit come il talarozolo potrebbero perciò modificare la storia della malattia, secondo l’ipotesi degli inglesi. Che è tutta da verificare con ulteriori indagini in vitro e soprattutto nell’uomo, perciò per adesso (e probabilmente ancora a lungo) non esistono cure definitive per le articolazioni usurate e doloranti. Ciò non significa che non si possa fare nulla.
Terapie mediche disponibili
«Per la gestione del dolore sono utili analgesici e antinfiammatori non steroidei», osserva Gian Domenico Sebastiani, presidente della Società Italiana di Reumatologia. «Non sono indicati gli steroidi come il cortisone per via sistemica e anche con gli antinfiammatori non steroidei occorre andare cauti, evitando il fai da te: questi farmaci non devono essere assunti troppo a lungo e man mano che sale l’età aumentano anche le controindicazioni all’uso, che perciò deve essere gestito dal medico. La terapia poi cambia a seconda della gravità dell’artrosi e anche della sua sede: se è colpito un ginocchio la riduzione del peso e l’aumento del tono muscolare possono essere più utili di quanto si creda e in alcuni casi sono perfino sufficienti a scongiurare la necessità di un intervento chirurgico per sostituire l’articolazione con una protesi. Se l’artrosi invece riguarda la mano è ovviamente poco plausibile avere successo con il dimagrimento o l’attività fisica ma pure le infiltrazioni articolari, che possono essere efficaci sull’artrosi del ginocchio, non sono indicate perché il trauma dovuto all’inserimento dell’ago può essere superiore al beneficio possibile con il trattamento». Le infiltrazioni, dove possibili, nelle fasi iniziali e intermedie possono essere di acido ialuronico, che «nutre» la cartilagine; nelle forme in cui l’infiammazione è più difficile da spegnere si possono provare le infiltrazioni di cortisonici; nei casi più gravi di artrosi del ginocchio o dell’anca, in cui la struttura dell’articolazione è profondamente alterata e la funzionalità è ormai compromessa, si può infine ricorrere all’impianto di protesi.
Osteoporosi.
Osteoporosi e alimentazione: i cibi consigliati. Alimenti ricchi di calcio, fosforo e vitamina D non devono mai mancare. Attenzione, invece, ai cibi integrali e ricchi di ossalati che possono limitare l'assorbimento del calcio. Maria Girardi il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Le cause dell'osteoporosi
I sintomi e la diagnosi dell'osteoporosi
La dieta per l'osteoporosi
L'osteoporosi è una malattia dello scheletro caratterizzata da ossa fragili e soggette a fratture. In questo disturbo si assiste ad un vero e proprio deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo e ad una conseguente riduzione della sua massa. Le ossa sono un tessuto vivo in perenne rimodellamento. Esiste quindi un'alternanza fra la distribuzione delle componenti cellulari più vecchie (riassorbimento osseo) e la deposizione di nuove cellule (deposizione ossea).
Tale equilibrio si altera con il sopraggiungere della vecchiaia, quando il riassorbimento delle ossa diventa preponderante e viene invece meno la forza e la densità minerale delle stesse. Dati alla mano si stima che in Italia l'osteoporosi colpisca 4,5 milioni di individui, di questi due su tre sono donne. Qual è la migliore alimentazione da adottare in caso di "ossa porose"? Scopriamolo insieme.
Le cause dell'osteoporosi
La causa principale dell'osteoporosi è l'invecchiamento al quale si associa, come già detto, un marcato riassorbimento delle ossa a discapito della loro deposizione cellulare. Spesso si riscontra una predisposizione genetica per questo fenomeno che è tipico del sesso femminile.
Infatti nella sua insorgenza sono implicati gli estrogeni, fondamentali per la salute dello scheletro. Durante la menopausa la quantità di questi ormoni si riduce drasticamente e viene così meno la loro funzione protettrice.
Non bisogna poi dimenticare che esistono altri fattori di rischio che predispongono alla comparsa della patologia. Ad esempio:
La scarsa attività fisica;
L'insufficiente assunzione di calcio con la dieta;
La prolungata immobilità a letto;
La celiachia;
L'ipertiroidismo;
L'anoressia;
L'esposizione a radiazioni ionizzanti;
L'abuso di alcol;
Il fumo di sigaretta;
L'assunzione di alcuni farmaci (cortisonici, chemioterapici, antiepilettici).
Recentemente gli scienziati della Columbia University Mailman School of Public Health hanno scoperto che livelli elevati di inquinamento atmosferico favoriscono l'insorgenza dell'osteoporosi nelle donne in post menopausa. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
I sintomi e la diagnosi dell'osteoporosi
L'osteoporosi è un disturbo subdolo poiché non si manifesta con particolari sintomi. Spesso la diagnosi viene formulata solo dopo ripetute e dolorose fratture ossee conseguenti a traumi e cadute di lieve entità. Queste fratture difficilmente guariscono in maniera spontanea, nella maggior parte dei casi, infatti, è necessario l'intervento chirurgico.
Le ossa più colpite sono quelle dell'anca, del polso e delle vertebre. L'osteoporosi in sede vertebrale può addirittura provocare una curvatura anomala della colonna stessa.
La diagnosi si basa sull'esecuzione della densiometria ossea (DEXA) e su altri test come l'ultrasonografia ossea quantitativa, la tomografia computerizzata quantitativa e la tomografia computerizzata quantitativa periferica.
La dieta per l'osteoporosi
La dieta ideale per prevenire e per contrastare la progressione dell'osteoporosi è ricca di alimenti contenenti calcio, fosforo e vitamina D. Le scorte di calcio si incrementano mangiando soprattutto latte e derivati, ma anche cereali integrali, legumi e alcuni prodotti ittici. Consumando latte e derivati è inoltre assicurato il giusto quantitativo di fosforo.
Si sa che la vitamina D viene sintetizzata principalmente nella pelle mediante l'esposizione ai raggi solari, tuttavia anche alcuni cibi la contengono. Ad esempio il pesce azzurro, il fegato, i funghi e il tuorlo dell'uovo. Ricapitolando sono dunque consigliati i seguenti alimenti:
Latte;
Formaggi;
Yogurt;
Pesce azzurro;
Legumi;
Verdure a foglia verde (cicoria, rucola, cime di rapa, broccoli);
Frutta (fragole, frutti di bosco, agrumi);
Frutta secca (noci, pistacchi, mandorle, arachidi, nocciole).
È importante ricordare che i cibi integrali e ricchi di ossalati (pomodori, spinaci, prezzemolo, uva, caffè, tè, cioccolato) possono limitare l'assorbimento del calcio. Pertanto vanno consumati con moderazione.
Osteoporosi, attenzione all'inquinamento atmosferico. Gli scienziati hanno scoperto che l'esposizione agli ossidi di azoto favorisce la comparsa di danni ossei alla colonna vertebrale delle donne in post-menopausa. Maria Girardi il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Le cause dell'osteoporosi
I sintomi e la diagnosi dell'osteoporosi
L'osteoporosi e l'inquinamento atmosferico
I risultati dello studio
L'osteoporosi è una malattia dello scheletro caratterizzata da ossa fragili e soggette a frattura a causa di un deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo e ad una conseguente riduzione della sua massa. Le ossa sono un tessuto vivo in perenne rimodellamento. Esiste dunque un'alternanza fra il riassorbimento osseo, ovvero la distruzione delle componenti cellulari più vecchie, e la deposizione ossea, cioè la deposizione di nuove cellule. Tale equilibrio viene minato dalla vecchiaia quando si assiste ad un maggiore riassorbimento delle ossa e ad una riduzione della densità minerale delle stesse.
L'osteoporosi generalmente colpisce con maggiore frequenza il sesso femminile. Si stima infatti che dopo i 50 anni per una donna su tre il rischio di andare incontro ad una frattura cresce in maniera esponenziale. Esiste un modo per prevenire questa condizione o per ridurre il suo impatto? Un gruppo multidisciplinare di esperti ha inserito l'attività fisica fra le raccomandazioni approvate dalla Royal Osteoporosis Society. Praticare esercizi di resistenza, impatto ed estensione spinale è un vero e proprio toccasana. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
Le cause dell'osteoporosi
L'osteoporosi è la conseguenza più lampante dell'invecchiamento. Come già detto, con l'avanzare dell'età il riassorbimento osseo prevale sulla deposizione ossea. Da tempo è stato appurato che la riduzione della massa minerale è più frequente in diversi componenti dello stesso nucleo famigliare e nelle donne. Si suol dire, infatti, che l'osteoporosi è femmina. Nella sua insorgenza sono implicati gli estrogeni. Durante la menopausa cala drasticamente il numero di questi ormoni e viene così meno la loro funzione protettrice nei confronti dello scheletro. Bisogna però ricordare che esistono altri fattori di rischio che predispongono alla comparsa della malattia:
L'insufficiente assunzione di calcio con la dieta;
La sedentarietà;
L'ipertiroidismo;
La celiachia;
L'anoressia;
L'assunzione di farmaci cortisonici, chemioterapici e antiepilettici;
L'esposizione a radiazioni ionizzanti;
Il fumo di sigaretta;
L'abuso di alcol.
I sintomi e la diagnosi dell'osteoporosi
L'osteoporosi non si manifesta con sintomi evidenti. Ci si accorge della sua presenza solo dopo ripetute e dolorose fratture conseguenti a traumi e cadute di lieve entità. Le fratture, che interessano soprattutto le ossa dell'anca, del polso e delle vertebre, quasi mai guariscono in maniera spontanea. Nella maggior parte dei casi, infatti, si deve intervenire con un'operazione chirurgica che può essere complicata dall'età del paziente. Talvolta l'intervento non è risolutivo e la perdita di densità ossea, se si verifica a livello vertebrale, può addirittura provocare una curvatura anomala della colonna.
La tecnica più sicura per diagnosticare l'osteoporosi è la densiometria ossea (DEXA), una procedura che si avvale di uno strumento in grado di valutare la densità minerale mediante due parametri, il "T score" e il "Z score". Lo specialista può prescrivere l'esecuzione di altri test quali l'ultrasonografia ossea quantitativa, la tomografia computerizzata e la tomografia computerizzata quantitativa periferica.
L'osteoporosi e l'inquinamento atmosferico
Secondo gli scienziati della Columbia University Mailman School of Public Health, elevati livelli di inquinamento atmosferico favoriscono la comparsa dell'osteoporosi nelle donne in post menopausa. Lo studio, guidato dal dottor Diddier Prada e dal dottor Andrea Baccarelli, è stato pubblicato su eClinicalMedicine. Precedenti indagini avevano fatto luce sugli effetti avversi di singoli inquinanti sulla densità minerale ossea e sul rischio di fratture negli anziani. Ora i ricercatori hanno voluto approfondire la connessione tra l'air pollution e la fragilità ossea nei soggetti di sesso femminile.
Per far ciò sono stati analizzati i dati dello studio Women's Health Initiative a cui ha partecipato una coorte etnicamente diversificata di 161.808 pazienti in post menopausa. Le esposizioni agli inquinanti atmosferici (PM10, NO, NO2, SO2) sono state stimate in base alla residenza delle donne. Il team ha misurato la densità ossea (tutto il corpo, anca, collo del femore, colonna vertebrale) durante il follow-up del primo, terzo e sesto anno mediante l'assorbimetria a raggi X a doppia energia.
I risultati dello studio
Gli scienziati hanno constatato che l'esposizione agli ossidi di azoto riduce dell'1,22% la densità ossea della colonna vertebrale. Si ritiene che l'inquinante provochi la morte delle cellule ossee attraverso il danno ossidativo e altri meccanismi che non sono ancora noti. Ha affermato Prada: «I nostri risultati confermano che la scarsa qualità dell'aria può essere un fattore di rischio per l'osteoporosi, indipendentemente dai fattori socioeconomici e demografici. Gli ossidi di azoto, in particolare, contribuiscono al danno osseo della colonna vertebrale».
Le principali fonti di ossidi di azoto sono gli scarichi di camion, automobili e degli impianti di generazione di energia elettrica. L'inquinamento atmosferico è un vero e proprio nemico della salute. L'ennesima conferma giunge da uno studio condotto dai ricercatori dell'Università di Bari, dell'Università di Bologna e del Cnr, secondo cui l'air pollution è implicata della comparsa di molte tipologie di cancro. Ne abbiamo parlato in questo articolo.
Ha così concluso Baccarelli: «I miglioramenti nell'esposizione all'inquinamento atmosferico, in particolare all'ossido di azoto, ridurranno le conseguenze dell'osteoporosi nelle donne in post-menopausa, preverranno le fratture e ridimensioneranno i costi sanitari. Ora sono necessari ulteriori approfondimenti».
Piedi piatti.
Piede piatto nei bambini e negli adulti, cause e sintomi. Il piede piatto è un disturbo molto frequente nei bambini quando l’arco plantare non si è ancora sviluppato ma in età adulta può provocare delle complicazioni da non sottovalutare. Mariangela Cutrone il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Il piede piatto è un disturbo moto diffuso che può comportare delle complicazioni da non sottovalutare quando tende a degenerare e compromettere la qualità della vita.
È caratterizzato da un arco plantare che tocca completamente terra quando si sta in posizione eretta ed è legato ad uno sviluppo non corretto della pianta del piede durante l’infanzia o a causa della sua usura durante l’età adulta. Un arco plantare regolare solitamente presenta una curvatura verso l’alto. Questa è posizionata normalmente al centro e consente di distribuire al meglio il peso corporeo quando si sta in piedi o si cammina. È importante per l’equilibrio e per preservarci da eventuali shock o traumi di una caduta o di una perdita di equilibrio.
Quali sono le cause del piede piatto
A causa di questo disturbo si possono verificare durante la crescita problemi alle ginocchia, alle gambe che possono non allinearsi come dovrebbero. Inoltre a causa del piede piatto si tende a percepire maggiormente la stanchezza o il dolore quando si cammina molto o si sta molte ore in piedi.
Nei bambini fino ai sei anni questo problema è molto ricorrente. In questa fase d’età il problema non è accompagnato solitamente da dolore o fastidio. Il pediatra consiglia l’uso di scarpe specifiche, plantari o supporti. Solitamente il problema si risolve entro i dodici anni. A volte tende a non migliorare e il piede piatto rimane sino all’età adulta.
Negli adulti questo disturbo può comparire a causa di un’infiammazione del tendine tibiale, di un’artrite reumatoide. Può essere anche legata a danni subiti dalle ossa del piede e della caviglia in seguito ad infortuni o traumi. Ad esserne maggiormente esposti sono gli atleti, le persone in forte sovrappeso, chi soffre di pressione alta e diabete. È un disturbo che si può presentare nelle donne in seguito ad una gravidanza.
Molte persone che hanno i piedi piatti non lamentano alcun dolore o sintomo particolare. Sono nei casi gravi, in seguito a determinate complicazioni, i soggetti percepiscono dolore acuto nella zona del tallone o dell’arco plantare, alterazione del senso dell’equilibrio e a volte difficoltà nell’indossare determinate scarpe come quelle coi tacchi per le donne.
Questo problema desta particolare preoccupazione quando tende a modificare la camminata in seguito ad una distribuzione non equa del peso corporeo sull’arcata plantare. Quando ciò accade il soggetto che ne soffre può subire problemi alla colonna vertebrale o soffrire di infiammazioni come la comune fascite plantare che se sottovalutata può diventare dolorosa.
Come curare il piede piatto
Quando il piede piatto non provoca dolore non bisogna allarmarsi. Gli specialisti però consigliano di seguire dei preziosi accorgimenti per non complicare la situazione. Innanzitutto è opportuno mantenere un peso equilibrato. Nei casi non gravi si consiglia di indossare scarpe comode, rigorosamente senza tacchi in modo da equilibrare e sostenere la fascia plantare. Da evitare sono i sandali.
Al fine di alleviare la pressione sull’arco plantare sono stati progettati dei plantari specifici utili a non far sentire affaticato il piede e a non sovraccaricare tutto il peso corporeo sull’arcata plantare quando si sta troppo tempo in piedi. Utile è camminare scalzi. La raccomandazione ai più piccoli è quello di camminare a piedi nudi (o con le calze) in casa o sulla spiaggia. Per correggere il piede piatto solitamente non si ricorre all’intervento chirurgico. Questo è raccomandato solo se il disturbo provoca l’usura o la rottura del tendine o in caso di problemi ossei gravi alle gambe e alle ginocchia in età adulta.
La Scoliosi.
Scoliosi: come riconoscerla (agli esordi non dà sintomi), come si cura, quando serve il corsetto. Antonella Sparvoli su Il Corriere della Sera il 05 Febbraio 2023.
La diagnosi precoce, per la scoliosi, può fare la differenza per una terapia di successo. Un primo esame lo possono fare i genitori. Le terapie disponibili in base alla gravità e quando serve la chirurgia
Diversamente da altre malattie muscoloscheletriche della colonna vertebrale, la scoliosi non ha come tipico campanello d’allarme il dolore (se non nella fase avanzata nell’adulto per cause degenerative). Al suo esordio questa deformità della colonna non dà quasi mai sintomi e va quindi ricercata, anche perché una diagnosi precoce può fare la differenza. Lo hanno ricordato i più grandi esperti italiani e stranieri intervenuti di recente al congresso organizzato per celebrare i 50 anni di attività del Centro scoliosi dell’Istituto ortopedico Gaetano Pini di Milano. L’evento è stato l’occasione per fare un excursus sulle deformità vertebrali, dal loro riconoscimento fino alle ultime frontiere terapeutiche.
Che cosa è
«La scoliosi è la più comune deformità della colonna: interessa il 3 per cento della popolazione, con un rapporto maschi femmine di 1 a 4. Per fortuna le forme gravi sono abbastanza rare, circa una su 2 mila. La fase di crescita rapida della pubertà, in cui c’è una vera e propria tempesta ormonale, è quella in cui, se c’è una scoliosi, esplode e tende ad aggravarsi — spiega Bernardo Misaggi, direttore dell’Unità Operativa Complessa di traumatologia e per le patologie della Colonna vertebrale dell’Istituto Gaetano Pini di Milano, presidente della Società italiana chirurgia vertebrale e Gruppo italiano scoliosi (Sicv-Gis) —. Nell’85 per cento dei casi la scoliosi giovanile viene definita idiopatica, in quanto non se ne conoscono le cause. Il sospetto deve sempre nascere quando c’è una familiarità: se la mamma ha avuto la scoliosi, i figli vanno controllati. Un primo esame, sempre consigliato, a prescindere dalla familiarità, possono farlo gli stessi genitori. La manovra consiste nel far piegare in avanti il ragazzino con le gambe tese per evidenziare se c’è un lato del tronco più alto dell’altro e quindi si evidenzia il cosiddetto “gibbo”».
Le deformità lievi
Il primo passo per affrontarla in modo corretto è affidarsi a uno specialista in materia, di solito un fisiatra o un ortopedico. Per stabilire se serve un trattamento e il tipo di approccio più adatto bisogna valutare non solo il grado di deviazione della colonna vertebrale (che alla radiografia della colonna in toto si misura in «gradi Cobb»), ma anche l’età del paziente e l’età della crescita ossea, nonché l’andamento della scoliosi nel tempo, ovvero il suo potenziale di aggravamento (quanto più indietro è la crescita ossea tanto più può peggiorare la scoliosi). «Nelle deformità lievi della colonna, intorno ai 10-15° Cobb, la ginnastica la fa da padrona –– puntualizza Misaggi —. Esistono diverse strategie di rieducazione posturale, ma ciò che conta di più è la pratica di esercizi che rinforzino la muscolatura e allunghino la colonna: una buona muscolatura aiuta la scoliosi a non peggiorare. Resta comunque indispensabile fare controlli periodici perché, se c’è un peggioramento, occorre prendere altre misure».
Quando serve il corsetto
Quando la scoliosi raggiunge o supera i 20° Cobb si rende infatti opportuno il ricorso al corsetto ortopedico di plastica. «Bisogna dare la giusta correzione in base all’età anagrafica e ossea, allo stadio dello sviluppo e all’entità della curva. A seconda della gravità della scoliosi, si dà quindi l’indicazione su quante ore tenere il corsetto nella giornata, in alcuni casi può essere necessario tenerlo 24 ore su 24, altre volte basta la notte, altre ancora il pomeriggio e la notte» chiarisce l’esperto. Più complesse da curare sono le scoliosi tra i 40° e i 45° Cobb. «Nel nostro istituto abbiamo ancora la possibilità di fare corsetti gessati che però non sono facili da accettare dal giovane e dalla famiglia per il disagio fisico e psicologico che ne può derivare— prosegue Misaggi—. Tuttavia alcuni dati che abbiamo pubblicato dimostrano che, nelle scoliosi severe (40° e i 45° Cobb), l’uso del corsetto gessato consente in molti casi di evitare l’intervento chirurgico. In genere si fanno due o al massimo tre busti gessati, da cambiare ogni due o tre mesi, con una durata complessiva di sei, nove mesi. Se dopo i primi tre mesi la curva è già scesa sotto i 35° si continua coi corsetti gessati». Il trattamento con il corsetto di gesso consente di ottenere una correzione di circa il 50%, che è un ottimo risultato. «Per mantenere il beneficio, una volta tolto l’ultimo gesso, il ragazzo deve portare il corsetto di plastica fino al termine della crescita ossea (di solito 17-18 anni), se viene mantenuta la correzione con il corsetto ortopedico, il rischio di peggioramento non c’è più. Superata la fase critica, con il corsetto di plastica si può essere più comprensivi, facendolo usare magari solo di notte. Ogni caso va comunque valutato a sé» segnala Misaggi. Se invece, con il trattamento conservativo, sia con il corsetto in plastica che gessato, non c’è stato alcun beneficio perché la curva è molto rigida e la scoliosi tende a peggiorare, subentra l’indicazione chirurgica.
Quando serve la chirurgia
E quando la chirurgia «Quando la deformità della curva scoliotica supera i 45°-50°— spiega lo specialista— , si può ricorrere a tecniche chirurgiche di correzione della deformità della colonna con barre metalliche e artrodesi vertebrale, ovvero con la “fusione” delle vertebre con osso (che può essere autologo oppure da donatore)».