Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2023
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
Confini e Frontiere.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i serbi.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i croati.
Quei razzisti come i kosovari.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i portoghesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli svizzeri.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come i polacchi.
Quei razzisti come i slovacchi.
Quei razzisti come i belgi.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i Sudafricani.
Quei razzisti come i nigerini.
Quei razzisti come i zambiani.
Quei razzisti come i zimbabwesi.
Quei razzisti come i ghanesi.
Quei razzisti come i sudanesi.
Quei razzisti come i gabonesi.
Quei razzisti come i ciadiani.
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i tunisini.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come i siriani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i giordani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli yemeniti.
Quei razzisti come i somali.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come i pakistani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i thailandesi.
Quei razzisti come gli indonesiani.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i bielorussi.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come gli azeri – azerbaigiani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI OCEAN-AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Quei razzisti come i salvadoregni.
Quei razzisti come gli ecuadoregni.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come i boliviani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come gli australiani.
Quei razzisti come i neozelandesi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Altra Guerra.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. UNDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DODICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TREDICESIMO MESE. UN ANNO DI AGGRESSIONE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUATTORDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SEDICESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIASSETTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIOTTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DICIANNOVESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTUNESIMO MESE
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. VENTIDUESIMO MESE
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Giorno del Ricordo.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Migranti.
I Rimpatri.
Gli affari dei Buonisti.
Quelli che…porti aperti.
Quelli che…porti chiusi.
Cosa succede in Libia.
Cosa succede in Africa.
Gli ostaggi liberati a spese nostre.
Il Caso dei Marò & C.
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Giorno del Ricordo.
Lo sterminio di rom e sinti, quella parte dimenticata del nazifascismo. Il "divoramento", cioè l'internamento e l'uccisione nei campi di concentramento, dei popoli romanì è un fatto storico sottoposto ad autentico memoricidio. Il destino di un numero di persone tra 200 mila e un milione in Europa è avvolto dall'oscurità. Diletta Bellotti su L'Espresso il 17 Novembre 2023
Secondo alcune fonti, Tadeusz Joachimowski, ebreo polacco sopravvissuto alla prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, riuscì a seppellire un archivio dei rom e sinti internati nel Zigeunerlager, l’apposito settore per gli «asociali», ovvero coloro che venivano socialmente riconosciuti come romanì, ritenuti intrinsecamente criminali e su cui venivano condotti i principali esperimenti di eugenetica per separare il gene «ariano» da quello «criminale». Grazie a Tadeusz e ad altri due prigionieri, sappiamo i nomi dei 20 mila rom e sinti uccisi nei forni crematori, quando si decise di fare spazio per l’arrivo delle prigioniere politiche.
Soprattutto, conosciamo i nomi di coloro che la notte del 16 maggio 1944 appresero, dall’archivista Tadeusz, la notizia del trasferimento e si ribellarono, ispirando migliaia di prigionieri dentro Auschwitz-Birkenau a fare lo stesso. La loro rivolta contro le Ss, nata da barricate e guerriglia, armata di pettini e forchette, durò quasi tre mesi. Fu soppressa con la fame, le epidemie e, infine, i forni. Per i romanì internati nei campi non c’erano registri di morte e, anche per questo motivo, i numeri dello sterminio in Europa variano dai 200 mila al milione.
In Italia, il memoricidio nei confronti del cosiddetto “Porrajmos”, del “divoramento” dei popoli romanì, cioè rom, sinti, manush e kalé, durante il nazifascismo, persiste. In Italia, dove il primo campo di prigionia per i romanì anticipa le leggi razziali di dodici anni, il memoricidio sembra tramandarsi di decennio in decennio, affinché, sulla loro pelle, si possa sempre fare campagna elettorale. Tra i campi di prigionia ad hoc ricordiamo quello di Agnone, di Berra, di Bolzano e di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena, a cui sopravvissero i “Leoni di Breda Solini”. I Leoni erano un distaccamento partigiano di sinti circensi e giostrai attivi al confine tra l’Emilia e la Lombardia, specializzato nel disarmo e nel sabotaggio. Si conquistarono il soprannome di “Leoni” dopo aver disarmato una pattuglia dell’avanguardia tedesca. Sono ricordati perché rifuggivano, il più possibile, la violenza e perché alternavano mattinate di spettacoli nelle piazze con nottate di azioni sabotatrici.
Il memoricidio del divoramento dei popoli romanì nei campi di prigionia è superato forse solo dall’oblio intorno al loro ruolo nella Resistenza: non ricevettero mai compensazioni né riconoscimenti. Tra i partigiani romanì fa eccezione Amilcare “Taro” Debar, partigiano nella 48° Brigata Garibaldi “Dante Di Nanni”, attiva nella liberazione di Torino. Finita la guerra di Liberazione, a Taro non fu riconosciuto il suo impegno durante la Resistenza finché Sandro Pertini non divenne presidente della Repubblica.
Nel dopoguerra, né la Germania né l’Italia avviarono alcun procedimento per il riconoscimento formale dello sterminio etnico compiuto nei confronti delle popolazioni romanì: in Germania figurano fra le «altre vittime». In Italia, la legge che ha istituito il Giorno della Memoria non fa alcun riferimento al Porrajmos. Dal 2015, la comunità internazionale ha istituito una giornata per ricordare il divoramento: il 2 agosto, anniversario della repressione della rivolta di Auschwitz. Canta così l’inno rom “Gelem, gelem”: «Sono andato, sono andato per lunghe strade, ho incontrato rom felici […] una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi».Antonio Giangrande. Foibe: le vittime della realpolitik. Il silenzio degli ignavi italiani sotto il giogo occidentale. Il comunista dittatore sanguinario Tito per battere il comunista dittatore sanguinario Stalin.
Contro l’estinzione dell’italianità. Un fiocco o nastro nero per gli emarginati, diseredati, gli ingiustamente condannati o detenuti, i tartassati e le vittime dei reati impuniti e comunque vittime di ingiustizie. Italiani dimenticati dal politicamente corretto e dalla politica oligarchica che li valuta meno di gay ed immigrati. Basta con il comunismo di destra (fascismo) ed il comunismo di sinistra (stalinismo) e con l’ostentazione fuori luogo della loro religione.
Così, nel novembre 1953, i triestini lottarono per ritornare italiani (e vinsero). Una lezione-spettacolo, con Parlato e Rossi, per riscoprire la rivolta dimenticata. Matteo Sacchi il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.
Morirono in sei. Senza retorica potremmo considerarli gli ultimi morti del Risorgimento. Settant'anni fa, dal 3 al 6 novembre, un numero enorme di cittadini di Trieste insorse per cercare di far sì che la città ritornasse italiana e ne nacquero scontri violenti. Una vicenda quasi dimenticata che torna a rivivere oggi al Politeama Rossetti di Trieste (alle 18 e 30) in una lezione spettacolo con due studiosi, Davide Rossi e Giuseppe Parlato, dal titolo I moti del '53 e la curatela del direttore del teatro Paolo Valerio (con la collaborazione della Lega Nazionale di Trieste della Regione Friuli Venezia Giulia e del comune di Trieste).
Ma vediamo di riassumere brevissimamente cosa furono questi moti, che per il loro doloroso coraggio meriterebbero una narrazione minuto per minuto (ma per fortuna ci pensa lo spettacolo a rendere la loro drammaticità e complessità). Con la fine della Seconda guerra mondiale fu stabilito nel 1947 dal Trattato di pace che dovesse sorgere il Territorio Libero di Trieste: indipendente sotto l'egida dell'Onu e destinato a fare da cuscinetto fra Italia e Jugoslavia. A causa dei veti incrociati tra gli ex Alleati non si riuscì a trovare un accordo. Così la Venezia Giulia rimase divisa in due zone: la Zona A, governata dagli Alleati, e la Zona B, sotto Belgrado. Per 7 anni le diplomazie italiane e jugoslave lavorarono per ottenere l'intero controllo del territorio, creando così una situazione (esplosiva) di stallo. Nell'agosto del 1953 l'appena nato governo Pella decise la mobilitazione delle truppe. Una scelta dovuta a diverse paure, un'esplosione spontanea di moti, una scelta indipendentista di Trieste, l'intervento armato jugoslavo. L'Italia intanto preme perché in entrambe le zone si svolga un plebiscito. Le tensioni crescono sino che, il 3 novembre, anniversario di quando Trieste, nel 1918, è diventata italiana iniziano ad essere issati tricolori in molte parti della zona A. Il 4 novembre i cittadini di ritorno dal sacrario di Redipuglia improvvisano una manifestazione per l'italianità di Trieste. La Polizia, guidata da ufficiali inglesi, interviene per sequestrare il tricolore dei manifestanti: ne seguono scontri e sassaiole, che in pochi minuti si propagano in tutta la città.
Il giorno dopo, il 5 novembre, gli studenti manifestano di fronte alla chiesa di Sant'Antonio. Al passaggio di un ufficiale inglese, partono dei sassi. L'ufficiale viene strattonato e gettato a terra; intervengono dei rinforzi, i ragazzi si rifugiano dentro la chiesa, dove vengono inseguiti, molti sono feriti. Il vescovo, Antonio Santin, stabilisce per il pomeriggio la cerimonia di riconsacrazione del tempio: partecipano migliaia di cittadini. Nascono nuovi incidenti. Un ufficiale inglese apre il fuoco, lo fanno anche degli agenti: muoiono Piero Addobbati e Antonio Zavadil, mentre decine di altri vengono feriti. Il 6 novembre la città è invasa da una folla immensa, decisa a travolgere i simboli dell'occupazione. In Piazza Unità d'Italia tocca al palazzo della Prefettura: gli agenti reagiscono sparando sulla folla, ferendo decine di persone e uccidendo Francesco Paglia, Leonardo Manzi, Saverio Montano ed Erminio Bassa.
Ma a quel punto diventa chiaro a tutti che la situazione non è più gestibile. Le diplomazie devono trovare una soluzione: 11 mesi dopo, nel 1954, con il memorandum di Londra la Zona A è finalmente assegnata all'amministrazione civile italiana, la Zona B rimane alla Jugoslavia. Questa vicenda rivive nella lezione spettacolo in tutte le sue sfumature, lezione che si progetta di fare andare in tournée in Italia.
Giorno del Ricordo, non solo le foibe: in quel confine orientale corrono tutti i tormenti del ’900. Il 10 febbraio è la data dedicata alla rievocazione delle vicende avvenute nel secolo scorso nell’Alto Adriatico. La memoria di questa tragica pagina di storia è difficile. E spesso strumentalizzata. Pierangelo Lombardi su L'Espresso il 9 febbraio 2023
Il 10 febbraio è una data del calendario civile italiano: il Giorno del ricordo. Nel corso di formazione per insegnanti organizzato l’autunno scorso dall’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la sfida è stata quella di andare al di là delle sovraesposizioni mediatiche e delle ingerenze politiche, che non aiutano, ma al contrario allontanano la piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’Alto Adriatico.
Il ragionamento di lungo periodo, proposto agli insegnanti, è stato quello di riflettere sul tema che proprio la legge istitutiva del Giorno del ricordo, del 2004, indica come «la tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo Dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Perché in questa tragica pagina di storia non c’è solo una memoria difficile e complessa, ma, come ha suggerito Guido Crainz, c’è in «quel confine tormentato tutto il nostro Novecento».
Ci sono i nazionalismi e i processi di nazionalizzazione, dove uno spirito discriminatorio e per nulla inclusivo troppo a lungo ha soffiato sul Vecchio Continente; c’è il trauma della Prima guerra mondiale, con la «italianizzazione forzata» imposta dal fascismo alle popolazioni slovene e croate; ci sono la violenza e la brutalità dell’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941; c’è la tragica lezione della Seconda guerra mondiale, una guerra totale, in cui veniva meno la distinzione tra militari e civili, dove l’imbarbarimento del conflitto, specie sul fronte orientale, è stato massimo.
Ancora: c’è l’incontro tra violenza e ideologia politica che si fa devastante e dove, in un clima torbido e inquietante, s’intrecciano il giustizialismo politico e ideologico del movimento partigiano titino, il nazionalismo etnico e, soprattutto in Istria e nelle aree interne, la violenza selvaggia tipica delle rivolte contadine. Ci sono le violenze contro le popolazioni italiane del settembre del 1943 e del maggio-giugno del ’45, di cui le foibe, gli arresti e il clima di terrore che spinge all’esodo forzato migliaia di italiani sono simbolo ed espressione; c’è la volontà di Tito e del comunismo jugoslavo di annettere l’intera Venezia Giulia, con un’epurazione volta a eliminare – senza andare troppo per il sottile – qualsiasi voce di dissenso.
Ci sono, infine, le logiche della Guerra fredda e della radicalizzazione dello scontro ideologico nell’immediato Dopoguerra. Il tutto sulla pelle di decine di migliaia di persone. Un vero e proprio tornante di fughe e di espulsioni in tutta Europa, infatti, si accompagna agli esordi della Guerra fredda e a una più generale ridefinizione dei confini europei e dei loro significati.
Diventa, quindi, sempre più necessario, nell’affrontare questa pagina di storia, contestualizzarla con grande rigore, respingere tesi negazioniste o riduzioniste, così come le banalizzazioni e le verità di comodo più o meno finalizzate a uno scorretto uso pubblico della storia. Occorre assumere un ruolo attivo nel processo di rivisitazione critica, che sola può portare al superamento delle lacerazioni del passato. Anche perché le vicende dell’area giuliano-dalmata costringono chi le affronta a misurarsi con temi assai più generali e con fenomeni centrali per la comprensione della nostra contemporaneità.
Anpi, fango sulla vittima delle Foibe: l'oltraggio a Norma Crosetto. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 7 ottobre 2023
I partigiani vogliono-pretendono-impongono una convenzione per spiegare la storia agli studenti. Ma se ti azzardi a parlare di foibe, a parlare del sacrificio orrendo di Norma Cossetto, ti riempiono di male parole. A 80 anni da quel martirio l’Anpi non è riuscita a pigiare sul pedale del freno e dalle sue varie articolazioni territoriali sono uscite dichiarazioni davvero orribili. Negano la storia proprio coloro che vogliono dal ministro Valditara una specie di esclusiva nelle scuole che probabilmente hanno dimenticato di frequentare in gioventù. Norma Cossetto fu orrendamente umiliata, seviziata e gettata nelle foibe come italiana. E per nient’altro. La colpirono a morte i macellai del maresciallo Tito. E loro, i signori dell’Anpi, anziché inchinarsi alla memoria di quella ragazza assassinata nel fiore degli anni, osano insolentirla.
Si distinguono in Piemonte, come scrive Anpi Valle Elva: «La vicenda di Norma Cossetto è perlomeno controversa» e già questo basterebbe a chiudere ogni discorso. Poi, l’oltraggio: «Studi rigorosi e mai confutati hanno verificato che non ci sono prove che sia stata uccisa da partigiani “slavi”». Sarà stato un suicidio? Arrivano a scrivere che «parafrasando il cronista che per primo si occupò del caso del bandito Salvatore Giuliano si potrebbe dire che l’unica cosa certa è che è morta». Anche la pietà... Tutto questo e altre bestialità perché l’amministrazione comunale di Ivrea ha concesso il suo patrocinio alle celebrazioni in ricordo della Martire a cui l’Anpi negherebbe anche il diritto alla sepoltura. Ma va detto che questi signori non sono soli. Ieri una brutta pagina si è aperta anche in Parlamento. Alla Camera dei deputati parlava il deputato Fabio Rampelli, di Fdi, vicepresidente dell’assemblea, proprio in memoria di Norma Cossetto.
Il surreale antifascismo del nuovo millennio. Se non avessimo visto l'altro ieri con i nostri occhi qui a Firenze la cosiddetta manifestazione antifascista degli studenti del liceo Michelangiolo, avremmo pensato a una rievocazione cinematografica del tempo che fu. Paolo Armaroli il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.
Se non avessimo visto l'altro ieri con i nostri occhi qui a Firenze la cosiddetta manifestazione antifascista degli studenti del liceo Michelangiolo dopo gli scontri tra giovani di destra e di sinistra, avremmo pensato a una rievocazione cinematografica del tempo che fu. E allora diciamo una buona volta le cose come stanno dal punto di vista storico e costituzionale. Morto il fascismo per indisposizione del dittatore, ben presto anche l'antifascismo storico quello vero al quale ci inchiniamo e non quello da barzelletta che si è visto in seguito non ha più ragion d'essere.
Tirando le cuoia, l'antifascismo verace partorisce due creature. Da una parte si afferma la democrazia liberale di Alcide De Gasperi e dei suoi alleati. Ed ecco la scissione di Palazzo Barberini del gennaio 1947, quando Giuseppe Saragat rompe con Pietro Nenni perché opta per una scelta di civiltà, e il trionfo del 18 aprile 1948 del leader democristiano, che conferma una scelta di campo irreversibile. E dall'altra i Nenni e i Togliatti, allora uniti dal patto di unità d'azione, che si schierano a favore di Peppone Stalin, uno spietato dittatore come pochi altri. Nell'immediato dopoguerra nostalgici del fascismo, monarchici e comunisti si contavano a milioni. Mentre adesso sono quasi scomparsi del tutto. Comunisti compresi, da quando Achille Occhetto, meglio tardi che mai, pensò bene di disfarsi di un partito considerato sempre più imbarazzante. La pretesa di resuscitare adesso il monolite antifascista è semplicemente surreale, visto e considerato che non è più un monolite dagli anni dell'immediato dopoguerra. Tutti dobbiamo invece osservare la Costituzione. Una Carta che si fonda soprattutto su due articoli: l'articolo 3 e l'articolo 21, entrambi caratterizzanti un ordinamento liberaldemocratico. Il primo sancisce il principio di eguaglianza davanti alla legge senza discriminazione alcuna. Il secondo riconosce a tutti il diritto di libera manifestazione del pensiero. Ora, sarà anche vero che la nostra è la Costituzione più bella del mondo. E se lo dice Benigni, che pure non è un costituzionalista, possiamo crederci. Resta il fatto che è una illustre sconosciuta. Ne abbiamo avuto la riprova proprio in questi giorni. Alcuni studenti dei Collettivi di sinistra del liceo classico Michelangiolo di Firenze, con in mano un cestino dell'immondizia, hanno invitato alcuni giovani di destra a deporvi i loro volantini considerati robaccia e a togliere il disturbo sui due piedi perché udite, udite non ne condividono il contenuto. E nel corso della manifestazione dell'altro ieri hanno chiarito si fa per dire il loro pensiero: «Se arrivano davanti alle scuole, troveranno chi li scaccia». Urge un corso accelerato di educazione civica. Che aspettano i professori a farsi parte diligente?
Il corteo "anti-violenza" inneggia alle foibe e a Tito. A Firenze 2.000 in piazza insultano il governo. Ma quando i pestaggi sono rossi, silenzio totale. Francesco Giubilei il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.
Dopo i fatti avvenuti nei giorni scorsi al Liceo Michelangiolo, i collettivi studenteschi, le sigle della sinistra e le associazioni antifasciste, sono scese in piazza lunedì nel tardo pomeriggio a Firenze in una manifestazione che si è trasformata in una sfilata degli orrori. Il corteo, nato per protestare «contro l'aggressione subita da due giovani davanti al Liceo Michelangiolo» (anche se in un nuovo video si sostiene sia avvenuta «non un'aggressione ma una rissa»), si è aperto con lo striscione «Liberiamoci dal fascismo e dal governo Meloni».
Si potrebbe già obiettare sul collegamento tra quanto avvenuto fuori dal liceo fiorentino e il governo ma è nulla rispetto allo spettacolo andato in scena per le strade del capoluogo toscano. I manifestanti, circa duemila, si sono radunati a Campo di Marte per poi dirigersi verso via Frusa, sede di Azione Studentesca (il movimento a cui appartengono i militanti coinvolti nei fatti del Liceo Michelangiolo).
Nel tragitto sono stati intonati cori contro la polizia e i giornalisti e, mentre circolava un volantino di solidarietà all'anarchico Alfredo Cospito e contro il 41Bis, si è alzato un coro di minacce al presidente del Consiglio: «Meloni fascista, sei la prima della lista». Non paghi, alcuni dei presenti hanno inneggiato alle foibe gridando «Viva le foibe» a cui è seguita la canzoncina «il compagno Tito ce l'ha insegnato...» per poi concludere con «fascista di merda, ti lascio morto in terra».
A fare da contorno le bandiere dell'Urss e della Jugoslavia comunista di Tito, un contesto da cui di certo non può arrivare nessuna lezione di democrazia. E, non a caso, il corteo è culminato con un lancio di bottiglie contro gli agenti di polizia schierati in assetto antisommossa. Eppure, nonostante il tenore dell'iniziativa, non è arrivata una parola di condanna da parte di politici e opinionisti di sinistra che nei giorni scorsi hanno accusato il governo di non prendere le distanze da Azione Studentesca.
Lo stesso silenzio che si registra ogni volta che i collettivi occupano le università e impediscono con l'uso della forza lo svolgimento di eventi o conferenze su temi o con ospiti a loro non graditi. D'altra parte, quando gli aggressori sono di estrema sinistra, nessuno dice niente. A maggio, a Bologna, alcuni esponenti di Fdi e Azione universitaria sono stati assaliti da militanti dei centri sociali. Quel giorno - la vicenda è raccontata nel portale di Nicola Porro - intervennero le forze dell'ordina. La procura di Bologna ha chiuso le indagini chiedendo il rinvio a giudizio per otto aggressori di sinistra. Di questo fatto non si è parlato né sono state organizzate manifestazioni.
Due pesi, due misure. I presidi degli istituti fiorentini condannano quanto accaduto al Michelangiolo e, dopo i dirigenti scolastici dell'Istituto Salvemini Duca d'Aosta e del Liceo Pascoli, anche la preside del liceo Leonardo Da Vinci è intervenuta affermando che: «Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque». Mentre la Procura ha aperto un fascicolo nei confronti di sei ragazzi coinvolti nelle violenze del Liceo Michelangiolo, l'auspicio è che i dirigenti scolastici fiorentini prendano allo stesso modo le distanze da quanto andato in scena per le strade di Firenze perché le minacce, la violenza e inneggiare a regimi totalitari o a dittatori, deve sempre essere condannato da qualsiasi parte arrivi.
Inneggiano alle foibe e a Tito: ecco cosa rischiano ora i compagni. Durante il corteo di ieri a Firenze cori per inneggiare a Tito e alle foibe. L'Unione degli istriani: "Pronti a querelare". Matteo Carnieletto il 22 Febbraio 2023 su il Giornale.
La risposta è arrivata dall'Unione degli istriani. Secca. Chiara. Definitiva. Dopo aver visto i video in cui gli antifascisti fiorentini inneggiano a Josip Broz Tito e alle foibe, l'associazione di esuli di Trieste si è detta pronta a querelarli.
L'annuncio è stato dato in un comunicato in cui l'Unione, dopo aver ripercorso le offese degli antifà, afferma: "Non postiamo il video, non volendo pubblicizzare quello che comunque gira già dappertutto sui social: di bandiere rosse, ed addirittura jugoslave, con quella lurida stella vermiglia, ne abbiamo viste abbastanza, dal 1954 in avanti e ben prima, quando eravamo ancora a casa nostra, in Istria. Stavolta però l'Unione degli Istriani non intende stare a guardare. Il presidente Massimiliano Lacota in una nota diramata poco fa ha fatto sapere, a chiare lettere, che il limite è stato oltrepassato".
E, per rendere ancora più chiara l'idea, Lacota ha annunciato: "Denunciamo una volta per tutte questi delinquenti del linguaggio che si permettono di infangare la nostra memoria, che è quella dei Martiri delle Foibe. È giunto il momento di che si assumano le loro responsabilità davanti alla legge per queste manifestazioni di intolleranza, che non possono più rimanere impunite".
Una dura presa di posizione è venuta anche da Giampaolo Giannelli, coordinatore toscano Unione degli Istriani, che in una nota ha affermato: "A seguito degli avvenimenti accaduti all'esterno del liceo Michelangelo, gli studenti dei collettivi di sinistra hanno organizzato una manifestazione antifascista. Peccato che la manifestazione, oltre a momenti di tensione culminati nel lancio di petardi contro la polizia, abbia visto sventolare le bandiere della ex Jugoslavia di Tito, il massacratore di migliaia di italiani. Peccato, soprattutto, che si siano ascoltati cori vergognosi inneggianti a Tito ed alle foibe, tutti documentati da video che circolano in rete. Ci aspettiamo da parte della politica, tutta - aggiunge -, una ferma condanna dell'accaduto, che costituisce una grave offesa ai nostri martiri ed alle famiglie che hanno affrontato il dramma dell'esodo per sfuggire alla ferocia dei partigiani comunisti titini".
Ieri uccisi nelle foibe, oggi ostaggi dell’uso politico della storia. La doppia condanna degli italiani d’Istria. Il lungo silenzio della sinistra e la chiassosa rivalsa ideologica della destra non permettono di costruire una memoria condivisa sulla tragedia del fronte orientale tra 1943 e 1945. Gigi Riva su L’Espresso il 20 Febbraio 2023.
Dopo le solite discussioni furibonde e tutte ideologiche che hanno coinvolto persino il festival di Sanremo in occasione del Giorno del Ricordo (10 febbraio), è il caso di aprire una riflessione pacata sulle foibe, senza semplificazioni di parte e tenendo conto della complessa e tormentata storia del nostro confine orientale.
C’è un presupposto imprescindibile per qualunque analisi serena e mondata da interessi partitici: la Venezia Giulia, l’Istria tutta, avevano storicamente tre radici: italiana, slovena e croata. I tre gruppi etnici convissero più o meno pacificamente fino a metà Ottocento quando cominciarono ad affiorare sentimenti di appartenenza che sfoceranno nella formazione degli Stati nazione. La regione faceva allora parte dell'impero austro-ungarico che, dopo la perdita del Veneto nella Terza guerra d'indipendenza, temendo l’irredentismo italiano e la volontà di riunire quei territori al neonato Regno d’Italia, ne favorì la slavizzazione «con energia e senza riguardo alcuno» per usare una frase dell'imperatore Francesco Giuseppe al Consiglio della Corona del 12 novembre 1866. Si può far risalire a quell'epoca l’inizio di tensioni, odi e vendette che si protrarranno per quasi un secolo.
Dopo la sconfitta dell’Austria-Ungheria nella Prima guerra mondiale, l’Italia con il Trattato di Rapallo del 1920 ebbe il controllo di una larga fetta dell’Istria e di una parte del litorale, in cui abitavano circa 356 mila italiani e 490 mila slavi. Benito Mussolini, anche prima di arrivare al potere, aveva idee chiare su come risolvere per le vie spicce il rapporto con le altre popolazioni. A Pola, il 22 settembre 1920, disse: «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone. Io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
E bastone fu. Squadre in camicia nera si occuparono di dare contenuti alle parole del duce. Fu proibito l’uso delle lingue slovena e croata, fino all’episodio estremo di un anziano di 92 anni impiccato al campanile di una chiesa perché parlava nel suo idioma non conoscendone altri. L’opera di pulizia culturale fu spietata. Case del popolo bruciate, così come le scuole degli slavi, italianizzati i cognomi persino sulle lapidi dei cimiteri, abolite le associazioni culturali, sociali e sportive. Italianizzazione forzata (leggi il libro “Il martire fascista”, di Adriano Sofri, Sellerio).
Interi paesi bruciati, contadini espropriati delle loro terre a favore dei coloni italiani mandati a mutare la composizione demografica della regione, pestaggi e arresti indiscriminati, centinaia di processi sommari a chi si opponeva al regime. Omicidi, ovviamente. E il gerarca Cobolli Gigli che minacciava chi si ostinava a usare la propria lingua: «Corre il pericolo di trovare sepoltura nella foiba». Si calcola che almeno centomila persone furono internate nei campi di concentramento. Ancora Mussolini: «Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazione e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali». Una prassi diffusa nel Ventesimo secolo che usò anche Stalin.
La situazione peggiorò con l'invasione dell’Italia fascista del 1941 e la creazione della provincia di Lubiana, quando crebbero fucilazioni e deportazioni. Per fare un esempio, il 12 luglio del 1942 su ordine del prefetto della provincia di Fiume Temistocle Testa tutti i 91 uomini del villaggio di Podhum di età compresa tra i 16 e i 64 anni furono fucilati.
Questo il quadro prima del 1943, dell’armistizio, dell’operazione Nubifragio con cui i nazisti volevano assumere il controllo della Venezia Giulia, della controffensiva dei partigiani di Tito che toccò il suo apice di crudeltà con gli infoibamenti.
Le foibe sono cavità carsiche profonde fino a 200 metri in cui furono gettati i corpi di migliaia di italiani. Alcuni ancora vivi e che morirono dopo un’indicibile agonia. Migliaia di italiani. Già ma quanti? Gli storici più prudenti accreditano una cifra tra i 3 e i 5 mila, altri arrivano a quattro volte tanto, 20 mila. Fra di loro non solo fascisti, ma innocenti uccisi perché italiani. Seguì più tardi l’esodo verso l’Italia di 250-350 mila italiani che non volevano restare nella Jugoslavia comunista.
La nostra sinistra ebbe l’indiscussa colpa di coprire per lungo tempo con un velo di silenzio queste tragiche vicende in nome dei buoni rapporti tra Palmiro Togliatti e Tito e per il timore che l’intera questione fosse decrittata con la lente dell’ideologia: una vendetta comunista contro gli italiani fascisti. Mentre, se è innegabile che esistesse anche questa componente, la vendetta scaturiva anche dai torti subiti nel ventennio fascista e dunque era piuttosto una rivincita etnica.
La destra, all’opposto, ha voluto usare solo la lente ideologica, come se si potesse racchiudere il problema del confine orientale limitandosi all’analisi del periodo 1943-45 e senza mai rammentare i nostri misfatti precedenti. Un uso della storia à la carte, a seconda del proprio interesse elettorale. Ogni anno, per il Giorno del Ricordo, istituito dal governo Berlusconi nel 2004, riemergono queste tendenze e contrapposizioni a causa delle quali risulta impossibile creare una memoria condivisa. E questo nonostante gli sforzi soprattutto dei presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella di leggere i fatti con uno sguardo mondato dai pregiudizi. Per quanto li si possa contraffare, i fatti sono ostinati e, alla lunga, riemergono come un fiume carsico.
Inno alle foibe, botte e droga: lezioni di anarchia ai giovani. Nei collettivi e sui social, i gruppi antagonisti cercano di «educare» gli studenti. Che giocano alla rivoluzione. Francesca Galici il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.
Centri sociali e anarchici fanno ancora proselitismo in scuole e università. Niente di nuovo, una strategia che si ripete: una cantera di giovani volubili, sobillati da ideali rivoluzionari, che poi vengono messi nelle prime file dei cortei violenti, come si è già verificato in diversi episodi, anche recenti. Le occupazioni sono il pretesto migliore, i collettivi studenteschi il «piede di porco» delle organizzazioni per infiltrarsi nelle istituzioni scolastiche. Siamo entrati nelle chat di alcuni di questi per capire come funzionano e come si muovono, trovando conferme sul loro modus operandi.
Abbiamo individuato il leader di uno dei collettivi in un giovane non ancora maggiorenne, molto vicino a uno dei centri sociali più attivi nelle guerriglie No Tav. Lui stesso, come dimostrano i suoi social, ha preso parte agli assalti al cantiere di San Didero, l’ultimo nel giorno dell’Epifania. È a lui, figura più carismatica, che fanno riferimento tutti gli altri ragazzini, ammaliati dal fascino dello scontro violento con le istituzioni. Si sentono adulti che giocano alla rivoluzione, insultano gli «sbirri», parlano di «lotta armata» e condividono le foto, diventate celebri, degli Anni di Piombo a Milano. Dicono di volere lo «scontro» con le forze dell’ordine alle quali rispondere con le «botte», ma pochi messaggi dopo spiegano di non poter partecipare alle riunioni del collettivo, perché la loro mamma non vuole.
Il giovane leader inneggia alle foibe e nel Giorno del Ricordo ha cercato di coinvolgere gli altri giovanissimi a partecipare al contro-corteo per mettere in pratica gli insegnamenti del «laboratorio» seguito durante l’occupazione. Quale laboratorio? Quello dell’antifa-boxe. Durante l’occupazione, infatti, in uno dei licei sono stati organizzati alcuni incontri con personaggi esterni alla scuola, spesso provenienti dai centri sociali. Tra questi, appunto, anche quello di boxe-antifascista. Non è mancato il «corso sulla lotta No Tav», il tutto all’interno di un liceo statale, che per alcuni giorni è stato nelle mani di un manipolo di studenti. Nella maggior parte dei licei occupati, anche in quello a cui fa riferimento uno dei collettivi delle chat, si tengono incontri contro il 41-bis e in solidarietà con Alfredo Cospito, che vengono spesso organizzati e gestiti da personaggi vicini al mondo anarchico e dei centri sociali, esterni alla scuola.
L’occupazione a cui fa riferimento uno dei collettivi da noi seguiti è stata camuffata come un gesto di protesta nei confronti del ministro dell’Istruzione Valditara, anche solo per il fatto che sia vivo. Così si legge in una delle conversazioni che si trovano in questa chat, in cui gli pseudo-rivoluzionari parlano anche di cacciare gli «sbirri» in caso di tentativo di sgombero dell’edificio. Un trattamento che vorrebbero riservare anche al dirigente scolastico, per avere la massima libertà di azione. Libertà che, dal loro punto di vista, include anche quella di portare e consumare droga, come scrivono senza remora alcuna nelle loro conversazioni, quando parlano di ragazzi «fatti» durante l’occupazione.
Stando a quanto emerge dai messaggi che si scambiano a ogni ora del giorno e della sera, anche durante le ore scolastiche, a essere maggiormente coinvolti nei collettivi sono gli studenti delle classi inferiori, spesso quelli delle prime classi, che vengono forse attirati dall’idea di fare qualcosa di nuovo e di alternativo, senza comprenderne a pieno le implicazioni. Ragazzini che, appunto, vanno a scuola ed escono accompagnati dalla mamma e dal papà, ai quali gli impavidi «rivoluzionari» si preoccupano di non mostrare gli eccessi di queste occupazioni.
L'odio (vigliacco) dei rossi. Lapidi distrutte e imbrattate, convegni negazionisti o giustificazionisti. La sinistra continua ad odiare i martiri delle foibe. Matteo Carnieletto il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.
Ogni anno è sempre la stessa storia. Non appena si avvicina il 10 febbraio, il Giorno del Ricordo, i monumenti che ricordano il dramma del confine orientale vengono distrutti o imbrattati. A Cosenza, per esempio, largo vittime delle foibe è stato vandalizzato dalla scritta "Nas Tito" (il nostro Tito), accompagnata da falce e martello d'ordinanza. Un atto vigliacco. Compiuto nella notte. Come sempre.
Qualcosa di simile è successo a Firenze, dove alcuni ignoti (solo nei nomi, ma celebri per vigliaccheria e appartenenza politica) hanno scritto "vendetta" sopra il nome del largo intitolato agli italiani uccisi dai titini e fatto scomparire la scritta "martiri".
L'8 febbraio è stato il turno di Genova, dove è stato vandalizzato, con una grande zeta nera (simbolo dell'invasione russa dell'Ucraina), la targa "Passo vittime delle foibe". Sotto, su un muretto, è stata aggiunta la frase "l'unica giornata del ricordo è il 25 aprile". E poi la firma: "Genova antifascista". A inizio febbraio, a Vicenza, un manifesto che ricordava le vittime delle foibe è stato strappato e macchiato con della vernice rosso sangue. Ci fermiamo qui, ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo.
Parlare delle violenze compiute dai regimi comunisti nel Novecento è ancora oggi difficile. Chi scrive, ieri, ha presentato una mostra realizzata in collaborazione con l'Unione degli istriani, su Goli Otok, l'isola calva dove Tito rinchiudeva i cominformisti per rieducarli. Pochi giorni prima dell'evento, Rifondazione comunista mi aveva dato del "vampiro" che voleva approfittare del Giorno del ricordo per sponsorizzare un'iniziativa anti comunista. Non era così. Semplicemente, volevo (e voglio continuare a) raccontare le atrocità di un'ideologia, quella comunista, che ha sulla coscienza cento milioni di morti. Nonostante i proclami, nonostante si siano scomodati carabinieri e Digos, nessuno è venuto non dico a protestare (grazie al cielo), ma nemmeno a confrontarsi e a discutere del tema della serata. Come al solito: molto rumore per nulla.
Ma non c'è solo la violenza fisica. C'è anche una violenza fatta di mistificazioni della storia e di continue giustificazioni delle bestialità compiute da Tito e dai suoi sgherri. Come nota Carlo Fidanza, capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo: "Ci sono vittime che vanno ricordate e meritano rispetto, come giusto che sia, e vittime che, per qualcuno, invece no. Non solo sono stati cancellati per anni dai libri di storia, ma oggi i Martiri delle Foibe, vittime dell’odio anti italiano di Tito, devono fare i conti con negazionisti che, immancabilmente, il 10 febbraio, risorgono per convocare conferenze con l’intento di negare la realtà e con vandali che distruggono e imbrattano le targhe commemorative, come successo pochi giorni fa ai giardini Cavagnaro di Genova. Questi atteggiamenti negazionisti e irrispettosi sono assolutamente vergognosi e meritano parole di condanna da ogni parte politica".
Perché è questo il punto. A distanza di ottant'anni da quegli eventi, mentre la destra ha fatto pace coi fantasmi del suo passato, una certa sinistra si ostina a non cambiare. A giustificare i crimini commessi. A minimizzarli. A sfregiare la memoria dei morti altrui che poi, nel caso delle foibe, sono semplicemente morti italiani. E lo fa a suo modo: continuando ad odiare. In modo violento e vigliacco.
Dalla rubrica delle lettere de “la Repubblica” il 12 febbraio 2023.
Caro Merlo, per quale motivo la tragedia delle foibe è stata accuratamente tenuta nascosta agli italiani dal 1945 al 2003? Chi sono i responsabili di questa lunga rimozione della verità?
Pietro Volpi — Lovere (Bg)
Risposta di Francesco Merlo
Molti libri di storia ignorarono la “pulizia etnica” dei partigiani titini contro gli italiani che vivevano nelle terre di confine, l’Istria e la Dalmazia, e che poi nel 1947 furono cedute alla Jugoslavia come “pegno” della sconfitta. È una pagina di storia che la sinistra comunista, vergognandosene, trovava comodo negare ammettendo solo la repressione dei fascisti che, a loro volta, si erano macchiati della «brutale politica antislava — ha ricordato il presidente Mattarella — che era stata perseguita dal regime di Mussolini».
E invece la carneficina riguardò tutti gli italiani, comunisti compresi: un eccidio di massa, non solo nei baratri carsici, “le foibe” appunto. Gli storici accreditati calcolano che in 12 anni 250 mila italiani furono espropriati e cacciati dal nuovo regime nazionalista e comunista di Tito. Un ruolo, nel nascondimento della verità o nel suo ridimensionamento, ebbe la protezione, anche culturale, di cui godette in Occidente Tito, considerato un comunista “eretico” perché antistalinista.
Del resto, anche in Italia ci fu ostilità per gli esuli che rientravano: “i banditi giuliani”. Ancora oggi questa vicenda storica è “strumento di lotta politica” tra gli eredi del fascismo e gli eredi del comunismo. Ma “nessuno deve avere paura della verità… perché solo la verità rende liberi” ha concluso Mattarella in un discorso, tutt’altro che di circostanza, bello, rigoroso e appassionato che andrebbe pubblicato per intero.
«Io, testimone delle foibe: cacciati dalla nostra terra», oggi è il Giorno del Ricordo. Nel Giorno del Ricordo lo scrittore Diego Zandel racconta la tragica odissea dei connazionali vittime degli jugoslavi. Diego Zandel su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Febbraio 2023
Sgombriamo il campo dagli equivoci. Ma credo sia significativo introdurre la mia testimonianza sul Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, ancora troppe volte criticato, dal momento della sua istituzione nel 2004, quasi fosse una celebrazione di parte e non, quale è, una pagina di storia nazionale: sfugge a molti polemisti e commentatori che la cessione alla ex Jugoslavia di gran parte della regione Venezia Giulia è stato il tributo che l’Italia ha dovuto pagare per una guerra persa da tutti gli italiani, visto che le nostre forze armate erano composte da militari provenienti dalle più disparate regioni, dalla Sicilia al Piemonte. Così come gli istriani, fiumani e dalmati, vivendo sulla linea di confine, sono state le prime e uniche vittime sacrificali delle azioni compiute dall’esercito italiano in Slovenia e nei territori dell’ex Regno di Jugoslavia, esercito comandato da generali come il modenese Roatta e il romano Pirzio Biroli. Per vendicarsi, gli uomini di Tito non sono venuti fino a Bari o a Napoli o a Firenze, a Roma o a Milano o Torino. No, si sono fermati a Fiume e a Trieste e hanno fatto strame non solo dei nemici, ma anche di tutti coloro, partigiani e antifascisti innanzi tutto, che si opponevano all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. E tutto ciò anche con la complicità del Partito Comunista Italiano, ben testimoniata dalla lettera di Togliatti al Presidente del Consiglio d’allora Ivanoe Bonomi, in cui il segretario comunista stigmatizzava l’ipotesi che «le nostre unità partigiane prendano sotto controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell’esercito partigiano jugoslavo (…) Tutti sanno, infatti» continua Togliatti «che nella Venezia Giulia operano oggi le unità partigiane dell’esercito di Tito, e vi operano con l’appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s’intende, contro i tedeschi e i fascisti».
Il che, palesemente, non fu. Emblematica, in questo senso, la strage del 7 febbraio 1945, quando una formazione di gappisti comunisti italiani uccisero, presso le malghe di Porzüs, 21 partigiani della Divisione Osoppo, di tendenza azionista e cattolica. Gli eventi successivi, ovvero l’effettiva annessione ad essa di gran parte della Venezia Giulia in seguito al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, avrebbero travolto quel mondo abitato da persone appartenenti a etnie diverse, italiani, croati e sloveni, abituate da secoli a convivere in pace insieme, realtà testimoniate dall’ampia presenza sul territorio di famiglie miste: io stesso sono di famiglia italo-croata. Un equilibrio - anche questo non va assolutamente dimenticato - la cui rottura va imputata inizialmente al fascismo e alle sue leggi liberticide, come la chiusura delle scuole di lingua croata e slovena, il divieto di parlare croato o sloveno nei luoghi pubblici, l’italianizzazione forzata dei cognomi. Una rottura che il regime di Tito, poi, seppur all’insegna di facciata dello slogan «Fratellanza e unità», ha perpetuato con il determinato intento di ridurre, fino a sfiorare la pulizia etnica, la presenza italiana in Istria e a Fiume, così da costringere la stragrande maggioranza della stessa a lasciare la propria terra, la propria casa, il proprio lavoro, la famiglia, le tombe dei propri cari.
E quella gente che se n’è andata, 300 mila persone, raggiunta l’Italia, da cui si erano rifiutate di staccarsi, hanno dovuto subire l’onta della propaganda: da una parte di coloro, all’estrema sinistra, che li definiva fascisti, dall’altra, all’estrema destra, che strumentalizzava, in chiave anticomunista, la loro tragedia, così avvalorando ingiustamente il profilo politico di un popolo che, nella realtà, non era dissimile al resto d’Italia. E che ad essa, a questo Paese, anzi, ha dato qualcosa di più, soprattutto i tanti, tantissimi, che nonostante abbiano combattuto per liberare la loro terra dal nazifascismo, sono stati costretti a lasciare quella stessa terra. Tra questi anche i miei genitori. Nel luglio del 1947, novello sposo, fuggiva con mia madre da Fiume. Sarebbero stati destinati al campo profughi di Servigliano, nelle Marche, già campo di concentramento, dove vide la luce il loro unico figlio, la cui prima culla fu una cassetta di arance.
Foibe, la sinistra si adegui. I morti non valgono meno. Non bastavano tutte le brutture di questo strampalato Sanremo, ci mancavano anche i deliri di Selvaggia Lucarelli. Francesco Maria Del Vigo il 12 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Non bastavano tutte le brutture di questo strampalato Sanremo, ci mancavano anche i deliri di Selvaggia Lucarelli. La giornalista del quotidiano Il Domani, penna da sempre acuminata, questa volta ha sbagliato totalmente mira. Da giorni l'opinionista televisiva pubblica sui suoi profili social commenti al vetriolo sulla kermesse musicale. E, fin qui, non c'è nulla di male, lo fanno tutti, è uno dei tanti sport che accomunano gli abitanti dello stivale. Il piacere di criticare è una delle poche gioie gratuite e sane della vita. Però, tweet dopo tweet, alla Lucarelli sfugge qualcosa di troppo dai polpastrelli. Metti il gusto di far polemica, di essere controcorrente, di sconvolgere il lettore, di farsi vedere. Metti un po' quello che vuoi, ma la sparata è oltre i limiti della decenza: «Ora basta rompere il cazzo con E LE FOIBE?». Persino i suoi fedelissimi e numerosissimi follower si sono ribellati.
Contestualizziamo: è il giorno del ricordo, cioè quello nel quale si celebrano le migliaia di vittime italiane uccise dei partigiani jugoslavi. Una strage per anni dimenticata e colpevolmente taciuta: strappata dai libri di storia, negata dalla politica e misconosciuta dall'intellighenzia di sinistra sempre pronta a glissare sul crimini dei regimi comunisti. Al Festival di Sanremo, un po' per obbligo istituzionale e un po' per placare le polemiche sugli attacchi alla maggioranza, Amadeus ricorda le vittime della tragedia. Dieci minuti scarsi di programmazione su millanta ore di sterminata diretta. Un puntino microscopico di non sinistrismo in un oceano di melassa politicamente corretta, tra ossessione del gender, bordate quotidiane alla destra, denunce di razzismo inesistenti e tutte le varie sfumature possibili, immaginabili e inimmaginabili del politicamente corretto. Ma quel microscopico puntino è stato abbastanza per provocare l'ira della Lucarelli, è stato sufficiente a farle dire che adesso bisogna smettere di «rompere il cazzo con e le foibe». E invece, dopo più di cinquant'anni di vergognoso e complice silenzio, continueremo a romperlo. Perché quei morti non siano mai più di serie B.
Foibe: la verità storica oltre la propaganda. Paolo Arigotti su L'Indipendente l’11 Febbraio 2023.
Anche ieri, come ogni anno dal 2004, il 10 febbraio è stato “il Giorno del ricordo” dedicato alle Foibe e come sempre non sono mancati momenti per ricordare quella che spesso viene definita «la più grande tragedia del popolo italiano». La commemorazione non ha ovviamente risparmiato il palco di Sanremo dove, di fronte a milioni di spettatori, Amadeus ha ricordato «l’eccidio di migliaia di nostri connazionali gettati nelle foibe dalle milizie del maresciallo Tito». Alla foiba di Basovizza si è recato invece il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha parlato di «pulizia etnica» ai danni degli italiani. Ma cosa furono realmente le Foibe e cosa sappiamo, utilizzando solo le fonti storiche, su quanto avvenne? Chi ci finì dentro? Per quale ragione? Quanti furono realmente gli infoibati? E per ultimo: si trattò realmente di un caso di pulizia etnica ai danni degli italiani o la questione è in realtà più complessa?
Il Giorno del ricordo
In memoria delle vittime delle foibe e degli esodati della regione giuliano-dalmata, la legge n. 92 del 30 marzo 2004 ha istituito la giornata dedicata al ricordo, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno: in tale data, nel 1947, furono firmati a Parigi gli accordi pace che chiudevano ufficialmente il secondo conflitto mondiale. I fatti che vengono commemorati il 10 febbraio, perlomeno quelli riferiti ai cosiddetti infoibati, si verificarono quando il conflitto era ancora in corso – nell’autunno 1943 – e quando volgeva al termine (primavera del 1945), mentre già si profilava all’orizzonte lo scenario della guerra fredda e dei due blocchi contrapposti.
La divulgazione degli eventi, in generale, si è spesso concentrata su quanto accadde nella primavera del 1945 e negli anni successivi con il grande esodo, ma non va dimenticato come nei mesi di settembre e ottobre del 1943, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, si consumò, speciale nelle aree rurali istriane, una spirale di violenze (omicidi, sevizie, stupri, etc.) che colpì tutti coloro, non solo italiani, che furono ritenuti colpevoli di aver collaborato col regime fascista e con le autorità di occupazione. A farne le spese non soltanto militari o gerarchi, ma anche membri delle forze dell’ordine e comuni cittadini, come funzionari pubblici, impiegati e insegnanti, proprietari terrieri, persino ostetriche e levatrici. A prescindere dalla nazionalità.
I fatti del 1943
A differenza di quanto avverrà a fine guerra, quando si parlerà di “violenza di Stato”, i fatti del 1943 si configurarono per lo più come un moto (più o meno) spontaneo di ribellione e vendetta contro quelli che erano ritenuti i protagonisti della passata occupazione. Un ulteriore distinguo tra le due ondate di violenza investe il profilo spaziale: i fatti del 1943 investirono soprattutto l’Istria, mentre nel 1945 l’epicentro si spostò nelle province di Trieste e Gorizia. Inoltre, se la prima delle due ondate di violenza scaturì dal crollo del Fascismo e dal successivo armistizio di Cassibile, nel 1945 fu il regime di occupazione nazifascista, che aveva istituito in Friuli, nella Venezia Giulia e in Dalmazia la cosiddetta “zona di operazioni litorale adriatico” (controllata di fatto dai tedeschi) a implodere, travolto dalla sconfitta bellica.
Tornando all’autunno del 1943, poco prima dell’arrivo delle forze di occupazione tedesche, si creò una sorta di limbo, nel quale il crollo del regime di occupazione dell’Italia fascista lasciò spazio, per alcune settimane, alle forze antagoniste, guidate dal movimento di liberazione partigiano. Questo ultimo, approfittando del fatto che i tedeschi in un primo momento si preoccuparono di occupare i centri nevralgici di Trieste, Pola e Fiume – il che spiega perché nella prima ondata di violenza ad essere colpita fu più che altro l’Istria -, proclamarono l’annessione della penisola istriana alla Iugoslavia, dando avvio – senza una organizzazione definita, per lo meno senza un disegno organico – alla resa dei conti con gli ex occupanti; in questa fase nacquero i “poteri popolari” e furono celebrati in tutta fretta processi sommari ed esecuzioni ai danni dei “nemici del popolo”, che sfociarono nei primi infoibamenti.
Gli italiani “brava gente”
La narrazione politica delle Foibe, introdotta specialmente per volere dei partiti della destra italiana, si è concentrata su una narrazione vittimistica dei fatti. Nel senso che questi vengono interpretati come un atto di violenza etnica immotivata ai danni degli italiani, attribuiti a una cattiveria immotivata degli slavi e alla perfidia criminale del leader comunista dei partigiani jugoslavi: il maresciallo Josip Broz Tito. Ma ogni fatto storico deve essere inserito in un contesto, ogni fatto va illustrato mettendo in campo gli antefatti, se no è impossibile farsi una idea corretta di un accadimento storico.
La domanda da porsi in questo caso è la seguente: per quale ragione vi era tanto risentimento nelle zone jugoslave che per anni erano state sottoposte all’occupazione fascista? In Italia si è imposta oggettivamente una memoria selettiva dei fatti. Per quanto ultimamente, ad onor del vero, l’argomento cominci a essere dibattuto e non sia solo più appannaggio di storici e addetti ai lavori, non ci dovremmo mai stancare di ricordare come, nella provincia di Lubiana, occupata nei primi anni di guerra assieme alla costa dalmata e alla provincia di Zara, gli italiani praticarono una dura politica di occupazione e feroce italianizzazione forzata, con tanto di leggi e provvedimenti molto stringenti nei confronti delle popolazioni slave: per esempio fu vietato, già a partire dagli anni venti per le parti annesse dopo la Prima Guerra Mondiale, l’uso delle lingue locali. E con la guerra le cose peggiorarono.
Gli italiani istituirono nelle zone occupate veri e propri campi di concentramento, dove furono internate le (numerose) popolazioni locali contrarie alla politica fascista di assimilazione. Resta negli annali un telegramma dell’allora comandante dell’XI corpo d’armata, generale Mario Robotti che scrivendo ai suoi sottoposti nell’agosto del 1942, riportava una frase lapidaria (tutta in maiuscolo): «SI AMMAZZA TROPPO POCO!». In sostanza, l’invasione e l’occupazione nazifascista della Jugoslavia, iniziata nell’aprile del 1941, divenne ogni giorno più cruenta, rappresentando un vulnus al mito nostrano degli italiani “brava gente”. In realtà, per demolirlo basterebbe avere contezza dei crimini perpetrati, per l’appunto, in queste regioni e in Grecia, e non parliamo dell’Africa per non divagare, rinviando alla lettura dei libri dello storico Angelo Del Boca. Per una breve disamina vi consigliamo, assieme alla lettura dei molti saggi dedicati, il video realizzato da Nova Lectio “Perché non c’è mai stata una Norimberga italiana”. È bene inoltre ribadire che le vittime delle violenze non furono solo gli italiani, ma anche sloveni e croati etichettati come “collaborazionisti”, ragion per cui, per restare sempre ai fatti del ’43, sarebbe per lo meno improprio parlare di una violenza su base etnica. E lo stesso discorso varrà, come vedremo, per i fatti del ’45.
Non tutte le vittime morirono nelle foibe
Per quanto le foibe siano divenute, in un certo senso, il simbolo stesso della tragedia, diciamo subito che non tutte le vittime delle violenze degli anni Quaranta furono precipitate nelle cavità carsiche. Inoltre, le foibe, veri e propri “inghiottitoi naturali”, non furono quasi mai strumenti per dare la morte ai malcapitati, bensì degli strumenti utili per occultare le vittime; va pure detto che in taluni casi le persone furono gettate ancora vive all’interno delle cavità, magari con la promessa che se si fossero salvate sarebbe stata loro risparmiata la vita, ma nella gran parte dei casi chi vi veniva precipitato era già morto.
Non era la prima volta che le foibe, termine derivante dalla lingua slovena, venivano utilizzate con questo scopo. Queste cavità naturali, diffuse nell’entroterra istriano e nei pressi di Trieste e Gorizia già in precedenza erano state utilizzate per occultare cadaveri, come per esempio i corpi dei militari morti in guerra, e probabilmente vi si fece ricorso perché costituivano il mezzo più celere per disfarsi dei morti. Se vogliamo, tutto questo rappresenta un’atroce beffa, visto che prima della guerra era diffusa tra le genti locali l’abitudine di gettare nelle foibe carcasse di animali o semplici rifiuti, non mancarono i suicidi, per cui il loro utilizzo in queste circostanze farebbe pensare a una sorta di cinica equiparazione tra gli esseri umani e semplici rifiuti da “smaltire”. Per questi scopi non furono utilizzate solo le cavità naturali, ma anche miniere di Bauxite o il pozzo minerario di Basovizza, divenuto sede del memoriale ufficiale.
Non tutti i morti delle violenze di quegli anni, sui numeri ancora si discute, furono infoibati, il che contribuisce ad alimentare molte delle incertezze che circondano il bilancio delle vittime. Per questa ragione gli stessi autori del saggio Foibe parlano di “deportati” o “uccisi” per riferirsi alla platea delle vittime della repressione.
Un discorso del tutto diverso, per quanto i due fatti vengano spesso accomunati, è quello che investe gli esuli di origine italiana che abbandonarono nel dopoguerra le regioni della Venezia Giulia passate dalla Jugoslavia (si parla di circa 250mila persone, ma c’è chi ha parlato di numeri più elevati): oggi non ce ne occuperemo per non ampliare troppo il discorso, limitandoci a dire che se un punto di contatto può essere trovato tra i fatti descritti e il grande esodo del dopoguerra, allora possiamo dire che il clima di violenza destò una grande impressione sugli italiani residenti in Istria e Dalmazia, i quali – al di là della volontà politica del nuovo regime titino – poterono essere indotti in molti casi, a lasciare tutto, preoccupati del ripetersi di certi scenari.
Un argomento a lungo trascurato?
Per molti anni delle foibe non si è parlato. I primi a farlo, per quanto la cosa possa sorprendere, furono i nazisti occupanti. Le prime operazioni di ispezione e rinvenimento dei cadaveri precipitati nelle cavità naturali furono messe in atto proprio durante il regime di occupazione, instaurato nella Venezia Giulia, Istria e Dalmazia a partire dall’autunno del 1943. Non si deve pensare a un gesto umanitario da parte delle forze del Terzo Reich: i rinvenimenti – cui seguirono le prime stime sul numero delle vittime – e la divulgazione di notizie in merito servirono come strumento di propaganda per un regime che ancora provava a farsi vedere sul fronte interno come “costretto” alla guerra dalla violenza degli avversari. Le vicende belliche resero via via meno prioritarie le operazioni di recupero, ma ci sono pervenuti una serie di documenti storici che costituiscono una preziosa fonte, naturalmente da valutare con ogni accortezza, vista la evidente parzialità della parte coinvolta e gli eccessi propagandistici che circondarono le indagini.
Facendo un salto in avanti di circa un anno e mezzo, arriviamo alla primavera del 1945, quando la guerra in Europa volge al termine, con la disfatta delle forze dell’Asse. In quella fase, i territori della Venezia Giulia e dell’Istria, a cominciare dalla città di Trieste – nota per la sua valenza strategica ed economica, prima ancora che simbolica – erano contesi tra le forze partigiane guidate da Josip Broz Tito e gli alleati occidentali, tra i quali figurava anche l’Italia (quasi del tutto) liberata, alla quale era stato riconosciuto dagli alleati lo status di co-belligerante. Non potendo approfondire più di tanto, ci limiteremo a dire che in quella sorta di “corsa” per occupare per primi le zone contese, ciascuna parte si proponeva di mettere l’altra di fronte al fatto compiuto. Ed è importante dire questo, per comprendere come la nuova ondata di violenze, questa volta più organizzata rispetto a quella del ’43, si collegò direttamente con la volontà di “arrivare primi”, colpendo, anche questo non è un caso, i centri urbani – a cominciare da Trieste e Gorizia – con l’obiettivo di eliminare e/o indurre alla fuga tutti coloro che si opponessero all’annessione di questi territori alla futura Jugoslavia.
Non solo italiani
Ancora una volta ad esserne travolti non furono solo gli italiani, fascisti o meno che essi fossero poco importava, quanto tutti coloro che si opponessero, più o meno apertamente, al disegno politico del nuovo stato socialista jugoslavo: anche in questo caso, pertanto, ad essere uccisi o deportati furono anche gli slavi. Visto che a contare era l’affinità ideologica, ad essere eliminati o perseguitati furono anche diversi appartenenti alle formazioni partigiane non marxiste.
Il che ci offre lo spunto per rispondere a uno dei tanti (e improbabili) paragoni che sono stati proposti tra le foibe e le guerre iugoslave degli anni Novanta. Fermo restando che in entrambi i casi furono commessi numerosi crimini, spesso ai danni di persone innocenti, il binomio sarebbe quantomeno discutibile. La violenza degli anni Quaranta, come abbiamo visto, non aveva una matrice etnica, ma era stata mossa da risentimenti personali (specie nel ’43) o da ragioni politiche (1945). In altre parole, tanto nel ’43 che nel ’45, non si può parlare di un progetto di pulizia etnica, vale a dire scacciare da un determinato territorio gli appartenenti a una certa nazionalità, bensì di una vendetta contro l’oppressore o del perseguimento dell’obiettivo politico di conquista territoriale (e, se vogliamo, ideologica), che passava attraverso l’eliminazione del nemico di turno, a prescindere dalla sua appartenenza etnica. Infine, in merito all’ipotesi di una equiparazione tra foibe e olocausto, si è espresso fin troppo chiaramente lo storico Marcello Flores, che ha definito il paragone «frutto di ignoranza o stupidità».
Chi erano gli infoibati?
E se c’è un punto sul quale le discussioni si fanno particolarmente accese, questo, come accennavamo, riguarda il numero delle vittime, tanto per i fatti del ’43, che del ’45. Esistendo sul punto una corposa storiografia, non possiamo che rinviare a quella, limitandoci solo a una considerazione, magari banale, ma a nostro avviso importante: a prescindere dalla posizione che si voglia assumere, e tenendo sempre a mente che solo una parte delle vittime fu infoibata, un clima di violenze fondata su una giustizia sommaria – che provochi una, cento, mille, centomila vittime – non è mai una cosa buona. Si era in guerra e in un contesto molto particolare, verissimo, ma in via di principio ci sia consentita questa presa di posizione. Se poi tra le vittime c’erano dei criminali – e sicuramente ci furono, tipo chi lavorò per il famigerato Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza della Venezia Giulia o prestò la propria opera in quell’inferno in cui venne trasformata la risiera di San Sabba – il percorso doveva essere un altro, specie una volta cessate le ostilità.
Le difficoltà per stilare un bilancio delle vittime
Spendiamo solo qualche parola sulle difficoltà nello stilare un bilancio delle vittime. Occorre tener conto, in primis, delle difficili operazioni di rinvenimento dei resti umani all’interno delle foibe – vi risparmiamo i dettagli più atroci – del fatto che nel contesto bellico furono in tanti a morire per le vicende stesse della guerra (pensiamo ai morti in battaglia o causati dai bombardamenti per esempio), a tutti coloro che dopo l’arresto trovarono la morte all’interno dell’apparato repressivo e concentrazionario creato dal governo jugoslavo, alle vittime di vendette personali o atti di criminalità comune. Guido Franzinetti, che insegna Storia contemporanea e dei territori europei presso l’università del Piemonte Orientale di Vercelli, parlò di un numero ridotto di vittime italiane nelle foibe, mentre la maggioranza trovò la morte nei campi di concentramento jugoslavi gestiti dall’OZNA, il Dipartimento per la Protezione del Popolo, la polizia politica del regime titino. In un passaggio di una intervista al periodico Trenta Giorni del 2007, la storica Alessandra Kersevan sosteneva che: «Nelle foibe non sono finite donne e bambini, i profili di coloro che risultano infoibati sono quasi tutti di adulti compromessi con il fascismo, per quanto riguarda le foibe istriane del ’43, e con l’occupatore tedesco per quanto riguarda il ’45. I casi di alcune donne infoibate sono legati a fatti particolari, vendette personali, che non possono essere attribuiti al Movimento di liberazione.
Ma il punto più importante è uno: qualsiasi ricerca condotta con i crismi della scienza storica in questi anni porta a numeri ben inferiori a quelli spesso sparati in libertà da parte del mondo politico e giornalistico maggiormente interessato all’utilizzo del tema. È ormai assodato che in Istria nel ’43 le persone uccise nel corso dell’insurrezione successiva all’8 settembre sono fra le 250 e le 500, la gran parte uccise al momento della rioccupazione del territorio da parte dei nazifascisti; nel ’45 le persone scomparse, sono meno di 500 a Trieste e meno di 1000 a Gorizia, alcuni fucilati ma la gran parte morti di malattia in campo di concentramento in Jugoslavia. Uso il termine “scomparsi”, ma purtroppo è invalso l’uso di definire infoibati tutti i morti per mano partigiana. In realtà nel ’45 le persone “infoibate” furono alcune decine, e per queste morti ci furono nei mesi successivi dei processi e delle condanne, da cui risultava che si era trattato in genere di vendette personali nei confronti di spie o ritenute tali. Insomma, se si va ad analizzare la documentazione esistente si vede che si tratta di una casistica varia ben diversa da un progetto di pulizia etnica come viene spesso detto in questi anni.
Il dopoguerra e i primi tentativi di storicizzare le foibe
Venendo al “poi”, come ricordano Pupo e Spazzali nel dopoguerra furono celebrati alcuni processi contro gli autori degli eccidi, ma si trattò sempre del perseguimento di fatti singoli, mai di un processo sulle foibe o contro gli infoibatori in generale: diversi degli autori dei crimini trovarono rifugio in Jugoslavia, scampando così alla giustizia. Lo stesso discorso varrà per il processo celebrato tra fine Novecento e il nuovo millennio a Roma, tra i quali il croato Oskar Piskulic, ex ufficiale della OZNA mai presente in aula, che si chiuderà con una sentenza di proscioglimento.
In effetti, fu a partire dai primi anni Sessanta che si cominciò a storicizzare le foibe, mentre col processo per i responsabili della risiera di San Sabba degli anni Settanta si tentò di riportare alla luce i fatti. Va detto che un autorevole storico come Giovanni Miccoli ha sempre rigettato ogni accostamento tra le foibe e San Sabba. Galliano Fogar, tra i massimi studiosi dell’argomento nei decenni del dopoguerra, non sembra accogliere l’idea di un genocidio antitaliano, che ove praticato – a suo avviso – avrebbe provocato molte più vittime. Sulla stessa linea Diego De Castro, che fu consigliere del governo italiano presso l’amministrazione militare di Trieste, che parla casomai di una logica di “epurazione preventiva” contro i nemici (presunti) del nuovo regime titino, che forse e per breve tempo pensò di estendere i suoi confini fino a Trieste.
Su violenza di stato e clima da epurazione preventiva si incentrano anche le riflessioni della Commissione mista italo slovena istituita nel 1993 di comune accordo tra i due governi, che ha presentato le sue conclusioni negli anni duemila. Sergio Dini, ex capo della procura militare di Padova, chiamato a indagare a inizio millennio sulle Foibe, così si pronunciò in merito a presunti intralci alla giustizia: «Avevamo individuato i responsabili ma l’inchiesta fu trasferita dalla Cassazione e sparì. Il comandante del campo di concentramento di Borovnica? Prese la pensione italiana fino alla morte».
Conclusioni
Trovandosi oggi a scrivere delle Foibe, quando nel prossimo autunno saranno trascorsi ottant’anni dalla prima ondata di violenze, il dovere della memoria resta quanto mai attuale. Prendendo le mosse dalle motivazioni politiche contingenti e dal contesto internazionale del secondo dopoguerra, che a lungo fece calare il silenzio su quei fatti, tranne che tra gli addetti ai lavori, ci sia consentito di esprimere qualche perplessità sui tentativi di strumentalizzazione politica dei fatti. Come abbiamo già detto, forse l’unico punto di contatto è che un crimine resta tale, tanto che sia compiuto per ragioni politiche, quanto che lo si commetta per odio etnico o religioso, circostanza che spesso celano ben altre finalità.
I fatti dell’Istria e della Venezia Giulia racchiudono al loro interno una serie di fattori dei quali non si può non tenere conto: il contesto storico, le vicende belliche, una serie di violenze che evocano la responsabilità di vari attori, le vicende del secondo del dopoguerra, con la rottura tra Tito e Stalin (1948) e la nuova collocazione internazionale della Iugoslavia socialista. In tal senso, il lavoro di indagine e accertamento, affidato agli storici e ai ricercatori, dovrebbe fondarsi anzitutto sulle fonti documentali, trascurando le mere opinioni. A nostro avviso, l’insieme di fatti e circostanze chiamate, per semplificare, “tragedia delle Foibe”, dovrebbe insegnare che quando il terrore e la convenienza politica prendono il sopravvento, magari associati alla propaganda martellante, al rancore e al fanatismo, spesso a pagare sono (anche) coloro che hanno la sventura di trovarsi nel “posto sbagliato al momento sbagliato”.
Per tutto quanto non abbiamo potuto dirvi e raccontarvi per esigenze di tempo e di spazio, vi chiediamo perdono e vi rimandiamo, ancora una volta, alla consultazione di libri e documenti, l’unico metodo per chi voglia veramente comprendere. [di Paolo Arigotti]
Giorno del Ricordo: significato e perchè si festeggia il 10 febbraio. Il Giorno del Ricordo viene celebrato ogni anno in Italia il 10 febbraio in memoria dei morti nelle foibe: storia, curiosità e significato. Jacopo su Notizie.it Pubblicato il 10 Febbraio 2023
Il Giorno del Ricordo viene celebrato ogni anno nel nostro Paese in data 10 febbraio in ricordo di coloro che morirono nelle foibe.
Giorno del Ricordo: storia, curiosità e significato
Il Giorno del Ricordo fu istituito nel marzo del 2004 (quando entrò in vigore la legge numero 92) con l’obiettivo di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe. Si scelse di fissare la commemorazione nella data del 10 febbraio perché fu proprio quel giorno che, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi.
È la stessa legge 92 a spiegare lo scopo dell’istituzione di questa ricorrenza: “In memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra (1943-1945), e della più complessa vicenda del confine orientale.”
Che cosa sono le foibe?
Le foibe sono delle cavità naturali presenti sul Carso che nel secondo dopoguerra divennero la sede di vere e proprie esecuzioni.
In quei luoghi, migliaia di italiani membri delle forze dell’ordine e dell’esercito o semplici civili furono uccisi dai partigiani comunisti del maresciallo Tito. Stimare il numero di vittime non è semplice, secondo alcune ricostruzioni sembra che i morti siano stati 4 mila o 6 mila, mentre altre fanno ammontare il numero totale di vittime a ben 20 mila persone.
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "Sono passati quasi vent'anni da quando il Parlamento italiano istituì, con una significativa ampia maggioranza, il Giorno del Ricordo, dedicato al percorso di dolore inflitto agli italiani di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia nella drammatica fase storica legata alla Seconda Guerra Mondiale e agli avvenimenti a essa successivi".
Una legge, che vuole "conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale". Lo ha detto Sergio Mattarella al Quirinale.
(ANSA il 10 febbraio 2023) - Oggi si ricordano "vessazioni e violenze dure, ostinate, che conobbero eccidi e stragi e, successivamente, l'epurazione attraverso l'esodo di massa. Un carico di sofferenza, di dolore e di sangue, per molti anni rimosso dalla memoria collettiva e, in certi casi, persino negato.
Come se le brutali vicende che interessarono il confine orientale italiano e le popolazioni che vi risiedevano rappresentassero un'appendice minore e trascurabile degli eventi della fosca epoca dei totalitarismi o addirittura non fossero parte integrante della nostra storia". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
"In realtà - ha proseguito il capo dello Stato - quel lembo di terra bagnato dall'Adriatico, dove per lungo tempo si è esercitata, con fatica e con fasi alterne, la convivenza tra etnie, culture, lingue, religioni, ha conosciuto, sperimentandoli e racchiudendoli, tutti gli orrori della prima metà del Novecento, passando - senza soluzione di continuità - dall'occupazione nazifascista alla dittatura comunista di Tito".
"Un territorio colmo di ricchezza, di bellezza e di cultura - ha sottolineato Mattarella -, alimentato proprio dalle sue differenze, che ha subìto l'immeritato destino di veder sorgere sul proprio suolo i simboli agghiaccianti degli diversi totalitarismi: le Foibe, il campo di prigionia di Arbe, la Risiera di San Sabba.
Ringrazio tutti gli intervenuti: il ministro Tajani, il professor De Vergottini, il professor Orsina, per le loro riflessioni e i loro spunti. Rai storia per il filmato, l'Orchestra Tartini, Maria Letizia Gorga per aver dato corpo e voce ai ricordi di una bambina esodata. Ricordi tratti da un libro le cui pagine coinvolgono chi lo ha letto, come a me, leggendolo tempo fa, è avvenuto. Tutti loro hanno contribuito, oggi, a fare memoria di quegli accadimenti tristi e violenti e a farla condividere".
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "Nessuno deve avere paura della verità. La verità rende liberi. Le dittature - tutte le dittature - falsano la storia, manipolando la memoria, nel tentativo di imporre la verità di Stato. La nostra Repubblica trova nella verità e nella libertà i suoi fondamenti e non ha avuto timore di scavare anche nella storia italiana per riconoscere omissioni, errori o colpe". Lo ha affermato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella intervenendo al Quirinale per la cerimonia di commemorazione del 'Giorno del ricordo'.
"La complessità delle vicende che si svolsero, in quei terribili anni, in quei territori di confine, la politica brutalmente antislava perseguita dal regime fascista, sono eventi storici che nessuno oggi può mettere in discussione.
Va altresì detto, con fermezza, che è singolare, è incomprensibile, che questi aspetti innegabili possano mettere in ombra le dure sofferenze patite da tanti italiani. O, ancor peggio, essere invocati per sminuire, negare o addirittura giustificare i crimini da loro subiti. Per molte vittime, giustiziate, infoibate o morte di stenti nei campi di prigionia comunisti l'unica colpa fu semplicemente quella di essere italiani". Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella intervenendo al Quirinale per la cerimonia di commemorazione del 'Giorno del ricordo'.
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "Grazie al coraggio, all'azione instancabile e a volte faticosa delle associazioni degli esuli istriani, dalmati e della Venezia Giulia, il tema delle foibe e dell'esodo è oggi largamente conosciuto dall'opinione pubblica, è studiato nelle scuole, dibattuto sui giornali. Le sofferenze subite dai nostri esuli, dalle popolazioni di confine, non sono non possono essere motivo di divisione nella nostra comunità nazionale ma, al contrario, richiamo di unità nel ricordo, nella solidarietà, nel sostegno". Lo ha dichiarato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella intervenendo al Quirinale per la cerimonia di commemorazione del 'Giorno del ricordo'.
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "Le prevaricazioni, gli eccidi, l'esodo forzato degli italiani dell'Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia costituiscono parte integrante della storia del nostro Paese e dell'Europa. Alle vittime di quelle sopraffazioni, ai profughi, ai loro familiari, rivolgiamo oggi un ricordo commosso e partecipe. Le loro sofferenze non dovranno, non potranno essere mai sottovalutate o accantonate".
Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alle celebrazioni del Giorno del RIcordo al Quirinale. "Troveranno corrispondenza, rispetto e solidarietà - ha aggiunto - a seconda di quanto saremo in grado di proseguire sulla strada di pace, di amicizia, di difesa della democrazia e dei diritti umani, intrapresa con l'approvazione della Costituzione Repubblicana, con la scelta occidentale ed europea, con la politica costante per il dialogo, la comprensione, la collaborazione tra i popoli".
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "Ribadendo la condanna per inammissibili tentativi di negazionismo e di giustificazionismo, segnalo che il rischio più grave di fronte alle tragedie dell'umanità non è il confronto di idee, anche tra quelle estreme, ma l'indifferenza che genera rimozione e oblio". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, parlando al Quirinale in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria.
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "Siamo oggi qui, al Quirinale, per rendere onore a quelle vittime e, con loro, a tutte le vittime innocenti dei conflitti etnici e ideologici. Per restituire dignità e rispetto alle sofferenze di tanti nostri concittadini. Sofferenze acuite dall'indifferenza avvertita da molti dei trecentocinquantamila italiani dell'esodo, in fuga dalle loro case, che non sempre trovarono solidarietà e adeguato rispetto nella loro madrepatria. Furono sovente ignorati, guardati con sospetto, posti in campi poco dignitosi".
Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella intervenendo al Quirinale per la cerimonia di commemorazione del 'Giorno del ricordo'. "Tra la soggezione alla dittatura comunista e il destino, amaro, dell'esilio, della perdita della casa, delle proprie radici, delle attività economiche - ha proseguito - questi italiani compirono la scelta giusta.
La scelta della libertà. Ma nelle difficoltà dell'immediato dopoguerra e nel clima della guerra fredda e dello scontro ideologico, che in Italia contrapponeva fautori dell'Occidente e sostenitori dello stalinismo, non furono compresi e incontrarono ostacoli ingiustificabili"
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "La civiltà della convivenza, del dialogo, del diritto internazionale, della democrazia è l'unica alternativa alla guerra e alle epurazioni, come purtroppo ci insegnano - ancora oggi - le terribili vicende legate all'insensata e tragica invasione russa dell'Ucraina. Un inaccettabile tentativo di portare indietro le lancette della storia, cercando di ritornare in tempi oscuri, contrassegnati dalla logica del dominio della forza". Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alle celebrazioni del Giorno del RIcordo al Quirinale.
"La presenza di segnali ambigui e regressivi, con rischi di ripresa di conflitti, ammantati di pretesti etnici o religiosi, richiede di rendere veloce con decisione e coraggio il cammino dell'integrazione europea dei Balcani occidentali".
Lo ha detto Sergio Mattarella alle celebrazioni del Giorno del RIcordo al Quirinale, alludendo alle recenti tensioni tra Serbia e Kosovo."Italia, Slovenia e Croazia, grazie agli sforzi congiunti e al processo di integrazione europea - ha aggiunto - hanno fatto, insieme, passi di grande valore. Lo testimoniano Gorizia e Nova Gorica designate insieme unica capitale europea della cultura del 2025".
(ANSA il 10 febbraio 2023) - "Ribadendo la condanna per inammissibili tentativi di negazionismo e di giustificazionismo, segnalo che il rischio più grave di fronte alle tragedie dell'umanità non è il confronto di idee, anche tra quelle estreme, ma l'indifferenza che genera rimozione e oblio". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, parlando al Quirinale in occasione della celebrazione del Giorno del Ricordo.
Giorno del Ricordo, Mattarella: «L’Italia sia unita per non dimenticare». Al Quirinale la cerimonia per ricordare l’eccidio delle Foibe. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 10 febbraio 2023.
«Le sofferenze subite dai nostri esuli, dalle popolazioni di confine, non sono non possono essere motivo di divisione nella nostra comunità nazionale ma, al contrario, richiamo di unità nel ricordo, nella solidarietà, nel sostegno». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Quirinale in occasione del giorno del Ricordo, in memoria delle vittime italiane delle Foibe.
«Ribadendo la condanna per inammissibili tentativi di negazionismo e di giustificazionismo, segnalo che il rischio più grave di fronte alle tragedie dell’umanità non è il confronto di idee, anche tra quelle estreme, ma l’indifferenza che genera rimozione e oblio», ha aggiunto il capo dello Stato.
«Un carico di sofferenza, di dolore e di sangue, per molti anni rimosso dalla memoria collettiva e, in certi casi, persino negato - ha sottolineato Mattarella - Come se le brutali vicende che interessarono il confine orientale italiano e le popolazioni che vi risiedevano da secoli rappresentassero un’appendice minore e trascurabile degli eventi della fosca epoca dei totalitarismi o addirittura non fossero parte integrante della nostra storia».
Dal Colle poi l’invito ad accelerare il processo di entrata nell’Ue del Balcani occidentali e il riferimento alla guerra in Ucraina. «La presenza di segnali ambigui e regressivi, con rischi di ripresa di conflitti, ammantati di pretesti etnici o religiosi, richiede di rendere veloce con decisione e coraggio il cammino dell’integrazione europea dei Balcani occidentali - è il ragionamento del capo dello Stato - La civiltà della convivenza, del dialogo, del diritto internazionale, della democrazia è l’unica alternativa alla guerra e alle epurazioni, come purtroppo ci insegnano, ancora oggi, le terribili vicende legate all’insensata e tragica invasione russa dell’Ucraina: un inaccettabile tentativo di portare indietro le lancette della storia, cercando di ritornare in tempi oscuri, contrassegnati dalla logica del dominio della forza».
«Giorno del ricordo», per non dimenticare l’esodo istriano. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.
Il 10 febbraio si celebra il ricordo dei massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata
Ieri, in mattinata, il Tg1 ha trasmesso dal Quirinale la celebrazione del «Giorno del ricordo» alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per l’occasione, Rai Cultura ha preparato un filmato che ha ricostruito il dramma dell’ esodo istriano-dalmata dopo la cessione di Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia: è il racconto di un esodo doloroso, lungo, a volte silenzioso degli italiani costretti a lasciare le proprie terre e le proprie case senza alcuna certezza, incalzati e in alcuni casi trucidati dall’esercito titino, è il racconto di un lutto nazionale (bisognerebbero trasmetterlo in tutte le scuole). Nel primo pomeriggio, su Rai3 per «Passato e presente» Paolo Mieli, insieme al professor Enrico Miletto, ha raccontato l’esodo di migliaia di italiani che non volevano più vivere sotto il regime jugoslavo, inquadrando questo passaggio all’interno dei contrasti esistenti tra italiani e slavi in quell’area.
LA SOLENNITÀ
Cosa sono le foibe e cosa accadde il Giorno del Ricordo: il genocidio e il significato del 10 febbraio 1947
Giovedì sera, Rai3 ha ritrasmesso il film «Red Land» (Rosso Istria) di Maximiliano Hernando Bruno. Dopo l’arresto di Mussolini il 25 luglio, il maresciallo Badoglio chiede e ottiene l’armistizio da parte degli anglo–americani e fugge da Roma, lasciando l’Italia allo sbando. L’esercito non sa più chi è il nemico e chi l’alleato. Il dramma si trasforma in tragedia per i soldati abbandonati a sé stessi nei teatri di guerra, ma anche, e soprattutto, per le popolazioni civili che si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia antitaliana. In questo drammatico contesto storico, avrà risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda all’Università di Padova, barbaramente violentata e uccisa dai partigiani titini, avendo la sola colpa di essere italiana e figlia di un dirigente locale del partito fascista. L’ha ricordata ieri il ministro Antonio Tajani al Quirinale.
Foibe, il giorno del ricordo: quando Napoli accolse migliaia di profughi. Raffaele Ambrosino su Il Riformista il 10 Febbraio 2023
Tra il 1943 e il 1947 per mano dei partigiani jugoslavi titini, comunisti leninisti e stalinisti a pieno titolo, venne scritta una pagina decisamente tragica della nostra storia, a lungo rimasta più o meno nel silenzio finché, il 30 marzo del 2004, non fu istituito il “Giorno del Ricordo”, che da allora si celebra il 10 febbraio di ogni anno.
La drammatica vicenda dell’esodo di italiani di Istria, Fiume e Dalmazia a seguito della vittoria militare della Jugoslavia di Tito, divenne non solo una violenta reazione post bellica, ma assunse atrocemente i caratteri di una vera e propria pulizia etnica. Le vittime di tale eccidio sono ad oggi stimate in circa 10mila persone che furono gettate, legate l’una all’altra a decine con il fil di ferro, nelle foibe, grandi e profondissime caverne verticali tipiche della regione carsica del Friuli Venezia Giulia e dell’Istria. Una morte atroce che arrivava tra le urla strazianti di donne, uomini, anziani e bambini, anche dopo giorni di sofferenza immane.
A seguito di quelle efferate violenze senza pietà alcuna, vi fu un grande esodo, circa 400mila profughi, presso città grandi e piccole della penisola a sud di quegli eventi.
Anche Napoli e i napoletani, accoglienti e di cuore come sempre, ospitarono in alcuni campi profughi i loro connazionali che scappavano da quegli orrori portando con loro le poche cose che riuscirono a mettere insieme nelle fretta di scappare dalla certezza della morte.
Nel 1947, il più grande dei tre campi napoletani venne realizzato nel parco di Capodimonte dove fu costruita una baraccopoli che accolse circa mille esuli che vennero accolti e assistiti anche dai residenti dei quartieri di Miano e Capodimonte adiacenti al Parco. Negli anni a venire tanti dei mille si integrarono con la città trovando lavoro e abitazioni dignitose e altri si trasferirono in altre città.
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A memoria delle migliaia di vittime di quel martirio e dei profughi scampati alla morte, ma feriti nell’animo, che trovarono accoglienza e solidarietà vera e sincera in terra napoletana, fu posta, nel 2006 una targa a loro ricordo nei pressi della quale, ogni dieci febbraio, viene celebrato il Giorno del ricordo alla presenza delle autorità cittadine e militari che depongono, solennemente, una corona di alloro a imperitura memoria. La Targa si trova nei pressi dell’ingresso della “porta di Miano” sotto un bellissimo albero di magnolia.
Per la prima volta, il 10 febbraio del 2022, un sindaco ha partecipato alla commemorazione, Gaetano Manfredi, neo primo cittadino non volle mancare a differenza del precedente sindaco che mai ha partecipato direttamente alle celebrazioni. C’è chi resta condizionato da dubbie ideologie e c’è chi pensa che per definirci uomini liberi non possiamo dirci soltanto antifascisti ma si rende necessario definirci pienamente antitotalitari, condannando in modo fermo e deciso tutti gli orrori dei regimi, passati e presenti. Tutti. Raffaele Ambrosino
LE FOIBE, UNA VERGOGNA DELLA REPUBBLICA ITALIANA. Rassegnastampa-totustuus.it
Il genocidio dei giuliano-dalmati avviene a più riprese a partire dal 1943, con punte di ferocia già in tempo di pace: mentre il resto d'Italia festeggia il suo 25 Aprile, Istria, Fiume e Dalmazia sono "liberate" dai partigiani comunisti di Tito, il cui ordine è deitalianizzare quelle regioni. Inizia il calvario delle foibe, dei campi di concentramento jugoslavi, delle deportazioni: in 300mila scappano e in tutta Italia si allestiscono per gli esuli 109 campi profughi ricavati in ex caserme, ex manicomi, scuole dismesse. Questa orrenda pagina di storia grava come un macigno sui comunisti jugoslavi e italiani, che a quel genocidio hanno attivamente collaborato. Non solo, ma per decenni hanno infangato la memoria delle migliaia di connazionali così orrendamente assassinati chiamandoli “fascisti” e dileggiato e oltraggiato chi fuggiva dalle terre istriane e giuliane, depredato di ogni cosa, per salvare almeno la vita. Complice di questa barbarie anche la Repubblica italiana, che ha sempre saputo della tragedia che si è consumata ma che non ha mai fatto nulla per ristabilire un minimo di verità e di giustizia.
MA ROMA SAPEVA Negli archivi del Ministero della Difesa ci sono le prove che lo Stato italiano era a conoscenza delle stragi effettuate dalle bande titine. Non è vero che Roma è rimasta all’oscuro, lungo mezzo secolo di agghiacciante ignavia, dei crimini slavocomunisti lungo il confine orientale. Né che l’Italia nulla sapeva delle bande titoiste che godevano di stupri e violenze animali sull’orlo delle foibe, in un fracasso di mitra e sadiche risate, esplosioni e diktat, scheletri accartocciati sotto il getto continuo di sempre nuovi cadaveri e urla straziate echeggianti nell’abisso Ecco alcuni dei documenti segreti (rassegnastampa-totustuus.it)
E NELLE FOIBE GLI ITALIANI UCCISI FURONO VENTIMILA Chi erano ? Gli slavi si provarono a dire: «Tutti fascisti e nazisti». Tra le salme di militari e militarizzati che si riuscirono a recuperare c'erano più carabinieri, guardie di finanza e anche vigili urbani che non soldati della Rsi e della Wehrmacht. C'erano soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l '8 settembre e appena rientrati dai lager. E c'erano anche, ancora in uniforme, perché erano stati ammazzati in fretta, senza che i boia predatori riuscissero a spogliarli di ogni cosa come facevano con le altre vittime . (rassegnastampa-totustuus.it)
«LA MIA GENTE SPARITA NEL NULLA» La furia della polizia jugoslava non risparmiò proprio nessuno: «Gli antifascisti furono i primi a essere gettati nelle foibe, perché il regime jugoslavo non voleva interlocutori. Molti partigiani italiani caddero nel tranello di Tito che li mandò a combattere sui monti al centro della Jugoslavia per annettersi senza intralci l’Istria. E anche sulla tragedia di Porzus, con l’eccidio fratricida tra i partigiani cattolici della Brigata Osoppo e quelli rossi della Brigata Garibaldi c’è la responsabilità di Togliatti che considerava fratelli i partigiani di Tito…». (rassegnastampa-totustuus.it)
FOIBE/ QUELLA TRAGEDIA SCOMODA CHE LA POLITICA CI HA FATTO DIMENTICARE Le foibe, come molti fenomeni di pulizia etnica perpetrati dai cosiddetti “vincitori”, sono state a lungo e volutamente dimenticate. Per motivi di quieto vivere da una parte politica e di connivenza dall’altra. Oggi, dopo quasi 70 anni da quelle efferatezze, se ne torna a parlare. Si parla del crimine demandando la responsabilità a non meglio precisate “forme di rimozione diplomatica”, non ancora specificando nomi e cognomi dei responsabili. Abbiamo interpellato in merito il professor Roberto Spazzali, da anni studioso dell’argomento intorno al quale ha pubblicato numerosi volumi di ricerca e opere divulgative. (rassegnastampa-totustuus.it)
SONO USCITO DALLE FOIBE Le foibe (dal latino foves, ossia crepaccio, baratro), numerosissime nella geologia dell'Istria e della Venezia Giulia, nonostante i loro sedicimila morti, sin quasi ai nostri giorni la storia non l'hanno fatta. Motivo: i massacri non collimavano, com'è noto, con la successiva direttrice di marcia della politica italiana. Per cui, silenzio. O, addirittura, omaggi al condottiero degli infornatori, maresciallo Tito. (rassegnastampa-totustuus.it)
«I NOSTRI CARI ANCORA IN FONDO ALLE FOIBE» Sono passati i decenni, la Jugoslavia è sparita dalle carte geografiche, ma ancora gli esuli giuliano dalmati attendono invano il diritto più antico, rispettato persino nelle tregue permesse dalle guerre, «quello di seppellire i propri morti». Colpa in primo luogo dell'Italia – dicóno – che dal 1945 ad oggi non ha mai preteso il recupero della salme, ma nemmeno ha avviato indagini per accedere agli archivi jugoslavi e scoprire i loro destini. (rassegnastampa-totustuus.it)
CHIESA E FOIBE: ECCO LA VERITA’ I vescovi giuliani, dalmati e croati denunciarono più volte gli orrori commessi dai titini. E anche papa Pacelli intervenne. I silenzi successivi della storiografia sono da imputare alla Cortina di ferro. A sollevare il velo furono i cattolici in Usa e Inghilterra. (rassegnastampa-totustuus.it)
“IL GIORNO DEL RICORDO” La struggente rievocazione di chi ha vissuto in prima persona e sulla propria pelle il drammatico esodo di trecentomila persone che dall'lstria. Fiume, Zara, Dalmazia e Alto Isonzo hanno abbandonato per sempre le proprie città, case, lavoro, amicizie e affetti. Unica scelta possibile per mantenere la propria identità nazionale e la libertà di pensiero, parola e religione. (rassegnastampa-totustuus.it)
ANTONIO SOCCI: LA SINISTRA SPUTAZZA SUI PROFUGHI ITALIANI E BACIA GLI STRANIERI Ogni giorno, a proposito della marea migratoria, da Sinistra arrivano sermoni moraleggianti sul dovere dell'accoglienza generalizzata e incondizionata degli stranieri. Peraltro danno spesso, tacitamente, ad intendere che tutti siano «profughi» (quando - in realtà - solo una piccola percentuale è costituita da profughi). Eppure se, nella nostra storia nazionale, qualcuno ha da fare un «mea culpa» sull' accoglienza dei profughi, è proprio la Sinistra, almeno quella comunista. (rassegnastampa-totustuus.it)
Amadeus ricorda le Foibe, "il fucile...": l'orrore della sinistra al Festival. Libero Quotidiano il 10 febbraio 2023
Il ricordo delle Foibe di Amadeus, stringato ma commosso, genera commenti sarcastici e velenosi tra il "popolo della sinistra" riunito su Twitter per seguire in diretta il Festival di Sanremo 2023. "Il 10 febbraio, come sapete, è la giornata del Ricordo, istituita per tenere viva la memoria di una delle pagine più tragiche della nostra storia: l'eccidio di migliaia di nostri connazionali gettati nelle foibe dalle milizie del Maresciallo Tito e l'esilio di centinaia di migliaia di italiani costretti a lasciare la loro terra e i loro averi", ricorda Amadeus che per celebrare la triste ricorrenza legge un brano del libro di Gigliola Alvisi, La bambina con la valigia dove sono raccolte le testimonianze di Egea Haffner, definita dal conduttore, "una delle testimonianze più autentiche della tragedia vissuta da migliaia di italiani di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia nel Dopoguerra".
Nelle parole lette da Amadeus il momento in cui il padre di Egea venne portato via da casa per non tornare più. "La sera del quattro maggio mamma stava trafficando ai fornelli, papà era appena tornato dalla gioielleria e si stava lavando prima di sedersi a tavola. Poi, ecco tre colpi imperiosi alla porta. Io ero già a letto o forse ero rimasta a dormire da nonna Maria, non l'ho mai saputo, ma ho immaginato tante volte la scena. Quella visita a un'ora così inconsueta poteva significare una sola cosa: l'arrivo della polizia del maresciallo Tito, i titini".
"Una vicenda a lungo dimenticata - conclude Amadeus - che appartiene all'epoca oscura delle dittature e ci fa riflettere sul valore della Memoria e soprattutto della verità. Perché la libertà non si conquista dimenticando o rimuovendo, ma ricordando. Sempre". Eppure c'è chi ride e la butta in politica, inventandosi "minacce" ricevute da Amadeus da parte del governo di centrodestra.
Firenze, nel Giorno del Ricordo sul centro sociale sventola la bandiera di Tito. Christian Campigli su Il Tempo il 10 febbraio 2023
Una tradizione odiosa. Che ogni anno si ripropone, nell'indifferenza e nel roboante silenzio dell'amministrazione comunale. Il Cpa, il centro sociale più grande di Firenze, ha esposto questa mattina due enormi bandiere della Jugoslavia di Tito. Un gesto tanto eclatante, quando semplice da interpretare: l'esposizione di quel labaro sottintende il disgusto provato dei nipotini di Carlo Marx per la tragedia dalmata-istriana. Solitamente, infatti, quei drappi vengono gelosamente conservati come cimeli nelle stanze dell'immobile occupato abusivamente da oltre venti anni. E tirati fuori nel Giorno del Ricordo. Per loro, le Foibe non furono un orrendo massacro, ma solo la naturale coda della Seconda Guerra Mondiale. Le persone uccise e torturate non erano Italiani innocenti, ma fascisti o simpatizzante del Duce, che meritavano quella fine. Una visione distorta e folle della storia. Inaccettabile. Che, è bene ricordarlo, fu però la medesima seguita per oltre mezzo secolo dalla sinistra parlamentare.
“È un'autentica vergogna che in uno stabile di proprietà comunale dove da anni viene tollerata dalle istituzioni la presenza di questi figli di papà che giocano a fare i rivoluzionari si inneggi agli assassini autori di un genocidio – ha ricordato il capogruppo in Regione Toscana di Fratelli d'Italia, Francesco Torselli - E come sempre a Palazzo Vecchio nessuno muoverà un dito perché saranno pure imbecilli, ma hanno il diritto di voto”.
Un'occupazione che pare però essere intoccabile. Nonostante i clamori di scelte a dir poco discutibili. Nel 2018 l'enorme struttura sita nel residenziale quartiere di Gavinana ospitò Barbara Balzarani. L'ex brigatista delle Br e componente del gruppo che ha preso parte al rapimento di Aldo Moro, pronunciò parole raccapriccianti in quell'occasione, riferendosi alla figlia dell'ex segretario Dc. “Fare la vittima è diventato un mestiere”. Nonostante le molte promesse della sinistra, il Cpa non è mai stato sgomberato. Anzi. Ogni anno espone con orgoglio quelle orrende bandiere, simbolo di morte e di dittatura, nell'indifferente silenzio del Partito Democratico che, da anni, governa il capoluogo toscano.
Genova, la solita vergogna contro il ricordo delle Foibe. Di Andrea Lombardi su Culturaidentita.it il 7 Febbraio 2023
Ancora scritte oltraggiose contro i Martiri delle foibe e gli Esuli. L’atto vandalico è avvenuto ieri nei giardini Cavagnaro a Genova-Staglieno, dove si erge la stele che ricorda i Martiri delle Foibe e gli Esuli di Istria e Dalmazia
Ignoti hanno vergato la scritta “l’unica giornata del Ricordo è il 25 aprile”, firmata con la notoria sigla “Genova Antifascista” nei pressi della stele, e lordato la targa del passo dedicato alle Vittime delle Foibe con la “Z” divenuto simbolo dell’aggressione putiniana all’Ucraina.
Condanniamo l’ennesimo sfregio alla memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo da parte di questi “Antifascisti” genovesi, che perseverano da anni in danneggiamenti, aggressioni e apologia di regimi criminali – da staliniani a putiniani – e terroristi, e ci chiediamo se partiti e esponenti di sinistra, l’ANPI e la CGIL condanneranno questo affronto alle sofferenze di tanti italiani – e anche ai valori del 25 aprile stesso, direi, e incoraggiamo autorità e cittadinanza a reagire uniti, pur nella diversità di idee politiche, a questi attacchi alla memoria condivisa della nazione, innanzitutto partecipando numerosi alle prossime commemorazioni del Giorno del Ricordo a cavallo del 10 febbraio prossimo a Genova e in Liguria, e chiedendo ai propri amministratori locali, biblioteche civiche, enti e associazioni di attivarsi in tal senso,
Giorno del ricordo 2023: il treno della vergogna e gli esuli istriani. Di Veronica Adriani. Il 31 Gennaio 2023 su studenti.it
Giorno del ricordo 2023, contesto storico, riassunto degli eventi e storie degli esuli istriani: il treno della vergogna del 1947
GIORNO DEL RICORDO
Il Giorno del ricordo si celebra il 10 febbraio ed è una giornata dedicata alla commemorazione dei fatti di cui furono protagonisti gli italiani nell'ex-Jugoslavia del post armistizio e del dopoguerra. Il Giorno del ricordo è stato istituito nel 2005 per commemorare le vittime dell foibe. Nel ricordo di quei giorni, le ricostruzioni storiche possono aiutare più di ogni altra cosa a fare chiarezza sugli eventi e a preservarne la memoria, anche per difenderlo dagli accesi dibattiti politici di cui, solitamente, le foibe sono protagoniste.
I fatti più cruenti del periodo sono naturalmente quelli relativi alle foibe, le profonde cavità carsiche tipiche della Venezia Giulia, utilizzate negli anni prima dai fascisti italiani e poi dai partigiani titini, per l'eliminazione e l'occultazione degli avversari politici. Ma un altro fenomeno, più lungo ma non meno doloroso, ha scavato nella storia di molte famiglie italiane: l'esodo giuliano-dalmata, ovvero la fuga di centinaia di migliaia di italiani scampati agli eccidi delle foibe, che furono costretti a imbarcarsi con le loro masserizie su navi dirette verso l'Italia per sfuggire alla crescente ostilità del regime comunista.
L'ESODO GIULIANO-DALMATA
Quello che definiamo esodo giuliano-dalmata ha avuto, secondo gli storici, due fasi distinte:
Una prima fase dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943
Una seconda fase successiva alla fine della Seconda guerra mondiale, dal 1945 in poi
Spiega lo storico Raoul Pupo che in entrambi i casi i periodi storici possono essere considerati come dei dopoguerra, nei quali l'esercito Jugoslavo di Tito cerca di porre il controllo sulle zone occupate. Le stesse zone che sotto il fascismo avevano visto feroci repressioni ai danni delle popolazioni slave (era stato vietato l'uso di lingue diverse da quella italiana negli uffici pubblici, le scuole slovene e croate erano state chiuse, molti cognomi erano stati italianizzati, e via dicendo), ora devono tornare sotto il controllo slavo con ogni mezzo.
Una volta stabilito il nuovo assetto della penisola istriana, la reazione titina è feroce: nel '43 iniziano gli infoibamenti, che colpiscono non solo fascisti e nazisti, ma chiunque possa rappresentare in qualche forma la comunità italiana su suolo Jugoslavo. Il tribunale popolare di Tito - istituito all'interno del castello di Pisino - non risparmia impiegati, ufficiali, militari, ma neppure antifascisti contrari a questo nuovo regime di violenza. Per questa ragione, buona parte degli italiani scampati a questo massacro parte alla volta dell'Italia già dal '43, quando ancora le sorti della penisola non sono stabilite con precisione.
LA STRAGE DI VERGAROLLA
Il 18 agosto 1946 sulla spiaggia di Vergarolla, dove si svolgono le gare natatorie per la Coppa Scarioni, scoppia un'enorme quantità di esplosivo uccidendo circa cento persone (il numero delle vittime non verrà mai stabilito con esattezza). Quella che passerà alla storia come la strage di Vergarolla convince la comunità italiana dell'aperta ostilità del nuovo regime nei suoi confronti, e dà il via a nuove partenze.
Quando dopo il trattato di Parigi del 1947 diventa ormai chiaro che gran parte dell'Istria resterà a Tito, gli italiani delle città slovene e croate si trovano di fronte a una scelta: restare e diventare cittadini Jugoslavi, perdendo qualsiasi contatto - anche linguistico e culturale - con la loro identità italiana, o partire. Presto le città si svuotano: Pola, Fiume, Umago (ma anche Spalato, Zara, Ragusa) diventano presto fantasma. I negozi chiudono, le famiglie partono portando con sé le loro cose: vestiti, ricordi, mobili, a volte anche bare, per non lasciare i loro morti in una terra non più considerata come propria.
IL TRENO DELLA VERGOGNA
L'episodio passato alla storia come Treno della vergogna si colloca all'interno di questo scenario: nel 1947 alcuni esuli provenienti da Pola approdano ad Ancona, dove vengono accolti con ostilità.
La convinzione diffusa è infatti che la maggior parte degli esuli sia composta da fascisti in fuga dal regime di Tito, gente ostile al comunismo e al nuovo liberatore. Forse non è chiaro con esattezza cosa stia realmente avvenendo dall'altra parte dell'Adriatico, ma un importante ruolo lo gioca la diffidenza verso i nuovi arrivati: hanno altri tratti somatici, parlano un dialetto diverso, non parlano di sé. L'ostilità nei confronti dello straniero cresce, come racconta in un documentario della Rai il professor Raoul Pupo dell'Università di Trieste.
In realtà, moltissimi fra gli esuli non solo non hanno mai appoggiato il fascismo, ma sono apertamente antifascisti, cattolici o ex partigiani che disapprovano (e temono) i metodi titini di imposizione del potere. Non solo. Nel frattempo Stalin ha condannato apertamente Tito disconoscendo i suoi metodi, così anche i comunisti aderenti all'ideologia staliniana sono ugualmente costretti a partire, e si trovano anch'essi profughi in Italia.
Da Ancona gli esuli partono su un convoglio alla volta di Bologna: si tratta di un treno merci che una volta arrivato in città permetterà loro di rifornirsi di viveri della Croce Rossa e della Pontificia Opera Assistenza per i profughi. Ma una volta arrivati in stazione, i ferrovieri si ribellano, considerando quel treno il treno dei fascisti, come verrà appellato. Parte lo sciopero e il più importante snodo ferroviario del paese si blocca: le persone vengono lasciate senza cibo, impossibilitate a scendere dal treno. Alcuni esuli ricorderanno nei loro memoriali episodi in cui il latte destinato ai bambini viene rovesciato sui binari e il cibo gettato nell'immondizia, pur di non essere dato a chi viene considerato fascista.
Reazioni di diffidenza e aperta ostilità nei confronti deli esuli in tutta Italia fu più frequente di quel che si immagina.
Per questa ragione molti di loro, anche a distanza di anni, racconteranno di aver vissuto per tutta la vita con il timore di raccontare la propria storia per paura di subire discriminazioni. Una forma di memoria ed identità personali cancellate dalla vergogna.
Il Giorno del ricordo, una data per non dimenticare le foibe e l'esodo istriano. Lara Crinò su La Repubblica il 10 Febbraio 2023.
Il 10 febbraio si commemorano le vittime delle rappresaglie iugoslave sul fronte orientale, e si ricorda l'esodo di oltre 250mila italiani dalle terre dell'Istria. Un pezzo di storia del Paese in cui alla ricostruzione degli eventi si sono a lungo sovrapposte narrazioni politiche divergenti
Il 10 febbraio 2023 si commemora il Giorno del Ricordo, la giornata istituita per "conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Chi ha istituito il Giorno del Ricordo
Il giorno del ricordo è stato istituito dalla Repubblica italiana con la legge n. 92 del 30 marzo 2004. Con questa giornata di commemorazione, oltre a ricordare le uccisioni di italiani e italiane avvenute nelle foibe delle zone carsiche di Friuli-Venezia Giulia e Istria, si ricorda l’esodo di massa che coinvolse la componente italiana della popolazione istriana tra il 1945 e il 1956: si stima che furono almeno 250mila le persone che lasciarono l’Istria, perdendo le loro proprietà e ritrovandosi esuli in Italia nel Dopoguerra.
Perché il giorno del ricordo cade il 10 febbraio
La data del 10 febbraio per il Giorno del Ricordo è stata scelta perché proprio il 10 febbraio 1947 fu siglato il trattato di Pace di Parigi che assegnata l’Istria, il Quarnaro, Zara e parte del territorio del Friuli Venezia Giulia alla neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. La decisione definitiva sul territorio di confine risale tuttavia al 1954, dopo nove anni di amministrazione internazionale della città di Trieste e di una fascia di territorio conteso. I territori dell’Istria, dove popolazioni di lingua italiana e di origine veneta vivevano, soprattutto lungo le coste, fin dai tempi della Repubblica di Venezia, erano stati assegnati al regno d’Italia con il Patto di Londra (1915, art. 4) e poi annessi all’Italia dopo la vittoria della Prima guerra mondiale, mentre la Dalmazia era stata annessa a seguito dell’invasione tedesca dei territori del regno di Jugoslavia a partire dal 1941.
A partire dalla firma italiana dell’armistizio (8 settembre 1943) in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito iniziarono operazioni di rappresaglia e vendetta nei confronti sia di chi, nella popolazione slava, veniva considerato un oppositore, sia della componente italiana, in particolare dei rappresentanti del regime fascista. Il regime infatti a le due guerre mondiali aveva promosso una politica di repressione nei confronti di comunisti e antifascisti e aveva costretto all'italianizzazione forzata le popolazioni slave locali. I componenti dell’amministrazione fascista ma anche gli italofoni considerati borghesi e non comunisti furono presi di mira. Si stima che già in queste fase vennero torturate e gettate nelle foibe, insenature naturali formate da grandi caverne verticali tipiche del territorio dell’Istria e del Friuli Venezia Giulia, circa un migliaio di persone.
Con il ritorno dei territori alla Jugoslavia, le rappresaglie colpirono sempre più duramente la popolazione italiana: oltre a coloro che scomparvero nelle foibe ci furono carcerazioni e internamenti in campi di lavoro forzato, con ulteriori vittime. Fin dal dicembre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» e indicò «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi».
Cosa sono le foibe
Si tratta di insenature naturali formate da grandi caverne verticali presenti in Istria e Friuli Venezia Giulia, nella zona del Carso. Il nome "foiba" deriva da un termine dialettale dell'area giuliana, che deriva a sua volta dal latino fovea (fossa, cava). Nella foiba la cavità si restringe man mano che si scende in profondità per poi riallargarsi in un bacino: la forma rende difficoltosa la risalita e i soccorsi, motivo per cui spesso le vittime venivano gettate vive o ferite nelle cavità e vi morivano. La conformazione delle foibe ha reso in seguito difficile il recupero e l’identificazione delle vittime.
Dove si trovano le foibe
Le foibe si trovano in un vasto territorio carsico, che include in Italia le provincie di Udine e Pordenone ma soprattutto quelle di Trieste e Gorizia. Alcune "foibe" erano in realtà cave o miniere: una delle più importanti per la storia degli eccidi, la Foiba di Basovizza, nei pressi di Trieste, è ad esempio il pozzo abbandonato di un'antica miniera, quindi una cavità artificiale.
La dichiarazione dell’ANPI sul Giorno del Ricordo
In occasione del Giorno del Ricordo 2023, la Segreteria nazionale Anpi ha reso noto un appello. Eccone il testo: ”Ribadiamo l'orrore e la condanna delle esecuzioni sommarie nelle foibe e rispettiamo il dramma dell'esodo che ha colpito tanti italiani che vivevano in Istria e in Dalmazia. Denunciamo le pesanti esagerazioni e strumentalizzazioni tese non a stabilire la verità storica ma a legittimare il fascismo e delegittimare la Resistenza. Per questa ragione le forze di estrema destra accusano di negazionismo chiunque collochi quei drammi e quelle tragedie, come recita la legge, nella “più complessa vicenda del confine orientale”. Per questo denunciamo il silenzio sull'aggressione italiana alla Jugoslavia del 1941, sui conseguenti crimini e le deportazioni da parte italiana che hanno causato decine e decine di migliaia di vittime, sulla snazionalizzazione dei croati e degli sloveni, sulla mancata punizione dei criminali di guerra italiani e sul sostegno italiano al regime criminale di Ante Pavelic in Croazia. Nella ricostruzione storica di quegli eventi occorre evitare ogni interpretazione nazionalista e proporre una visione sovranazionale, e perciò obbiettiva. La lettura faziosa della storia porta a dividere gli italiani e a creare tensioni con i Paesi confinanti. In nome della comprensione delle gigantesche sofferenze della popolazione dell'Istria, del Litorale sloveno e di tutte le aree di Slovenia e Croazia occupate dagli italiani, nonché delle vittime uccise nelle foibe e degli esuli, lanciamo un appello alle istituzioni, alle forze democratiche ed agli antifascisti affinché in occasione del Giorno del Ricordo sia rispettata la verità storica, sia contrastata la faziosità dell'estrema destra e prevalga la cultura del rispetto, della tolleranza e dell'integrazione”.
Il documentario sulla Rai
Va in onda il 10 febbraio alle 21:25 su Rai Tre il documentario, prodotto da Rai Documentari, Io ricordo. La terra dei miei padri. Il docufilm, prodotto da Clelia Iemma e Beatrice Palladini Iemma per la D4 srl in collaborazione con Rai Documentari, racconta l’esodo istriano dalmata attraverso gli intrecci di numerose testimonianze, tra cui in particolare quella dell’ammiraglio Romano Sauro, nipote diretto dell’eroe istriano e nazionale Nazario Sauro.
Il docufilm ripercorre in una crociera in barca a vela la storia millenaria dei territori dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, dalle origini romane fino alla tragedia delle foibe e dell’esodo. Un viaggio che fa tappa nelle città di Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno e Lussinpiccolo per poi proseguire nei luoghi simbolo del dramma delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata, come il Magazzino 26 di Trieste, il villaggio Santa Domenica, il campo profughi di Padriciano e il villaggio giuliano-dalmata di Roma. La narrazione è arricchita dal contributo di storici come Giordano Bruno Guerri, Gianni Oliva e Marino Micich.
La tragedia delle foibe e dell’esodo in un saggio storico con il «Corriere». DINO MESSINA su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2023.
Il 10 febbraio, nel Giorno del Ricordo, in edicola con il quotidiano una ricostruzione degli eventi dal 1882 al 1954 nell’alto Adriatico firmata dallo studioso triestino Raoul Pupo
La bandiera italiana, quella della Reggenza del Carnaro di Gabriele D’Annunzio e quella dell’Istria
«Adriatico amarissimo», slogan coniato da Gabriele D’Annunzio, è stato scelto da Raoul Pupo, il maggiore storico delle vicende novecentesche sul confine orientale dell’Italia, come titolo al libro che esce in edicola domani con il «Corriere» in occasione del Giorno del Ricordo, al prezzo di e 9,90 più il costo del quotidiano.
Terra di cerniera tra i mondi italiano, slavo e germanico, quella che noi chiamiamo Venezia Giulia, secondo la definizione del glottologo ottocentesco Graziadio Ascoli, è stata l’epicentro di una feroce lotta tra nazionalismi di cui ha fatto le spese una pacifica e laboriosa popolazione.
Il racconto di Pupo inizia con il fallito attento di Guglielmo Oberdan a Francesco Giuseppe. Oberdan, in realtà Oberdank, di madre slovena, primo martire dell’ irredentismo, impiccato il 20 dicembre 1882 nella Caserma grande di Trieste, è la dimostrazione di quanto l’identità nazionale da quelle parti sia sempre stata un fatto culturale, di scelta, non dettata dal sangue o dal suono del cognome. Ciò non toglie che per una lunga stagione il confronto fra i vari gruppi subì da allora una escalation inarrestabile. Risalgono al 23 maggio 1915, vigilia dell’entrata in guerra, i pogrom anti-italiani a Trieste. La vittoria cambiò tutto, non solo con l’annessione di Trieste, dell’Istria e di Zara sancita dal trattato di Rapallo del 1920, ma con l’avanzata di un nazionalismo sempre più aggressivo testimoniato dall’incendio al Narodni Dom, la casa della comunità slava triestina, del 13 luglio 1920. Un attacco capeggiato dal fascista toscano Francesco Giunta. Intanto volgeva al termine l’avventura di D’Annunzio a Fiume, che sarebbe diventata italiana con il trattato di Roma del 1924.
Il carattere antislavo del fascismo di confine si manifestò con le leggi che vietavano l’insegnamento in lingue che non fossero l’italiano, nella soppressione delle scuole slave, nella repressione del clero che in parte divenne protagonista della riscossa nazionale slovena e croata. In questo quadro si inserisce la nascita delle prime formazioni clandestine che compirono sanguinosi attentati a Trieste e in Istria. Si chiamavano Tigr (acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka, cioè Fiume) e Borba (lotta) le prime formazioni nate da una gita di giovani sul Monte Nevoso. Le loro azioni, attentati a Trieste, in cui tra l’altro venne ucciso un giornalista de «Il popolo di Trieste», e un attacco armato contro i contadini di Pisino che si recavano alle urne per il plebiscito del 1929, furono severamente punite. Quattro degli 87 arrestati furono condannati a morte, tra cui Ferdo Bidovec, di madre italiana. Il luogo dell’esecuzione fu il poligono di Basovizza. Non lontano da quella miniera dove nel maggio 1945 vennero gettati i corpi di qualche centinaio di italiani uccisi dalla polizia di Tito. Le vittime non erano soltanto fascisti, ma anche antifascisti sospetti finiti negli elenchi dell’Ozna, i servizi segreti jugoslavi.
Non è un caso che l’atto simbolico di riconciliazione più significativo tra sloveni e italiani sia avvenuto a Basovizza il 13 luglio 2020 dove i presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor, tenendosi per mano hanno reso omaggio alle vittime dei due fronti. Un atto di concordia sottolineato con forza dall’autore.
Pupo dedica lunghi e intensi capitoli alle due stagioni delle foibe, quella dell’autunno 1943, che ebbe come teatro l’Istria e ha come simbolo la studentessa Norma Cossetto, figlia del podestà di Visinada, rapita, violentata e gettata nella foiba di villa Surani, e quella del maggio 1945, quando a Trieste, Gorizia e Fiume e in tutta l’area della Venezia Giulia si svolse una feroce resa dei conti in cui a pagare non erano soltanto i fascisti. L’obiettivo delle forze titine era triplice: punire i crimini, epurare la società da elementi scomodi e intimidire la componente italiana. Tuttavia per Pupo, secondo cui le vittime civili italiane non furono più di cinquemila, non si può parlare di genocidio, quanto di stragismo e di sostituzione nazionale. Tito ebbe mano più pesante con i collaborazionisti sloveni o con gli ustascia croati (le vittime vanno da 60 a 70mila) e riguardo agli italiani il suo braccio destro Edvard Kardelj si raccomandava di punirli in base al fascismo e non alla nazionalità. Ma i metodi usati furono molto pesanti e alla fine, per paura e per sentimento patrio, circa 300 mila italiani, oltre l’80 per cento dei residenti, abbandonarono le case dei padri, lasciando luoghi dove le loro famiglie erano radicate da secoli.
È lo stesso Pupo ad aver parlato in altra occasione di una «catastrofe demografica». Esemplare è l’esodo da Pola, dove andarono via quasi tutti, 28 mila abitanti su 30 mila circa, dopo la strage di Vergarolla del 18 agosto 1946: oltre cento morti sulla spiaggia cittadina per l’esplosione di mine sottomarine che erano disinnescate. Un probabile attentato, il primo dei tanti misteri irrisolti della storia repubblicana, perché l’episodio avvenne dopo il referendum del 2 giugno 1946 e prima del trattato di pace del 10 febbraio 1947, quando furono cedute alla Jugoslavia quelle terre.
Tra le tante pagine interessanti di questo saggio, che si conclude con il memorandum di Londra del 1954, il passaggio di Trieste all’Italia e l’esodo dalla zona B, non possiamo non citare quelle sui rapporti tra i partiti comunisti, dove emerge la subalternità del Pci rispetto al confratello sloveno, complice anche le direttive che venivano dal Mosca e da Georgi Dimitrov.
La politica delle larghe intese inaugurata da Palmiro Togliatti con il riconoscimento del governo Badoglio non valeva sul confine orientale, dove vigeva l’antica logica del fronte contro fronte e della lotta al nemico nascosto anche nelle file antifasciste. Ne fecero le spese i partigiani della Brigata Osoppo, tra cui Francesco De Gregori, zio del cantante, e Guido Pasolini, fratello del poeta, trucidati dai «garibaldini» del comandante Mario Toffanin (detto Giacca) perché coniugavano patriottismo e antifascismo.
I partigiani di Tito condussero una lotta di liberazione dal nazifascismo, una rivoluzione sociale e nello stesso tempo perseguirono obiettivi di conquista nazionale che avevano radici negli irredentismi di fine Ottocento.
Tempeste della storia. Terreno di scontro su ideologie totalitarie
Esce venerdì 10 febbraio in edicola con il «Corriere della Sera» il libro di Raoul Pupo Adriatico amarissimo . Una lunga storia di violenza, al prezzo di euro 9,90 più il costo del quotidiano. Il volume, pubblicato in collaborazione con l’editore Laterza in occasione del Giorno del Ricordo per le foibe e l’esodo giuliano-dalmata, resta in edicola per un mese. Il saggio di Pupo, riassumendo e sintetizzando gli esiti di lunghe ricerche, ricostruisce le vicende che interessarono il confine orientale tra lo scorcio finale del XIX secolo e la prima metà del XX. Le terre adriatiche, osserva a tal proposito l’autore nell’introduzione, «hanno costituito per tanti aspetti un laboratorio delle esperienze politiche estreme del Novecento». Qui sono passati, con esiti particolarmente drammatici, il fascismo, il nazismo e il comunismo. E ancora prima si sono incontrate e scontrate diverse identità nazionali. D’altronde l’alto Adriatico è, scrive sempre Pupo, «una tipica area di sovrapposizione tra periferie, in questo caso del mondo romanzo, germanico e slavo, con qualche incursione magiara». Si è così verificato un intreccio tra conflitti nazionali e conflitti ideologici, di cui le popolazioni civili sono state spesso vittima. Due guerre mondiali hanno seminato lutti e inasprito rancori. Alla seconda di esse vanno ricondotte le sofferenze alle quali è dedicato il Giorno del Ricordo. Si parla delle foibe, cavità naturali del territorio carsico in cui i partigiani jugoslavi di Tito, il cui Paese era stato invaso dalle forze dell’Asse, gettarono spesso i loro oppositori, fra cui molti italiani. E poi l’esodo di circa 30o mila nostri connazionali dalle terre che in seguito al trattato di pace furono annesse alla Jugoslavia.
Cosa sono le foibe e cosa accadde il Giorno del Ricordo: il genocidio e il significato del 10 febbraio 1947. Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2022.
Tra il 1943 e il 1947 oltre 10 mila persone furono gettate vive nelle foibe, le cavità carsiche ai confini orientali, o uccise dopo processi sommari dai comunisti di Tito
Il 10 febbraio è il giorno del ricordo di una pagina tra le più cupe della storia contemporanea, avvolta a lungo nel silenzio e nel buio, come le tante vittime, inghiottite nelle cavità carsiche, le cosiddette foibe, per volere del maresciallo Tito e dei suoi partigiani, in nome di una pulizia etnica che doveva annientare la presenza italiana in Istria e Dalmazia.
Il 10 febbraio 1947 vennero infatti firmati a Parigi gli accordi di pace (che assegnavano alla Jugoslavia l'Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia) che posero idealmente fine alle violenze nel corso delle quali, nei quattro anni precedenti, oltre 10 mila persone furono gettate vive o morte in queste gole. Un genocidio che non teneva conto di età, sesso e religione, riconosciuto ufficialmente nel 2004, con la legge numero 92 che istituì la «Giornata del Ricordo», in memoria dei martiri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata.
La violenza dopo la firma dell’armistizio
La spirale di violenza esplode dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre del 1943: mentre le truppe tedesche assumono il controllo di Trieste, Pola e Fiume, il resto della Venezia Giulia passa nelle mani dei partigiani slavi, che si vendicano contro i fascisti e gli italiani, considerati possibili oppositori del regime comunista e dell’annessionismo jugoslavo. Il 13 settembre 1943, nel comune di Pisino, viene proclamata unilateralmente l’annessione dell’Istria alla Croazia e i partigiani dei Comitati di liberazione improvvisano tribunali che emettono centinaia di condanne a morte. Le persone presenti in questi elenchi vengono arrestate e condotte a Pisino, quindi giustiziate insieme ad altre, di etnia croata: moriranno scaraventati nelle foibe o nelle miniere di bauxite. Secondo le stime più attendibili, le vittime del periodo settembre-ottobre 1943 nella Venezia Giulia sarebbero tra 400 e 600 persone.
Norma, la ragazza che disse «no». Torturata e uccisa
Alcune delle uccisioni sono rimaste impresse nella memoria per la loro efferatezza: valga per tutti il nome di Norma Cossetto, una studentessa istriana che non volle aderire al movimento partigiano e, per questo, venne arrestata e condotta all’ex caserma della Finanza di Parenzo, quindi sottoposta a sevizie di ogni genere. La notte tra il 4 e 5 ottobre del 1943, insieme ad altri prigionieri, fu portata a piedi a Villa Surani e lì gettata, probabilmente ancora viva, in una foiba.
Le ispezioni e i macabri ritrovamenti
Le prime ispezioni delle foibe istriane, disposte dopo il ripiegamento dei partigiani e dopo l’invasione nazista della zona, portano al rinvenimento di centinaia di corpi. La propaganda fascista darà molto risalto ai ritrovamenti e sarà proprio allora che il termine «foibe» inizierà a essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo.
Il massacro ripetuto
Il massacro si ripete nella primavera del 1945, quando Trieste, Gorizia e l’Istria vengono occupate dall’esercito di Tito: questa volta le vittime sono soprattutto gli italiani, non solo i fascisti, ma tutte le personalità che avrebbero potuto minare il nuovo ordine comunista, compresi i partigiani, i membri del comitato di liberazione nazionale e tutti i sostenitori della comunità italiana nella Venezia Giulia. Agli occhi di Tito, l’annientamento della presenza italiana nell’area sarebbe stata determinante ai fini delle future trattative sulla delimitazione dei confini fra Italia e Jugoslavia.
Arresti, sparizioni e uccisioni
Dopo la liberazione dall’occupazione tedesca, a partire dal maggio del 1945, nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume il potere passa nelle mani delle forze partigiane jugoslave: ne conseguono arresti, sparizioni e uccisioni di centinaia di persone, alcune delle quali gettate nelle foibe. Le violenze cesseranno solamente dopo la sostituzione dell’amministrazione jugoslava con quella degli alleati, il 12 giugno 1945 a Gorizia e Trieste, e il 20 giugno a Pola. In quest’orrenda pagina della storia recente, le foibe hanno avuto come principale obiettivo quello di occultare gli eccidi di oppositori politici e cittadini italiani, ostacolo all’annessione jugoslava delle zone, come sarà poi confermato dallo stesso Tito, quando il governo di De Gasperi, in possesso di informazioni in merito alla vicenda, chiederà ragione delle migliaia di morti di nazionalità italiana.
La relazione
Nel 2001 verrà pubblicata la relazione della «Commissione storico-culturale italo-slovena», incaricata dal governo italiano e da quello sloveno di mettere a punto una versione condivisa dei rapporti tra i due Paesi fra il 1880 e il 1956. Il rapporto concluderà che «tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra, e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato». In tale progetto «confluivano diverse spinte: l’impegno a eliminare soggetti e strutture ricollegabili al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo Stato italiano e, inoltre, anche un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani».
L’occupazione e l’esodo degli italiani
Il movente dell’annessione jugoslava è stato particolarmente importante a Gorizia e Trieste, e alla fine della Seconda guerra mondiale Tito farà il possibile per occupare le due città prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. E proprio in questi due luoghi, durante l’occupazione slava, diverse migliaia di italiani saranno arrestati, uccisi o deportati nei lager jugoslavi, soprattutto a Borovnica e Lubiana, nell’intento di far credere che gli jugoslavi fossero la maggioranza assoluta della popolazione.
Il dopoguerra, tra imbarazzi e colpe
Trascorso il dopoguerra, la vicenda delle foibe è stata a lungo trascurata dai governi italiani. Secondo lo storico Gianni Oliva questo silenzio italiano e internazionale ha avuto più ragioni: prima di tutto la rottura tra Stalin e Tito avvenuta nel 1948, che spinge tutto il blocco occidentale a stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica e in secondo luogo l’atteggiamento di un certo Pci, non intenzionato a evidenziare le proprie colpe e contraddizioni in merito alla vicenda.
Napolitano spezza la «congiura del silenzio»
L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».
Giorno del Ricordo, non solo le foibe: in quel confine orientale corrono tutti i tormenti del ’900. Pierangelo Lombardi su L’Espresso il 9 Febbraio 2023.
Il 10 febbraio è la data dedicata alla rievocazione delle vicende avvenute nel secolo scorso nell’Alto Adriatico. La memoria di questa tragica pagina di storia è difficile. E spesso strumentalizzata
Il 10 febbraio è una data del calendario civile italiano: il Giorno del ricordo. Nel corso di formazione per insegnanti organizzato l’autunno scorso dall’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la sfida è stata quella di andare al di là delle sovraesposizioni mediatiche e delle ingerenze politiche, che non aiutano, ma al contrario allontanano la piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’Alto Adriatico.
Il ragionamento di lungo periodo, proposto agli insegnanti, è stato quello di riflettere sul tema che proprio la legge istitutiva del Giorno del ricordo, del 2004, indica come «la tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo Dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Perché in questa tragica pagina di storia non c’è solo una memoria difficile e complessa, ma, come ha suggerito Guido Crainz, c’è in «quel confine tormentato tutto il nostro Novecento».
Ci sono i nazionalismi e i processi di nazionalizzazione, dove uno spirito discriminatorio e per nulla inclusivo troppo a lungo ha soffiato sul Vecchio Continente; c’è il trauma della Prima guerra mondiale, con la «italianizzazione forzata» imposta dal fascismo alle popolazioni slovene e croate; ci sono la violenza e la brutalità dell’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941; c’è la tragica lezione della Seconda guerra mondiale, una guerra totale, in cui veniva meno la distinzione tra militari e civili, dove l’imbarbarimento del conflitto, specie sul fronte orientale, è stato massimo.
Ancora: c’è l’incontro tra violenza e ideologia politica che si fa devastante e dove, in un clima torbido e inquietante, s’intrecciano il giustizialismo politico e ideologico del movimento partigiano titino, il nazionalismo etnico e, soprattutto in Istria e nelle aree interne, la violenza selvaggia tipica delle rivolte contadine. Ci sono le violenze contro le popolazioni italiane del settembre del 1943 e del maggio-giugno del ’45, di cui le foibe, gli arresti e il clima di terrore che spinge all’esodo forzato migliaia di italiani sono simbolo ed espressione; c’è la volontà di Tito e del comunismo jugoslavo di annettere l’intera Venezia Giulia, con un’epurazione volta a eliminare – senza andare troppo per il sottile – qualsiasi voce di dissenso.
Ci sono, infine, le logiche della Guerra fredda e della radicalizzazione dello scontro ideologico nell’immediato Dopoguerra. Il tutto sulla pelle di decine di migliaia di persone. Un vero e proprio tornante di fughe e di espulsioni in tutta Europa, infatti, si accompagna agli esordi della Guerra fredda e a una più generale ridefinizione dei confini europei e dei loro significati.
Diventa, quindi, sempre più necessario, nell’affrontare questa pagina di storia, contestualizzarla con grande rigore, respingere tesi negazioniste o riduzioniste, così come le banalizzazioni e le verità di comodo più o meno finalizzate a uno scorretto uso pubblico della storia. Occorre assumere un ruolo attivo nel processo di rivisitazione critica, che sola può portare al superamento delle lacerazioni del passato. Anche perché le vicende dell’area giuliano-dalmata costringono chi le affronta a misurarsi con temi assai più generali e con fenomeni centrali per la comprensione della nostra contemporaneità.
*Quello di Pierangelo Lombardi, presidente dell’Istoreco pavese, è il terzo degli interventi sulle date fondanti della Repubblica. Il primo, sul 12 dicembre, strage di piazza Fontana, e il secondo, sul 27 gennaio, Giornata della Memoria, sono pubblicati sul sito de L’Espresso. I prossimi saranno su 8 marzo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 4 novembre.
Foibe: ecco come fu seviziata e mutilata Norma Cossetto. Di Alvaro Gradella su Culturaidentita.it il 10 Febbraio 2023
Norma Cossetto era una ragazza come furono tante altre, come tante altre sono e saranno. Aveva sogni, speranze, progetti… Studiava, era prossima alla laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova per la quale stava preparando la tesi “Istria Rossa”, dal color ruggine che la bauxite dava alla terra dov’era nata. Come tante altre a quei tempi, era iscritta ai Gruppi Universitari Fascisti e, come tante altre, era figlia di un alto funzionario fascista. Era anche innamorata, e già s’immaginava sposa e madre. Come tante altre giovani donne, fantasticava di un radioso futuro… Invece, l’attendeva una fine precoce e crudele.
Il 25 Settembre 1943 un gruppo di partigiani italiani e slavi razziò la sua casa di famiglia a Visinada (nell’odierna Istria croata). Convocata dal comando partigiano italo-slavo, Norma rifiutò di collaborare. Fu prima rilasciata e poi arrestata insieme a parenti, conoscenti e amici. L’arrivo di una colonna di tedeschi costrinse i partigiani a spostare i prigionieri nella vicina Antignana. Qui, separarono la giovane istriana dagli altri. Per un’interminabile notte, i suoi aguzzini la sottoposero a brutalità e stupri ripetuti. Le inflissero sevizie e mutilazioni inumane testimoniate dal suo povero corpo, recuperato poi da una foiba profonda 136 metri assieme a moltissimi altri.
Solamente una donna può immaginare le indicibili sofferenze che dovette patire.
Alcune settimane dopo soldati tedeschi catturarono sedici partigiani responsabili dell’infame scempio, e li obbligarono a vegliare – chiusi nella stessa stanza per una notte intera – il cadavere decomposto della loro innocente vittima. Tre di essi persero la ragione nel corso di quelle ore. Tutti furono fucilati all’alba del giorno dopo.
I resti straziati di Norma furono sepolti nel cimitero di Santa Domenica di Visinada.
L’Università di Padova preferì non riconoscere le scomode e terribili responsabilità di quella morte, e – pur conferendo anche a lei la laurea honoris causa – accomunò il suo nome a quelli di 29 studenti-partigiani assassinati dai tedeschi o dai fascisti. Cosa che non stupisce, stante la famosa direttiva di Palmiro Togliatti che, nel ’44, invitava a “favorire l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe slave di Tito”…
Solo il 10 febbraio 2011, l’Università e il Comune padovani, in occasione del Giorno del Ricordo delle Vittime delle Foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, hanno posto nel Cortile Nuovo del Palazzo del Bo’ una targa commemorativa della sua morte, omettendo però l’inequivocabile motivazione con la quale il Presidente Carlo Azeglio Ciampi aveva conferito la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla memoria di Norma Cossetto: “Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in un foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio».
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Migranti.
La croni-norma.
Quelli che si ribellano.
La Protezione Speciale.
Le Testimonianze.
Il Numero.
Perché i migranti non usano l’aereo o la nave?
Politici.
Protetti.
Economici.
Ambientali.
Da documenti.camera.it.
Atti Parlamentari —2— Camera dei deputati
XVII LEGISLATURA — DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI — DOCUMENTI — DOC. XXII-BIS N. 21
Sommario
I FONDAMENTI GIURIDICI DELLA DISCIPLINA SULL’ASILO E L’EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA ITALIANA ED EUROPEA IN MATERIA...................................................................... 5
La nozione generale di “rifugiato”....................................................................................................... 6
La legge Martelli ................................................................................................................................... 8
La disciplina comunitaria.................................................................................................................... 10
La legislazione degli anni ’90: dal decreto Puglia alla legge Turco-Napolitano ............................... 15
La legge Bossi-Fini del 2002............................................................................................................... 17
I regolamenti Dublino II e Dublino III................................................................................................ 19
Norme di recepimento delle direttive europee..................................................................................... 20
Lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria....................................... 22
Il decreto Minniti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e le disposizioni sui minori stranieri non accompagnati............................................................................ 28
IL SISTEMA ITALIANO DI ACCOGLIENZA: DALLE PRIME ESPERIENZE DEGLI ANNI '90 AL MODELLO ATTUALE....................................................................................................................... 33
L’applicazione della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato prima del 1990 .................... 33
Le emergenze degli anni ’90................................................................................................................ 34
La dimensione della presenza dei rifugiati fra il 1990 ed il 2011 ....................................................... 39
La costruzione della rete territoriale dalla fine degli anni Novanta. .................................................. 40
L’avvio di alcune sperimentazioni nazionali di accoglienza: politiche di assistenza come laboratorio bottom-up............................................................................................................................................. 41
Il progetto Azione comune................................................................................................................... 43
Il Programma nazionale asilo (PNA).................................................................................................. 45
La nascita del Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati nel 2002 ...................................... 47
L’integrazione della legislazione vigente: i decreti di recepimento delle direttive CE in materia di accoglienza.......................................................................................................................................... 50
• Il decreto legislativo n. 140 del 2005......................................................................................... 50
• Il decreto legislativo n. 25 del 2008........................................................................................... 51
L’articolazione del sistema nazionale di accoglienza e l’avvio di ulteriori “sperimentazioni istituzionali” a carattere nazionale e comunitario.............................................................................. 51
L’emergenza Nord Africa (2011-2013) ............................................................................................... 54
La nuova ondata migratoria dal 2014 al 2017.................................................................................... 56
L'accesso dei richiedenti asilo ai percorsi di integrazione.................................................................. 71
3 3 –– La questione respingimenti e rimpatri e l’evoluzione dei centri di trattenimento ai fini di identificazione ed espulsione, dai CPT ai CIE ai CPR........................................................................ 73
IL MONITORAGGIO DEI CENTRI: ALCUNI FOCUS DI APPROFONDIMENTO ....................... 89
Glossario ............................................................................................................................................. 89
La filiera del sistema dell’accoglienza ................................................................................................ 92
Dati generali sull’accoglienza............................................................................................................. 94
Risultati dell'attività di monitoraggio con riguardo al rapporto migranti su popolazione ............... 106
Risultati dell’attività di monitoraggio con riferimento alle procedure di affidamento ..................... 109
VALUTAZIONI E PROPOSTE DELLA COMMISSIONE................................................................. 115
Provvedimenti volti a favorire distribuzione nel territorio e migliore inclusione sociale dei migranti ..119
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ..................................................................................................... 121
INDICE ANALITICO .............................................................................................................................. 129
4 4 –– I fondamenti giuridici della disciplina sull’asilo e l’evoluzione della normativa italiana ed europea in materia
DIRITTO ALL’ASILO COME DIRITTO FONDAMENTALE SANCITO DALLA COSTITUZIONE
Il diritto all'asilo è sancito dall’articolo 10, terzo comma, della Costituzione italiana, che recita: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». È stato giustamente osservato che “l’enunciazione in termini così puntuali dell’istituto in questione si radica storicamente nell’esperienza vissuta durante il ventennio fascista dai Costituenti, molti dei quali avevano dovuto intraprendere personalmente la dura via dell’esilio ed erano pertanto ben determinati, al momento di redigere la nuova Carta costituzionale democratica, a prospettare una forma di accoglienza in Italia per quegli stranieri che avessero patito nel loro Paese di origine una situazione di illibertà” 1 . Non a caso, il diritto di asilo viene annoverato dalla nostra Carta Costituzionale tra i “Principi fondamentali”, ai quali è improntato il nostro ordinamento.
MANCA UNA LEGGE DI ATTUAZIONE
Nonostante, la norma costituzionale contenesse una delega al legislatore a dettare una disciplina di attuazione di tale diritto, non è mai stata emanata una legge nazionale organica del diritto di asilo che ne regolasse le condizioni di esercizio. In tale situazione di vuoto normativo, lungo e travagliato è stato il dibattito dottrinario e giurisprudenziale circa la natura meramente programmatica o immediatamente precettiva dell’articolo 10, comma terzo, della Costituzione. Se la giurisprudenza più risalente, proprio in considerazione del difetto di una disciplina di attuazione, ne affermava la valenza esclusivamente programmatica, dagli anni novanta, invece, si è consolidato l’orientamento opposto, seppur riconoscendo al disposto costituzionale ora 1 M. Benvenuti, voce Asilo (diritto di), Diritto Costituzionale, in Enciclopedia giuridica, Roma, 2007, p. 1. –– 5 5 –– una ampia portata immediatamente operativa, che configurerebbe “un vero e proprio diritto soggettivo all'ottenimento dell'asilo, anche in mancanza di una legge che, del diritto stesso, specifichi le condizioni di esercizio e le modalità di godimento”, ora, invece, un significato precettivo più circoscritto limitato al “diritto soggettivo di accedere al territorio dello Stato, al fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato”. In questa seconda ipotesi, il diritto soggettivo di asilo perde la sua autonomia e rilevanza per assumere una funzione meramente strumentale al riconoscimento della diversa situazione giuridica soggettiva dello status di rifugiato, con l’ulteriore conseguenza che l’esito negativo della procedura comporta la consunzione del diritto di asilo e la perdita di efficacia del permesso provvisorio di soggiorno per motivi umanitari temporaneamente concesso. La nozione generale di “rifugiato”
LA NOZIONE GENERALE DI “RIFUGIATO”
La nozione generale di “rifugiato” è entrata nel nostro ordinamento per effetto della ratifica da parte dell’Italia, con legge 24 luglio 1954, n. 722, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, modificata dal Protocollo di New York del 31 gennaio 1967 (legge di ratifica ed esecuzione del 14 febbraio 1970, n. 95). Secondo la Convenzione di Ginevra è «rifugiato» "chiunque nel giustificato timore d'essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi ". Principio cardine della Convenzione è il divieto di réfoulement (articolo 33), che si articola nel divieto di espulsione, di estradizione e di respingimento alla frontiera dello straniero verso Paesi nei quali la sua vita e la sua libertà –– 6 6 –– possano essere messi in pericolo per i detti motivi discriminatori. La Convenzione detta, quindi, una sorta di stato giuridico del rifugiato comprendente doveri – in primis l’obbligo di conformarsi a leggi e regolamenti del Paese ospitante – e diritti fondamentali che gli Stati aderenti devono garantire al rifugiato, quali quello a non subire discriminazioni, alla libertà di religione, opinione ed associazione, alla protezione legale, al lavoro, all’istruzione, all’assistenza sociale e sanitaria, etc… RAPPORTO TRA ASILO E STATUS DI RIFUGIATO Delicato è sempre stato il rapporto tra asilo e status di rifugiato. Entrambi gli istituti costituiscono strumenti di protezione politico-umanitaria dello straniero e, pur tuttavia, pacifica ne risulta la diversità ontologica, in quanto presupposto unico del diritto di asilo è la provenienza da un Paese nel quale sia impedito nei fatti il libero esercizio delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione, mentre il riconoscimento dello status di rifugiato spetta a chi, a prescindere dalle condizioni generali del Paese di origine, sia colà personalmente sottoposto a persecuzione. Risulta evidente che l’ambito di applicazione dell’asilo sia più ampio e che l’esercizio di tale diritto non possa avere, come di fatto invece affermato in passato dalla giurisprudenza surriportata, funzione meramente ancillare rispetto alla proposizione della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. Con l’introduzione anche nel nostro ordinamento - accanto allo status di rifugiato - delle ulteriori due forme di protezione dello straniero, sussidiaria ed umanitaria, l’istituto del diritto di asilo ha trovato, infine, una sua definitiva ricostruzione esegetica. Oggi, secondo l'orientamento ormai consolidato espresso dalla Corte di Cassazione «il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, –– 7 7 –– adottato in attuazione della Direttiva 2004/83/Ce del Consiglio del 29 aprile 2004, e di cui all'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286» 2 . Ne consegue che “non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’articolo 10, comma 3, Cost.”. 3 È, infine, ormai acquisizione pacifica e consolidata nel nostro sistema giuridico d'asilo che il diritto alla protezione internazionale sia un diritto soggettivo da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali tutelabili avanti all'autorità giudiziaria ordinaria 4 .
CONVENZIONE EUROPEA PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI CONVENZIONE CONTRO LA TORTURA CONVENZIONE SUI DIRITTI DEL FANCIULLO
Norme rilevanti in materia di asilo sono contenute anche in altri trattati internazionali anche successivi in tema di protezione dei diritti dell’uomo, ratificati dall’Italia come dagli altri Paesi dell’Unione europea: la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950; la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, firmata a New York il 10 dicembre 1984 e la Convenzione sui diritti del fanciullo, approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989.
La legge Martelli
LA LEGGE MARTELLI
Il decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modifiche nella legge 28 febbraio 1990, n. 39 (c.d. legge Martelli), recante “Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato”, costituisce il primo tentativo in Italia di dettare una disciplina organica del fenomeno migratorio non limitata all’ambito lavorativo. Sino a quel momento, infatti, gli interventi normativi affastellatisi confusamente avevano avuto carattere marcatamente settoriale, con l’unico obiettivo della 2 Cass. SS.UU. 26 giugno 2012 n. 10686. 3 Cass. Sez. VI 4/8/2016 n. 16362. 4 Cass. 17 dicembre 1999 n. 907; Cass. 9/4/2002 n. 5055; Cass. 18 giugno 2004 n. 11441. –– 8 8 –– regolarizzazione e tutela dei diritti dei lavoratori stranieri presenti in Italia in misura sempre più significativa dall’inizio degli anni ’80. La normativa di riferimento in tema di ingresso e soggiorno del cittadino straniero in Italia era rappresentata unicamente dal vetusto regio decreto n. 733 del 18 giugno 1931 “Testo Unico di Pubblica Sicurezza (TULPS)” le cui disposizioni, autoritarie - improntate unicamente alla garanzia dell’ordine pubblico e sovente di dubbia legittimità costituzionale poiché gravemente lesive nei confronti dello straniero di diritti fondamentali della persona - apparivano ormai del tutto inadeguate. La “legge Martelli”, nata sull’onda emergenziale della necessità di far fronte al massiccio incremento dei flussi migratori verso il nostro Paese verificatosi alla fine degli anni Ottanta e di regolare l’afflusso dei lavoratori stranieri – da cui anche lo strumento adottato della legislazione d’urgenza – recepisce ed amplia la nozione di “rifugiato” introdotta dalla Convenzione di Ginevra, in particolare facendo venir meno la “riserva geografica” posta all’atto dell’adesione dall’Italia, che si impegnava all’osservanza degli obblighi internazionali solo nei confronti degli stranieri provenienti da determinati Paesi. Con l’istituzione del permesso di soggiorno della durata da sei mesi a due anni, la legge punta a sanare la situazione dei tanti stranieri extracomunitari già stabilitisi sul territorio nazionale e - con la previsione per la prima volta di una programmazione statale dei flussi di ingresso in base alle necessità economiche e occupazionali del Paese (c.d. quote) - mira a contenere l’aumento esponenziale dell’immigrazione. Contestualmente, viene prevista la possibilità di espellere, con un foglio di via o nei casi più gravi con un accompagnamento coatto alla frontiera, gli immigrati pericolosi o clandestini. Per quanto riguarda la lotta all’immigrazione clandestina, per la prima volta sono, infine, introdotte pene detentive e pecuniarie contro coloro che la favoriscono. Con il Regolamento di attuazione (decreto del Presidente della Repubblica 15 maggio 1990, n. 136) si disciplinava nel dettaglio la procedura amministrativa per il riconoscimento dello status di rifugiato, attribuendo la –– 9 9 –– competenza all’esame delle domande alla “Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato” (oggi “Commissione Nazionale per il diritto di Asilo”). Pur nella sua incompletezza e frammentarietà, caratteristiche legate al carattere emergenziale della normativa, la legge Martelli ha sia il pregio di avere - per la prima volta - preso atto e riconosciuto ufficialmente del fenomeno della presenza importante e stabile degli immigrati nel nostro Paese, sia quello di aver posto le basi per la loro inclusione ed integrazione nel tessuto nazionale.
La disciplina comunitaria
NEL CONTESTO EUROPEO, LA PRIMA REGOLAMENTAZIONE AVVIENE CON L’ACCORDO DI SCHENGEN
Anche in ambito europeo, alla fine degli anni Ottanta, l’incremento esponenziale dei flussi migratori extracomunitari “misti” (composti cioè da rifugiati ma anche da altre categorie di migranti come i c.d. migranti economici), che ha interessato il territorio europeo nell’ultimo decennio, originato dall’insorgere di numerosi conflitti in varie parti del mondo, dall’aggravarsi in senso sfavorevole agli insediamenti umani delle condizioni climatico-ambientali nel continente africano, dall’acuirsi del divario socio-economico tra Paesi sottosviluppati e non, ha indotto ad intensificare e rimodulare l’azione politica europea in materia di asilo. In precedenza, nell’Europa degli anni ’50/’70, il fenomeno migratorio era stato prevalentemente interno ed economico e l’immigrazione extracomunitaria aveva avuto dimensioni del tutto marginali. Nel Trattato di Roma del 1957, istitutivo della CEE, la materia del trattamento dello straniero, in quanto estranea alla finalità della creazione di un mercato comune (unica forma di integrazione europea perseguita) era riservata alla competenza esclusiva degli Stati membri. Con il mutare della situazione di fatto nel decennio successivo e la creazione dello spazio comune “Schengen”, ove è garantita libertà di circolazione con apertura delle frontiere interne (Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 19 giugno 1990), viene avvertita l’esigenza di un coordinamento delle politiche d’immigrazione ed asilo degli –– 10 10 –– Stati aderenti, al fine di assicurare la sicurezza delle frontiere esterne della comunità ed evitare flussi incontrollati. Con la Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990 (ratificata in Italia con legge n. 523 del 1992), gli Stati aderenti, nel riaffermare i propri obblighi ai sensi della Convenzione di Ginevra, modificata dal protocollo di New York, senza alcuna limitazione geografica della sfera di applicazione, fissano i criteri oggettivi per la determinazione dello Stato competente per l'esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri, secondo una precisa gerarchia (articoli da 4 ad 8). Il criterio principe è quello della competenza dello Stato che abbia già riconosciuto ad un membro della famiglia del richiedente l'asilo lo status di rifugiato; in subordine, la competenza spetta allo Stato che abbia rilasciato al richiedente asilo un titolo di soggiorno o un visto, in ulteriore subordine, la competenza spetta allo Stato membro ove il richiedente ha fatto ingresso regolare o irregolare (criterio nella pratica di più ampia applicazione).
CLAUSOLA DI SOVRANITÀ
È previsto, altresì, il diritto per ciascuno Stato membro di prendere in esame una domanda di asilo presentatagli da uno straniero, anche se detto esame non gli compete in virtù dei criteri definiti nella Convenzione, a condizione che il richiedente l'asilo vi consenta (clausola di sovranità). CLAUSOLA UMANITARIA Per ragioni umanitarie, attinenti in particolare a motivi di carattere familiare e culturale, uno Stato membro, anche se non competente in base ai criteri stabiliti, su richiesta di altro Stato e con il consenso dell’interessato, può esaminare una domanda di asilo (clausola umanitaria).
FENOMENO DELL’ASYLUM SHOPPING La Convenzione mira essenzialmente a contrastare il fenomeno della presentazione di plurime domande di asilo negli Stati membri (fenomeno dell’asylum shopping), individuando prontamente all’interno dello spazio “Dublino” un unico Paese competente per il trattamento della domanda, nonché ad evitare il fenomeno dei c.d. “rifugiati in orbita”, ossia la condizione di quei richiedenti asilo che sono rinviati da un Paese all’altro. Estraneo alle finalità della –– 11 11 –– Convenzione è, dunque, l’obiettivo di un’equa distribuzione delle domande di asilo tra i Paesi aderenti, secondo un principio solidaristico. Progressivamente è stata avvertita l’esigenza di procedere ad una maggiore integrazione politico-giuridica degli Stati comunitari in tema di asilo ed immigrazione che, tuttavia, si è sempre scontrata con una certa ritrosia degli stessi Paesi a derogare al principio di sovranità nazionale, limitando le proprie valutazioni politiche e competenze legislative in materia a favore di una politica europea.
TRATTATO DI MAASTRICHT DEL 1992
Con il Trattato di Maastricht del 1992, istitutivo della Unione europea, che pure per la prima volta prevedeva una politica comune in materia di asilo, questa veniva, infatti, qualificata come “settore di comune interesse” ed ancora una volta riservata solo ad interventi di cooperazione intergovernativa. TRATTATO DI AMSTERDAM DEL 1997 È solo con il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1 maggio 1999, che vengono modificati il Trattato dell’Unione europea e quelli istitutivi delle Comunità europee e la materia dell’asilo viene trasferita alla competenza diretta comunitaria, creando la base giuridica per l’adozione di norme comunitarie.
L’ARTICOLO 63 DEL TRATTATO CE (“VISTI, ASILO, IMMIGRAZIONE E ALTRE POLITICHE CONNESSE CON LA LIBERA CIRCOLAZIONE”)
In particolare, l’articolo 63, inserito nel Titolo IV del Trattato CE (“Visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera circolazione”), prevede che il Consiglio Europeo - nell’arco del successivo quinquennio - adotti in materia di asilo, in conformità alla Convenzione di Ginevra ed agli altri Trattati internazionali, misure inerenti ai criteri e meccanismi per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda di asilo presentata da un cittadino di un Paese terzo in uno stato dell’Unione. Lo stesso articolo 63 prevede l’introduzione di norme minime in materia di accoglienza dei richiedenti asilo, di riconoscimento della qualifica di rifugiato e sulle procedure per la concessione e la revoca di tale status, nonché per il riconoscimento di forme di protezione temporanea agli sfollati di Paesi terzi che non possano tornare nel Paese d’origine e per le persone che –– 12 12 –– necessitino altrimenti di protezione internazionale. Con riguardo a tale ultimo punto, gli Stati membri hanno inteso dare riconoscimento ad istanze di protezione internazionale che non potevano trovare tutela nell’ambito della tradizionale disciplina di protezione dei rifugiati, ma solo con quelle forme di protezione sussidiaria e complementare medio tempore elaborate nell’ambito dei singoli ordinamenti nazionali. A seguito del Trattato di Amsterdam sono stati concordati i piani quinquennali di attuazione di Tampere (1999-2004), dell’Aja (2004-2009) e di Stoccolma (2009-2014) che delineano la cosiddetta road map del diritto di asilo comunitario. In una prima fase, della durata di un quinquennio (1999-2004), ci si proponeva essenzialmente di armonizzare gli ordinamenti giuridici nazionali in materia, adottando norme minime comuni che garantissero maggiore equità, efficienza e trasparenza nel trattamento dei richiedenti asilo in tutti i Paesi dell’Unione europea.
IL TRATTATO DI LISBONA INTRODUCE L’ARTICOLO 78 NEL TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA (TFUE)
La seconda fase, già anticipata nel piano elaborato in occasione del vertice di Tampere, è codificata all’articolo 78 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), così come modificato dal Trattato di Lisbona (approvato il 18 ottobre 2007 ed entrato ufficialmente in vigore il 1^ dicembre 2009). L’obiettivo perseguito è quello dello sviluppo di un sistema europeo comune di asilo, volto a garantire a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che necessiti di protezione internazionale uno status appropriato ed uniforme in tutta l’Unione in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea a favore degli sfollati, con il rispetto del principio di non réfoulement, in conformità alla Convenzione di Ginevra ed agli altri Trattati internazionali in materia, garantendo inoltre procedure comuni per l'esame delle istanze di riconoscimento e di revoca di tali status, criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro –– 13 13 –– competente per l'esame di una domanda protezione internazionale e standards comuni per l’accoglienza dei richiedenti asilo.
SVILUPPO DI PARTENARIATO E DI COOPERAZIONE CON PAESI TERZI PER GESTIRE I FLUSSI DI RICHIEDENTI ASILO O PROTEZIONE SUSSIDIARIA O TEMPORANEA
Rispetto al precedente Trattato, un elemento di importante novità è dato dalla previsione - tra le linee direttrici del sistema comune europeo di asilo - dello sviluppo di partenariato e di cooperazione con Paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo o protezione sussidiaria o temporanea. Particolare risalto, inoltre, nel nuovo Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea viene dato alla necessità di equilibrio e solidarietà tra gli Stati membri tanto da prevedere che “le politiche dell’Unione di cui al presente capo (sui controlli alle frontiere, asilo ed immigrazione) e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario” e che “ogniqualvolta necessario, gli atti dell’Unione adottati in virtù del presente capo, contengono misure appropriate ai fini dell’applicazione di tale principio”. È, infine, espressamente previsto, quale misura a carattere eccezionale, che “qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati. Esso delibera previa consultazione del Parlamento Europeo”. SISTEMA EUROPEO COMUNE DI ASILO (CEAS) In attuazione del Sistema europeo comune di asilo (CEAS), sono state approvate, dal 2003 in poi, nuove norme a livello dell’Unione europea che definiscono standards comuni elevati, diretti a garantire ai richiedenti asilo, ovunque presentino domanda di protezione internazionale, parità di trattamento in un sistema equo ed efficace, evitando altresì fenomeni di migrazione interna determinati dai diversi trattamenti loro riservati dai Paesi ospitanti. In particolare, vanno segnalate: – 14 – − la direttiva modificata in materia di accoglienza che garantisce al richiedente asilo l’accesso – 14 – a condizioni di accoglienza (alloggio, vitto, assistenza sanitaria ed occupazione, cure mediche e psicologiche) dignitose ed uniformi in tutti gli Stati membri ed una regolamentazione dettagliata e più restrittiva della possibilità di ricorso al trattenimento (direttive n. 2003/9/CE del 27 gennaio 2003 e 2013/33/UE del 26 giugno 2013); - la direttiva modificata relativa alle qualifiche, che stabilisce le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato e di quello del beneficiario di protezione sussidiaria, garantendo decisioni più motivate ed uniformi all’interno dell’UE in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, armonizzando, altresì, i diritti concessi in materia di accesso all’occupazione ed all’assistenza sanitaria ai titolari di protezione internazionale (direttive n. 2004/83/CE del 29 aprile 2004 e n. 2011/95/UE del 13 dicembre 2011); - la direttiva modificata relativa alle procedure, che disciplina l’intero iter di una domanda di asilo ed è diretta a garantire decisioni in materia più eque, più rapide e di migliore qualità (direttive 2005/85/CE del 1^ dicembre 2005 e n. 2013/32/UE del 26 giugno 2013).
La legislazione degli anni ’90: dal decreto Puglia alla legge Turco-Napolitano
IL COSIDDETTO DECRETO PUGLIA
Intanto l’Italia, alla metà degli anni Novanta, conosce una nuova emergenza migratoria legata al massiccio afflusso di profughi albanesi sulle coste pugliesi, a seguito della caduta della Repubblica Socialista d’Albania nel 1991 e della grave crisi economica che aveva investito quel Paese. Con il decretolegge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito in legge 29 dicembre 1995, n. 563 (“Disposizioni urgenti per l’ulteriore impiego del personale delle Forze Armate in attività di controllo della frontiera marittima nella regione Puglia”) si costituiscono tre centri lungo la frontiera marittima pugliese per le esigenze di prima assistenza, prevedendo, altresì, la possibilità di interventi e di istituzione di centri analoghi anche in altre aree –– 15 15 –– del territorio nazionale, in relazione a situazioni di emergenza che ivi si verificassero. Non viene però dettata una disciplina organica in tema di accoglienza. Alla fine degli anni Novanta, l’acuirsi della pressione migratoria ed il sempre più diffuso timore nell’opinione pubblica del rischio di criminalità connesso all’immigrazione clandestina, inducono nella classe politica la convinzione che la legge Martelli sia ormai del tutto inadeguata a fronteggiare il fenomeno.
LA LEGGE 6 MARZO 1998 N. 40 (COSIDDETTA LEGGE TURCO-NAPOLITANO)
Viene, quindi, varata la legge 6 marzo 1998, n. 40 (c.d. legge Turco-Napolitano), recante “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, con la quale ci si propone, superando la fase emergenziale affrontata dalla precedente legge Martelli, di dettare una disciplina organica dell’intera materia dell’immigrazione. In particolare, la legge Turco-Napolitano intende contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina prevedendo sanzioni ben più severe della normativa precedente, soprattutto allorché il favoreggiamento dell’immigrazione avvenga con finalità di lucro.
CARTA DI SOGGIORNO
Nel contempo, favorisce l’integrazione dello straniero regolare, prevedendo il rilascio a suo favore di carta di soggiorno nell’ipotesi di permanenza regolare nel nostro Paese per almeno cinque anni.
RESPINGIMENTO ALLA FRONTIERA, ESPULSIONE E ALLONTANAMENTO
Sempre al fine del contrasto dell’immigrazione irregolare e delle derive criminali della presenza nel territorio dello Stato di stranieri extracomunitari pericolosi, vengono introdotti gli istituti del respingimento alla frontiera del migrante clandestino da parte del Questore e dell’espulsione quale misura di sicurezza o quale sanzione sostitutiva della detenzione applicata dall’autorità giudiziaria. Viene altresì ampliato il campo di applicazione dell’allontanamento dello straniero clandestino mediante accompagnamento alla frontiera.
CENTRI DI PERMANENZA TEMPORANEA (CPT)
Ma la norma più innovativa e discussa della legge Turco-Napolitano fu quella istitutiva dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT, poi divenuti CIE e poi CPR), destinati ad ospitare, per un periodo massimo di trenta giorni, gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione o di allontanamento con accompagnamento coatto alla frontiera non immediatamente eseguibili. La portata innovatrice era data dalla previsione - per la prima volta in Italia - di una forma di detenzione a fini amministrativi non collegata alla commissione di fatti di rilevanza penale. È bene, tuttavia, evidenziare in proposito che, in altri ordinamenti nazionali di Paesi dell’Unione europea, la possibilità di detenzione del clandestino a fini di accertamento dell’identità, anche in ambito carcerario e per periodi anche più lunghi, era già ed è tuttora contemplata.
IL DECRETO LEGISLATIVO 25 LUGLIO 1998, N. 286 (COSIDDETTO TESTO UNICO SULL’IMMIGRAZIONE)
In ottemperanza alla delega contenuta nella stessa legge Turco-Napolitano (articolo 47, comma 1), il Governo emanava il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, contenente il “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” e, ex articolo 1, comma 6, dello stesso decreto, il relativo Regolamento di attuazione (decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394).
La legge Bossi-Fini del 2002
LEGGE 30 LUGLIO 2002 N. 189 (COSIDDETTA LEGGE BOSSI-FINI)
Ad appena quattro anni di distanza, le disposizioni del testo unico accusate di non offrire valido baluardo all’immigrazione clandestina ed alla criminalità ad essa collegata, vengono modificate ad opera della legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. legge Bossi-Fini).
OBBLIGO DELLA SOTTOPOSIZIONE A RILIEVI FOTODATTILOSCOPICI
Viene introdotto l’obbligo della sottoposizione a rilievi fotodattiloscopici per lo straniero che chiede il permesso di soggiorno o il suo rinnovo. L’espulsione eseguita dal Questore mediante accompagnamento coattivo alla frontiera diviene la principale modalità di espulsione.
L’INOTTEMPERANZA AD UN ORDINE DI ALLONTANAMENTO DIVIENE REATO
Il periodo di permanenza presso un CPT viene prolungato da trenta a sessanta giorni e l’inottemperanza ad un ordine di allontanamento viene configurata quale reato. La legge Bossi-Fini introduce, altresì, la possibilità di trattenimento anche del richiedente asilo in appositi centri di identificazione ed, addirittura, ove questi sia già destinatario di provvedimento di espulsione o respingimento, in un CPT. In attesa della definizione da parte dell’Unione europea di procedure minime comuni per l’esame delle domande di protezione internazionale, la legge n. 189 del 2002, al fine di porre rimedio al problema dell’abuso delle domande di asilo strumentalmente presentate solo al fine di eludere un provvedimento di espulsione, oltre all’appena detto trattenimento del richiedente asilo in CPT, introduce una procedura semplificata e più breve, laddove l’istanza appaia palesemente infondata.
COMMISSIONI TERRITORIALI PER IL RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI RIFUGIATO
La finalità di accelerazione dei tempi di definizione delle domande di asilo è, inoltre, perseguita attraverso il decentramento della competenza a decidere dalla Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato istituita dalla legge Martelli (ridenominata Commissione Nazionale per il diritto di asilo ed il cui ambito di competenze viene ridisegnato), alle neo costituite “Commissioni Territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato”, istituite presso le Prefetture - Uffici Territoriali del Governo. Anche la procedura di esame della domanda, già dettata dal Regolamento di attuazione della legge Martelli (decreto del Presidente della Repubblica n. 136 del 1990), viene modificata con il Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato adottato con decreto del Presidente della Repubblica del 16 settembre 2004, n. 303.
SERVIZIO DI PROTEZIONE PER RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI (SPRAR),
FONDO NAZIONALE PER LE POLITICHE ED I SERVIZI DELL’ASILO E SERVIZIO CENTRALE SPRAR
Altra importante integrazione apportata alla legge Martelli è quella che prevede l’istituzione del Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) gestito dagli enti locali con la previsione di un contributo finanziario elargito dallo Stato agli enti locali impegnati in tali servizi attraverso apposito fondo, denominato Fondo nazionale per le politiche ed i servizi dell’asilo, istituito presso il Ministero dell’Interno presso il quale è costituito, altresì, un Servizio Centrale SPRAR, affidato all’ANCI, con funzioni di informazione e coordinamento, consulenza, supporto tecnico e monitoraggio.
I regolamenti Dublino II e Dublino III
REGOLAMENTO N. 343 DENOMINATO DUBLINO II
Nell’ambito della prima fase di attuazione del sistema comune europeo di asilo, viene approvato il 18 febbraio 2003 il Regolamento n. 343 denominato Dublino II che sostituisce, rendendola norma comunitaria immediatamente applicabile, la Convenzione di Dublino del 1990 recependone il contenuto in modo sostanzialmente inalterato. Un elemento di novità è rappresentato dalla possibilità di applicazione della clausola di sovranità a prescindere dal consenso dell’interessato.
REGOLAMENTO N. 604 DEL 26 GIUGNO 2013 DENOMINATO DUBLINO III
Il successivo Regolamento n. 604 del 26 giugno 2013, denominato Dublino III, non intacca il nucleo centrale del precedente regolamento e della convenzione di Dublino in ordine ai criteri di determinazione dello Stato membro competente all’esame della domanda di asilo, ma introduce elementi innovativi al fine di rendere le procedure più efficaci e celeri (tempi massimi per la presa in carico dell’interessato e per il trasferimento) e disposizioni a maggiore tutela e garanzia dei richiedenti (obblighi di informazione e colloquio personale obbligatorio con il richiedente, tutela dell’interesse superiore del minore e maggiori possibilità di ricongiungimento familiare, previsione della possibilità di impugnazione avverso la decisione di trasferimento e suo effetto sospensivo unitamente all’assistenza legale gratuita, divieto espresso di trasferimento nel caso di esposizione al rischio di trattamenti disumani o degradanti, limitazione della possibilità e della durata del trattenimento).
TESTO DI RIFORMA DEL REGOLAMENTO DUBLINO III
DELEGA APERTA PER RECEPIRE LA NORMATIVA EUROPEA SULLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Da ultimo, è stato recentemente approvato presso la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento europeo un testo di riforma del Regolamento Dublino III5 che prevede, in attuazione del principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità consacrato dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea come modificato dal Trattato di Lisbona sinora di fatto disatteso, l’attribuzione della competenza all’esame della domanda di asilo non più in base al criterio del primo ingresso, rivelatosi pesantemente penalizzante per i Paesi dell'Unione europea con frontiere esterne (tra cui evidentemente l’Italia), ma secondo una ripartizione tra tutti gli Stati membri per quote stabilite secondo criteri oggettivi. Verrebbe, inoltre, favorito il ricongiungimento familiare attraverso l’adozione di un concetto di famiglia più ampio, nonché attribuita rilevanza anche a “fattori di collegamento”, quali precedenti soggiorni, periodi di studio o formazione o la sponsorizzazione da parte di enti accreditati, per cui il richiedente asilo possa vantare una preferenza per un determinato Paese all’interno dell’Unione. Norme di recepimento delle direttive europee Nel nostro ordinamento, successivamente alla legge Bossi-Fini, sono state emanate una serie di norme di recepimento delle direttive europee che sono andate a costituire un corpus legislativo che si è aggiunto alle norme preesistenti senza che sia mai stata approvata una legge organica che dettasse una disciplina unitaria del diritto di asilo, anche solo raccogliendo e coordinando in un testo unico tutte le disposizioni di legge nel tempo intervenute in materia. Non a caso, l’articolo 7 della legge 7 ottobre 2014, n. 154 (Legge di delegazione europea 2013 secondo semestre), reca delega al Governo per l'adozione di un testo unico delle disposizioni di attuazione della normativa dell'Unione europea in materia di protezione internazionale e di protezione temporanea entro il 20 luglio 2019.
DECRETO LEGISLATIVO 7 APRILE 2003, N. 85: COM(2016) 270 CONCESSIONE DELLA PROTEZIONE TEMPORANEA IN CASO DI AFFLUSSO MASSICCIO DI SFOLLATI
Con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85, è stata 5 data attuazione alla direttiva europea 2001/55/CE del 20 luglio 2001 (“recante norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi”). Non si tratta di un'ulteriore forma di protezione internazionale in aggiunta a quella riconosciuta ai rifugiati e a quella sussidiaria, ma di una «procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all'Unione europea che non possono rientrare nel loro Paese d'origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora sussista il rischio che il sistema d'asilo non possa far fronte a tale afflusso» (articolo 2, comma 1, lett. a)). Per «sfollati» debbono intendersi coloro, cittadini di Paesi terzi o apolidi, che fuggono o sono stati evacuati da zone ove vi sono conflitti armati o situazioni di violenza endemica o siano esposti a rischio grave o siano stati vittime di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani ed il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta momentaneamente impossibile in dipendenza della situazione nel Paese stesso (articolo 2, comma 1, lett. c)). Lo strumento della protezione temporanea in esame non è stato finora mai attuato, benché richieste in tal senso siano state formulate dal Governo italiano in occasione dei massicci sbarchi di persone provenienti dalla Tunisia nei primi mesi del 2011. In occasione di tale emergenza – come già in precedenza in favore degli sfollati provenienti dall'ex Jugoslavia, dall'Albania e dal Kosovo – lo Stato italiano attivò lo strumento previsto dall'articolo 20 del decreto legislativo n. 286 del 1998 (Misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali).
DECRETO LEGISLATIVO 30 MAGGIO 2005, N. 140 LE DUE FORME DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE: • STATUS DI RIFUGIATO • PROTEZIONE SUSSIDIARIA LA DEFINIZIONE DI «RIFUGIATO»
Per un più approfondito esame dell’istituto della protezione temporanea si rimanda a quanto esposto nella Relazione sull’attività svolta approvata da questa Commissione il 3 maggio 2016, pagg. 78/796 . Con il decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 140, successivamente modificato con il decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, è stata data attuazione alle direttive europee nn. 2003/9/CE del 27 gennaio 2003 (“recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri”) e 2013/33/UE del 26 giugno 2013 (“recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale”). Per una più ampia ricostruzione dell’evoluzione del sistema di accoglienza in Italia si rimanda a quanto di seguito esposto al secondo capitolo. Lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria Presupposti e contenuti delle due forme di protezione internazionale – status di rifugiato e protezione sussidiaria – sono stati disciplinati per la prima volta in ambito comunitario dalla direttiva 2004/83/CE del 29 aprile 2004 (“recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”), cui è stata data attuazione nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 – c.d. «Decreto qualifiche» – poi modificata dalla direttiva 2011/95/UE (“recante norme sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o gli aventi titolo a beneficiare dell'asilo, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta”) recepita con il decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 18, che ha modificato in parte il predetto decreto qualifiche. La definizione di «rifugiato», elaborata già nel diritto internazionale e contenuta all'articolo 1 – A, n. 2 par. 1 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, è stata recepita fedelmente all'articolo 2, comma 1, lett. e) del decreto legislativo n. 251 del 2007, secondo cui è «rifugiato» il «cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione di cui all'articolo 10».
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
La protezione sussidiaria nella disciplina comunitaria è prevista con funzione complementare e subordinata rispetto alla protezione internazionale accordata con il riconoscimento dello status di rifugiato. La valutazione della ricorrenza dei presupposti per la protezione sussidiaria dovrà, pertanto, necessariamente intervenire successivamente alla negativa delibazione circa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della prima forma di protezione internazionale. Coerentemente, l'articolo 2, comma 1, lett. f) del decreto legislativo n. 251 del 2007 offre la seguente definizione di «persona ammissibile alla protezione sussidiaria: cittadino di un Paese non appartenente all'Unione europea o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dall'articolo 14 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese». Il successivo articolo 14 del decreto legislativo n. 251 del 2007 precisa che «ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte; b) la –– 23 23 –– tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». A norma dell’articolo 23 del detto decreto legislativo, ai titolari dello status di rifugiato ed ai titolari dello status di protezione sussidiaria viene rilasciato un permesso di soggiorno di durata quinquennale rinnovabile, che consente l'accesso al lavoro e allo studio ed è convertibile per motivi di lavoro, sussistendone i requisiti.
LA PROTEZIONE UMANITARIA
Il nostro sistema giuridico d’asilo conosce una terza forma di protezione, di ben più complessa ricostruzione esegetica, quella della protezione umanitaria, istituto che non trova la sua fonte nel diritto internazionale o in quello comunitario, ma è previsto unicamente nell'ordinamento interno all'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo n. 286 del 1998. Trattasi, quindi, di una forma di protezione riconosciuta dall'Italia, avente carattere residuale tale cioè da poter essere accordata solo in difetto dei presupposti per il riconoscimento delle due forme principali di protezione internazionale ed assai meno disciplinata e strutturata rispetto alle altre due, in quanto la norma succitata contiene una previsione di carattere del tutto generale che può abbracciare una ampia gamma di situazioni soggettive meritevoli di tutela. Massima, di conseguenza, è anche la discrezionalità applicativa, con tutto quel che ne può conseguire in termini di rischio di abuso dell'istituto e di difficoltà di verificabilità e controllo delle decisioni. L'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo n. 286 del 1998 prevede che «il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti –– 24 24 –– da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione». L'articolo 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del T.U.), in materia di rilascio del permesso di soggiorno, individua “oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale” tra i vari motivi di concessione del permesso per motivi umanitari. Il citato articolo 19 (Divieti di espulsione e di respingimento. Disposizioni in materia di categorie vulnerabili) del testo unico n. 286 del 1998, al comma 1, recita: «In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione». L'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha ritenuto, pertanto, di individuare i «seri motivi» presupposto per il riconoscimento della protezione umanitaria in ragioni umanitarie o nella lesione o messa in pericolo di diritti e garanzie inviolabili dell'uomo riconosciuti dalla nostra Costituzione e/o da convenzioni internazionali, che non interessino direttamente il richiedente (che altrimenti avrebbe diritto al riconoscimento di una delle altre due protezioni), ma abbiano sul medesimo un'incidenza potenziale ed indiretta, quali il diritto alla vita, il divieto di tortura e di trattamenti disumani o degradanti, il divieto di schiavitù e lavoro forzato, il divieto di tratta di esseri umani a fini di sfruttamento, il diritto alla tutela delle persone vulnerabili (minori, disabili, anziani, genitori singoli con figli minori, donne in stato di gravidanza, vittime di gravi violenze fisiche, psichiche o sessuali) o, infine, in condizioni psicofisiche dell'interessato che siano tali da non consentirgli o l'allontanamento o la cura nel Paese d'origine, tutela peraltro imposta dal diritto costituzionalmente garantito alla salute.
LE PROCEDURE PER IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO DI ASILO
Le procedure per il riconoscimento del diritto di asilo sono disciplinate dal decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 – c.d. “Decreto Procedure” – che ha dato attuazione alla delibera europea n. 2005/85/CE del 1^ dicembre 2005 (“recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”), novellato, poi, dal decreto legislativo 1 settembre 2011 , n. 150, e, da ultimo, dal decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, che ha dato attuazione alla delibera europea n. 2013/32/UE del 26 giugno 2013 (“recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”). Con decreto del Presidente della Repubblica 12 gennaio 2015, n. 21, è stato emanato il relativo regolamento di attuazione.
DURANTE LA FASE AMMINISTRATIVA E L’EVENTUALE GIUDIZIO DI PRIMO GRADO IL RICHIEDENTE ASILO HA DIRITTO A PERMANERE NEL TERRITORIO DELLO STATO IN REGIME DI ACCOGLIENZA.
Durante la fase amministrativa e l’eventuale fase giurisdizionale di primo grado, il richiedente asilo ha diritto a permanere nel territorio dello Stato in regime di accoglienza. La competenza all’esame della domanda di protezione internazionale è affidata alle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale (già denominate Commissioni Territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato nella legge Bossi-Fini), attualmente in numero di venti con altrettante sezioni.
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO È ASSISTITO DA GARANZIE PROCEDURALI ASSIMILABILI A QUELLE DEL PROCEDIMENTO AVANTI ALL’AUTORITÀ
Il procedimento amministrativo è per così dire “paragiurisdizionalizzato” in quanto assistito da garanzie procedurali diverse ma assimilabili a quelle del procedimento avanti all’autorità giudiziaria, improntato alla più ampia tutela e garanzia dei diritti del richiedente asilo (composizione delle commissioni territoriali formate da rappresentanti dell'amministrazione centrale, degli enti locali e di organismi –– 26 26 –– GIUDIZIARIA internazionali, libero accesso alla procedura, possibilità di assistenza legale, audizione personale del richiedente, ampi poteri istruttori dello stesso, verbalizzazione degli atti, obbligo informativo previsto in ogni fase del procedimento amministrativo nei confronti del richiedente asilo nella lingua da lui conosciuta ed obbligatoria assistenza da parte di un interprete, particolari garanzie per i minori ed altre categorie vulnerabili, obbligo di valutazione della situazione individuale del richiedente asilo unitamente alla situazione del Paese d’origine e di decisione scritta, motivata in fatto ed in diritto, con indicazione degli elementi di valutazione e delle fonti di informazione, natura collegiale della decisione). Avverso il provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale è consentita l’impugnazione avanti all’autorità giudiziaria (Tribunale in composizione monocratica) con effetto devolutivo prevedendosi la totale cognizione del giudice su tutto l'oggetto del procedimento amministrativo, con piena rivalutazione di ogni aspetto in fatto ed in diritto e con la possibilità di attivazione anche di poteri istruttori ufficiosi. L’impugnazione ha effetto sospensivo dell’esecutività del provvedimento impugnato. Il procedimento di primo grado si svolge secondo il rito sommario di cognizione nel termine massimo di sei mesi (così a seguito della modifica introdotta dal decreto legislativo n. 150 del 2011 , prima il rito era camerale). Il provvedimento giurisdizionale di rigetto del ricorso può essere appellato avanti alla Corte d’Appello, che decide in composizione collegiale con effetto devolutivo e piena cognizione sull'intero oggetto del giudizio, con possibilità di rinnovazione istruttoria e nel termine massimo di sei mesi. Avverso il provvedimento di rigetto in grado di appello può essere proposto ricorso per cassazione per motivi di legittimità. Anche per questa fase è previsto il termine massimo di sei mesi. Per una più approfondita disamina delle procedure amministrative e giurisdizionali di esame delle domande di protezione internazionale e delle loro criticità nel periodo antecedente all’emanazione del decreto di cui qui di seguito, si rimanda all’esposizione contenuta nella Relazione sull’attività svolta approvata da questa Commissione il 3 maggio 2016, pagg. 79/1017 . Il decreto Minniti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e le disposizioni sui minori stranieri non accompagnati
DECRETO LEGGE 17 FEBBRAIO 2017 N. 13 (COSIDDETTO DECRETO MINNITI)
Con decreto legge 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale) convertito con modificazioni dalla legge 13 aprile 2017, n. 46, preso atto della crescita esponenziale delle domande di protezione internazionale e del rilevante incremento delle impugnazioni giurisdizionali con conseguente insostenibile aggravio di lavoro delle autorità amministrative e giudiziarie preposte a tali procedimenti nonché delle difficoltà nel rimpatrio dei soggetti non aventi titolo all’asilo, si è inteso dettare norme dirette ad agevolare ed accelerare i procedimenti amministrativi e giurisdizionali in materia e l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione e allontanamento dei cittadini stranieri in posizione di soggiorno irregolare.
ISTITUZIONE DI SEZIONI SPECIALIZZATE IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CITTADINI DELL'UNIONE EUROPEA
Sul primo fronte, si è intervenuti con l’istituzione di Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea presso ogni tribunale ordinario del capoluogo del distretto di Corte d’appello - per un totale, quindi, di 26 sezioni – con competenza tendenzialmente estesa all’intera materia dell’immigrazione e dell’asilo (ma restano di competenza del Giudice di Pace importanti procedimenti come quelli ex articolo 18 del decreto legislativo n. 150 del 2011 di impugnazione del decreto prefettizio di espulsione e quelli ex articolo 13 comma 5-bis e 14 del decreto legislativo 7 n. 286 del 1998, concernenti rispettivamente la convalida del provvedimento del Questore di allontanamento dal territorio dello Stato e la convalida del provvedimento del Questore di trattenimento dello straniero in un CIE) ora in composizione monocratica ed ora collegiale (ad es., per le controversie in materia di protezione internazionale). A tali sezioni devono essere assegnati giudici dotati di specifiche competenze e formazione. Ulteriori previsioni sempre al fine dell’accelerazione dei procedimenti giurisdizionali in materia di protezione internazionale, sono quelle contenute nel nuovo articolo 35 bis introdotto nel decreto legislativo n. 25 del 2008, del mutamento del rito da sommario di cognizione a camerale (rito, peraltro, già previsto per tali procedimenti antecedentemente alla novella introdotta con il decreto legislativo n. 150 del 2011), tendenzialmente senza fissazione dell’udienza di comparizione delle parti che eccezionalmente potrà essere celebrata nei casi di cui al comma 11 dell’articolo cit. (disposizione, tuttavia, che lascia ampia discrezionalità al giudice e cui, prevedibilmente, verrà fatto significativo ricorso) e dell’abolizione del grado di appello. Sempre in funzione acceleratoria del giudizio, il termine per la decisione è ridotto da sei a quattro mesi ed il decreto di rigetto – di cui è prevista la possibilità di sospensiva dell’esecutività per fondati motivi - è ricorribile per Cassazione con previsione di durata massima di sei mesi del giudizio di legittimità. Al fine di semplificare e rendere più efficienti le procedure avanti alle Commissioni territoriali sono introdotte ulteriori modifiche al decreto legislativo n. 25 del 2008 e segnatamente agli articoli 11, comma 3, in tema di notificazioni ed all’articolo 14, interamente sostituito, per quanto riguarda l’audizione del richiedente asilo che dovrà essere videoregistrata e trascritta in lingua italiana con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale. In sede di ricorso giurisdizionale, la videoregistrazione dovrà essere trasmessa unitamente al verbale di trascrizione all’autorità giudiziaria, che se ne dovrà avvalere ai fini istruttori sostanzialmente in sostituzione della comparizione personale del richiedente in udienza che, di norma, non dovrà essere fissata.
CENTRI DI PERMANENZA PER I RIMPATRI (CPR)
La Commissione dovrà, inoltre, mettere a disposizione del magistrato tutti gli atti utilizzati per la decisione in sede amministrativa. La nuova legge ha invero già suscitato un vivace dibattito dottrinale, che verrà meglio illustrato in seguito (vedi pag. 117). Per quanto concerne, invece, il contrasto all’immigrazione clandestina, il decreto legge 17 febbraio 2017, n. 13, ridenomina in centri di permanenza per i rimpatri (CPR) gli ex CIE già CPT prevedendone, altresì, l’ampliamento della rete privilegiando per la dislocazione di nuovi centri le aree extraurbane. Il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale potrà avervi libero accesso. Con modifica dell’articolo 14, comma 5, del decreto legislativo n. 286 del 1998, si prevede, inoltre, che lo straniero che sia già stato detenuto in carcere per un periodo di 90 giorni, e che, secondo il disposto previgente, poteva esservi trattenuto per un periodo massimo di trenta giorni, possa permanervi, nei casi di particolare complessità delle procedure di identificazione o di organizzazione del rimpatrio, per ulteriori quindici giorni, previa convalida della proroga da parte del giudice di pace. Con integrazione dell’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo n. 142 del 2015, si estende l’obbligo del mantenimento del trattenimento in CPR anche a colui che, ristrettovi in attesa dell’esecuzione di un provvedimento di c.d. respingimento differito, abbia strumentalmente presentato una domanda di protezione internazionale al fine di eludere tale provvedimento. Nel tentativo di dare una copertura giuridica al nuovo “approccio hotspot” imposto dalla Commissione Europea, il nuovo articolo 10 ter introdotto nel decreto legislativo n. 286 del 1998 prevede che –– 30 30 –– i punti di crisi siano istituiti presso le strutture di cui alla legge n. 535 del 1995 (c.d. legge Puglia di cui sopra8 ). Permangono evidentemente tutti i dubbi di costituzionalità per violazione del disposto di cui all’articolo 13 Cost. già sollevati da autorevole dottrina in ordine al trattenimento dei migranti ai fini identificativi presso gli hotspot9 . Il nuovo articolo 10-ter, al comma 3, prevede, altresì, che il rifiuto reiterato dello straniero a sottoporsi ai rilievi fotodattiloscopici configuri rischio di fuga legittimante il trattenimento presso i CPR per un periodo massimo di trenta giorni, previa convalida del trattenimento da parte del giudice di pace. La medesima disposizione, inoltre si applica anche ai richiedenti asilo per la convalida del cui trattenimento è competente, però, la neo istituita Sezione specializzata presso il tribunale ordinario.
LA LEGGE 7 APRILE 2017, N. 47 (COSIDDETTA LEGGE ZAMPA-POLLASTRINI)
Da ultimo, con recente legge 7 aprile 2017, n. 47 (Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati), si è inteso dettare una disciplina unitaria organica in materia di protezione, rappresentanza, accoglienza ed integrazione del m.s.n.a. introducendo una serie di modifiche alla normativa vigente. Con la nuova legge, in particolare, per la prima volta viene dettata, introducendo nel decreto legislativo n. 142 del 2015 l’articolo 19 bis, una compiuta disciplina delle procedure per l’identificazione e l’eventuale accertamento dell’età del m.s.n.a. Specifiche norme vengono, poi, introdotte per favorire gli istituti dell’affidamento familiare e della tutela (istituzione presso i Tribunale per i Minorenni di appositi albi di tutori volontari per i m.s.n.a. specificamente formati), nonché i ricongiungimenti familiari ed i rimpatri volontari ed assistiti. Presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali viene istituito il Sistema informativo nazionale dei minori non 8 Vedi pag. 15. 9 Per una più ampia disamina della tematica si rimanda alla Relazione sul sistema di identificazione e di prima accoglienza nell’ambito dei centri “hotspot”, pagg. da 40 a 56. Doc. XXII-bis, n. 8: accompagnati. Si prevede che i minori non accompagnati siano accolti nell’ambito del Sistema di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non accompagnati10.
DISPOSIZIONI INTEGRATIVE E CORRETTIVE DEL DECRETO LEGISLATIVO 18 AGOSTO 2015, N. 142 Il 18 dicembre 2017, il Consiglio dei ministri ha definitivamente approvato il decreto legislativo correttivo e integrativo del decreto n. 142 del 2015. Il provvedimento prevede, tra l’altro, l’assegnazione alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale delle 250 unità di personale specializzato assunto in base al decreto legge 17 febbraio 2017, n. 13. Inoltre, razionalizza il quadro delle disposizioni applicabili in materia di minori stranieri non accompagnati, attribuendo, tra l’altro, al Tribunale per i minorenni, anziché al giudice tutelare, il potere di nominare il tutore del minore non accompagnato.
Livia Turco, l'inventrice dei Ctp che non risolse l'emergenza immigrazione. Lorenzo Grossi su Il Giornale il 22 Settembre 2023
L'ex ministra della Solidarietà è tornata a farsi sentire recentemente per criticare l'azione del governo Meloni sui migranti, ma si dimentica le storture della sua "Turco-Napolitano" di venticinque anni fa
Il presente politico di Livia Turco
Nelle settimane in cui si discute tanto di immigrazione e di emergenza sbarchi, ecco che recenntemente è ritornata in auge una di quei protagonisti politici che hanno messo mano alle norme che regolano il flusso dei migranti irregolari: Livia Turco. Scomparsa dai radar delle aule parlamentari e istituzionali da più di dieci anni, l'ex ministra della Solidarietà sociale fu l'autrice - insieme a Giorgio Napolitano - di quella legge 6 marzo 1998, n. 40 - poi rientrata nel Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 - che disciplinò quella tematica, tentando di proporsi come legislazione di superamento della fase emergenziale.
La legge che non sconfisse l'immigrazione clandestina
L'obiettivo della Turco-Napolitano (governo Prodi 1) fu quella di regolamentare l'immigrazione, favorendo da un lato l'immigrazione regolare e scoraggiando dall'altro l'immigrazione clandestina. Chi veniva poi considerato a regola poteva affrontare il percorso di acquisizione della cittadinanza, caratterizzato da una serie di tappe verso l'acquisto dei diritti propri del cittadino pleno iure, che includeva il diritto al ricongiungimento familiare, del diritto al trattamento sanitario e alla salute, e del diritto all'istruzione. Di contro, l'immigrato clandestino diventava destinatario di un provvedimento di espulsione dallo Stato.
Livia Turco perde le staffe: "Mi sono fatta un culo così"
Tale legge istituiva anche, per la prima volta, la figura del Centro di permanenza temporanea (all'articolo 12), per tutti gli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile". Nonostante le buone intenzioni, tuttavia, quella legge non riuscirà a risolvere un fenomeno che si era sviluppato in Italia soprattutto nella seconda parte degli anni '90. Tant'è che, appena quattro anni più tardi, il governo Berlusconi dovrà ricorrere alla Bossi-Fini per consentire di tamponare un po' la situazione.
Il presente politico di Livia Turco
Nata a Cuneo il 13 febbraio 1955, Livia Turco è una donna che ha sempre militato orgogliosamente a sinistra. Iscritta alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci), l'organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano, nel 1973 si trasferisce a Torino e conferma la sua scelta di adesione politica nel Pci. Durante quegli anni difficili si occupa della lotta al terrorismo e delle battaglie per superare i manicomi, conquistare la legge per la regolamentazione dell'aborto e ottenere il servizio sanitario nazionale approvato nel 1978. Viene eletta nel 1987 in Parlamento e vi rimane ininterrottamente fino al 2013, tra Camera dei Deputati e Senato della Repubblica. Tra il 2006 e il 2008 verrà nominata anche ministra della Salute. Dal Pci passa al Pds e poi al Partito Democratico, con il quale deciderà di non ricandidarsi alle elezioni politiche del 2013.
I suoi sostegni a Roberto Giachetti come sindaco di Roma nel 2016 e ad Andrea Orlando come segretario nazionale del Pd nel 2017 non daranno i frutti sperati. Dovrà aspettare il 2021 per ricoprire nuovamente un incarico pubblico: il neoeletto primo cittadino della Capitale, Roberto Gualtieri, la nomina la sceglie per la guida dell'Azienda dei servizi alla persona "Istituto romano San Michele". Dopo un lungo periodo di silenzio, Livia Turco è tornata a parlare proprio della sua storica legge sull'immigrazione per criticare l'attuale governo Meloni: "I nostri erano centri per quei pochi casi di migranti di cui non fossimo riusciti a scoprire le generalità. Solo 30 giorni in attesa di svolgere le faticose indagini con i consolati".
Ora Zingaretti ricicla pure Livia Turco
Peccato che la "mancata esibizione del documento d'identità senza giustificato motivo", prevista dal Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ha consentito la bizzarrìa secondo la quale un immigrato straniero poteva tranquillamente assolto (anche più volte) dal reato previsto in quanto un "giustificato motivo per non esibire il documento" poteva essere il fatto che lui - quel documento - non lo possedeva proprio. I sospettati non potevano essere identificati e gli espulsi furono un numero limitato.
La ricetta pragmatica di Fini sull'immigrazione: "Cambiare la Bossi-Fini. Il blocco navale è da campagna elettorale". Il Foglio il 20 settembre 2023.
"Sono passati vent'anni da quella legge, è cambiato tutto", dice il fondatore di Alleanza Nazionale. Poi bacchetta Salvini e plaude al lavoro di Tajani: "Serve una risposta sovranazionale"
Gianfranco Fini, ex presidente della Camera e fondatore di Alleanza Nazionale, intervistato oggi dal Fatto Quotidiano si esprime sulla gestione, da parte del governo, dei flussi migratori: “La legge che porta la mia firma e quella di Umberto Bossi va cambiata, ha vent'anni e quindi è datata”. Sottolineando la somiglianza con la norma "Turco-Napolitano", che richiedeva un contratto di lavoro per essere considerato migrante economico, aggiunge: "Vent'anni dopo è cambiato tutto il panorama internazionale e il fenomeno migratorio si è trasformato. Oggi riguarda centinaia di migliaia di persone ed è dovuto a grandi fattori economico-sociali: il divario tra nord e sud del mondo, il malessere sociale, il crollo di alcuni stati come Siria e Libia e così via. Per questo la legge va cambiata".
Fini analizza l'evoluzione del fenomeno migratorio: "Oggi coloro che arrivano in Europa spesso chiedono di godere del diritto di asilo perché arrivano da guerre, carestie, persecuzioni. Ma il quadro è cambiato: quando fu approvata la mia legge solo in pochissimi chiedevano l’asilo. Sono cambiate le condizioni e quindi bisogna agire in un contesto sovranazionale, perché nessuno stato può affrontare da solo un fenomeno così gigantesco. Basti pensare che la sola Nigeria tra vent'anni avrà più abitanti dell’intera Europa. La mia legge prevedeva quote di ingresso regolari: portò a una sanatoria di centinaia di migliaia di migranti. Questo è il modello da seguire".
Poi l'apprezzamento nei confronti dell'atteggiamento del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, riguardo al tentativo di coinvolgere l'Onu: "Le risposte possono essere solo sovranazionali, coordinate in sede europea e a livello internazionale. Qualcuno in Italia pensa di affrontare la cosa in maniera risoluta, ma sui migranti non si può dire né di 'stare a casa lorò né 'accogliamoli tuttì".
Quanto all'altro azionista di maggioranza, Matteo Salvini, l'ex leader di Alleanza Nazionale si esprime così: "Il governo non è diviso, come dice l’opposizione. Ma quello di Salvini è un comizio, un tweet: sono affermazioni eccessive tipiche della campagna elettorale. Però poi non ci pensa a fare la crisi di governo".
Infine l'invito al pragmatismo: "La politica dovrebbe fare un ragionamento più ampio rispetto alla battuta giornaliera del blocco navale tipica di una campagna elettorale. Il blocco navale è solo un elemento e anche controverso: l’operazione Sophia, che serviva per controllare gli sbarchi con le navi europee funzionava a metà. C'erano resistenze degli stati nazionali perché veniva mantenuto il Trattato di Dublino".
Il governo dice di voler bloccare le partenze. Ci riuscirà? "Sono buone intenzioni, ma ci sono paesi che fanno resistenza. Prendiamo la Tunisia che dice: dateci i soldi e forse li fermiamo. La logica dell'interesse nazionale vale per tutti. Non resta che la redistribuzione a livello europeo", continua Fini che aggiunge: "Fino a quando si continuerà a ragionare secondo la logica degli stati nazionali non si troverà una soluzione. In Francia dove c'è Le Pen, in Germania dove Afd è in risalita e nei Paesi di Visegrad c'è una destra radicale e sovranista che sta emergendo: così nessuno vuole prendersi parte dei migranti"
Migranti, Mattarella archivia le regole di Dublino: “Sono preistoria, ora sforzo insieme” La Repubblica il 21 settembre 2023.
"Il nostro compito è quello di essere riferimento della comunità nazionale e formulare suggerimenti. Io credo che occorra di fronte ad un fenomeno così, pensare in maniera adeguata: le regole di Dublino sono preistoria, era un altro mondo, non c'era una migrazione di massa, è come fare un salto in un'altra era storica. Sono una cosa fuori dalla realtà. Occorre invece uno sforzo insieme, prima che sia impossibile governare il fenomeno migratorio in modo da affrontarlo con nuove formule". Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel corso della conferenza stampa tenuta con il presidente tedesco Frank Walter Steinmeier a Siracusa.
Rispondendo a chi gli chiede un commento sul fatto che la Germania non accolga i migranti: "E' un argomento di cui parlano i due ministri dell'Interno e sono convinto che troveranno una soluzione collaborativa. Quello che è emerso nei nostri colloqui è un'omogeneità di pensiero sul tema dei migranti, abbiamo entrambi la percezione che è un fenomeno epocale che va affrontato non con provvedimenti tampone ma con una visione del futuro. Ma di questo si occupano i governi, non spetta a me e Steinmeier".
Il presidente tedesco concorda: "Abbiamo bisogno di regole comuni europee, nel rispetto della verità se vogliamo tenere aperti confini interni Ue abbiamo bisogno di un dibattito sugli strumenti per consentire ciò". "Dal febbraio scorso – ha continuato – ci troviamo in una situazione che non avremmo mai voluto vedere, a cominciare dalla guerra in Ucraina. In Europa dobbiamo occuparci della sicurezza, c'è coesione e compattezza nel sostegno a Kiev. E sono grato al sostegno che l'Italia dà all'Ucraina e di questo la ringrazio", ha detto rivolto a Mattarella.
"Abbiamo parlato della migrazione e del rafforzamento della cooperazione con i paesi d'origine. Dobbiamo adoperarci perché il numero degli approdi diminuiscano ed abbiamo bisogno di soluzioni europee".
Migranti, è il regolamento di Dublino che ingolfa l’Italia: Salvini rifiutò la riforma piegandosi ai Paesi di Visegrad. Angelo Lucarella, Giurista, saggista, opinionista, su Il Riformista il 19 Settembre 2023
Lampedusa sta registrando flussi migratori incessanti ed incredibili. Tuttavia non c’è da meravigliarsene perché con Malta, si tratta dell’isola di approdo più facile per chi parte dalle coste africane prospicenti sul meridione d’Italia. Quando ci fu il flusso albanese non è che si poteva pensare che quest’ultimi arrivassero in Sicilia. Era ovvio che si indirizzassero verso la Puglia.
Quindi c’è di fatto un flusso migratorio che mira all’approdo più sensato in quell’ottica di ricerca di una vita migliore il prima possibile.
C’è però da differenziare che:
un conto sono i migranti economici;
altro sono i richiedenti asilo;
altro conto sono coloro che vogliono andare via dal Paese di origine per mete che assicurano il rispetto dei diritti inviolabili pur non essendo perseguitati;
altro conto ancora è chi si sposta, pur imbarcato nelle condizioni di fortuna che conosciamo, per entrare illegalmente in uno dei Paesi dell’Unione Europea con l’idea di aggirare transiti ufficiali (un esempio su tutti il migrante che riesce a pagare 10.000 dollari tutto il tragitto).
Sui primi due ci sono regolamenti comunitari ben chiari: il Frontex (Reg. UE n. 2016/1624) e il Dublino III (2013/604).
Sulle altre due ipotesi il diritto nazionale dei singoli Paesi UE dovrebbe disciplinare gli ingressi e punire penalmente il resto. Ma come sappiamo è tanto difficile che si percepisca lo stato dell’arte.
La questione, tuttavia, è ripartire le competenze del problema sotto un occhio di analisi che va dal geopolitico al giuridico che, loro volta, sono l’essenza della scelta politica.
Nel dare sostegno all’Italia per il drammatico ed impegnativo momento che “l’isola dei diritti umani” sta vivendo più di tutti nel nostro Paese (ma anche a livello europeo), Von der Leyen, in visita a Lampedusa con Giorgia Meloni, ha proposto un piano UE in 10 punti:
supporto concreto all’Italia attraverso Frontex;
trasferimento dei migranti da Lampedusa verso altre destinazioni con meccanismo volontario di solidarietà;
supporto Frontex per rimpatri;
lotta contro i trafficanti anche attraverso un rafforzamento della normativa e una maggiore collaborazione con i Paesi di origine e transito;
intensificazione della sorveglianza aerea e navale attraverso Frontex ma anche valutando la possibilità, come chiesto dall’Italia, di nuove missioni navali tipo Sophia;
garantire che le imbarcazioni utilizzate per il traffico di esseri umani vengano sequestrate e distrutte;
Agenzie Ue per l’asilo in aiuto alle autorità italiane al fine di accelerare l’esame delle domande;
rafforzamento dei corridoi umanitari;
garantire sempre la protezione dei migranti anche durante i ritorni assistiti;
definizione di nuovi progetti per la lotta ai traffici illegali di migranti con la Tunisia.
Dieci punti di assolute buone intenzioni, salvo qualche riflessione che si innesca riguardo alcune cose da chiarire.
Esiste già l’art. 14 del regolamento UE “Frontex” che disciplina la materia riguardo al c.d. “principio di non respingimento”.
Lo stesso regolamento spiega, poi, come si effettui la gestione integrata delle frontiere stabilendo esserci una responsabilità condivisa alla base della gestione migratoria.
Quindi, buona parte della proposta UE di Von der Leyen è di natura politico-economica cioè orientata a dare più risorse finanziarie all’Italia (in qualche modo di troverà la formula) cercando, al contempo, di garantire maggiori risorse umane di supporto strategico.
Tale ragionamento vale per le proposte di cui ai punti 1, 3, 4, 5, 7, 9.
Il vero problema giuridico è per gli altri punti.
Per il rovescio della medaglia, è il regolamento di Dublino del 2013 il nocciolo della questione italiana (che vale, quindi, anche per altri Paesi UE con affaccio sul mediterraneo): tale regolamento impone il principio generale per cui il migrante che arriva in Europa non può decidere in quale Stato presentare la domanda. L’effetto di questa normazione vuole che lo Stato membro competente sia quello che svolge il ruolo maggiore nella procedura d’ingresso e di soggiorno per l’asilante nel territorio UE.
Traduzione plastica di quel che sta accadendo all’Italia: un vero e proprio ingolfamento burocratico riguardo alle pratiche dei flussi migratori che, così facendo, alimenterebbe un rischioso collasso sistemico e prima ancora umanitario (vedasi Lampedusa e Porto Empedocle).
Questa “formula capestro” del regolamento di Dublino III, pensata in un momento storico diverso rispetto a quello attuale, è una crepa evidente.
Se aggiungiamo poi che per la redistribuzione dei migranti, al netto delle quote obbligatorie stabilite, i Paesi UE devono manifestare la c.d. “solidarietà volontaria”, allora, non si tratta di verificare i presupposti di un possibile collasso sistemico dell’accoglienza italiana, ma di allarmare tutto il mondo comunitario verso l’ipotesi implosione.
Se il regolamento Frontex, grossomodo, mantiene alta la soglia di solidarietà condivisa quanto a controllo, è il regolamento di Dublino che va cambiato urgentemente. Tutto il peso della gestione umanitaria del migrante non può sopportarla il Paese di approdo. È impensabile che sia sostenibile nel lungo periodo (e figuriamoci nel breve dato quel che sta accadendo)
A rigor di storia, nel 2018, una volta insediatosi il Governo Conte I, l’Unione Europea era pronta a modificare il regolamento Dublino III, ma nel Consiglio Europeo di fine giugno non si giunse ad un risultato. Il motivo di fondo? La riunione preparatoria del Consiglio, composta dai ministri degli Interni dei singoli Paesi e tenutasi il 5 giugno in Lussemburgo, finì con aspre divisioni tanto più considerando il palese no alla riforma da parte dell’allora Ministro Salvini sull’onda di alcuni Paesi di Visegrad.
Ora, se consideriamo i dati sulle migrazioni riportati nella bozza di riforma del regolamento di Dublino III del 2018 (proposta all’epoca dalla Bulgaria), in sede UE si raggiunse un minimo accordo su altri binari. Ma un dato era ed è significativo: che in quel Coniglio europeo, compresa l’Italia, si accolse l’idea dell’approccio globale alle migrazioni e si accettò il dato per cui vi era un meno 95% di flussi migratori rispetto alla crisi del 2015.
Un dato così importante che fa pensare a quanta differenza ci sia stata rispetto ai profughi ucraini generati dall’aggressione russa.
Di contro, l’analisi impone di considerare che i decreti sicurezza del Governo Conte I, voluti dall’allora Ministro Salvini, abbiano solo creato un mare di problemi giuridici nell’ottica di armonizzazione europea. Non trascurandosi il fatto che il meno 95% di cui sopra non era neanche merito della politica muragliatoria (o accennatamente blocconavalista) portata sul piatto di Palazzo Chigi quando c’era Giuseppe Conte presidente.
Cosa può fare oggi l’Europa in una nuova ottica geopolitica?
Fare accordi con Stati che è certo non abbiano più ascendente politico sui cittadini (e figuriamoci sui trafficanti di persone) non ha corposità per quanto gli stessi accordi siano utili come forma e sul piano internazionale del “pacta sunt servanda” (i patti vanno rispettati).
L’Unione Europea può fare due cose (sbrigandosi): accelerare nel chiedere ai Paesi membri di concedere di più al ruolo centrale dell’UE riguardo alla gestione migratoria e coinvolgere l’ONU per andare in Africa ed intavolare politiche di stabilizzazione e progresso umanitario: diversamente, la disperazione continuerà a muoversi per cercare l’isola dei diritti umani.
Che si chiami Lampedusa o Unione Europea poco cambia.
Sperando non diventi presto o tardi “l’isola che non c’è”. Più.
Ora basta buonismo. Storia di Francesco Maria Del Vigo Il Giornale il 2 luglio 2023.
Se i vocabolari non avessero deciso da anni di genuflettersi alla dittatura del politicamente corretto il termine «banlieue» dovrebbe essere tradotto con «ghetto per migranti» e la locuzione «stranieri di seconda generazione» come «emarginati». E sono entrambi il frutto avvelenato di un immigrazionismo scriteriato.
Lo dimostra con ogni evidenza quello che sta accadendo in Francia in questi giorni, cioè il collasso disastroso di una cultura dell'accoglienza obbligata e del multiculturalismo a tutti i costi che nel nome dell'integrazione hanno disintegrato la società. Integrazione che non è mai avvenuta perché i figli e i nipoti degli immigrati arrivati nel periodo post coloniale non si sentono cittadini francesi e, pur avendone gli stessi diritti, di fatto non lo sono, chiusi nei loro ghetti che a loro volta hanno contribuito a edificare e blindare (a Marsiglia mettono pure le sentinelle abusive per controllare gli accessi).
L'implosione della dottrina francese sugli immigrati deve essere però di lezione a chi, come l'Italia, si trova in questi anni a gestire da sola enormi flussi migratori. Un ammonimento che, almeno fino a oggi, non è stato raccolto dai vessilliferi italiani dei porti spalancati e dalle vestali del buonismo che vede in ogni sbarco non una tragedia umana della disperazione, ma una «risorsa». E i primi segnali di cedimento non sono arrivati martedì scorso a Nanterre con la barbara e ingiustificabile uccisione di Nahel da parte delle forze dell'ordine, ma nel lontano 2005 a Clichy-sous-Bois, dove due ragazzi morirono fulminati all'interno di una centralina elettrica nella quale si erano rifugiati per sfuggire alla polizia, dando il là a due settimane di scontri. La rivolta dei minorenni, dunque, è maggiorenne, ma in questi diciott'anni nessun governo francese ha fatto nulla per porvi rimedio e in Italia la questione migratoria, posta regolarmente sul tavolo dal centrodestra, è stata sempre sbertucciata e derubricata dalla sinistra come una bagatella elettorale o, peggio ancora, come una paranoia piccolo borghese. Ignorando che la pentola a pressione che sta esplodendo oltre confine non è null'altro che il trailer di quello che potrebbe succedere tra qualche anno ai bordi delle nostre città, laddove la povertà e la disperazione - di qualunque nazionalità - si integrano (questa volta sì) in una miscela esplosiva. Per questo il cortocircuito dei talebani del multiculturalismo riguarda tutti noi e, oggi più che mai, c'è bisogno di una gestione della sicurezza e dell'immigrazione chiara, che non abbia paura di abbattere quel muro sinistro di ipocrisia che, come ci spiega la lezione francese, finisce per crollare addosso agli uni e agli altri, senza alcuna discriminazione, dimostrando che è proprio la strada del buonismo che porta ai risultati peggiori, che sfiorano addirittura il cattivismo.
Estratto dell’articolo di Danilo Ceccarelli per “la Stampa” l'1 luglio 2023.
«Banlieue in Francia è diventato sinonimo di ghetto per immigrati, le politiche di integrazione hanno fallito, i figli e i nipoti dei primi migranti non mai diventati francesi a pieno titolo».
Bernard Guetta, giornalista ed eurodeputato del gruppo Renew, sintetizza così i problemi sociali legati alle periferie in fiamme.
[…] «[…] abbiamo un problema che si pone ormai da diversi decenni con i figli, i nipoti e i pronipoti degli immigrati arrivati nel dopoguerra e nel periodo post-coloniale. […] non è stata perseguita la politica di integrazione francese, che ad esempio è molto diversa da quella britannica. È un progetto portato avanti solo a metà, forse tre quarti. Chi viene dall'immigrazione oggi frequenta la scuola della Repubblica, ha gli stessi diritti degli altri francesi perché sono nati sul territorio nazionale, spesso come i genitori. Ma non sono mai stati visto come dei francesi a pieno titolo perché con o senza consapevolezza, la maggior parte di loro è stata lasciata all'interno di ghetti, che sono le banlieue. E quando si crea un ghetto, ci sono dei problemi che nascono di conseguenza».
Per esempio?
«Da un punto di vista sociale, nascere in un quartiere difficile è un segno. Prendo il caso del mondo del lavoro, dove una persona nata da una famiglia di origini straniere in una banlieue riscontra spesso delle difficoltà legate più all'indirizzo che figura sul curriculum che al nome. Se viene da una periferia che ha la fama di essere un ghetto, il datore di lavoro ha il riflesso di farsi delle domande sul fatto che il candidato è una possibile fonte di problemi e preoccupazioni».
[…] «Da una trentina di anni si è instaurato un gioco deleterio di cowboy e indiani tra poliziotti e ragazzini. Utilizzo questo termine perché stiamo parlando di giovani che arrivano ad un massimo di 22 o 23 anni. Per la maggior parte sono adolescenti. Si crea quindi una tensione permanente di cui sono vittime anche gli agenti, non solamente i ragazzi. […]».
Pensa che l'eventuale applicazione dello stato di emergenza di cui si sta parlando in questi giorni possa risolvere la situazione?
«Potrebbe diventare una necessità politica nel momento in cui lo Stato dovrà compiere un gesto forte optando per una misura volta a colpire l'attenzione. […] Le forze dell'ordine al momento sono mobilitate sul territorio, è non credo che si comportino in modo tenero o lassista. Le manifestazioni continueranno anche con lo stato di emergenza. Certe volte, però, la politica è fatta anche di parole e simboli». […]
La decisione della Cassazione. Signor Salvini, clandestino sarà lei…E' una soddisfazione vedere il povero Salvini restare a mezza frase perché non può più dire “clandestino”… Piero Sansonetti su L'Unità il 20 Agosto 2023
La Corte di Cassazione ha deciso che è illegittimo definire “clandestino” un rifugiato che chiede asilo politico. Bastava in realtà un po’ di buonsenso per capire che se hai chiesto asilo non sei clandestino. Per una ragione molto semplice. Che il Parlamento italiano, con il consenso e l’appoggio della destra e dei 5 Stelle, ha fatto in modo che una dura condizione sociale come quella del sans papiers, cioè del migrante senza documenti, sia considerata dalla legge un reato.
La clandestinità, qui da noi, è un reato vero e proprio, come il furto, lo stupro, l’omicidio. Talmente è un reato che è un reato persino l’osservanza di un precetto evangelico – quello di proteggere gli affamati e gli assetati e gli stranieri e i pellegrini – attività punita dalla legge perché considerata favoreggiamento della clandestinità. Ora uno può ragionare finché vuole sull’orrore e la sadicità contenuta in questa legge. Però la legge è nel codice, e quando il Pd ha provato a cancellarla è stato sonoramente battuto.
Dunque se ne evince che se tu dai del clandestino (quindi autore di reato) a una persona che clandestino non è, fai una cosa illegale e puoi essere querelato. Come se dai del ladro a uno che non ha rubato o dell’assassino a chi non ha ucciso. Cosa cambia? Niente, per carità. Oltretutto io ho fortissimi dubbi sul fatto che debba essere una Corte a stabilire il linguaggio. Però, lasciatemelo dire, è una soddisfazione vedere il povero Salvini restare a mezza frase perché non può più dire “clandestino”…
Piero Sansonetti 20 Agosto 2023
Vittorio Feltri, vietato dire clandestini? "Come chiamerò i migranti". Il Tempo
Un articolo che aveva fatto discutere ancor prima di essere pubblicato. La mattina di lunedì 21 agosto Vittorio Feltri aveva twittato: "Per la prima volta in 60 anni di professione giornalistica sono stato censurato, ed è accaduto nel giornale che ho fondato, Libero. Non so perché. Nessuno mi ha dato spiegazioni. Suppongo perché ho definito invasori gli emigranti, esattamente come ha fatto il Giornale oggi". In serata, l'aggiornamento: "Contrordine compagni. Non sono stato censurato, ma rinviato. Il mio pezzo sugli invasori esce domani, martedì. Evviva. Grazie Sallusti". E oggi, martedì 22 agosto, l'articolo è puntualmente in edicola. Ma cosa scrive il direttore editoriale del quotidiano? Si parte dalla Cassazione, che ha sanzionato l'uso della parola "clandestino" per definire un migrante. "Dobbiamo rassegnarci alla sconfitta. La guerra al vocabolario l’abbiamo persa, hanno vinto i bulli del politicamente corretto", afferma Feltri.
Insomma, vietato dire clandestino: "Questo perché gli immigrati meritano rispetto. Va bene, io allora li definirò 'invasori' visto che arrivano in Italia a migliaia" con gli sbarchi a Lampedusa e non solo che si susseguono. Va detto che "aiutare chi si dibatte tra le onde è un dovere morale", chiarisce il giornalista, ma "non è ammissibile che una folla di invasori senza arte né parte abbia il diritto di essere ospitata da noi". Anche perché gli arrivi, sottolinea, sono tantissimi.
La sinistra invoca l'accoglienza senza limiti, senza pensare, ad esempio, ai problemi di casa nostra. Se è un obbligo salvare le persone in difficoltà in mare, argomenta Feltri, perché "dovremmo garantire pure ai nostri clochard, più di 50mila, una ospitalità tale da assicurare un tetto sostitutivo ai cartoni sui quali essi, loro malgrado, trascorrono la notte oltre che il giorno. Niente da fare, due pesi e due misure". Come fare per frenare l'"invasione"? Per Feltri ci vorrebbe una massiccia campagna pubblicitaria nei Paesi da cui i migranti partono per avvertirli "che in Italia non c’è posto".
Protezione speciale per i migranti: cos'è e come funziona. Introdotta dal precedente governo, la protezione speciale fa parte delle tipologie di permesso di soggiorno e consente di restare in Italia anche a chi non ha ottenuto la protezione internazionale. Massimo Balsamo su Il Giornale il 16 Aprile 2023
Tabella dei contenuti
Cos'è la protezione speciale
Quanto dura
I numeri
Cosa prevede l'emendamento della maggioranza
È passata la linea dura sui migranti. Il primo ministro Giorgia Meloni ha confermato l'obiettivo di eliminare la protezione speciale, definita "un'ulteriore protezione rispetto a quello che accade al resto d'Europa". Un tema che compatta la maggioranza, sui cui non ci sono divergenze e che riscalda il dibattito sul dossier immigrazione. Alla prova dell'aula del Senato nella giornata di martedì, l'accordo raggiunto da Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia prevede una nuova imponente stretta allo strumento, già ridimensionato con il decreto Cutro. Ma cos'è la protezione speciale? E come funziona?
Cos'è la protezione speciale
La protezione speciale è un permesso di soggiorno che viene rilasciato al richiedente asilo che non possa ottenere o non abbia ancora ottenuto la protezione internazionale. È rivolta ai migranti che dimostrano di essere integrati in Italia - vincoli familiari, durata del soggiorno o altro - e ai migranti per i quali sussistono determinati rischi in caso di respingimento: persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, religione, opinioni politiche. O ancora, il rischio di essere rinviato verso uno Stato nel quale non sia protetto o il rischio di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o se il respingimento comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare.
Quanto dura
Introdotto dal precedente governo, il permesso di soggiorno per protezione speciale è un permesso di soggiorno della durata di 2 anni ed è rinnovabile. A concedere il permesso di protezione speciale è la Commissione territoriale alla quale i richiedenti asilo possono presentare domanda. In caso di rigetto, è consentito presentare ricorso.
I numeri
Come riportato dal Corriere della Sera, nel 2022 hanno ottenuto la protezione speciale 10.865 migranti. Un dato nettamente superiore rispetto a coloro che hanno ottenuto l'asilo politico (6.161) o la protezione sussidiaria (6.770). Per tutte e tre le tipologie, più della metà delle domande - il 53% - è stata rigettata. Nel biennio 2020-2021 questa tipologia di permesso di soggiorno è stata ottenuta più spesso dagli albanesi (36% sul totale di domande presentate), seguiti da peruviani (24%) e maliani (23%). I dati del 2022 non sono ancora disponibili.
Cosa prevede l'emendamento della maggioranza
L'obiettivo finale non è l'abolizione tout court, ma il sub emendamento della maggioranza a prima firma Maurizio Gasparri (Forza Italia) mira a un restringimento significativo della protezione speciale. Il testo prevede che il permesso di soggiorno per protezione speciale, quello per calamità e quello per cure mediche non siano più convertibili in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Prevista invece l'estensione della protezione per i casi di violenza domestica alle spose bambine. La protezione speciale potrà essere rinnovata per non più di sei mesi.
Dentro i migranti, fuori gli ucraini: le "liste d'ingresso" del Pd per il 25 aprile. A Ravenna un'associazione di ucraini è stata diffidata dal partecipare alle celebrazioni del 25 aprile ma ci saranno le Ong dei migranti. Francesca Galici su Il Giornale il 16 Aprile 2023
A sinistra hanno uno strano concetto di democrazia, ma guai a farlo notare. Con il 25 aprile che si avvicina, quelli che si battono sul petto ipotetiche medaglie di libertà si arrogano il diritto di fare le "liste di ingresso" alle loro manifestazioni. L'inclusività non è di casa nel Partito democratico, che a questo punto dovrebbe avere il coraggio di cambiare il suo nome per rendere ben più chiara l'idea degli ideali che lo muovono. L'arrivo di Elly Schlein ha estremizzato il posizionamento della compagine, facendo prendere coraggio alle frange più integraliste dando loro modo di uscire allo scoperto e mostrare il vero volto del nuovo Pd. E il 25 è un'occasione perfetta in tal senso.
"Non permetteremo a nessuno...". Schlein parte all'assalto del 25 aprile
A Ravenna, l'estrema sinistra e i partiti di maggioranza hanno deciso: fuori gli ucraini e dentro i migranti nelle manifestazioni della Liberazione italiana. Ebbene sì, a Ravenna si sarebbe deciso di diffidare un'associazione di ucraini del suo territorio dal partecipare alle manifestazioni del 25 aprile. L'associazione Malva, che ha il sostegno di +Europa, Italia viva e Psi è stata tenuta fuori perché Zelensky non assicurerebbe la democrazia in Ucraina. Giustificazioni che mettono le loro radici in quell'ambiguità così palese di Elly Schlein sulla guerra, che hanno fatto perdere al Pd il posizionamento in completo favore dell'Ucraina al fianco di Nato e Unione europea che il partito aveva assunto sotto la guida di Enrico Letta.
Definendo il 25 aprile come una "data sacra", la lista di estrema sinistra Ravenna in Comune giustifica così il "no" alla partecipazione degli ucraini: "Nella guerra attualmente in corso in Ucraina non vi è la lotta di chi non vuole cadere nelle mani di una dittatura ma vuole restare all’interno dell’Occidente. E questo perché non vi è democrazia oggi in Ucraina". Comprensibile la rabbia degli ucraini, arrivati al punto di dover insegnare a questi "nuovi partigiani" cosa sia stata davvero la Resistenza nel nostro Paese: "I partigiani non fecero 'tacere le armi' ma le usarono per scacciare i nazifascisti come stanno facendo ora i nostri difensori".
Ma dalle parti di Ravenna non sembrano esserci margini di discussione: Rifondazione Comunista, Partito Comunista italiano, Partito Comunista e Potere al Popolo si oppongono. Questi sono i partiti che amministrano oggi Ravenna insieme al Pd, che solo a leggere questi nomi qualche domanda occorrerebbe farsela. A loro dire, Zelensky ha raggiunto il potere tramite un golpe e a sostegno della tesi di "fascismo" contro gli ucraini è arrivata anche la Consulta provinciale Antifascista di Ravenna, che ha dato il suo verdetto: "Fra i combattenti ucraini contro l'invasore russo ci sono forze politiche e militari come il battaglione Azov ed altre che si richiamano al nazismo dalle quali nessuno s'è dissociato".
Ma dove non c'è spazio per gli ucraini, c'è spazio per i migranti. Sì, perché ad arrivare nella riviera romagnola saranno le Ong, che sfileranno per rivendicare il loro diritto di violare la legge in nome della propaganda immigrazionista nel nostro Paese. E ci sarà anche il sindaco di Cutro, sollevato a emblema della lotta contro il governo Meloni che cerca di ristabilire un minimo di legalità nell'ambito dell'immigrazione. Tanto ormai è chiaro, la sinistra non ha alcuna intenzione di mantenere il 25 aprile come festa universale per il nostro Paese: è stata trasformata in una manifestazione tra compagni, se ne sono appropriati cantandosela e suonandosela da soli.
Protezione speciale, Ong sulle barricate con sinistra e vescovi. Ma la stretta è quella delle altre nazioni Ue. Interviene il premier: "La mia volontà è abolire quell'istituto. E non ci sono divergenze sul tema". Francesco Boezi il 16 Aprile 2023 su Il Giornale
Alla sinistra dell'accoglienza per tutti non piace uniformare la legislazione nazionale a quella degli altri Paesi europei (pure se questi ultimi sono governati dal centrosinistra). La notizia, in relazione alla stretta sulla protezione speciale, è anzitutto questa. Perché il governo Meloni - come spiegato dal sottosegretario all'Interno Emanuele Prisco (Fdi) - sta per equiparare alcune norme sull'istituto della protezione speciale ai provvedimenti già esistenti in Francia, Germania e Spagna, per fare due esempi concreti e ingombranti. Ma il Pd di Elly Schlein (e non solo) continua ad alzare un coro scandalizzato, evitando di segnalare la natura anomala della nostra legislazione.
L'invenzione dell'ex ministro dell'Interno Luciana Lamorgese va archiviata: il centrodestra ne è sicuro. Se non altro perché la protezione speciale è diventata un fattore di attrazione migratoria irregolare. Il mezzo parlamentare, come emerso due giorni fa, è un subemendamento sottoscritto da tutte e tre le principali forze di centrodestra. E i tempi sono stretti. Ieri anche il premier è intervenuto in materia. «Io ho come obiettivo l'eliminazione della protezione speciale, perché si tratta di un'ulteriore protezione rispetto a quello che accade al resto di Europa», ha premesso il presidente del Consiglio, durante un punto stampa nel corso della sua visita in Etiopia. Poi una spiegazione tecnica: «C'è una proposta della maggioranza nel suo complesso, non è un tema su cui ci sono divergenze. È complessa ed è normale che ci siano diversi emendamenti». Quelli della Lega sono emendamenti integrativi, al limite. E non c'è alcuna maretta in maggioranza. Giovanni Donzelli, deputato di Fdi, ha sottolineato a sua volta come la misura italiana sia un unicum continentale: «Scappi dalla guerra? Chiedi il diritto di asilo. Ci sono dei criteri ben stabiliti. In Italia si erano inventati una protezione in più che non c'è nel resto d'Europa». Niente da fare. Per la sinistra la stretta è «disumana». La segretaria dem è intervenuta sostenendo sia vergognoso «far pagare sulla pelle delle persone più fragili l'incapacità di questo governo di costruire delle politiche migratorie». Massimo Ruspandini, senatore meloniano, ne fa una questione pure statistica: «Se dovesse mantenersi lo stesso trend, si stima che per la fine dell'anno potremmo arrivare ad oltre 400.000 nuovi arrivi: non possiamo permetterci questi numeri». Ma per l'opposizione è una partita ideologica, non un argomento da affrontare con spirito pragmatico. E Francesco Boccia, ripescato dalla Schlein nella segreteria dem dopo il traghettamento dei voti grillini alle primarie, si mette a fare dietrologia. «Serve solo a coprire i ritardi e l'incapacità di questo governo ad indicare una direzione di marcia chiara per far uscire il nostro Paese dalle difficoltà economiche», afferma, rispetto alla mossa dell'esecutivo Meloni sulla protezione speciale.
Il dibattito fuoriesce dal campo della politica e coinvolge altri attori. Monsignor Gian Carlo Perego lancia un appello affinché le modifiche al decreto Cutro non siano accolte. Non è la posizione della Cei ma di sicuro il vescovo ha un ruolo centrale nell'assemblea permanente dei presuli. Poi Perego difende l'istituto: «Il permesso speciale era nato in sostituzione anzitutto del permesso umanitario per andare incontro ad una serie di situazioni che non rientrano nella protezione internazionale dell'asilo e nella protezione sussidiaria ma che hanno diritti in ordine alla tutela delle persone». Anche Emergency, attraverso le parole del presidente Rossella Miccio, dice la sua: «Siamo molto preoccupati». Tra gli scandalizzati, anche Luca Casarini di Mediterranea Saving Humans che parla di ennesima vergogna del governo Meloni. Nulla di nuovo, a ben vedere, tranne la decisione che il centrodestra vuole adottare e che inizierà a interessare il Parlamento da martedì.
«Ci servono gli immigrati, aiutano l’economia». Parola del governo Meloni. Lo scrive il ministro leghista Giorgetti nel Documento di economia e finanza in un passaggio sugli scenari futuri: se aumentano gli ingressi, migliorano i conti. Smentendo in un colpo decenni di propaganda della Destra. Simone Alliva su L’Espresso il 14 Aprile 2023
Matteo Salvini li ha sempre definiti «risorse boldriniane». Attribuendo a Laura Boldrini, ex presidente della Camera, una sorta di patronato etico-politico nei confronti degli immigrati. Chissà cosa direbbe adesso che come una nemesi, un giro di boa che mette tutti di fronte alla realtà, gli immigrati diventano una risorsa per il governo Meloni. A certificarlo è il ministero dell'Economia, guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti, che nel Def, cioè il principale documento di programmazione economica del governo, scrive che l'arrivo di popolazione straniera in età lavorativa potrà migliorare il rapporto tra debito e Pil anche di 30 punti: «Data la struttura demografica degli immigrati che entrano in Italia, l'effetto è significativo sulla popolazione residente in età lavorativa e quindi sull'offerta di lavoro», si legge.
Sono calcoli del Mef: un aumento della popolazione di origine straniera del 33% farebbe calare il debito pubblico di 30 punti, una contrazione del 33%, invece, lo farebbe aumentare di quasi 60 punti.
L’Espresso lo racconta da tempo: l’Italia multietnica e il suo valore non è teoria di sinistra ma un dato di fatto censito persino dal rapporto Ocse 2021 che ha evidenziato come «i migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione».
Siamo un Paese di immigrazione, con oltre cinque milioni di stranieri residenti (Istat, 2020), in valore assoluto dopo la Germania (che ne ha oltre 10 milioni), il Regno Unito (con oltre 6 milioni) e con un numero di presenze analoghe a quelle francesi e spagnole. Per l’Italia il loro contributo all’economia vale quasi 144 miliardi, il 9 per cento del Pil che è tornato a crescere e così l’occupazione straniera. Il tasso di occupazione degli stranieri è oggi al 57,8 per cento, ancora leggermente inferiore rispetto a quello degli italiani (58,3 per cento).
A calcolare l’impatto del lavoro degli stranieri sull’economia italiana è la Fondazione Leone Moressa, nel Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Il tasso di occupazione degli stranieri è oggi al 57,8 per cento, ancora leggermente inferiore rispetto a quello degli italiani (58,3 per cento). La maggior parte di questa “ricchezza” si concentra nel settore dei servizi, ovvero il comparto che registra il maggior numero di occupati stranieri. Se, invece, osserviamo l’incidenza per settore, i valori più alti si registrano in agricoltura (17,9 per cento), ristorazione (16,9) ed edilizia (16,3).
"Economia salvata dagli sbarchi": ecco la verità dietro la bufala della sinistra. La retorica pro-immigrazione spesso spinge sul dato economico. Ma questo impone di distinguere tra vari canali e competenze di chi sbarca. Andrea Muratore su Il Giornale il 16 Aprile 2023
La riapertura del caos migranti ha portato in Italia alla riproposizione di un dibattito annoso. Quello sul confronto tra posizioni politiche destinate a promuovere un contenimento dell'immigrazione clandestina e quelle che invece si definiscono più aperturiste, non facendo differenza tra quella clandestina e quella regolare. Uno dei temi che si sentono più spesso presi in considerazione sul fronte dell'immigrazione è, in questo secondo campo, il tema del contributo economico delle migrazioni all'economia nazionale.
Tale contributo c'è ed è evidente: LaVoce.info per esempio ha stimato i contributi del lavoro immigrato in Italia a 5 miliardi di euro di impatto extra sul gettito Irpef. Inoltre ha analizzato che gli stranieri residenti in Italia, comprendenti in stragrande maggioranza persone in età da lavoro, sono datori netti sul fronte del contributo alla previdenza e alla sanità e riceventi solo sul fronte scolastico. L'immigrazione regolare è un fenomeno che ben gestito, lo ha amesso anche il governo Meloni, è positivo per il Paese: lo sottolineano le scelte di prendere accordi con la Tunisia per dare il lasciapassare a 4mila lavoratori o i dati del ministero dell'Economia e delle Finanze di Giancarlo Giorgetti sul fatto che assimilare nel mercato del lavoro virtuosamente lo stock di immigrazione può dare spinta a una riduzione dello stock di debito pro capite.
Ma queste posizioni non possono e non devono essere il gancio per prendere posizione sull'emergenza in corso. Chiarifichaimo il concetto: nella vulgata pubblica spesso si sente parlare di un nesso diretto, alimentato soprattutto in campo progressista, tra le odierne ondate di sbarchi e la possibilità di avere manodopera impiegabile in lavori di bassa e media manovalanza. A novembre Repubblica sottolineava che i migranti in Italia sono troppo pochi "per i bisogni delle nostre imprese, della nostra agricoltura, delle nostre famiglie", riferendosi al ruolo decisivo oggettivamente giocato da molti lavoratori stranieri in settori come la raccolta ortofrutticola o l'assistenza domiciliare.
Ma pensare all'immigrato unicamente come al bracciante a rischio caporalato o alle colf non aiuta sul fronte economico né su quello umanitario. Economico, perché si rischia di ridurre l'immigrazione a un fenomeno funzionale alle due parole d'ordine di Emma Bonino, pronunciate in un'intervista a La Stampa nel 2020: "Serve manodopera". Umanitario, perché pensare strumentalmente all'immigrato solo come alle sue braccia e al suo contributo strumentale non valorizza certamente gli ideali di accoglienza in nome di cui la Sinistra si batte - o dice di farlo.
Il problema di fondo è che la Sinistra pensa al "migrante" in forma astratta, non alle storie umane che dietro l'immigrazione si creano. E si sviluppano anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno. Storie di ogni tipo, che vanno dal desiderio di affermazione sociale alla ricerca di ventura altrove, dalla fuga da un contesto diseredato alla semplice necessità di lasciare un luogo natio ritenuto non più vivibile. Pensare astrattamente ai "migranti" in quanto tali quando arrivano sulle nostre coste impedisce una riflessione a tutto campo.
Che per l'Italia può riguardare soprattutto i Paesi di provenienza massiccia dell'immigrazione, ma in generale qualsiasi movimento interessante il nostro Paese: fermi restando la priorità del "diritto a non emigrare" per i potenziali profughi, l'Italia può e deve sobbarcarsi la gestione dell'immigrazione solo se, nel rispetto di regole civili e sociali, chi arriva può in prospettiva contribuire alla società ma soprattutto emanciparsi da qualsiasi vincolo di subordinazione che la retorica di chi pensa ai migranti come ai raccoglitori di pomodori non spezza.
Di recente, a tal proposito, ha fatto molto discutere un editoriale del Nobel per l'economia Paul Krugman per il New York Times, in cui lo studioso storico esponente della "sinistra" del pensiero economico parlava della correlazione tra immigrazione e sviluppo economico negli Usa. Krugman nota che "secondo i dati del censimento Usa, il 79% dei residenti nati all'estero arrivati dopo il 2010 ha un'età compresa tra i 18 ei 64 anni, rispetto a solo il 61% della popolazione in generale. Quindi l'ondata di immigrazione ha probabilmente contribuito in modo significativo alla capacità dell'economia di continuare una rapida crescita dell'occupazione senza inflazione galoppante".
E per il contesto Usa c'è un dato di fatto reale, sottolineato dal Pew Research Center: i migranti di cui Krugman parla non sono solo i dipendenti del settore agricolo, ma anche e soprattutto quelli ad altissima professionalizzazione. Europei, indiani, cinesi e, in numero crescente africani attratti dalla "Terra delle Opportunità" e dagli alti salari in campi come l'ingegneria, il biomedicale, la ricerca, la finanza, che per il 30%, secondo Pew, si affidano su personale nato all'estero.
Un contesto completamente diverso da quello italiano ed europeo, soggetto alla "prima linea" di immigrazione del fronte mediterraneo e che deve necessariamente separare i due fronti. Quello, cioè, della gestione dei flussi di immigrazione non regolamentata a livello nazionale ed europeo e quello dell'apertura di canali all'immigrazione regolare capace di produrre risultati in termini di sviluppo per il Paese e i soggetti in questione. L'umanizzazione di un generico "migrante" serve a poco se poi non si differenzia tra i contesti e le necessità del Paese.
In prospettiva, la lezione degli Usa e di altri Paesi come il Regno Unito è che, ove possibile, l'attrazione di lavoro straniero ad alta intensità di competenze e conoscenze può essere un volano per lo sviluppo di sistema e mostra la capacità di un Paese di essere attrattore di capitale umano in forma virtuosa. Ma parlare di generici "migranti" senza distinguere tra l'ingegnere indiano che dopo una lunga trafila arriva negli Usa e le persone spinte dal desiderio di sopravvivenza che attraversano il Mediterraneo verso l'Italia, non aiuta al governo del fenomeno in direzione del massimo benessere sociale. Che passa per trattare veramente, e non solo a parole, gli immigrati come umani a tutto tondo.
"Gli italiani emigravano...". La vergognosa balla delle Ong pro clandestine. Dalla Ong il paragone tra i migranti italiani del Novecento e quelli africani di oggi tra ignoranza e fake news: "Studiate la storia". Francesca Galici il 16 Aprile 2023 su Il Giornale
I tentativi delle Ong di supportare la propaganda pro-immigrazione non conoscono limiti, nemmeno quelli del buon senso. La dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo, come ha dichiarato il ministro Matteo Piantedosi, è una misura tecnica e non emergenziale per gestire al meglio l'accoglienza e il sistema in un momento storico in cui si sta verificando un incremento enorme degli sbarchi. Ma le Ong non sembrano gradire le mosse dell'esecutivo, che sta evidentemente lavorando per il bene del Paese e per la sua tutela al contrario di quanto avveniva in passato. Abituate ad agire liberamente, senza regole ma, anzi, dettando le proprie, le Ong ora si trovano spiazzate e senza possibilità di imporre la propria linea. Questo le porta ad affermazioni come quelle fatte dall'organizzazione spagnola che arma la nave Aita mari.
"2 milioni di italiani emigrarono in Usa tra il 1900 e il 1914. Allora non c'era lo 'stato di emergenza immigrazione' per effettuare deportazioni e schermare le frontiere. L'allarmismo dovuto all'invasione, la diffusione di messaggi di odio, la stigmatizzazione delle Ong e la violazione dei diritti umani non risolve nulla", scrivono su Twitter. Di inesattezze ce ne sono tante in questo messaggio, che lascia trasparire un certo nervosismo da parte dell'organizzazione. Tuttavia, in nome del rispetto della memoria dei veri migranti e di coloro che hanno lasciato l'Italia, ma anche la Spagna e altri Paesi europei, per trovare condizioni di vita migliore negli Stati Uniti, è necessario fare alcune precisazioni.
"Italia, Italia". La beffa dei migranti: strappano i passaporti prima di sbarcare | Il video
Gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi e tutti quelli che andavano in America lo facevano con in tasca i loro documenti, che erano quanto di più prezioso e caro avessero. Non li strappavano per lanciarli in mare per ritardare le procedure di identificazione, perché sapevano a cosa andavano incontro se sbarcavano a Ellis Island, nell'Upper side di New York, senza un documento che venisse riconosciuto dall'altra parte dell'oceano. Pagavano le traversate a bordo dei transatlantici e viaggiavano in terza classe con le loro valigie e già a bordo erano invitati a compilare i questionari di ammissione: 31 domande che indagavano la vita del passeggero. E veniva chiesto di tutto: situazione sanitaria, grado di istruzione, alfabetizzazione e professionalizzazione, e così via. Documenti che restavano negli archivi del centro migranti di Ellis Island. All'arrivo veniva fatto uno scrupoloso controllo dei documenti e dello stato sanitario e, se necessario, veniva assegnata la quarantena. Chi non rispettava le rigide regole d'ingresso o aveva problemi di salute importanti veniva imbarcato sulla stessa nave con la quale era arrivato. Gli altri potevano proseguire, imbarcandosi su un traghetto per Manhattan e iniziando la loro vita in America.
Come si può anche solo azzardare il paragone con le migrazioni di oggi. E, infatti, gli stessi utenti che commentano il post della Ong si ribellano a questa narrazione. "Gli Stati Uniti chiedevano espressamente manodopera e i migranti dovevano presentarsi con tutti i documenti in regola, altrimenti li rispedivano a casa. Le donne single non sono state accettate e rimandate a casa. La prossima volta studia un po' di storia", scrive un utente. E poi, ancora: "Che paragone stupido! Gli italiani, come gli spagnoli e tutti i popoli europei emigrati negli Stati Uniti nel XX secolo, lo hanno fatto con i relativi documenti, altrimenti li avrebbero rispediti da Ellis Island con il primo piroscafo". E così via, in un susseguirsi di inviti a studiare la storia ma anche a fare rotta verso la Spagna, visto che la loro nave che raccoglie i migranti batte bandiera iberica. Ma nessuna replica è arrivata dalla Ong.
Per il commissario di Meloni i pm antimafia erano «bastardi». NELLO TROCCHIA su Il Domani il 18 aprile 2023
«Pericoloso», «bastardi». Così il nuovo commissario all’emergenza migranti scelto dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, definiva quelli che in terra di mafia rappresentavano lo stato e rischiavano la vita in strada per contrastare Cosa nostra.
E quando la magistratura gli ha chiesto conto delle sue dichiarazioni ha infilato una sfilza di non ricordo.
«Lei mi legge altre conversazioni da cui risulta che definivo Linares pericoloso. In realtà non ho mai avuto rapporti con il Linares, se non uno casuale, e non stimavo particolarmente i suoi metodi di lavoro», diceva Valenti del poliziotto antimafia.
«Pericoloso», «bastardi». Così il nuovo commissario all’emergenza migranti scelto dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, definiva quelli che in terra di mafia rappresentavano lo stato e rischiavano la vita in strada per contrastare Cosa nostra. E quando la magistratura gli ha chiesto conto delle sue dichiarazioni ha infilato una sfilza di non ricordo.
Per Valerio Valenti, va detto subito, non c’è niente di penalmente rilevante, ma i suoi rapporti con potenti e berlusconiani aprono una questione di opportunità politica. Erano gli anni, 2001-2006, nei quali Valenti spiccava il volo sotto l’ala protettiva dell’allora sottosegretario, Antonio D’Alì, il politico colluso perché al servizio dei Messina Denaro. Domani può rivelare i contenuti degli atti allegati al fascicolo della sorveglianza speciale emessa a carico dell’ex senatore forzista.
Prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro, stragista e latitante per 30 anni, nella provincia di Trapani c’era chi gli dava la caccia arrestando i favoreggiatori del figlioccio di Totò Riina, ma anche tutelando le aziende confiscate nei lavori pubblici contro quelle piegate ai voleri dei malacarne di zona.
Ma non c’era solo questo stato, un altro colludeva con la famiglia Messina Denaro e metteva a disposizione ruolo e funzione per gli interessi di Cosa nostra. Da una parte c’erano il superpoliziotto, Giuseppe Linares, il prefetto, Fulvio Sodano e dall’altra Antonino D’Alì.
In quegli anni Valerio Valenti era il braccio destro di D’Alì, era schierato con lui e, come abbiamo già raccontato, al telefono si preoccupava del trasferimento ai servizi segreti richiesto dal poliziotto “compare”, Emiliano Carena. Con Carena conversava anche di altro, del trasferimento di Giuseppe Linares, inviso al suo dante causa, il sottosegretario D’Alì, poi condannato a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.
«Al senatore gli ho detto “ora lei va dal capo...mi raccomando non gli chiedere... il trasferimento di cosa”, gli ho detto: “Non fare questo errore perché ti metti sotto scopa”». In pratica Valenti, intercettato, riferisce il suggerimento dato a D’Alì: all’incontro con Gianni De Gennaro (il capo della polizia che non asseconderà la richiesta, ndr) vanno usate cautele maggiori, di informarsi su Linares ma di non dire esplicitamente di trasferirlo.
I BASTARDI
Ma c’è altro che possiamo rivelare. In un’altra conversazione con Carena, sempre del 2004, Valenti arrivava a dire: «Questo Linares… minchia, ed è veramente pericoloso…». Carena rispondeva: «Ma il capo non lo ha spostato a questo?…», Valenti replicava: «No… no… no… purtroppo… minchia, è agguantato fortissimo».
Le coperture di Linares erano i magistrati e il capo della polizia che lo hanno sempre difeso per il lavoro svolto nel contrasto al crimine organizzato. Valenti, invece, bisbigliava i suoi giudizi offensivi sul conto dell’allora capo della mobile di Trapani.
In un’altra conversazione i due commentano l’arresto di un colletto bianco e Valenti spiega: «Sì… lui… quello che hanno arrestato a San Vito… minchia compare l’hanno forzata… (...) domani mattina viene la commissione antimafia…(...) così hanno fatto vedere che lì lavorano…».
Secondo Valenti l’arresto era un segnale per la commissione parlamentare antimafia che sarebbe arrivata in città. Così introduceva la sua sprezzante disamina dell’accaduto: «Ah… lo sai, hanno arrestato a coso… minchia che sono bastardi…ah…».
«Bastardi», così bollava gli uffici inquirenti, riportano negli atti gli investigatori.
I NON RICORDO DI VALENTI
Il braccio destro di D’Alì viene anche sentito dagli inquirenti, ma infila una serie di non ricordo. Incredibile a dirsi per un uomo delle istituzioni.
Il 16 luglio 2015, il sostituto procuratore generale, Domenico Gozzo, oggi magistrato della direzione nazionale antimafia, ascoltava come persona informata sui fatti l’attuale commissario alla “finta” emergenza migranti.
Il magistrato stava proseguendo le indagini su Antonino D’Alì, processo che avrà un’altalena di pronunciamenti fino al giudizio definitivo e alla condanna a sei di carcere. Negli atti c’è il verbale di assunzione d’informazioni di Valenti.
«Ho ricevuto la richiesta del sottosegretario di lavorare nella sua segreteria. Il D’Alì mi disse che gli avevano parlato molto bene di me. Io accettai anche perché questo mi consentiva un avanzamento in carriera, cosa che poi in effetti arrivò», esordiva così Valenti. In effetti, nel 2001, veniva nominato viceprefetto e, nel 2006, al tramonto del governo Berlusconi, con D’Alì sottosegretario, diventava capo di gabinetto della prefettura di Firenze.
A questo punto veniva chiesto a Valenti un suo eventuale ricordo in merito al trasferimento da Trapani dell’allora capo della mobile, Linares, e Valenti risponde: «Non ricordo».
Così gli viene data lettura di un’intercettazione, quella nella quale Carena e Valenti parlavano del trasferimento. Ma niente, al prefetto non tornava la memoria. «Continuo a non ricordare nulla circa questo trasferimento. Lei mi legge altre conversazioni da cui risulta che definivo Linares pericoloso. In realtà non ho mai avuto rapporti con il Linares, se non uno casuale, e non stimavo particolarmente i suoi metodi di lavoro».
Valenti continuava sostenendo di non essersi mai occupato di quel trasferimento e che, se D’Alì gli avesse chiesto un consiglio, gli avrebbe detto che sarebbe stato un errore chiederne il trasferimento.
Il magistrato, a questo punto, gli leggeva l’intercettazione nella quale Valenti diceva che il trasferimento di Linares non era andato a buon fine perché «ammanigliato». Il prefetto, oggi commissario, chiariva così la sua posizione: «Ritengo si trattasse di un modo di dire, anzi una semplice battuta, su eventuali contatti con persone importanti del Linares», concludeva Valenti. Il prefetto che dava dei bastardi agli inquirenti, giudicava pericoloso il poliziotto antimafia, braccio destro del senatore sottosegretario D’Alì, ha fatto carriera.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
Antonio Giangrande: Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.
Rendiconto analitico del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Sul tema ha scritto “Profugopoli. Vittime e carnefici”.
L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.
Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita.
Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.
Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.
Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.
Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);
Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);
Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);
Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);
Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);
Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).
Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.
Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza. Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.
"Sette anni per arrivare in Italia. Non mi riconoscevo più allo specchio": l'odissea di un migrante somalo. Il racconto di un giovane di 22 anni: ne aveva appena 15 quando i terroristi di Al Shabaab misero a ferro e fuoco il suo villaggio uccidendogli i genitori. su La Repubblica il 30 Marzo 2023
«Erano anni che non mi guardavo allo specchio. Sono fuggito dal mio villaggio che ero un ragazzino e ho fatto fatica a riconoscermi in quell’uomo con la barba che mi sono ritrovato davanti».
Eccolo Abdrahaman affacciato al parapetto della Lifesupport. Non sa neanche dove sia Ortona, il porto d’Abruzzo che il Viminale ha scelto per la nave di Emergency, ma non importa. Ci ha messo sette infiniti anni ad arrivare: ne aveva appena 15 quando i terroristi di Al Shabaab misero a ferro e fuoco il suo villaggio in Somalia uccidendogli i genitori, ne ha 22 adesso che finalmente è riuscito ad oltrepassare quel mare che ha provato a superare ben sette volte prima di farcela. «L’Italia o qualsiasi altro posto in Europa dove mi manderanno per me va bene - dice allargando finalmente quel volto smagrito e tirato in un timido sorriso - il mio nuovo Paese sarà quello che mi offrità un tetto e un lavoro. Non ho nessuno da raggiungere ma ho un grosso impegno da onorare: devo restituire fino all’ultimo ai miei familiari tutto il denaro che mi hanno inviato per farmi uscire vivo da quell’inferno che è la Libia».
Il costo del viaggio
Quindicimila dollari. Tanto è costato il viaggio lungo sette anni dalla Somalia al Kenya, poi dal Sudan fino alla Libia e i continui riscatti pagati ai trafficanti per uscire dai lager dove ha trascorso ben cinque anni e tentare la traversata. «Io devo dire grazie ai miei parenti che non mi hanno lasciato solo dall’Australia all’America, ma in quelle carceri c’è gente rinchiusa anche da dieci anni, in attesa che qualcuno paghi per loro. E lì non entra nessuno, nè Ong, nè agenzie umanitarie, per anni non ho visto nessuno. E si perde ogni speranza. Credetemi, ho visto e subìto cose inimmaginabili».
Il tentativo di fuga dal carcere
Ne porta i segni addosso come tanti Abdrahaman che racconta il suo lunghissimo viaggio a Yohanes Ghebray, mediatore eritreo a bordo della Life Support. Mostra una lunga cicatrice sulla coscia, regalo dei carcerieri che punirono con una coltellata il suo tentativo di fuga da una prigione. «Era più di un anno che i miei familiari non mandavano i soldi che pretendevano, ero disperato, non ce la facevo più a subìre violenze quotidiane, ad assistere a quelle su donne, uomini, a sopravvivere in quelle condizioni, dormendo seduti, al buio per giorni interi, a contenderci un tozzo di pane e un bicchiere d’acqua. Pensavo che non ne sarei uscito vivo e ho provato a fuggire ma mi hanno fermato e mi hanno accoltellato. Poi mi hanno lasciato con la ferita aperta per tre settimane, mi hanno curato solo quando ho rischiato di morire per l’infezione. Servivo vivo, per spillare ancora soldi alla mia famiglia».
I genitori uccisi dai terroristi
Quando, a 15 anni, scappò dal suo villaggio in fiamme insieme ai pochi sopravvissuti all’attacco di Al Shabaab, Abdrahaman non pensava affatto di venire in Europa. «I miei genitori rimasero uccisi, la mia casa distrutta, fuggii insieme ad altri abitanti del mio villaggio verso il Kenya dove c’era un campo profughi somalo. Appena fu possibile provammo a tornare a casa ma trovammo solo macerie. Non avevo altra scelta che andar via. Passai prima in Etiopia, poi in Sudan, cercavo solo un posto tranquillo dove vivere. Mi avevano detto che dall’Arabia Saudita o dallo Yemen avrei potuto provare ad arrivare in Canada o negli Stati Uniti con un visto, ma non ci sono mai riuscito».
Cinque anni nei lager libici
Poi la decisione di affrontare il deserto verso la Libia. Abdrahaman ha 17 anni quando finisce nelle mani dei trafficanti. «Mi hanno rinchiuso in un carcere non ufficiale non lontano da Tripoli, qui non ho mai visto entrare una delegazione Onu nè una qualsiasi organizzazione umanitaria. Per uscire da lì volevano ogni volta 1500 dollari. Quando potevano i miei parenti in Australia o in America me li mandavano e allora ci provavo. Sette volte, ci ho provato, mi hanno sempre ripreso e riportato indietro, per terra ma anche per mare, quando ero convinto ormai di di avercela fatta».
La salvezza sulla nave umanitaria
La scorsa settimana, quando la Life Support lo ha soccorso su un gommone insieme ad altri 80 migranti, è stata quella buona. «Adesso - dice al mediatore che raccoglie la sua storia - ho una nuova vita davanti. Lavorerò per pagare il debito con la mia famiglia lontana. E non finirò mai di ringraziare voi che mi avete salvato e portato fin qui»
Ho attraversato tutta l’Europa con i migranti: ecco cosa ho capito. MAURIZIO PAGLIASSOTTI su Il Domani il 29 marzo 2023
Sono partito da Briançon, Alpi francesi, e sono arrivato sulle montagne che separano la Turchia dall'Iran.
Volevo vedere e raccontare la rotta dei Balcani. Poi ho cambiato idea e ho scritto un altro libro perché la rotta dei Balcani non l'ho trovata.
Quando Samuele mi ha risposto così, dato che lui è un super appassionato di Fortnite, gli ho chiesto: «Se anziché un libro avessi fatto un videogioco sui migranti?».
Ho attraversato dieci paesi, superato confini, dormito nei boschi e nei capannoni, mangiato decine di scatolette di insalata messicana e ho fatto il bagno nei fiumi. Da questo viaggio ho cavato 240 pagine per Einaudi, un libro a cui abbiamo dato come titolo La guerra invisibile, un viaggio sul fronte dell'odio contro i migranti. Sono partito da Briançon, Alpi francesi, e sono arrivato sulle montagne che separano la Turchia dall'Iran.
LA ROTTA CHE NON C’È
Volevo vedere e raccontare la rotta dei Balcani. Poi ho cambiato idea e ho scritto un altro libro perché la rotta dei Balcani non l'ho trovata.
Il contenuto è presto riassunto: i migranti non sono tali, è una classificazione comoda e rassicurante, che non legittima questi uomini, donne e bambini. I migranti sono i nostri nemici e quelli che chiamiamo confini altro non sono che linee fortificate, dove la vita si svolge su un piano militare.
È la nostra guerra, quella di noi buoni.
Ci sono muri, droni, armi, trincee, osservatori e tante, tantissime divise militari: da Trieste in avanti, ho camminato e viaggiato seguendo un grado crescente di violenza e repressione.
L'apoteosi è il confine turco greco, quello che Ursula Von der Leyen definisce «il nostro scudo». Lì le cose si fanno davvero per bene, non passa nessuno e chi ci prova poi ha un compito, dopo che è stato brutalmente respinto: spiegare con chiarezza a quelli che ci vogliono provare che è meglio non fare quel primo passo verso il fiume Evros, di notte.
Ne ho trovati a decine, ammucchiati nelle cantine di Edirne, i corpi martoriati dai lividi, gli occhi incavati dentro il teschio, che mi guardavano come animali terrorizzati.
Il “nostro scudo” funziona benissimo anche in mare, perché uomini vestiti di nero il cui volto è coperto da un mefisto, raggiungono le barchine che partono da Smirne alla volta di qualche isola greca e lì sopra, senza dire una parola fanno ciò che mi ha raccontato Liza, siriana di Aleppo: “sono saliti e senza dire una parola hanno raggiunto la poppa. Armi in pugno. Uno di essi ha smontato il motore e l'ha gettato in mare. Poi sono scesi dalla nostra barca e se ne sono andati”.
Fine.
IL NEMICO ANNIENTATO
Pensavo di trovare esodi di massa, non ho trovato praticamente nessuno nei Balcani perché il nostro nemico è stato semplicemente annientato su questo fronte orientale dove ora è tutto tranquillo.
Sopravvivono alcune sacche di resistenza: jungle camp dove vivono allo stato primitivo, tra pozze di merda e cani randagi che mordono tutto quanto si muove, anarchici che portano le docce da campo rischiando l'arresto, donne di buona volontà che curano le piaghe marcescenti dei piedi; in alcuni campi di accoglienza, definizione un po' forzata, il nemico riposa, commercia, triga per recuperare denaro; qui piccole squadre di donne tentano con successo di ricordare a questi esseri umani che non sono bestie, e quindi li portano dentro tendoni bianchi dove possono giocare a ping pong o indossare una camicia bianca e mettere il gel nei capelli per far colpo su una di queste cooperanti.
Ogni tanto arrivano dei politici e allora va in scena un grande show che rallegra ma annoia al contempo.
Al di là di queste risibili sacche di resistenza nemica c'è il mercato totale della migrazione, dove tutto ha un prezzo: scarpe, coperte, documenti, cibo, caramelle, farmaci, sesso. Oggi è in mano a cosiddetti “smugglers”, piccoli trafficanti un po' meno disgraziati tra i disgraziati.
Ne ho incontrati alcuni, e direi che mi sono piaciuti: sono cristallini. Uno un giorno mi ha detto: “Io e te facciamo lo stesso mestiere. Io e te viviamo perché esistono le frontiere. Dio benedica gli Stati che chiudono tutti i confini”.
Non gli ho chiesto più niente.
L'orrore. Se lo state cercando il mio libro ne è ricolmo.
LA RICERCA DELL’ORRORE
Poi un giorno parlavo con il mio amico e consulente in videogiochi Samuele Triveri Ricci, tredici anni, e gli ho chiesto: ma tu il mio libro lo leggeresti? È un ragazzo molto sveglio. Per rispondermi ha fatto un giro di parole perché mi vuole bene, ma la sostanza era “no”.
Premesso che con il mio passaporto super blindato, la mia pelle bianca abbronzata, i miei occhiali da sole e soprattutto la mia carta di credito, non ho mai corso alcun pericolo reale, almeno da parte degli uomini, premesso questo ho sempre avuto la sensazione durante il viaggio di essere dentro un gioco. Mi tornavano spesso in mente Tomb Rider e Metal Gear Solid, giochi degli anni novanta che fecero la storia.
Così, quando Samuele mi ha risposto così, dato che lui è un super appassionato di Fortnite, gli ho chiesto: «Se anziché un libro avessi fatto un videogioco sui migranti?». E lo sventurato rispose: «Sì, ci giocherei. Secondo me un videogioco interattivo è meglio di un libro perché nel video gioco puoi interagire, puoi vivere TU quell'esperienza, nella lettura, sopratutto di questi temi, vi è quella sensazione di distacco dalla nostra realtà. In un videogioco puoi proprio vederla con i tuoi occhi, esserci dentro».
Al prof. Umberto Galimberti queste argomentazioni proveranno tutte le critiche, e relative invettive, che avanza sul rapporto giovani tecnologia, ma come scriveva il futurologo Kevin Kelly al termine degli anni Novanta nel suo visionario Out of control e parafrasando un celebre passo de Le relazioni pericolose, tutto questo «trascende ogni controllo».
Il tema della traslazione della realtà culturale tutta in realtà videogiocata tout court è già stato trattato, si pensi a Baricco.
Esiste perfino un videogioco sulla rotta dei Balcani: si chiama The game, è gratuito e consente di mettersi nei panni virtuali di un ragazzo afghano lungo l'ultimo tratto di viaggio, dalla Bosnia Erzegovina all'Italia.
Incuriosito e turbato ho cercato un contatto con quel mondo, e ho trovato Federico Ercole, uno dei massimi esperti del settore, e per gioco abbiamo scritto una piccola sceneggiatura che prende spunto dalle mie pagine.
Come direbbe il dottor Frankenstein Junior, «si può fare». D'altronde in molti a questo punto della lettura stanno pensando a un ibrido mostruoso.
Quanto deve essere impegnata la letteratura, ci si è domandati su queste pagine? Ovviamente secondo me molto se no non avrei fatto quello che ho fatto mentre il mondo tremava al pensiero di andare in pizzeria. Ma stiamo parlando nel deserto, è inutile negarlo.
Enormi mondi si muovono là fuori, i social che ancora noi consideriamo moderni sono già defunti, mentre la loro evoluzione si è spostata sulle piattaforme, spesso legate ai videogiochi, sconosciute.
Inoltre i videogiochi sono già impegnati da un bel po' di tempo: si chiamano serious game e su di essi esiste una letteratura che in molti ignorano.
ALLARGARE
Il libro che ho scritto sarà letto esclusivamente da coloro che l'orrore della migrazione lo conoscono già, penso che fin da ora si possa dire con qualche sicurezza il numero delle copie vendute e suppongo anche il nome e cognome della metà di coloro che lo compreranno. Si tratta quindi di allargare, di portare questi contenuti dove «non ne so niente», sfondare le colonne d'Ercole.
Disimpegnare per impegnare.
Presso l'Università degli Stranieri di Siena, in collaborazione con la docente di critica letteraria e letteratura comparata, Tiziana De Rogatis, ho tenuto un piccolo tirocinio sui meccanismi della narrazione delle migrazioni. Un giorno ho portato le tirocinanti, erano tutte donne, in un bosco e ho fatto fare loro un gioco di ruolo sulla frontiera che mi sono inventato pensando a cosa avevo visto: chi ha pescato la carta rossa si è trovata a fare la migrante, chi ha preso quella blu afferiva alle varie polizie di frontiera.
In mezzo altri ruoli: cooperante, anarco insurrezionalista, avvocata di frontiera. Il livello di repressione simulata è stato una frazione centesimale delle realtà, c'erano risate e allegria, ma faceva comunque impressione vedere certe scene e sopratutto leggere i commenti proprio di chi «non ne sapevo niente».
Alla fine le ho chiesto: voi trasformereste le pagine del mio libro in un videogioco? La risposta è stata positiva, in massa.
MAURIZIO PAGLIASSOTTI. Scrittore e giornalista, ha scritto per Il Manifesto. In due libri di denuncia (Chi comanda Torino e Sistema Torino sistema Italia) si è occupato del degrado e della cattiva amministrazione del capoluogo piemontese. Per Bollati Boringhieri si è occupato di migrazioni internazionali, nel libro del 2019 Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina. Per Einaudi ha pubblicato La guerra invisibile. Un viaggio sul fronte dell'odio contro i migranti (2023)
(ANSA domenica 20 agosto 2023) - I militari della Guardia costiera di Lampedusa, assieme ai poliziotti della Squadra Mobile e della Digos della Questura di Agrigento, sono saliti a bordo della nave Aurora della ong Sea Watch. E' in corso un'ispezione a bordo dell'imbarcazione che, ieri, violando le direttive ricevute (gli era stato assegnato Trapani quale "porto sicuro") ha fatto rotta verso Lampedusa dove ha sbarcato i 72 migranti che aveva a bordo.
"Non avevamo scelta. Salvaguardare le persone è la nostra priorità e Trapani non è mai stata un'opzione praticabile", avevano scritto, su Twitter, dalla nave Sea Watch che aveva chiesto un porto più vicino rispetto a Trapani. "Lampedusa è quattro volte più vicina all'area operativa" e, a dire della Ong, l'imbarcazione di 14,5 metri aveva "scorte d'acqua ormai limitate" e "Trapani era irraggiungibile perché l'Aurora finisce lentamente il carburante a causa della lunghezza del dispiegamento".
Estratto dell’articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” domenica 20 agosto 2023.
Il sistema è al collasso. Dall'inizio del 2023 in Italia sono arrivati 101mila migranti, il doppio rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Di questi, il 10 per cento sono minori non accompagnati. Secondo gli ultimi dati del Viminale sono 10.286 e rappresentano l'anello debole del delicato meccanismo dell'accoglienza.
I comuni denunciano: non ce la facciamo più, ormai la situazione è fuori controllo. Il primo a parlare è stato il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, che è anche delegato all'immigrazione dell'Anci (associazione nazionale dei comuni). Il quadro che descrive è sconfortante: «Sull'accoglienza dei migranti e in particolar modo per i minori è tutto saltato, siamo sull'orlo del tracollo». Secondo il rappresentante dell'Anci le città stanno affrontando una crisi che non ha precedenti. Dice Biffoni: «Siamo nella più grande emergenza mai vissuta, […] e non succede nulla: ho visto il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, a dicembre, poi c'è stata una convocazione il 4 agosto e nel mezzo solo un po' di interlocuzione tecnica». Biffoni è del Pd e le sue parole sono di parte, certo, ma i numeri restano pesanti.
[…] Dice il sindaco di Prato: «C'è un perverso meccanismo politico, perché questo è il governo del "niente sbarchi", ma fuori dalla propaganda elettorale adesso sono in difficoltà». […] «con questi numeri, se ci vengono mandati ancora minori non accompagnati, noi non possiamo garantire che ci siano il rispetto delle condizioni stabilite per legge e la responsabilità è dello Stato centrale. Non ci sono gli hub di primissima accoglienza, non ci sono le risorse per la mediazione culturale.
Il decreto Cutro ha peggiorato, se possibile, le regole del gioco, allontanando dal sistema dell'accoglienza i grandi player più affidabili come Arci, Caritas, Comunità di Sant'Egidio». […]
Estratto dell’articolo di Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” domenica 20 agosto 2023.
Una correzione in corsa che potrebbe avere conseguenze importanti sulla distribuzione dei migranti nelle regioni: non più in via esclusiva in proporzione rispetto alla popolazione residente, ma d’ora in poi solo in una quota del 70%, perché il restante 30% sarà calcolato anche in relazione alla superficie del territorio. È la novità più incisiva sui trasferimenti di profughi approdati sulle coste italiane negli ultimi mesi, più del doppio rispetto all’anno scorso, tanto da mettere sotto pressione l’intero sistema dell’accoglienza: da quella dei primi momenti dopo il soccorso in mare a quella successiva nei centri abitati.
L’iter è contenuto in una circolare che il ministero dell’Interno ha inviato ai prefetti, delegati peraltro a indire i bandi per reperire nuove strutture d’accoglienza.
Le nuove regole per la distribuzione dei migranti sono coordinate dal Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione. La Lombardia è in cima alla classifica dell’accoglienza con il 13% del totale di migranti, ovvero 16.232 dei 128.902 già accolti sul territorio nazionale. Seguono con il 10% e il 9% Emilia-Romagna e Lazio (12.458 e 11.217 ospiti).
Con l’adozione del criterio della proporzione collegata alla superficie regionale, si potrebbe avere nelle prossime settimane un aumento di trasferimenti in regioni con minore densità abitativa, come Sardegna e Basilicata — ma al vaglio ce ne sono anche altre — seguita da un alleggerimento della pressione sulle prime regioni. Le decisioni finali spettano comunque al Viminale in virtù di riscontri oggettivi sulla situazione nei territori interessati dalla distribuzione.
[…] Sempre nell’ottica di far calare la pressione sui territori e assicurare un turn over delle presenze nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), forti di 12 mila posti in più dopo l’apertura di nuove strutture, è previsto un censimento delle posizioni degli ospiti (al momento circa 110mila complessivi) per verificare se abbiano ancora i requisiti necessari per essere assistiti.
Non sono pochi infatti i migranti che vivono nei Cas ormai anche da due anni e mezzo, con attività lavorative di vario genere all’esterno e relazioni sul territorio, che ora, visto il cambiamento di status, possono richiedere aiuto agli enti locali.
[…] Sulla base degli accordi europei sull’accoglienza cambieranno, e in modo decisivo, anche le regole per chi proviene da «stati sicuri», nazioni dove non si ritiene ci siano conflitti armati e persecuzioni di carattere politico, sessuale, religioso. Nell’elenco figurano fra gli altri Costa d’Avorio e Tunisia che si trovano al vertice della graduatoria di arrivi nel 2023 (12.290 e 8.097, al secondo e al terzo posto, dietro la Guinea con 12.631), ma con poco più del 10% di riconoscimento delle domande di protezione internazionale.
L’Italia, pena la procedura di infrazione Ue, avrà circa un mese per stabilire se queste persone abbiano i requisiti per rimanere nel nostro Paese o debbano essere rimpatriate. Negli hotspot, dove entro settembre ci saranno altri 3.500 posti, verranno create strutture di trattenimento vigilate — ma non come i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) — dove i migranti attenderanno le decisioni delle commissioni del Dipartimento per le Libertà civili (una settimana) e poi quelle definitive dei giudici.
(ANSA sabato 12 agosto 2023) - "Il Mediterraneo centrale rimane la rotta più attiva verso l'Ue quest'anno, con oltre 89.000 rilevamenti segnalati dalle autorità nazionali nei primi sette mesi del 2023. Si tratta del totale più alto su questa rotta per questo periodo dal 2017": lo scrive l'agenzia Frontex in un comunicato.
Secondo i dati preliminari, nei primi sette mesi di quest'anno il numero di attraversamenti irregolari delle frontiere esterne dell'Unione europea è aumentato del 13%, raggiungendo quota 176.100, il livello più alto per il periodo gennaio-luglio dal 2016, si legge nel rapporto pubblicato sul sito dell'agenzia.
L'aumento, spiega Frontex, "è stato interamente determinato dal numero di arrivi attraverso il Mediterraneo centrale, che rimane la principale rotta migratoria verso l'Ue e rappresenta più della metà di tutti i rilevamenti alle frontiere dell'Ue. Il numero di attraversamenti irregolari su questa rotta è più che raddoppiato (+115%)". E l'aumento della pressione migratoria su questa rotta "potrebbe persistere nei prossimi mesi, con i contrabbandieri che offrono prezzi più bassi per i migranti in partenza dalla Libia e dalla Tunisia, in un contesto di forte concorrenza tra i gruppi criminali", precisa il rapporto.
In particolare, a luglio sono stati rilevati quasi 42.700 attraversamenti irregolari alle frontiere esterne dell'Ue, con un aumento del 19% rispetto all'anno precedente: si tratta del dato più alto da marzo 2016. "Purtroppo, le traversate in mare rimangono estremamente pericolose - commenta Frontex -. Secondo i dati dell'Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr), nel solo mese di luglio più di 2.060 persone sono scomparse nel Mediterraneo, la maggior parte delle quali sulla rotta del Mediterraneo centrale".
Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “la Stampa” il 13 aprile 2023.
Per il governo è un'emergenza, per chi ha a cuore le vite di chi si mette in mare è innanzitutto una tragedia. Dall'inizio del 2023 sono stati 441 i morti nel Mediterraneo centrale, la cifra più alta mai registrata dal 2017. È il dato diffuso dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni.
Dieci le ultime vittime durante un naufragio al largo della Tunisia, oltre 60 i dispersi. Intanto, altri 397 migranti sono stati soccorsi ieri dalla Guardia costiera che li ha portati a Vibo Valentia. Mentre un peschereccio con circa 600 a bordo è giunto a Catania.
L'aumento del numero dei morti è la conseguenza di un Mediterraneo sempre più vuoto, dove si è fatto di tutto per limitare l'attività delle navi delle Ong mentre le partenze proseguono senza sosta. […]
La pressione degli sbarchi ha subito messo in crisi Lampedusa. Sull'isola ieri mattina nel centro di prima accoglienza c'erano 1.263 persone, tre volte di più rispetto a quelle che avrebbero dovuto essere ospitate. […]
Ma la pressione è alta lungo tutte le coste di Sicilia e Calabria, non solo a Lampedusa.
Nel 2022 sono giunti in Italia, attraverso le varie rotte del Mediterraneo, 105.131 migranti in 2.539 e sbarchi, secondo quello che si legge nel rapporto redatto in occasione del 171° anniversario alla fondazione della Polizia di Stato. […]
Numeri e accoglienza. Augusto Minzolini il 30 Agosto 2023 su Il Giornale.
Chi scrive non vuole fare il processo su quanti soldi costi allo Stato ogni giorno un immigrato sbarcato in Italia. Né tanto meno vuole aizzare una sorta di guerra tra poveri
Chi scrive non vuole fare il processo su quanti soldi costi allo Stato ogni giorno un immigrato sbarcato in Italia. Né tanto meno vuole aizzare una sorta di guerra tra poveri. Semmai, in un momento in cui il governo in una congiuntura economica complicata stenta a trovare le risorse necessarie per mettere in piedi una legge di bilancio, questi dati offrono lo spunto per una riflessione e forniscono una pietra di paragone, specie se vengono confrontati ai costi del salario minimo, della pensione minima, del reddito di cittadinanza. In sintesi, a parte i 350 euro che vengono assegnati come aiuto di primo approdo, per ogni immigrato lo Stato spende 945 euro al mese (circa 32 euro al giorno).
È tutt'altro che poco se si pensa che ogni pensione minima pesa mensilmente sulla nostra previdenza 580 euro, che ogni percettore del reddito di cittadinanza single (almeno quelli che ancora ne godono) porta via all'erario 500 euro al mese. E ci sarebbe molto da congetturare anche se si prendessero come riferimento i salari minimi netti di diverse categorie. Ora, qualcuno può spiegare che quei soldi servono ad assicurare vitto e alloggio all'immigrato, certo. Ma anche il pensionato con i 580 euro al mese ci deve campare. Per cui si giunge alla conclusione che per gli immigrati clandestini lo Stato spende molto di più rispetto all'impegno che si assume verso altri cittadini.
Ora, al netto di ogni polemica, questi dati dovrebbero spingerci a guardare all'accoglienza, specie quella indiscriminata, anche sotto una luce squisitamente economica: noi sosteniamo un costo quotidiano ragguardevole per gli immigrati al confronto dell'aiuto che assicuriamo ad altre categorie deboli di nostri concittadini; e se poi l'inserimento nel mondo del lavoro di chi arriva o non funziona o non ha i presupposti per funzionare, se non riusciamo a ricollocarli in Europa, se non scappano dai centri di accoglienza, rischiamo di creare un'altra categoria di persone che passerà un bel pezzo della sua vita a bivaccare in qualche angolo del Belpaese.
Tutto ciò per dire che se si vogliono evitare nuove contraddizioni, che nel tempo possono trasformarsi in detonatori sociali pericolosi, l'unica strada che va perseguita è quella dei flussi legali. Apriamo le porte il più possibile, anzi oltre il possibile, a chi nel tempo è nelle condizioni di essere assorbito nel nostro sistema produttivo, a chi possiede i presupposti per integrarsi nella nostra società. Sugli arrivi illegali è necessaria, invece, una maggiore severità. Non solo per questioni di sicurezza o di impatto sociale, ma per ragioni puramente economiche.
Basta fare due conti. Quest'anno sono arrivati 100mila immigrati in più. Nella fase dell'accoglienza ci costeranno 1 miliardo e 134 milioni l'anno. Per avere il permesso e diventare regolari, complice l'iter giudiziario, impiegheranno mediamente tre anni (dato del Viminale). Per cui in tre anni peseranno sulle casse dello Stato per 3 miliardi e 402 milioni. E parliamo - ripeto - solo di quelli che sono arrivati in più quest'anno. A volte i numeri sono più efficaci delle parole.
Il boom dei minori non accompagnati: sono saliti a 20mila. Ogni giorno costano fino a cento euro. Inserimento scolastico, formazione linguistica, promozione dell'autonomia sociale ed economica dei giovani rifugiati, controlli medici, assieme a vitto alloggio e attività sportive sono le prestazioni offerte ai minori stranieri non accompagnati. Antonella Aldrighetti l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.
Inserimento scolastico, formazione linguistica, promozione dell'autonomia sociale ed economica dei giovani rifugiati, controlli medici, assieme a vitto alloggio e attività sportive sono le prestazioni offerte ai minori stranieri non accompagnati (Msna l'acronimo). Ecco l'accoglienza che lo Stato italiano riserva a quanti sbarcano sulle nostre coste senza alcun familiare. A oggi il numero dei minori presenti in Italia è di 20.032, di cui 10.727 arrivati da gennaio di quest'anno. Diversamente fino al 2020 la media degli arrivi era di circa 7.000 l'anno.
È la disamina dei costi che rende poco comprensibile l'impiego dispendioso spesso protratto oltre i 18 anni canonici della maggiore età. Ma vediamo nel dettaglio come funzionano le voci di spesa dedicate. Per ciascun minore il costo base è di 60 euro al giorno, come stabilisce la circolare 16153 del 19 maggio 2022, che regola gli appalti organizzati e affidati dalle prefetture per la gestione dei centri di accoglienza deputati ad ospitarli. Al contempo ci sono i Sai (Servizi di accoglienza e integrazione) organizzati da Anci e comuni che provvedono all'ospitalità per 77,50 euro pro capite pro die. E infine sussiste l'accoglienza diretta da parte dei Comuni dove il contributo dello Stato per ciascun giovane ospite è al massimo di 100 euro al giorno.
Il numero dei ragazzini presenti in questo contesto privilegiato è di circa un migliaio e produce una spesa tonda di 36.500.000 annui complessivi. Ovvero 36.500 l'anno ciascuno. In pratica si potrebbe malignare su un'eventuale iscrizione all'università di Oxford o di Cambridge o addirittura un master a Berkeley. Già, con le quote dei corsi, l'alloggio e l'iscrizione stiamo lì. Ma che le voci di spesa siano davvero imponenti lo indica l'entità del fondo nazionale per l'accoglienza dei Msna stabilito per l'anno in corso. La cifra non supera i 118 milioni, mentre per il 2024 salirebbe a 166 milioni. Purtroppo però quest'anno in Italia tra coloro che erano ancora minori a gennaio scorso e i nuovi arrivati andiamo a superare appunto la vetta dei 20mila. Vale a dire che la posta di cui si necessiterebbe è, al minimo della spesa ossia 60 euro, di 438 milioni. Rimaniamo invece ben lontani.
Ma ci sarebbe anche di più da analizzare in questa attenta indagine: sempre più spesso i giovani stranieri restano nel centro di accoglienza anche dopo aver superato non i 18 ma i 19 anni. Da un lato perché studiando il permesso di soggiorno gli viene automaticamente prorogato, così la ricerca e l'accesso al lavoro, dall'altro perché alcuni di loro al compimento della maggiore età necessitano di un supporto prolungato volto al buon esito del percorso di inserimento sociale. In ultima istanza gli stessi minori richiedenti protezione internazionale potranno attendere nel centro l'esito della domanda, spesso presentata dal tutore che solitamente è rivestito dal responsabile del centro di accoglienza. Davanti a una serie siffatta di situazioni diverse è automatico che gli impegni di spesa iniziali lievitino a dismisura fino a uscire dal controllo stesso delle autorità competenti. Non è un caso sporadico infatti che tra i progetti che i Comuni mettono in piedi e di cui il ministero dell'Interno finanzia l'intero budget, a fine valutazione ci si ritrova a dover rimborsare a piè di lista nuove poste.
Tuttavia il problema di queste ore è la gestione dei minori presenti nei Cas in promiscuità con gli adulti: in ciascuna Regione è corsa alle manifestazioni d'interesse per individuare gli operatori economici interessati a scendere in gara.
Migranti bambini. In Italia ci sono più di ventimila minori stranieri non accompagnati. L'Inkiesta il 23 Agosto 2023.
Quasi la metà dei ragazzi accolti nel nostro Paese ha diciassette anni, ma sono oltre tremila quelli nella fascia tra i sette e i quattordici anni
In Italia ci sono oltre ventimila minori stranieri non accompagnati, nove su dieci sono maschi, quasi uno su cinque ha meno di quattordici anni. E come sottolinea Raffaela Milano di Save the Children «sono in una condizione di particolare vulnerabilità, viaggiano senza adulti di riferimento e per molti il rischio è che se non si attiva subito un’accoglienza e una rete di protezione possano diventare facile preda di circuiti di illegalità e sfruttamento».
Un articolo del Corriere della Sera, firmato da Virginia Piccolillo, fa il punto sui migranti bambini o adolescenti che arrivano nel nostro Paese da soli vengono spesso considerati solo come numeri di un’«emergenza» che non è tale. Spesso sono anche oggetti di scambi di accuse tra governo e comuni sulla loro accoglienza. E adesso il governo studia un «tagliando» della legge firmata da Sandra Zampa del Partito democratico e una stretta sulla verifica dell’età dei migranti, nel decreto sicurezza di settembre.
Nei dati riportati dal Corriere, i minori stranieri non accompagnati accolti nel nostro Paese sono 21.710, in crescita rispetto ai 16.470 di un anno fa, con una percentuale di maschi nettamente superiore di bambine e ragazze – una su dieci, appena il 12,8 per cento. La maggior parte, ben il 44,6 per cento, ha diciassette anni. Un quarto, il 25,4 per cento, ha sedici anni. Poco più di uno su dieci, l’11,9 per cento, ne ha quindici. Poi ci sono i più piccoli. La fascia tra sette e quattordici anni è il sedici per cento. Quindi i bimbi smarriti, quelli che hanno da zero a due anni che nel caos delle partenze restano separati da mamme e papà. Sono il due per cento. La nazionalità prevalente è egiziana, 24,7 per cento, il 20,4 dalla Tunisia, e poi Guinea, Costa d’Avorio, Gambia. La distribuzione geografica non è omogenea. E questo è il primo problema. Il 23,8 per cento viene accolto in Sicilia, il 12,9 per cento Lombardia e l’8,3 per cento nell’Emilia-Romagna, il 6,7 per cento nella Campania, il 6,3 per cento in Puglia, il 6,2 per cento in Calabria, il 5,8 per cento nel Lazio.
«La legge Zampa, in accordo con le convenzioni internazionali, prevede che siano considerati minori prima ancora che stranieri», si legge sul Corriere. Ma questo purtroppo «non sempre accade. Non sempre accade. Per loro la legge prevede l’accoglienza in centri dedicati e con standard di qualità elevati. Prima falla: non ce ne sono a sufficienza e alcuni hanno standard pessimi. La destinazione dovrebbe essere decisa entro trenta giorni: o in affido familiare o in comunità di accoglienza gestite dai Comuni. Ma i centri di accoglienza sono insufficienti e i minori finiscono in quelli per adulti, gli affidi sono fermi al palo, i posti in comunità non bastano, i tutori volontari, figura adulta di riferimento che dovrebbe essere abbinata a ciascun minore, sono pochi».
Estratto dell'articolo di Giulia Torlone per “la Repubblica” l'1 agosto 2023.
Quasi novantamila migranti sbarcati sulle nostre coste in questi primi sette mesi, […] I dati del Viminale, aggiornati al 28 luglio, parlano di 87.883 arrivi e segnano una cifra più che doppia rispetto allo scorso anno, quando nello stesso periodo si erano registrati 41 mila arrivi sulle nostre coste. E negli ultimi tre giorni gli sbarchi non si sono fermati […]Se il dato continuasse a crescere, si arriverebbe a sfiorare la cifra record del 2016, quando in Italia sbarcarono 181 mila persone.
Dopo un crollo degli arrivi nel 2019, […] dall’anno successivo la crescita è stata costante: 14 mila sbarchi nei primi sette mesi del 2020, 29 mila nel 2021 e 41 mila nel 2022. […]
Secondo Frontex, il Mediterraneo centrale resta la rotta più percorsa dai migranti che vogliono raggiungere l’Europa: nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati 65.571 attraversamenti irregolari dei confini Ue in questo tratto, un aumento del 137 per cento rispetto allo scorso anno. Le altre rotte, invece, subiscono un calo: del 34 per cento quella del Mediterraneo orientale e del 6 per cento quello occidentale.
Con una pressione migratoria in aumento, gli hotspot e i centri di accoglienza sono sempre più al limite della capienza. L’hub di Catania ha registrato 15mila arrivi negli ultimi tre mesi, di cui 700 minori, con picchi di 500 persone al giorno. L’hotspot di Lampedusa continua ad essere sovraffollato ed è arrivato ad ospitare più di 3000 migranti, superando di sette volte la capienza massima. […]
Estratto dell’articolo di Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 28 marzo 2023.
[…] Dal primo gennaio sono già 26.927 i migranti sbarcati, oltre quattro volte lo stesso periodo del 2022. E nella lista delle nazionalità i primi sono gli africani proveniente dalla Costa D’Avorio seguiti dai migranti della Guinea, Pakistan e Bangladesh. Pochi scappano da una guerra come i 770 del Mali. Non solo: ieri è arrivato un peschereccio con 650 persone a bordo partito da Tobruk, in Cirenaica.
Nessuno se ne è accorto fino a quando ha urtato un’altra barca nel porto di Roccella Ionica. A bordo tutti uomini provenienti da Siria, Pakistan, Egitto e Bangladesh. E non sempre brava gente in cerca di un futuro migliore. La Guardia costiera tunisina ha intercettato venerdì scorso 27 migranti che si erano imbarcati verso l’Italia. Le indagini hanno scoperto che uno dei «migranti» è un ricercato condannato a 10 anni per appartenenza ad un’organizzazione terroristica.
[…] Per ora nessuno lancia un piano concreto per fermare le ondate. «L’Unione europea con la missione Hera nel 2005-2006 ha visto la partecipazione di unità navali italiane nel respingimento dei migranti che partivano dal Senegal verso le Baleari. E in poco tempo la rotta si è prosciugata» spiega chi è stato impiegato nell’operazione. A bordo c’era personale della gendarmeria e della dogana senegalese. […]
Estratto dell’articolo di Francesca Galici per “il Giornale” il 28 marzo 2023.
Le partenze dalla Tunisia verso l’Italia sono in aumento […] L’intensificazione del fenomeno […] impone anche ai facilitatori una nuova organizzazione, come si evince dagli annunci di lavoro che hanno iniziato a comparire in quelle stesse chat in cui si propongono le partenze.
Aumentano i migranti che cercano di lasciare la Tunisia ma aumentano anche gli arresti effettuati nel Paese nordafricano, che nelle ultime settimane ha incrementato i controlli per bloccare e rallentare le partenze illegali. […] è evidente che le organizzazioni abbiano necessità di più “personale” per tenere in piedi i loro traffici illegali. Quasi come se fossero attività stagionali, questo è il momento in cui si cercano le varie figure da inserire nella «catena» per l’organizzazione e la gestione delle partenze.
«C’è un socio tra voi che vuole lavorare con me nell’immigrazione via mare da Sfax, in Tunisia, all’Italia? Deve radunare la gente che vuole emigrare», si legge nell’annuncio.
Quello che viene proposto è un ruolo da «koxeur», come ci ha spiegato uno dei trafficanti. Si tratta del primo anello dell’organizzazione, che ha il compito di intercettare i migranti che vogliono partire e di formare i gruppi in base alla disponibilità sulla barca del momento. Questa figura non è autorizzata a prendere i soldi dai migranti ma a lui viene elargita solo una percentuale.
«Ciao famiglia, c’è un camo? Chi vuole capire, capisca», si legge in un altro messaggio più discreto del precedente, forse per dare meno nell’occhio. La figura ricercata è il «camorasseur», che i migranti spesso abbreviano in «camo», ossia la figura adibita all’organizzazione materiale del viaggio. Esistono varie mansioni tra i «camorasseur» e anche loro spetta solo una piccola percentuale per ogni persona che compone il convoglio...Queste due figure collaborano a stretto contatto tra loro e lavorano sempre a terra, principalmente nelle città costiere.
Ma l’organizzazione ha necessità di avere anche persone che operano a bordo dei convogli e queste vengono solitamente cercate tra i migranti stessi: comandanti e bussolieri sono le figure principali da dislocare sui barchini, che come si evince da alcuni video riescono anche a comunicare con l’organizzatore a terra attraverso il telefono satellitare. […]
«Venire in aereo in Italia ci costerebbe molto meno: ecco perché avere il visto è impossibile e saliamo sui barconi» Jacopo Storni / CorriereTv. Il Corriere della Sera il 15 marzo 2023.
Le storie dei migranti in fuga da guerra e povertà arrivati in Italia illegalmente. Perché i requisiti per avere un visto sono quasi impossibili da sostenere per la maggior parte degli aspiranti migranti. E perché così il decreto flussi non blocca le partenze.
Ablaye Fall ha lasciato il Senegal perché in Senegal stava male. Miseria dilagante, il futuro incerto, i genitori malati, l’assenza di lavoro. Ablaye avrebbe voluto prendere un aereo per venire in Europa. Sarebbe costato meno. Sarebbe costato poche centinaia di euro. Non certo 2mila euro come il grande viaggio, prima via terra e poi sul barcone. Però Ablaye non ha potuto prendere l’aereo. Non ha neppure provato a bussare a una delle ambasciate europee per ottenere un visto, magari soltanto turistico. Perché già sapeva – come sanno tutti gli africani aspiranti migranti – che le ambasciate europee, quei visti li negano sommariamente.
Viaggiare è impossibile se non sei nato nel Paese giusto. Il Senegal, in questo senso, non è certo un Paese giusto. L’Italia invece sì. Esistono passaporti di serie A e passaporti di serie B, come riporta capillarmente la classifica di Passport Index. Con il passaporto italiano si possono visitare 174 Paesi. Con il passaporto senegalese soltanto 66, quasi tutti in Africa, nessuno in Europa. Con il passaporto somalo 44 Paesi, tra cui Haiti, Maldive, Mozambico, Malesia. Nessuna nazione in Europa. Se sei nato in Africa, soltanto in Africa potrai viaggiare. Con il passaporto siriano si possono visitare 38 Paesi, idem con il passaporto afghano. Molti siriani e afghani vorrebbero fuggire dalla guerra e dai talebani ma, semplicemente, non possono farlo, almeno per vie legali. O meglio, possono arrivare in Europa per vie illegali e poi, una volta qui, chiedere un visto umanitario. Ma prima devono rischiare la vita superando frontiere, muri, mari e spendere migliaia di euro. E così proliferano i trafficanti di uomini, che si fanno pagare profumatamente per rotte migratorie dove si rischia la morte. Proprio come successo ai migranti naufragati al largo di Crotone.
Proprio come successo ad Ablaye, arrivato per miracolo a Lampedusa. «Il mio barcone si è rotto, eravamo 120 persone, ne sono sopravvissute soltanto 62. Ho visto una bambina di due anni morire affogata di fronte alla mamma, l’ho vista proprio davanti ai miei occhi. Ho visto un mio connazionale scomparire dentro il mare, prima di morire mi aveva lasciato il numero di telefono di sua mamma e quello di suo babbo, per avvertirli nel caso fosse morto». Oggi Ablaye è ospite in un centro di accoglienza della cooperativa Il Girasole in provincia di Firenze. Ha iniziato a lavorare come sarto e ogni mese manda soldi a casa. Non dimentica il Mediterraneo: «Ancora sogno la notte quei momenti in mezzo al mare, a volte non riesco a dormire».
Accanto a lui c’è Kwasi Amankwa, ghanese: «Sono stato due anni in Libia, ho lavorato a Tripoli, poi i libici mi hanno imprigionato, mi hanno torturato, mi bagnavano il corpo e mi frustavano sulla schiena. Poi sono partito con un barcone, eravamo 150 a bordo, ne sono rimasti soltanto 15, gli altri sono tutti morti, io mi sono salvato perché so nuotare». Anche Kwasi avrebbe preferito viaggiare comodamente in aereo, ma quando sente parlare di viaggio in aereo si mette a ridere: «Per noi africani è impossibile viaggiare in aereo, i visti non li rilasciano, almeno che tu non sia ricco».
I requisiti per avere un visto sono quasi impossibili da sostenere per la maggior parte degli aspiranti migranti. Al viaggiatore che vuole entrare in Italia è richiesto, ai fini del rilascio del visto, un’assicurazione medica di 30.000 euro valida per i Paesi Schengen per il rimborso delle spese mediche, l’assistenza e il rimpatrio in caso di morte o malattia. E poi c’è la parte ancora più difficile. Serve la prova della disponibilità di mezzi sufficienti per sostenere le spese di soggiorno. Le prove richieste possono essere, ad esempio, gli estratti bancari dei sei mesi precedenti. E soprattutto, si richiede una documentazione giustificativa della propria condizione socio-professionale. Si richiede, di fatto, che l’aspirante migrante sia benestante. Ed ecco perché, nella maggior parte dei casi, i visti non vengono concessi.
E’ quindi impossibile entrare regolarmente in Italia, tranne che col decreto flussi, la misura che negli ultimi vent’anni ha portato in Italia circa un milione di stranieri e che all’indomani della tragedia di Cutro, il Governo Meloni ha promesso di potenziare (senza però fornire numeri dei possibili ingressi). «Ma anche il decreto flussi funziona col contagocce – ha detto Nazzarena Zorzella, avvocata di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) – E’ uno strumento di difficile attuazione perché incrocia domanda e offerta di lavoro a scatola chiusa, ovvero il datore di lavoro italiano deve assumere un proprio dipendente che ancora si trova in patria, quindi di fatto senza conoscerlo, di fatto deve assumerlo a distanza. Ma è complicato per un imprenditore assumere a distanza, senza alcuna conoscenza e garanzia».
E succede che spesso il meccanismo non funziona come dovrebbe, sia perché molti Paesi sono esclusi dal decreto flussi, sia perché buona parte degli ingressi sono per un tipo di lavoro stagionale. Oltre al fatto, denunciano i datori di lavoro, che ci sono lungaggini burocratiche che rendono complicato il rilascio dei nulla osta che spesso arriva dopo mesi dalla richiesta.
Migranti e rifugiati, ecco perché non arrivano in aereo. Eleonora Camilli il 30 novembre 2022 su redattoresociale.it
UNA VIA SICURA Prima puntata di un nostro reportage realizzato in collaborazione con Acri. Dal 2013 ad oggi quasi 25.000 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo: nell'ultimo anno se ne stimano oltre 1.400. Ma le alternative sicure e regolari restano ancora troppo poche. Ne parliamo con Chiara Cardoletti, Rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino di Unhcr
Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) dal 2013 ad oggi quasi 25.000 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo. La maggior parte, quasi 20.000, sono morti nel Mediterraneo centrale, la rotta più pericolosa al mondo. Solo nell’ultimo anno si parla di oltre 1.400 morti e dispersi. Ma a ogni naufragio, la domanda è la stessa: perché migranti e rifugiati, anziché affidarsi a viaggi così pericolosi, non prendono un aereo? Quali alternative sicure ci sono? Ne parliamo di seguito con Chiara Cardoletti, Rappresentante dell’Unhcr per l’Italia, la Santa Sede e San Marino.
La sua intervista è il primo di una serie di dieci contributi che nel loro insieme costituiscono il reportage "Una via sicura", realizzato e pubblicato da Redattore Sociale in collaborazione con Acri. Un lavoro giornalistico curato da Eleonora Camilli, con il supporto grafico di Diego Marsicano, che affronta da più punti di vista il tema delle migrazioni, raccontando alcune delle esperienze supportate da Acri nel suo Progetto Migranti.
Cardoletti, tante persone si domandano perché le persone in fuga dai paesi di origine non arrivino regolarmente in Europa, anziché affidarsi alla via del mare. Lei cosa risponderebbe?
A parte casi eccezionali, le persone che fuggono da guerre e persecuzioni, non hanno la possibilità, spesso per le circostanze della fuga, o anche per le restrizioni all’ingresso in paesi sicuri, di viaggiare regolarmente su un aereo. La loro vita o libertà sono minacciate e i rifugiati spesso sono costretti ad allontanarsi dal loro Paese di origine rapidamente, a volte anche nel giro di poche ore. La maggior parte fugge inizialmente nei Paesi confinanti, i quali spesso devono affrontare situazioni economiche e sociali complesse. Il 74% dei rifugiati vive oggi in paesi a basso o medio reddito. Accade spesso che in questi Paesi sia quindi impossibile o molto difficile ricostruirsi una vita in dignità. Per questo motivo, accompagnati a volte anche da ragioni di sicurezza, alcuni rifugiati cercano di spostarsi per raggiungere altri Paesi dove sperano di poter trovare una protezione stabile e concrete opportunità per un futuro migliore.
Spostarsi regolarmente e in sicurezza in Paesi dove la protezione e le prospettive di vita sono forti è praticamente impossibile. Ad oggi non esiste un visto che consenta di chiedere asilo nel Paese di destinazione. Molti rifugiati inoltre non hanno un passaporto o non hanno mai avuto un documento di identità. L’unica possibilità di spostarsi in maniera sicura e regolare sono programmi come il reinsediamento, i corridoi umanitari, ed altri programmi simili. Purtroppo, a causa del numero limitato di posti messi disposizione degli Stati in questi programmi, i rifugiati sono costretti ad intraprendere viaggi irregolari e spesso molto pericolosi, affidandosi a trafficanti senza scrupoli. L’alto numero di persone che ogni anno perdono la vita nel Mar Mediterraneo testimonia le tragiche circostanze e scelte che i rifugiati sono costretti ad affrontare, in una fuga che si ripete da paese in paese. Se le alternative fossero maggiori, molte di queste persone non rischierebbero la propria vita e quella dei propri figli.
Quali sono le alternative, cioè le principali vie sicure e legali che oggi abbiamo a disposizione e quali per Unhcr andrebbero incentivate?
Le principali via sicure e regolari per i rifugiati sono il reinsediamento ed altri canali di ingresso complementari. Il reinsediamento comporta il trasferimento di rifugiati particolarmente vulnerabili da un paese di primo asilo verso un Paese terzo. È un importante strumento di protezione internazionale, poiché i rifugiati non possono far ritorno nel proprio paese e a volte non possono restare in sicurezza nel paese di primo asilo; in questi casi il reinsediamento costituisce l’unica soluzione praticabile che garantisca la sicurezza dei rifugiati, offrendo loro una protezione legale e una residenza stabile. I canali di ingresso complementari sono percorsi che si aggiungono al reinsediamento, e per i quali l’Italia ha sviluppato delle buone prassi: i corridoi umanitari e universitari e le evacuazioni di emergenza. Entrambi questi strumenti sono indirizzati a rifugiati o persone che hanno bisogno di protezione internazionale che si trovano in un Paese di primo asilo o di transito, da dove possono essere trasferiti legalmente e a volte a titolo permanente in un Paese dove avranno pienezza dei diritti e verranno supportati in un percorso di integrazione. Questi programmi sono importanti strumenti di protezione nella ricerca di soluzioni durevoli ma si basano esclusivamente sulla disponibilità dei Paesi che decidono il numero delle quote di ingresso. Si crea quindi un divario tra i bisogni concreti e le quote offerte. Guardando al 2022, in base alle nostre stime, 1.400.000 rifugiati avevano bisogno di reinsediamento. Ad oggi solo 41.000 persone sono state reinsediate, ovvero circa il 3%. Tengo a precisare che il numero dei rifugiati stimati per reinsediamento corrisponde solo a una piccola parte dei rifugiati nel mondo, che nel 2021 erano oltre 27 milioni, su una popolazione di persone sfollate di oltre 100 milioni (tra cui includiamo non solo rifugiati, ma anche sfollati interni, richiedenti asilo e altre categorie). Per il 2023 prevediamo che i rifugiati che avranno bisogno di reinsediamento supereranno i 2.000.000 e sappiamo che solo pochi di loro potranno essere reinsediati. I numeri parlano chiaro. I programmi esistono ma sono evidentemente insufficienti. E’ in questo divario abissale tra i bisogni delle persone e le quote degli Stati che si infrangono le promesse di solidarietà e, come dice Papa Francesco, il Mediterraneo, come altri luoghi nel mondo per i quali scappano i rifugiati, è divenuto un cimitero. Per questo motivo, l’Unhcr continua a chiedere l’aumento sostanziale di posti nei programmi esistenti e che sempre più Paesi si impegnino nel reinsediamento e in altri canali regolari.
Lo sforzo degli Stati europei, dunque, non è sufficiente?
A partire dal 2015, con l’Agenda Europea sulla Migrazione, la Commissione ha predisposto specifici fondi per finanziare lo sviluppo e la realizzazione di un programma di reinsediamento comune europeo, dando una spinta importante a vari Paesi europei ad aprire nuovi programmi di reinsediamento o a potenziare quelli esistenti, fino ad arrivare, nel 2019, ad oltre 22.000 rifugiati reinsediati in un anno nei 27 Paesi dell’Unione. Nel 2020 la pandemia ha comprensibilmente rallentato questo flusso, che però nel 2021 è ritornato ai livelli pre-covid. Anche il recente impegno di alcuni Paesi europei con l’evacuazione dei rifugiati afghani ha rappresentato un importante segnale di solidarietà ed assunzione di responsabilità; è evidente però dai numeri che anche queste cifre non sono ancora sufficienti a venire incontro al bisogno globale di reinsediamento e che un continente come quello europeo può e deve fare di più sotto questo fronte.
L'Italia sui corridoi umanitari ha fatto da apripista in Europa, altri paesi stanno seguendo l'esempio?
Si, l’Italia in questo è stata all’avanguardia e il modello dei corridoi umanitari costituisce certamente una buona prassi. Le associazioni promotrici del progetto - la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche, la Tavola Valdese e successivamente anche la Caritas per conto della CEI e più recentemente l’Arci - di concerto con il Ministero dell’Interno e degli Affari Esteri, non solo si occupano dell’individuazione dei beneficiari nei Paesi di primo Asilo e del loro trasferimento in sicurezza in Italia, ma coinvolgono comunità locali nell’accoglienza ed integrazione dei rifugiati. Il coinvolgimento della società civile e delle comunità di accoglienza ha portato a risultati positivi per quanto riguarda i processi di inclusione nel tessuto sociale italiano. Grazie a questo programma oltre 3.000 rifugiati e richiedenti asilo sono giunti in Italia in modo legale e sicuro. Questo modello è stato anche studiato e adottato da altri Paesi europei. Come Unhcr apprezziamo e supportiamo il progetto dei corridoi umanitari, al quale abbiamo conferito il nostro Premio Nansen per i rifugiati nel 2019, e speriamo che sempre più Paesi europei possano aderire a questa o simili tipologie di progettualità.
Cos’altro andrebbe fatto?
L’Unhcr lavora per favorire l’espansione dei canali regolari di ingresso sia di carattere umanitario, come i corridoi umanitari e le evacuazioni d‘emergenza dalla Libia, ma anche i canali di studio e di lavoro dedicati ai rifugiati. Nel mondo sono tantissimi i rifugiati che hanno la volontà e gli strumenti per potere accedere a forme di educazione scolastica superiore, ma che non hanno accesso ad opportunità accademiche nel luogo in cui si trovano. È Importante coinvolgere attori pubblici e privati, quali università, ong, associazioni di categoria, imprenditori, le istituzioni e associazioni del terzo settore per cercare di sviluppare programmi innovativi che consentano ai rifugiati che hanno requisiti accademici o lavorativi di potersi muovere legalmente e in sicurezza, per studiare e lavorare. In Italia, ad esempio il progetto UNICORE (University Corridors for Refugees) a partire dal 2019 ha consentito a 120 studenti rifugiati di venire in Italia e ottenere una borsa di studio per corsi di laurea di secondo livello in più di 33 università italiane; un progetto simile che portiamo avanti con l’Università Luiss, è il Progetto Mediterraneo, grazie al quale oltre 20 studenti sono stati e saranno ammessi in Italia per poter frequentare un ciclo completo di studi universitari. L’obiettivo di questi progetti è non solo favorire l’accesso all’istruzione universitaria garantendo un ingresso legale e sicuro in Italia, ma anche quello di accrescere le competenze dei rifugiati che potrebbero un giorno, se le condizioni lo consentiranno, ritornare nelle loro aree di origine contribuendo allo sviluppo e alla crescita dei loro territori. Nessun canale però sarà mai sufficiente se non saranno affrontate alla radice le cause che spingono i rifugiati a lasciare il proprio paese. Dobbiamo investire sulla pace. Dobbiamo anche investire sempre di più in interventi umanitari e di sviluppo in paesi di primo asilo e di transito affinché sia possibile per i rifugiati, a fianco delle comunità che li ospitano, accedere alle cure mediche e agli studi, aspirare ad un lavoro dignitoso dove si trovano.
Spesso i corridoi umanitari sono usati dalla propaganda politica in contrasto ai viaggi in mare e alle attività di search and rescue. Ma oggi sono realmente un’alternativa?
Se pensiamo ai rifugiati che avrebbero bisogno di essere reinsediati e ai posti disponibili, sicuramente al momento i canali regolari di ingresso non sono un’alternativa realistica ai viaggi in mare. Neanche in caso di un significativo incremento dei canali regolari è possibile pensare che tali programmi possano costituire un’alternativa per tutti. In uno scenario come quello globale, così complesso e in continua evoluzione, un incremento dei canali di ingresso regolari consentirebbe di fornire una opportunità fondamentale per una parte sempre maggiore delle persone che hanno bisogno di protezione, in particolare per i più vulnerabili. Rappresenterebbe inoltre un forte supporto e un segnale di vera solidarietà e cooperazione verso quei Paesi di basso e medio reddito che accolgono la maggioranza dei rifugiati nel mondo. L’aumento dei posti darebbe poi credibilità al sistema stesso. Ad oggi i posti sono così pochi che gli stessi rifugiati perdono fiducia nella concreta possibilità di accedere a tali programmi. Molti devono attendere anni prima di essere reinsediati. L’aspettativa di accedere in tempi ragionevoli a canali di ingresso sicuri potrebbe indurre molti rifugiati a non intraprendere viaggi pericolosi. Potrebbe salvare loro la vita. In aggiunta, tengo a ricordare che il reinsediamento e gli altri canali di ingresso regolare sono strumenti per fornire protezione e soluzioni durevoli ai rifugiati e non strumenti di gestione dei flussi migratori. Il potenziamento di questi canali non deve essere usato per impedire a chi cerca di raggiungere un luogo sicuro dove presentare domanda di asilo. Il diritto a chiedere asilo ha radici profonde ed è riconosciuto in vari strumenti a livello internazionale. Per quanto riguarda le attività di ricerca e soccorso in mare (SAR), le regole sono chiare: le persone in condizioni di pericolo che si trovano in mare devono essere soccorse e portate in un luogo sicuro, sempre. Le ong impegnate in questo ambito svolgono un ruolo determinante nel salvare la vita di persone che scappano da situazioni molto difficili come la Libia. Detto questo, è evidente che serve un approccio europeo, comune, nel gestire questi fenomeni che non possiamo più chiamare emergenze e che sfidano i Paesi membri ad interrogarsi su quali valori vogliono mettere alla base dell’Europa del presente e del futuro.
Cosa ci dicono i numeri?
I numeri ci parlano di una popolazione di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati sotto il nostro mandato che è cresciuta costantemente negli ultimi dieci anni e che purtroppo a fine 2022 prevediamo raggiungerà la soglia dei 103.000.000 di persone. Nel 2022, l’Unhcr ha dichiarato ed è intervenuto in 37 nuove emergenze. Se l’invasione russa dell’Ucraina ha portato a 7 milioni di rifugiati che hanno cercato protezione in Europa e a oltre 6 milioni di sfollati interni, molte altre sono le crisi che, spesso dimenticate, ci restituiscono uno scenario preoccupante. L’Unchr ha individuato 12 crisi in cui le risorse messe a disposizione della comunità internazionale sono diminuite e costringono le nostre operazioni a ridurre servizi essenziali. La continua crescita di questi numeri rende quindi impellente la necessità di rafforzare la cooperazione internazionale, aumentare gli investimenti umanitari e di cooperazione allo sviluppo per stabilizzare i paesi d’accoglienza e potenziare, tra le altre attività di protezione, anche i programmi di reinsediamento e gli altri canali regolari che consentano a un numero sempre maggiore di rifugiati di raggiungere regolarmente e in modo sicuro luoghi dove possano tentare di ricrearsi una vita in maniera stabile.
Perché i migranti non usano l’aereo? Il Post il 25 giugno 2018.
È una domanda che ultimamente sono tornati a farsi in molti, in buona o in cattiva fede: ha risposto Claudia Torrisi su Vice
Vista la facilità con cui noi europei prenotiamo un biglietto aereo, molti si sono chiesti – in buona o in cattiva fede – perché i migranti che arrivano dall’Africa non possano fare lo stesso, considerato anche il prezzo elevatissimo che pagano per salire su barconi fatiscenti sui quali rischiano di morire annegati. La risposta è abbastanza semplice, come ha spiegato Claudia Torrisi su Vice: per volare in Europa serve un visto, che i paesi europei non sono quasi mai disposti a concedere.
Sì, ok l’ingresso in Europa; ma non potrebbero comunque evitarsi quel viaggio bestiale su gommoni e barconi fatiscenti? In realtà no, considerato che alla maggior parte dei cittadini extra-Ue per salire su un aereo diretto nel vecchio continente è richiesto di possedere un visto, il cui ottenimento è complicato e costoso, quando non impossibile.
“È inutile che ci si prenda in giro dicendo ‘perché non prendono l’aereo visto che hanno tutti questi soldi’, perché il visto d’ingresso non glielo danno,” mi dice Paggi. “Un visto d’ingresso Schengen—quello per turismo, per intenderci—è a concessione altamente discrezionale. Se una persona non rende altamente verosimile l’intento di un soggiorno turistico in Italia o in un altro paese dello spazio Schengen, il visto non l’avrà.”
Per rendere meglio l’idea, l’avvocato fa un esempio: “Se un funzionario ministeriale del proprio paese con un bel posto di lavoro e un bel reddito si presenta al consolato italiano dicendo ‘ho comprato un pacchetto Valtur per me e per tutta la famiglia per 20 giorni,’ il visto turistico glielo danno di corsa. Se, invece, a presentarsi è una persona che dichiara di non avere lavoro, o di averne uno insufficiente, e dice di voler andare in Italia in vacanza ospite da amici, al consolato gli diranno che intende abusare del visto per turismo per poi restare illegalmente alla scadenza, e glielo negheranno. È fin troppo evidente.”
Perché i migranti non arrivano tutti in Italia in aereo? E perché affidarsi a organizzazioni criminali e affrontare la traversata del Mediterraneo è spesso l'unica scelta? Claudia Torrisi il 21.6.18 su Vice.com
Aggiornamento del 10 gennaio 2018: Parlando del caso della Sea Watch—la nave della Ong tedesca bloccata nel Mediterraneo per quasi venti giorni, la cui situazione si è sbloccata solo ieri—il ministro dell'interno Matteo Salvini ha ribadito che “in Italia e in Europa si arriva con le organizzazioni e le Ong serie e perbene, in aereo e con i documenti.” Visto che però arrivare legalmente in aereo in Italia non è per niente facile, riproponiamo questa analisi.
Ogni volta che una barca viene individuata o soccorsa al largo delle coste libiche, in quella parte di elettorato che parla di “invasione,” “pacchia finita” e chiusura dei porti torna a circolare una vecchia storia: non è strano che i migranti spendano migliaia di euro per un viaggio in mare potenzialmente mortale invece di impiegarne poche centinaia per prendere un aereo per l’Europa? Se sono così “benestanti” perché non scelgono altre vie? O li finanzia qualcuno? Eh? Insomma, c’è sicuramente qualcosa sotto—forse le ong, forse George Soros.
Per capire, al di là di complottismi e luoghi comuni, perché chi vuole venire in Europa decide di affidarsi a organizzazioni criminali e affrontare la terribile traversata del Mediterraneo, ho contattato Marco Paggi, avvocato e socio dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI).
Secondo il legale, la spiegazione è molto semplice: “L’Europa è una fortezza blindata nella quale non si entra dalla porta principale.” Le quote per i flussi migratori “sono sostanzialmente bloccate. Attualmente esiste la possibilità di ingresso solo per investitori di somme considerevoli, come lavoratori autonomi o imprenditori; oppure lavoratori altamente specializzati—il che significa anche altamente retribuiti,” afferma Paggi.
Ed è chiusa anche per chi volesse fare domanda d’asilo politico: per fare la richiesta, infatti, bisogna essere presenti nello stato, non si può agire tramite ambasciate, né ottenere un permesso temporaneo per andare a chiedere protezione. “Chiedere asilo presso i consolati italiani," aggiunge l’avvocato, "non solo concettualmente non è possibile, ma sarebbe anche considerato un atto di ostilità verso le autorità e i governi dei paesi ospiti.”
Sì, ok l’ingresso in Europa; ma non potrebbero comunque evitarsi quel viaggio bestiale su gommoni e barconi fatiscenti? In realtà no, considerato che alla maggior parte dei cittadini extra-Ue per salire su un aereo diretto nel vecchio continente è richiesto di possedere un visto, il cui ottenimento è complicato e costoso, quando non impossibile.
“È inutile che ci si prenda in giro dicendo ‘perché non prendono l’aereo visto che hanno tutti questi soldi’, perché il visto d’ingresso non glielo danno,” mi dice Paggi. “Un visto d’ingresso Schengen—quello per turismo, per intenderci—è a concessione altamente discrezionale. Se una persona non rende altamente verosimile l’intento di un soggiorno turistico in Italia o in un altro paese dello spazio Schengen, il visto non l’avrà.”
Per rendere meglio l’idea, l’avvocato fa un esempio: “Se un funzionario ministeriale del proprio paese con un bel posto di lavoro e un bel reddito si presenta al consolato italiano dicendo ‘ho comprato un pacchetto Valtur per me e per tutta la famiglia per 20 giorni,’ il visto turistico glielo danno di corsa. Se, invece, a presentarsi è una persona che dichiara di non avere lavoro, o di averne uno insufficiente, e dice di voler andare in Italia in vacanza ospite da amici, al consolato gli diranno che intende abusare del visto per turismo per poi restare illegalmente alla scadenza, e glielo negheranno. È fin troppo evidente.”
Il diniego per “rischio migratorio” a partire dal reddito può condurre a situazioni tipo quella capitata qualche giorno fa una donna del Gambia, che aveva richiesto un permesso temporaneo di 30 giorni per raggiungere in Italia il figlio, rifugiato politico, e partecipare al suo matrimonio con una ragazza piemontese. Nonostante lei avesse seguito tutte le procedure e specificato le ragioni del viaggio in Italia, l’ambasciata ha rifiutato il visto perché “le informazioni fornite per giustificare lo scopo e le condizioni del soggiorno previsto non sono attendibili.”
Per l’avvocato Paggi, “chiedersi con tono sospettoso perché chi migra verso l’Europa non prenda l’aereo invece del barcone suona tanto come quella battuta che si attribuiva alla regina francese Maria Antonietta: ‘Il popolo protesta perché non ha pane? Che mangino brioches’.”
Per i rifugiati un esperimento di creazione di vie legali è quello dei corridoi umanitari, un progetto curato dalla Comunità di Sant’Egidio, la Tavola Valdese e altre organizzazioni, che dal 2016 ha fatto arrivare—stavolta sì, via aereo—più di 1000 persone vulnerabili. Secondo il legale dell’Asgi, i corridoi “sono sicuramente una risorsa che permette alle persone di non rischiare la vita nel Mediterraneo o addirittura nei percorsi precedenti.” Tuttavia “una politica unilaterale del solo governo italiano non può essere risolutiva,” e “servirebbe una reale e compatta politica estera dell’Ue sulla questione in generale.”
Il fatto che l’Europa sia una fortezza chiusa che costringe chi migra a determinate scelte ha conseguenze ad ampio raggio—oltre che, ovviamente, sulla vita stessa delle persone. Ad esempio, l’aumento delle richieste d’asilo è strettamente legato alla mancanza di altre vie. “Per chi vuole entrare in Europa non c’è altra possibilità,” afferma Paggi. “È chiaro che questo significa poi indurre paradossalmente a un uso strumentale della protezione internazionale. Senza contare che quest’ultima è poi a sua volta un istituto che non è adeguato, per quella che è l’interpretazione attualmente adottata, a far fronte a situazioni che non rientrano nella persecuzione o nei trattamenti inumani e degradanti, cioè la fame, la desertificazione, disastri ambientali, la fuga dalla corruzione sistematica che c’è in certi paesi africani.”
A risentirne è anche il tessuto economico. “Il mondo del lavoro in Italia ha ripreso un po’ a girare, c’è domanda di manodopera. Il problema è che, a fronte di questo, abbiamo una disciplina di flussi migratori che di fatto non consente nessun flusso legale, e lascia come unica alternativa l’ingresso illegale tramite malavita organizzata,” spiega l’avvocato.
Secondo il legale, una soluzione in questo senso potrebbe essere reintrodurre il sistema dello “sponsor,” che permetteva ai migranti di entrare legalmente in Italia pagandosi le spese del viaggio con un visto per cercare lavoro, grazie a garanzie economiche offerte da un familiare o un altro garante. In questo modo, prosegue Paggi, “molte persone anziché mettere tutto quello che hanno—e anche quello che non hanno—nelle mani di organizzazioni criminali per cercare di arrivare in Italia pagherebbero più volentieri una polizza fideiussoria.”
Lo "sponsor," però, è stato in vigore solo qualche anno—dal 1999 al 2001—prima di essere eliminato con la legge Bossi-Fini. Tuttavia, ricorda l’avvocato, “la misura era stata usata in quantità omeopatica. Ma per quelle poche quote per cui è stato autorizzato ha funzionato bene, lo dicevano anche le questure. Le persone si erano inserite nel mondo del lavoro, stabilizzandosi. Adesso abbiamo un blocco totale.”
Insomma, per tornare alla domanda iniziale, perché i migranti—per qualsiasi ragione decidano di voler entrare in Europa—non prendono l’aereo? Perché non possono, sostanzialmente perché al momento glielo impediamo. Finché non esisteranno canali legali d’accesso la gente non smetterà di partire, semplicemente continuerà a scegliere i viaggi in mare.
Perché “i migranti non vengono in aereo?” Passaporti deboli, visti impossibili, accessi negati: per chi proviene dai Paesi a basso reddito, le rotte illegali e potenzialmente mortali sono l’unica possibilità. Costanza Giannelli, giornalista, su lasvolta.it il 10 marzo 2023
Indice dei contenuti
I passaporti non sono tutti uguali
Visti mai visti
“Casa loro”
I migranti l’aereo lo prendono già
“Ai ca***ni che mi scrivono “tu che ne sai dei disperati?”, rispondo: Sei disperato? Invece di spendere 3000€ in barconi, parti in aereo con la famiglia e con i documenti in regola e arrivi qui senza rischi!!! E basta scuse buoniste!!!”
Questo tweet del 27 febbraio, pubblicato a poche ore dal naufragio che è costato la vita a 72 persone, tra cui 18 (e non “alcuni”) bambini, e un numero di dispersi compreso tra i 27 e i 47, ha 1250 like. E, soprattutto, non è un caso isolato.
Dopo ogni tragedia in cui il mare inghiotte vite con l’unica colpa di cercare un futuro migliore, ma più in generale ogni volta che si parla della rotta migratoria mediterranea, riecheggia una domanda che rafforza il frame colpevolizzante e sposta la responsabilità di quelle morti da chi non ha fatto in modo che venissero salvate - o, al limite, da chi ha reso “casa loro” un inferno da cui scappare a rischio della vita e da chi lucra sulla loro disperazione - alle vittime: “ma se hanno i soldi per pagare gli scafisti perché non prendono semplicemente un aereo?”.
Forse sembrerà inconcepibile a chi, abituato a girare l’Europa solo con la carta di credito o a spostarsi ovunque nel mondo grazie a passaporti e visti turistici, ma la libera circolazione delle persone non è dappertutto così libera. La risposta semplice a questa domanda è: perché non possono. Ma si tratta di una risposta che, di semplice, non ha proprio niente. Vale la pena ricordare ancora una volta perché.
I passaporti non sono tutti uguali
Nascere in un luogo piuttosto che in un altro influenza anche i luoghi verso cui è possibile spostarsi facilmente. Non tutti i passaporti, infatti, sono ugualmente “potenti”, come mostra l’Hexley Passport Index: a seconda del Paese di emissione, i cittadini possono viaggiare senza dover ottenere un visto in anticipo verso un numero di destinazioni che varia sensibilmente.
Così, a esempio, i giapponesi (al primo posto della classifica 2023 dei passaporti più “forti”) possono viaggiare verso 193 destinazioni, i cittadini di Singapore verso 192 e i tedeschi verso 190. L’Italia, con 189 destinazioni, si posiziona al 4 posto.
Come avevamo spiegato in un articolo dedicato ai passaporti mondiali, ben diversa è la situazione dei Paesi che chiudono la classifica: sono solo 40 le destinazioni possibili per i cittadini della Corea del Nord, e ancora meno quelle di Nepal e Palestina (38).
Ma queste non sono le situazioni più critiche: “i cittadini somali possono accedere a 35 destinazioni, quelli dello Yemen a 34, mentre i pakistani a 32. Chiudono la classifica dell’Henley Passport Index Siria, Iraq e Afghanistan, i cui passaporti consentono ai loro titolari l’ingresso rispettivamente a 30, 29 e 27 Paesi”.
Visti mai visti
Per chi deve ottenere un visto, la situazione si fa molto più complicata. Per chi proviene da Paesi extra-Ue a basso reddito, infatti, entrare nella “Fortezza Europa” dalla porta principale è un’utopia.
Ottenere un visto, concesso a discrezione del Paese a cui viene richiesto, è costoso e complicato e, spesso, praticamente impossibile.
I visti, inoltre, sono previsti solo per motivi specifici (investimenti, lavori altamente specializzati o turismo, a esempio) ma non è prevista una tipologia dedicata ai richiedenti asilo: la domanda, infatti, può essere fatta solo una volta arrivati.
La direttiva UE Carrier Sanctions Directive 2001/51/EC, impone sanzioni alle compagnie aeree che trasportano passeggeri senza documenti di viaggio validi, con multe fino a 500,000 euro e costi del viaggio di ritorno dei passeggeri respinti a carico della compagnia.
L’articolo 3 della direttiva, però, dichiara la direttiva deve essere applicata “fatti salvi gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Ginevra del 1951”, tra cui il divieto di respingimenti. La direttiva, quindi, non dovrebbe impedire ai richiedenti asilo di spostarsi, ma di fatto lo fa. E se arrivare legalmente è impossibile, quali possibilità rimangono se non tentare la sorte in mare?
“È inutile che ci si prenda in giro dicendo ‘perché non prendono l’aereo visto che hanno tutti questi soldi’, perché il visto d’ingresso non glielo danno,” spiegava a Vice Marco Paggi, avvocato e socio dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI). “ Un visto d’ingresso Schengen—quello per turismo, per intenderci—è a concessione altamente discrezionale. Se una persona non rende altamente verosimile l’intento di un soggiorno turistico in Italia o in un altro paese dello spazio Schengen, il visto non l’avrà”.
Il visto, infatti, può essere rifiutato per “rischio migratorio”. Indovina a quali persone viene negato: esatto, a chi non ha un lavoro o un reddito sufficiente a giustificare un viaggio verso l’Occidente del benessere, anche quando questo viaggio è per visitare parenti, magari in occasione di momenti particolari come matrimoni o, addirittura, funerali.
In alcuni casi, inoltre, per ottenere il visto turistico è necessaria una “lettera d’invito” da parte di un cittadino del Paese che si intende visitare, che si fa garante per il richiedente. Una condizione spesso impossibile da soddisfare, che è necessaria ma non sufficiente a garantire la concessione del visto, che anche in presenza di questo documento può essere negato.
“Casa loro”
Fin qui abbiamo dato per scontato che chi vuole lasciare il proprio Paese abbia i documenti in regola e possa tentare - quasi sempre fallendo - di migrare legalmente.
Anche in questo caso, però, la situazione è più complicata: molti rifugiati non hanno o non hanno mai avuto un documento, figuriamoci un visto. Senza considerare che ambasciate e consolati chiudono nei Paesi in guerra o che, nel caso di conflitti, spesso le richieste ricevute sono così numerose che non c’è la capacità materiale di processarle tutte.
Prima di domandarci perché questi colpevoli ignoranti non si siedano su un comodo volo di linea low cost con cui noi andiamo a Ibiza per il week-end, dovremmo fermarci a pensare a qual è la “casa” da cui scappano, quella in cui vorremo tanto aiutarli. Lì, non qui.
I migranti l’aereo lo prendono già
Abbiamo detto che i migranti non possono prendere l’aereo, ma questo non è del tutto esatto. La verità è che alcuni migranti non possono prendere l’aereo e sono quindi costretti ad affidarsi alle rotte illegali e pericolose, non solo quella del mare – che nella nostra narrazione fatta di barconi e scafisti è l’unica esistente – ma anche quelle di terra, come quella balcanica.
I rifugiati che arrivano attraverso questi canali, però, non sono che una percentuale minoritaria: la maggior parte dei migranti, infatti, arriva proprio in aereo, o con documenti falsi o con un regolare visto turistico e poi rimane nel Paese oltre la scadenza. Nel 2005, secondo i dati del Ministero dell’Interno, gli overstayer costituivano addirittura il 75% delle persone “irregolari” in Italia, mentre il 15% era arrivato via terra e solo il 10% via mare.
Ti sei mai chiesto perché i rifugiati non prendono l'aereo? Una direttiva UE obbliga i rifugiati a ricorrere a canali di immigrazione irregolari per raggiungere l'UE e ad le loro vite a dei gommoni dietro pagamento di ingenti somme di denaro agli scafisti. Jascha Galaski il 10 dicembre 2018 su liberties.eu/it/.
Ti sei mai chiesto perché i rifugiati non raggiungono l'Europa semplicemente su aerei veloci e confortevoli anziché su piccoli gommoni via mare? Dopo tutto, gli aerei sono molto più sicuri delle piccole imbarcazioni in gomma. Il costo non può essere il motivo. I rifugiati spesso pagano agli scafisti migliaia di euro per un posto su un gommone, mentre viaggiare in aereo dalla Turchia alla Germania costa meno di 50 euro. Forse non sono in grado di lasciare il paese e raggiungere l'aeroporto? Non può essere neanche questo. Nel 2015, la maggior parte dei rifugiati siriani ha viaggiato verso la Turchia per prendere una barca, ma avrebbe allo stesso modo potuto viaggiare verso l'aeroporto Atatürk di Istanbul. Quindi, cosa motiva esattamente questa scelta? Perché affidare la tua vita a un piccolo gommone sovraffollato invece che a un aereo ben attrezzato? Bene, la risposta è sia semplice che complessa.
La risposta semplice
La risposta semplice è che non hanno scelta. Non è che abbiano due opzioni di viaggio, una economica, sicura e confortevole, l'altra lunga, costosa e pericolosa e scelgano la seconda, solo per il brivido che comporta. No, la realtà è che se fossero andati all'aeroporto, il personale del check-in della compagnia li avrebbe rimandati indietro. Perché? Ecco qui entra in gioco la risposta complessa.
La risposta complessa
Esiste una direttiva UE, la Carrier Sanctions Directive 2001/51/EC, che impone sanzioni ai vettori – come le compagnie aeree – che trasportano passeggeri che non sono in possesso di documenti di viaggio validi. Le multe vanno da 3,000 euro a passeggero fino alla cifra forfettaria di 500,000 euro, a seconda del paese. I vettori dovrebbero anche coprire i costi del viaggio di ritorno dei passeggeri. Sembra una misura ragionevole per combattere l'immigrazione irregolare. Tuttavia, ha un difetto.
L'articolo 3 della direttiva dichiara che i firmatari devono applicare la direttiva “fatti salvi gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Ginevra del 1951”, che include il divieto di respingimenti. In altre parole, la direttiva non dovrebbe impedire ai rifugiati di presentare richiesta di asilo. Ma lo fa. I rifugiati che fuggono da zone di guerra spesso non sono nelle condizioni di ottenere dei passaporti, figuriamoci i visti, anche perché la maggior parte delle ambasciate chiude nei paesi dilaniati da guerre. Per i rifugiati siriani nel 2015, ottenere un visto in Turchia era pressoché impossibile considerata la mancanza di risorse delle ambasciate per processare il volume di richieste.
La direttiva lascia al personale delle compagnie aeree la libertà di decidere chi è un potenziale richiedente asilo. Prova a immaginarlo. Il personale delle compagnie, senza alcuna esperienza sul campo, ha 45 secondi per prendere una decisione su chi è e chi non è un rifugiato, quando le ambasciate ci impiegano mesi. I vettori rischiano multe se consentono a un migrante irregolare i entrare, ma non sono previste multe in caso di diniego di ingresso a un richiedente asilo. Pertanto, le compagnie aeree rifiutano di imbarcare persone che non sono in possesso di documenti validi. Non hanno niente da guadagnarci e molto da perderci.
Per aiutare il personale delle compagnie aeree a decidere chi ha diritto all'asilo, gli stati membri UE hanno inviato esperti di documenti o i cosiddetti immigration liaison officers (ILOs) nei grandi aeroporti. Secondo un rapporto della European Agency for Fundamental Rights (FRA), questi ufficiali possono “assistere le compagnie nel decidere se i singoli passeggeri che sembrano in possesso di documenti impropri siano comunque in buona fede e possono essere trasportati senza incorrere in oneri finanziari ai sensi della legislazione del vettore”. Gli ILO hanno un potere limitato, tuttavia, e possono solo fornire consigli al personale delle compagnie aeree, a cui rimane la decisione finale. E' quindi molto improbabile che le compagnie aeree si assumano il rischio di trasportare passeggeri senza documenti.
Esternalizzare i controlli alle frontiere
La pratica di delegare i controlli di frontiera alle compagnie aeree non rispetta il principio di responsabilità dell'UE in tema di protezione dei rifugiati. Le sanzioni nei confronti dei vettori sono un esempio significativo della privatizzazione della gestione dell'immigrazione. Imponendo sanzioni ai vettori, la fortezza Europa applica una politica di controllo remoto per bloccare gli accessi sul suo territorio. Le sanzioni rendono estremamente difficile per i rifugiati viaggiare in maniera sicura verso l'Europa, per questo si rivolgono agli scafisti, che diventano i principali beneficiari. Solo nel 2015, hanno guadagnato oltre 5 miliardi di dollari dal trasporto dei migranti verso l'Europa.
Questo non solo ha effetti dannosi verso chi cerca protezione, ma considerato il numero senza precedenti di arrivi irregolari nell'UE nel 2015, l'efficacia della direttiva può essere seriamente messa in discussione. Come ha dichiarato lo European Council for Refugees and Exiles (ECRE): “Le sanzioni ai vettori possono essere state efficaci nell'impedire a migranti, richiedenti asilo e rifugiati di avere accesso a mezzi di trasporto regolari, ma non hanno contribuito a ridurre il volume complessivo di immigrazione irregolare nell'UE e quindi dell'uso di modi irregolari di attraversamento dei confini”.
Corridoi sicuri e legali
Anziché discutere su come smantellare le reti di scafisti, l'UE dovrebbe concentrarsi sulla creazione di corridoi sicuri e legali per i rifugiati. Eliminare o almeno sospendere i requisiti per i visti e le sanzioni ai vettori garantirebbe arrivi sicuri e legali e al contempo colpirebbe sensibilmente gli affari dei trafficanti. Rilasciare un maggior numero di visti umanitari nelle ambasciate europee fuori dall'UE ridurrebbe ulteriormente il numero di morti.
Le sanzioni ai vettori, le politiche restrittive sui visti e altre misure per ridurre gli arrivi costringe i rifugiati a ricorrere a canali di immigrazione irregolare, li rende vulnerabili alle violazioni di diritti umani costringendoli a rischiare la propria vita per raggiungere un porto sicuro. Gli stati membri UE hanno una responsabilità ben maggiore delle compagnie aeree per quanto riguarda la protezione dei rifugiati. Dovrebbero agire di conseguenza.
Odissea «asilo politico» per i migranti: fino a sei mesi nel limbo tra ritardi, cavilli e burocrazia. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023
Migliaia di pratiche bloccate, il Viminale: «Nessuna strategia dilatoria». Aumentano i ricorsi dei richiedenti. E le emergenze si sommano a quella ucraina
Anees e Lafuz bussano per la prima volta alla questura di Parma il 26 maggio 2022: uno in fuga dal Pakistan, l’altro dal Bangladesh, lungo la rotta balcanica, 6.500 chilometri di paura e sevizie. Chiedono asilo. Non riescono neppure ad arrivare allo sportello: «Tornate tra una settimana». Ma ogni settimana vengono rimandati alla successiva, finché viene detto loro che «senza un domicilio non possono nemmeno registrare la domanda», primo passo dell’iter burocratico. Se registrassero la domanda, avrebbero almeno accesso a un centro d’accoglienza gestito dalla prefettura che servirebbe da domicilio... per registrare la domanda: è un limbo in cui finiscono incastrati, secondo stime delle associazioni di volontari, forse ventimila profughi l’anno, ai quali non resta che la strada.
Là dove è rimasto un altro pachistano, Ahmed, dall’8 agosto 2022 al 17 gennaio 2023, finché la giudice Alessandra Filoni, su istanza dell’avvocato Paolo Cognini, non ha condannato il «cortocircuito logico» in cui era imprigionato ad Ancona, descrivendo un paradosso da Comma 22: «Il soggetto giunge in Italia, privo di domicilio, per ottenere la protezione internazionale; suo malgrado non viene collocato nei centri di accoglienza, che costituirebbero anche domicilio valido per le notifiche, per un’asserita indisponibilità di posti (peraltro non documentata) e, per l’effetto, non ottiene la formalizzazione della domanda...».
I tre giorni
La direttiva Ue 2013/32 prescrive «tre giorni lavorativi» (fino a dieci in casi particolari) per il passaggio preliminare della procedura. In Italia la politica ha molto discusso sulla protezione speciale (una tutela meno cogente, di fatto quasi abolita col decreto Cutro ora convertito in legge). Ma in realtà i rifugiati possono impiegare anche sei mesi solo per formalizzare nelle questure la richiesta di protezione internazionale, la tutela principale, concessa loro in base all’articolo 10 della Costituzione. «Sulle richieste d’asilo non esistono contingentamenti, non si possono fare quote», spiega Riccardo Tromba, uno degli avvocati che per l’associazione Naga forniscono assistenza agli stranieri: «Così dal 2018 si è andati tagliando risorse: se non si dispongono gli uffici in modo tale da rispondere alle domande di chi si presenta, di fatto si contingentano gli accessi». Sei mesi. Tanto ci hanno impiegato Anees e Lafuz, che insieme a una ventina di compagni hanno bivaccato nell’attesa sui marciapiedi di Parma, finché l’avvocato Calogero Musso, per conto della onlus Ciac, non ha ottenuto dal tribunale di Bologna un’ordinanza che ha imposto alla questura di registrarne le richieste d’asilo, poi al vaglio delle commissioni territoriali.
«Prassi illogiche»
Nel 2022, secondo il Consiglio italiano per i rifugiati, su oltre 77.195 richieste, le domande esaminate in Italia sono state 52.625: il 53% ha ricevuto un diniego (27.385), il 12% il riconoscimento dello status di rifugiato (6.161), il 13% la protezione sussidiaria (6.770), il 21% la protezione speciale (10.865) usata un po’ da tappabuchi. I posti nei centri ora scarseggiano e si tende comunque a serbarne una parte per eventuali ondate d’emergenza. Così il diritto d’asilo di fatto dilazionato e denegato sta producendo ricorsi dei migranti e ordinanze dei tribunali, che sovente sanzionano «iniziative repressive» e «prassi illogiche». Da Milano ad Ancona, da Roma a Bologna, i giudici colmano un vuoto forse politico prima ancora che organizzativo.
La prova di ospitalità
A novembre un accesso civico agli atti di «Altreconomia» su un campione del 70% delle questure ha rivelato prassi diffuse: «Si pretendono “prove di ospitalità” che un richiedente asilo appena arrivato in Italia con le proprie gambe e non inserito in accoglienza non potrà mai avere o addirittura certificati di famiglia in caso di figli minori al seguito, tradotti e “legalizzati” dalle ambasciate di quei Paesi dai quali le persone stanno fuggendo». Il tribunale di Torino, intervenendo sulla questura di Alessandria, ha ribadito che per presentare la domanda è sufficiente «una semplice situazione di transeunte dimora», basta insomma «trovarsi fisicamente nel territorio di un Comune». Secondo il mensile milanese, la prassi di imporre la «dichiarazione di ospitalità» si riscontra almeno a Pordenone, Reggio Emilia, Rovigo, Sassari, Siena, Siracusa, Taranto, Aosta, Caltanissetta, Como, Ferrara, Forlì, Lecce, Nuoro, Modena, Palermo, Pesaro, Napoli.
Fonti del Viminale non negano il problema, pur parlando di «una attesa media di 70-80 giorni» complicata da talune emergenze, come quella ucraina. Negano però strategie «dilatorie» per diluire l’impatto sull’assistenza: «C’è un metabolismo di queste procedure diverso da Bolzano a Palermo» e l’asilo in quanto tale «è una delle mansioni» cui sono chiamati gli uffici. Si prevedono assunzioni di interinali a giugno. I naufraghi raccolti dalla Guardia costiera hanno una corsia più semplice. «La domanda viene formalizzata più velocemente e vengono smistati nelle strutture d’accoglienza», dice Gianfranco Schiavone, avvocato dell’Asgi: «Ma verso chi entra in via autonoma, per mare o per terra, viene eretto un muro, come fosse una categoria giuridica diversa».
Il caso Milano
Un caso nel caso è Milano: 6.890 richieste solo nel 2022, limbo ogni settimana più affollato. Nella caserma di via Cagni le tensioni alle transenne dei richiedenti asilo hanno causato scontri, cariche, lacrimogeni, un caos oggetto dell’interrogazione parlamentare di Riccardo Magi il 17 marzo. La questura ha così deciso di spostare online gli appuntamenti, ma senza successo: «Tranne alcuni istanti alle otto del mattino, a ogni clic il sistema risponde che non ci sono date disponibili», sostengono al Naga. Pochi, malpagati e sotto pressione, i poliziotti sono le seconde vittime di questo ingorgo. «Io vengo dalla Sicilia, per me sono eroi comunque. Sono lasciati soli a gestire una enorme emergenza continua. Le nostre posizioni e quelle del sindacato di polizia Siulp non sono distanti», concede Musso. I suoi assistiti Anees e Lafuz alla fine hanno ottenuto rifugio al Cara di Crotone, un centro con una lunga storia di problemi. Gli hanno mandato foto di mense e camerate, lamentando condizioni pessime. Poi, una sera, non sono più rientrati. Andando ad accrescere il mezzo milione di invisibili da anni alla deriva nel nostro sistema al collasso.
Balcani, la fuga dei migranti della ex Jugoslavia. Raffaele Oriani su La Repubblica il 13 settembre 2023.
La protesta a Londra degli albanesi contro la ministra inglese dell’Interno, Suella Braverman, che ha definito «un’invasione» il loro arrivo nel Regno.
In attesa che tramonti l’infinito dopoguerra, molti Paesi dell’Est Europa vivono ancora fra corruzione, rivalità e scontri. Così, popoli divisi su tutto si ritrovano uniti da un solo obiettivo: emigrare. Inchiesta
L'ingegnere Siradj Duhan è nato in Bosnia ma da più di trent'anni vive a Vienna, dove guida la Società degli accademici bosniaci. Dal 2019 prova a esportare un pezzo del suo vecchio Paese nella sua nuova patria: vorrebbe che i bosniaci fossero riconosciuti come minoranza ufficiale della Repubblica. Ci prova in Austria perché in Bosnia sarebbe impossibile: a quasi trent'anni dalla fine della guerra, solo il 2,7 per cento della popolazione si dichiara bosniaco, tutti gli altri sono registrati come serbi, croati o bosgnacchi-musulmani. I Balcani vivono un eterno giorno della marmotta, in cui le tensioni etniche continuano a farla da padrone: se a Sarajevo Est le milizie serbe hanno appena sfilato davanti al figlio del criminale di guerra Ratko Mladic, in Kosovo il contrasto tra Stato a maggioranza albanese e Comuni a maggioranza serba si è fermato a un passo dallo scontro armato in attesa delle elezioni del 23 aprile.
Ma la carta etnica è irresistibile anche per chi non ha partecipato alle guerre degli anni Novanta: il premier albanese Edi Rama governa un Paese tormentato da corruzione e povertà, ma trova il tempo di visitare in carcere l'ex presidente kosovaro Hashim Thaci, già comandante dei partigiani albanesi dell'Uck e imputato per crimini di guerra al Tribunale dell'Aia. Non è un caso che, di vertice in vertice, l'Unione europea continui a tenere fuori dalla porta i Balcani occidentali. Ma il punto è un altro: in attesa che passi l'infinito dopoguerra, sempre più bosniaci, serbi, albanesi e croati voltano pagina emigrando.
I numeri
Secondo le Nazioni Unite, solo la Guyana ha una percentuale di residenti all'estero maggiore della Bosnia Erzegovina e dell'Albania. E ad alimentare le diaspore è un flusso di partenze che, a detta del Regional Cooperation Council di Sarajevo, dal 2016 al 2020 ha portato la popolazione in età lavorativa dei Balcani occidentali a diminuire di oltre 400 mila unità. Popoli divisi da tutto, sono uniti dalla voglia di andarsene: il governo di Belgrado lamenta che la Serbia sta perdendo "una città all'anno", l'istituto statistico osserva con sgomento come la popolazione sia calata del 10 per cento in dieci anni, in Bosnia Erzegovina una ricerca delle Nazioni Unite rivela che il 72 per cento dei ragazzi pensa di vivere in un Paese "strutturalmente corrotto", che quasi la metà vuole abbandonare al più presto.
A centinaia di migliaia si sottraggono a povertà, corruzione, inquinamento. E se una volta partivano soprattutto gli uomini di fatica, oggi si mettono in marcia uomini e donne, operai e laureati: "Negli anni Novanta i nostri giovani se ne andavano pieni di speranza nell'avvenire", dice Afrim Krasniqi, politologo dell'università di Tirana. "Oggi si emigra perché si è persa ogni speranza nel proprio Paese".
Le proiezioni delle Nazioni Unite sono impietose: la Bosnia è destinata a perdere il 60 per cento degli abitanti nei prossimi cinquant'anni, l'Albania il 66 entro la fine del secolo. Ma non occorre traguardare i decenni: "Nel 2010 alle mie lezioni c'erano cento studenti, oggi dieci" racconta Krasniqi. "In compenso i corsi di medicina e infermieristica si riempiono di allievi che hanno già in tasca il biglietto per andarsene: solo negli ultimi tre anni e solo in Germania sono stati assunti cinquemila sanitari albanesi". L'agenzia Eurofound ha indagato il benessere economico dei lavoratori europei: hanno difficoltà ad arrivare a fine mese il 5 per cento dei danesi, ma ben il 69 per cento degli albanesi. Tutto chiama alla fuga.
Se il primo ministro Edi Rama continua a godere del sostegno dell'Unione europea, solo nei primi cinque anni del suo "regno" 260 mila albanesi sono emigrati proprio in Europa. E nel 2021 il flusso è ripreso con 42 mila partenze: "Rama piace perché garantisce stabilità, ma gli albanesi della stabilità non sanno che farsene" chiosa Krasniqi. "Quanto all'Europa, ci mette in guardia dalle influenze russe e cinesi, ma non fa nulla per contrastare l'emigrazione: si guarda con favore all'esodo della nostra forza lavoro qualificata".
Senza medici
Quella del personale sanitario è una fuga nella fuga: in Kosovo si laureano 150 medici all'anno, ma ben 180 se ne vanno. Bassi stipendi e nepotismo tormentano tanto i serbi quanto gli albanesi, con il risultato che nel solo 2019 sono emigrati quasi il 2 per cento dei kosovari (come se partissero 1.200.000 italiani), mentre dopo la pausa del Covid la stessa soglia è stata superata già nel 2021.
Meno drammatici sono i numeri in Serbia, dove però l'emigrazione dà il suo corposo contributo alla paralisi demografica: "L'abbassamento del tasso di natalità è dovuto per un buon 10-15 per cento ai flussi migratori", sostiene Vladimir Nikitovic, demografo dell'Istituto di Scienze sociali di Belgrado. Nel 2020 la popolazione serba è scesa per la prima volta sotto i sette milioni, e ogni anno un saldo negativo di 15-20 mila residenti certifica lo squilibrio tra serbi di Serbia che se ne vanno, e serbi di Bosnia e del Kosovo che si ritrovano a studiare o lavorare a Belgrado: "In media ogni anno emigrano 50 mila serbi, e non solo per ragioni economiche: i lavoratori semplici cercano soprattutto stipendi migliori, ma i laureati vogliono un ambiente più equo e meno corrotto", spiega Nikitovic.
Bruxelles, addio
Per anni la panacea di tutti i mali è sembrata l'Unione europea: "Ma dopo tanto immobilismo non ci pensa più nessuno" assicura Krasniqi. "In Albania le elezioni del 2021 sono state le prime in cui non si è parlato d'Europa". E anche dov'è ormai un dato acquisito, la Ue premia gli individui ma penalizza le comunità: "La Croazia è entrata nell'Unione nel 2013" spiega Tado Juric, demografo dell'università Cattolica di Zagabria. "Nei primi otto anni dall'adesione se ne sono andati in 370 mila, la stragrande maggioranza giovani tra i 20 e i 39 anni che si sono trasferiti in Germania".
Per un Paese di quattro milioni di abitanti sono numeri imponenti, tanto più che "negli stessi anni sono aumentati del 10 per cento i pensionati, e diminuiti del 10 gli studenti". Juric ha condotto ricerche sui connazionali emigrati: "La prima cosa che colpisce è che sono all'estero per restarci: il 45 per cento pensa di rientrare da pensionato, il 40 per cento mai". La seconda cosa è ancora più sorprendente, e per capirla è bene ricordare che nella Croazia del boom turistico non manca il lavoro ma la manodopera: "A spingere fuori dal Paese non sono ragioni economiche, ma la percezione che la corruzione sia ovunque, e che l'etica del lavoro non conti nulla".
A conferma di questa tesi c'è un episodio del 2018: la sezione di Dublino dell'Hdz, storico partito nazionalista croato, invitò i connazionali residenti in Irlanda a un brindisi natalizio. Il diluvio di insulti e di minacce che seguì, costrinse gli organizzatori ad annullare l'evento.
Come in Messico
Secondo Tado Juric, la Croazia si sta trasformando nel "Messico della Germania": "Fragilità istituzionale e corruzione hanno portato il 10 per cento dei messicani negli Usa, e altrettanti croati in Germania". Ma non è solo la Croazia. Il demografo serbo Vladimir Nikitovic sintetizza così gli ultimi trent'anni di solitudine dei Balcani: "Il nostro indice di sviluppo umano è più simile al Centro America che ai vicini europei". Per sviluppo umano si intende scuola, sanità, tenore di vita. È la realtà sotto la retorica nazionalista. La stessa che qualche mese fa ha fatto capolino su un palazzo di Mitrovica, nel Kosovo del Nord: una mano aveva scritto "Questa è Serbia!", un'altra ha replicato: "No, questo è l'ufficio postale".
Pubblicato sul Venerdì del 10 marzo 2023
Vittime due volte. I migranti sanno quant’è rischioso partire, ma lo è meno che restare. Valerio Nicolosi su L’Inkiesta l’8 aprile 2023.
La storia di Rashid e della sua famiglia che tenteranno la rotta balcanica dopo essere fuggiti dall’Afghanistan. Troveranno sempre più frontiere chiuse: in questo modo però i governi fanno il gioco di quei trafficanti che vorrebbero combattere
Si scrive «lotta al traffico di essere umani» e si legge «chiusura delle frontiere». La riunione interministeriale sui Balcani occidentali che si è tenuta il 3 aprile alla Farnesina tra Antonio Tajani, il commissario europeo per l’Allargamento Olivér Várhelyi, il ministro degli Esteri svedese Tobias Billström in qualità di presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea e i ministri degli Esteri di Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, ha messo al centro il tema migratorio e quella che viene definita «Rotta Balcanica», un insieme di percorsi che nell’ultimo decennio sono stati la via d’accesso in Europa principalmente per gli afghani, i siriani e gli iracheni, in fuga dai talebani, dall’Isis, da Assad da tutti gli altri fattori di destabilizzazione presenti in quei Paesi.
Dopo la strage di Cutro e dopo la sciagurata domanda della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «Eravate consapevoli dei rischi legati alle traversate del Mediterraneo?», si è parlato molto di soccorso in mare e delle responsabilità di quello che è accaduto a poche centinaia di metri dalla spiaggia calabrese. Quella che ancora una volta è mancata nel dibattito pubblico è stata una riflessione sui motivi delle partenze, sulla necessità di partire ad ogni costo, anche quello di morire.
In queste ore l’amministrazione di Joe Biden ha reso pubblico un dossier sul ritiro dall’Afghanistan delle truppe americane nel quale scarica ogni responsabilità sul suo predecessore Donald Trump e sugli accordi presi da quest’ultimo con i Talebani a Doha, un anno e mezzo prima della ritirata e della rapida riconquista dello Stato da parte degli islamisti, segno che non erano mai stati sconfitti ma solo allontanati dalle zone dove c’erano gli occidentali.
Tutti ricordiamo i giorni d’agosto in cui la folla spinge in ogni direzione per cercare di prendere un aereo verso gli Stati Uniti o l’Europa, un brulicare di paura e rabbia che ha fatto solidarizzare il mondo con chi ha provato ad aggrapparsi al carrello dell’aereo o a salire su di un’ala, morendo di una morte meno tormentata rispetto a quella in mano ai Talebani.
Scappavano da un inferno che i più vecchi ricordavano bene, ma che i più giovani conoscevano dai racconti dei loro genitori: una vita fatta di privazioni e paura, dal cibo alle libertà individuali. La gestione del potere da parte dei Talebani è totalitaria, nel senso più stretto, come lo abbiamo studiato a scuola, che ti entra fin dentro casa e controlla ogni aspetto della vita.
Ma se nei Talebani qualcosa, rispetto al passato, è cambiato è che non hanno scelto di colpire tutto insieme, lo hanno fatto un po’ alla volta mentre tranquillizzavano il mondo che «erano cambiati», che avrebbero rispettato i diritti umani. Così il mondo, dopo una veloce indignazione durata non più di tre mesi, ha iniziato a guardare altrove e oggi le donne si ritrovano prigioniere, di nuovo.
La notizia più recente è il divieto per loro di lavorare per le Nazioni Unite, l’unica organizzazione internazionale che garantisce un minimo di aiuto alla popolazione, colpita duramente dalla crisi economica creata dall’isolamento politico di Kabul. Oggi poco più della metà della popolazione afghana vive al di sotto della soglia di povertà e camminando per le strade della capitale la miseria è evidente a tutti.
Tra chi scappa c’è Rashid (nome di fantasia) che ha lavorato per la missione Isaf fino a poche ore prima che tutto precipitasse: «Nei giorni successivi alla loro presa del potere, cercavano chi aveva lavorato con gli occidentali. Arrestavano, torturavano, uccidevano. Io ho cambiato città, sono andato in un quartiere popolare di un grande centro dove nessuno mi conosceva, per un po’ abbiamo vissuto al riparo ma poi il cerchio attorno a me si stava chiudendo e così sono dovuto scappare con la mia famiglia».
Lo racconta pochi giorni dopo che ha varcato il confine afghano alla volta dell’Iran, Paese che accoglie quasi un milione di afghani, secondo solo al Pakistan che ne accoglie uno e mezzo. Ma lui e la sua famiglia non si fermeranno in Iran, anch’esso in mano ai fondamentalisti religiosi e che non garantisce i diritti ai rifugiati. Si metteranno in viaggio alla volta dell’Europa.
«In Afghanistan avevamo contato le ore, al massimo i giorni, di sicuro non i mesi, prima della nostra morte. Questa è una certezza. Sappiamo che viaggiare verso l’Europa è rischioso, non possiamo prendere un aereo perché nessuno ci concede un visto e siamo costretti ad attraversare frontiere e saremo esposti alle violenze delle polizie locali. Rischieremo di annegare in mare o di morire di freddo sulle montagne, però abbiamo scelto questa opzione perché abbiamo il dieci per cento di possibilità di vivere e di farlo dignitosamente. Restando in Afghanistan le possibilità erano nulle», aggiunge Rashid durante la nostra conversazione al telefono e sembra che indirettamente voglia rispondere alla domanda di Giorgia Meloni: «Sì, lo sappiamo quanto è pericoloso, ma non abbiamo altra scelta che provarci».
Da domani Rashid e la sua famiglia saranno in viaggio e rispetto ai suoi connazionali che hanno provato la Rotta Balcanica nei mesi o negli anni scorsi troverà le frontiere ancora più chiuse, oltre alle polizie locali ancora più mobilitate lungo i confini. Effetto della riunione della Farnesina dei giorni scorsi.
Lui e gli altri in marcia saranno doppiamente vittime: dei trafficanti che si fanno pagare approfittando delle frontiere chiuse e dei governi, che in nome della lotta a quei trafficanti chiuderanno ancora di più le frontiere, gettando in pasto Rashid proprio a quelli che pensano di combattere.
Un migrante su due non è un rifugiato: i numeri "smascherano" i buonisti. I dati diffusi dal Cir certificano come anche nel 2022 oltre il 50% dei richiedenti asilo vede respinta la propria domanda. Mauro Indelicato il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Così come gli sbarchi, nel 2022 in Italia sono aumentate anche le richieste di asilo. A certificarlo sono stati i dati del Cir, Consiglio Italiano per i Rifugiati. Un trend però è rimasto stabile: più della metà delle domande esaminate sono state respinte. Una situazione già verificata lo scorso anno e che potrebbe incidere e non poco sulle future politiche migratorie.
I numeri del Cir
Secondo il Cir, al nostro Paese sono pervenute complessivamente 77.195 richieste di asilo. Una cifra in aumento rispetto al 2021, quando invece negli uffici competenti le richieste presentate si sono fermate a 56.388.
I dati tuttavia sono più bassi rispetto ad altri Paesi europei. In Germania il dato parla infatti di 217.735 domande presentate, in Francia invece si è arrivati a quota 137.505, mentre in Spagna le richieste sono state 116.140.
Complessivamente, si legge ancora tra i dati diffusi dal Cir, nel 2022 in Italia si è arrivato a prendere in esame 52.625 domande. Più della metà delle richieste hanno avuto come risposta un esito negativo. I dinieghi infatti sono stati 27.385, pari al 53% del totale. Tra chi ha avuto invece via libera alla richiesta di asilo, nel 12% dei casi si è trattato del riconoscimento dello status di rifugiato, nel 13% del riconoscimento della protezione sussidiaria, infine nel 21% dei casi è stata assegnata la protezione speciale.
Rispetto al 2021, il riconoscimento della protezione internazionale è calato del 9% e i respingimenti delle domande invece hanno registrato un incremento del 4%.
Il nodo dei rimpatri
Il Cir ha inoltre confermato lo sforamento di quota centomila per quanto riguarda gli sbarchi lungo le nostre coste. I dati descritti inoltre non tengono conto dell'ingresso di 173.589 rifugiati dall'Ucraina.
"Oltre 100mila sbarchi": i numeri dell'assalto alle coste italiane
Complessivamente dunque, l'arrivo di profughi regolari o irregolari in Italia nel 2022 ha registrato un forte aumento. Il dato politico più rilevante riguarda quello relativo ai dinieghi delle domande di asilo.
Più della metà delle persone che ha fatto richiesta di protezione, si è visto recapitare una risposta negativa. Circostanza che apre la strada a due considerazioni. In primis, il trend sui dinieghi certifica il fatto che la maggior parte di chi presenta domande di asilo non ha i requisiti per rimanere in Italia. Detta in altri termini, più della metà dei richiedenti asilo non proviene da situazioni che necessitano di una protezione internazionale.
L'altra questione ha a che fare con i rimpatri. Perché al respingimento della domanda, spesso non fa seguito un ritorno nel Paese di origine del richiedente asilo. L'esecutivo di Giorgia Meloni ha posto la questione dei rimpatri al centro delle politiche migratorie.
Rimpatri e stretta sulle Ong: la svolta in Europa sui migranti
E anche in Europa, sono diversi i governi che da mesi chiedono maggiore attenzione sui rimpatri. Il rischio è infatti dato dalla possibilità che buona parte dei richiedenti asilo a cui viene respinta la domanda, contribuisca poi a far aumentare la quota di irregolari presenti in un determinato territorio.
Italiani veri. Gli stranieri di seconda generazione lavorano pochissimo (e non possiamo permettercelo). Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 13 Ottobre 2023
I figli delle persone arrivate nel nostro Paese non sono né il cavallo di Troia della cosiddetta sostituzione etnica, come pensano i reazionari, né un’avanguardia di un nuovo stile di vita. Sono come noi, con tutti i pregi e i difetti
Purtroppo sono molti gli indicatori in cui l’Italia finisce agli ultimi posti tra i Paesi dell’Unione Europea, in alcuni casi siamo esattamente ventisettesimi su ventisette, venendo superati anche da tutti gli Stati membri dell’Est, ma forse i più significativi sono quelli che riguardano il mercato del lavoro. Nonostante i miglioramenti degli ultimi anni il tasso di occupazione italiano, del 61,5 per cento, rimane basso rispetto a quello dei nostri vicini. Uno dei pochi dati positivi in questo ambito è sempre stato quello relativo agli immigrati: tra loro la percentuale di quanti hanno un lavoro è sempre stata superiore o molto vicina alla media nazionale, al contrario di quel che accade altrove.
Naturalmente a incidere è anche la necessità di sbarcare il lunario di chi arriva dall’estero e non ha alcun paracadute, nessuna rete familiare, nonché la continua ricerca di un basso costo del lavoro nei settori più poveri, quelli, non a caso, affollati da immigrati senza competenze specifiche. Tuttavia è innegabilmente vantaggioso per tutti che il loro tasso di occupazione sia elevato.
Le cose cambiano, però, nel caso dei figli di tali immigrati. Questo è il dato più negativo di tutti, e sta emergendo solo ora che coloro che sono nati dagli stranieri negli ultimi decenni stanno giungendo in età lavorativa. Il tasso di occupazione di quanti hanno un genitore straniero è solo del 45,3 per cento, il più basso d’Europa dopo quello greco, quello di chi li ha entrambi stranieri, però, scende a un misero 23,7 per cento, il minore in assoluto nella Ue.
A essere particolarmente inquietante è la differenza tra la seconda generazione e la prima. Mediamente nella Ue si passa da un tasso di occupazione del 72,1 per cento per i nativi con genitori nativi a uno del 67,6 per cento per gli stranieri nati all’estero a uno, infine, del 62,6 per cento per i figli di questi ultimi. Non sono differenze enormi, un chiaro esempio è la Germania, dove le persone di seconda generazione, nate da immigrati, hanno un lavoro nel 70,1 per cento dei casi. In Italia cambia tutto, il 70,1 per cento tedesco diventa il 23,7 per cento, un tasso di occupazione 2,7 volte più basso di quello degli altri, che siano italiani di origine o stranieri di prima generazione, che è saldamente superiore al sessanta per cento.
Divari così ampi sono presenti anche in Spagna, dove la percentuale di seconde generazioni con un impiego è di ben il 40,7 per cento inferiore a quella che caratterizza gli autoctoni, ma non in Germania, Francia, Paesi Bassi.
Perché questi numeri così diversi? Una prima ragione molto semplice è che in Italia e in Spagna gli stranieri di seconda generazione sono mediamente più giovani che altrove, l’immigrazione è stata più recente e non vi sono molti figli di immigrati con più di trenta anni. E si sa, nei Paesi mediterranei di lavoro per i ventenni ce n’è poco. Tuttavia anche considerando solo chi ha tra i quindici e i ventinove anni i divari persistono, pur se sono minori.
Il tasso di occupazione dei ventenni che hanno entrambi i genitori stranieri è in Italia del 15,6 per cento più basso di quello dei nativi figli di nativi, in Spagna del 18,2 per cento, mentre nei Paesi Bassi e in Germania il gap è rispettivamente del 14 e dell’11,5 per cento. In questo segmento di età le seconde generazioni francesi, però, sono messe ancora peggio delle nostre quanto a disuguaglianze nel mondo del lavoro, e il dato non stupisce davanti alle frequenti tensioni e rivolte nelle banlieues.
Meno di un giovane figlio di stranieri su cinque lavora. La media europea è del 44,6 per cento, quella tedesca del 55 per cento. Notevole la differenza con i dati dei coetanei italiani, tra cui ad avere un impiego è il 35,2 per cento e soprattutto con quelli dei 20enni che sono nati all’estero, tra cui lavora il 44,5 per cento.
Sembra che nelle seconde generazioni venga meno quell’urgenza di svolgere un lavoro, qualsiasi sia, anche se pagato male, anche se da sfruttati, che caratterizza chi è appena arrivato nel nostro Paese. Il comportamento dei figli di immigrati diventa più simile a quello degli italiani della stessa età, tuttavia tra i giovani sono quelli più sfavoriti. Innanzitutto manca loro qualsiasi network, come quello di cui possono beneficiare, per esempio, quanti hanno un padre o una madre in posizioni di rilievo, visto che queste ultime sono occupate pressoché totalmente da italiani.
L’Istat ci dice, non a caso, che il 52,3 per cento dei figli di alti dirigenti e grandi imprenditori è a sua volta dirigente, imprenditore, professionista. Al contrario a ricoprire tali ruoli sono solo il 19,2 per cento di coloro che hanno genitori che hanno svolto lavori non qualificati, nonostante siano quasi quattro su dieci i lavoratori impiegati in queste mansioni. E sappiamo bene come tra costoro la concentrazione di stranieri sia molto alta.
Non solo, solo poco più del dieci per cento dei genitori stranieri di under 30 ha una laurea, contro più del diciotto per cento dei genitori italiani. Come sappiamo anche nell’istruzione il legame ereditario conta tantissimo: i figli di chi non si è iscritto all’università tenderanno a farlo meno dei figli di chi si è laureato. Per questo le seconde generazioni di stranieri hanno un’istruzione meno elevata degli autoctoni. E la presenza o meno di una laurea negli ultimi anni conta sempre di più, si è allargato il gap tra le possibilità di lavoro e carriera di chi ha un diploma e di chi ha proseguito gli studi.
La presenza di un titolo universitario, non a caso, diminuisce il divario tra figli di stranieri e figli di italiani. Se tra i secondi il tasso di occupazione a meno di trent’anni è del 56,3 per cento, tra i primi scende, sì, ma non in modo eccessivo, al 50,6 per cento. Si tratta di una differenza analoga a quella presente in altri Paesi, posto che nel resto d’Europa le percentuali dei giovani con un lavoro sono molto più alte. Tra i diplomati, invece, la distanza rimane ampia, del 12,3 per cento.
C’è un altro fattore decisivo, anche se qui causa ed effetto naturalmente si confondono, è la presenza della cittadinanza italiana o meno. Anche a parità di titolo di studio, il diploma per esempio, tra i giovani figli di immigrati che la cittadinanza l’hanno ottenuta il tasso di occupazione è del 37,3 per cento, maggiore di quella del 32,6 per cento di chi risulta ancora straniero all’anagrafe. Interessante è anche il fatto che i laureati senza cittadinanza siano così pochi che Istat ed Eurostat non li censiscono neanche. Spesso è la presenza stessa di un lavoro a favorire l’acquisizione di cittadinanza, ma è comunque evidente come la minore integrazione si accompagni a peggiori condizioni lavorative.
Questi numeri in generale non sono solo indicativi di una diseguaglianza che è negativa in sé, anche perché superiore a quella presente in altri Paesi, ma anche, e forse soprattutto, di un grande spreco di opportunità per tutto il Paese. Nella crisi demografica che attraversiamo, che ci vede nella situazione peggiore in Europa, non possiamo permetterci di lasciare ai margini 20enni e 30enni, tra l’altro appartenenti a uno dei pochi segmenti della popolazione in crescita, quella, appunto, delle seconde generazioni.
Non è solo ingiusto, è un errore, e gli errori costano. È il classico costo opportunità, l’ennesimo nel mondo del lavoro italiano, come quello che da sempre interessa le donne, la metà delle quali non è valorizzata perché al di fuori del mercato, e i giovani stessi. Le seconde generazioni sono in Italia innanzitutto perché ci sono nate e ci resteranno, non saranno il cavallo di Troia della cosiddetta sostituzione etnica, come pensano molti conservatori, e probabilmente neanche un’avanguardia di un nuovo stile di vita, come pensano in termini positivi alcuni progressisti. Saranno e sono già italiani come gli altri, con tutti i pregi e i difetti che gli italiani hanno, sta a noi fare di tutto perché i loro talenti siano sfruttati a vantaggio loro e di tutto il Paese.
Una riflessione. Il diritto di non emigrare: un diritto troppo spesso negato. Riconoscere un diritto a non dover emigrare significa in primo luogo venire a patti con la drammatica condizione che pone le premesse per le emigrazioni di massa. Andrea Venanzoni su Il Riformista il 26 Settembre 2023
Gramo spirito dei tempi quello in cui il solo accennare al diritto di non emigrare vien quasi rubricato a mascheramento semantico di intolleranza o di egoismo nazionale. Eppure, proprio perché viviamo in un momento storico che si interroga sulla continuativa, inarrestabile produzione di diritti, alcuni dei quali a ben vedere diritti non sono, dovremmo fermarci a riflettere sul patrimonio individuale di ciò che Rodotà ha definito ‘il diritto di avere diritti’.
E tra questi diritti, lo ricordava l’11 maggio scorso il Pontefice nel suo messaggio che anticipa la centonovesima Giornata mondiale del Rifugiato e del Migrante, si situa esattamente anche il diritto a non dover emigrare, intendendo per tale il consolidamento della libera scelta di decisione, di autodeterminazione e di autoaffermazione del proprio progetto di vita, da portarsi a compimento a casa propria o in altri Paesi. Libertà di scelta, appunto.
E mentre assistiamo alle drammatiche scene da zattera della Medusa che punteggiano le acque del Mediterraneo e il carnaio continuo, disperato e disperante, che popola Lampedusa in questi ultimi giorni, come l’ha popolata negli anni scorsi, viene da dire che assai spesso quel diritto è un diritto negato: perché molti degli individui che emigrano, che si lasciano alle spalle affetti, famiglie, l’orizzonte che li ha cullati e visti crescere, non hanno altra scelta.
Fuggono da carestie, miseria, guerre, da Paesi insicuri e sovente squassati da colpi di Stato o da endemico terrorismo. Parlare di una libera scelta di emigrazione, in questo contesto, sarebbe semplicemente folle. In questo caso, pertanto, come non aveva mancato di rilevare anche il predecessore di Papa Francesco, Benedetto XVI, la fuga da una persecuzione, da una situazione disastrosa di conflitto, da una miseria senza speranza di cambiamento sociale, annulla l’idea stessa di una libertà di scelta.
Il punto vero della questione è pertanto individuare e distinguere le situazioni che fanno scaturire condizioni di protezione internazionale da quelle che al contrario sono riconducibili alla libera scelta individuale e che come tali, in questa ultima prospettiva, devono essere bilanciate con le considerazioni di ordine sovrano del singolo Stato.
È d’altronde pacificamente riconosciuto che al diritto alla mobilità, connotato e riconosciuto da Convenzioni e Carte internazionali e normativa UE, corrisponda anche simmetricamente uno ius excludendi, ciò che la giurista statunitense Joy M. Purcell definisce il ‘sovereign’s right to exclude’, dettato da precise, cogenti motivazioni, quali quelle ad esempio di sicurezza nazionale o altre dettate, nel caso dei migranti per scelta economica, dal concreto tessuto economico del singolo Paese potenzialmente ricevente.
Riconoscere un diritto a non dover emigrare significa in primo luogo venire a patti con la drammatica condizione che pone le premesse per le emigrazioni di massa.
È certo vero, come sostiene Parag Khanna, che stiamo vivendo anni di autentico ‘movimento del mondo’ e che digitalizzazione, impoverimento neocoloniale di vaste aree, realizzazione di mega-infrastrutture, estrattivismo, finiscono per determinare flussi ininterrotti di emigrazione, ma al tempo stesso appare innegabile come molte delle cause da cui originano sradicamento e migrazioni di massa debbano essere affrontate e non fatalisticamente prese per un dato di fatto immodificabile.
Per anni abbiamo sentito parlare delle nefaste conseguenze del colonialismo, di come l’occidente abbia depredato il terzo mondo, di quanto la fase storica della de-colonializzazione sia stata politicamente e socialmente incompleta e irrisolta. Meno però si parla del neocolonialismo che getta le basi per sempre nuove premesse di migrazioni forzate.
Delle multinazionali avide che hanno immiserito Africa e Asia continuiamo polemicamente a sentir parlare, verissimo. Come pure dell’estrattivismo che anima il dibattito politico, giuridico, sociologico ed economico. Sentiamo invece meno parlare, e certo con assai minore enfasi, di quanto Paesi emergenti e potenti, come la Cina, stiano conducendo aggressive politiche predatorie nei confronti ad esempio dell’Africa.
La penetrazione invasiva e capillare della Cina in Africa non si traduce solo in affermazione strategica in prospettiva politica ed economica, ma anche in alterazione radicale degli ecosistemi, in distruzione di intere aree interessate ad esempio dal passaggio delle opere infrastrutturali del capitolo africano della ‘Via della Seta’, come non ha mancato di riconoscere la Corte Suprema del Kenya che queste opere ha fieramente opposto in una autentica saga giudiziaria.
In un significato volume dal titolo ‘Il diritto di non emigrare’, edito da Lindau, Maurizio Pallante ha ricordato poi un altro fenomeno che spinge ad emigrazioni di massa, decisamente poco volontarie: una sorta di auto-colonizzazione interna a Paesi come India e Cina che nel tentativo di modernizzarsi producono a ritmo continuo mega-infrastrutture che incidono drasticamente su intere Regioni, costringendone gli abitanti ad emigrare.
Piuttosto ipocrita configurare la categoria dei migranti climatici e rimanere silenti su quanto e come Cina e India inquinando massivamente finiscano per incidere anche in questo ambito delle emigrazioni. Inutile poi nascondere che dietro instabilità politica e scarsa evoluzione economica e sociale di alcuni Paesi vi siano anche le classi governanti e le élite di quegli stessi Paesi, che non meritano di essere assolte o deresponsabilizzate e che invece andrebbero formate alla responsabilità istituzionale.
In concreto, la affermazione del diritto di non emigrare si deve tradurre in partnership strategiche ed economiche con i Paesi in via di sviluppo e da cui provengono i maggiori flussi di migrazione, per il contrasto al neo-colonialismo cinese, per una ridefinizione in termini di politiche pubbliche della piena responsabilizzazione delle società commerciali che praticano accaparramento di risorse naturali o chiudono un occhio su lavoro semi-schiavistico o minorile. Andrea Venanzoni
Li consideriamo poverissimi ma a casa loro sono borghesia. Uno studio francese evidenzia che la maggior parte delle persone «in fuga» appartiene a un ceto benestante e istruito. Lodovica Bulian il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.
Da una parte i numeri degli sbarchi esplosi nelle ultime settimane, dall'altra il tentativo del governo di farne una priorità dell'Ue, per arginare le partenze. Ma il rischio, notava ieri Luca Ricolfi sul Messaggero, è che «la domanda di ingresso in Europa sarà sempre più elevata della disponibilità di posti». Perché «il motore principale non è la spinta della povertà (del paese d'origine) ma l'attrazione per la ricchezza (del paese d'arrivo)». Bisogna escludere da questa analisi i migranti che hanno diritto allo status di rifugiato. Se si guardano ai dati del 2022, su 52mila domande esaminate, lo hanno ottenuto in 6mila, il 12 per cento. E anche coloro che hanno ottenuto la protezione sussidiaria o quella speciale, rispettivamente il 13 per cento e il 21 per cento. La maggior parte delle richieste, il 53%, cioè 27.385 persone, hanno ricevuto diniego a qualsiasi forma di protezione internazionale. Sono i cosiddetti «migranti economici - scrive Ricolfi - che nei loro paesi appartengono al ceto medio e partono perché aspirano a una vita più libera e meno disagiata». Disposti a pagare cifre esorbitanti per i loro Paesi di provenienza: «Il biglietto (3-4-5 mila euro) è mostruosamente esoso per chi vive in paesi il cui Pil procapite è 5, 10, 20 volte più basso del nostro». Ma così, secondo il professore, «le migrazioni tendono a depauperare l'Africa delle sue risorse umane migliori, un po' come succede all'Italia con il flusso di laureati e diplomati verso paesi più ricchi e meritocratici. Il rischio è che iniziative pur lodevoli, come il piano Mattei, stentino a decollare».
La maggior parte dei migranti proviene da due Stati che rientrano nella nostra lista dei Paesi sicuri: Costa D'Avorio e Tunisia. Su quest'ultimo il Memorandum con l'Ue stenta a essere attuato. Nel caso della Costa D'Avorio, è appena stato firmato un accordo per i rimpatri, che però va messo alla prova dei fatti. Secondo Fondazione Avsi, nel 2023 il Fmi prevede una crescita del Pil del 6,2%. Le ragioni di flussi così alti le spiega Christian Bouquet, professore di Geografia politica all'Università Bordeaux Montaigne: «È la speranza di una vita migliore che li spinge a migrare. È l'idea dell'Eldorado. Ma la vita che hanno in Costa d'Avorio non è economicamente insostenibile. Nel 2021 l'Oim ha stilato il profilo tipo del migrante. L'indagine, su 6.500 ivoriani rimpatriati, ha dimostrato che il migrante non è una persona indigente ma dispone di un reddito, non è analfabeta ma istruita, ed è relativamente giovane. È qualcuno in cerca di una vita migliore, pur essendo ben integrato in Costa d'Avorio. Ma l'immagine della vita in Europa lo attrae al punto di prendere la strada per Agadez, Algeri, Tangeri o Tunisi per poi cercare di raggiungere le coste europee». Lodovica Bulian
L’INVASIONE CHE NON C’È. «L’Italia non dà un futuro ai suoi giovani. Figuriamoci a noi stranieri». Chiara Sgreccia su L’Espresso il 28 Marzo 2023.
Francia, Germania, Europa del nord. Sono le mete più ambite da migranti e rifugiati che arrivano in Italia. E poi per la maggior parte vanno via, scontrandosi con la difficoltà di integrarsi o di potersi mantenere
«Andrò a vivere in Olanda o in Svezia», spiega Maryam mentre beve un caffè. Va di fretta, resta appoggiata senza sedersi al tavolo del centro d’accoglienza di Santa Bakhita gestito da Caritas, che ospita cinquanta donne richiedenti o titolari di protezione internazionale. Alle porte di Roma, verso Ostia. Da Damasco, in Siria, Maryam è scappata in Libano con la famiglia. Poi in Italia, dove ha ottenuto lo status di rifugiata, è arrivata da sola. «Non appena finirò l’università andrò via, come hanno fatto tante persone che conosco. Un amico siriano che è arrivato con me, da Fano nelle Marche si è trasferito in Belgio: in due anni ha trovato un’occupazione, casa e sta per sposarsi. Io a Roma studio e lavoro ma non riesco neanche a pagare un affitto. L’Italia non offre futuro ai suoi giovani, figurati come potrebbe andare per me che sono straniera».
Come racconta Anna Di Claudio, operatrice sociale del centro di Santa Bakhita: «Siamo abituati, tante vanno via. Troviamo le stanze vuote all’improvviso o ci informano all’ultimo, quando la partenza è già organizzata. Chi arriva in Italia sa che integrarsi sarà difficile, che i tempi per i documenti sono lunghi, così tenta subito di costruirsi un futuro altrove: le mete più frequenti sono Francia, Belgio, Lussemburgo. O c’è chi cerca di raggiungere il nord Europa. Ma dipende dalla nazionalità, dalla lingua e dalla rete di supporto che hanno alle spalle. Mi sento spesso dire dalle ospiti che gli italiani sono un popolo accogliente. Si trovano bene con le persone ma mancano i riconoscimenti sociali: non riescono ad affittare una casa, non trovano lavoro. Alcuni scappano dopo poche ore dall’arrivo».
Così avrebbe voluto fare anche Soumaila Diawara, scrittore. Vive in Italia dalla fine del 2014 ma il suo piano era di raggiungere la Svezia. È fuggito dal Mali nel 2012 quando c’è stato il colpo di Stato, il 26 dicembre è sbarcato a Palermo: «Il primo centro di accoglienza era una struttura fatiscente, isolata, in campagna. Non avevo la patente, non parlavo l’italiano, non conoscevo nessuno. Non me ne sono andato perché le procedure per la protezione erano già avviate». Diawara ha avuto pazienza, molta da come racconta: ha lavorato per mesi nei campi 12 ore al giorno per 20 euro, così ha raccolto i soldi per raggiungere Roma. «All’inizio dormivo alla stazione Termini, facevo la doccia alla palestra popolare di San Lorenzo prima di andare alla Sapienza dove ho studiato diritto dell’immigrazione internazionale. Quando sono stato accolto in un centro della Caritas la mia vita è migliorata». Oggi Diawara ha pubblicato tre libri e vive nel quartiere della Capitale Pigneto.
Ma tanti non hanno la stessa capacità di resistenza. Come spiega Sergio Serraino, coordinatore dell’ambulatorio di Emergency di Castel Volturno, anche in quella striscia di terra ormai considerata come conquistata dai migranti, sono frequenti le partenze. «Ci sono delle ondate: fino alla pandemia c’era una chiara tendenza, soprattutto tra i nigeriani, a dirigersi verso la Germania. Parte anche chi ha i documenti regolari perché dopo anni non è riuscito a integrarsi. A un certo punto, ad esempio, dall’ambulatorio ci siamo resi conto che la maggior parte delle donne incinte erano sparite. Quando le abbiamo contattate ci hanno spiegato di essersi trasferite in Germania. O scattava la segreteria del cellulare in tedesco». Serraino si occupa di immigrazione da vent’anni, ricorda che quando lavorava in Puglia era routine: «Soprattutto i minori non accompagnati appena sbarcati riprendono il viaggio per oltrepassare il confine a Nord».
Come Ahmed. Che voleva arrivare in Francia ma è stato investito lungo l’autostrada A10, mentre si dirigeva verso il confine. «Credevamo avesse vent’anni. Solo dopo, quando è arrivato un familiare afgano per riconoscere il corpo, abbiamo saputo che ne aveva 17», racconta Silvia Donato, child protection senior office di Ventimiglia per Save The Children. «Ma non è il solo. Sono tanti i migranti che cercano di oltrepassare la frontiera per raggiungere Francia, Germania, Belgio o Olanda. Parecchi non hanno una ragione specifica per andare in altri Paesi. Ci provano perché seguono il flusso o il consiglio di un compagno di viaggio secondo cui le condizioni di vita in un altro Stato potrebbero essere migliori. La maggior parte, però, tenta di attraversare il confine per raggiungere familiari, amici o comunità che sono già integrate altrove. Alcuni scappano dal sistema di accoglienza italiano, da strutture in cui non si sono trovati bene, per costruirsi la quotidianità fuori dal nostro Paese».
Per Yagoub Kibeida, direttore esecutivo dell’associazione per rifugiati Mosaico, che è partito dal Sudan ed è arrivato in Italia come rifugiato politico, dovrebbe essere un diritto scegliere il Paese in cui chiedere asilo, «invece il sistema di Dublino non lo permette, perché impone l’esame delle richieste nel luogo di sbarco. Anzi succede che le Questure rifiutino anche di rilasciare il titolo di viaggio a chi ha ricevuto la protezione internazionale sussidiaria, impedendogli di muoversi in sicurezza, costringendoli a pagare i trafficanti o a attraversare i confini a piedi. Quelli che vengono respinti vivono nelle città lungo la frontiera, sperando di riuscire a passare prima o poi. Con l’Associazione informiamo i migranti sul funzionamento dell’accoglienza in Europa. Sono tanti quelli che vorrebbero lasciare l’Italia».
INGIUSTIZIA – Figli di un Dio minore. Redazione su L’Identità l’1 Marzo 2023
DI ELISABETTA ALDROVANDI
Siamo ancora qua. A contare gli ennesimi morti dell’ennesima strage in mare. Una strage figlia di una disperazione devastante che cerca, nell’illusione di una vita migliore, una via di fuga che passa attraverso percorsi a volte mortali. Sono almeno sessanta le vittime dell’ultimo tentativo di trasformare un’esistenza di stenti in una vita degna. Tra loro, tanti bambini. Alcuni addirittura neonati. Chi riesce ad arrivare sulle nostre coste trova accoglienza immediata: pasti caldi, un tetto sulla testa, visite mediche. Ma non a tempo indeterminato. Trascorsi alcuni mesi, complici le procedure per ottenere il visto di rifugiato, lunghe e dagli esiti spesso infausti, queste persone diventano fantasmi. Escono dai centri di accoglienza iniziando a vivere di promiscuità nella migliore delle ipotesi, di illegalità nella peggiore. Nel 2021 sono sbarcate 67.477 persone, nel 2022 quasi il doppio, ben 105.129. A gennaio 2023 sono arrivati sulle nostre coste 4.963 tra uomini donne e bambini, a febbraio 9.141. Numeri che non lasciano dubbi sul fatto che siamo di fronte a un fenomeno irrefrenabile, e che gli accordi con i Paesi africani sono insufficienti a limitare un flusso umano spinto dalla ricerca di ciò che noi, assuefatti a un’esistenza in cui scambiamo il superfluo per indispensabile, è scontato: l’aspettativa di una vita migliore, o semplicemente un futuro. Tra questi fantasmi, tanti sono ancora più invisibili: i bambini e gli adolescenti non accompagnati. Nel 2021 sono stati 10.053 i minori giunti sulle nostre coste, aumentati a 14.044 lo scorso anno. Una legge del 2017 ha disciplinato la loro accoglienza, e da allora lo Stato italiano stanzia ingenti risorse per provvedervi: 166 milioni di euro nel 2021, 186 milioni nel 2022. Parecchi soldi, che non bastano o a volte vengono dirottati in modo inefficace per la gestione di tantissimi minori che ogni anno si sommano ai precedenti. Molti di loro, poi, spariscono nel nulla, fagocitati dal vortice famelico della criminalità organizzata e comune. Nel 2022 sono state presentate 17.130 denunce di scomparsa di minori: il 75,9%% ha riguardato stranieri. Solo il 29,81% è stato ritrovato. Si parla di oltre 9.100 minori spariti, soprattutto tunisini ed egiziani, maschi per oltre il 91% dei casi. Un esercito di giovanissimi, di cui si parla poco e forse ci si occupa ancora di meno, perché servirebbero risorse economiche e istituzionali enormi, di cui nessuno Stato europeo può disporre. Figli di nessuno, senza identità ed età certa, messi su barche a rischio naufragio da genitori che sperano di dare loro quelle possibilità alle quali loro ormai hanno rinunciato. Il Ministro dell’Interno Piantedosi di recente ha detto che riguardo al problema dei minori stranieri scomparsi non basta emozionarsi, bisogna attivarsi. Dichiarazione condivisibile, ma difficile da attuare, se non ad altissimo prezzo. E viene da chiedersi, se, nel pentolone delle voci di bilancio da soddisfare, vi sia una pozione magica che possa coprire anche questa. È semplicistico ma giusto dire che queste persone non devono partire, poiché ognuno ha il diritto di adoperarsi per migliorare la terra in cui è nato, senza essere costretto a espatriare. Tuttavia, è necessario avere qualche barlume di possibilità, una luce anche flebile che accenda la speranza di potersi costruire un futuro degno di essere vissuto. Bisogna dare la canna da pesca e non il pesce, si dice. Ma se mancano le fabbriche per costruire quelle canne da pesca, se non ci sono le infrastrutture per trasportarle, se difetta la mentalità dell’istruzione obbligatoria che insegni a usarle e della conoscenza come passe-partout per l’uguaglianza, mancano le fondamenta per realizzare una società consapevole e libera.
Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” l’1 marzo 2023.
[…] È articolata per cerchi concentrici la relazione annuale sull’attività dell’intelligence, relativa al 2022, presentata ieri a Roma dal sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano, dalla direttrice del Dis Elisabetta Belloni e dai presidenti di Aise, Giovanni Caravelli, e Aisi, Mario Parente, accanto al presidente del Copasir, Lorenzo Guerini.
Immigrazione
I servizi segnalano un «marcato aumento dei flussi irregolari». Verso di noi, che siamo la principale porta d’accesso all’Ue, arrivano soprattutto dalla Libia. Ma è boom (+ 60%) degli sbarchi dalla Tunisia. […] Tra gli sbarchi aumentano quelli «occulti» con barche da diporto, in Calabria, Puglia e Sicilia dalla Turchia.
Le associazioni
La relazione si sofferma sui soccorsi. L’aumento «più significativo» è ad opera di soggetti istituzionali, ma crescono anche quelli delle Ong, soprattutto in area Sar libica. Si evidenzia che la loro attività, pubblicizzata sui social network come «garanzia di sicurezza», rappresenta un vantaggio per i trafficanti. Perché «permette loro di adeguare il modus operandi». «È un fatto oggettivo. Non comporta considerazioni etiche — chiarisce Mantovano — se piazzo navi al limite delle acque territoriali aumento la probabilità che barchini di fortuna partano, nella certezza di incontrarle».
Minaccia russa
Massima attenzione sul rischio escalation dell’invasione ucraina. «Improbabile» viene ritenuta al momento l’uso dell’arma nucleare. Ma si avverte che «Mosca non smetterà di interferire nelle dinamiche politiche e nei processi decisionali dei Paesi Nato» con «attacchi cyber, disinformazione, ricatti e utilizzo di leve come quella migratoria ed energetica».
Anarchici
La minaccia eversiva anarcoinsurrezionalista è ritenuta la più «concreta e vitale». E ha trovato nuovo slancio nella lotta contro il 41 bis di Cospito, definito il «leader del Fai/Rfi». L’eco della solidarietà «repentinamente irradiato» in Ue, in Sudamerica e negli Usa conferma il sospetto sui collegamenti internazionali, considerato un «moltiplicatore» delle capacità offensive assieme alla mobilità di alcuni soggetti nell’asse Spagna - Italia e Grecia, dove è stata fatta saltare l’auto della funzionaria dell’ambasciata Susanna Schlein, sorella di Elly. […]
Estratto dell'articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” l’1 marzo 2023.
Sono arrivati in 14.433, nei primi due mesi del 2022 erano 5.474. «+ 164 per cento» è appuntato nei documenti interni. Più della metà, 8.578, arrivano da un solo paese: la Tunisia, lungo una rotta certo non nuova ma che per restare agli ultimi due anni aveva dato cifre assai diverse, 1.665 sbarchi nel 2021, 1.077 appena nel 2022.
Questi numeri spiegano il perché la nostra intelligence da settimane ha comunicato al governo Meloni che il Mediterraneo è in burrasca. E, per fare in modo che non diventi tempesta, è necessario occuparsi dell’emergenza. Senza slogan ma con atti concreti.
Il messaggio – ha spiegato ieri l’Autorità delegata, il sottosegretario Alfredo Mantovano – sembra recepito: «La principale preoccupazione arriva dalla Tunisia » ha affermato alla presentazione della Relazione annuale 2022 dell’intelligence preparata dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Accanto a lui la direttrice del Dis, Elisabetta Belloni, i numeri uno delle due agenzie di sicurezza Aise ed Aisi, Giovanni Caravelli e Mario Parente, e il presidente del Copasir, Lorenzo Guerini.
[…] L’analisi del Dis parte dai dati. Dall’incremento di questo 2023, si diceva, con la bomba Tunisia pronta a esplodere: si parte praticamente dai porti di tutta la costa, da Cap Bon a Ben Gardane. Gli sbarchi dall’inizio dell’anno sono stati 264, quasi cinque al giorno. Viaggiano con vecchi pescherecci o su mezzi di fortuna. E soprattutto con qualsiasi condizione del mare.
Su questo l’intelligence lancia però un’accusa precisa al lavoro delle Ong: «La presenza di navi umanitarie rappresenta - si legge nella relazione - un vantaggio logistico per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti, permettendo loro di adeguare il modus operandi in funzione della possibilità di ridurre la qualità delle imbarcazioni utilizzate, aumentando correlativamente i profitti illeciti, ma esponendo a più concreto rischio di naufragio le persone imbarcate ».
In sostanza si dice che se le barche affondano, è anche colpa delle Ong che provano a salvarli. «Parliamo soltanto di dati di fatto» ha spiegato Mantovano, facendo riferimento a una serie di informative dell’Aise che documenterebbero come le partenze dalla Libia aumentano ogni qual volta sanno di trovare mezzi di soccorso nella Sar. […]
Decreto flussi, via libera a 82mila nuovi ingressi Coldiretti: serve manodopera. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 28 Gennaio 2023
Dietro alle Ong, ai porti chiusi e ai porti aperti, dietro ai morti in mare e alla frontiera si cela un’altra migrazione. Quella che non crea troppe polemiche, ma anzi quella che viene ricercata. L’altra parte della migrazione è quella dei lavoratori stagionali. Perché si sa, che ci sono lavori che, come si suol dire, “gli italiani non vogliono fare”: lavori stagionali, appunto, logoranti, spesso nei campi e spesso con una paga per cui non si reputa valer la pena di lavorare. E così, sono in arrivo 82.705 lavoratori stagionali provenienti da territori extra europei. Il via libera è arrivato nella giornata di ieri con il passaggio del Decreto Flussi in Gazzetta Ufficiale: il nuovo Dpcm fissa la quota annuale per l’ingresso dei lavoratori non comunitari che, rispetto allo scorso anno, vede un aumento consistente. Secondo quanto segnalato da Coldiretti la quota per l’anno corrente supera di circa 13mila unità quella precedente, stabilizzata a 69.700 migranti, e aumentano anche le quote del lavoro stagionale nelle campagne che ammontano a 44mila unità rispetto alle 42mila dello scorso anno. Delle 44mila, spiega Coldiretti, 1500 “sono riservate alle nuove richieste di nullaosta stagionale pluriennale”, ovvero delle quote che consentono all’impresa, negli anni successivi, di non essere vincolata ai termini di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Dpcm per avere accesso all’autorizzazione. Inoltre, viene sottolineato “alcune quote sono riservate ai lavoratori di Paesi con cui entreranno in vigore accordi di cooperazione in materia migratoria” a anche “a quelli che abbiano completato programmi di formazione nei Paesi di origine e alle richieste presentate dalle organizzazioni professionali dei datori di lavoro che assumono l’impegno a sovraintendere alla conclusione del procedimento di assunzione dei lavoratori”. Infine, nel Dpcm è contenuta una novità che, per Coldiretti, rappresenta la parte più importante del provvedimento, ovvero il “consolidamento e la riconferma del rilascio di quote di ingresso riservate alle Associazioni di categoria per i propri associati nella misura di 22.000 unità”. Un decreto che quindi risponde in maniera puntuale alle esigenze del comparto (soprattutto agricolo) che, negli ultimi anni, ha vissuto non poche difficoltà nel reperimento della manodopera, di cui scarseggia nel nostro Paese non solo la disponibilità, ma manca anche una quota di personale qualificato. Proprio per questo motivo, ogni anno, la componente dei lavoratori stranieri assume una dimensione strutturale che presenta un’incidenza superiore a tutti gli altri settori produttivi. A esprimere soddisfazione per quanto deciso è Confagricoltura che, oltre ad accogliere il decreto chiede anche un ulteriore sforzo alle amministrazioni competenti. La richiesta è quella di velocizzare, per quanto possibile, l’ingresso dei cittadini extracomunitari competenti, chiedendo un iter burocratico più agile che “consenta alle imprese agricole di poter contare su questi lavoratori già nelle prime campagne di raccolta primaverili”. E se da un lato si chiude una porta, da questo si apre un portone.
Fuggire per il clima. La realtà dei migranti ambientali che non possiamo più ignorare. Gloria Ferrari su L’Inkiesta il 18 Gennaio 2023.
Chi scappa dagli effetti del riscaldamento globale non gode di alcun tipo di tutela internazionale. Governi e istituzioni non stanno facendo abbastanza per risolvere un fenomeno destinato ad aggravarsi di anno in anno. Solo nel 2021, il ventiquattro per cento degli episodi di sfollamento sono scaturiti da calamità naturali
Le persone scappano da molte cose: dalla guerra, dalla fame, e da qualche decennio anche dalle conseguenze della crisi climatica. D’altronde il 2022, che si è concluso con temperature ben oltre la media stagionale ci ha dato l’ennesima prova che qualcosa sta cambiando: la Noaa (l’agenzia scientifica statunitense che si occupa, tra le altre cose, di monitorare le condizioni atmosferiche) dice che si è meritato un posto nella speciale classifica degli anni più caldi, collocandosi tra la quarta e la sesta posizione.
Non siamo sul podio, almeno per questa volta, e menomale, ma non per questo possiamo considerarci al sicuro. Come si legge nel primo volume del Sesto Rapporto di Valutazione dell’Ipcc (il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) negli ultimi 50 anni la temperatura terrestre è cresciuta ad una velocità record rispetto agli ultimi 2 mila anni, con conseguenze piuttosto evidenti (e disastrose) su ambiente e persone. Gli ecosistemi si sono alterati e gli individui lottano quotidianamente per la sopravvivenza.
Nessuno può ritenersi totalmente al sicuro ma, come scrive Legambiente nel suo ultimo report sugli impatti della crisi climatica, «a pagare il prezzo più alto sono i gruppi sociali più fragili», persone cioè che hanno un limitato accesso a servizi e risorse, o che traggono sostentamento dal territorio circostante e che per questo hanno difficoltà ad adattarsi agli effetti del surriscaldamento globale.
L’Ipcc ritiene che quasi la metà della popolazione mondiale (il quaranta per cento, tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone) vive in contesti di estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici. Africa occidentale, centrale e orientale, Asia meridionale, America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari in via di sviluppo e l’Artico sono le aree maggiormente a rischio: qui, tra il 2010 e il 2020, la mortalità umana a causa di eventi estremi (tra cui inondazioni, tempeste e siccità) è stata quindici volte superiore rispetto alle regioni con una vulnerabilità più bassa. Un numero che sarebbe potuto essere molto più alto se migliaia di individui non avessero deciso di spostarsi altrove.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) li definisce migranti ambientali, cioè «persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di un cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente sia permanentemente, e si spostano all’interno del loro paese o all’estero». Tra il 2012 e il 2022, il Migration data portal ne ha contati una media di circa 21,6 milioni all’anno, che entro il 2050 potrebbero diventare 216 milioni.
Solo nel 2021, su un totale di trentotto milioni di episodi di sfollamento interni registrati nel mondo, ben 23,7 sono scaturiti da calamità naturali. Nel novantaquattro per cento dei casi il pericolo è dipeso dalle condizioni meteorologiche, principalmente tempeste, inondazioni e siccità e i cinque Paesi con il numero più alto di migranti climatici sono stati Cina (sei milioni), Filippine (5,7 milioni), India (4,9 milioni), Repubblica Democratica del Congo (888mila) e Vietnam (780mila).
Le previsioni dicono che nei prossimi trent’anni l’Africa subsahariana potrebbe ritrovarsi a gestire gli spostamenti di ben ottantasei milioni di migranti climatici interni, l’Asia orientale e il Pacifico quarantanove milioni, l’Asia meridionale circa quaranta. Per il Nord Africa e l’America Latina i numeri potrebbero oscillare tra i diciannove e i diciassette milioni, mentre per l’Europa orientale e l’Asia centrale la cifra si “abbassa” a cinque milioni.
Il problema non sta solo nel fatto che milioni di persone sono e saranno costrette a muoversi. O meglio, la questione non si esaurisce così. Quello del surriscaldamento globale è, come lo definisce Legambiente, un vero e proprio «innesco». La «scintilla climatica», intrecciandosi con una serie di fattori tra cui le tensioni religiose, sociali, politiche e il peggioramento delle condizioni economiche, esaspera il contesto.
Il risultato è una popolazione ridotta allo stremo, una condizione che contribuisce ad accendere i conflitti per via della «corsa all’accaparramento delle risorse territoriali, in contesti di stretta sussistenza con il territorio e di progressivo degrado delle condizioni ambientali peggiorate dal riscaldamento globale», come è accaduto nella regione africana del Sahel. Qui il settanta per cento della popolazione vive di agricoltura e pastorizia, entrambe attività che necessitano di terreno fruttuoso.
Tuttavia i lunghi periodi siccitosi, interrotti in alcuni periodi dell’anno da violente piogge e inondazioni, hanno acuito la lotta per accaparrarsi quella piccola fetta di suolo ancora produttiva e le poche risorse idriche a disposizione. Così è accaduto anche altrove. Lo studio “Il clima come fattore di rischio per i conflitti armati”, pubblicato dalla rivista Nature e basato sulle opinioni di una serie di esperti, dice che dal tre per cento al venti per cento dei conflitti del secolo scorso ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima.
Percentuali che potrebbero inasprirsi per via del continuo declino delle condizioni climatiche. Nel peggiore dei casi, secondo la ricerca, se in un futuro prossimo l’aumento della temperatura media dovesse raggiungere la soglia dei quattro gradi, il rischio di conflitto aumenterebbe del ventisei per cento. Provando ad essere più ottimisti e auspicando che la crescita delle temperature medie non superi i due gradi, il rischio di conflitto aumenterebbe comunque del tredici per cento.
Oltre il danno pure la beffa, verrebbe da dire, visto che gli individui più vulnerabili (e più poveri) della Terra, quelli cioè che subiscono maggiormente le conseguenze dirette e indirette del surriscaldamento del Pianeta, sono spesso quelli che producono meno emissioni, e che quindi contribuiscono meno alla crisi climatica. Oxfam, Ong per la lotta alla povertà mondiale, dice che tra il 1990 e il 2015 – periodo in cui le emissioni di anidride carbonica in atmosfera sono più che raddoppiate – il dieci per cento più ricco del mondo è stato responsabile di oltre la metà (cinquantadue per cento) della produzione di CO2.
Dovrebbe essere piuttosto chiaro, a questo punto, che questione climatica e questione sociale non possono essere valutate separatamente e che discutere “solo” di come ridurre le emissioni ormai non è sufficiente. Prima di tutto perché, anche qualora (supponiamo) ci fosse un radicale cambio di rotta, gli effetti positivi del dietrofront non sarebbero immediati. La ferita è profonda, e il Pianeta ha bisogno di tempo per provare a risanarla.
Dunque, rimanendo con i piedi per terra e ragionando concretamente, se le conseguenze del cambiamento climatico ad oggi si possono limitare ma non cancellare, è importante imparare a conviverci nel miglior modo possibile, adottando misure di “adattamento” che possano soprattutto alleviare la vulnerabilità sociale di certi gruppi di persone. Come? Cominciando ad esempio a gestire con criterio le migrazioni ambientali. C’è molto da lavorare, anche perché non esiste tutela internazionale per i migranti ambientali. Una lacuna normativa inaccettabile, soprattutto dopo la recente risoluzione delle Nazioni di Unite che ha inserito tra i diritti umani universali la qualità dell’ambiente in cui si vive.
I Rimpatri.
Decreti di espulsione e rimpatri reali. I numeri dimostrano le difficoltà dell'Italia. Linda Di Benedetto su Panorama il 05 Settembre 2023
Solo un espulso su cinque lascia effettivamente il nostro paese. Creando numerosi problemi, soprattutto di sicurezza
Franca Marasco, la titolare di una tabaccheria di Foggia è stata uccisa a coltellate da Moslli Redouane, 43enne di nazionalità marocchina che a novembre del 2007, era stato colpito da un provvedimento di espulsione mai eseguito. Un caso non isolato che riporta l’attenzione sul numero delle effettive espulsioni che dovrebbero allontanare dal territorio nazionale migranti irregolari, soggetti potenzialmente pericolosi o raggiunti per altre motivazioni da un provvedimento prefettizio. Numeri che secondo l’ultima relazione della Corte dei Conti su “Il rimpatrio volontario e assistito dei flussi migratori” in Italia sono particolarmente bassi.
DECRETI ESPULSIONE E RIMPATRI: LE CIFRE Tra il 2018 e il 2021 a fronte di 107.368 provvedimenti di espulsione, solo 21.366 persone sono tornate effettivamente nel loro paese d’origine tramite rimpatri volontari o forzati, ovvero un quinto del totale. La media annua dei rimpatri effettivi è di circa 5.300 migranti, fatta eccezione per il 2020 e il 2021 quando furono rimandate nel loro paese di origine rispettivamente 3.607 e 3.838 persone a causa delle restrizioni dovute alla pandemia. Numeri che confermano un’oggettiva difficoltà dell’Italia e in cui emerge secondo i magistrati della Corte dei Conti che la Francia, la Germania e la Grecia hanno conseguito risultati decisamente migliori in rapporto a quelli registrati nel nostro paese. Dati confermati dalla Fondazione Leone Moressa che ha stimato circa 519mila immigrati irregolari sul territorio nazionale nel 2021, mentre dal 2013 al 2021 sono stati emessi circa 230 mila ordini di rimpatrio; di questi, solo 44 mila sono stati poi effettuati (meno di un quinto del totale). Una vera e propria emergenza su cui il ministro Piantedosi aveva dichiarato che a settembre avrebbe messo in atto un’accelerazione delle procedure di espulsione ed un rafforzamento dei Cpr (Centri permanenza per il rimpatrio). I numeri europei sui rimpatri volontari e ritorni forzati Se un individuo collabora volontariamente con le autorità dopo aver ricevuto una decisione di rimpatrio, il rimpatrio viene definito volontario; altrimenti si parla di rimpatrio forzato. Il ritorno volontario può essere assistito (con supporto finanziario/logistico da parte del paese ospitante) o non assistito. Nel 2022, i paesi dell’UE hanno emesso 422.400 decisioni di rimpatrio. Tuttavia, meno di un quarto dei cittadini di paesi terzi sono stati rimpatriati in un paese al di fuori dell’UE. Le principali nazionalità a cui è stato ordinato di partire nel 2022 sono state algerina (33.535), marocchina (30.510) e pakistana (25.280).
Estratto dell’articolo di Eleonora Camilli per “La Stampa” venerdì 1 settembre 2023.
I moduli grigi, circondati da filo spinato, sono pronti. I primi 100 migranti sono già stati trasferiti da Lampedusa, ma le sezioni vanno ancora strutturate: una parte centro di accoglienza, l'altra sezione per le procedure di frontiera. Passa dal nuovo hotspot di Modica-Pozzallo una delle scommesse del governo Meloni sull'immigrazione.
Sarà questo, infatti, il primo centro di trattenimento per le persone che provengono da Paesi terzi sicuri. Fallita la strategia di "fermare le partenze" ora si punta alla riproposizione di una vecchia ricetta, quella del "rimandiamoli tutti a casa", tradotto: aumentare i rimpatri. Lo ripete da giorni anche la presidente del Consiglio […]
Più facile a dirsi, però, che a farsi. Negli anni tutti i governi che ci hanno provato alla fine hanno dovuto ammettere il fallimento. Al Viminale, però, sono convinti di avere due assi nella manica: per prima cosa le nuove norme inserite nel decreto Cutro (legge 50/2023). In particolare, le cosiddette procedure accelerate di frontiera per chi proviene dai Paesi considerati sicuri, cioè verso i quali le persone possono essere rimandate. 17 in tutto: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia.
Per chi entra irregolarmente in Italia, via mare o via terra, ed è originario di uno di questi Paesi, è previsto dunque un procedimento speciale, accelerato, una sorta di "direttissima". Il secondo obiettivo è rendere possibile il rimpatrio anche dei migranti in attesa di processo. Un altro punto chiave sarà inserito invece nel prossimo decreto sicurezza, più volte annunciato.
[…] Il primo a dirsi scettico è il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia che parla di una strategia paragonabile all'idea di «svuotare il mare con un secchio». Secondo il governatore veneto della Lega «quest'anno arriveremo a oltre 200 mila persone, solo l'8% avrà lo status di rifugiato. Quindi almeno 150 mila dovrebbero essere riaccompagnate una ad una in aereo con le forze dell'ordine. La vedo dura».
Fu proprio la Lega, con Matteo Salvini ministro dell'Interno a puntare sui rimpatri per mostrare il pugno duro sui migranti nel periodo dei cosiddetti "porti chiusi". Nel 2018 furono 6.396 le persone rimandate indietro, leggermente meno di quanto successo l'anno precedente quando al Viminale c'era Marco Minniti e il dato si attestò sui 6.577.
Il dato è poi bruscamente sceso durante la pandemia per la chiusura delle frontiere: così nel 2020 il numero si dimezza a 3.351, un dato che rimane più o meno stabile anche nei due anni successivi, 3.420 nel 2021 e 3.916 nel 2022. Anche nei primi sette mesi di quest'anno (da gennaio a luglio 2023), nonostante il flusso dei migranti abbia superato i 100 mila arrivi, le persone rimpatriate sono state 2.500. Numeri in linea con l'andamento registrato dal 2020.
[…] A bloccare negli anni l'obiettivo di "rimandare tutti a casa" non sono state solo le procedure di emissione di provvedimenti di espulsione, cioè i fogli di via per chi non ha diritto a restare. La catena si ferma quando si tratta di applicare nella pratica il provvedimento.
Innanzitutto, le riammissioni sono vincolate agli accordi tra i Paesi. Ad oggi l'Italia ne ha un numero limitato, qualche intesa è in via di definizione ma più meno i Paesi che accettano di riprendere indietro i migranti sono sempre gli stessi. Non è un caso che la maggior parte delle persone negli ultimi anni sia stata rimpatriata principalmente in Tunisia, con cui l'Italia ha un solido accordo da tempo.
Negli incontri avuti di recente con i rappresentanti dell'esecutivo, il presidente Kaled Saïed ha ribadito di voler proseguire sulla scia di quest'intesa ma solo per quanto riguarda i cittadini tunisini. Ha rimandato al mittente, invece, l'ipotesi di riprendere nel suo Paese anche le persone che lì sono transitate prima di imbarcarsi verso l'Italia. Cioè la stragrande maggioranza degli oltre 114mila migranti approdati sulle nostre coste da gennaio.
L'altro scoglio, infine, è quello economico. Rimpatriare con scorta una persona fino al Paese di origine può costare anche 5000 euro a migrante, perché la macchina burocratica da mettere in moto è complicata e prevede personale specializzato. A questa voce va aggiunta la spesa per le strutture preposte alla detenzione, cioè i Cpr.
Secondo un report della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, che ha analizzato i bandi delle prefetture negli ultimi anni, nel periodo 2021-2023 il costo previsto per gestire i dieci centri finora attivi sul territorio è di 56 milioni di euro. Una cifra che potrebbe raddoppiare se, come da intenzioni, si riuscirà ad aprire un centro per il rimpatrio in ogni regione. […]
Ma i rimpatri restano un'illusione. Tra burocrazia e accordi inesistenti, solo uno su cinque torna a casa. Gian Micalessin il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.
Rimpatri, rimpatri, rimpatri. Da un mese e passa la parola d'ordine rimbalza da Bruxelles a Roma. La indicava come priorità il Consiglio Europeo riunitosi a Bruxelles lo scorso 9 febbraio. La fa propria il decreto messo a punto in quel di Cutro dal nostro governo promettendo l'apertura di un Cpr (Centro di Permanenza per i Rimpatri) in ogni regione, a fronte dei dieci esistenti, e l'allungamento da tre a sei mesi dei tempi di detenzione. Ma tra il dire ed il fare c'è di mezzo proprio il mare. Un mare che dal primo gennaio ha spinto sulle nostre coste oltre 27mila migranti ovvero oltre quattro volte quelli arrivati nel 2021 e nel 2022. Uno tsunami che l'esile diga dei rimpatri non basta certo a contenere nonostante l'appoggio promesso dall'Unione Europea. L'impegno a rimandare a casa agli irregolari sconta non solo la scarsità di accordi con i paesi d'origine, ma anche le lentezze burocratiche e le carenze legislative. E nel caso del decreto Cutro i tempi necessari ad allestire i nuovi Cpr. I dati del resto evidenziano l'inefficienza cronica, e non solo italiana, dei processi di rimpatrio. Stando alla Corte dei Conti tra il 2018 e il 2021 le persone tornate al paese d'origine sono state appena 21mila366 a fronte di ben 107mila 368 provvedimenti di espulsione. Dati confermati dalla Fondazione Leone Moressa che mette a confronto la stima di 519mila irregolari presenti in Italia nel 2021 con gli appena 44mila rimpatri andati a buon fine tra il 2013 e il 2021. Il tutto a fronte di 230 mila ordini di rimpatrio. Come dire che quattro irregolari su cinque riescono sempre a farla franca. E anche la cifra senza precedenti di oltre 8mila rimpatri raggiunta tra il primo gennaio e il 30 settembre 2022 impallidisce a fronte degli oltre 100mila sbarchi registrati alla fine dell'anno.
Ma non è un problema esclusivamente italiano. Prendiamo il 2018. In quell'anno i rimpatri dall'Italia sono stati 6mila398, a fronte di 7mila348 dalla Francia, 11mila713 dalla Spagna e 26mila114 dalla Germania. Cifre migliori delle nostre, ma comunque inadatte a compensare l'eccesso di irregolari.
Un altro problema non irrilevante di questo provvedimento è il suo costo. Le cifre spese dall'Italia per le operazioni di rimpatrio forzato si attestano mediamente intorno ai 9 milioni di euro annui. Nel 2020 sono stati impiegati 8,3 milioni di euro, una cifra di poco inferiore agli 8,9 milioni nel 2019 e i 10,1 milioni nel 2018. Costi solo in parte compensati dal Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami), il fondo europeo che per il periodo 2014- 2020 prevedeva 400 milioni di euro destinati a coprire tutte le spese del fenomeno migratorio da asilo e integrazione fino ai costi di rimpatrio. Senza dimenticare che gli accordi stretti nel 2020 con la Tunisia hanno richiesto per esser firmati l'esborso preventivo di 11 milioni di euro di aiuti. Una cifra ormai largamente ingiustificata visto che gli accordi, pur funzionando, non bastano certo a smaltire l'esodo in atto da quelle coste.
Emergenza migranti, quanto ci costano i mancati rimpatri: boom di spese. Il Tempo il 16 gennaio 2023
Oltre 32 milioni di euro per il 2023. Poco più di 46 milioni per il 2024. Sono gli stanziamenti previsti dal governo nell'ultima legge di bilancio per l'ampliamento della rete nazionale di centri di permanenza per il rimpatrio. Trattasi di quelle strutture che dovrebbero ospitare temporaneamente gli stranieri senza permesso di soggiorno in attesa del ritorno nel Paese d'origine. Ritorno che, però, a causa di procedure farraginose, di mancati accordi con gli Stati di partenza e dell'inerzia dell'Europa, diventa un vero e proprio percorso a ostacoli. Al punto che nel 2021 meno della metà delle persone detenute nei Cpr, e cioè il 49,7%, è stata effettivamente rimpatriata. Costringendo il governo a prevedere un aumento di spese per la gestione dei centri: circa 5,4 milioni in più per il 2023, addirittura 15 milioni in più per l'anno successivo.
Sono le cifre contenute in un'analisi realizzata da Openpolis attraverso i dati del ministero dell'Economia. «Teoricamente- si legge nel report stando alla normativa vigente, uno straniero dovrebbe essere trattenuto soltanto per il tempo strettamente necessario. Di fatto però in moltissimi casi la detenzione amministrativa all'interno di queste strutture si prolunga nel tempo».
La percentuale dei rimpatri, infatti, si è sempre mantenuta piuttosto bassa. «La quota più elevata- si legge ancora nel rapporto di Openpolis - si è raggiunta nel 2017 (prima di quell'anno esisteva un altro tipo di strutture: il Cie), quando è stato rimpatriato il 58,6% dei migranti presenti nei centri di detenzione amministrativa. Anche nel 2020 la cifra si è attestata sul 52,9%. In tutti gli altri anni, tuttavia, non ha raggiunto il 50%. La quota più bassa in questo senso si è raggiunta nel 2018: 43,2%».
Si intuisce, in tal senso, il motivo dell'insistenza del governo italiano nei confronti della Commissione europea affinché la gestione dei rimpatri avvenga su base continentale e non più nazionale. Se il principio della redistribuzione tra gli Stati membri dei migranti appena sbarcati resta un nervo scoperto a Bruxelles - la presidenza svedese di turno ha già chiarito che sarebbe utopistico immaginare nuovi accordi su questo fronte prima della primavera 2024- un primo passo importante sarebbe per Roma proprio quello di prevedere una macchina europea delle espulsioni e un pattugliamento comune dei confini lungo il Mediterraneo centrale. Anche di questo si parlerà al Consiglio europeo straordinario del 9 e del 10 febbraio. «L'immigrazione irregolare si combatte fermando le partenze prima ancora degli sbarchi» ha detto ieri il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi in un'intervista a «Il Messaggero».
«È evidente - ha continuato - che si tratta di un fenomeno di una tale complessità che non può trovare soluzione in pochi giorni. Ma sono sicuro che siamo sulla buona strada per ottenere al più presto risultati tangibili». In settimana il tema sarà affrontato anche in Parlamento con l'audizione delle Ong del soccorso in mare e la conferenza stampa sulle limitazioni introdotte dal dl Sicurezza. Mentre ieri circa 202 migranti sono stati trasferiti dall'hotspot di Lampedusa ad altre strutture al fine di liberare posti dato che, nei prossimi giorni, a causa del miglioramento delle condizioni atmosferiche, gli sbarchi dovrebbero riprendere a ritmo serrato. Nonostante i trasferimenti, nell'hotspot dell'isola ci sono ancora 426 persone, una trentina in più della capienza massima. L'esito di un inizio 2023 all'insegna degli arrivi. Al 13 gennaio secondo i dati del Viminale erano già sbarcati 3.819 profughi contro i 378 dello stesso periodo del 2022.
Migranti e rimpatri: il grande bluff. Panorama l’8 Marzo 2023
La Rubrica -Come Eravamo Claudio
Da Panorama del 10.02.2016 Secondo Save the children solo nel 2015 sono arrivati nell’Unione europea oltre 26 mila minori (minori sono anche i diciassettenni) non accompagnati. Secondo Europol, almeno 10 mila di questi bambini e ragazzi entrati in Europa come migranti sono scomparsi nel nulla. «Non tutti sono finiti nelle reti criminali e di sfruttamento sessuale» dichiara Europol al Guardian. «Semplicemente non sappiamo dove siano, cosa stiano facendo e con chi siano». Secondo Il Giornale, circa metà sono scomparsi in Italia, ma secondo il Corriere della Sera, che cita la denuncia della deputata di Alternativa libera, Eleonora Bechis, sono almeno il doppio: venduti e sfruttati per i traffici più ignobili dal commercio sessuale alla questa per strada, fino ai lavori più degradanti e peggio pagati. Quanto agli adulti, riferisce Fiorenza Sarzanini sempre sul Corriere della Sera, la Commissione europea calcola in almeno 63 mila quelli transitati o tuttora dimoranti in Italia di cui si sono perse le tracce, irreperibili. Come vivono o sopravvivono? Purtroppo le cronache locali segnalano casi anche di rifugiati che delinquono (furti, spaccio, violenze alle persone) mentre è noto che nelle varie fazioni jiahdiste sono molti gli adolescenti e persino i bambini indottrinati e fanatizzati. Per ora l’inverno ha rallentato ma non interrotto gli sbarchi attraverso l’Egeo e il canale di Sicilia, ma la primavera è vicina e si temono altri esodi, altri morti in mare, altri sbarchi organizzati dai 30 mila scafisti il cui sporco lavoro non conosce soste. Il tentativo di dar vita a un governo unitario in Libia, su cui molto si era spesa l’Italia, si è arenato. Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito sono determinati all’intervento pur di non consentire un rafforzamento dell’Isis che già controlla 300 chilometri di coste a 200 miglia dall’Italia. Mentre il nostro governo rivendica in Libia un ruolo guida e continua a frenare sul ricorso alla forza il ministro della Difesa di Parigi, Jean-Yves Le Drian, ricorda di aver ammonito per tempo che il Califfato stava per sbarcare in Europa. E ha appena rinnovato l’allarme: «Ai migranti dalla Libia potrebbero mescolarsi combattenti pronti a sbarcare a Lampedusa». Del resto, se è vero che i terroristi sono nati e cresciuti in Europa, è altrettanto vero che gli attentatori di Parigi e non solo erano usi fare la spola tra Francia e Medio Oriente nascondendosi tra i rifugiati. In questa situazione si comprende come la paura del terrorismo sia balzata in cima alle preoccupazioni degli italiani, oltre l’ansia per l’economia. Alla paura si risponde rafforzando un apparato di sicurezza molto debilitato e rafforzando la cooperazione con i nostri alleati, non ingiuriandoli quotidianamente sino a sfregiarli come «burocrazia pervertita». Certo, se chiedete al ministro dell’Interno Angelino Alfano perché è fallita la strategia del governo sull’immigrazione vi risponderà che è colpa dei Paesi europei che non hanno tenuto fede all’impegno di accogliere le quote concordate di migranti sbarcati in Italia. Ma questa è solo mezza verità, la verità intera Alfano non la dice. Grazie alla mediazione del vituperato JeanClaude Juncker, molti Paesi riluttanti si erano infine adattati al criterio delle quote. Poi però non hanno dato corso alle intese. Alcuni con il rifiuto brutale di accogliere mussulmani, altri lamentando che la redistribuzione era legata a precise condizioni. Innanzitutto che l’Italia e la Grecia, Paesi di primo approdo, allestissero centri d’identificazione registrando le impronte. Com’è evidente, è una condizione indispensabile per distinguere chi ha diritto all’asilo, i rifugiati, dai clandestini. Questi ultimi, non solo secondo le direttive europee ma per le stesse nostre leggi, non devono essere accolti bensì rimpatriati. Ebbene, Alfano per mesi non solo non si è occupato di rimpatri, ma ha cercato di rovesciare la sequenza logica pretendendo la redistribuzione dei rifugiati a prescindere dalla loro identificazione. Così per mesi ha rinviato l’organizzazione in Italia degli «hot spot», e anche in quelli attivati per pavidità non ha autorizzato la polizia a prendere le impronte ai renitenti con tutti i mezzi legali. Alla fine il bluff è stato smascherato non solo dai dati di Eurostat, ma dai giornali e media europei che rilevavano il singolare fenomeno di migranti non identificati che, sbarcati all’alba in Sicilia, la sera già circolavano a Roma e, nei giorni successivi, nei Comuni del nord Italia. Alimentando il sospetto che trasferiti, magari a spese dello Stato, venissero lasciati liberi di raggiungere le frontiere europee. Conseguenza: furiose per le mancate identificazioni e il transito di clandestini, Francia, Svizzera e Austria hanno ripristinato i controlli ai confini con l’Italia. Ora Renzi, nell’incontro con Angela Merkel, ha giurato: «Ormai prendiamo le impronte al 100 per cento». Anche ai 63 mila nel frattempo irreperibili? Mah. E siccome è uso perseverare negli errori, si è esposto a qualche nuovo schiaffone dei «burocrati pervertiti», che potranno agevolmente smascherare la sua ultima balla. Nei nostri centri nulla è cambiato: non si prendono impronte. Di nuovo c’è solo che i poliziotti filmano per pochi secondi un anonimo sedicente: «Mi chiamo Muhammed o Alì o vattelapesca». Non contento, Renzi fa volutamente confusione tra il dovere universale di salvare in mare chiunque sia in pericolo, migrante o turista che sia, per annunciare, da presidente del Consiglio, che se ne infischia delle leggi italiane che impongono di accogliere i rifugiati e respingere i clandestini. Con tanti saluti all’onestà intellettuale, alla sicurezza degli italiani e dei concittadini europei.
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"Un nuovo patto tra Italia e Africa". Pasquale Napolitano il 4 Novembre 2023 su Il Giornale.
La premier presenta il decreto sul "Piano Mattei": quattro anni di partnership e aiuti
La missione è ambiziosa: trasformare la crisi migratoria in un'occasione di rinascita per il continente africano. Con l'Italia che punta a riprendersi la leadership nel Mediterraneo. Con quest'orizzonte il governo Meloni pone il primo pilastro del Piano Mattei. Il decreto legge, licenziato ieri in Consiglio dei ministri su proposta del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del premier, ne individua l'impalcatura. I prossimi due passaggi saranno l'esame da parte del Parlamento italiano e poi dell'Unione Europea. Il 28 e 29 gennaio prossimo, in occasione della conferenza Italia-Africa, il piano Mattei sarà presentato ufficialmente al mondo. Per il presidente del Consiglio Meloni si tratta del «più significativo progetto geopolitico del governo di un'Italia che vuole tornare ad essere protagonista nel Mediterraneo». Un lavoro fatto a quattro mani con il ministro Tajani che in conferenza spiega: «Il piano Mattei è una scelta di grande importanza perchè risponde alla questione migrazione, per la stabilità del continente africano. L'immigrazione non è un problema che si può risolvere intervenendo solo alla fine del percorso, ma a monte». Il decreto fissa la durata del piano: 4 anni. Definiti, inoltre, gli ambiti di cooperazione tra l'Italia e i Paesi del continente africano che aderiranno e parteciperanno alla stesura del piano: cooperazione allo sviluppo, promozione delle esportazioni e degli investimenti, istruzione, formazione superiore e formazione professionale, ricerca e innovazione, salute, agricoltura e sicurezza alimentare, approvvigionamento e sfruttamento sostenibile delle risorse naturali, incluse quelle idriche ed energetiche, tutela dell'ambiente e adattamento ai cambiamenti climatici, ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture anche digitali, valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico anche nell'ambito delle fonti rinnovabili. E poi sostegno all'imprenditoria e in particolare a quella giovanile e femminile, promozione dell'occupazione, turismo, cultura, prevenzione e contrasto dell'immigrazione irregolare e gestione dei flussi migratori legali. Il terzo anello del piano è la governance: nasce la cabina di regia istituita a Palazzo Chigi al cui timone c''è il premier Meloni. Al tavolo siederanno anche i ministri degli Esteri e delle Imprese. Oltre i vertici di Cdp, Ice, Sace, Simest e il presidente della Conferenza Stato-Regioni. Alla cabina sono assegnate tutte le funzioni principali: dalla stesura del piano al monitoraggio. Il capo dell'Esecutivo sarà affiancato da una struttura di missione. Per quanto riguarda i fondi, il presidente del Consiglio ha precisato che «riguarderà più ministeri, perché i settori d'intervento sono numerosi». Il Piano Mattei è una scommessa che Meloni vuole vincere a tutti i costi. A sinistra l'annuncio fa sbroccare tutti. Pier Luigi Bersani attacca: «Piano Mattei? Evidentemente per dare nobiltà a una scatola vuota serviva il nome di partigiano». La risposta all'ex leader del Pd arriva direttamente da Rosy Mattei, nipote di Enrico Mattei: «Dimenticato da sinistra, unica a ricordarlo Meloni».
Il documentario su Enrico Mattei, storia di un personaggio complesso. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2023
Il racconto del doc «Enrico Mattei. Ribelle per amore» tra Milano, Torino, Roma, Matelica e Acqualagna, luoghi questi ultimi dove uno tra i più grandi protagonisti del «miracolo economico» è nato e cresciuto
Non ho capito se il documentario «Enrico Mattei. Ribelle per amore» (Rai Documentari con Aut Aut Production) volesse essere un omaggio a uno dei più grandi protagonisti del «miracolo economico» italiano in occasione dell’anniversario della morte (27 ottobre 1962) oppure un documentario propagandistico sul «Piano Mattei» che il governo vuole attuare. Forse entrambe le cose, ma in maniera imbarazzante. Nominato commissario liquidatore dell’Agip nel 1945, Mattei si rende conto delle potenzialità dell’azienda e decide di salvarla e rilanciarla. Il pionieristico piano industriale — che parte dalla scoperta di metano e petrolio a Caviaga, nel 1946, e poi a Cortemaggiore (località che darà poi il nome alla benzina «Supercortemaggiore»), nel 1949, e si sviluppa attraverso la costruzione di un’ampia rete di metanodotti oltre che di un’estesa catena di stazioni di servizio per la distribuzione della benzina —, suscita un duro contrasto con società internazionali dello stesso settore.
L’America aveva vinto la guerra e reclamava la possibilità di imporre ai Paesi usciti sconfitti dal conflitto le forniture del proprio petrolio. Durissimi, all’epoca, gli scontri di Indro Montanelli con Mattei (che poi raccolse in 35 volumi, «Stampa ed oro nero», tutti gli attacchi della stampa italiana e straniera contro di lui). E questo è il racconto di interlocutori preparati come Luciano Segreto, Bruna Bagnato, Giulio Sapelli, Alessandro Lanza, Paolo Cirino Pomicino, Vincenzo Calia, Carlo Zanmatti e altri ancora.
Il racconto si svolge tra Milano, Torino, Roma, Matelica e Acqualagna, luoghi questi ultimi dove Mattei è nato e cresciuto. Le diverse testimonianze offrono un ritratto complesso del personaggio. Peccato non aver mostrato le immagini del programma «L’Italia non è un Paese povero», voluto da Mattei e girato da Joris Ivens, una rara testimonianza d’epoca e una cristallina fotografia di alcuni aspetti della società italiana del periodo (la Rai lo mandò in onda edulcorato). Per «modernizzare» l’esposizione ci sono anche le testimonianze di Giovanni Minoli e di Monica Giandotti (la lezioncina a memoria!). Infine, la parte sul Piano Mattei con la partecipazione del ministro Guido Crosetto è pretestuosa e posticcia. Povero Mattei!
Aspettando Godot. Dopo dieci mesi il Piano Mattei è ancora fermo (e lo sarà ancora a lungo). Luca Attanasio su L'Inkiesta il 4 Novembre 2023
È saltato il summit che avrebbe dato forma al progetto per gestire le migrazioni irregolari. L’incontro era previsto per inizio novembre ed è stato rinviato all’anno prossimo per il conflitto israelo-palestinese
Piano Mattei per l’Africa, sotto il titolo niente. Basterebbe parafrasare un noto film degli anni Ottanta per riassumere il nulla cosmico che caratterizza un piano sbandierato ai quattro venti come rivoluzionario, risolutivo dei problemi che inducono decine di migliaia di persone a lasciare il continente e avventurarsi in migrazioni gestite da mafie transnazionali, «utile a tutta l’Unione Europea» e che a un anno esatto dell’annuncio (durante il discorso di insediamento del governo) giace nella vaghezza più assoluta.
La mazzata finale è arrivata qualche giorno fa. In una scarna nota della Farnesina rilasciata il 12 ottobre, si rendeva noto che il vertice Italia-Africa, la seconda gamba del Piano, era stato annullato. Quel summit avrebbe dato forma e operatività al progetto, previsto per il 5 e il 6 novembre prossimi e pompato mediaticamente da gennaio. L’annuncio unisce sorpresa a una certa approssimazione: nelle tre righe si fa riferimento al «peggioramento del contesto internazionale» e a un rinvio a inizio anno. La nostra diplomazia, quindi, a quanto risulta, ha sostanzialmente lavorato a stretto contatto con quelle africane immaginando temi, tavole rotonde, inviti di leader e redazioni di documenti e accordi ufficiali per un anno intero, per poi annullarli con il più breve degli short notice (tre settimane).
La versione ufficiale, come già scritto, fa risalire il posticipo al caos mediorientale. Quella ufficiosa, ovviamente, riporta tutto al fatto che di quel Piano non vi è mai stata traccia reale. E si è colta la drammatica circostanza della guerra scatenata dagli attacchi di Hamas e proseguita con la reazione israeliana, per evitare la figuraccia. Non sarà certo sfuggito agli analisti che in occasione del sessantunesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, il 27 ottobre, Giorgia Meloni abbia scelto di parlare su X di «formula Mattei» come via «profondamente attuale e ispirazione dell’azione del Governo italiano». Del Piano, non c’è più neanche traccia dialettica.
Ma l’assenza di un progetto concreto e reale di rapporti con i Paesi africani che contribuisca, come annunciato dalla premier a luglio durante la Conferenza internazionale su sviluppo e migrazione ad «avviare un percorso condiviso in grado di attuare misure concrete per la crescita e lo sviluppo del Mediterraneo allargato e l’Africa, per affrontare le cause profonde dei flussi irregolari e per sconfiggere l’attività criminale dei trafficanti di esseri umani» non è l’unico problema. In quel summit estivo che si concludeva con il varo del cosiddetto «processo di Roma», l’attuazione definitiva, cioè, del piano Mattei si mettevano le basi di una strategia che ha segnato un fallimento su molti fronti. Si immaginava la erezioni di hotspot da affidare a paesi africani di transito per gestire un primo filtro dei flussi migratori e si è finito per varare misure per la moltiplicazione di hotspot con detenzione allungate fino a diciotto mesi in Italia facendo del nostro Paese, come sottolinea l’HuffPost, proprio quell’enorme hotspot a cielo aperto che l’esecutivo dichiarava di voler scongiurare. Se si prende poi l’accordo siglato da Meloni e von der Leyen a Tunisi con l’autarca Saied non più di qualche mese fa, si potrà notare quanto la mossa, oltre che totalmente irrispettosa dei diritti degli individui (sono centinaia i migranti morti nel deserto tra Tunisia e Libia cacciati dall’uno o dall’altro Paese nordafricano con i quali Italia e Ue hanno siglato patti di contenimento in cambio di denaro, ndr), si sia rivelata un clamoroso fallimento: il Presidente tunisino, ha sdegnosamente rispedito al mittente i sessanta milioni della prima tranche stanziata (in tutto erano previsti novecento milioni) definendoli «atto di elemosina».
Ma c’è un altro, gravissimo problema che il sito Info Cooperazione (Ic) fa emergere. A denunciarlo è Guglielmo Picchi, esponente della coalizione di governo e fondatore e dirigente del Centro studi politici e strategici Machiavelli, già deputato e sottosegretario agli Esteri nonché candidato alla direzione dell’Agenzia Italiana Cooperazione e Sviluppo (Aics). Proprio riferendosi all’attuazione del Piano Mattei e alla rete diplomatica italiana in Africa, in prima linea nella presunta implementazione, Picchi denuncia un quadro a dir poco deprimente.
E a suggello di ciò pubblica un elenco impietoso sulla dotazione di personale delle sedi diplomatiche italiane nel continente, con una ridottissima presenza numerica di diplomatici di carriera, una costante assenza di vice-Capo Missione e ridotto personale amministrativo: come si pensava, quindi, di dare vita a un progetto epocale di rivoluzione e guerra al sottosviluppo se non si disponeva di generali, neanche di soldati semplici per attuarla?
Ed è qui che si insinua l’ultimo dubbio, fatto emergere sempre da Info Cooperazione così come da sempre più numerosi analisti. Ma non è che il Piano Mattei di Mattei ha solo il richiamo all’ente da lui presieduto? Non è che siamo di fronte a un potenziamento (fin qui peraltro in parte fallito), di quella che è considerata da decenni la nostra rete diplomatica parallela in Africa, quella cioè agita dall’Eni? «Vista l’aspettativa creata dal teaser di questi ultimi mesi – spiega Ic – su vari fronti sarebbe una delusione se il Piano Mattei per l’Africa fosse poco più di un Piano Eni per l’Africa».
Quanto inquina il fondo per il clima italiano. Doveva nascere per sostenere la transizione verde africana. Invece servirà a finanziare il piano Mattei, ovvero progetti vicini ad Eni che, soprattutto in Mozambico, lavora in aree devastate dalle guerre scatenate dalle risorse del sottosuolo. Gloria Riva su L'Espresso il 6 Novembre 2023
L'intento è nobile. Destinare i 4,2 miliardi del Fondo Italiano per il Clima ai Paesi in via di sviluppo, sostenendo il loro processo di transizione ecologica. L’idea di istituire un siffatto fondo non è venuta a questo governo, neppure a quello precedente, men che meno a quelli che sono venuti prima. Il Green Climate Fund è invece figlio dell’accordo di Glasgow in cui le Nazioni Unite si sono impegnate a mobilitare 100 miliardi di euro per affrontare i cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo. In teoria, tutti i Paesi che hanno firmato quell’accordo dovrebbero aver già creato una task force per sostenere simili progetti. Il governo italiano, invece, sta cercando di svuotarlo, il fondo.
Il Green Climate Fund italiano ha visto la luce questa estate: Dario Scannapieco, ad di Cassa Depositi e Prestiti, ha nominato a capo del fondo un uomo di sua fiducia, Paolo Lombardo. I due hanno condiviso un lungo percorso professionale alla Banca Europea degli Investimenti, dove Lombardo si è occupato di Paesi emergenti e Africa dell’Est. Dunque, Lombardo sembra essere l’uomo giusto al posto giusto per la messa a terra dei 4,2 miliardi di finanziamenti (alcuni a garanzia, altri a fondo perduto) per l’Africa. Sempre che gli sia concesso di toccare palla. Perché in manovra di bilancio si è deciso di finanziare il Piano Mattei per l’Africa proprio con 200 milioni di euro l’anno, fino al 2026, pescando proprio dal Fondo per il Clima. Preoccupano le parole della premier Giorgia Meloni che, di questo stesso fondo, ha parlato nelle scorse settimane in Mozambico, un Paese martoriato dalla guerra, che insiste nella provincia di Cabo Delgado, territorio estremamente povero, ma con un terreno estremamente ricco di gas e petrolio – risorse sfruttate da Eni, con il suo progetto di estrazione Coral South, e dalla francese Total – ma che gli estremisti islamici rivendicano per sé. Meloni, accompagnata nel suo viaggio in Mozambico dal numero uno di Eni, Claudio Descalzi, ha annunciato che il Piano Mattei a sostegno dell’Africa sarà finanziato con i soldi del Fondo Italiano per il Clima, proprio come conferma la bozza della manovra di bilancio. Non l’hanno presa bene gli attivisti di Cabo Delgado, che temono un cortocircuito fra Fondo per il Clima, Piano Mattei, Eni ed estrazione di idrocarburi, come racconta a L’Espresso Daniel Ribeiro di Justica Ambiental: «Prima delle esplorazioni, l’area di Cabo Delgado era abitata per l’80 per cento da pescatori e agricoltori, che sono stati privati della loro terra e dell’accesso al mare. Il governo locale, preoccupato soprattutto di far correre i progetti di Total ed Eni, ha intensificato la presenza militare, affidandosi a mercenari provenienti da Russia e Sud Africa, che utilizzano la forza nei confronti della popolazione locale. I giovani, vessati dai militari, con bassi livelli di scolarizzazione, privati delle terre e di qualsiasi possibilità di lavoro, sono finiti fra le braccia della jihad. La situazione a Cabo Delgado è esplosiva e peggiora di giorno in giorno, con una scia di quattromila vittime, un milione di sfollati e una sempre più devastante insurrezione armata da parte degli integralisti. I ricavi governativi dalle esplorazioni sono una goccia nel mare, insufficienti a garantire progetti di sviluppo locale e il livello di indebitamento del Paese è diventato insostenibile».
La presenza delle compagnie petrolifere in Mozambico avrebbe innalzato i livelli di povertà e corruzione del Paese: «Per invertire la rotta è necessario porre un freno ai progetti di sfruttamento dei giacimenti», conclude Ribeiro che il 3 novembre è a Roma, invitato dalle associazioni Recommon, Focsiv e dai cattolici di Movimento Laudato Sì, per raccontare i rischi del Piano Mattei, che a parole serve a interrompere i rapporti non predatori. E Ribeiro potrebbe non avere tutti i torti, se anche Asvis (Associazione per lo Sviluppo Sostenibile), nel suo rapporto 2023 da poco pubblicato, denuncia che «non è ancora stato reso pubblico il piano industriale per gli investimenti del Fondo Italiano Clima, uno strumento che deve porre l’Italia tra i protagonisti del finanziamento delle operazioni di mitigazione e adattamento nei Paesi in via di sviluppo, come chiesto dai risultati delle Cop sul cambiamento climatico. Parallelamente, l’impegno italiano sottoscritto a Glasgow di non finanziare più con risorse pubbliche l’estrazione di idrocarburi è eluso: la Cassa Depositi e Prestiti, che gestisce il Fondo, sta infatti continuando a finanziare investimenti italiani all’estero per lo sfruttamento degli idrocarburi, il che riduce la credibilità politica dell’Italia nella comunità internazionale e risulta contraddittorio rispetto agli impegni di attuazione dell’Agenda 2030, ribaditi anche nel G7 a guida giapponese».
Posticipare i traguardi nella lotta al cambiamento climatico è una figuraccia internazionale e un boomerang per le aziende. Come dimostrano i mancati obiettivi di Enel, società a partecipazione pubblica, che a fine anno dovrà sborsare un’extra cedola ai suoi investitori. Scrive l’analista Josephine Richardson che «le decisioni politiche del governo hanno impedito a Enel di ridurre i propri asset di carbone, ostacolando la possibilità di raggiungere l’obiettivo previsto dai titoli di investimento green». Morale, il mancato raggiungimento degli obiettivi costerà a Enel 27 milioni di dollari di extra cedola a favore degli investitori del Sustainability Linked Bond: «È l’extra cedola più alta mai pagata nella storia». In passato, solo in due casi si era verificato un mancato raggiungimento degli obiettivi. A pagare sarà Enel, per colpe di un governo poco consapevole del sempre più stretto legame fra finanza e sostenibilità.
I bond di Enel sono dei Sustainability Linked Bond, Slb, ovvero titoli di debito, il cui rendimento finanziario dipende da obiettivi di sostenibilità che la società, o lo stato che li emette, definisce al momento dell’emissione e determina il prezzo minore o maggiore pagato a questi ultimi in base ai risultati ottenuti. Il primo Slb è stato emesso nel 2019 dal Cile, che ha legato le sue emissioni di debito pubblico alla sostenibilità e alla produzione di energia da fonte rinnovabile. Da allora il Cile ha raccolto miliardi con questo strumento, che ha ottenuto un rating A- dall’agenzia Fitch, e piace agli investitori istituzionali, al punto che BlackRock stima in tre trilioni l’anno il volume degli investimenti green finanziabili. Ora anche Gabon, Rwanda e Uruguay si muovono sulla stessa strada. Altri Paesi, come Tailandia, Mongolia e Maldive stanno facendo un passo ulteriore: «I governi stanno lavorando alla creazione di linee guida per le proprie imprese, in particolare per le quotate, per valutarne il livello di sostenibilità», spiega Filippo Addarii, fondatore di PlusValue, gruppo di ricerca e consulenza basato a Milano e Londra che, per le Maldive, sta elaborando un framework utile a imporre alle società quotate (e a chiunque vorrà investire nel paradiso del turismo) di operare nei limiti della sostenibilità. L’autorità per lo sviluppo dei mercati finanziari delle Maldive, insieme al programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, ha affidato all’italiana PlusValue il protocollo di rendicontazione di sostenibilità per le società quotate alle Maldive. «In concreto è il primo strumento di policy del Paese per allineare gli investimenti privati alla transizione climatica e a uno sviluppo sostenibile, specialmente nel turismo. Questo avviene perché il governo delle Maldive è tra i primi Paesi ad aver compreso il potenziale della finanza internazionale se indirizzata allo sviluppo sostenibile», dice Addarii, che tende una mano al governo italiano: «Il laboratorio per la sostenibilità delle Maldive è un’opportunità per l’Italia, che ha lanciato il Fondo per il Clima, da usare in Africa e Medio Oriente». Tuttavia, dalla riduzione dello stanziamento, alla commistione con il Piano Mattei: pare che il governo abbia in mente di seguire altre logiche, più tradizionali, per spendere quel denaro.
Migranti, Porro dà la cifra choc: a quanto ammonta il "conto" per l'accoglienza. Christian Campigli su Il tempo il 22 settembre 2023
Numeri sconvolgenti. Sui quali la necessità di intervenire, immediatamente, è tanto ovvia quanto tutt'altro che semplice. L'emergenza migranti, al di là dell'evidente questione politica (legata sia agli equilibri all'interno del governo, che alla grande attenzione riservata al tema da parte dell'elettorato conservatore) rischia di modificare i piani dell'esecutivo, anche in termini di spesa pubblica, di investimenti e di tagli delle tasse. Nicola Porro, durante l'ultima puntata di “Stasera Italia”, in onda su Rete 4, ha snocciolato delle cifre che fanno, oggettivamente, tremare i polsi.
Il nostro Paese sarà costretto ad usare ben 3 miliardi e mezzo di euro per l'accoglienza: un'impennata quasi insostenibile. Per capirsi, i cantieri aperti per le Olimpiadi invernali del 2026 di Milano – Cortina sono costati sin qui, al contribuente dello Stivale, la medesima cifra. Che si tratti di una prospettiva inaccettabile, oltre per questioni di ordine sociale e di sicurezza urbana, appare del tutto evidente se si paragona la spesa italiana a quella dell'intera Unione Europea. Che, mediamente, usa circa 40 miliardi per i migranti africani. Un numero da dividere però per ventisette (ovvero, gli Stati che la compongono). Risultato: 1 miliardo e 400 milioni a testa. Non serve una laurea in matematica per comprendere che l'Italia, se non vi sarà una netta inversione di rotta, spenderà quasi il triplo delle altre nazioni del Vecchio Continente.
Per arrivare alla cifra finale è necessario ricordare come, solo nel 2021, i cittadini italiani avevano utilizzato un miliardo e 700 milioni delle loro tasse per l'accoglienza. Considerando che, nel 2023, giungeranno sulle nostre coste, come minimo, il doppio degli immigrati è dannatamente semplice arrivare alla sconvolgente cifra finale. Il solo kit di primo ingresso costa 150 euro l'uno. Moltiplicato per 132 mila dà come risultato 19 milioni e 800 mila euro. E che dire dei Cpr: lo scorso anno sono stati spesi 26 milioni di euro. A dicembre si toccheranno i 32 milioni. Numeri che fanno paura. Perché rischiano di far saltare opere pubbliche, taglio di tasse o altri investimenti. Indispensabili per far ripartire l'Italia.
La "garanzia finanziaria". La “scafismo di Stato” del governo, 5mila euro per la libertà dei migranti: è la cifra per non finire in un Cpr. Redazione su L'Unità il 22 Settembre 2023
Cinquemila euro per non finire in un Cpr, i Centri di permanenza e rimpatrio per i migranti, le strutture al centro delle polemiche furenti di questi giorni per il piano del governo Meloni di istituirne uno per ogni Regione e soprattutto di estendere a 18 mesi il limite massimo di permanenza nei casi in cui “lo straniero non collabora al suo allontanamento” o in presenza di “ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione” da parte dei paesi di origine.
È questa la cifra che il governo ha deciso di istituire come “cauzione” per il richiedente asilo che non vuole essere trattenuto in un Cpr, almeno fino all’esito dell’esame del suo ricorso contro il rigetto della domanda.
È tutto scritto, nero su bianco, nel decreto del ministero dell’Interno pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale: gli stranieri non appartenenti all’Unione Europea che arrivano in Italia e fanno richiesta di asilo dovranno versare una garanzia finanziaria di 4.938 euro, che sarà trattenuta al massimo per quattro settimane. Il richiedente asilo poi dovrà dimostrare la “disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale”, riporta il decreto, e della “somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi”. Il provvedimento riguarda chi è nelle condizioni di essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura alla frontiera e proviene da un Paese considerato “sicuro”.
Riccardo Magi, segretario di +Europa, la definisce su X (l’ex Twitter, ndr) “scafismo di Stato, una tangente discriminatoria, classista e disumana, verso chi scappa da fame e guerre. Ci sarebbe da vergognarsi solo per averlo pensato”.
Si tratta praticamente di un pizzo di Stato: chi paga infatti resta fuori dal Cpr con la possibilità di muoversi dove vuole ma se nel frattempo dovesse ricevere un diniego della sua richiesta di asilo e quindi un ordine di espulsione, non presentandosi perderà il diritto a riavere i quasi 5mila euro pagati alle casse dello Stato, cifra che comunque dovrà sommare a quella già ingente che ha speso per tentare di raggiungere l’Europa nel suo viaggio della disperazione.
Come si è arrivati alla definizione dei 5mila euro? Secondo il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale la garanzia finanziaria di 4.938 euro è considerata idonea a garantire al cittadino straniero, per il periodo massimo di trattenimento pari a quattro settimane (28 giorni), la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale e della somma occorrente al rimpatrio (che mediamente è di 2.700 euro) e di mezzi di sussistenza minimi necessari.
Sempre Magi sottolinea poi un aspetto della norma pensata dall’esecutivo Meloni e presente nel decreto attuativo firmato dai ministri Piantedosi, Nordio e Giorgetti: si tratta di una norma “illegale” in quanto “la Corte di Giustizia europea nel 2020 ha già sanzionato una misura analoga introdotta dall’Ungheria”. Redazione - 22 Settembre 2023
«Cinquemila euro per evitare il centro». Arriva la “cauzione” per i migranti. Storia di Daniela Fassini su Avvenire venerdì 22 settembre 2023.
La libertà ha un prezzo. Soprattutto se si è migranti, giunti in Italia via mare o via terra lungo la rotta balcanica da Paesi “sicuri” e non si vuol finire in un centro in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione. L’Italia chiede infatti una fideiussione bancaria o assicurativa da 4.938 euro che dovrà essere versata dal richiedente asilo. Il pagamento sarà a carico suo individualmente, non potranno farlo altri per lui. La novità è contenuta in un decreto firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, insieme ai colleghi Carlo Nordio (Giustizia) e Giancarlo Giorgetti (Economia) e pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale.
È il decreto Cutro dello scorso marzo ad aver spinto sulle procedure accelerate alla frontiera, con la previsione anche del trattenimento del migrante «al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato». Il richiedente asilo può essere trattenuto nel caso «non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria» e provenga da un Paese sicuro. Il decreto ha stabilito l’entità della garanzia: quei quasi 5mila euro che devono assicurare al migrante, per il periodo massimo di trattenimento consentito (pari a 4 settimane), «la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale; della somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi».
L’obiettivo del giro di vite è quello di dare un impulso ai rimpatri, accelerando l’esame delle richieste di asilo e arrivando all’espulsione - già alla frontiera di arrivo - per coloro che si vedono negata la domanda e provengono da un Paese inserito nella lista di quelli “sicuri” come ad esempio la Costa d’Avorio, seconda per arrivi quest’anno, o la Tunisia, terza. Il richiedente non entrerebbe così nel sistema di accoglienza in attesa dell’iter di esame della domanda, ma resterebbe negli hotspot in stato di detenzione amministrativa. Può evitarlo, ma dovrà pagare.
Gli esperti giuridici
«Si chiede una fidejussione bancaria o assicurativa che deve essere fornita entro il tempo di conclusione della procedura di fotosegnalamento – spiega Maurizio Veglio, avvocato socio di Asgi (l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) – secondo la normativa europea le impronte digitali devono essere raccolte entro 72 ore dall’arrivo e immaginare che una persona possa precostituire questa fidejussione prima di partire o farlo in quelle poche ore è piuttosto improbabile».
Sulla tempistica dei 28 giorni,
«l’idea è quella di avere una procedura velocissima di richiesta d’asilo – aggiunge l’esperto giuridico – la commissione che riceve la domanda deve rispondere entro sette giorni, lo straniero ha poi 14 giorni per fare ricorso e nei 7 giorni successivi al ricorso il tribunale dovrebbe accogliere o rifiutare la richiesta di sospendere il rifiuto della commissione. E si arriva così ai 28 giorni. È evidente che questa costruzione è farsesca».
«Il decreto che fissa la “tassa per la libertà” di 5mila euro difficilmente troverà applicazione» dichiara Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci nazionale. «Il governo continua a produrre interventi impraticabili, frutto solo dell’ideologia e della volontà di continuare a negare la realtà» aggiunge Miraglia. «Sfido- continua Miraglia - a trovare una persona che arriva dalla Libia o dalla Tunisia o dalla rotta balcanica, capace di attivare una fideiussione di quel valore in Italia o in qualsiasi altro Paese nel tempo previsto dal decreto».
Le reazioni politiche
Il decreto ha acceso anche la polemica politica. «L’ultima crudeltà» del Governo, accusa la segretaria del Pd, Elly Schlein, «cozza contro il diritto internazionale: si chiedono 5 mila euro a chi fugge da discriminazione, guerre e torture per evitare di essere rinchiusi in un centro, un’ulteriore crudeltà inumana di un governo forte coi deboli e debole coi forti». Una norma che garantisce la libertà a chi paga, osserva il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Angelo Bonelli, «fa solo schifo. Ed è significativo della natura punitiva della norma che l’importo da mettere a garanzia non possa essere messo da terzi». Per il segretario di Più Europa Riccardo Magi, la norma è «scafismo di Stato, una tangente discriminatoria, classista e disumana, verso chi scappa da fame e guerre. Ci sarebbe da vergognarsi solo per averlo pensato. Ma c’è di peggio: questa norma è illegale in quanto la Corte di Giustizia europea nel 2020 ha già sanzionato una misura analoga introdotta dall’Ungheria». Avvenire
Il governo fa lo scafista e chiede soldi ai migranti. Nuova lite Roma-Berlino. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 22 settembre 2023
La Germania torna ad attaccare il nostro paese accusandolo di non rispettare le regole di Dublino. L’Ue sblocca i soldi per la Tunisia: Il papa: «Chi non soccorre odia»
L’accusa ormai è di «scafismo di stato». Mentre sabato si aprono i festeggiamenti di Fratelli d’Italia a un anno dalla vittoria delle elezioni, ieri per il governo di centrodestra è arrivato l’ennesimo fallimento sul tema immigrazione. Sulla Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il decreto ministeriale che fissa una «garanzia» di 5.000 euro per i richiedenti asilo che vogliono evitare di rimanere nei centri per il rimpatrio.
In sintesi, nel periodo in cui viene esaminata la propria domanda di asilo, massimo 28 giorni, chi è senza documenti e proviene da un paese ritenuto sicuro, può decidere se rimanere del centro o uscire. In tal caso la somma stabilita, «è in grado di garantire allo straniero la disponibilità di un alloggio adeguato, sul territorio nazionale; della somma occorrente al rimpatrio; di mezzi di sussistenza minimi necessari, a persona».
La «garanzia finanziaria è prestata in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa», se poi «lo straniero» decidesse di allontanarsi «indebitamente» il prefetto procederà «all’escussione della stessa». Soldi nelle casse dello stato.
Le opposizioni, da Sinistra Italiana al Pd, attaccano definendola un’«oscenità». Questa ultima «crudeltà» del governo «cozza contro il diritto internazionale», ha detto la segretaria dem Elly Schlein. Riccardo Magi, di +Europa, ha definito per primo la procedura «scafismo di stato».
Sullo sfondo resta la volontà del governo che, nei giorni scorsi ha annunciato che verranno creati nuovi Cpr, affidando al ministro della Difesa, Guido Crosetto, il compito di costruirli. L’obiettivo è di realizzarne uno in ognuna delle 12 regioni dove attualmente non ci sono centri (ma c’è chi parla di 15).
E, come era prevedibile, l’idea non piace a nessuno. Tra i critici, anche il presidente del Veneto Luca Zaia (Lega), che ieri si è espresso in maniera netta: «Il Cpr non risolve il problema degli arrivi», inoltre «avremo più o meno 140-150mila persone che dovranno essere rimpatriate, e si consideri che mediamente ogni anno l’Italia riesce a far rimpatriare dalle 3.500 alle 4.000 persone, quando va bene». Per Zaia: «Stiamo affrontando il mare pensando di svuotarlo con un secchio».
Come riportato da Domani, secondo un report dei servizi segreti sono previsti per 2 milioni di persone spostamenti interni e verso l’Europa.
GERMANIA, UE E TUNISIA
Intanto la Germania ha rilanciato la propria linea dura contro Meloni. La ministra dell’Interno tedesca, Nancy Faeser, ha detto che «l’Italia non si attiene» al meccanismo «di riammissione» previsto dal trattato di Dublino. «E fino a quando l’Italia non lo farà, non accoglieremo più rifugiati». Nell’Unione Europea, ha spiegato, è stato concertato un meccanismo di solidarietà: Roma deve ora «venirci incontro» e adempiere ai suoi obblighi. Intanto sono stati sbloccati i fondi del Bundestag per il supporto dei migranti in Italia da parte della Comunità di Sant’Egidio e di una Ong che attua salvataggi in mare, che in serata si è scoperto essere la Sos Humanity.
Da palazzo Chigi sono arrivate le critiche per il progetto, confermato dal ministero degli Esteri della Germania e dalla Comunità. Fonti del governo hanno espresso «grande stupore». Il governo italiano, hanno spiegato, «prenderà immediatamente contatto con le autorità tedesche per un chiarimento». Stefano Candiani (Lega) ha detto che il finanziamento è stato fatto contro il governo: «È gravissimo che un paese come la Germania finanzi organizzazioni che operano in Italia per creare tensioni sui migranti e contrastare il governo italiano».
Al momento l’unico sostegno per Giorgia Meloni è quello della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. L’Unione europea ha deciso di sbloccare i fondi alla Tunisia, il principale paese da cui partono le persone migranti, «a sostegno dell’attuazione del memorandum d’intesa». Un «sostegno al bilancio della Tunisia di 60 milioni di euro e un pacchetto di assistenza operativa in materia di migrazione del valore di circa 67 milioni di euro». Questo primo pacchetto, ha assicurato Ana Pisonero, portavoce della Commissione per i partenariati internazionali, «riguarda la repressione delle reti di contrabbando illegale», con l’intenzione di procedere poi con il piano in 10 punti presentato a Lampedusa.
E sul tema ha fatto sentire la propria voce anche papa Francesco, in viaggio apostolico a Marsiglia: «Questo splendido mare è diventato un enorme cimitero, dove molti fratelli e sorelle sono privati persino del diritto di avere una tomba, e a venire seppellita è solo la dignità umana».
Davanti a noi, ha proseguito, «si pone un bivio: da una parte la fraternità», dall’altra «l’indifferenza, che insanguina il Mediterraneo». Quindi ha lodato le ong e ha riassunto: «Chi non soccorre odia». Ad ascoltare il papa, in prima fila, c’era Luca Casarini della ong italiana Mediterranea.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica e la gavetta giornalistica nella capitale, ha collaborato con Il Fatto Quotidiano e Roma Sette, e lavorato a Staffetta Quotidiana. Idealista.
Massimo Gramellini, bordata al governo: "Bello schifo". Ma sui 4.938 euro non la dice tutta. Il Tempo il 23 settembre 2023
Cambio di rete, stesso copione. Massimo Gramellini inizia il suo programma su La7, In altre parole, con un monologo contro il governo. Nel debutto di sabato 23 settembre, il giornalista del Corriere della sera parte dal tema dei migranti e dalla garanzia finanziaria di 4.938 euro prevista per non essere trattenuti nelle nuove strutture di controllo. Come spiegato oggi dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, questa misura "non riguarda le persone trattenute nei Cpr" ma le nuove "strutture di trattenimento di richiedenti asilo provenienti da paesi sicuri", la prima delle quali "sarà aperta domani a Pozzallo". Ma tant'è, Gramellini incalza: "4.938 euro. Questo è il prezzo della libertà che da oggi deve pagare un richiedente asilo proveniente da un paese ritenuto sicuro per non finire in un centro per il rimpatrio, il famigerato Cpr e ottenere un alloggio adeguato, implicitamente ammettendo che i Cpr adeguati non sono".
Il conduttore spiega che in alcuni di questi paesi come Tunisia, Ghana e Gambia lo stipendio medio mensile è di poche centinaia di euro. "Chi ha ideato questa legge sicuramente è una persona molto ispirata, le ipotesi non possono che essere tre: la prima, chi attraversa il Mediterraneo rischiando la pelle lo fa per raggiungere i suoi corposi conti in Svizzera - continua Gramellini - La seconda è che dopo gli uragani e il lavoro precario dagli Stati Uniti abbiamo importato anche la necessità di pagare una cauzione per non finire in galera, che tra l'altro sarebbe anche la conferma che Cpr vengono considerati dallo stesso legislatore delle galere... La terza ipotesi: questa norma fa parte di un più ampio accordo internazionale i cui beneficiari, speriamo involontari, sono le mafie che generosamente impresteranno i 4.938 euro ai poveri richiedenti asilo che poi passeranno il resto della loro vita a lavorare come schiavi per ripagare il favore". Dipinto questo quadretto, il giornalista conclude: "In altre parole, è un bello schifo". Peccato che, come ampiamente chiarito, la cauzione non riguarda i Cpr e l'introduzione della misura di una garanzia finanziaria per evitare i centri è stata chiesta dall'Unione europea, ma tant'è.
Cauzione per i migranti, anche il Pd la voleva. Il voto europeo che imbarazza Schlein. Il Tempo il 26 settembre 2023
Il "prezzo della libertà" a suo tempo ha raccolto il favore della sinistra europea. Parliamo della possibilità introdotta dal governo per i migranti provenienti da Paesi considerati sicuri d una cauzione di circa 5mila euro (precisamente 4.938 euro) per evitare la permanenza nei centri in attesa della valutazione della richiesta d'asilo. Ebbene, oggi Elly Schlein parla di "crudeltà inumana" (Elly Schlein), ma fu votata senza battere ciglio dagli eurodeputati del Pd e della sinistra e dai loro alleati europei il 12 giugno del 2013. A scovare il documento è Libero che parla di un successone, allora per la proposta della cauzione: "nell’aula di Strasburgo il divario tra favorevoli e contrari fu tale che il voto sulla 'direttiva Accoglienza' si svolse per semplice alzata di mano, senza bisogno dell’appello nominale, e dunque senza che restasse elenco dei pochi che si erano espressi contro".
Il Presidente del parlamento europeo era il socialista tedesco Martin Schulz (quello a cui Silvio Berlusconi diede del kapò, per intenderci) e, ironia della sorte, a opporsi fu solo un gruppo di esponenti della destra che comprendeva "Roberta Angelilli ed Elisabetta Gardini (elette col Ppe, poi entrate in Fdi), i leghisti Oreste Rossi, Mario Borghezio e Lorenzo Fontana, attuale presidente della Camera", ricorda il quotidiano. L'ipotesi era contenuta in un "provvedimento complesso, di 16 pagine e 34 articoli, ma il passaggio in cui si chiedeva agli Stati membri di prevedere una cauzione era chiarissimo. Articolo 8, punto 4: «Gli Stati membri provvedono affinché il diritto nazionale contempli le disposizioni alternative al trattenimento, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato»". Una misura analoga, con tutte le limitazioni del caso spiegate dal ministro Matteo Piantedosi, a quella decisa oggi dal governo.
Centinaia di minori sono bloccati negli hub di accoglienza italiani. Costretti a non fare nulla. Per la legge non potrebbero essere trattenuti più di 48 ore, invece ci restano mesi. In nome dell’emergenza. Così la loro salute mentale è a rischio. E tanti scappano. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 20 Giugno 2023
Sono bloccati in un limbo da cui non sanno come uscire. Per mesi, dopo aver attraversato il Mediterraneo a bordo di imbarcazioni di fortuna. Schiacciati come le speranze che avevano quando hanno deciso di partire, di lasciare casa e familiari alla ricerca di un futuro.
Sono centinaia i minori non accompagnati rinchiusi negli hub di accoglienza italiani, fermi, immobili, soli, privati della possibilità di fare qualsiasi cosa, anche se non hanno nessuno colpa. «Sono 200 solo nel centro Sant’Anna di Crotone», racconta Aouatif Mounchyne, operatrice e mediatrice culturale dell’ong di SOS Villaggi dei Bambini, la più grande Organizzazione a livello mondiale impegnata da anni affinché i minori che non possono beneficiare di adeguate cure genitoriali crescano in una situazione di parità con i propri coetanei.
«L’adolescenza è un periodo molto delicato. L’incertezza, l’insicurezza, l’inquietudine sono sentite con ancor più intensità da chi ha lasciato il proprio Paese per affrontare un viaggio lungo, difficile, in cui ha assistito e subito violenze. Per poi trovarsi solo in una terra straniera. Disorientato, smarrito. Così sono tanti i minori che cercano di scappare dai centri di accoglienza in cui restano bloccati per mesi. Perché mancano i tutori legali e le strutture idonee ad accoglierli. Anche se non hanno nessuno da cui andare, a cui chiedere aiuto, fuggono per tentare di costruirsi una vita».
Come ha fatto Amadou: 16 anni. Partito dalla Guinea è sbarcato nell’isola di Lampedusa lo scorso febbraio. Da lì è stato trasferito all’hub di Crotone dove è ancora in attesa. Alla fine di marzo è scappato: «La polizia l’ha riportato qui dopo averlo trovato che si muoveva senza una meta chiara tra i comuni del crotonese. Abbiamo cercato di spiegargli che fuggire non serve. Diventerebbe clandestino e perderebbe la possibilità di entrare a far parte della squadra di calcio locale. Il suo sogno. Per ora ha deciso di continuare ad aspettare. Ma non so quanto ancora resisterà».
Come spiega Mounchyne attendere, infatti, significa soffrire: «Un minore senza tutore non può fare niente. Neppure uscire dal centro. O andare a scuola, avere accesso agli ospedali. I servizi sociali intervengono solo in caso di emergenza. Così Amadou trascorre le giornate passeggiando: fa colazione, pranzo, cena e cammina». Stare senza fare niente tutto il tempo fa crescere anche il nodo alla gola: un pesante senso di colpa acuito dalle telefonate dei familiari che non conoscendo il contesto italiano incalzano i figli affinché si costruiscano una vita e inizino a lavorare. Anche per mandare i soldi a casa. Ma senza tutore i minori non possono neanche iniziare il processo di integrazione. Richiedere protezione, asilo, documenti.
«Per legge non potrebbero essere trattenuti negli hub di accoglienza per più di 48 ore. E invece ci restano mesi perché le strutture idonee ad accoglierli sono piene. Una procedura straordinaria che viene giustificata in nome dell’emergenza. Che però è routine» conclude Mounchyne. Che con SOS Villaggi dei Bambini promuove attività di supporto psicosociale all’interno dei centri, come sport e laboratori, per differenziare giornate che altrimenti sarebbe impossibile distinguere. Per adolescenti la cui salute mentale è già messa a durissima prova dalle esperienze affrontate prima di arrivare in Italia. Durante viaggi che in molti casi durano anni.
Lampedusa, la strage silente dei vigili del fuoco: «Diteci perché sono morti i nostri colleghi». Impennata di tumori e patologie cardiache tra chi ha lavorato nella caserma dell’isola, ma anche nel vicino aeroporto. I sospetti sul radar presente nella struttura e poi disinstallato. Ora, per i 32 malati e le 12 vittime, si chiede verità. Alan David Scifo su L'Espresso il 14 luglio 2023.
Al cimitero ormai pieno di Lampedusa, Antonello ha tanti amici cui deve dare un omaggio. Tra volti giovani e persone che avevano appena raggiunto la pensione, lui non riesce a trattenere un sospiro di rammarico per tutte quelle foto che ritraggono i suoi colleghi con le divise. «Ormai abbiamo paura pure ad andare in pensione, considerato quello che è successo agli altri. Ho l’ansia che possa accadere anche a me, il prossimo anno finirò il mio lavoro».
Da oltre 40 anni Antonello Di Malta presta servizio nella caserma dei vigili del fuoco dell’isola delle Pelagie e lì ha visto morire negli ultimi venti anni almeno sette colleghi, per tumore o per malattie cardiache, oltre ad altre cinque persone che lavoravano poco distante, nei pressi dell’aeroporto e nei pressi del radar su cui tutti hanno puntato l’attenzione.
Quel radar, installato subito dopo l’attacco libico all’isola avvenuto nel 1986, era parso subito sospetto, ma nessuno credeva che potesse essere la causa dei problemi di salute dei vigili del fuoco – oggi sono almeno 32 – che negli anni hanno lottato contro un tumore o contro malattie cardiache di ogni genere, molti rimettendoci la vita. A pensarlo, basandosi su quanto sperimentato sulla propria pelle, sono adesso tutti coloro che vivono sull’isola e che hanno lavorato nella caserma.
«Lavoravo con Bolino e La Greca (due colleghi morti per tumore ndr) – racconta Vincenzo Galazzo – e negli anni in cui hanno installato il radar avevamo sempre mal di testa, dolori cervicali e altri problemi di salute. Dopo diverso tempo ho deciso di fare dei controlli mirati e nel 2011 hanno scoperto un carcinoma al rene sinistro, che mi hanno tolto».
L’unico sopravvissuto del gruppo di colleghi con cui lavorava Vincenzo oggi racconta di come nessuno sospettasse nulla in quegli anni, nonostante i mal di testa continui che colpivano tutti i vigili del fuoco in servizio quando il radar era attivo. «Però qualcosa non ci convinceva – dice – perché quando era attivo il radar accusavamo disturbi nell’apparato radio, nelle comunicazioni e anche la televisione si spegneva, qualcosa non andava». I problemi finiscono alle soglie del 2000, quando quel radar posto a 400 metri dalla caserma viene smontato.
Nel cimitero di Lampedusa c’è anche Giuseppe La Greca, Pino per i colleghi, morto lo scorso anno dopo cinque mesi di lotta contro un tumore. «Lui aveva sempre mal di testa, abbiamo fatto dei controlli, ma non c’era niente». Vestita di nero e con uno sguardo smarrito, a parlare è Graziella, moglie di Pino, che ancora non si dà pace. «Due anni fa abbiamo scoperto il tumore per caso, per un dolore all’anca, ma già era in metastasi. Dopo 40 giorni di ricovero Pino è tornato a Lampedusa ed è morto a 61 anni». Una vita travagliata, quella raccontata dalla moglie, in cui ha subito anche un intervento a cuore aperto per due arterie lesionate: «Non capiamo cosa possa essere accaduto, ma adesso vogliamo capirlo».
In un’isola che vive in mezzo al mare senza fabbriche e inquinamento, il radar viene visto come la possibile causa dei problemi di salute che hanno colpito i vigili del fuoco. Cancro al cervello, ai reni, ai polmoni; tutte malattie diverse con cui ancora molti fanno i conti o per cui hanno subito interventi nella speranza che quel male non si ripresenti in forme diverse. «Io ho avuto dei problemi di cuore – spiega il vigile del fuoco Giuseppe Caranna – negli anni in cui lavoravo ero esposto al radar e come tutti avevo sempre mal di testa, tanto che mia moglie si era insospettita per il mio continuo malessere. Tutto è passato quando è stato disinstallato il radar. Non crediamo che sia solo una coincidenza».
Di questi casi, 32 patologie tra vigili e dipendenti dell’aeroporto (con almeno 12 persone morte), adesso si occupa anche il Senato con una interrogazione presentata da Dolores Bevilacqua (Movimento 5 Stelle), che annuncia pure una visita sull’isola: «È assurdo che in tutto questo tempo nessuno abbia mai affrontato la questione, vogliamo capire cosa è successo a Lampedusa e vedere anche se altri radar installati possano portare dei problemi di salute».
Vogliono chiarezza i vigili del fuoco rimasti in vita, la vogliono per i loro colleghi che oggi sono in quel cimitero sul mare e che hanno perso la vita proprio al momento della pensione: «Vogliamo risposte perché oggi abbiamo soltanto domande – dice ancora Di Malta, che è segretario provinciale Uilpa Vigili del fuoco – vogliamo sapere se quel radar ci ha danneggiati oppure cosa sia stato».
Una richiesta di informazioni rivolta agli enti sanitari e alla prefettura è però caduta nel vuoto e Antonello ha annunciato lo stato di agitazione finché non avrà risposte: «Questa estate mi metterò con una tenda davanti al Comune e metterò le foto dei colleghi che non ci sono più, ma anche degli altri, come i tre radaristi che lavoravano lì, oggi tutti morti, nella speranza che qualcuno ci ascolti». A un passo dalla pensione, Antonello non vuole fermare la sua battaglia e ha preparato un fascicolo sulle 32 persone tra morti e malati, scheda per scheda, nome per nome: «Lo dobbiamo a chi non c’è più, lo dobbiamo alle famiglie, lo dobbiamo all’amore per questo lavoro».
Nell’hotspot di Pantelleria il diritto è sospeso: migranti rinchiusi come fossero detenuti. «Non possono lasciare la struttura», si legge nel documento che la Prefettura di Trapani invia ad Asgi. Il testo scritto dalle autorità italiane certifica la detenzione illegittima. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 14 luglio 2023.
All’interno del Punto crisi non vengono eseguite le operazioni di identificazione. E visto che i migranti non sono ancora fotosegnalati, «non possono lasciare la struttura». Anche perché non ci sono proprio «gli strumenti di regolamentazione di entrata e di uscita».
Così si legge in un documento redatto dalla Prefettura di Trapani e inviato a Asgi, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, a proposito dell’hotspot di Pantelleria. Ufficialmente nuovo: attivo dall’agosto del 2022. Ma già da anni destinato al primo soccorso e all’assistenza delle persone migranti, che venivano trattenute informalmente all’interno dell’ex caserma Barone, struttura inagibile da decenni. Adesso fatiscente.
Così le autorità certificano con un testo scritto che le persone vengono detenute all’interno di un Punto crisi: «Una condizione di illegittima privazione della libertà personale che gli attori coinvolti nella gestione dei centri hotspot, a partire dalle istituzioni competenti, sembrano reputare come parte necessaria dell’identificazione, che attuano in assenza di base normativa e di convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Nel nostro ordinamento non ci sono previsioni legislative che permettono all’autorità di pubblica sicurezza di adottare provvedimenti provvisori di limitazione della libertà personale qualora ciò fosse funzionale all’identificazione dei cittadini stranieri o di organizzazione degli spostamenti delle persone migranti in strutture di accoglienza o di detenzione amministrativa. Si tratta di una privazione della libertà personale che, invece, è stata monitorata costantemente e che appare connaturata all’approccio hotspot dando luogo a trattenimenti contrari a quanto sancisce la Costituzione, nell’articolo 13», spiega Annapaola Ammirati, operatrice legale del progetto In Limine, che fa un punto sulle politiche di gestione delle frontiere e dell’accesso alle procedure di asilo.
A conferma che la detenzione dei migranti all’interno degli hotspot è illegittima c’è anche la condanna definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia. Arrivata lo scorso 10 luglio per i trattamenti inumani e degradanti che le persone hanno subito a Lampedusa: il trattenimento dei cittadini stranieri all’interno degli hotspot senza alcuna base di legge ha prodotto la violazione dell’articolo 5, diritto alla libertà e alla sicurezza, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. «ll trattenimento è ampiamente attuato all’interno dei centri hotspot durante le procedure di identificazione, determinazione della condizione giuridica e fotosegnalamento. In alcune circostanze, si prolunga anche dopo, cioè fino al trasferimento quindi all'inserimento in accoglienza se richiedenti protezione internazionale o all'inserimento nelle procedure finalizzate al rimpatrio se classificati come cittadini stranieri irregolari. Così le persone migranti permangono per tempi variabili in condizioni di isolamento e spesso in condizioni materiali inadeguate».
A quanto si capisce dal documento della Prefettura di Trapani questo è proprio quello che succede anche all’interno del nuovo Centro di Pantelleria, dove anche l’utilizzo del cellulare è contingentato: un piazzale d’asfalto su cui sono stati posti una decina di container bianchi che fungono da moduli abitativi. Per accogliere un massimo di 48 persone, che dormono impilate nei letti a castello. Senza neanche un spazio che sia pensato per la socialità. I migranti restano all’interno del centro fino a quando non viene organizzato il trasferimento per Trapani, dove avvengono le procedure di identificazione. I tempi, però, sono variabili: dipendono, ad esempio, dalle condizioni del meteo, del mare e dalle decisioni chi gestisce il centro.
Così, si legge nel report che Asgi l’anno scorso aveva realizzato subito dopo aver visitato la struttura adibita a primo soccorso e assistenza di Pantelleria, ci sono casi in cui i tempi di permanenza sarebbero arrivati anche a 30 giorni: «Tutte le testimonianze informali e di alcune associazioni hanno confermato che il centro nei fatti è chiuso. Sembrerebbe che alle persone migranti venga riferita l’interdizione dell’uscita dal centro. Tra gli abitanti dell’isola nessuna delle persone intervistate ha riferito di aver visto sistematicamente migranti muoversi. Il che è un’ulteriore conferma della chiusura di fatto del centro».
Secondo la Prefettura di Trapani, dal 4 agosto 2022 al 18 aprile 2023 dal Centro di Pantelleria sono transitati 4.507 migranti, di cui 661 minorenni. 381 sbarchi in 8 mesi. Dati che certificano l’aumento del flusso di persone che arrivano sull’isola su cui vivono poco più di 6.600 abitanti, che dista solo 65 chilometri dalla Tunisia (Lampedusa 110). In tutto il 2021 gli sbarchi a Pantelleria erano stati 211, le persone arrivate 2.555. «Secondo quanto riferito durante il sopralluogo, la struttura sarebbe stata caratterizzata in alcuni momenti anche da situazioni di grave sovraffollamento», conclude Ammirati a proposito dell’hotspot la cui organizzazione, in attesa dell’espletamento delle procedure per l’affidamento alla Cooperativa che ha vinto la gara, è affidata da mesi al Comune di Pantelleria che non dispone di operatori formati per la gestione dell’accoglienza.
Lampedusa, l'hotspot e i documenti mancanti: le accuse della Prefettura. Un solo operatore ogni 120 migranti, 15 euro al mese destinati alla pulizia del centro e un finanziamento di quasi 800mila euro per un anno. La Prefettura parla di "reiterate irregolarità" ma Badia Grande è ancora il gestore dell'hotspot nonostante la convenzione sia scaduta lo scorso febbraio. Bianca Leonardi il 10 Maggio 2023 su Il Giornale.
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La gestione dell'hotspot
Le lettere in esclusiva
I soldi stanziati
Numeri record quelli dell’hotspot di Lampedusa tanto che, proprio nei giorni scorsi, grazie al tour de force della Questura di Agrigento e dell’operato del commissario straordinario per l’immigrazione, Valerio Valenti, è stato quasi completamente svuotato. I migranti erano arrivati, la scorsa settimana, a 3.300. A prescindere dallo smistamento sul territorio dei nuovi arrivati c'è da sottolineare che la gestione dell’hotspot che sembrerebbe essere alquanto lacunosa da anni. L’ente gestore è la cooperativa Badia Grande che, il 10 settembre 2019, ha stipulato una convenzione con la prefettura di Agrigento. "L'appalto ha per oggetto la fornitura dei beni e la gestione dei servizi previsti nel capitolato di appalto dei servizi di accoglienza", si legge nei documenti in possesso de IlGiornale.it. E ancora: "Il CPSA/Hotspot di Lampedusa ha attualmente una capienza complessiva non superiore a 96 posti".
La gestione dell'hotspot
Nei documenti, sotto la sezione della gestione amministrativa, sono ben chiare le "regole" a cui Badia Grande è sottoposta durante la gestione. Una, tra le tante, è "la comunicazione giornaliera alla Prefettura, secondo le modalità dalla stessa indicate, delle presenze giornaliere nel centro, degli allontanamenti non autorizzati e dei beni e dei servizi erogati". Stessa cosa per i costi: Badia Grande, durante la gestione deve comunicare "gli importi fatturati in bolletta e la trasmissione delle bollette alla Prefettura per la liquidazione con attestazione che i consumi si riferiscano all’attività del centro".
Insomma, la gestione sia tecnica che amministrativa, ma anche finanziaria dell’accoglienza deve passare alla Prefettura mediante report redatti dall'ente gestore.
Le lettere in esclusiva
IlGiornale.it è entrato però in possesso di alcune lettere scambiate tra l'avvocato romano Giulia Cesarini e la Prefettura di Agrigento, con in copia anche il ministero dell'Interno, Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione che sembrerebbero smentire la prassi. La prima è datata 29 settembre 2022 e ha come oggetto: "Istanza di accesso civico ai documenti amministrativi ai sensi del D.lgs. 33/2013 - gestione Hotspot Lampedusa". In pratica, l’avvocatura di Roma aveva chiesto alla Prefettura siciliana delucidazioni sulla gestione di Badia Grande con una nota del 27 settembre 2022.
“Allo stato attuale non si trova nella disponibilità materiale di questa Prefettura, in quanto non ancora trasmessa dall’Ente gestore dell’Hotspot”, rispondono da Agrigento riservandosi di “trasmettere quanto richiesto non appena nella disponibilità di questa prefettura”.
La seconda lettera è di cinque mesi dopo, esattamente il 14 febbraio 2023 e l’oggetto è lo stesso e cioè “la richiesta di riesame avverso la mancata risposta di accesso ai documenti amministrativi”. Insomma, della gestione di Badia Grande, nell’hotspot di Lampedusa dal 2022, non c’è traccia. La prefettura infatti, si legge, afferma che "non è possibile corrispondere alla richiesta in argomento avverso che questa Prefettura non è in possesso della documentazione richiesta. Si rappresenta infatti che la cooperativa Badia Grande non ha fatto prevenire a questo ufficio i monitoraggi e i report periodici. Si fa, altresì, presente che questa’Ufficio ha contestato irregolarità e irrogato numerosi sanzioni all’ente gestore proprio in merito a reiterate irregolarità e che è in via di definizione la procedura per lo scioglimento del vincolo contrattuale”.
Quindi, nessuna informazione - dal primo marzo 2022 - sulla gestione dei migranti dell’Hotspot Lampedusa è pervenuta all’organo competente, nonostante proprio nello stesso anno i finanziamenti che Badia Grande ha ricevuto ammontano a poco più di 778mila euro, con una cadenza mensile per tutto il corso dell’anno. Al momento, date le "reiterate irregolarità", come scrive la Prefettura nella lettera, la stessa ha indetto un nuovo bando per affidare la gestione a un altro gestore di cui però, almeno formalmente, non si hanno notizie.
Il commissario Valenti ha fatto sapere ad AgrigentoToday, proprio due giorni fa, che "fra una decina di giorni la gestione dell’hotspot di Lampedusa passerà alla Corte Rossa Italiana". In realtà la gestione di Badia Grande è scaduta già da mesi, lo scorso febbraio, ma la gara indetta della Prefettura, che doveva vedere il nuovo vincitore lo scorso 14 aprile è al momento bloccato. La Prefettura ha fatto rimandato l’appuntamento "a data da destinarsi".
I soldi stanziati
Altra storia è poi la gestione di Badia Grande all’interno del centro. Nel documenti di cui IlGiornale.it è entrato in possesso si legge infatti come e quanto i soldi sono stati utilizzati. Un esempio su tutti riguarda la pulizia degli ambienti, tema fondamentale considerato l’enorme mole di persone che passano dall’Hotspot: la spesa è di 55 centesimi al giorno, a prescindere che siano presenti 25 migranti o 450. Facendo un conto si stimano 3.85 euro a settimana, 15,40 euro al mese e quindi solo 200 euro all’anno per la pulizia degli ambienti, e questo non cambia a seconda del numero dei presenti.
Stesso andazzo per la cura dei bambini, per i pannolini vengono destinati infatti solo 16 centesimi al giorno, sempre a prescindere dal numero delle persone presenti. Per quanto riguarda la pulizia delle “camere” dove dovrebbero essere sistemati i migranti, il cambio di lenzuola e la santificazione della zona - stando alle “regole” - deve avvenire “secondo necessità”. Ciò implica che non c’è nessun obbligo da parte dell’ente gestore di garantire un ambiente pulito ad ogni nuovo arrivo.
E per quanto riguarda gli operatori che concretamente dovrebbero gestire gli ospiti si parla di un organico praticamente insufficiente per garantire il controllo. Sono previsti infatti solo dieci figure per 1.200 posti, in pratica un solo operatore dovrebbe gestire 120 migranti ogni giorno.
E se è vero che ad oggi si parla solo di “urgenza”, è vero anche che la gestione dei grandi centri accoglienza - in questo caso l’Hotspot di Lampedusa che è proprio il primissimo posto dove arrivano i migranti in Italia - non è sicuramente un’emergenza, ma anzi una condizione che sembrerebbe essere stata lasciata alla distrazione da ormai troppi anni.
Cosa prevede l'accordo sui migranti Italia-Albania. Linda Di Benedetto su Panorama martedì 7 novembre 2023.
Al massimo 40 mila migranti sosteranno per il tempo necessario allo smaltimento delle pratiche in due centro di accoglienza in territorio albanese ma gestiti e costruiti dall'Italia L'Italia ha firmato con l'Albania un protocollo d'intesa per la gestione dei flussi migratori che entrerà in vigore dalla primavera del 2024. Un accordo sottoscritto dal premier Giorgia Meloni e dal primo ministro albanese Edi Rama che dà la possibilità all'Italia di utilizzare alcune aree in territorio albanese come il porto di Shengjin e l'area di Gjader per realizzare, a nostre spese e sotto la nostra giurisdizione, due strutture dove gestire l'ingresso, l'accoglienza temporanea, la trattazione delle domande d'asilo e di eventuale rimpatrio degli immigrati. Una novità assoluta dato che si tratta del primo accordo che interessa un paese che non fa parte dell'Unione Europea
I migranti, si prevede fino a 40 mila l'anno, potranno rimanere nei due centri di accoglienza tutto il tempo necessario per espletare le procedure previste. All'Albania spetterà il compito di collaborare con le sue forze di polizia per la sicurezza e la sorveglianza esterna delle strutture. L'accordo è stato raggiunto dopo la serie di problemi riscontrati con l'accordo tra UE e Tunisia, fonte di non poche critiche da parte del Consiglio dell'Unione europea alla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen. I DETTAGLI DELL'ACCORDO Il protocollo non verrà applicato agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani ma a quelli salvati nel Mediterraneo da navi italiane, come quelle di Marina e Gdf, non quelle delle ong. Non si applica a minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili. Nel dettaglio, al porto di Shengjin, l'Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening. A Gjader, nel nord ovest dell'Albania, realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. Nella conferenza stampa congiunta con Giorgia Meloni, Edi Rama ha affermato che " l'Albania, pur non essendo uno Stato dell'Unione europea, è un Paese europeo e ciò non ci impedisce di vedere il mondo come europei e se possiamo cerchiamo di dare una mano e aiutare a gestire una situazione difficile per l'Italia".
Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” giovedì 9 novembre 2023.
L'accordo bilaterale Italia-Albania sui centri di accoglienza per migranti sul territorio albanese?
«Senza una legge di ratifica che armonizzi il protocollo con le leggi italiane in vigore e le norme dell'Unione europea, l'accordo sarebbe giuridicamente inattuabile».
Silvia Albano, giudice presso il tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione e membro del comitato direttivo centrale dell'Anm, boccia, in punta di diritto, l'intesa siglata dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni con il premier albanese Edi Rama.
Che cosa c'è di sbagliato, da un punto di vista giuridico, nel protocollo?
«In base all'articolo 80 della Costituzione l'accordo andrebbe ratificato in Parlamento perché non solo viola le leggi nazionali ma prevede anche investimenti onerosi per le finanze statali. L'accordo inoltre sembra stridere con diverse norme di legge».
Quali?
«Quelle sulla giurisdizione e sulla competenza, sul territorio dove possono essere realizzati i centri di accoglienza e gli hotspot, sul territorio ove può essere proposta la domanda di asilo. Se pure venisse ratificato dal Parlamento resterebbero molti problemi perché comunque le norme europee non sono derogabili dalla legge ordinaria italiana. Senza contare che mi sfugge il senso di avviare una struttura in Albania con costi importanti, da quelli della costruzione a quelli di trasporto, a quelli relativi al personale che dovrebbe essere lì allocato: mediatori culturali, avvocati, indennità di trasferimento all'estero per il personale italiano, sapendo benissimo che comunque in ogni caso i migranti dovranno prima o poi tornare in Italia».
In che senso?
«In base al protocollo, il centro in Albania è destinato solo alla fase del trattenimento. Poi, sia che venga accolta la richiesta di asilo dei migranti sia che debbano essere rimpatriati, devono comunque venire in Italia».
E per quanto concerne la richiesta d'asilo?
«La Corte di giustizia dell'Unione europea esclude che possa essere presentata fuori da uno Stato membro. In base alle direttive può essere proposta sul territorio di uno stato membro, nelle zone di frontiera o di transito. Si è escluso possa essere proposta anche nelle Ambasciate. L'Albania non è né una zona di transito né di frontiera».
Ma al centro in Albania potrebbe essere attribuito uno statuto di extraterritorialità. Questo aggirerebbe l'ostacolo?
«No, perché in base alla sentenza della Corte di giustizia europea del 7 marzo 2017 è esclusa l'ipotesi che le richieste di protezione internazionale vengano presentate nelle sedi diplomatiche, nelle ambasciate».
In altre parole in Albania non si potrebbero avanzare richieste d'asilo?
«Proprio così: la richiesta di protezione internazionale va presentata alla polizia di frontiera o alla questura e inoltre la commissione territoriale che si deve esprimere è istituita presso le prefetture».
Ma non si potrebbero creare delle sedi italiane distaccate sul territorio albanese?
«Anche se fosse possibile, rimarrebbe comunque il problema che l'Albania non è Stato membro dell'Ue e neppure una zona di transito o di frontiera. Senza dimenticare, inoltre, che il giudice convalida il trattenimento del migrante entro 48 ore altrimenti ne ordina la liberazione, e il migrante dove andrebbe? Dovrebbe inevitabilmente tornare in Italia.
E ancora sarebbe necessario stabilire quale tribunale italiano avrebbe la competenza sul regime di trattenimento di questi centri e sulle domande di asilo che dovessero essere proposte lì. L'unico dato certo è che attualmente non hanno competenza sull'Albania».
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Migranti, l'Italia porterà i clandestini in Albania. Accordo per due cpr. Il Tempo il 6 novembre 2023
Il prossimo anno circa 40mila migranti destinati ad arrivare sul territorio italiano saranno invece dislocati in Albania dove saranno realizzate due strutture di ingresso e accoglienza temporanea. Sono questi i numeri che caratterizzano il protocollo d'intesa tra Roma e Tirana in materia di gestione dei flussi migratori siglato a palazzo Chigi dal premier Giorgia Meloni e dal primo ministro della Repubblica d'Albania, Edi Rama, che ha rivelato come l'accordo sia "nato quando Giorgia avrebbe dovuto fare le vacanze". Il riferimento è alla visita del presidente del Consiglio fatta a cavallo di Ferragosto nella residenza privata estiva di Rama, a Valona. Un incontro che, fanno notare fonti di palazzo Chigi, "è stato narrato come una semplice vacanza" e che invece è servito per chiudere l'intesa. "Altro che aperitivi...", viene aggiunto sottolineando che si tratta di un "accordo storico non solo per l'Italia ma per tutta l'Ue".
Il protocollo, ha spiegato Meloni nel corso delle dichiarazioni congiunte, si pone tre obiettivi: "Contrastare il traffico di esseri umani, prevenire i flussi migratori irregolari e accogliere solamente chi ha davvero diritto alla protezione internazionale". L'accordo consiste nel fatto che l'Albania darà la possibilità di utilizzare alcune aree del proprio territorio nelle quali l'Italia potrà realizzare, a proprie spese e sotto la propria giurisdizione, due strutture dove allestire centri per la gestione dei migranti illegali. Nel porto di Shengjin e nell'area di Gjader sorgeranno quindi due strutture di ingresso e accoglienza temporanea che potranno accogliere fino a tremila persone, 39mila in un anno, per espletare celermente le procedure di trattazione delle domande di asilo o eventuale rimpatrio. Il protocollo non si applicherà agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani ma a quelli salvati in mare da navi ufficiali italiane, come quelle di Marina e Guardia di finanza, non quelle delle Ong.
"Voglio anche dire che questa possibilità non riguarda però minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili", ha quindi precisato Meloni spiegando che nel porto di Shengjin si realizzerà un centro di prima accoglienza dove operare una prima attività di screening, mentre a Gjader ci sarà una seconda struttura modello Cpr per le successive procedure. "Sono centri che contiamo di rendere operativi per la primavera del 2024", ha aggiunto evidenziando il fatto che "l'Albania collabora con le sue forze di polizia sul fronte della sicurezza, sul fronte della sorveglianza esterna delle strutture". Per Meloni, che ha esibito per l'occasione un nuovo taglio di capelli (un long bob), si tratta di un "accordo di respiro europeo, una soluzione innovativa che confido possa diventare un modello da seguire per altri accordi di collaborazione di questo tipo". Anche perché, ha ricordato, l'immigrazione illegale di massa è un fenomeno che gli stati membri dell'Ue "non possono affrontare da soli" e perciò la collaborazione tra stati Ue e stati "per ora" extra Ue può essere "decisiva".
La strana coppia. Edi Rama spiega che l’accordo tra Albania e Italia sui migranti è un atto di riconoscenza. Linkiesta il 7 Novembre 2023
In una intervista a Repubblica il premier albanese ha chiarito che il protocollo d'intesa tra i due paesi in materia di gestione dei flussi migranti non prevede contropartite politiche
Dalla primavera del 2024, i migranti salvati nel Mediterraneo dalle navi italiane saranno trasferiti in due nuovi centri di accoglienza fatti costruire dal nostro paese in Albania. Questo protocollo d’intesa storico non avrà contropartite, ma è un «atto di riconoscenza» verso il nostro paese. Lo ha chiarito il premier albanese Edi Rama, spiegando che non si tratta di un accordo politico per rendere più facile il suo ingresso nell’Unione europea. «Quando l’Italia ha bisogno, noi diamo una mano e siamo onorati di farlo. Perché l’Italia ci ha mostrato così tanto rispetto, ci ha dato una grande mano non una volta ma tante volte, ci ha accolti a braccia aperte quando sfuggivamo dall’inferno. Ho sempre avuto rapporti molti buoni con tutti i premier italiani. In trentadue anni di Albania libera e democratica tutti, di destra e di sinistra, si sono mostrati pronti ad aiutarci. Tutti. L’Italia è stata il più grande avvocato del nostro Paese in sede europea. Per me è un onore aver intessuto questa amicizia profonda con tutti i capi di governo italiani».
Rama ha spiegato che l’Italia si occuperà totalmente della realizzazione e della gestione dei centri che potranno accogliere fino a tremila persone, circa trentanovemila in un anno, ma le strutture devono ancora essere costruite. Nel porto di Shengjin l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione, mentre nel porto Gjader realizzerà una struttura sul modello dei centri per rimpatrio. Di questo protocollo «Giorgia me ne aveva parlato prima dell’estate, poi abbiamo avuto una conversazione a Ferragosto, quando è venuta in Albania. Con lei mi trovo bene perché è una persona vera e una che è veramente la stessa in televisione e quando parla a quattr’occhi. Lei dice quello che pensa e pensa quello che dice. È un politico speciale. Avevamo altre richieste, da Paesi diversi, ma non potevamo dire no all’Italia. L’Italia investe già parecchio in Albania ma potrebbe farlo molto di più. Tuttavia, non è per questo motivo che adesso abbiamo deciso di aiutare il vostro Paese ma per puro e semplice spirito di amicizia. È così che le amicizie si nutrono e si affermano».
Nella conferenza stampa a Palazzo Chigi, Meloni ha negato una contropartita economica all’Albania, i fondi saranno solo diretti all’organizzazione e alla gestione dei centri, ma allo stesso tempo la presidente del Consiglio ha assicurato che l’Italia sosterrà con l’ingresso dell’Albania nell’Ue: «Si conferma una nazione amica e nonostante non sia ancora parte dell’Unione si comporta come se fosse un Paese membro».
Cos’è la destra, cos’è la sinistra…
Giuliano Foschini per “la Repubblica” - Estratti giovedì 9 novembre 2023.
«Come si dice? Andare nella bocca del lupo. Anzi: dell’Aquila». Si affida al sarcasmo, «perché sarebbe difficile trovare parole diverse », uno degli investigatori italiani che meglio conosce la linea che c’è tra criminalità organizzata e immigrazione clandestina nel nostro Paese. Una linea che parte dall’Italia.
E una volta su due finisce proprio in Albania, dove Giorgia Meloni vuole trovare la risoluzione ai nostri problemi. In sostanza stiamo portando migliaia di migranti dove, secondo le nostre forze di Polizia, esiste una mafia che ne controlla e organizza i traffici illegali.
«L’immigrazione clandestina e il traffico di essere umani» scrive la Direzione investigativa antimafia nel suo ultimo report, «è uno dei business principali dei gruppi criminali albanesi. Il modus operandi adoperato vede le organizzazioni impegnate nella traversata dai litorali albanesi, attraverso il Canale d’Otranto, di imbarcazioni con numerosi migranti prevalentemente iraniani, pakistani, iracheni, egiziani, siriani e afghani».
Proprio quelli che il Governo vuole recuperare nel Mediterraneo e portare sulle coste albanesi. «Il tratto di approdo — continua ancora la Dia — più frequentemente utilizzato dagli scafisti è costituito dalle coste del basso Salento e, in particolare, quello di Santa Maria di Leuca, con sbarchi anche sulle coste joniche».
(...)
Ed è proprio il trasferimento illecito di denaro, il grande tema del riciclaggio, l’enorme punto interrogativo che si spande dietro l’operazione Albania voluta dal governo Meloni. Da tempo l’esecutivo di Edi Rama, per il tramite anche di importanti lobbisti, primo tra tutti l’ex premier inglese Tony Blair (di casa a Tirana), cerca sponde in Europa per portare il suo paese all’interno dell’Unione.
Operazione difficile proprio per i ripetuti alert che le agenzie dell’antiriciclaggio sollevano sull’Albania, che pure sta facendo sforzi con la Procura speciale contro la criminalità organizzata e la corruzione (Spak). Ma evidentemente non basta. È un fatto ormai che la criminalità organizzata albanese rappresenti uno dei principali allarmi mondiali. Lo hanno documentato decine di inchieste condotte prima in Italia poi nel resto di Europa.
Lo ripetono da tempo tutti i principali esperti di mafia: dal procuratore distrettuale, Giovanni Melillo, all’attuale numero capo della procura di Napoli, Nicola Gratteri, che quando era ancora in Calabria aveva individuato i gruppi di Tirana come gli unici veri rivali dei calabresi in tema di traffico di cocaina.
Oggi gli albanesi — i cui clan malavitosi hanno strutture familistiche rigide, e dunque molto difficilmente penetrabili — sono forse i soli, o comunque quelli meglio attrezzati, in grado di parlare direttamente con i narcos sudamericani e occuparsi del trasporto di tonnellate di droga in Europa. Hanno preso i porti di Anversa, Rotterdam, Amburgo.
Hanno infiltrato i paesi arrivando ai piani più alti: in Ecuador esiste un allarme specifico sul grado di corruzione della classe dirigente per mano dei clan di Tirana, tirati in ballo anche per l’omicidio di Fernando Villavencico, candidato presidente ucciso mentre era in campagna elettorale e chiedeva il pugno duro contro il lungo corridoio di coca e sangue (decine gli omicidi in questi anni) che si è formato tra Guayaquil, la città più popolosa dell’Ecuador, e Tirana.
Il traffico ha prodotto miliardi di euro nelle casse delle famiglie albanesi che sfruttando la non irreprensibile normativa antiriciclaggio del Paese stanno investendo dove possono. Il risultato è sotto gli occhi di chiunque faccia un giro per le città albanesi: ragazzini con le super car, investimenti incredibili sul real estate. E ora anche il grande boom del turismo che, come documentano indagini in corso in Italia, è il perfetto canale per riciclare denaro. Tutti temi che sono rimasti fuori dalle dichiarazioni al miele della premier Meloni con il collega Rama, oggi come nei mesi scorsi quando la presidente del Consiglio abbandonò le sue vacanze pugliesi proprio per andare a fare visita dall’altra parte dell’Adriatico all’amico albanese.
Creando non pochi imbarazzi politici: i socialisti europei, di cui Rama fa parte, si preparano proprio la prossima settimana a un incontro in vista delle prossime elezioni e si trovano con uno dei loro a braccetto con una delle principali esponenti sovraniste. Quanto è stretto il mare.
Il Pd vuole Edi Rama fuori dal Pse, strappo dopo l’intesa con Meloni sui migranti. Lorenzo De Cicco su La Repubblica il 9 novembre 2023
Al vertice dei socialisti di Malaga i dem chiederanno l’espulsione del Pssh, il partito del leader albanese. Provenzano: “Traditi i nostri valori”. La difesa: “Rispettiamo il diritto, altri Paesi ci avevano chiesto aiuto”
Edi Rama fuori dal Partito socialista europeo. Il Pd è pronto a protocollare la richiesta di espulsione dal Pse per il premier albanese e il suo Pssh, il partito socialista d’Albania. Lo annuncia a Repubblica Peppe Provenzano, responsabile Esteri della segreteria Schlein: «Porremo la questione al congresso del Pse», che si terrà domani e dopodomani a Malaga, alla presenza di tutti i big socialisti del continente, dal premier spagnolo Pedro Sanchez al cancelliere tedesco Olaf Scholz.
Da mito a reietto. Adesso la sinistra vuole cacciare Rama per l'assist all'italia. Il caso agita il congresso del Pse. Il Pd frena sulla espulsione: "Ma c'è un tema politico". Paolo Bracalini il 10 Novembre 2023 su Il Giornale.
Da leader illuminato della sinistra europea a complice della destra xenofoba. Su Edi Rama, un tempo promessa del progressismo balcanico, pende la condanna politica dei Socialisti europei dopo l'accordo con il governo italiano sui migranti. Il premier albanese era già entrato nella lista dei sospetti la scorsa estate, quando aveva ospitato la Meloni per una vacanza. Troppa familiarità, anche se abituale per Rama, molto attento ai rapporti con l'Italia, partner fondamentale per Tirana. Ma la sua posizione si è compromessa definitivamente con il patto per realizzare due centri di accoglienza in Albania destinati ai migranti salvati in mare da navi italiane.
Un assist all'Italia, e quindi anche al governo italiano, considerato inaccettabile per la sinistra europea. «L'aver firmato un memorandum con Meloni è come aver fatto un alleanza con l'estrema destra, una cosa che la famiglia socialista europea non può tollerare», dicono dal gruppo socialista del Parlamento europeo, che ha già sospeso il premier slovacco Robert Fico per le posizioni troppo sovraniste e filo-putiniane, e si prepara a fare lo stesso con Edi Rama. Proprio oggi a Malaga, in Spagna, inizia il congresso del Pse, presente lo stato maggiore del pd a partire da Elly Schlein. Il premier albanese invece non ci sarà, «in quanto impegnato al Forum della Pace di Parigi. Sui giornali filo-Pd si diffonde la notizia che al congresso Pse i dem chiederanno ufficialmente l'espulsione del Pssh (partito socialista d'Albania), il cui presidente è appunto Rama. Il quale in Albania, per lo stesso motivo dell'accordo sui migranti, è contestato dall'opposizione di destra. «Cercare di aiutare l'Italia in questa situazione, dove nessuno in Europa sembra avere una soluzione condivisibile da tutti forse non e il massimo, ma è sicuramente il minimo che l'Albania deve e può fare - scrive Rama in un tweet - Se poi questo non è di sinistra in Italia, pazienza, sembra che non e neanche di destra in Albania. Forse è semplicemente giusto». Il Pd però aggiusta il tiro sulla richiesta di espulsione. Per il vicesegretario dem Peppe Provenzano spiega che il partito non ha presentato alcuna richiesta all'assemblea del Pse, ma solo «posto un tema politico», quello «delle compatibilità tra questo genere di accordi e i principi del socialismo europeo».
Nel Pd si sviluppa un dibattito. «Mi pare sbagliato chiedere l'espulsione di Edi Rama dal Pse. Ci sarà pur diritto a opinioni diverse!» scrive Pierluigi Castagnetti, ex Pd di corrente prodiana (oltrechè cattolica). Gli risponde sempre sui social Andrea Orlando, deputato ed ex ministro: «È un accordo che viola diritti fondamentali». Finito il mito del leader socialista che risolleva l'Albania dalla povertà e dalla criminalità, Rama è l'indagato speciale della sinistra e un nuovo tema di divisione dentro il Pd. A difendere il premier socialista albanese è il centrodestra italiano. «Sconsiderato chiederne la cacciata» dice il ministro Francesco Lollobrigida, «paradossale» secondo il capo delegazione di Fdi al Parlamento europeo, Carlo Fidanza. «Se la cosa non fosse tragica, ci sarebbe da ridere» commenta la senatrice azzurra Stefania Craxi, presidente della Commissione Esteri.
Albania, l’ex presidente Berisha: «Un accordo pericoloso. Danni al nostro turismo e c’è il rischio xenofobia». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera mercoledì 8 novembre 2023.
Il leader del centrodestra albanese: «L’Albania è un Paese ospitale, ma teme che possano amplificarsi sul suo territorio i problemi già visti altrove»
Sorride Sali Berisha, 79 anni, ex primo ministro e presidente dell’Albania, tutt’oggi parlamentare e leader del centrodestra albanese: «Ma voi avete presente Shëngjin, dove Edi Rama e Giorgia Meloni vorrebbero insediare uno dei due centri per migranti?».
No, presidente.
«D’estate Shengjin è uno dei posti più frequentati da turisti e imprenditori italiani, quest’anno c’è stato un vero boom, alberghi e resort, spiagge affollate. Magari la presidente Meloni, che rispetto tantissimo, l’ha fatto apposta, così gli italiani torneranno a fare le vacanze in Italia...».
Quest’estate anche la premier italiana è stata in Albania...
«È stato un grande onore per tutti noi che sia venuta a passare qualche giorno di vacanza in Albania. E ha fatto benissimo, secondo me, anche a prendere l’aperitivo con Edi Rama, ma si sarebbe dovuta fermare lì».
L’hanno chiamato il patto dello spritz.
«Io ho tanti amici in Forza Italia, nella Lega, in Fratelli d’Italia anche se non conosco personalmente Giorgia Meloni. Però, davvero, secondo me l’accordo sui migranti è molto pericoloso per tanti motivi».
Quali?
«Beh, ho paura ad esempio che possa aumentare la xenofobia e non vorrei neanche vedere un giorno proteste in piazza contro l’Italia. L’Albania è un Paese ospitale, accogliente, non c’è razzismo, ma è anche un Paese piccolo che teme perciò possano amplificarsi sul suo territorio i problemi già visti in altri Paesi dove sono nati questi centri. Penso alla Germania, alla stessa Italia, dove sono accaduti furti, violenze sessuali. La notizia, per esempio, che da Lampedusa arriveranno in Albania solo migranti maschi adulti è stata accolta con preoccupazione. Eppure Edi Rama appena due anni fa promise pubblicamente che mai il nostro Paese avrebbe ricevuto migranti dai ricchissimi Stati occidentali».
Ha detto di averlo fatto solo per un senso di amicizia e di gratitudine verso l’Italia.
«Edi Rama pensa solo al suo potere, ai suoi interessi, temo che approfitterà personalmente del sostegno economico che arriverà dall’Italia. La nostra Corte costituzionale dice che per assegnare l’extraterritorialità a un luogo ci vuole l’autorizzazione del presidente della Repubblica. Edi Rama invece ha fatto tutto da solo, in segreto, senza un mandato. Spero intervenga la Corte di Strasburgo e annulli tutto».
Dice così perché Rama è socialista e lei del Partito democratico, di centrodestra, e siete avversari politici?
«Non è così. Quando io ero premier conducemmo una lotta durissima contro i trafficanti di uomini, fino a sbarazzarcene. Ora, col nuovo governo, gli scafisti sono tornati nei nostri mari e non vorrei che queste migliaia di migranti in arrivo dall’Italia costituissero un nuovo business. E ancora: nell’accordo si dice che saranno rispettati i diritti umani. Ma Edi Rama non rispetta neppure i diritti delle opposizioni: io non posso più uscire dal Paese!».
Su di lei, presidente Berisha, pendono accuse gravi di corruzione.
«Accuse senza prove, frutto di una macchinazione delle lobby. George Soros è contro di me».
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” mercoledì 8 novembre 2023.
Sedici milioni e mezzo l’anno per cinque anni rinnovabili tacitamente per altri cinque. E un fondo di garanzia di 100 milioni (secondo indiscrezioni di stampa albanese) da versare su un conto corrente per il ristoro di tutte le spese che l’Albania sosterrà: dall’impiego delle forze di polizia locali per la sicurezza esterna alle spese sanitarie, dai trasporti ad eventuali spese sanitarie.
E soprattutto l’assicurazione che nessun migrante metterà mai piede su suolo albanese né durante né dopo il suo trattenimento nei centri che l’Italia realizzerà. Tanto, più tutte le spese che naturalmente dovrà sostenere per la realizzazione e la gestione dei centri, per il personale italiano dedicato, per i trasporti dal Mediterraneo all’Albania e poi dall’Albania all’Italia, costerà l’accordo bilaterale che la premier Giorgia Meloni ha firmato con quello albanese Edi Rama.
Il testo dell’accordo […] è venuto fuori ieri sera dopo l’anticipazione da parte di un sito albanese. Nove pagine, 14 articoli e due allegati: il protocollo prevede che l’Albania metta a disposizione le aree per la realizzazione dei centri e l’Italia si faccia carico dei costi di tutto. La sicurezza all’esterno sarà assicurata dalle forze di polizia albanesi mentre all’interno ci sarà solo personale italiano.
[…] i migranti potranno rimanere su territorio albanese il tempo tassativamente necessario all’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Dunque 30 giorni. In altre parole, dopo un mese, i migranti che l’Albania accetta di far entrare nei centri sul suo territorio dovranno o essere rimpatriati, ovviamente a spese e per conto dell’Italia, o essere comunque portati in Italia. E non potranno essere più di 3.000 contemporaneamente.
E qui si addensano le nubi del diritto, nazionale ed europeo. […] il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi precisa che il secondo dei due centri che saranno realizzati in Albania «non sarà un Cpr ma un centro per il trattenimento dei richiedenti asilo provenienti da Paesi sicuri, come quello di Pozzallo ».
L’altro potrebbe essere affidato in gestione alla Croce Rossa. Uno straordinario paradosso se si pensa che, dopo le tre sentenze che hanno confermato quella della giudice catanese Iolanda Apostolico liberando i richiedenti asilo trattenuti in attesa delle procedure rapide di frontiera, il Viminale ha prudentemente deciso di soprassedere su questa norma del decreto Cutro. E così il centro di Pozzallo è vuoto […] e ai giudici della sezione immigrazione di Catania non è giunta più alcuna richiesta di convalida. […]
Estratto dell’articolo di Davide Carlucci per “la Repubblica” mercoledì 8 novembre 2023.
Ndal, zone ushtarake. Stop, zona militare. L’area che ospiterà i migranti destinati al rimpatrio in subappalto per l’Italia è a poche centinaia di metri dal minuscolo villaggio di Gjader, frazione di Lezha, Alessio per i Veneziani, Les per i turchi. Luogo cruciale nella contesa tra Occidente e Oriente: nella chiesa di San Nicola è sepolto Giorgio Castriota Scanderbeg, l’eroe più popolare dell’Albania che nel Quattrocento riunì tutti i principi contro gli ottomani.
[…] I residenti non sono contenti della nuova vita programmata per loro. Che possano cioè riempirsi di senegalesi, ghanesi o di altri popoli di un Sud del mondo la cui profondità qui vogliono dimenticare, perché la conoscono bene.
Nel baretto di Gjader contadini e muratori aprono i loro discorsi con un «non sono razzista ma…» che in Veneto, in Emilia, ma anche in Calabria, in un tempo non del tutto trascorso, era rivolto a loro. Fabian ha le mani larghe e callose che raccolgono melograni. «Non serve altra gente, qui. Abbiamo paura che rubino, che sparino. L’Italia è trenta volte più grande. E noi non stiamo nemmeno nell’Unione europea. Perché dobbiamo prenderci gli emigranti? È una domanda semplice, che vogliono comprendere tutti».
Al porto di Shengjin, dove sorgerà il centro di prima accoglienza, un anziano in bicicletta mescola fatalismo a ironia: «Se verranno, lo sa solo quello che sta ai piani superiori. E la Meloni». Un altro s’infervora ma è becero machismo: «Perché portano solo gli uomini qui, e non le donne? ». Non è che siano tutti terrorizzati: per qualcuno è il giusto scotto da pagare all’italian style: «Vede queste strade? Le avete fatte voi», dice un ragazzo che sta per aprire una boutique ed è devoto alla moda tricolore.
«C’è anche un’Albania che gli immigrati li vuole, perché ormai anche qui non si riesce a trovare manodopera — giura Luigi Triggiani, funzionario dell’Unioncamere pugliese che frequenta il Paese Aquile da trent’anni — e molti la importano dallo Sri Lanka o dal Bangladesh […]». […]
[…] Vede nero lo storico ex primo ministro Sali Berisha, che qui rappresenta la destra: «Questo accordo farà crescere sentimenti xenofobi in una nazione che è stata sempre ospitale. E l’Albania è un paese di traffici, da qui passa l’eroina e la cocaina che arriva in Italia. Così non faremo che alimentarli».
Dice pesta e corna del suo nemico preferito, Edi Rama, citando un caso qui molto dibattuto, il presunto scandalo dell’ex uomo dell’Fbi Charles McGonigal, una storia di corruzione che porterebbe fino al capo del governo. «Non è l’uomo giusto con cui siglare accordi».
Ma Rama, che ha sempre negato ogni accusa, respinge al mittente con la sua consueta disinvoltura tendente al british: «Delle voci critiche mi importa poco. Sarei preoccupato, anzi, se non ce ne fossero».
E se l’opposizione gli chiede di riferire sull’accordo in Parlamento — perché nessuno qui sapeva, nemmeno il sindaco di Lezha Pyerin Ndreu: «Ho appreso ieri dai giornali» — la stampa albanese è prodiga di retroscena sulla contropartita della generosità di Rama verso i “fratelli italiani”. Una delle voci più insistenti, ad esempio, parla di «milioni di euro di cui beneficeranno circa 500mila albanesi in Italia per le loro pensioni» e altri imprecisati vantaggi. «Macché contributi — smentisce parzialmente Rama — quelli sono contributi già previsti e approvati due anni fa che stanno seguendo la trafila burocratica italiana». […]
Sull'accordo Italia-Albania Scholz si schiera con la Meloni e condanna «l'accoglienza» e l'Europa. Andrea Soglio su Panorama l'8 Novembre 2023
Sull'accordo ItaliaAlbania Scholz si schiera con la Meloni e condanna «l'accoglienza» e l'Europa Berlino apre all'idea di appoggiarsi a paesi terzi, fuori dall'Unione Europea ammettendo finalmente che da sola Bruxelles non ce la fa a gestire i flussi di esseri umani Mentre in Italia la sinistra, le associazioni umanitarie e la truppa del #restiamoumani, giocava a trovare il commento più duro contro l’accordo tra Italia ed Albania sui migranti (il massimo è stato «deportazione») dalla Germania, il cancelliere Scholz si schierava al fianco della Meloni: «Valutiamo anche noi di collaborare con paesi terzi per la gestione di chi arriva in Europa». Ci immaginiamo le facce del Pd, degli europarlamentari per cui una dichiarazione del genere è come un pugno, un diretto al volto tirato sul ring. Ecco, dobbiamo essere onesti. Questo è il lato quasi divertente della dichiarazione. Vedere il cancelliere tedesco, di sinistra, schierarsi con Giorgia Meloni è davvero troppo, è davvero una cosa da ridere mentre quel che resta dell’opposizione nostrana cercava di rialzare la testa aggrappandosi proprio alla guerra al duo Meloni-Rama e ai due centri di accoglienza che saranno costruiti (a spese nostre) sulle coste albanesi dall’altra parte dell’Adriatico. C’è però un lato preoccupante dietro questa frase del cancelliere tedesco. Perché con la sua frase anche Berlino, che dell’Europa è sempre stato il paese leader e guida, ha ammesso che da sola l’Unione non ce la fa, non ce la può fare a gestire la questione migranti e soprattutto la politica dell’accoglienza. Arrivare a chiedere infatti l’aiuto di paesi terzi significa che da soli non bastiamo. E che il passo successivo, terminati anche gli aiuti di terzi, è quello della chiusura dei porti. Sempre ieri infatti anche la Svezia, la civilissima, modernissima, avanzatissima Svezia ha chiesto di stringere le maglie alle frontiere. Scholz come la Meloni, quindi e come la mattiamo adesso? Chi critica la destra italiana adesso deve usare le stesse parole anche per il cancelliere socialdemocratico oppure ammettere che le critiche sono sbagliate, pretestuose, false. Scholz non è fascista, non è un deportatore di essere umani come non lo è Giorgia Meloni. Sono semplicemente due leader politici che senza follie sono semplicemente «realisti». E davanti alla forza della realtà non c’è destra o sinistra. C’è solo la realtà.
Non solo l’Italia: sempre più Stati Ue esternalizzano le richieste di asilo. Monica Cillerai su L'Indipendente mercoledì 8 novembre 2023.
Più controlli, più frontiere, muri più alti contro i migranti irregolari e maggiori investimenti nell’esternalizzazione delle frontiere e nelle deportazioni. Questa è la linea che si profila da anni in modo sempre più chiaro all’interno delle politiche UE sulla gestione dell’immigrazione. Fino ad arrivare all’attuale punto di svolta: l’esternalizzazione delle richieste di asilo a un Paese terzo. Ieri la premier italiana Giorgia Meloni ha annunciato di aver stretto con il primo ministro albanese un protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei migranti. Il piano del governo è di creare due centri in Albania con giurisdizione italiana dove mettere direttamente le persone salvate in mare e lasciarle lì ad attendere la risposta della propria procedura di asilo, che verrà quindi processata in un Paese Terzo. Ma l’Italia non è il solo Stato Membro ad aver adottato politiche di questo genere.
La notizia arriva infatti pochi giorni dopo un altro annuncio di esternalizzazione delle richieste di asilo. Giovedì 2 ottobre, l’Austria ha firmato un accordo di cooperazione su “migrazioni e sicurezza” con il Regno Unito, dichiarando di voler adottare il piano inglese – anche se non proprio in maniera identica – per la gestione delle domande di asilo, ovvero incaricare un Paese terzo di occuparsene. Vienna, inoltre, si impegna per fare pressione sull’Europa affinché adotti politiche analoghe. «La Gran Bretagna ha molta esperienza sul fronte di una futura gestione delle richieste di asilo fuori dall’Europa. È stato un tema importante del mio incontro con la ministra degli Interni a Vienna perché l’Austria può trarre beneficio da questa esperienza. Continueremo a fare uno sforzo coerente perché la Commissione europea porti avanti e autorizzi tali procedure fuori dall’Europa», ha dichiarato Karner, il ministro degli Interni austriaco.
Lo schema britannico prevedeva di trasferire 140 milioni di sterline all’anno al Ruanda per accogliere i richiedenti asilo arrivati sul suolo inglese e gestire da lì le loro pratiche. Il biglietto per gli immigrati irregolari era di sola andata verso lo Stato africano dato che, se anche la richiesta di asilo fosse stata approvata, secondo l’accordo i profughi sarebbero rimasti comunque in Ruanda. L’Austria, invece, dopo aver deportato i richiedenti asilo nel Paese africano, si impegnerebbe a riportarli in Austria nel caso in cui la loro domanda di asilo venisse poi accettata. In caso venisse respinta, sia il programma inglese che quello austriaco prevedono la deportazione dei migranti nel loro Paese di origine. Il piano inglese per ora è sospeso, in attesa di un parere della Corte Suprema sulla sua legittimità, che dovrebbe arrivare entro la fine anno. La Corte aveva infatti bloccato le procedure di espulsione in quanto il Ruanda non era stato considerato un Paese sicuro, per il rischio di deportazioni verso i Paesi d’origine. Il governo ha contestato la sentenza: se vincesse il ricorso, i primi voli verso il Ruanda inizierebbero a febbraio del 2024.
Anche la Danimarca aveva annunciato di voler collaborare con il Ruanda per gestire allo stesso modo i migranti sul suo territorio, ma la proposta si è arenata dopo le ultime elezioni nel Paese. L’Austria – nonostante le sue richieste di asilo siano diminuite del 40% quest’anno – sembra determinata a seguire questa nuova forma di controllo, anche se ancora non è chiaro se sia legalmente possibile. Un portavoce della Commissione UE ha infatti dichiarato ieri ai giornalisti a Bruxelles che «attualmente il diritto d’asilo dell’UE si applica solo alle domande presentate sul territorio di uno Stato membro, ma non al di fuori di esso».
Proprio per vincere la questione legale, sia l’Austria che il Regno Unito stanno spingendo altri Paesi europei a rinnovare gli accordi internazionali sui diritti, tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati e la Convenzione europea sui diritti umani. «Il problema della migrazione in Europa potrebbe far cadere i governi», ha sottolineato sabato il Ministro degli Esteri austriaco Alexander Schallenberg. Forse, per questo motivo, molti Stati europei sarebbero disposti a derogare i diritti umani, e perfino a cambiare la Convenzione dell’ONU sui rifugiati.
A seguito di un incontro a Copenaghen, poi, i ministri di Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia e Islanda hanno concordato una più stretta collaborazione tra i cinque Paesi per quanto riguarda l’espulsione dei richiedenti asilo respinti e di altri stranieri senza permesso di soggiorno. Condividiamo «interessi comuni», ha dichiarato martedì (31 ottobre) il ministro danese dell’Immigrazione e dell’Integrazione Kaare Dybvad Bek.
I ministri hanno concordato tre iniziative, incentrate sul “rafforzamento dei progetti di reintegrazione nei Paesi d’origine”, sull’effettuazione di voli di espulsione congiunti in collaborazione con l’agenzia di frontiera dell’UE Frontex e sulla “fornitura di assistenza ai migranti irregolari bloccati in Nord Africa, che desiderano tornare volontariamente nei loro Paesi”, si legge in un comunicato stampa pubblicato martedì. [di Monica Cillerai]
Affari, violenze e lobbisti dietro il business dei Cpr. I Centro di permanenza per il rimpatrio sono gestiti da privati che puntano a un tesoretto di 56 milioni di euro, lasciando i reclusi spesso in condizioni vergognose. «C’è gente che specula sulla pelle di queste persone e non gente qualsiasi. Parliamo di lobby rappresentate in Parlamento. Tutto questo avviene nell’indifferenza generale», spiega la senatrice Ilaria Cucchi. Adil Mauro su L'Espresso il 26 Ottobre 2023
Il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi, geometra di 31 anni, arrestato perché trovato in possesso di sostanze stupefacenti, moriva nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini dopo una settimana nelle mani dello Stato. Per la sua morte il 4 aprile 2022 la Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva a dodici anni di reclusione i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Per i depistaggi altri otto militari dell’Arma – compreso il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma – sono stati condannati in primo grado a scontare complessivamente 22 anni di carcere.
L’anno scorso Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, si è candidata alle elezioni politiche con la lista Alleanza Verdi e Sinistra ed è stata eletta al Senato. In questi mesi ha avuto modo di continuare il suo impegno per il rispetto dei diritti civili e umani visitando due volte – a marzo e aprile – il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, nella periferia di Roma.
I Cpr sono luoghi di detenzione amministrativa in cui vengono reclusi i cittadini non comunitari sprovvisti di un regolare documento di soggiorno oppure già destinatari di un provvedimento di espulsione. Il governo di Giorgia Meloni, nell’ambito delle norme contro l’immigrazione irregolare, ha deciso di innalzare a 18 mesi il limite massimo di trattenimento in questi centri. Cucchi ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla somministrazione di psicofarmaci all’interno della struttura di Ponte Galeria. «C’ero già stata nel 2013 – spiega – Ricordavo un luogo terribile, ma non ai livelli in cui l’ho trovato pochi mesi fa. Sembra di essere in un giardino zoologico, perché quelle che vedi sono delle vere e proprie gabbie. Corpi abbandonati, spesso buttati a terra senza fare assolutamente nulla per tutto il giorno, nella sporcizia e nel disordine. Mi è stato riferito che il 90% degli ospiti, così vengono chiamati, anche se io utilizzerei il termine detenuti, fa utilizzo di metadone senza alcun piano terapeutico».
Ma le criticità legate a questi centri non sono soltanto di tipo sanitario. Secondo quanto segnalato dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) sono 56 i milioni di euro previsti nel periodo 2021-2023 per affidare la gestione dei Cpr a soggetti privati.
La possibilità che sulla privazione della libertà personale qualcuno possa trarre ingenti profitti è uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità, come denuncia Cild in un rapporto dall’eloquente titolo “L’affare Cpr. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”. Il dossier della Coalizione descrive il passaggio dalla gestione pubblica a quella privata dei centri e ricostruisce in maniera dettagliata le attività delle multinazionali Gepsa e Ors, della società Engel s.r.l. e delle Cooperative Edeco-Ekene e Badia Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia. Una storia segnata da continue violazioni dei diritti delle persone detenute e interessi economici che preoccupano anche Cucchi, e hanno innescato anche un conflitto di poteri tra la magistratura di Catania, che ha respinto dieci convalide di trattenimenti di migranti, e il ministero dell’Interno, con il contorno di polemiche che hanno investito il pm Iolanda Apostolico. «C’è gente che specula sulla pelle di queste persone e non gente qualsiasi. Parliamo di lobby rappresentate in Parlamento. Tutto questo avviene nell’indifferenza generale e sotto gli occhi dei vari governi che si sono avvicendati in questi anni», dice la senatrice Cucchi.
Il riferimento è al Gruppo Ors Ag, con sede centrale a Zurigo e attivo da oltre trent’anni in tutta Europa. Sulle modalità repressive adottate in alcuni centri svizzeri e austriaci sotto responsabilità della multinazionale (che attualmente gestisce il Cpr di Ponte Galeria) esistono inchieste giornalistiche e rapporti di Amnesty International e Medici senza frontiere. In Italia Ors si è affidata al lavoro di lobby svolto da Telos Analisi e Strategie, uno «studio professionale che aiuta i propri committenti a comprendere l’ambiente nel quale si posizionano ed operano e ad interagire con tutte le istituzioni e gli stakeholder in modo efficace». L’accordo tra la multinazionale svizzera e Telos risale a un documento del 2020 firmato da Lutz Hahn, direttore della comunicazione di Ors Management Ag, nel quale si delega la lobby per l’organizzazione di incontri con rappresentanti istituzionali. Nulla di illegale, ma è interessante osservare come Ors sia l’unica tra le cooperative e società che hanno gestito o gestiscono un Cpr ad avere consulenti che la rappresentano alla Camera dei deputati. «È una situazione di cui nessuno parla perché evidentemente le responsabilità politiche sono di tutti», afferma la senatrice. «Il concetto – aggiunge – è molto semplice: più migranti ci sono, più ci si guadagna sopra. È questo il vero business e adesso avviene sotto gli occhi della destra che ne ha fatto oggetto della sua perpetua campagna elettorale. Quanto costa allo Stato finanziare dei luoghi che ricordano i lager libici? La gestione di questi centri è tutt’altro che trasparente». E secondo Ilaria Cucchi il filo che unisce vicende come quella di suo fratello a quelli delle persone recluse nei Cpr è «la violenza di Stato nei confronti di chi non può difendersi».
Tutti i trucchi per scappare dai Cpr. Molti detenuti si aggrappano alla "vulnerabilità". Così le porte dei centri si spalancano. Stefano Zurlo l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Le vulnerabilità. Passa per questa scivolosissima parola la via di fuga di molti migranti, stretti nella terra di mezzo dei Cpr. Ogni anno, quasi tremila persone sono rinchiuse nei Centri di permanenza e rimpatrio, in attesa di essere effettivamente espulse. E, come ha raccontato ieri il Giornale, si tratta per la stragrande maggioranza di pregiudicati, individui socialmente pericolosi che portano sulle spalle pene definitive o, in certi casi, condanne di primo grado per reati importanti se non gravissimi: rapina furto e spaccio, ancora violenza sessuale e omicidio.
Il destino di questi soggetti non e però segnato come potrebbe sembrare: la Direttiva, disposta dall'allora ministro dell'Interno Luciana Lamorgese il 6 giugno 2022, ha alzato l'asticella dell'idoneità alla vita nel Cpr e, senza idoneità, come peraltro è giusto che sia, il ragazzo in questione deve essere immediatamente liberato e può tornare a bivaccare sul territorio. Anche se è clandestino, anche se ha collezionato anni e anni di galera e magari è appena uscito di prigione. Anche se dovrebbe essere a un passo dal rimpatrio. Non importa. Il punto è far emergere le vulnerabilità, o patologie anche di tipo psichiatrico, e a questo si dedicano avvocati bravissimi in grado di far deragliare il convoglio dell'espulsione.
Tanto per cominciare, Lamorgese toglie ai medici dei Cpr (o meglio di chi li gestisce) il compito di verificare lo stato di salute dell'irregolare al momento dell'ingresso o in una fase successiva, ma poi allarga il campo minato delle incompatibilità: «Lo straniero accede al centro previa visita medica volta ad accertare l'assenza di patologie evidenti che rendano incompatibile l'ingresso e la permanenza del medesimo nella struttura, quali malattie infettive contagiose e pericolose per la comunità, disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative...». L'elenco però non finisce qui: «La certificazione medica deve comunque attestare la compatibilità delle condizioni di salute o di vulnerabilità...» È il varco che si apre, perché la vulnerabilità non è codificata rigidamente e fatalmente, pur con le migliori intenzioni, si introducono in un sistema già farraginoso ulteriori elementi di discrezionalità.
Gli avvocati naturalmente fanno il loro mestiere e trovano appigli per ottenere la liberazione dei loro clienti, altrimenti destinati a partire perché già espulsi dal prefetto. Il tutto, va da sé, quasi sempre con il gratuito patrocinio e a carico dello Stato. I medici, poi, che non sono più quelli interni a quel mondo, vengono talvolta incontro alle obiezioni dei legali. Risultato: l'operazione ritorno a casa si incaglia e alla fine evapora. Si può sostenere che la riforma Lamorgese abbia reso più garantista tutto questo processo e si può anche pensare che affidare a camici bianchi esterni il controllo delle condizioni di salute dei migranti sia una garanzia in più di trasparenza e neutralità. Tutto vero. Ma le conclusioni sono spesso imbarazzanti: il clandestino che aveva già un piede sull'aereo a quel punto si ritrova libero e riprende la sua partita a scacchi con le istituzioni. Peccato che sia quasi sempre un uomo con un pesante curriculum penale, insomma un rischio per la società e anche per se stesso: se, come raccontato ieri dal Giornale, il migrante ha un'alterazione del comportamento che lo rende incompatibile con il cpr, chi curerà quel disturbo? Nessuno, perché l'unico risultato è l'uscita dal carcere. Così, con lo scudo di questa diagnosi, Mohamed è fuori, e ha lasciato il Cpr della Basilicata nell'agosto scorso. Trascinando i suoi problemi in mezzo alla strada.
Vulnerabilità. Una fragilità dell'io, ma non solo in una sorta di nouvelle vague del disagio profondo. Sottolineata anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale in un volume che circola molto fra gli avvocati: Linee guida sul monitoraggio dei rimpatri forzati. In poche pagine è descritta tutta la prima linea su cui si muovono gli studi legali più agguerriti. Dai Cpr si può svoltare di qua o di là: più del 50 per cento degli espulsi parte, ma gli altri schivano il volo e ricominciano la vita di prima.
"I Cpr sono lager". La sinistra non vuole espellere i clandestini. L'ultimo delirio di Pd e 5 Stelle: equiparare i centri per migranti ai campi di concentramento. Ma senza espulsioni i clandestini vivrebbero senza futuro ai margini della società. Andrea Indini il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.
Forse è il modello Milano che hanno in mente gli ultrà dell'accoglienza quando criticano con violenza i Cpr. Milano laboratorio di "solidarietà" dove i clandestini e i richiedenti asilo vengono sbattuti davanti alla stazione Centrale, senza un giaciglio su cui dormire, sempre a caccia di espedienti per pagarsi un pranzo e sopravvivere, facili a delinquere e troppo spesso coinvolti in una spirale di crimine e violenza. Un modello di accoglienza a lungo venduto dalla sinistra (in primis il sindaco Beppe Sala) come esempio di integrazione contro i muri del centrodestra. Nessuno degli storici sostenitori di questo modello, che negli anni si è rivelato fallimentare e le cui conseguenze (disastrose) ricadono oggi su milanesi e turisti, ammetterà le proprie colpe.
E, invece, li vediamo già in piedi a sbraitare contro il governo Meloni impegnato in queste ore a raddoppiare il numero dei Centri di permanenza per il rimpatrio e il numero delle forze dell'ordine impegnate a presidiare queste strutture, teatro spesso di disordini e violenze da parte degli immigrati. La decisione verrà presa nel Consiglio dei ministri che in settimana discuterà il nuovo decreto Sicurezza. Intanto, però, il sottosegretario all'Interno, Nicola Molteni, ha già spiegato l'importanza della misura: "Quest'anno, con nove funzionanti per 1.300 posti disponibili e 6-700 utilizzati, siamo riusciti espellere 3.300 persone". Si tratta del 30% in più rispetto all'anno scorso. Raddoppiando il numero dei centri, verrebbe raddoppiato anche il numero delle espulsioni, anche (ma non solo) di quei profili che mettono a rischio la sicurezza pubblica e sulle cui spalle gravano già sentenze di condanna. "Il prolungamento del trattenimento nei Cpr - ha continuato Molteni - è funzionale a evitare che queste persone tornino in libertà".
A sinistra, invece, sembra proprio che li vogliano a zonzo per il Paese. Da giorni, infatti, suonano la gran cassa contro l'apertura dei nuovi centri. Cpr militarizzati, titolava giovedì scorso la Stampa. In una intervista al Foglio l'ex ministro dem Andrea Orlando parla di "campi di concentramento" dimenticando, come fa giustamente notare oggi il Tempo, che fu lui, insieme a un altro ex ministro dem (Marco Minniti) a istituirli. Era il 2017, non certo una vita fa. Di "lager autorizzati" parlano anche il verde Angelo Bonelli e diversi amministratori locali come il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi. In casa Cinque Stelle, invece, criticano più delicatamente. Giuseppe Conte dice che "sono peggio degli istituti penitenziari". E punta il dito: "Non hanno neppure garanzie".
L'assurda battaglia contro l'apertura di nuovi Cpr è di fatto anche una battaglia contro le espulsioni. Ma senza espulsioni dem e Cinque Stelle condannano migliaia di clandestini a vivere, senza alcun futuro, ai margini della nostra società. Esattamente come accade in diversi quartieri di Milano dove, ormai da anni, dilagano anche degrado e criminalità.
Migranti, Orlando critica i Cpr: “Campi di concentramento”. Ma li ha istituiti lui. Edoardo Romagnoli su Il Tempo il 24 settembre 2023
Se non lo si fa troppo in fretta cambiare idea è lecito, soprattutto in politica, ma disconoscere ciò che si è fatto ieri magari attaccando chi lo fa oggi è al limite del diabolico. La fortuna, per chi lo fa, è che in genere non è una mossa che fa perdere voti perché la memoria in questo Paese è corta e tutto cancella. E così non ha fatto troppo scalpore il fatto che Andrea Orlando si sia scagliato contro i Cpr, Centri di permanenza per il rimpatrio, definendoli «campi di concentramento». Lo stesso Orlando che nel 2017, da ministro della Giustizia, insieme a Marco Minniti, ministro dell’Interno, firmò il decreto Minniti-Orlando che, fra le altre cose, prevedeva l’estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari. Non solo. Aboliva il secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso contro un diniego, l’abolizione dell’udienza e l’introduzione del lavoro volontario per i migranti. La misura prevedeva l’aumento dei centri dai quattro già esistenti a venti, uno per ogni regione, per un totale di 1.600 posti. Anche allora la proposta sollevò un polverone tanto che Minniti fu costretto a precisare che i nuovi centri sarebbero stati piccoli con una capienza massima di cento persone, che sarebbero sorti lontani dalle città e vicino agli aeroporti e soprattutto che sarebbero stati diversi dai Cie. Non a caso venne anche cambiato il nome che da Cie, Centri per l’identificazione e espulsione, divenne Cpr, Centri di permanenza per il rimpatrio. Insomma una misura che non sembra molto diversa da quella varata dal governo Meloni.
Ecco perché le dichiarazioni di Orlando stridono e non poco, almeno per chi ha un minimo di memoria. «Gli amministratori di centrosinistra hanno detto sì all’accoglienza diffusa e no ai campi di concentramento» ha dichiarato l’ex ministro. Tutto vero, gran parte degli amministratori locali di centrosinistra, Lucano ne è stato un modello, hanno sempre adottato un approccio che prevedeva proprio l’accoglienza diffusa; ciò però non toglie che contestualmente nel 2017 il governo centrale varava un decreto per estendere il modello dei Cpr. Poi Orlando ha aggiunto: «Dietro questa specie di sindrome Nimby (Not in my back yard, ndr) applicata ai migranti, c’è di più e di peggio. C’è, in sostanza, il fuoco della propaganda xenofoba alimentato per anni dalla destra che brucia qualsiasi tentativo di definire un approccio ragionevole». Non si sa bene quale dovrebbe essere l’approccio ragionevole visto che quando Orlando si è trovato nella stanza dei bottoni propose la stessa soluzione al medesimo problema.
Soluzione che, all’epoca del decreto Minniti-Orlando, molti giuristi definirono non in linea con la costituzione italiana e con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. In particolare avrebbe violato l’articolo 111 della Costituzione, quello che sancisce il diritto a un giusto processo, l’articolo 24, il diritto alla difesa, e l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani, che sancisce il diritto al contraddittorio. Arrivarono critiche anche dall’Anm, l’associazione nazionale magistrati, che espresse un «fermo e allarmato dissenso» rispetto alla nuova legge perché produceva «l’effetto di una tendenziale esclusione del contatto diretto tra il ricorrente e il giudice nell’intero arco del giudizio di impugnazione delle decisioni adottate dalle Commissioni territoriali in materia di riconoscimento della protezione internazionale». Insomma stare all’opposizione è semplice, lo sa Meloni e lo sa Orlando, anche perché questo Paese ha la memoria corta, troppo corta.
Quella società svizzera che fa business sui migranti (grazie alla sinistra). Bianca Leonardi il 21 Maggio 2023 su Il Giornale.
La Ors Service di Zurigo premiata dalla sinistra: a lei la gestione di molti centri
Il nodo immigrazione continua a tenere banco tra le fila politiche, soprattutto quando si parla di Cpr. La posizione della sinistra è l'ormai risaputa condanna a quei centri di rimpatrio promossi proprio dall'ex ministro degli interni dem Marco Minniti, nel 2017. Il focus però, che sembra sfuggire, non è la dicotomia Cpr si o Cpr no, ma la gestione di questi posti e le realtà che proprio la sinistra ha scelto e ha continuato a finanziare. Se le politiche migratorie di Salvini sono state demonizzate in ogni modo, c'è da dire che l'egemonia della gestione dei Cpr e dei più generosi appalti sull'accoglienza dei migranti, è iniziata proprio nel 2019, dopo l'inizio del Governo Conte II e l'incarico di Luciana Lamorgese come Ministro dell'Interno. A sbarcare in Italia è infatti una società commerciale, quindi profit: la Ors Italia Srl, controllata interamente da Ors Service con sede a Zurigo, a sua volta controllata dal private Equity londinese Equistone Partners. Un intreccio tra immigrazione, politica e finanza sembrerebbe.
Già accusata di aver gestito in modo discutibile alcuni centri per migranti, soprattutto quello in Austria di Traiskirchen, documentato anche da Amnesty International che denunciò la violazione dei diritti umani. Nonostante il curriculum non troppo positivo il 25 luglio 2018, in piena epoca Salvini, Ors Italia compie l'iscrizione alla Camera di Commercio. Curioso però che, fino al cambio di governo, la società resta inattiva e inizia la sua scalata nel mondo dell'immigrazione in Italia solo a dicembre 2019, due mesi dopo l'arrivo di Lamorgese. Ed è proprio in quel mese che i protagonisti svizzeri diventano gestori del Cpr di Macomer, in Sardegna, ricevendo 572 mila euro per soli 50 ospiti. Subito dopo, nel gennaio 2020 è la volta di Trieste dove conquistano Casa Masala, storico centro di accoglienza. In due mesi 2 milioni e mezzo di euro di bandi. Fin da subito arrivano le proteste: l'Unione Sarda raccontò infatti di migranti saliti sui tetti per ribellarsi alle condizioni in cui venivano fatti vivere, tanto che uno di loro si cucì la bocca da solo come gesto estremo. Nonostante ciò, qualche mese dopo, sempre in Sardegna, la Ors Italia diventa gestore del centro di accoglienza di Monastir, a Cagliari, attraverso un affidamento diretto, del valore di poco più di un milione e duecentomila euro, in nome dell'urgenza. Un'urgenza che sembrerebbe non essere mai finita visto che ad oggi, dopo 3 anni, la gestione è ancora loro.
Sono seguite anche interrogazioni parlamentari, sia da parte della Lega che dal Movimento 5 Stelle, dirette all'ex ministro Lamorgese, in cui sono stati chiesti chiarimenti anche sulle modalità di aggiudicazione, visto che Ors nei bandi ha sempre giocato al ribasso, dal 14% per Casa Masala, al 3% per Macomer. Una condizione quantomeno anomala che però non è stata approfondita tanto che ad oggi la società svizzera è ancora presente in molte situazioni italiane. Monastir, un Cas di Milano, il Cpr di Ponte Galeria a Roma e Cpr di Torino.
Proprio quest'ultimo è stato costretto a chiudere qualche settimana fa - dicono per ristrutturazione- a causa delle rivolte violentissime dei migranti per le condizioni di vita imposte. Dalle frange della sinistra torinese arriva anche l'ammissione: «Il Cpr è stato gestito fino ad ora come una struttura che non ha mai tenuto in considerazione le regole per la tutela delle persone che hanno subito condizioni di vita crudeli».
I Cpr no, i centri accoglienza come quelli di Monastir - definito da L'Unione Sarda come Il business svizzero nell'inferno di Monastir - sì: questa la tesi della sinistra.
La bufala dei Cpr descritti come lager: le vere violenze le fanno gli ospiti. Formigli (La7) dice che i centri sono un "inferno". Tuttavia dimentica gli scontri. Gian Micalessin su Il Giornale il 27 Maggio 2023
Corrado Formigli l'ha intitolato «L'inferno dei Cpr», ma a ben guardare è diventata la beatificazione televisiva di violenza e illegalità. Parliamo dell'inchiesta sui «Centri di Permanenza e Rimpatrio» (Cpr) andata in onda su «Piazza Pulita» (La7) giovedì 25 maggio. Un'inchiesta senza dubbio interessante perché i filmati usciti dai telefonini dei reclusi e ottenuti dall'autrice Chiara Proietti D'Ambra ci mostrano una realtà raramente documentata. Peccato che l'innegabile esclusività sia stata viziata dagli interventi in studio. Uno studio dove gli ospiti meno allineati con le tesi del conduttore venivano sistematicamente interrotti mentre quelli chiamati a illustrare il presunto «inferno» dipingevano i reclusi (pluri-denunciati per spaccio o violenze) come i dannati di un girone infernale dove manganelli e psico farmaci sono garanzia di silenzio e sottomissione. Con il compiaciuto sospetto che il tutto avvenga grazie alla complicità del governo Meloni. Una tesi assai lontana dalla verità visto che Cpr nascono nel 1998 e sono una creazione della sinistra. A istituirli fu la legge sull'immigrazione del governo Prodi, firmata dall'allora ministro dell'Interno Giorgio Napolitano, che varò i Centri di Permanenza Temporanea (Ctp) precursori dei Cpr. Ma a rendere faziosa l'inchiesta s'aggiunge il modo in cui, sempre in studio, vengono illustrati i video dei Cpr. Per capirlo basta lo spezzone usato come immagine simbolo. In quel filmato, girato nel Cpr di Gradisca d'Isonzo, si vede un migrante ferito alla schiena riportato in camerata da alcuni agenti. Un'immagine sicuramente drammatica in cui l'unica vittima sembra quell'uomo sanguinante e a petto nudo. Peccato che - come chiarito a Il Giornale da fonti del Viminale - l'immagine sia solo l'episodio terminale d'una giornata di violenze andata in scena nel Cpr di Gradisca lo scorso 20 aprile. Partiamo dal suo protagonista ovvero Haddad Hammami, un marocchino 26enne in Italia dal 2021. «Quel giorno - spiega la fonte - alcuni dei reclusi avevano appiccato un incendio nelle stanze del centro e lui oltre ad alimentarlo bloccava gli operatori che tentavano di raggiungere gli estintori e spegnere l'incendio». Una situazione che peggiora dopo l'intervento delle forze dell'ordine. «Mentre le fiamme si facevano minacciose quel migrante - continua la fonte - colpiva gli agenti con un pezzo di ferro e i suoi compagni lanciavano pezzi di vetro e altri oggetti contundenti. A quel punto gli agenti han dovuto scontrarsi con i reclusi, sfondare il blocco e spegnere l'incendio». Un altro retroscena ignorato dall'inchiesta di Piazza Pulita riguarda i precedenti di Haddad Hammami. Prima di contribuire al tentato incendio del Cpr di Gradisca il marocchino era stato indagato per furto aggravato, porto d'armi, danneggiamento, possesso di stupefacenti e fabbricazione di documenti falsi. «Senza contare il sequestro, ai primi di aprile, di un pacco a lui destinato - aggiunge la fonte de Il Giornale - contenente sostanze stupefacenti». Insomma non esattamente un agnellino. Come non lo sono altri due protagonisti dell'inchiesta. Keven Onias Holander da Cruz, un 22enne brasiliano clandestino in Italia dal 2019 - denunciato più volte per droga, ricettazione e resistenza a pubblico ufficiale - non viene imbottito di psico farmaci, come sostiene nei filmati, ma semplicemente curato con le medicine prescrittegli dopo un intervento di ernia inguinale praticatogli durante la reclusione. Il 29enne marocchino Younes Charage è inseguito, invece, da una sfilza di denunce per furto, droga e danneggiamento. Precedenti comuni, peraltro, alla maggior parte dei circa 620 migranti rinchiusi nei 9 Cpr ancora in funzione dopo la distruzione di quello di Torino, incendiato e devastato dai suoi «miti» ospiti a fine febbraio. Visti anche i numeri ridotti (a pieno regime i 10 Cpr italiani garantiscono 1378 posti) la reclusione nei Cpr è riservata in via prioritaria a migranti irregolari condannati per reati gravi o considerati «una minaccia per l'ordine e la sicurezza pubblica». Ma in tutto questo un'altra verità - allegramente sorvolata da Piazza Pulita - riguarda la possibilità di abbandonare i Cpr e far ritorno a casa semplicemente dichiarando la nazione d'origine e le effettive generalità. Dall'«inferno» è, insomma, assai semplice uscire. Basta dichiarare, come farebbe ogni italiano fermato ad un controllo di polizia, la propria identità. Ottenendo in cambio una veloce liberazione seguita da un rimpatrio assistito.
Storia di un fallimento. Perché il sistema di accoglienza in Italia non funziona: maxistrutture diventate luoghi di segregazione sociale. Gianfranco Schiavone su Il riformista l’8 Aprile 2023
Con l’aumento degli sbarchi la stampa italiana è tornata a parlare di saturazione del sistema di accoglienza per i richiedenti asilo e i rifugiati in Italia. Stabilire la realtà dei fatti è però ben più complesso di quanto appare; un’accurata analisi sui dati forniti dal Ministero dell’Interno pubblicata dal mensile Altreconomia l’8 febbraio scorso dava atto del progressivo esaurirsi dei posti disponibili, sia nei CAS (Centri di accoglienza straordinari) sia nel SAI (sistema di accoglienza ed integrazione), già SPRAR prima del 2020, il modello virtuoso di accoglienza diffusa gestito dagli enti locali, sul quale tornerò in seguito.
Nell’eccellente rapporto “Il vuoto dell’accoglienza” edito, sempre a febbraio ‘23, da Action Aid e Openpolis, si evidenziava che al 31 dicembre 2022 il sistema di accoglienza aveva, come già accaduto nel 2021, 2020, 2019 e 2018, oltre 20mila posti liberi; un dato sconcertante se si considera che da anni migliaia di richiedenti asilo, specialmente quelli che arrivano via terra e che si presentano spontaneamente a fare domanda di asilo, rimangono anche per mesi in stato di abbandono sulla strada per un’asserita mancanza di posti disponibili. Mancanza di trasparenza e di programmazione sono gli elementi caratterizzanti il sistema pubblico di accoglienza in Italia: l’art. 16 del D.Lgs 142/2015 prevede che il Tavolo di coordinamento istituito presso il Ministero dell’Interno “predispone annualmente, salva la necessità di un termine più breve, un Piano nazionale per l’accoglienza che, sulla base delle previsioni di arrivo per il periodo considerato, individua il fabbisogno dei posti da destinare alle finalità di accoglienza”.
Se è evidente che la programmazione in questo campo rimane esposta ad alcuni fatti imprevedibili, va però abbandonata l’ingenua ma radicata concezione che programmare sia impossibile. All’esatto contrario, ciò è possibile ed è la più importante operazione che l’Esecutivo è tenuto a fare sulla base dei dati e delle analisi condotte a livello internazionale. Il numero dei rifugiati è in costante aumento in Europa e nel mondo almeno da un decennio: secondo i dati forniti dall’Agenzia per l’Asilo dell’Unione Europea (EUAA) nel 2022 si è avuto un aumento del 50% delle domande di asilo rispetto al 2021. I richiedenti più numerosi sono i siriani (132mila) e gli afghani (129mila), seguiti al terzo posto dai turchi con 55mila domande. Il Governo italiano, sia quello in carica, che il precedente Governo Draghi, disponeva di tutti i dati necessari per realizzare una programmazione del sistema di accoglienza finalizzata ad aumentare i posti di accoglienza nel corso del 2022, conoscendo anche le principali nazionalità e quindi le rotte di fuga dei rifugiati (sapendo quindi che, oltre alla rotta mediterranea, era necessario operare un immediato rinforzo in relazione alla rotta terrestre).
Nulla di tutto ciò è avvenuto e chi volesse leggere il documento di programmazione sopraccitato rimarrebbe deluso non perché i criteri e le valutazioni in esso contenuti sono carenti, bensì perché tale documento non esiste, o non è pubblico e quindi non valutabile. Come ha evidenziato lo studio di Openpolis, tra il 2018 e il 2021 il sistema italiano di accoglienza è andato progressivamente diminuendo invece di aumentare, passando (dati Ministero dell’Interno) dai 169mila posti nel 2019 ai soli 97mila posti del 2021 per risalire appena un po’ nel 2022 con 104mila presenze a dicembre 2022 (di cui solo 33mila nel SAI e 71mila nei CAS). Tra il 2018 e il 2021 il sistema di accoglienza ha subito una continua ed incessante opera demolitoria, sia in quantità che in qualità; ne hanno fatto le spese soprattutto le strutture CAS più piccole, con meno di 20 posti letto, proprio quelle che, già a partire dalla scelta abitativa, cercavano di avvicinarsi agli standard dell’accoglienza diffusa del SAI e che andavano salvaguardate come prezioso ponte tra i due sistemi. “Tra il 2018 e il 2021 i CAS di piccole dimensioni hanno perso 24.000 posti letto. Un mancato investimento sull’accoglienza diffusa e la volontà di puntare su centri di grandi dimensioni dove i servizi per favorire l’integrazione sono scarsi o assenti” sottolinea il rapporto di Openpolis.
La demolizione, che ha prodotto un enorme sperpero di risorse pubbliche, è stata giustificata proprio con l’obiettivo di contrarre i costi che si sono attestati, con un leggero rialzo nel 2021, attorno ai 26 euro al giorno a persona, insufficienti per assicurare tutti i servizi sia quelli relativi all’accoglienza materiale che quelli relativi alla tutela legale, all’assistenza psicologica, ai corsi di italiano, alle attività di inserimento sociale etc. Le strutture di accoglienza per i richiedenti asilo, quando le gare non sono andate deserte, sono divenute sempre più strutture dismesse come vecchie caserme e capannoni in disuso), luoghi di parcheggio, degrado e segregazione sociale. Nei CAS, salvo qualche rara eccezione, le persone sono lasciate in balia di se stessi con una vita vissuta nella più totale inattività; in queste strutture è previsto un operatore sociale ogni 50 ospiti (di fatto non un operatore ma un semplice guardiano), il tempo medio per la mediazione linguistica è precipitata a 1,7 minuti al giorno per ospite, l’assistenza legale, servizio indispensabile per persone che affrontano una procedura complessa di esame della loro domanda di asilo, è ancora più rarefatta; quasi assenti i corsi di italiano, mentre totalmente assenti i percorsi di formazione e riqualificazione professionale.
I mali del sistema di accoglienza italiano sono radicati nel tempo, fin da quando, tra il 2002 e il 2005, si definì una sorta di “modello binario” che cristallizzò l’esistenza di due sistemi per richiedenti asilo totalmente difformi tra loro quanto a impostazione, standard di funzionamento e durata: da un lato lo SPRAR (oggi SAI) e dall’altro i CAS (centri di accoglienza straordinari). Dieci anni dopo, il decreto legislativo n. 142/2015 tentò di superare il caos prevedendo che, una volta esaurita (ove necessaria) la fase del soccorso e della prima accoglienza in centri governativi destinati alla sola identificazione e verbalizzazione della domanda, il richiedente dovesse essere trasferito in una delle strutture SPRAR destinato a divenire dunque il sistema unico con modalità di accoglienza diffusa e integrata con il territorio. Solo in caso di temporanea indisponibilità di posti nei centri della rete SAI il richiedente asilo, secondo la norma vigente, può temporaneamente rimanere in strutture temporanee quali sono i CAS che sono tenuti ad erogare solo “servizi essenziali” (art. 11 co.2 del d.lgs 142/15) per “il tempo strettamente necessario” (art. 9 co.5) in attesa del trasferimento nello SAI.
Sin da subito però le cose sono andate diversamente: i centri straordinari sono divenuti del tutto ordinari e stabili, rappresentando quasi il 70% di tutte le strutture e lo SPRAR, al pari oggi del SAI, è rimasto un programma secondario, con una distribuzione disomogenea e aleatoria nel territorio nazionale (vi sono regioni del nord nel quale il SAI assicura meno del 20% e talvolta persino meno 10% di tutto il fabbisogno di accoglienza). A causa della mancanza di posti nel SAI i richiedenti asilo, salvo casi particolari, non vengono dunque affatto trasferiti dai CAS al SAI, bensì rimangono confinati per anni nei centri-parcheggio rendendo del tutto inapplicata la norma primaria e creando un sistema con standard generali bassissimi. Il superamento progressivo dei CAS è stato un obiettivo destinato a fallimento perché basato su un presupposto giuridico errato ovvero sulla possibilità di un’adesione volontaria degli enti locali allo SPRAR (e oggi al SAI). Quando, anche con un forte coinvolgimento del sottoscritto, il sistema nacque nel lontano 2002, era inevitabile iniziare su base volontaria, ma con l’evoluzione ventennale che ha visto l’Italia divenire paese di asilo, quella norma sperimentale avrebbe dovuto essere modificata per renderla pienamente aderente al nostro impianto costituzionale.
Infatti secondo l’art. 118 della Costituzione tutti i tipi di funzioni amministrative in qualsiasi materia spettano ai Comuni; la legge può attribuire una determinata funzione amministrativa a un ente diverso (provincia, regione, stato) qualora sussistano esigenze unitarie, sulla base dei principi di adeguatezza, differenziazione e sussidiarietà. Tali “esigenze unitarie” sono senz’altro molto forti in relazione alle misure di prima accoglienza e soccorso che soltanto le amministrazioni dello Stato hanno le forze e capacità “adeguate” a gestire, specie in caso di arrivi consistenti e concentrati in poche aree geografiche. Al di fuori di ciò le esigenze di unitarietà in materia di accoglienza si riducono però alla sola definizione di procedure e standard uniformi da assicurare in tutto il territorio nazionale, mentre l’effettiva concreta realizzazione delle misure di accoglienza dei richiedenti asilo dovrebbe avvenire tramite gli enti locali, come previsto per qualunque altro tipo di servizio sociale.
Così non è stato, poiché si è inseguita un’impossibile sintesi tra l’istituzione di un sistema di accoglienza centrato sul ruolo dei comuni che si voleva “unico” e la natura di adesione volontaria allo stesso: una contraddizione giuridica insanabile. Ancora nel 2022 il numero di richiedenti asilo e dei rifugiati per abitante in Italia rimane al di sotto della media europea (che è di 1.973 persone per milione di abitanti secondo i dati Eurostat). Non c’è quindi alcuna saturazione nell’accoglienza dei richiedenti asilo e ancor meno dei pochi rifugiati che vivono in Italia, bensì c’è la necessità di porre rimedio urgente a una normativa contraddittoria che dopo 20 anni continua a produrre distorsioni profonde, separando artificiosamente e in contrasto con l’ordinamento costituzionale, l’accoglienza dei richiedenti asilo dal sistema dei servizi socio-assistenziali del territorio. Il sistema nazionale di accoglienza viene così mantenuto in una condizione eternamente emergenziale e caotica che produce immensi danni al diritto d’asilo e al Paese, ma che probabilmente giova al mantenimento di molti ed inconfessabili interessi. Gianfranco Schiavone
Antidepressivi, antipsicotici e antiepilettici. Migranti rinchiusi e sedati, tutti i soldi spesi dallo Stato per stordirli e tenerli buoni nei Cpr. Angela Stella su Il Riformista il 7 Aprile 2023
Presentata ieri alla Camera l’inchiesta “Rinchiusi e sedati” sull’uso di psicofarmaci nei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani. Ad organizzare l’incontro, durante il quale sono stati diffusi “dati inediti” ottenuti dalla testata Altraeconomia, il deputato e Segretario di +Europa Riccardo Magi e la senatrice di AvS Ilaria Cucchi. Per Duccio Facchini, direttore della rivista “si tratta di un lavoro non improvvisato ma portato avanti da mesi. I dati rappresentano la vera emergenza del Paese abituata a nutrirsi invece di emergenze propagandistiche”. Poi ha partecipato un aneddoto: “arrivando qui alla sala stampa ho incontrato la Ministra Roccella e le ho lasciato una copia della rivista dicendole che trattava i Cpr. La sua risposta è stata: ‘Cpr che?’, a dimostrazione del disinteresse politico”.
Il giornalista Luca Rondi ha ricordato che presso i Cpr “non sono previste attività, le giornate sono tutte uguali; un operatore ci ha raccontato che gli psicofarmaci sono usati per ‘stordire’ le persone così ‘mangiano di meno, fanno meno casino, rivendicano di meno i loro diritti’. La spesa per gli psicofarmaci è altissima mentre la tutela della salute all’interno dei Cpr non è affidata a figure specialistiche che lavorano per il Ssn bensì da assunti da enti gestori che mirano a risparmiare”. Sui numeri: rispetto all’esterno, su una popolazione di riferimento simile, la spesa in antidepressivi, antipsicotici e antiepilettici nella struttura di via Corelli a Milano è di 160 volte più alta, al “Brunelleschi” di Torino 110, a Roma 127,5, a Caltanissetta 30 e a Macomer 25.
Addirittura a Roma, in cinque anni, sono state acquistate 154.500 compresse di Buscopan su un totale di 4.200 persone transitate. In media, 36 pastiglie a testa quando un ciclo ‘normale’ ne prevede al massimo 15. A Torino la spesa in Clonazepam (Rivotril) dal 2017 al 2019 è di 3.348 euro, quasi il 15% del totale (22.128 euro) mentre a Caltanissetta tra il 2021 e il 2022 sappiamo che sono state acquistate 57.040 compresse: 21.300 solo nel 2021, a fronte di 574 persone trattenute. Significa mediamente 37 a testa. Anche a Milano il Rivotril rappresenta la metà del totale della spesa in psicofarmaci con 196 scatole acquistate in soli cinque mesi. L’altro giornalista Lorenzo Figoni ha denunciato che “non è stato facile ottenere questi dati dalle Asl e dalle Prefetture. C’è un grosso problema di trasparenza”.
Per Ilaria Cucchi “la verità è una: i Cpr sono incostituzionali e vanno chiusi. Le persone vengono trattenute come animali, alcuni ci hanno detto ‘è meglio stare in carcere, almeno ci sono delle regole’”. E invece nell’ultima legge di Bilancio sono stati previsti più di 42,5 milioni di euro per l’ampliamento entro il 2025 della rete dei nove Cpr già attivi. Per Magi “sono luoghi pensati con l’unico scopo dell’afflizione e dell’annientamento della persona. Ne ho visitati molti: quello peggiore è stato il Cpr di Gradisca d’Isonzo. Trovai persone in condizioni di semi incoscienza. Per questo feci anche una denuncia. Questi farmaci vengono somministrati al di fuori delle norme. Tutto questo avviene in strutture dello Stato e merita una risposta immediata dei Ministri Piantedosi e Schillaci. Se non lo faranno oggi stesso (ieri, ndr) presenterò un’interpellanza urgente”.
Intanto a metà gennaio 2023 è iniziato il processo per la morte di Vakhtang Enukidze, 37 anni originario della Georgia, avvenuta il 18 gennaio 2020 proprio nel Cpr di Gradisca dopo che l’autopsia ha accertato che la causa della morte è edema polmonare e cerebrale per un cocktail di farmaci e stupefacenti e non è chiaro come abbia fatto a procurarseli; a Roma invece la Procura indaga sulla morte di Wissem Ben Abdel Latif, 26 anni, che il 28 novembre 2021 morì mentre era legato a un letto dell’ospedale San Camillo di Roma: arrivava dal Cpr di Ponte Galeria con valori del sangue anomali. Angela Stella
Da Striscia La Notizia il 4 febbraio 2023.
Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) continua l’inchiesta di Rajae Bezzaz sul Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Palazzo San Gervasio (Potenza). Sarà trasmessa la seconda parte delle interviste realizzate dall’inviata del tg satirico ad alcuni immigrati ex “ospiti” del centro (perché sprovvisti del permesso di soggiorno), che hanno trovato il coraggio di condividere la loro terribile esperienza.
«Non ho mai visto un posto più brutto in vita mia», racconta un ex “ospite” serbo del centro, che aggiunge: «Stavo chiuso 24 ore su 24 in gabbie come un animale. Ho visto persone con crisi epilettiche, altri ingoiavano batterie per tentare di suicidarsi. Un ragazzo, che si era appena tagliato le vene, è stato preso a sberle davanti a tutti, forze dell’ordine incluse, da un responsabile del CPR. Devi essere forte per stare lì dentro, altrimenti vai giù di terapia con il rischio che poi non ti riconoscano nemmeno i tuoi famigliari quando esci».
Una terribile pressione fisica e psicologica confermata anche dalla testimonianza di un ex “ospite” cubano: «A chi perdeva la lucidità veniva somministrata la “terapia”: è la cosa più diffusa nel centro, più di acqua e cibo. Molti la prendevano per “sfuggire” dalla realtà, per altri era proprio una sedazione». E il testimone aggiunge: «C’era un personaggio del CPR che girava sempre con delle fascette per immobilizzarci, dato che le manette non si possono utilizzare. È molto peggio del carcere, una tortura legalizzata».
Il servizio completo andrà in onda all’interno della puntata di stasera (Canale 5, ore 20.35).
"Un crimine". Sacchi di cibo buttati dai migranti nell'hotel di New York. Storia di Francesca Galici su Il Giornale l’11 gennaio 2023.
Mai come questa volta, il vecchio adagio "tutto il mondo è paese" è veritiero. Dagli Stati Uniti, e per la precisione da New York, arriva la denuncia di quanto in Italia già da tempo si segnala nel silenzio generale della solita classe politica. Il New York Post ha raccolto la testimonianza di Felipe Rodriguez, dipendente dell'hotel Row Nyc, che si trova nei pressi di Times Square. Questo non è un hotel normale perché da alcuni anni è stato selezionato, insieme ad altri, per ospitare circa 26.100 dei 38.700 migranti che si sono riversati nella Grande Mela dalla primavera. Ebbene, Rodriguez ha raccontato che gli ospiti di questo albergo, per i quali vengono pagati anche 500 dollari a notte per camera, rifiutano il cibo che viene loro distribuito, lo buttano, e utilizzano delle piastre fuori norma per cucinarsi i pasti.
A noi italiani tutto questo non giunge certo nuovo, di testimonianze simili ne sono piene da anni le cronache. Ma negli Stati uniti, evidentemente, è qualcosa che ancora desta clamore. Rodriguez ha commentato che è "un crimine buttare via così tanto cibo", mentre il New York Post ha pubblicato le immagini di sacchi della spazzatura pieni di panini, bagel e altro cibo. Tutto cibo buono e adatto al consumo, sprecato dai migranti e tolto, magari, a famiglie in difficoltà che avrebbero potuto mettere in tavola qualcosa in più, gradendo quanto offerto. Altre foto pubblicate dal giornale, invece, mostrano alcune stanze disseminate di lattine e bottiglie di birra vuote, e il dipendente ha riferito di feste selvagge a base di alcol e risse, mostrando ad esempio un video registrato con il cellulare dove si vedono due donne presunte migranti che si prendono per i capelli, la settimana scorsa, mentre alcuni uomini lottano per separarle.
Scene di degrado che non stupiscono ma che danno l'idea di come, ovunque, la gestione dei migranti appaia complicata. Un agente del dipartimento di polizia di New York che era in servizio la notte di capodanno ha confermato il caos che regna nell'hotel, con l'atrio disseminato di bottiglie rotte, persone che quella notte ballavano in mezzo ai vetri e altri sdraiati sui mobili e sul pavimento. "Ci sono dei migranti che sono in cerca del sogno americano, di una seconda possibilità. Ma molti altri stanno causando il caos, ci sono molti litigi, droghe e abusi per molestie sessuali", ha spiegato Rodriguez, che lavora in quell'hotel dal 2017 e che si dice choccato per quanto accade nella struttura da quando il sindaco Eric Adams ha iniziato a usarlo come Centro di risposta e soccorso umanitario.
Il neocolonialismo e il diritto a rimanere a casa propria. Alessandro Di Battista su L'Indipendente il 31 dicembre 2022.
«Coloro che emigrano sperimentano la separazione dal proprio contesto e spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. La frattura riguarda le comunità di origine che perdono gli elementi più vigorosi e intraprendenti e le famiglie quando migra uno o entrambi i genitori, lasciando i figli nel Paese di origine. Di conseguenza, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra». L’ha scritto Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti nel 2020. Ultimamente non vi è politico o giornalista che non si riempia la bocca della parola diritto. C’è chi teorizza il diritto a non usare il Pos, chi il diritto a girare con 5000 € in contanti in tasca, chi il diritto alla moda, all’eleganza, come ha fatto Aboubakar Soumahoro nel suo tentativo, fallito, di difendere la moglie che gira con borse griffate mentre i lavoratori nelle sue cooperative se la passano male. Ma del diritto a non emigrare, del diritto a poter rimanere a casa propria, del diritto a prosperare nel Paese dove si nasce, in pochi hanno il coraggio di parlare. Il motivo è semplice. Toccare le cause che spingono milioni di cittadini a lasciare la propria terra per cercar fortuna al di là dello Stretto di Gibilterra, del Bosforo o del Rio Bravo è come toccare i fili della luce.
Il controllo dei flussi come arma imperialista
Nel 2020 tornai in Italia dall’Iran via terra. Attraversai la Turchia, la Bulgaria ed i Balcani. A Istanbul mi colpì il numero di giovani siriani, molti dei quali senza tetto, nel quartiere storico di Sultanahmet. Inoltre, poco lontano Sarajevo, in Bosnia, visitai il centro-accoglienza di Usivak. Mi accompagnò un ragazzo afgano di Herat. Aveva una ventina di anni. Aveva attraversato il confine iraniano-afgano a Kohsan, di lì era arrivato a Teheran, poi Tabriz e poi tutta l’Anatolia fino a Istanbul. Mi disse che entrare in Bulgaria era stato molto più facile del previsto. Voleva arrivare in Germania ma dalla Bosnia era complicato uscire. A Usivak conobbi altri ospiti del centro. C’erano siriani, afgani, pakistani e moltissimi marocchini. Già ne avevo incontrati tanti nel quartiere ottomano di Sarajevo. Mi spiegarono che per loro, sebbene soltanto lo Stretto di Gibilterra li dividesse dalla Spagna, era molto più semplice entrare in Europa attraverso la rotta balcanica. Erano tutti arrivati in Bosnia dopo aver preso un aereo per Istanbul e attraversato il confine con la Bulgaria. Per entrare in Turchia non avevano avuto bisogno neppure del visto. Al presidente turco Erdogan, evidentemente, quella massa di disperati alla ricerca di un futuro in Europa era ed è molto utile. O per indebolire l’Europa stessa creando tensioni sociali in Grecia e Bulgaria o, banalmente per ottenere in cambio della gestione dei migranti denari freschi provenienti dalla Commissione. Sei miliardi di euro, ad oggi, sono finiti nelle tasche di Erdogan arricchendo la Turchia e, di fatto, consegnandole un’arma di ricatto politico da usare quando riterrà più opportuno. Ennesima strategia fallimentare da parte europea. Oggi la Turchia, oltre a controllare la rotta balcanica, di fatto, controlla anche gran parte di quella mediterranea. Truppe di Ankara, complice la guerra in Libia del 2011 voluta da Sarkozy e dalla Clinton e avallata in modo indecente dal governo Berlusconi, sono presenti in Turchia e l’influenza di Erdogan sul Paese è cresciuta a dismisura. Questi fatti dovrebbero convincerci, una volta per tutte, che il controllo dei flussi migratori è divenuto un’arma geopolitica. Dunque un’arma potenzialmente imperialista. Erdogan pare intoccabile. A lui tutto è concesso. Può effettuare raid in Siria, può massacrare la popolazione curda, può aprire o chiudere, a suo piacimento, il “rubinetto” dei flussi. La Turchia è membro della Nato. Come la Francia del resto. E anche alla Francia, in Africa, tutto è consentito. Tout est pardonné. Fu Nicolas Sarkozy, più di ogni altro, a volere la morte di Gheddafi. L’ex dittatore libico aveva finanziato la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007. Inoltre Gheddafi intendeva sviluppare – anche grazie a Mosca e Pechino – il rascom, un satellite interamente africano con un obiettivo ambizioso: rendere le telecomunicazioni più libere dal controllo occidentale. Non solo. Jean-Paul Pougala, economista e docente di Sociologia e Geopolitica a Ginevra, ritiene che Gheddafi avesse in mente la creazione di tre istituzioni finanziarie sulle quali far poggiare la Federazione africana, una sorta di unione del continente. Gheddafi pensava ad una Banca africana di investimenti con sede a Sirte, in Tripolitania, città particolarmente cara al rais, una Banca centrale africana con sede ad Abuja, in Nigeria, Paese più popoloso del continente e possibile motore dell’economia della Federazione e il Fondo Monetario Africano con sede a Yaoundé, in Camerun.
Alcuni anni fa WikiLeaks pubblicò una mail inviata alla Clinton da Sidney Blumenthal, funzionario americano già collaboratore di suo marito Bill. La mail è del 2 aprile del 2011, pochi giorni dopo l’inizio di Unified Protector, l’operazione militare a guida Nato che costrinse alla fuga Gheddafi prima del suo assassinio. Ecco il testo della mail: «Secondo le informazioni disponibili, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento. Verso la fine del mese di marzo 2011 questi stock sono stati spostati a Sabha (sud-ovest in direzione del confine libico con il Niger e il Ciad); presi dai caveaux della Banca centrale libica a Tripoli. L’oro è stato accumulato prima dell’attuale ribellione e doveva essere utilizzato per stabilire una moneta panafricana basata sul dinar libico. Questo piano è stato progettato per fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA)». Nella mail Blumenthal inserisce un commento di un suo informatore: «Secondo individui ben informati tale quantità di oro vale più di 7 miliardi di dollari. Gli ufficiali dei servizi segreti francesi hanno scoperto il piano dopo lo scoppio dell’attuale ribellione e questo è stato uno dei fattori che hanno convinto il presidente Nicolas». Un’alternativa al Franco CFA, una moneta di stampo coloniale, ancorata al franco francese prima, e all’euro poi, garantita dal Tesoro francese ed ancora utilizzata da molti Paesi africani sebbene quelli che fanno parte dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa) stiano via via adottando una nuova valuta, l’Eco, sempre agganciata all’euro ma non più vincolata alla Banca di Francia. Ad ogni modo pare che Gheddafi volesse, con la creazione di istituzioni finanziarie africane, con la costruzione di maggiore autonomia politica per l’Africa e con una nuova moneta panafricana, rendere più indipendente il continente. È probabile che sia stato ucciso per questo, altro che per la tutela dei diritti umani in Libia. Oltretutto i francesi intendevano colpire gli interessi di Eni in Libia, tutto a vantaggio di Total.
A Parigi nel continente africano è ancora tutto concesso
Quel che è certo è che la recente storia africana è caratterizzata da decine di colpi di Stato spesso avallati, se non addirittura organizzati, dai servizi segreti occidentali, a cominciare da quelli francesi. Il 13 gennaio 1963, in Togo, il presidente Sylvanus Olympio venne assassinato a seguito di un colpo di Stato organizzato da Gnassingbé Eyadéma, militare togolese nonché veterano dell’esercito francese che aveva combattuto nella Legione straniera in Algeria ed Indocina contro i movimenti di liberazione che lottavano per affrancarsi dal colonialismo francese. Olympio intendeva dotare il Togo di una propria moneta. Quattro anni prima in Guinea, il SDECE (Service de documentation extérieure et de contre-espionnage), i servizi segreti francesi dell’epoca, organizzarono in Guinea l’operazione “Persil”. Sékou Touré, presidente del Paese, non intendeva rompere con la Francia tuttavia voleva dotare la Guinea di una moneta sovrana per ottenere un’indipendenza reale e non solo di facciata. Con il referendum del 1958 la Guinea aveva scelto l’indipendenza dalla Francia e la propria moneta. Fu il primo Paese a farlo. Parigi non dimenticò e, per evitare che altri potessero seguire l’esempio della Guinea, iniziò una guerra politico-economica senza precedenti. I servizi segreti francesi finanziarono gruppi di mercenari che stabilizzarono il Paese. Inoltre, sempre il SDECE riuscì a riversare un enorme quantitativo di banconote guineane false per far crollare l’economia del Paese già piuttosto deficitaria. Fu questa l’operazione “Persil”. Modibo Keïta, presidente del Mali, venne deposto da un golpe incoraggiato dalla Francia. Anch’egli aveva avanzato la richiesta di una robusta modifica dell’area CFA. Anche Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, venne assassinato per le sue battaglie anti-colonialiste. Sankara si rifiutò di pagare il debito del Paese perché riteneva l’assistenzialismo finanziario occidentale una forma subdola di colonizzazione. Sankara non accettava l’eccessiva influenza parigina sulla sua terra. «Il debito è ancora il neocolonialismo con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici. Anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto i canali di finanziamento dei finanziatori. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per 50, 60 anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per 50 anni e più. Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso». Questo discorso venne pronunciato da Sankara poche settimane prima di essere assassinato. «Senza l’Africa la Francia non avrà storia nel ventunesimo secolo»: parole di Francois Mitterrand nel 1957. E Chirac, nel 2008, disse: «Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo».
Porti aperti vs porti chiusi: un dibattito che sposta il problema
Il continente africano è ancora un continente sotto occupazione. L’occupazione più pericolosa è quella finanziaria. I movimenti di liberazione africani, i partiti politici che portano avanti politiche sovrane, le lotte e le rivendicazioni dei giovani, non ricevono attenzioni dalle nostre parti. D’altro canto mostrare chi lotta per il diritto di restare a casa propria sarebbe altamente pericoloso per l’élite politica. Per quell’establishment politico-finanziario compatto quando si tratta di inviare armi in Ucraina, quando si tratta di difendere i parametri europei, quando si tratta di esprimere solidarietà ad Israele senza sé e senza ma nonostante in Palestina esista l’apartheid. Quel sistema politico, mediatico e finanziario che ha un disperato bisogno di trovare argomenti per differenziarsi agli occhi degli elettori e dei lettori. E in tal senso l’argomento principe è la questione migratoria. Da una parte i porti chiusi, dall’altra le cooperative aperte. Da una parte chi dice «tornatevene a casa vostra», dall’altra chi pensa all’accoglienza in modo peloso. «Dobbiamo accogliere più migranti, serve manodopera e i nostri giovani sono pochi». Questo disse Enrico Letta alcuni mesi fa. È una frase neo-colonialista. Tito Boeri, ex Presidente dell’INPS nel 2017 disse: «Se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni. Ogni anno gli stranieri versano otto miliardi di euro in contributi e ne prelevano tre. È vero, un giorno avranno la pensione pure loro, però molti torneranno al loro Paese d’origine. I loro versamenti saranno a fondo perduto». I migranti ci arricchiscono insomma. E se le migrazioni arricchiscono l’Europa evidentemente impoveriscono l’Africa. Da anni l’Africa perde “gli elementi più vigorosi e intraprendenti”, per usare un’espressione di Papa Francesco, ma questo non interessa praticamente a nessuno. Lo status quo non va modificato e l’uomo bianco deve restare il deus ex machina. L’uomo bianco che vuole dare di più al continente africano (dare di più, mica depredare di meno), l’uomo bianco degli ipocriti piani Marshall per l’Africa, l’uomo dell’accoglienza come se fosse l’accoglienza la risposta alla povertà e alla mancanza di sovranità in Africa. La debolezza manifestata dall’Europa rispetto alla guerra in Ucraina è una tragedia per tutti noi europei, ucraini innanzitutto. Chissà se tale manifesta sudditanza agli USA da parte europea non possa almeno convincere i popoli africani che è giunta l’ora di ribellarsi apertamente al neocolonialismo europeo, cominciando da quello francese. Forse i pomodori sono maturi e il potere del “caporalato politico-finanziario”, per lo meno in Africa, inizia scricchiolare. [di Alessandro Di Battista]
Domenico Quirico per “la Stampa” il 31 Dicembre 2022.
Dopo più di un decennio di questa Migrazione, che porterà per sempre il nome di Lampedusa, davanti all'ennesimo decreto governativo anti "invasione", coloro che si proclamano difensori dei migranti, giuristi, politici, buoni samaritani professionisti o volontari, non sembrano aver fatto alcun passo avanti. La Migrazione pare ormai esulare dal tempo della Storia, dal tempo normale. E questo è orribile.
Con l'esperienza accumulata in dieci anni di fatica bisognerebbe cominciar da capo. Invece ci si accontenta di scremare nelle brutalità del legislatore il numero delle scelleratezze più comuni. Ci si appaga di un minimo di inibizioni, l'ideale di rado supera un concetto di approssimativa giustizia.
Ovvero che sia consentito alle navi delle Ong di operare senza troppe minacce, che non si fulminino ammende o peggio ancora sequestri, insomma il vecchio arsenale dei dispotismi cauti che ricorrono volentieri a gabellieri e altri arnesi del fisco. Singolare che nessuno denunci che si trasformano così i vagabondi delle frontiere in eterni assenti, si baratta la pietà con una attesa vuota di soluzioni. Siamo immersi, anche i volenterosi, da anni! in questo malessere senza soluzione, molto più triste e sconfortante del dolore.
Quello che sembra intoccabile dalle due parti, quella degli xenofobi con i loro sussulti di paura, diffidenza e odio e quella degli uomini di buona volontà, è il concetto che la migrazione sia qualcosa di ineliminabile, maledizione o benedizione a seconda dei punti di vista, in cui siamo e saremo impeciati per sempre.
Anche questo dibattito di fine anno, vedrete, finirà annegato in una palude di emozioni e pregiudizi. Raccontarlo fornirà un inizio e una fine apparente a qualcosa che ne è privo.
Si è fatto teatro, niente più. La Migrazione, ahimè, in dieci anni si è fatto Sistema a cui tutti, buoni e cattivi, attingono delle ottime ragioni perché continui: tutti meno evidentemente i migranti, che paiono condannati, per copione, a un eterno Viaggio, viandanti senza riposo, raminghi senza casa.
Essi si ritrovano nel loro ruolo di anime morte che vanno trattate da anime morte. In fondo è un'altra forma di presenza. A meno che anche loro, i questuanti, i brindelloni, gli sciagurati, prima o poi, dopo aver consumato labbra e ginocchia in qualche devozione, non trovino rifugio negli angoli meno commendevoli delle nostre cattive abitudini di fortunati e soddisfatti. Eccola la integrazione!
Qualsiasi sia il fine aiutiamoli o respingiamoli, si indicano come cause della migrazione, in modo generico, senza specificazione geografica sociale politica, senza nomi e cognomi: la guerra, l'accidente climatico, la voglia di viver meglio, l'avidità umana, miti che si propagano sui notiziari, di origine incerta.
Quello che nessuno dice è che la Migrazione, anche questa, soprattutto questa è una conseguenza della lotta di classe in vaste zone del mondo cosiddetto povero, terriccio per tutte le infamie di presidenti, dittatori, ministri imprenditori manutengoli, canaglie di governo e di sottogoverno che la rendono possibile e la alimentano. E quindi annullare la Migrazione consiste nell'eliminare dal Presente storico queste classi di potere che con la nostra attiva collaborazione di Occidente continuano, rubando e violentando, a produrre migranti.
È sconsolante che dopo dieci anni buoni e cattivi si accordino nell'ignorare questa Storia, facendo emergere il migrante quando si materializza su qualche barca dal Vuoto.
Per ricacciarlo indietro o per salvarlo dal naufragio. Scomodando i bei racconti sull'ospitalità... l'ospite sacro per il patriarca biblico, per il greco dell'Iliade, e per il beduino nella tenda.
Con questo stratagemma ognuno continua ad avere il suo ruolo, il razzista smania con i suoi guazzetti di superstizioni muffite per ottenere consenso elettorale; e le Ong rimpastano alla meglio i loro meriti («senza di noi i morti sarebbero molti di più!». Vero: ma i morti?) per avere uno scopo, ottenere donazioni e distribuire stipendi ai samaritani, giustamente, di mestiere. Gli esperti "in utroque iure" riepilogano le pandette tentando di mutarle in mistiche invece di esigere applicazioni.
Gli scafisti puntano al pratico, aggiornano le piste marittime e terrestri e allargano le connesse corruzioni. La Comunicazione vi trova il cantuccio di rattoppature di pietismo da esportazione, tiene in piedi un "genere" tutto rammendi ormai di luoghi comuni, la descrizione della cattiva sorte del migrante, le sue pene il lager libico, la traversata, gli anniversari delle tragedie più dolorose, ognuno accudisce la sua tela tutta rammendi di luoghi comuni. Il povero serve sempre.
Per questo deve continuare a esistere. Riconoscere che il migrante è semplicemente la vittima di una lotta di classe brutale e senza pietà in alcune aree del mondo dove gli abitanti vivono con meno di due dollari al giorno imporrebbe ben altro impegno: rinnegare i regimi con cui "dobbiamo" tenere buoni rapporti perchè forniscono materie prime essenziali o presidiano zone del mondo in cui sciamerebbero i nemici della nostra sicurezza. Altro che guerre e povertà generiche, da predica della domenica: delitti politici con nomi cognomi e patronimici, imputati per processi e galere reali, altarini di nefandezze da scoperchiare con ben alimentate e benedette rivoluzioni.
Si alzano subito guaiiti di raccapriccio: ma l'uranio il petrolio il gas il cobalto il rame dove andiamo a prenderli se non abbiamo complici in quelle parti del mondo? Per porre rimedio alla migrazione occorre imporre la giustizia a casa loro eliminando questi ciurmaglia di ladri al governo che sono i veri, riveriti scafisti.
I mezzi non ci mancano. Basta osservare come sappiamo applicarli implacabilmente contro potenze ben più pericolose che disturbano il buon ordine come la Russia e l'Iran: sanzioni, sequestri di beni a oligarchi, raiss e famigli depositati nelle banche nostre (ci ritroveremmo buona parte degli aiuti per lo sviluppo), divieti di uscita, svelamento di furti, soperchierie, bugie.
Soros, il gran nemico dell'Occidente. Storia di Lodovica Bulian su Il Giornale il 30 ottobre 2023.
C'è anche il miliardario e filantropo George Soros nella lista dei donatori che negli anni hanno sostenuto con un fiume di denaro la galassia che sotto il velo umanitario oggi giustifica l'attacco di Hamas del 7 ottobre. George Soros, di origine ungherese, fuggito alle deportazioni naziste, avrebbe donato 15 milioni di dollari dal 2016 a gruppi che sponsorizzano alcune delle no profit che veicolano l'ideologia anti Israele. Un paradosso, visto che Soros è spesso bersaglio di attacchi antisemiti, ma la sua fondazione, la Open Society Foundation, non si è mai distinta nel sostegno a Tel Aviv. Anzi.
Come spiega il New York Post, ha donato nel tempo 13,7 milioni a Tides Centers, un gruppo di sinistra noto per finanziare a sua volta organizzazioni politicizzate sui temi sociali, dell'immigrazione, della causa palestinese in chiave anti israeliana. E basta scavare nella rete di Tides per capire fino a che punto. Tides sostiene tra le altre anche la ong «Samidoun», nota come «Palestinian Prisoner Solidarity Network», che si oppone alla detenzione di attivisti filo-palestinesi da parte dello Stato di Israele, e si batte per gli quelli arrestati nei paesi occidentali per il loro presunto coinvolgimento in attività terroristiche. Samidoun è sponsorizzata dall'Alleanza per la Giustizia Globale, una rete di sinistra che sostiene fino a 140 progetti pro-Palestina, ma anche per le frontiere aperte sull'immigrazione. Media Research Center, un think tank conservatore americano nei giorni scorsi ha scritto una lettera a Soros per chiedere di interrompere i finanziamenti, incompatibili con la linea degli Stati Uniti: «Ma sembra determinato a sostenere le organizzazioni antisemite contrarie alla civiltà occidentale», ha detto il presidente Dan Schneider.
Tra i beneficiari di Tides, finanziata da Soros, c'è l'Adalah Justice Project, con sede nell'Illinois, che il giorno del massacro ha pubblicato sui social una foto di un bulldozer che abbatteva parte della recinzione di confine israeliana: «I colonizzatori israeliani credevano di poter intrappolare per un tempo indefinito due milioni di persone». Nel 2020, ha donato 34 milioni per progetti in Medio Oriente e in Nord Africa. Ha sostenuto anche ong - come Al Haq e Al Mezan - che Israele aveva inserito in una black list, allertando i finanziatori internazionali, perché ritenute vicine a organizzazioni terroristiche come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
E ci sono poi le donazioni a ong che si occupano dei diritti dei migranti e dei rifugiati. Per questo spesso Soros era finito nel mirino dei governi europei contrari all'immigrazione. Uno scontro nel 2018 c'era stato con l'allora ministro dell'Interno Salvini, che aveva accusato Soros di volere «riempire l'Italia e l'Europa di migranti». La fondazione aveva reagito parlando di «affermazioni false», ricordando di essere la seconda filantropia più grande al mondo che «sovvenziona gruppi coinvolti in questioni sociali, inclusa la migrazione. I nostri finanziamenti aiutano le organizzazioni in Italia che lavorano sulle sfide poste dalla migrazione. Non forniamo - aveva precisato - sostegno alle Ong nel Mediterraneo, anche se elogiamo questi sforzi umanitari».
Le Ong si ribellano alla Ue perché dà ragione all'Italia. Christian Campigli Il Tempo il 06 ottobre 2023
Una vittoria chiara, perentoria, cristallina. L’Unione europea, dopo essersi voltata dall'altra parte per anni, ha finalmente virato verso la posizione italiana sulla stesura del regolamento per la gestione delle crisi dei migranti. Il governo guidato da Giorgia Meloni ha ottenuto infatti che il passaggio sulle Ong venisse stralciato. In sostanza, anche i paladini della sinistra dovranno attenersi alle regole imposte dai Paesi del Vecchio Continente. Una novità che non è piaciuta affatto a Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch, che ha rilasciato un’intervista a la Repubblica. «Troviamo assurdo l’accanimento dell’Italia riguardo l’emendamento sulle ong, rivela la chiara volontà di continuare a criminalizzare l’intervento umanitario. L’Europa ha di fatto avallato la posizione del governo Meloni che contraddice il principio del soccorso umanitario, da tempo alla base del diritto internazionale».
E proprio mentre Sea Watch protestava contro la posizione del nostro esecutivo, la nave Open Arms veniva bloccata per venti giorni, dopo essere sbarcata, quarantotto ore fa, nel porto di Carrara. Un fermo amministrativo per aver disatteso il divieto di effettuare soccorsi multipli. Una notizia che è giunta alla vigilia della nuova udienza a Palermo del processo Open Arms, a carico dell’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuti d’atti d’ufficio. Una decisione, quella del fermo della Ong spagnola, aspramente criticata dai deputati toscani del Pd. Che hanno annunciato un’interrogazione parlamentare. «Oltre all’aspetto morale, punire e sanzionare le Ong appare una pratica apertamente in contrasto con i principi e le norme del diritto internazionale che garantiscono il diritto per tutti gli individui di essere soccorsi in mare – si legge in una nota- È urgente e necessario sospendere e le sanzioni pecuniarie ed amministrative commutate ad Open Arms ed alle altre navi».
La stessa Ong spagnola protesta: «Riteniamo inaccettabile dover subire questa situazione per aver adempiuto al nostro dovere, cioè per aver rispettato il diritto del ,are e le convenzioni internazionali. È obbligo legale e morale del capitano di qualsiasi nave prestare soccorso ai naufraghi in pericolo. Se salvare vite umane è un crimine, non c’è momento migliore per unirti alla nostra banda. Diventa un criminale». Ad agosto, quando la stessa imbarcazione venne bloccata per la prima volta, due assessori della Regione Toscana, Serena Spinelli e Monia Monni, salirono a bordo della nave e incontrarono il capitano e l’equipaggio per portare «la nostra solidarietà e la nostra gratitudine».
Una visione del mondo ribadita ieri pomeriggio, a margine di una tavola rotonda organizzata a Firenze da Ance. «Il governo ormai si nasconde dietro un dito che non copre più niente, nemmeno la loro vergogna – ha sentenziato Monia Monni Stanno facendo a pezzi il sistema dell'accoglienza diffusa». Una valutazione che è stata smontata dal deputato e coordinatore regionale toscano di FdI, Fabrizio Rossi: «Alla sinistra che non fa che annunciare interrogazioni senza se senza ma, accusando il governo Meloni di non dimostrare umanità sulla vicenda delle sanzioni alla Ong Open Arms, rispondiamo coni fatti: l’accordo Ue, raggiunto con gli ambasciatori sul patto per le migrazioni, nel quale l’emendamento tedesco pro Ong è stato rivisto. La nostra linea è chiara e, a chi sa far solo demagogia, non ricordandosi evidentemente che la disumanità appartiene invece ai trafficanti di morte, ribadiamo una scelta di legalità e di responsabilità che l’Ue sta comprendendo, grazie all’impegno del presidente del Consiglio che, di fatto, ha portato l’Europa in Africa».
Giorgia Meloni ricicla la bufala secondo cui le Ong fanno aumentare le partenze dei migranti. La presidente del Consiglio scrive al cancelliere tedesco Olaf Scholz per lamentarsi degli aiuti alle associazioni umanitarie. Ritirando fuori una teoria cara alla Destra e del tutto priva di fondamento scientifico. Simone Alliva su L'Espresso il 25 settembre 2023
Continua a distanza lo scontro tra l'Italia e la Germania sul tema migranti. Questa volta la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha deciso di scrivere al cancelliere tedesco Olaf Scholz: «Ho appreso con stupore che il Tuo governo - in modo non coordinato con il governo italiano - avrebbe deciso di sostenere con fondi rilevanti organizzazioni non governative impegnate nell'accoglienza ai migranti irregolari sul territorio italiano e in salvataggi nel Mare Mediterraneo. Entrambe le possibilità suscitano interrogativi» è l'incipit che si legge nella missiva datata 23 settembre.
Meloni nel passaggio successivo sembra riavvolge il nastro al 2017: la flotta umanitaria come taxi del mare, pull factor dei flussi migratori: «Inoltre, è ampiamente noto che la presenza in mare delle imbarcazioni delle Ong ha un effetto diretto di moltiplicazione delle partenze di imbarcazioni precarie che risulta non solo in ulteriore aggravio per l'Italia, ma allo stesso tempo incrementa il rischio di nuove tragedie in mare».
Una fake news smentita da numeri e diversi e importanti studi. Come già dichiarato a L'Espresso da Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI): «Le Ong non hanno alcun effetto significativo sulle partenze. Abbiamo fatto ricerche con Eugenio Cusumano (ricercatore in Relazioni internazionali dell’Università di Leiden, nei Paesi Bassi) sull’attività delle Ong nel Mediterraneo centrale che mostra l’inconsistenza della teoria che accusa il soccorso umanitario di attrarre la migrazione (pull factor, ndr). Ho dati che vanno da inizio 2018 fino a dicembre 2021, più di 1200 giorni. Le Ong non influenzano le partenze. Sono sicuramente le condizioni meteo-marine. Le persone a soccorso delle Ong prima di sbarcare qui sono state meno del 15 per cento in totale. E durante il governo Meloni meno del 10. Il 90 per cento arriva in maniera autonoma».
La tesi portata avanti dalla Presidente del Consiglio risale al 2014 quando l’allora direttore di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, Gil Arias-Fernández iniziò a sostenere pubblicamente che le navi di Mare Nostrum stavano facendo aumentare i flussi dal Nord Africa. In una Risk Analysis della stessa agenzia relativa al 2016 l’accusa è stata spostata sulle Ong, intervenute nel frattempo a colmare il vuoto lasciato dalla chiusura dell’operazione italiana. Una teoria, diventata in brevissimo tempo il leitmotiv alla base delle politiche della destra e oggi del governo italiano. Ma a smentire la Premier più recentemente è stata una ricerca scientifica pubblicata su Scientific report - rivista internazionale dello stesso gruppo editoriale di Nature - che ha indagato per dieci anni la rotta migratoria che interessa direttamente l'Italiana. Lo studio si basa su dati ufficiali, quelli dell'Agenzia europea per la protezione dei confini - Frontex - e quelli provenienti dalle guardie costiere della Tunisia e dalla Libia, insieme alle rilevazioni di altre agenzie internazionali tra cui l'Organizzazione mondiale per le migrazioni delle Nazioni Unite, e giunge alla conclusione che a determinare un maggior numero di partenze non sono le Ong, bensì fattori come le condizioni meteorologiche nel Mediterraneo, i disastri ambientali, le questioni economiche, l'intensificarsi dei conflitti e l'instabilità politica dei paesi di partenza.
«Abbiamo comparato il fenomeno delle partenze prima e dopo l’inizio delle attività di ricerca e soccorso, il nostro modello predittivo dice che sarebbe andata allo stesso modo anche se le seconde non fossero intervenute», spiega la ricercatrice che ha guidato lo studio pubblicato su Scientifi report, Alejandra Rodríguez Sánchez dell’Università di Potsdam (Germania). Una ricerca su un modello di tipo contro-fattuale: mostra cosa sarebbe successo modificando un certo fattore. Le operazioni Sar, dunque non fanno aumentare le traversate.
Estratto da editorialedomani.it martedì 26 settembre 2023.
Le navi delle ong non favoriscono le migrazioni. E anzi, quando le imbarcazioni umanitarie riducono il numero delle operazioni di salvataggio, gli arrivi non calano. Aumentano.
Non sono i presunti nemici dell’Italia né i buonisti dell’opposizione a smentire la tesi del pull factor, secondo cui la presenza in mare delle ong favorisce l’aumento degli sbarchi. È il ministero dell’Interno stesso, con i dati diffusi periodicamente, a confutare la propaganda della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, molto cara all’intero governo.
Già nel novembre 2022, il ricercatore dell’Ispi, Matteo Villa, scriveva: «Partenze di migranti con ong in area Sar (Search and rescue, ndr): 125 al giorno. Con nessuna ong: 135 al giorno». E nel 2019 era stato provato che la “guerra” alle ong non aveva frenato le partenze dalla Libia. Eppure la tesi del pull factor è stata rilanciata, proprio ieri, dalla premier Meloni in una lettera inviata al cancelliere tedesco, Olaf Scholz.
«È ampiamente noto che la presenza in mare delle imbarcazioni delle ong ha un effetto diretto di moltiplicazione delle partenze di imbarcazioni precarie che risulta non solo in ulteriore aggravio per l’Italia, ma allo stesso tempo incrementa il rischio di nuove tragedie», si legge nella missiva che contesta il finanziamento del governo tedesco alla ong Sos Humanity. Un caso che ha scatenato nei giorni scorsi le reazioni irritate di altri ministri, compreso il titolare della Difesa, Guido Crosetto. L’effetto è stato l’inasprimento dei rapporti italo-tedeschi.
Le ultime settimane sono una conferma della marginalità delle ong nei salvataggi: c’è stato l’aumento di approdi sulle coste italiane, nonostante le imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie siano state quasi messe al bando dal governo con un apposito decreto. Fino alla fine di luglio sono stati registrati quasi 90mila sbarchi, sebbene ci siano state poche navi ong presenti, che hanno portato in Italia solo 3.777 migranti. Il risultato è chiaro: non esistono i “taxi del mare” – definizione molto in voga a destra – visti come un’opportunità dai migranti.
(...)
Una ricerca di Scientific report, rivista del gruppo internazionale di Nature, va nella stessa direzione. Definisce «antiscientifico» il discorso del pull factor correlato alla presenza delle organizzazioni non governative e mette in evidenza i problemi spingono a migrare. «L’insieme dei risultati (della ricerca, ndr) indica che la migrazione attraverso il Mediterraneo centrale tra il 2011 e il 2020 potrebbe essere stata guidata da fattori quali conflitti o condizioni economiche o ambientali, piuttosto che da operazioni di ricerca e salvataggio», si legge nello studio. Si scappa dalla fame e dalla siccità, insomma. «Ripetiamolo tutti in coro: il pull factor dei salvataggi in mare non esiste», sintetizza Villa. E del resto a palazzo Chigi basterebbe leggere la documentazione del Viminale per inviare lettere più precise a Berlino.
Lite Roma-Berlino sui soldi Ong. Crosetto: "Gravi i finanziamenti". La Germania: "Salvare un dovere". Respingimenti, Tajani in Francia. Fabrizio De Feo il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.
Il casus belli è l'erogazione di un finanziamento da 790mila euro alla Ong Humanity1 da parte del governo tedesco. Una decisione, quella del parlamento di Berlino, che arriva nei giorni drammatici del caos sbarchi, con gli occhi del mondo puntati sullo stato di emergenza di Lampedusa. Il gesto, insomma, anche alla luce della coincidenza temporale, assume i contorni del paradosso visto che non è accompagnato da un analogo e conseguente impegno a una maggiore accoglienza di quote di migranti o da un appello a favore di un maggiore sostegno dell'Unione Europea all'Italia, lasciata, come sempre, a gestire in splendida solitudine la drammatica situazione.
L'ira del governo italiano questa volta non è ammantata da perifrasi o da toni particolarmente diplomatici. Guido Crosetto, intervistato da La Stampa, definisce «molto grave» l'atteggiamento di Berlino, che «finge di non accorgersi che, così facendo, mette in difficoltà un Paese che in teoria sarebbe 'amico'». «Di fronte alla nostra richiesta d'aiuto, questa è la loro risposta? Noi non ci siamo comportati allo stesso modo quando Angela Merkel convinse l'Ue a investire in Turchia miliardi di euro per bloccare i migranti che arrivavano in Germania dal Medio Oriente» continua Crosetto. Per il ministro non c'è un «disegno europeo» contro il governo italiano: «È l'approccio ideologico di una certa sinistra, che non tiene conto delle conseguenze delle loro teorie sui popoli».
A Crosetto replica un portavoce del ministro degli Esteri tedesco, sostenendo il «dovere di salvataggio» e aggiungendo che l'obiettivo di Berlino «è quello di promuovere sia il salvataggio civile in mare che progetti a terra per le persone soccorse in mare in difficoltà», ma Antonio Tajani è pronto a volare nel Paese tedesco per chiarire la questione. E lo stesso Crosetto, parlando con l'Agenzia Italia, nel pomeriggio controreplica: «Anche l'Italia salva, e ha salvato, migliaia di persone, anche senza l'aiuto delle Ong» dice il ministro della Difesa, «far finta che le migrazioni si affrontino solo finanziando le Ong e non stando accanto alle nazioni amiche è un modo poco congruo» di affrontare il problema.
Se il ministro della Difesa non nasconde il proprio disappunto, ugualmente affilate e battagliere sono le parole del ministro degli Esteri. «Il governo italiano sta dalla parte dell'Europa sulla questione dei migranti, ma questo non significa essere muti o acquiescenti» dice Antonio Tajani, intervenendo a «In mezz'ora» su Rai Tre. «Domani sarò a Parigi e dirò alla mia collega Catherine Colonna che a Ventimiglia la Francia sbaglia». «Giovedì invece incontrerò la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, e cercherò di capire perché la Germania ha deciso di finanziare organizzazioni non governative (Ong) in Italia. Berlino vuole che i migranti arrivino tutti in Italia e poi non vadano in Germania? É un po' strano quest'atteggiamento». Tajani ragiona anche su una strategia complessiva e rilancia la necessità di innescare sviluppo in Africa, con una grande azione congiunta. «La questione migratoria si risolve con una strategia a lungo termine di tipo globale, che punti su investimenti sul continente africano» dichiara. «Qualcosa di più ampio del piano Mattei, che è la parte italiana ma non è sufficiente: serve avere più Italia in Africa, ma serve un'azione europea, e una maggiore attenzione da parte degli Stati Uniti e di organizzazioni come le Nazioni Unite. Chiederemo di avere delle aziende miste africane e italiane per l'estrazione di materie prime per trasformarle in Africa con personale africano».
Dalla Germania 8 milioni per le Ong: dietro il finanziamento lo scandalo "sentimentale". Il vicepresidente del parlamento tedesco, che ha deliberato i finanziamenti per le Ong è dei migranti fidanzato con il presidente dell'associazione United4Rescue, che finanzia le navi, alla quale sarebbero dovuti andare gli 8 milioni di euro in 4 anni. Francesca Galici il 29 Settembre 2023 su il Giornale.
Se i 790, i 400 e i 365 mila euro versati da Berlino nelle casse di due Ong tedesche che operano in mare e della comunità di Sant'Egidio, che opera a terra, hanno creato scalpore, allora è bene spiegare che si tratta di una minima parte dei finanziamenti complessivi che il governo tedesco è pronto a erogare. Infatti, il Bundestag ha stanziato 2 milioni di euro all'anno fino al 2026 per le Ong, ciò significa che sono in totale 8 i milioni che riceveranno da qui ai prossimi anni.
L'ipocrisia tedesca sui finanziamenti
Per il momento sono stati 1.55 i milioni che Berlino ha materialmente messo nelle disponibilità di Sos Humanity (che ha ricevuto il finanziamento più corposo), di Sea Eye e di comunità di Sant'Egidio. Rimane una tranche da 455mila euro per la quale dev'essere ancora comunicato il destinatario tra i progetti presentati. Da Roma, ma anche all'interno della stessa Germania, si fa notare come queste elargizioni di denaro pubblico nelle casse di organizzazioni private, che però operano in Italia, rappresentano una vera e propria ingerenza nella politica di un altro Paese. Il governo italiano continua a chiedere spiegazioni che non arrivano, visto e considerato che le navi delle Ong citate operano nel Mediterraneo per raccogliere i migranti che poi vengono sbarcati nei porti italiani. Il tutto in un contesto che vede la Germania blindare tutti i suoi confini esterni e rifiutare i ricollocamenti dall'Italia perché non vuole ulteriori migranti nel suo territorio.
Lo scandalo familiare sui fondi
Questi 8 milioni di euro sono finiti al centro della polemica già alcuni mesi fa, quando dall'opposizione del governo "semaforo" di Berlino hanno sollevato un enorme dubbio sulla legittimità di cotanto finanziamento. Infatti, inizialmente non erano previsti stanziamenti per operazioni a terra ma solo in mare e tutti gli 8 milioni di euro sarebbero dovuti essere versati nelle casse di United4Rescue. Questa non è una Ong è ma è una associazione di Ong, della quale per altro fanno parte le due che hanno al momento ricevuto i finanziamenti. Sarebbe stata poi l'associazione a effettuare le spartizioni. Tuttavia, è emerso che il vicepresidente del Bundestag, nonché esponente dei Verdi, Katrin Göring-Eckardt, è la compagna di vita di Thies Gundlach, ossia fondatore e presidente dell'associazione United4Rescue. Il conflitto di interessi è evidente in questo enorme finanziamento pubblico, quindi è stato deciso di non finanziare direttamente United4Rescue.
Ma questo cambia qualcosa? No, perché i finanziamenti sono finora comunque arrivati a due delle tre Ong che fanno parte della crew. E se tanto ci dà tanto, la quarta tranche potrebbe essere versata a Sea-Watch. Ma non solo, perché nella famiglia United4Rescue gravitano anche altre Ong, che non sono direttamente parte dell'associazione ma ricevono comunque finanziamenti. Tra queste anche la barca italiana Mare Jonio, che ha ricevuto 135mila euro quest'anno per i costi di cantieristica. Quindi, se il piano del Bundestag fosse andato come era stato studiato, i finanziamenti pubblici del governo tedesco sarebbero stati elargiti indirettamente anche a una Ong italiana attraverso United4Rescue. E per il diritto del mare, il fatto di poter disporre di una nave battente bandiera italiana per gli interventi sui migranti è un'agevolazione enorme per la flotta civile, in quanto la nave italiana ha libero accesso a tutti i porti del Paese.
Berlino sponsor dell'invasione. Quei soldi tra Ong e partiti. Tedesche oltre la metà delle navi umanitarie. A "Sea Eye" altri 365mila euro. Gli intrecci finanziari con i rossoverdi. Paolo Bracalini il 30 Settembre 2023 su il Giornale.
È il tedesco la lingua più parlata sulle navi ong che fanno la spola tra coste del nord Africa e Lampedusa. Una vera e propria flotta, finanziata da privati, aziende, ricchi filantropi. Ma anche dal governo federale. Un fatto che ha destato «stupore» a Palazzo Chigi, termine soft che in realtà significa grande irritazione. E infatti il premier Meloni spiega di aver appena avuto «degli scambi» sull'argomento con il cancelliere Olaf Scholz. Il messaggio italiano è chiaro: «Se loro vogliono tornare indietro sulle regole delle Ong, allora noi proponiamo un altro emendamento in forza del quale il Paese responsabile dell'accoglienza dei migranti che vengono trasportati sulla nave di una Ong è quello della bandiera della nave. Capisco le posizioni degli altri ma non si può fare la solidarietà con i confini degli altri» dice Meloni a Malta per il summit Med9.
L'armata della solidarietà tedesca in Italia in effetti è imponente. L'ultima ricognizione ufficiale dice che su 19 navi ong attualmente operative nel Mediterraneo, più della metà, ovvero 10, battono bandiera tedesca o sono proprietà di ong tedesche. Alcuni dei loro nomi sono ormai noti, altri meno. Si tratta nello specifico di Humanity 1, riconducibile alla ong tedesca «United 4 Rescue», che schiera anche la Sea Watch 5 e la Sea Eye 4; la Rise Above della tedesca Mission Lifeline; la Louise Michel, l'imbarcazione umanitaria finanziata dall'artista britannico Banksy; la Sea Watch 3 della Ong tedesca Sea Watch, che possiede anche «Aurora Sar», battente bandiera britannica; poi la Nadir della ong tedesca Resqship, quindi la Trotamar III, veliero della ong tedesca People in Motion; poi la Mare-Go dell'omonima ong sempre con sede in Germania.
Le ong spiegano di aver portato a terra, in Italia, decine di migliaia di migranti. La loro mission è umanitaria, ma anche dichiaratamente politica: «Navighiamo contro la fortezza Europa» dice Katja Tempel, attivista della missione Trotamar III. Quelli di Sos Humanity combattono contro gli accordi con i paesi di partenza, la strada cioè che il governo italiano sta perseguendo, insieme alla Ue: «Cooperare con paesi insicuri come Tunisia e Libia significa per l'Europa diventare complici nelle violazioni dei diritti umani» scrivono gli attivisti di Sos Humanity.
Si tratta proprio della nave ong che il governo federale ha appena finanziato, con 800mila euro, mentre per la Comunità Sant'Egidio vengono stanziati da Berlino 400mila euro per l'assistenza a terra dei migranti sbarcati in Italia. Nelle ultime ore si è scoperto quale è la terza ong a cui sono diretti i finanziamenti «imminenti» di cui aveva parlato la ministra tedesca degli Esteri, Annalena Baerbock. Si tratta di Sea Eye, a cui vanno 365mila euro del governo tedesco «per il funzionamento della Sea Eye 4», imbarcazione di salvataggio del gruppo. «Siamo molto felici di questo risultato, che ci permetterà quest'anno di finanziare altre due missioni di salvataggio della Sea Eye 4», afferma Jutta Wieding di Sea Eye.
Gli intrecci e la comunanza di interessi tra ong e partiti rosso-verdi tedeschi (Spd, Verdi e Fdp) sono un tema discusso anche in Germania. Quando lo scorso novembre la Commissione Bilancio del Bundestag ha stanziato ben 8 milioni di euro (2 milioni l'anno fino al 2026) per la ong United4Rescue (quindi le navi Sea Watch, Sea Eye e Humanity), i giornali tedeschi hanno fatto notare una curiosa relazione. Quella tra il numero uno della United4Rescue, Thies Gundlach, e la leader dei Verdi Katrin Göring-Eckardt, vicepresidente del Bundestag. La sua compagna. E guarda caso i Verdi, insieme al FDP, sono il partito che riceve più donazioni da privati. Anche da finanziatori vicini al mondo ong? É il segreto di Pulcinella, anche se non è una maschera teutonica.
Così la Germania è diventata il riferimento per le Ong. Appoggi politici e con il mondo della cultura, donazioni private e finanziamenti del governo: ecco la rete che pone Berlino al fianco delle Ong. Mauro Indelicato il 30 Settembre 2023 su il Giornale.
Una macchina ben collaudata, una “bocca di fuoco” capace di far operare diverse navi nello stesso momento e nello stesso spazio quando l'emergenza immigrazione fa sentire nel Mediterraneo tutto il suo peso. È possibile descriverlo così il mondo delle Ong tedesche. Non solo navi e mezzi, ma anche donazioni, appoggio politico e appoggio mediatico: dietro ogni operazione c'è un fitto e complesso reticolato capace di dare manforte agli attivisti in mare. E di influenzare e non poco la linea del governo di Berlino sull'immigrazione.
I costi delle navi delle Ong tedesche in mare
Non è un caso che gran parte delle navi Ong battono bandiera tedesca. C'è la Sea Watch 5, la Loise Michel, la Sea Eye, la Lifeline e la Humanity 1. Navi che portano nel loro nome, in alcuni casi, quello delle Ong di appartenenza. Come nel caso di Sea Watch, la stessa organizzazione che nel 2019 ha annoverato Carola Rackete come capitano, oppure di Sea Eye.
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La Humanity 1 fa invece parte di Sos Humanity, l'Ong salita agli onori delle cronache per il finanziamento ricevuto dal governo tedesco. Almeno 790mila Euro che però, come evidenziato da Fausto Biloslavo, secondo il portavoce Lukas Kaldenhoff sono però esigue per le necessità dell'Ong. Sul proprio sito, Sos Humanity scrive di aver raggiunto al momento con le donazioni private almeno 376mila Euro, ma ne servirebbero molti altri per garantire le proprie attività in mare.
Il filo rosso-verde che in Germania finanzia gli sbarchi sulle nostre coste
Solo per l'equipaggio, occorrono infatti centomila Euro all'anno. “Il nostro equipaggio internazionale e professionale è composto da 28 persone – si legge sul sito – Molti di loro lavorano volontariamente per Sos Humanity. Per ogni missione si recano a Siracusa, in Italia, per prepararsi alla missione in porto e a bordo. Il viaggio e l'alloggio dei membri dell'equipaggio costano circa 100.000 euro all'anno”. Poi ci sono le spese per l'attrezzatura, le quali ammontano a 74mila Euro. E tanti altri capitoli di spesa.
L'asse con i Verdi e con le chiese evangeliche
L'obiettivo forse è raccogliere quanto Sea Watch negli anni compresi tra il 2018 e il 2019. Un biennio in cui l'Ong è riuscita a racimolare quasi due milioni di Euro all'anno, coprendo così le copiose spese determinate dalle proprie attività in mare. I costi aumentano anche per gli attivisti e così le donazioni private spesso non bastano più.
E qui entra il gioco il governo tedesco. Lo scorso anno l'esecutivo guidato da Olaf Scholz ha erogato un primo finanziamento proprio a Sea Watch. O, per meglio dire, all'associazione United4Rescue, una sorta di consorzio di associazioni e Ong pro immigrazione creato lo scorso anno per unire più enti. Un ruolo importante in tal senso l'ha avuto il cardinale Reinhard Marx, tra i promotori dell'associazione. All'interno però c'è anche la spinta delle Chiese Evangeliche tedesche. Ma il vero aggancio politico è con i Verdi, partito organico all'attuale maggioranza di governo.
Il presidente di United4Rescue è Thies Gundlach, attuale compagno di Katrin Göring-Eckardt, esponente verde e presidente della Camera Bassa del parlamento federale. Il finanziamento erogato a favore dell'associazione ha destato polemiche alla fine dello scorso anno, così come sottolineato dalla Bild, tanto da far parlare di nepotismo a diversi deputati dell'opposizione. I diretti interessati hanno sempre respinto ogni accusa. Ma è indubbio che il connubio tra società civile, chiese e le parti più a sinistra della coalizione hanno avuto (e hanno) una certa influenza sull'orientamento di Olaf Scholz.
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Non solo navi
Sea Eye è un'altra Ong ben appoggiata dalle chiese evangeliche, le stesse che negli anni passati hanno erogato circa trecentomila Euro a Sea Watch per l'acquisto di Seabird. Ossia uno dei due aerei usati dall'Ong per monitorare il mare dall'alto. Segno di come le Ong oramai non intervengono soltanto con le navi. Un'altra organizzazione tedesca, la Resqship, opera con la barca a vela Nadir. Un modo per eludere i decreti di Piantedosi e poter portare altri migranti a Lampedusa.
In definitiva, la Germania si conferma come Paese di riferimento per il mondo delle Ong. Un reticolato fatto di associazioni, partiti e persone influenti nel mondo culturale e religioso, assicura ampio sostegno di ogni genere alle Ong. Circostanza che non può certo essere ignorata dal nostro Paese nell'ottica dei futuri rapporti con Berlino.
La nave come territorio nazionale. Migranti, Meloni blocca tutto e attacca la Germania: “Non si può fare solidarietà con i confini degli altri”. Claudia Fusani su Il Riformista il 30 Settembre 2023
“Non si può fare solidarietà con i confini degli altri”. La sintesi della premier Meloni svela l’arcano di una notte. L’Italia giovedì ha bloccato a Bruxelles il Patto sull’immigrazione della Ue con un duplice obiettivo: strizzare l’occhio agli amici ungheresi e polacchi da sempre contrari ad ogni patto collettivo sull’immigrazione e spingere la propria contromossa. Spiegata ieri dalla premier a margine del vertice Med 9 a Malta. “La Germania vuole mano libera con le ong e le finanzia. Giovedì, mentre i ministri dell’Interno erano riuniti a Bruxelles, avevamo sette navi di ong tedesche nel canale di Sicilia. Il nostro contro-emendamento: se si viene salvati da una tedesca, è come si fosse arrivati in Germania”. Il paese di “bandiera” delle navi si dovrà far carico dell’identificazione e dell’accoglienza dei naufraghi.
E’ una vecchia idea del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Era scomparsa dai radar. L’ha rimessa in campo ieri Meloni spiegando, da Malta dove sono riuniti i paesi del Med 9, perché giovedì a Bruxelles l’Italia ha stoppato la firma finale all’accordo sull’immigrazione (e per cui serve la maggioranza qualificata).
Sono giorni intensi sul dossier immigrazione. Giovedì i ministri dell’Interno dei 27 riuniti a Bruxelles. La conferenza di Palermo in ambito Onu contro il traffico degli esseri umani e il traffico di droga. Il Med 9 a Malta che senza dubbio ha rafforzato la posizione dei nove paesi che affacciano sul Mediterraneo in un blocco comune che mette al primo posto la cosiddetta “dimensione esterna” – il Mediterraneo è confine europeo – e le cooperazione europea per aiutare i paesi africani a trattenere i flussi migratori.
“Scegliamo noi chi arriva in Europa” disse Ursula von der Leyen il 17 settembre a Lampedusa, “non possiamo accogliere tutti”. La dichiarazione finale del Med 9 sarà un mattone portante del vertice informale del Consiglio europeo a Granada il 5 e 6 ottobre sotto la presidenza di turno spagnola. Così come elementi importanti arriveranno dalla Conferenza di Palermo dove ieri il ministro Piantedosi ha avuto bilaterali con gli omologhi della Nigeria, Ghana, Somalia, Costa d’Avorio. Con questi paesi sono stati imbastiti accordi per i rimpatri, soprattutto assistiti cioè con contributi economici, e le espulsioni. E’ il nodo gordiano di tutta la partita migranti.
Ma è la partita politica tra i 27, tutti già in campagna elettorale per le Europee, che è destinata a condizionare la soluzione del dossier. La Germania non è nel Med 9. Lo è invece la Francia. “Avanti con il Piano von der Leyen, solidarietà all’Italia che non può essere lasciata sola” ha detto ieri Macron dopo un trilaterale con Meloni e la presidente della Commissione Ue.
E’ la Germania il problema. Giovedì a Bruxelles si doveva votare l’ultimo pilastro dell’imponente Patto Ue per la migrazione e l’asilo da settimane al centro delle trattative tra gli sherpa. Sul tavolo le disposizioni da far scattare quando uno Stato membro si trova di fronte a un numero di sbarchi o arrivi superiore al normale, a eventi eccezionali come una pandemia o a crisi artificiali prodotte dalle “strumentalizzazioni” dei migranti da parte di Paesi terzi. L’accordo sembrava raggiunto. Con il via libera del cancelliere Scholz dopo il ripetuto no recente alle redistribuzioni. “Ma quello di Berlino è stato in realtà un passo indietro”. Sulle ong.
“Le operazioni di aiuto umanitario – recita il passaggio voluto da Berlino – non dovrebbero essere considerate come strumentalizzazione dei migranti quando non vi è l’obiettivo di destabilizzare l’Unione o uno Stato membro”. Che invece è esattamente quello che ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani delle ong finanziate dal governo tedesco. Da qui la controproposta italiana: la territorialità scatta sulla nave che soccorre.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Antonio Bravetti per la Stampa sabato 30 settembre 2023.
Il direttore del museo Egizio? «Faremo di tutto per cacciarlo». Vannacci?
«Se il generale volesse candidarsi, le porte della Lega sono aperte». I migranti?
«La via diplomatica ha fallito, è ora di tornare ai respingimenti». Ieri l'ultima, per ora.
Un saggio di delicatezza.
Mentre il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier omaggiava Giorgio Napolitano a Montecitorio, Andrea Crippa argomentava: «Ottant'anni fa il governo tedesco decise di invadere gli stati con l'esercito ma gli andò male, ora finanziano l'invasione dei clandestini per destabilizzare i governi che non piacciono ai socialdemocratici». Da qualche giorno il vicesegretario della Lega è un fiume in piena. Regala titoli e polemiche, non c'è mischia (politica) in cui non si getti. Raccontano però che le sue siano azioni in solitaria, non concordate con Matteo Salvini, che sarebbe piuttosto "arrabbiato" col suo vice.
È il Crippa randellatore, centravanti di sfondamento di una Lega più di lotta che di governo. Col direttore dell'Egizio, Christian Greco, ha un conto aperto. Anni fa Crippa diffuse il video di una telefonata al museo in cui protestava per l'ormai celebre sconto agli arabi. Invitava tutti a chiamare per intasare la linea. La telefonata, però, era falsa. Uno scherzo. Finì a processo per danni non patrimoniali al museo. Condannato in primo grado, assolto in appello. Qualche giorno fa è tornato alla carica contro Greco: «Sangiuliano lo cacci subito», ma il ministro ha fatto il contrario.
La vita di Palazzo «non mi piace - raccontava nel 2019 - soffro a stare in Parlamento tutto il giorno a votare...». A Montecitorio Crippa arriva nel 2018 da deputato. Classe '86, nato a Monza, una laurea in scienze politiche. Da giovane lavora col papà, rappresentante di mobili in Brianza. Poi l'incontro a Bruxelles con Salvini, nel 2014, di cui diventa portaborse.
Nel 2015 è nominato coordinatore del Movimento giovani padani. Alla Camera Crippa stringe amicizia con Marta Fascina, l'ultima lady Berlusconi. Con lei lavora alacremente a un grande progetto: far nascere il Monza club Parlamento. Si coordina con Galliani, si confronta con Fascina, sui social pubblica foto da casa del patron Berlusconi. Tifoso vero, lo raccontava Il Cittadino nel giugno 2022, con la squadra appena promossa in serie A: «Non mi sembra vero, seguivo il Monza quando navigava tra la serie C e la D: è un sogno che si concretizza». Fa niente che tre anni prima, a una domanda di Prima Treviglio la risposta fosse un'altra. Squadre del cuore? «La Juventus», sorrideva senza alcun dubbio. Ora nel mirino di Crippa ci sono i tedeschi e i finanziamenti alle ong. «Sicuramente in Germania non vogliono né Salvini né Meloni al governo - ragionava ieri col quotidiano online Affaritaliani.it - a Berlino fanno di tutto per mettere in difficoltà il governo italiano nella speranza di farlo cadere».
(…)
Giuliano Ferrara per il Foglio - Estratti il 27 settembre 2023.
Per Salvini e i suoi (...) nella politica quotidiana è tornata la logica del rutto libero, espressa stavolta con forte potere di immaginazione storica dal vicesegretario della Lega che ha imputato alla Germania un’invasione destabilizzatrice di migranti paragonabile all’occupazione del suolo patrio dopo l’8 settembre.
Salvini il neo-Truce dà il “la”, e il concertino si fa bello delle più incredibili assonanze e dissonanze, di stridii e cachinni che sputtanano governo, maggioranza e istituzioni civili in Europa. E inducono Meloni a una rincorsa dubbia. Il ritorno del rigurgito come strumento primitivo di comunicazione politica, a molti mesi dalla fatidica soglia elettorale per l’Unione europea e il suo parlamento, sconcerta e sorprende.
Da molti anni ormai il senatore Salvini era impegnato in un’operazione di smantellamento della sua vecchia immagine ribalda, si era per così dire rimpannucciato partecipando al governo di unità nazionale e vincendo con gli alleati le elezioni politiche, ora litiga con il suo ex capo di gabinetto divenuto ministro dell’Interno, sparacchia a caso contro Bruxelles, Parigi e Berlino, ricomincia a usare un linguaggio sudicio sugli sbarchi di povericristi, che non sono un’invasione per quanto difficili da governare in un clima di forza e civiltà, eccita nei suoi il vecchio spirito massimalista e demagogico dell’epoca infausta del governo del contratto, quando leghisti e grillini prima maniera lasciarono tutti a casa e scapparono di casa facendo in un anno meno danni materiali di quelli verbali e d’immagine, fino al clamoroso suicidio dei pieni poteri e del Papeete.
(...)
Salvini non è mai un problema finché non diventa un problema. Ha più che dimezzato i voti quando ha giocato sull’assimilazione politica e di sistema, e questo lo cruccia, lo indispone, lo mette in pericolo tra la sua gente, che poi sarebbero i famosi deplorables, la minoranza qualunquista e sfasciacarrozze che la Lega dell’ex Truce voleva inglobare in un progetto nazionale e istituzionale evidentemente fallito.
La sua debolezza relativa, compensata da un’alleanza vincente, ora crea debolezza e imbarazzo per la sua stessa maggioranza e per i suoi uomini di governo meno sprovveduti. Uno deve decidere, o punta sul ponte o si butta continuamente dal ponte, risale e si ributta in uno spettacolo di autolesionismo e demagogia trita e ritrita. Il neo Truce non ha deciso e costituisce per questo un serio ostacolo alla pratica e all’immagine di destra conservatrice e di governo alla quale i veri vincitori delle elezioni di un anno fa sono attaccati e dalla quale non dovrebbero né vorrebbero scollarsi bruscamente.
Lo si tollera pensando al monopoli elettorale, a una fase turbolenta da mettere nel conto, ma fino a quando, fino a che livello di balordaggine è possibile mantenere il timone della politica estera e di difesa, della politica finanziaria e delle alleanze decisive per questa nazione, come direbbe la capa del governo insidiato dalla burinaggine di un uomo del nord molto più cafone di qualunque borgataro e garbatellaro?
Massimo Gramellini per il Corriere della Sera - Estratti il 27 settembre 2023.
Si apprende da fonti autorevolissime, il vicesegretario della Lega Andrea Crippa, che in Germania i nazisti sono ancora al potere.
Ottant’anni fa invadevano gli altri Stati con i panzer della Wehrmacht e adesso lo fanno con le Ong dei migranti, allo scopo di creare malcontento sociale e propiziare la sostituzione della Meloni con Draghi e la Schlein (il famigerato governo Draghlein).
Chissà cosa penserebbe il Crippa se, dopo avere ascoltato le sue parole, qualche vicesegretario tedesco gli desse del mafioso mandolinista mangia-spaghetti o, con maggior rigore filologico, del nostalgico di Mussolini, accusandolo di non avere ancora digerito la sconfitta delle legioni romane nella foresta di Teutoburgo (9 d. C.).
(...) Qualcuno dirà: proprio come Salvini. Ma la differenza decisiva tra salvinismo e crippismo è che Salvini non crede sempre a quello che dice, mentre il Crippa dà la sensazione di pensare davvero che i migranti siano al soldo dei nazisti. E che questo pensiero, per noi disturbante, a lui arrechi persino un certo sollievo
(ANSA sabato 30 settembre 2023) - "L'immigrazione illegale va fermata, ma io sono super favorevole ad espandere e semplificare quella illegale". Lo ha scritto in un post su X Elon Musk dopo la sua visita a sorpresa in Texas. "Chiunque dimostri di essere un lavoratore, onesto e talentuoso dovrebbe essere autorizzato a diventare americano. Punto", ha sottolineato il miliardario che è nato a Pretoria.
Estratto dell’articolo di Arcangelo Rociola per lastampa.it sabato 30 settembre 2023.
Tra Elon Musk e il governo tedesco è scontro aperto. Il numero uno di Tesla […] ha accusato Berlino di «violare la sovranità dell’Italia» portando «un enorme numero di migranti sul suolo italiano». Poi l’affondo: «Questa suona come un’invasione».
Una frase scritta su X […] rispondendo direttamente all’account ufficiale del ministero degli Esteri tedesco. Già oggetto di accuse da parte di Musk sulla questione migranti e Ong. Ieri l’account del governo di Berlino ha provato a replicare alle accuse di Musk: «Si chiama salvare vite umane». Ma che oggi deve affrontare il nuovo attacco del proprietario di X.
Ieri Musk ha condiviso un video […] in cui si vedono dei migranti salvati da una Ong. Il video era accompagnato da un testo, scritto dall’account: «Ci sono 8 Ong tedesche nel Mediterraneo. Raccolgono clandestini per farli sbarcare in Italia. Queste Ong sono finanziate dal governo tedesco. Speriamo Che l’Afd vinca le elezioni per fermare questo suicidio europeo». Musk lo ha rilanciato scrivendo: «L’opinione pubblica tedesca ne è consapevole?».
Post che ha scatenato la reazione di Berlino, culminata con l’affondo di Musk arrivato nella notte. Elon Musk […] Ieri ha pubblicato un lungo video da Egle Pass, cittadina texana al confine col Messico attraversata dal muro statunitense per impedire l’accesso dei clandestini.
«È molto importante che le persone sappiano cosa sta succedendo qui», ha detto Musk nel video. Che da tempo cerca di accattivarsi l’opinione di destra e conservatrice dell’opinione pubblica. Americana e europea. Qualche ora dopo ne pubblica un altro. Si vede lui imbracciare un Barret calibro 50. Un fucile di precisione semi automatico. Orecchie coperte da cuffie, Musk lo appoggia al fianco e comincia a sparare. Uno, due, tre, quattro colpi verso il suo bersaglio.
"Siamo con voi". Così il Pd finanzia l'Ong sanzionata. Marco Leardi il 6 Settembre 2023 su Il Giornale.
Dopo la passerella a bordo della nave Ong sanzionata per aver violato il decreto Cutro, i dem toscani mettono mano al portafoglio per una donazione a Open Arms. "Raccolta fondi anche tra i parlamentari"
Sanzionata a norma di legge, sostenuta e finanziata dal Pd. L'Ong Open Arms, multata per aver violato le regole del Viminale sui soccorsi in mare, può contare sull'aiuto dei dem nostrani. Dopo essere saliti sulla nave dall'associazione umanitaria, sottoposta a fermo amministrativo e attualmente ferma al porto di Marina di Carrara, i democrats di casa nostra hanno infatti messo mano al portafoglio per sostenere economicamente le missioni della suddetta realtà. A far scattare la raccolta fondi in favore dell'Ong è stato in particolare il Partito Democratico della Toscana, che ha annunciato una propria donazione in segno di solidarietà verso l'associazione spagnola.
"Salvare le vite non è una colpa, ma un dovere morale. Il Pd Toscana è con voi, vi ringrazia e sostiene le vostre missioni in mare con cui vengono salvate da morte certa centinaia di persone", si legge in un messaggio del Pd toscano. La donazione dem è arrivata dopo la visita che alcuni esponenti avevano fatto nei giorni scorsi a bordo dell'imbarcazione umanitaria, ferma al porto toscano di Marina di Carrara per aver violato la norma del ministro Piantedosi che impedisce i salvataggi multipli in mare. "Abbiamo capito quanto siano disumane le scelte del governo Meloni di indirizzare i migranti in porti lontani dal luogo di salvataggio e quanto sia disumano il decreto Cutro che vieta i salvataggi plurimi", avevano attaccato in quel caso i dem, di fatto giustificando la violazione formalmente imputata all'Ong spagnola.
Quel supporto, suggellato da una "passerella" a bordo (remake di quanto avvenuto nel 2019 con la Sea Watch), si è poi trasformato in sostegno concreto. "L'idea che un nostro contributo si trasformi in pasti, salvagenti, abiti, coperte e opere di manutenzione di questa nave pronta a salpare di nuovo, ci fa sentire parte delle loro missioni, mentre sosteniamo politicamente ogni giorno una politica migratoria fatta di accoglienza", ha commentato Emiliano Fossi, segretario del Pd toscano. E ancora: "Quando nei giorni scorsi una nostra delegazione è salita a bordo della Open Arms ci siamo subito attivati e stiamo promuovendo ulteriori iniziative di solidarietà nelle nostre federazioni locali e raccolte fondi tra i parlamentari". Altri soldi in arrivo, a quanto pare.
Ora, sostenere un'attività umanitaria è certo legittimo ma il fatto che il principale partito della sinistra giustifichi la violazione di un decreto legge è quantomeno anomalo. Le regole, piacciano e meno, sono regole. Per non farsi mancare niente e completare il quadro, il Pd ha anche presentato un'interrogazione parlamentare per difendere l'operato della Open Arms e contestare il governo con la litania della "destra disumana". "Questa destra continua a dimostrarsi feroce contro i migranti", si legge nel documento presentato dal Pd, nel quale si chiede all'esecutivo in cui si chiede al governo di "evitare che le navi umanitarie che collaborano con le autorità italiane vengano sanzionate". Ma l'aiuto alle autorità italiane - dimenticano i dem - dovrebbe avvenire secondo regole precise disposte dal nostro Paese. Proprio come ha chiesto il governo.
Che squallore la Chiesa a immagine e somiglianza di Casarini. Secondo La Verità, dalle diocesi italiane sarebbero arrivati oltre 2 milioni di euro alla Ong dei migranti. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 29 Novembre 2023
La vicenda – così come l’ha ricostruita Giacomo Amadori su “La Verità” – è diabolicamente multiforme: contro lo Stato italiano, perché emerge una attività insistita e organizzata contro le istituzioni nazionali; contro la giustizia morale, etica e religiosa, per motivi che stanno in se stessi, che non occorre precisare; contro la stessa Chiesa, i cui comandamenti vengono sistematicamente traditi; soprattutto, forse, contro i fedeli, che non magari non sapevano di finanziare, di mantenere coi soldini della carità uno che può vantarsi di campare alla grande, sistemando le sue grane, “senza dover andare a lavorare in un bar”. Che per un comunista è il massimo. E questi prelati, questi sepolcri intonacati, vengono a belare di non violenza? Mentre sponsorizzano Luca Casarini, dedito fin dai tempi giovanili a bivaccare nei centri sociali del Veneto, che si è arrabattato fra occupazioni, assalti alla polizia, condanne, partite iva, fino a che, improvvisatosi armatore non ha trovato una Chiesa e un Papa a sua immagine e somiglianza?
A farla breve, questo scandalo, miserabile, epocale, immane, ma sul quale verrà stesa una cortina narcotica, essendoci di mezzo il Vaticano, consiste in quanto segue: Luca Casarini, ex noglobal ultracomunista, diventa trait d’union tra Chiesa e Sinistra col pretesto dei migranti. Casarini è politicamente indiziato d’aver svolto un ruolo di provocatore verso il governo per conto dei compagni della parrocchietta solidale, e non è un caso che suo sponsor risulti mezza sinistra parlamentare dal Pd al giro Fratoianni, Verdi ed altre propaggini. L’eterno Casarini, in perenne attesa di una candidatura sempre promessa e sempre rimandata. La Chiesa, ricostruisce La Verità, avrebbe versato più di 2 milioni di euro alla Ong di un indagato per immigrazione clandestina. Casarini, colto nelle intercettazioni mentre, ricevuto un bonifico da circa 125mila euro, oggi agli atti del processo, esultava “stasera tappo i debiti e ceno a champagne”.
L’immagine è tutto. Uno così si sarebbe convertito sulla via di Bergoglio, che l’ha mandato al Sinodo di bianco vestito. Se di truffa si sia davvero trattato si vedrà, o forse non si vedrà mai, dati i precedenti e la magistratura scarlatta, dello stesso color porpora dei cardinali: comunque una farsa di sicuro. In mezzo, oltre alla sinistra politica, anche quella ecclesiastica: il cardinal Zuppi; “vescovoni” sparsi; il don Ciotti, santone della sinistra estremista e vippaiola; nel parterre dei garanti non poteva mancare, stiamo sempre agli elementi di indagine ricostruiti da Amadori, in qualità di europarlamentare, il medico pasionario siciliano Pietro Bartolo, anche lui già coi suoi guai, come Vasco Rossi (per dettagli, c’è il nuovo libro di Nicola Porro che vi si sofferma in modo puntiglioso).
Casarini si sarebbe preso più di 2 milioni di euro, soldi delle parrocchie, per il “salvataggio” di 400 migranti. Dove stava qui l’afflato umanitario? Dove la buona amministrazione? Per i magistrati era tutta una partita di giro ma “coperta”: non doveva saperne niente nessuno a cominciare dai fedeli (difatti lo scoop de “la Verità” ha del clamoroso, del devastante). E se pure un compare di Casarini fingeva un rimasuglio di coscienza ammettendo che “non era stato bello tacere sui soldi raccolti su Facebook”, visto che ne arrivavano in quantità manageriale via clero, da parte dei porporati e degli intonacati, nessuno scrupolo.
Possiamo dirlo, che, mettetela come volete metterla, fa schifo? Possiamo dirlo, che questi fedeli, che si trovavano chiusi i portali delle chiese in faccia durante in Covid, una fra le pagine più vili, più mortificanti nella storia della chiesa cattolica, che sono stati abbandonati, discriminati, perfino colpevolizzati dalla cara madre chiesa, poi venivano ingannati col pretesto più infame, quello della pietà, della solidarietà, del bisogno, ad ogni omelia un parroco a pianger miseria, e le vecchiette e i timorati di Dio ad aprire il borsellino, e poi i soldi finivano a Casarini? Ma non si vergognano? Ma davvero hanno potuto reggere bordone a uno al comando di una ONG sotto processo? Realmente gli giravano due milioni e passa di euro con la scusa delle “vite umane” da salvare? Che ci fa la Chiesa dietro o dentro tutto questo?
Quando Ratzinger tolse il disturbo, fu scelto un pontefice con il malcelato incarico di distruggere la Chiesa cattolica: missione compiuta, dopo 10 anni il capo del cattolicesimo non ha voce in capitolo su niente, la sua voce nessuno la calcola (al vertice di Dubai sul riscaldamento globale non può andare perché è raffreddato), le sue missioni diplomatiche sono un rosario di fallimenti persino patetici, la sua autorità morale è a zero, la sua secolarizzazione imbarazzante, a sentir Messa ci vanno ormai in 17 praticanti su 100 credenti, e dopo questa miserabile pastetta saranno, fatalmente, ancora meno. C’è da capire, solo i fanatici e gli stupidi possono continuare come se nulla fosse, tanto più che ad essere fregati, nella fede e nella borsa, erano loro. E se nessuno si fiderà più ad aprire il borsellino, non sarà altro che prudenza e perfino dovere: pagare per imbarcare sempre più clandestini che arricchiscono alcuni, ma distruggono il tessuto sociale, delinquono spesso, e con la nuova jihad partita da Gaza si sono ulteriormente scatenati in tutta Europa?
In tutta questa storia, almeno per come sta emergendo, quello che ne esce meno peggio, pare incredibile, è proprio Casarini, il quale alla fine si conferma semplicemente per l’avventuriero che è sempre stato (se poi volete credergli quando si straccia le vesti per i “fratelli migranti”, o fa la faccia da pretone ben pasciuto al Sinodo, è un problema vostro, e siete irrecuperabili): ma i vescovi, i prelati, gli intonacati sono molto peggio. A cominciare dal vertice assoluto, che è il regista di questa faccenda. Quando Bergoglio dice “cari fratelli e sorelle”, viene un impulso a rispondergli: no, scusa: io non sono tuo fratello. Non sono vostro fratello. E neanche di Casarini. Max Del Papa, 29 novembre 2023
Esclusiva di Panorama in edicola questa settimana – Testo di Giacomo Amadori pubblicato da la Verità mercoledì 29 novembre 2023.
C’è un passo del Vangelo di Giovanni che racconta la pesca miracolosa di Simon Pietro e di altri discepoli nel lago di Tiberiade. Ma duemila anni dopo c’è ancora chi, in nome di Gesù, fa pesche miracolose, in questo caso di migranti, ma soprattutto di euro. È la banda di Luca Casarini, già leader delle Tute bianche e No global, celebre per aver declamato una «dichiarazione di guerra» al mondo alla vigilia del G8 di Genova, anno del Signore 2001.
Lui e altre cinque persone sono imputati davanti al Tribunale di Ragusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre la violazione delle norme del codice della navigazione è contestata a Casarini e ad altri tre. Il prossimo 6 dicembre inizierà l’udienza preliminare propedeutica al rinvio a giudizio, richiesto dalla Procura. Il lavoro dei pm
L’inchiesta ruota intorno, è la tesi accusatoria, all’equivoco o, meglio, all’inganno in base al quale gli indagati, schermandosi con l’associazione di promozione sociale (Aps) Mediterranea saving humans (di cui Casarini è fondatore e membro del consiglio direttivo), hanno costituito una compagnia di navigazione triestina, la Idra social shipping, proprietaria del rimorchiatore battente bandiera italiana Mare Jonio, non tanto per soccorrere in mare i migranti a fini umanitari, ma per farne un business. […]
A quanto risulta a Panorama, Mediterranea e le attività di recupero di migranti della Mare Jonio vengono finanziate da numerose diocesi italiane grazie all’impegno, in primis, del presidente della Cei Matteo Maria Zuppi, dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice (l’uomo che avrebbe fatto capire a Casarini e ai suoi il vero senso del Vangelo) e di altri suoi colleghi come il napoletano Domenico Battaglia, all’interno del progetto «Cum-finis, fratelli tutti (come l’enciclica del Pontefice, ndr), alle frontiere di mare e di terra, d’Europa». Un programma sperimentale che, almeno sulle fonti aperte, non è stato pubblicizzato e su cui, all’ufficio stampa della Cei, non hanno saputo darci informazioni.
Eppure ci risulta che, il 26 aprile 2023, proprio la presidenza della Conferenza episcopale, destinataria dell’8 per mille, abbia approvato un finanziamento di 780 mila euro delle arcidiocesi di Napoli e Palermo e delle diocesi di Brescia, Pesaro e Ancona. In pratica avrebbe avallato le erogazioni mensili dell’importo di 65 mila euro previste da questo progetto pilota. E il «sostegno economico determinante di alcuni vescovi» è citato in un dossier interno di Mediterranea sulla relazione con la Chiesa cattolica, dove viene esaltato il ruolo centrale di Zuppi e Lorefice. Probabilmente l’imprimatur è arrivato direttamente da Jorge Mario Bergoglio.
[…]
Oltre alle somme già citate, nel 2021 a Mediterranea sarebbero stati elargiti altri 219 mila euro, nel settembre 2022 ulteriori 200 mila provenienti dalle arcidiocesi di Napoli e Palermo, soldi che avrebbero consentito di coprire le missioni in mare di quell’anno. Sempre nel 2022, 10 mila euro sarebbero stati erogati dalla diocesi di Modena, 20 mila dalla Fondazione migrantes (organismo pastorale della Cei costituito per «la fraterna accoglienza», l’evangelizzazione e l’integrazione degli stranieri), 30 mila direttamente dal vescovo di Palermo, 115 mila euro dagli enti ecclesiastici (diocesi e fondazione). Nel 2023, 200 mila sarebbero stati versati dalla Caritas, 200 mila di nuovo da Napoli e Palermo, altri 270 mila euro da altre diocesi, 25 mila direttamente dal cardinal Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della commissione delle conferenze episcopali dell’Unione europea. In tutto, più di 2 milioni di euro.
Se si considera che Mediterranea nelle uniche quattro missioni condotte con la Mare Jonio tra il 2022 (gennaio, aprile e giugno) e il 2023 (nell’ottobre scorso) ha condotto in porto 422 migranti in tutto, il recupero di ogni naufrago è valso a Casarini e soci 4.900 euro, una vera pesca miracolosa.
La «conversione» […]L’ex ateo Casarini ha da tempo completato il suo percorso da incendiario a pompiere e che nel 2019 ha confessato ai giornali la sua svolta spirituale, a cui, però, non ha voluto dare un nome. Ha solo fatto sapere di avere sul comodino l’enciclica Laudato si’ di Bergoglio. Meritandosi quest’anno un posto al Sinodo dei vescovi come «invitato speciale». […] Il 5 agosto 2020, dopo aver ricevuto la lettera con la proposta da Casarini, monsignor Castellucci si scioglie: «Carissimo Luca, grazie!».
[…] Ed ecco l’ispiratissima risposta di Casarini: «Don Erio Grazie. Grazie per quella che tu chiami “una goccia nel mare”, ma che ha in sé una potenza straordinaria. Queste gocce, come le lacrime, sono calde. Si fanno strada nell’acqua resa gelida dall’indifferenza, nell’aria rarefatta dei senza respiro, e si muovono, scendono dagli occhi e rigano il viso, bagnano il mare e per un attimo lo riscaldano, mescolandosi alle onde. Caro Padre, sappi questo: con questa goccia delle tue lacrime, noi riscalderemo l’acqua del Grande Lago di Tiberiade».
Dopo questa concessione al lirismo, Casarini diventa pragmatico e spiega di essere «in assoluta emergenza», ma offre anche una possibile soluzione da realizzare attraverso un’associazione costituita ad hoc: «Se organizziamo il fatto che una volta al mese le parrocchie delle diocesi possano destinare una lacrima, le offerte raccolte dai fedeli, al soccorso in mare […] Provo a mettere giù uno schema di costruzione della associazione Grande Lago di Tiberiade, cosicché tu possa parlarne a Don Matteo Zuppi. Il giorno 10 incontreremo, io, Beppe e Don Mattia, Don Corrado Lorefice. Poi Monsignor Mogavero (Domenico, ndr), poi Don Pennisi (il vescovo Michele, ndr) e tanti altri. Per intessere insieme la rete dei pescatori di uomini. Grazie dunque per questa prima goccia».
Arrivano i bonifici A questo punto Casarini invia l’iban di Caccia e specifica: «Si tratta del conto di Beppe, per non fare inutili giri di bonifici che farebbero tardare l’arrivo. Ci mettiamo alla ricerca adesso di tutto il resto: entro martedì dobbiamo pagare circa 40 mila euro... ma ce la faremo! Ti abbraccio forte. Luca».
Il fiume di finanziamenti inizia con questa prima goccia, a cui ne seguono molte altre. Il 14 agosto 2020 don Mattia invia lo screenshot della ricevuta di un secondo bonifico bancario da 10 mila euro, disposto dalla diocesi di Brescia. Il 29 settembre, Caccia riceve dall’arcidiocesi di Modena-Nonantola 20 mila euro e chiede di «ringraziare molto Monsignor Castellucci». Il 14 gennaio 2021 giunge una nuova iniezione di cash sempre dalla diocesi di Modena, che tra agosto 2020 e febbraio 2021 invia 45 mila euro. Gli investigatori rilevano «gravi e sistematici elementi di anomalia» nelle movimentazioni bancarie di Caccia.
[…] Per esempio alcune sono state inoltrate alla Idra come «prestiti infruttiferi», pronte per essere richieste indietro dai novelli lupi di mare. In una captazione Caccia ammette che «non è stato bello tenersi i soldi delle donazioni di Facebook e di domandarli in prestito». Al telefono Casarini, destinatario di 6 mila euro di emolumenti mensili, ammette che «’sta roba» è stata messa su da lui, Metz e Caccia e che gli ha permesso di «pagare l’affitto di casa e la separazione» senza dover «andare a lavorare in un bar».
[…] Ma che le parrocchie siano viste come una gigantesca mucca da mungere è dimostrato da un’intercettazione del 27 novembre 2020. Caccia spiega che «la riunione con i vescovi», organizzata per chiedere «un intervento di emergenza sui debiti» dell’anno, «è andata molto bene» e che «vi erano 16 vescovoni», quindi aggiunge che «partirà il tesseramento, le donazioni permanenti». Il brogliaccio della telefonata prosegue con altri particolari riportati da Caccia: «Tutti hanno detto dobbiamo... poi don Ciotti, che è il capo dei bergogliani, li ha messi in riga, e tutti hanno detto che non è in discussione il fatto che la nave bisogna comperarla e finanziare perché tutti hanno detto che è la loro nave, e noi gli dobbiamo garantire di potere navigare».
Addirittura per qualcuno la Mare Jonio avrebbe dovuto battere bandiera vaticana. Caccia sogna a occhi aperti e si augura che «con questi qua» passi «il concetto di 30.000 euro (forse 3.000, ndr) al mese da ogni diocesi» (in Italia sono 226), che vorrebbe «dire mettersi d’accordo con 100 parrocchie che sottoscrivano per ogni diocesi 30 euro per Mediterranea».
Caccia, a questo punto, aggiunge: «Siamo già 100.000 sopra la previsione messa sul piano economico di Mediterranea e si è già sui 580 annui».
[…] Ma chi sono stati i garanti di un’operazione tanto rischiosa? Eccoli: gli allora deputati del Pd Matteo Orfini, Gennaro Migliore, Luca Rizzo Nervo, Fausto Raciti, Massimo Ungaro, Giuditta Pini (nel direttivo di Mediterranea), Luca Pastorino, Vincenza Bruno Bossio, il fondatore di Sinistra ecologia e libertà ed ex governatore della Puglia Nichi Vendola, la verde Rossella Muroni, il senatore dem Francesco Verducci e l’ex collega Francesco Laforgia, i già parlamentari (alcuni rieletti nel 2022) di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, Loredana De Petris, Giuseppe De Cristofaro, Erasmo Palazzotto, gli europarlamentari Pietro Bartolo (ex sindaco di Lampedusa) e Massimo Smeriglio, il consigliere regionale lombardo di +Europa-Radicali Michele Usuelli, oltre a Caccia e Metz.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per La Verità - Estratti giovedì 30 novembre 2023.
Le carte dell’inchiesta di Ragusa su Luca Casarini e altre cinque persone, compreso il suo fraterno amico e compagno di lotta Giuseppe Caccia (tutti indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre la violazione delle norme del codice della navigazione), raccontano come in un reality show tutte le manovre di avvicinamento dell’ex capo delle Tute bianche ai vertici della Chiesa.
Un film che si dipana tra il 2019 e il 2021, sino al sequestro dei cellulari. In un dossier interno dell’associazione di promozione sociale Mediterranea, di cui Casarini e Caccia sono animatori, viene spiegato come sia iniziato tutto. «La relazione tra Mediterranea e la Chiesa cattolica è una cosa che ha lasciato stupiti molti.
(...) Ma com’è nato tutto ciò? Il merito (o la colpa) di aver avviato questo rapporto è degli arcivescovi delle due città in cui si trovano la sede legale e la sede operativa di Mediterranea, Bologna e Palermo: Matteo Zuppi e Corrado Lorefice.
(...)
Il punto di svolta nel rapporto tra Mediterranea e la Chiesa è stato poi l’incontro tra Luca Casarini, capomissione di Mediterranea, e l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, avvenuto l’8 aprile 2019. Quell’incontro ha rappresentato una svolta ed è stato epifanico».
Soprattutto perché l’arcivescovo avrebbe dato un nome ai sentimenti che spingevano l’ex attaccabrighe dei centri sociali a salvare migranti. «Lorefice ha fatto capire a Luca e a tutta Mediterranea che quello che stavamo vivendo era il Vangelo» e «da quel momento Luca e tutti i ragazzi e le ragazze di Mediterranea hanno iniziato ad avere ancora più interesse verso il Vangelo e la Chiesa e hanno chiesto di poter avere un cappellano dentro Mediterranea, cioè un prete che li accompagnasse spiritualmente nel cammino, figura che poi è stata individuata in don Mattia Ferrari a motivo della sua storica amicizia con i ragazzi e le ragazze dei centri sociali bolognesi Tpo e Làbas, che sono tra i fondatori di Mediterranea».
(...)
La testa di ariete per l’ingresso dentro alle diocesi sono proprio don Mattia e anche don Luigi Ciotti, di Libera. Il primo è in tutte le chat, fa parte del direttivo di Mediterranea, naviga sulla Mare Jonio. E in una conversazione annuncia tutto felice il ritorno in auge della Teologia della liberazione: «Leggete l’omelia del Papa questa mattina. Ancora in versione comunista».
Anche se ogni tanto, pure don Mattia, qualche dubbio sui suoi «compagni di viaggio» lo nutre: «Mi disse una volta una compagna di Labas: “Ci abbiamo messo anni e anni e finalmente abbiamo distrutto la famiglia”. Giusto per favorire il dialogo con la Chiesa. La famiglia resta un tema su cui tra Chiesa e centri sociali resta una certa distanza». Bontà sua.
È sempre il cappellano ad ammettere che la loro marcia per occupare il Vaticano, al contrario di quella di Mao, non è stata neppure troppo lunga: «È partito tutto con l’incontro tra Casarini e Lorefice. E sette mesi dopo siamo dal Papa».
È il 5 dicembre 2019 e quell’incontro non è stato troppo pubblicizzato per preciso volere della Santa Sede.
Dopo pochi giorni, però, la banda festeggia un’altra omelia del Pontefice: «Il succo del discorso di papa Francesco di oggi: Casarini è diventato il ghost writer di papa Francesco», scrive don Mattia. Anche il cardinal Michael Czerny avrebbe notato la stessa cosa. E aggiunge: «Quel santegidiano di Zuppi imparerà che con noi si fa sul serio». Casarini ribatte: «Siamo gesuiti», Don Mattia non ci sta: «Io sono Mediterranea e basta». Casarini rilancia: «Ormai siamo arruolati». Don Mattia: «Tu più che altro nel discorso di oggi sei stato il ghost writer del Papa».
Casarini è realista: «Tu pensi che abbiamo arruolato noi loro, o il contrario Fratello mio?». Don Mattia: «Siamo noi che abbiamo arruolato loro». Poi fa un passo indietro. «È Gesù di Nazareth che ci ha arruolati tutti».
Passano un paio di mesi, e un altro indagato, Giuseppe Caccia sembra infastidito di essere trattato come un amante da tenere nascosto: «Posso dire che i nostri amici vescovi bergogliani sono un po’ dei coglioni a decidere di non gestirsi pubblicamente alla grande il rapporto con noi?». Anche in questo frangente Casarini invita alla pazienza: «Tempo al tempo. Vedrai che Czerny non si lascia sfuggire la cosa e la giocherà dal basso».
Nel febbraio 2020 Casarini & C. partecipano a un convegno dei vescovi a Bari, che don Mattia lo definisce «una ciofeca».
Caccia chiede: «Quando abbiamo appuntamento privato con i “nostri” vescovi?».
Don Mattia avverte: «Zuppi mi ha garantito che a Bari ci farà salutare il Papa. Questa volta ci sono le macchine fotografiche e le telecamere». Non devono più nascondersi. Il cappellano è di ottimo umore: «Non dimenticherò mai Bassetti che ci confonde con Tirrenia e la cena in cui ci siamo imbucati tra vescovi. E i vescovi che vengono a riverire Casarini. E l’ausiliare di Messina che dice: “Grazie, mi avete edificato”.
E Lorefice che quando gliel’ho riferito, ha detto: “A me lo dici? A me Luca Casarini mi ha evangelizzato. Che poi è quello che dico sempre io: voi mi evangelizzate sempre». Casarini cita solo con le sigle il loro «squadrone»: «Z, P, C, K, M, L, H».
Ovvero i cardinali Zuppi, Czerny, Konrad Krajewski, Lorefice e Jean-Claude Hollerich e i monsignori Domenico Mogavero (sempre che M non stia per il cardinale Francesco Montenegro) e Michele Pennisi.
«L mi ha detto che è pronto ad andare a parlare con il Papa. Anche P l’ho visto determinato. H bisogna informarlo di tutto, anche C».
La diffidenza del Vaticano sta per essere definitivamente superata, anche se con un po’ di fatica: «Krajewski gli ha ribadito (a Zuppi, ndr): “Io a loro (cioè a noi) non gli do niente direttamente. Voi fatemi una richiesta scritta in cui è chiarissimo che io i soldi li do a voi e non a loro”. Domani Zuppi chiama Lorefice, Mogavero e Montenegro per procedere con la richiesta scritta».
Arriva il 19 marzo e don Mattia scrive a Caccia e Casarini: «E nel giorno della festa del papà, auguri ai miei due papà politici».
Caccia non è d’accordo: «Festa del papà? Oggi è San Giuseppe!».
L’11 aprile, il giornale dei vescovi, Avvenire, pubblica una lettera del Pontefice, di risposta a quella di Casarini, che si era lamentato per tutti gli ostacoli incontrati per «poter salvare dalla morte i nostri fratelli e sorelle migranti»: «Luca, caro fratello […] grazie per tutto quello che fate» aveva scritto Francesco. Anticipando il futuro aiuto: «Vorrei dirvi che sono a disposizione per dare una mano sempre.
Contate su di me».
La banda prende la palla al balzo e usa questo viatico per fare il giro delle sette chiese, nel vero senso della parola.
Dopo un po’ di tempo Casarini ha uno scontro con il leghista Igor Gelarda.
I due si scambiano querele e l’ex no global scrive: «Questo, dal video che ha fatto, mi pare davvero un coglione, tra l’altro. Su tema oratorio suggerisco di produrre lettera del Papa a me». Poi ci pensa: «Sarà ora che me ne faccia scrivere un’altra… quella ormai ce la siamo venduta in ogni dove». Un interlocutore ricorda l’incipit: «Luca, caro fratello» e Casarini rilancia: «Per la seconda lavoriamo su “Luca, figliolo prediletto” e “Benedico quei santi avvocati che ti proteggono”».
Quando don Mattia riesce a portare i suoi strani compagni di viaggio davanti al Papa confessa quale sia stato il vero motivo dell’incontro: «Ragazzi devo ancora riprendermi da questi giorni e soprattutto dallo sforzo fisico che ho fatto per avere la faccia da c...
per dire al Papa di mettere i soldi». In un altro messaggio si era vantato: «Come sai so essere un ottimo rompic...».
Per lui le diocesi sono un bancomat: «La Chiesa cattolica sta diventando il nostro Soros». Ovvero il filantropo George che da decenni finanzia Ong in tutto il mondo.
Ma i fondi stentano ad arrivare e don Mattia inizia a perdere la pazienza. A suo giudizio Zuppi è troppo «prudente» e «vuole la botte piena e la moglie ubriaca»: «Per quanto sia un grande a me con ‘ste lentezze ha un po’ rotto i coglioni». Casarini ha un’idea: «Scrivigli che l’hai visto (in tv, ndr) e che era bello e così gli chiedi». Per Caccia «importante è per noi non restare con coglioni schiacciati in mezzo alla porta mentre vescovi e Krajewski tirano da una parte all’altra».
Don Mattia ha le sue idee sui rallentamenti del cardinale elemosiniere: «Il punto di fondo è questo: appena Francesco saprà che sta bloccando tutto perché crede alle balle della Lamorgese (Luciana, ex ministro dell’Interno, ndr), farà procedere». Ma anche ha l’asso nella manica: «Poi al massimo abbiamo l’ultima carta, quella che ti ha detto Lorefice, facciamo parlare Lorefice con il Papa».
Casarini e i soldi Cei: le intercettazioni lo inguaiano. Lodovica Bulian il 2 Dicembre 2023 su Il Giornale.
Il caso dei fondi della Chiesa al leader della ong Mediterranea. L'ex no global, indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: "Seimila euro per l'affitto di casa"
È diventato un caso il contenuto negli atti dell'inchiesta della Procura di Ragusa che indaga Luca Casarini e altre cinque persone per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione del codice della navigazione. Il pm ne ha chiesto il rinvio a giudizio e il gip decide il 6 dicembre. «Frasi totalmente inventate» dice Casarini di quelle rivelate da Panorama e dalla Verità che svelano la cornice in cui si sarebbero mossi l'attivista e la ong Mediterranea, con la sua Mare Jonio, nel salvataggio dei migranti. Emerge la relazione tra Mediterranea e l'uso delle donazioni ricevute da parte della Chiesa, come da dichiarazioni agli atti dell'indagine. Casarini viene descritto come «destinatario di 6 mila euro di emolumenti mensili ammette che 'sta roba gli ha permesso di pagare l'affitto di casa e la separazione senza andare a lavorare in un bar».
«È tutto totalmente falso», dice lui mentre minaccia querele. Ma il rapporto con i vescovi sarebbe stato così stretto da indurre uno degli indagati, Giuseppe Caccia, amico di Casarini, a dire che «i nostri amici vescovi bergogliani sono un po' dei co... a non gestirsi pubblicamente il rapporto con noi», in relazione alla mancata «pubblicità» del finanziamento economico alla ong da parte della Chiesa. Dalle intercettazioni emergerebbe una relazione così stretta con i vescovi che la finanziano, che dopo una omelia del Papa si parla di «Casarini come del ghost writer di Francesco». Viene citata anche una lettera di Francesco in risposta a Casarini che lamenta le difficoltà del soccorso in mare. E che inizia così: «Luca, caro fratello». Casarini commenta: «Ora lavoriamo su Luca, figliolo prediletto». «Frasi false, manipolate o al di fuori dal loro contesto», dice lui al Corriere ipotizzando «un'operazione per intimidire il gip che deciderà sul rinvio a giudizio». L'uomo di riferimento per ottenere sostegno sarebbe stato l'attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. E Don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio.
La Procura contesta anche a Casarini di aver ricevuto 125 mila euro dalla compagnia danese Maersk, proprietaria della nave che aveva salvato 27 naufraghi poi presi a bordo dalla Mare Jonio di Mediterranea. L'ipotesi è che il trasferimento dei migranti sia avvenuto per motivi economici e non umanitari. «Non vediamo l'ora di poter dimostrare che è tutto falso», dice Casarini. E rilancia: «Mi spiace di essere lo strumento per quello che è chiaramente un attacco a Papa Francesco». Una delle frasi che restituiscono meglio il vitale sostentamento finanziario alle missioni della ong: «La Chiesa cattolica sta diventando il nostro Soros. Ho avuto la faccia da c di chiedere i soldi a Bergoglio», dice il Cappellano della nave.
Quando i fondi della Chiesa però a volte stentano ad arrivare ci sono tensioni. Per don Mattia, Zuppi è troppo «prudente» e «vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Per quanto sia un grande a me con 'ste lentezze ha un po' rotto i coglioni». Casarini suggerisce: «Scrivigli che l'hai visto (in tv, ndr) e che era bello e così gli chiedi».
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per La Verità -Estratti venerdì 1 dicembre 2023.
L’uomo su cui la banda di Luca Casarini puntava maggiormente era l’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. Era lui la loro arma segreta. O perlomeno i Casarini boys si auguravano potesse diventarlo. Con in prima fila don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio, il rimorchiatore dell’associazione Mediterranea che, a causa di una missione a scopo di lucro, ha portato alla sbarra a Ragusa Casarini, il sodale Giuseppe Caccia e altre quattro persone, accusati a vario titolo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione delle norme del codice della navigazione.
(…)
All’inizio del progetto, Caccia lo afferma senza esitazioni: «Se la situazione finanziaria diventa drammatica, bisogna andare da Zuppi e Lorefice e battere cassa. Loro hanno soldi e personalmente gli arcivescovi hanno sempre una dotazione di cui dispongono liberamente. Dopo tutta la gratuita pubblicità che gli abbiamo fatto...». Casarini sul punto della «pubblicità» è d’accordo e consiglia a don Mattia: «Scrivi, così la vedono tutti, quella considerazione lì».
Già quando Zuppi era stato creato cardinale i nostri avevano esultato, in particolare don Mattia:
«Devo dire che comunque in questo nostro progetto che stiamo costruendo abbiamo anche un bel po’ di fortuna (o di Provvidenza): Krajewskij accende la luce a Spin time (noto palazzo della capitale occupato dai centri sociali, ndr), costringendo tutti a riconoscere la positività di quello che Spin time e amici compagni (cioè noi) fanno; Francesco crea cardinali Zuppi, Czerny (Michael, ndr) e Hollerich (Jean-Claude, ndr) che sono nostri supporter; il Vaticano si decide proprio ora, finalmente, ad accettare che la Chiesa possa sostenere i movimenti popolari. Insomma abbiamo un incastro perfetto».
Zuppi si era in effetti messo a disposizione all’inizio del progetto. In un dossier interno di Mediterranea si legge che «nella sua azione pastorale a Bologna ha costruito un’amicizia sincera e profonda con tutte le persone di buona volontà […] e quindi anche con i centri sociali (abbattendo, va detto, muri secolari)». In una chat don Mattia riferisce i suggerimenti di Zuppi per portare avanti il progetto di una nuova nave e di finanziamenti da parte della Chiesa: «Dice che è ottimo parlarne con Krajewskij, Czerny, Hollerich, sia perché tutti e tre sono molto in gamba, sia perché Krajewskij vede quasi tutti i giorni il Papa, Czerny lo vede spesso, e Czerny e Hollerich lo vedranno quasi ininterrottamente per tutto il mese di ottobre per il Sinodo. Quindi è sicuro che gli parleranno del nostro incontro».
(…)
Infatti vedete che ci aprono praterie». «Noi siamo pronti», ribatte fra’ Tac Casarini. Il prete continua: «Non a caso i vescovi tedeschi stanno finanziando da anni le Ong tedesche e le stanno sostenendo a go go.
Qui è stato come sempre geniale Zuppi che ha avuto l’idea di proporci per Mediterranea di aggirare la Cei e di passare attraverso Czerny e Hollerich.
L’intelligenza politica di Zuppi è sempre geniale. Abbiamo degli ottimi alleati».
A dicembre don Mattia riporta un dialogo con Zuppi.
«Vi faccio la trascrizione del nostro colloquio telefonico di stasera (registrava, ndr?).
Zuppi: “Ciao Mattia, ascolta. Ho visto il testo di Luca ed è buono, per me va bene. Il problema è che ho parlato con Krajewskij e lui è dubbioso”. Io: “Dubbioso su cosa?”. Zuppi: “Dubbioso sull’operazione. Non si è sbottonato. Ha detto solo che è dubbioso”. Io: “Quindi che si fa?”.
Zuppi: “Dobbiamo pensarci , ma ce la facciamo, perché da quanto avete detto il Papa era d’accordo con voi. Provo a parlare con Lorefice e gli altri. Dobbiamo trovare il modo per convincere Krajewskij. Bisognerebbe che ricevesse il mandato direttamente dal Papa». Don Mattia fa un esempio: «Tenete presente questo: quando il Papa ha pagato Open arms, non erano passati per Krajewskij, ma erano arrivati direttamente dal Papa».
Per Mediterranea l’ostacolo, in quel momento, sembra essere Krajewskij: «Ormai abbiamo capito che più che altro non è sul pezzo. Uno che si fida della Lamorgese (Luciana, allora ministro dell’Interno, ndr) che gli dice che torneranno le navi militari e che, quando gli dico che all’epoca delle navi militari c’erano anche le Ong, cade dal pero, vuol dire che non è sul pezzo». In un altro messaggio il giudizio è ancora più duro: «Il problema di fondo ragazzi è che Krajewskij è la Carola Rackete del Vaticano. È pazzo. È capace di mosse coraggiosissime, decise in autonomia, come quella di Spin time, e al tempo stesso a seconda di come gli gira può piantare delle grane se non vede che le cose vanno come vuole lui».
Casarini posta un articolo dell’Espresso sulla presunta «furia sovranista contro papa Francesco» e don Mattia commenta: «Pensa come saranno contenti questi che vogliono fermare Francesco e che invece vedono che i nuovi cardinali sono anche più spinti di lui…
(…)
Ma, nel racconto dei nostri eroi, Zuppi a un certo punto diventa una specie di re Tentenna sebbene, lontano dai riflettori, cerchi di aiutare la banda di Mediterranea. È il momento di far partire le donazioni e i vescovi sono pronti, ma don Matteo, come lo chiama Casarini, non spingerebbe abbastanza: «Tutti loro sono compatti dietro Zuppi. Ma lui evidentemente sta fermo». A suo giudizio il cardinale sarebbe «prudente» e vorrebbe «la botte piena e la moglie ubriaca». Nel 2020 il prete è insofferente: «Capisco che sia incasinato per il coronavirus, però deve darsi una mossa il buon Matteo». Spiega: «L’ho richiamato 7 volte, continuo fino a 70 volte 7 finché non mi risponde.
A questi qua bisogna tallonarli sennò confondono i tempi della realtà con i tempi biblici». E a un certo punto il cardinale fa perdere la pazienza anche al suo grande fan, don Mattia: «Per quanto sia un grande a me Zuppi con ’ste lentezze ha un po’ rotto i coglioni». Casarini ha un’idea: «Scrivigli che l’hai visto e che era bello e così gli chiedi».
Ma il gruppetto continua comunque a fare il tifo per il futuro presidente della Cei: «Non so cosa pensino gli altri vescovi di fatto è il più lanciato e visibile dei vescovi italiani».
A un certo punto Zuppi risponde a Casarini e don Mattia commenta: «Si conferma che Luca è il preferito e tutti noi veniamo dopo». L’ex capo delle Tute bianche rassicura gli amici: «Ora manda messaggio a tutto il nostro giro perché partano richieste di soldi a Krajewskij». Un altro messaggio registra i progressi: «Domani Zuppi chiama Lorefice, Mogavero (Domenico, vescovo emerito di Mazara del Vallo, ndr) e Montenegro per procedere con la richiesta scritta». Per la combriccola «i bergogliani fanno gruppetto» e Zuppi lo avrebbe confermato quando, di fronte a nomi di vescovi disponibili ma fuori dal loro giro, avrebbe risposto: «No no, facciamo noi».
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Giorgio Gandola per La Verità - Estratti venerdì 1 dicembre 2023.
«Il Papa non sapeva dei soldi». La frase percorre le sacre stanze ed è la versione di velluto per proteggere Francesco dalla tempesta perfetta uscita dalle intercettazioni dell’inchiesta della Procura di Ragusa.
C’è silenzio e c’è imbarazzo in Vaticano dopo le rivelazioni di Panorama e della Verità; le notizie non compaiono negli organi ufficiali ma la copertina del settimanale è la più fotocopiata oltre le mura leonine.
Quel «il Papa non sapeva dei soldi» pronunciato da un cardinale vorrebbe essere la versione 2.0 del «troncare, sopire» di manzoniana memoria ma diventa a suo modo una velata accusa. E alimenta il sospetto che nella Chiesa vengano prese decisioni così impattanti bypassando l’inquilino con la veste bianca che abita in Santa Marta. Per questo si fa strada l’ipotesi di una verifica interna per capire se ci sono stati coinvolgimenti diretti di alcuni dirigenti vaticani.
La scoperta dei 2 milioni di euro della pesca miracolosa di «fratello Luca» (così il Pontefice chiamava Luca Casarini) suscita infatti il fastidio di parte della Curia romana. Innanzitutto perché svela la destinazione impropria delle elemosine dei fedeli. Napoli, Palermo, Brescia, Pesaro, Ancona: il finanziamento con destinazione finale ambigua arriva dalle diocesi, quindi dalle chiese frequentate dalla gente comune, che durante la Messa ritiene di donare il proprio piccolo contributo al bene della parrocchia, dei poveri, degli indigenti della porta accanto.
Anche se l’Obolo di San Pietro nel 2022 ha incassato 107 milioni, prende corpo il timore di una disaffezione sempre più grande.
Con un esempio concreto che lascia stupefatti: mentre monsignor Matteo Maria Zuppi, come presidente della Cei, dava la sua benedizione all’operazione Casarini, in una delle diocesi citate (Brescia), l’abate di Montichiari, don Cesare Cancarini, lanciava un appello drammatico: «Rimbocchiamoci le maniche o dovremo chiudere le chiese». Il forte calo delle offerte ha messo il sistema con le spalle al muro anche nella ricca provincia lombarda. Su 20.000 euro di spese di gestione di Santa Maria Assunta, le offerte mensili dei fedeli nel 2023 ammontavano a 6.000 euro, di cui 1.000 per la colletta alimentare e 500 per le candele.
«Senza contare che ormai, in occasione di battesimi, cresime e funerali non si dona più nulla». Ora quelle stesse famiglie che nonostante tutto continuano a sostenere il loro luogo di culto, sanno che i denari potrebbero finire nelle tasche dell’ex leader delle Tute bianche imputato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Ma in Vaticano, più che dai 2 milioni, lo schiaffo alla buona fede arriva dalla sensazione di essere stati manipolati. Confermata dalle parole del fondatore di Mediterranea e del suo braccio destro Giuseppe Caccia, storico leader politico della sinistra veneziana legato ai centri sociali. Tutti i «vescovoni» - così vengono citati dai due campioni delle traversate umanitarie nelle conversazioni registrate dai pm - hanno letto le frasi delle intercettazioni. «La Chiesa cattolica sta diventando il nostro Soros» (don Mattia Ferrari); «Devo ancora riprendermi dallo sforzo che ho fatto per avere la faccia da culo di dire al Papa di mettere di soldi» (don Mattia Ferrari); «Posso dire che i nostri amici vescovi bergogliani sono un po’ dei coglioni a decidere di non vestirsi pubblicamente alla grande il rapporto con noi?» (Caccia).
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Le trame del Card. Zuppi per aggirare la Cei e dar soldi al pregiudicato Casarini. Giacomo Amadori su Panorama l'1 Dicembre 2023
Il prete di bordo di Mare Jonio: «Per farci finanziare dalla Caritas è passato direttamente dai cardinali Czerny e Hollerich, geniale». I rapporti con i centri sociali e l’esultanza per le nomine progressiste di Francesco. «Krajewskij è la Carola Rackete del Vaticano» L’uomo su cui la banda di Luca Casarini puntava maggiormente era l’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. Era lui la loro arma segreta. O perlomeno i Casarini boys si auguravano potesse diventarlo. Con in prima fila don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio, il rimorchiatore dell’associazione Mediterranea che, a causa di una missione a scopo di lucro, ha portato alla sbarra a Ragusa Casarini, il sodale Giuseppe Caccia e altre quattro persone, accusati a vario titolo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e violazione delle norme del codice della navigazione. Le chat sequestrate dai militari della Guardia di finanza agli atti dell’inchiesta sequestrate dai militari della Guardia di finanza agli atti dell inchiesta mostrano la corsa degli esponenti più progressisti della Chiesa a sostenere Casarini. Un signore che nella sua presentazione a candidato del direttivo di Mediterranea, associazione di cui è fondatore, nell’ottobre 2020 si presentava così: «Mi occupo anche dello sviluppo di percorsi politicospirituali all’interno di alcune strutture della chiesa cattolica, collaborando con i circuiti vicini a Papa Francesco. Sono da sempre arrivista (un lapsus freudiano si potrebbe dire, ndr) dei movimenti di contestazione italiani e non solo e, in seguito a questo impegno politico, ho accumulato 4 anni e 7 mesi di condanne definitive». Un curriculum perfetto per fare da consigliere del Papa, o ghost writer come azzarda l’allegra brigata («Casarini come Scalfari», butta lì Caccia in una chat, facendo riferimento al fondatore di Repubblica, per un periodo compagno di conversari del Pontefice). Già nel gennaio del 2020, due anni prima della nomina, la combriccola è al lavoro: «Probabilmente Bassetti (Gualtiero, allora capo dei vescovi italiani, ndr) darà le dimissioni in primavera e a maggio Zuppi diventerà il prossimo presidente della Cei» ragiona don Mattia. «È chiaro che se lui sarà presidente della Cei per Mediterranea le cose saranno molto più facili. Però non possiamo stare nell’incertezza. Metti che poi a maggio fanno un colpo di mano ed eleggono un altro. A quel punto saremo stati fermi per mesi invano». Caccia, che di politica sa qualcosa, arriva subito al dunque e domanda: «Chi può dare una spinta a Zuppi?». Don Mattia ha già in testa una soluzione che passa per due nomi: «Lorefice (Corrado, arcivescovo di Palermo, ndr) e Montenegro (Francesco, cardinale, ndr)». Ma don Mattia è dubbioso: «Sì sì, infatti dico che non possiamo stare fermi fino a maggio, tra l’altro non è neanche ancora sicuro, anche se è molto probabile, che a maggio Zuppi diventerà presidente. La cosa migliore è che voi in quei giorni vediate Lorefice e Pennisi (Michele, arcivescovo emerito di Monreale, ndr)». L’obiettivo è facilmente intuibile: «Così gli danno la spinta finale», sentenzia don Mattia. Nei momenti bui l’ancora di salvezza è sempre lui: Zuppi. All’inizio del progetto, Caccia lo afferma senza esitazioni: «Se la situazione finanziaria diventa drammatica, bisogna andare da Zuppi e Lorefice e battere cassa. Loro hanno soldi e personalmente gli arcivescovi hanno sempre una dotazione di cui dispongono liberamente. Dopo tutta la gratuita pubblicità che gli abbiamo fatto...». Casarini sul punto della «pubblicità» è d’accordo e consiglia a don Mattia: «Scrivi, così la vedono tutti, quella considerazione lì». Già quando Zuppi era stato creato cardinale i nostri avevano esultato, in particolare don Mattia: «Devo dire che comunque in questo nostro progetto che stiamo costruendo abbiamo anche un bel po’ di fortuna (o di Provvidenza): Krajewskij accende la luce a Spin time (noto palazzo della capitale occupato dai centri sociali, ndr), costringendo tutti a riconoscere la positività di quello che Spin time e amici compagni (cioè noi) fanno; Francesco crea cardinali Zuppi, Czerny (Michael, ndr) e Hollerich (JeanClaude, ndr) che sono nostri supporter; il Vaticano si decide proprio ora, finalmente, ad accettare che la Chiesa possa sostenere i movimenti popolari. Insomma abbiamo un incastro perfetto». Zuppi si era in effetti messo a disposizione all’inizio del progetto. In un dossier interno di Mediterranea si legge che «nella sua azione pastorale a Bologna ha costruito un’amicizia sincera e profonda con tutte le persone di buona volontà […] e quindi anche con i centri sociali (abbattendo, va detto, muri secolari)». In una chat don Mattia riferisce i suggerimenti di Zuppi per portare avanti il progetto di una nuova nave e di finanziamenti da parte della Chiesa: «Dice che è ottimo parlarne con Krajewskij, Czerny, Hollerich, sia perché tutti e tre sono molto in gamba, sia perché Krajewskij vede quasi tutti i giorni il Papa, Czerny lo vede spesso, e Czerny e Hollerich lo vedranno quasi ininterrottamente per tutto il mese di ottobre per il Sinodo. Quindi è sicuro che gli parleranno del nostro incontro».
«La Cei in mano a Casarini». Ecco il colpo grosso per spillare soldi alle diocesi. Giacomo Amadori,François De Tonquédec su Panorama il 02 Dicembre 2023.
Dalle intercettazioni di Ragusa i retroscena sulle trame milionarie. Don Mattia Ferrari: «La conquista è iniziata». Le spese pazze con la carta di credito dell’ex no global La banda di Luca Casarini, il commodoro no global, ha conquistato l’associazione di promozione sociale Mediterranea a piccoli passi, sino a trasformarla in un brand internazionale, usando il suo fiuto per il marketing. Il colpo da maestro è stata la strombazzata conversione e la conquista dei sacri palazzi. Una scalata che ha portato molti soldi nelle casse dell’associazione, ma anche dell’Idra social shipping, la compagnia privata pensata da Casarini e dall’amico Giuseppe Caccia (socio di maggioranza) che arma la Mare Jonio, il rimorchiatore che si offre (anche in cambio di denaro, secondo i magistrati) di recuperare naufraghi in mare o sulle navi altrui. Sino al 2019, nelle tasche dei due, oggi accusati a Ragusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, giravano pochi euro.
Fabio Amendolara per la Verità - Estratti sabato 2 dicembre 2023.
«Tenete presente questo: quando il Papa ha pagato Open Arms, non erano passati per Krajewskij ma erano arrivati direttamente dal Papa». Don Mattia Ferrari, sacerdote cresciuto nella parrocchia di ormigine, popolosa cittadina a 30 minuti da Modena, e salito a bordo della Mediterranea con i gradi da viceparroco dopo aver sposato la causa dell’ex No global Luca Casarini, questo concetto lo ha esplicitato più di una volta nelle chat acquisite dagli inquirenti. Konrad Krajewskij è il cardinale polacco chiamato da Bergoglio a fargli da elemosiniere.
E a don Mattia, che ha brigato non poco con vescovi e alti prelati pur di far ottenere lauti finanziamenti a Casarini & Co., non deve essere andato giù che la spagnola Open Arms sia riuscita a costruire l’ipotizzato rapporto diretto con papa Francesco. Don Mattia, nonostante la pesante cordata pro Mediterranea guidata nientepopodimeno che da Matteo Zuppi, sembra convinto che il meccanismo del bancomat della Chiesa debba essersi inceppato proprio per colpa di Krajewskij. E il 9 gennaio 2020 lo ricorda in chat: «Open Arms ha ricevuto molti soldi che non sono passati da Krajewskij».
E consiglia di usare tutte le leve per convincere l’elemosiniere: «Se non trovate i soldi tornate da Krajewskij e gli dite: “Abbiamo il progetto, abbiamo l’appoggio dei vescovi sul progetto, e gli fate l’elenco per nome e cognome di Lorefice (Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, ndr), Zuppi, Mogavero (Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, ndr), Marciante (Giuseppe Marciante, vescovo di Cefalù, ndr), Hollerich (Jean Claude Hollerich, cardinale lussemburghese, ndr), eccetera, ma non abbiamo i soldi per la nave. Ci serve il vostro aiuto per farla partire”. A quel punto Krajewskij vi dà i soldi».
Ma la rivelazione clamorosa, della quale non si trova traccia nei rapporti sociali della Ong spagnola, è questa: «A Open Arms, nel corso di questi quattro anni da che Oscar Camps (il fondatore della Ong, ndr) ha iniziato a frequentare il Papa, pare che il Vaticano abbia dato in totale 2 milioni di euro. Secondo me gliene ha dati meno, ma comunque cifre considerevoli.
Quindi se anche dopo il colloquio con don Matteo (Zuppi, ndr) non avete i soldi, tornate da Krajewskij e lui vi darà i soldi». Don Mattia in quel messaggio sostiene di riportare le parole di una sua fonte in Vaticano. Un cardinale che ha un certo peso specifico: Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena che in quel momento era anche il segretario della Commissione Cei per le migrazioni.
(…) Inoltre, è di Open Arms la nave che Matteo Salvini da ministro dell’Interno durante il primo governo Conte trattenne in mare per controlli con 147 persone a bordo, nell’estate 2019 (a Palermo è in corso un processo per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio).
Il 22 aprile 2017 Camps incontra Bergoglio. Ai giornalisti, nella sala stampa vaticana, mostra il suo invito inviato a nome del Papa dalla Prefettura della Casa pontificia. I due si trattengono circa 40 minuti nel Palazzo apostolico, durante i quali Camps ricorda al Papa di avergli donato a Lesbo il giubbotto salvagente di un bimbo profugo morto in mare. All’uscita Camps afferma: «Il Papa è l’unico leader mondiale che si occupa del problema».
La relazione, come sospetta don Mattia, deve aver portato nelle casse di Open Arms «molti soldi». Molti rispetto a quanto è riuscita a incassare Mediterranea, i cui attivisti, ogni qual volta si parla di Open Arms, sembrano provare un certo fastidio. Sempre nel 2020, per esempio, si tiene un incontro tra tale don Nandino (che deve essere vicino ai Casarini boys) e un giornalista di Famiglia cristiana che brigava per la costituzione di una nuova Ong.
Il ragionamento proposto durante l’incontro, stando a quanto riportato a Casarini, sarebbe stato questo: «Più siamo meglio è, l’importante è mettere navi in mare, dato che quelle di Mediterranea non fanno un c... E poi noi abbiamo Open Arms che ci fa la formazione e ci dà il loro personale in esubero». Il rapporto si sarebbe chiuso con don Nandino che avrebbe ricordato al suo interlocutore che con questa operazione sarebbero stati «responsabili dell’ulteriore spaccatura nelle forze cattoliche». Proprio quelle sulle quali contavano Casarini & Co.
Giacomo Amadori François De Tonquédec per la Verità - Estratti sabato 2 dicembre 2023.
La banda di Luca Casarini, il commodoro no global, ha conquistato l’associazione di promozione sociale Mediterranea a piccoli passi, sino a trasformarla in un brand internazionale, usando il suo fiuto per il marketing. Il colpo da maestro è stata la strombazzata conversione e la conquista dei sacri palazzi.
Una scalata che ha portato molti soldi nelle casse dell’associazione, ma anche dell’Idra social shipping, la compagnia privata pensata da Casarini e dall’amico Giuseppe Caccia (socio di maggioranza) che arma la Mare Jonio, il rimorchiatore che si offre (anche in cambio di denaro, secondo i magistrati) di recuperare naufraghi in mare o sulle navi altrui. Sino al 2019, nelle tasche dei due, oggi accusati a Ragusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, giravano pochi euro. Fare i no global di professione, sino alla scoperta della pesca miracolosa dei migranti, non era troppo remunerativo. E per capire come fossero messi questi due signori prima di solcare i mari, è utile leggere una chat che si sono scambiati nel novembre 2019. La coppia non ha ancora incontrato il Papa e il progetto del finanziamento dei prelati è ancora di là da venire. L’«armatore» Caccia scrive al suo «dipendente» (ma per gli investigatori amministratore di fatto) Casarini, in difficoltà economiche: «Siamo nella merda finché non si sbloccano i fondi che ha YB (l’associazione Ya Basta, ndr).
Ma lo stipendio può certo essere anticipato. Faccio fare subito 1.500. Ma sull’uso della carta, invece, devi evitare di fare cazzate. Non hai spedito giustificativi e il tabulato è pieno di voci ingiustificabili, che sarà un casino spiegare.
Così mi metti in forte imbarazzo con gli altri». Casarini prova a ribattere: «Ci sono alcune voci che riguardano arredamento sede/foresteria. Altre che vanno detratte perché non avevo altro per pagare(ad esempio un cinema con i ragazzi). Ma è tutto spiegabile e penso che non superi i 100 euro».
(...)
Comunque hai ragione. Sono troppo incasinato con i soldi. Devo darmi una regolata una volta per tutte. È che ogni mese pago 280 euro di cambiali. E questo non lo sa nessuno. È tutto troppo precario in come vivo. Devo pensare a come fare». Pure Caccia è depresso: «Non dirlo a me. Io da gennaio devo trovarmi un lavoro con uno stipendio, se no mi mangio fuori tutto e lascio i ragazzi nella merda».
Esattamente un anno dopo, anche grazie all’inizio della mungitura dei vescovi, i due amici scherzano al telefono e Casarini esclama: «O riuscivamo a fare ‘sta roba per pagare l’affitto di casa e la situazione della separazione oppure mi me dovevo andare a lavorare in un bar». Per riuscirci Casarini si è trasformato in una sorta di gesuita laico, pronto ad abbindolare con i suoi discorsi i «vescovoni», come li chiama lui. Parla e scrive come se fosse ispirato direttamente da Gesù e con chi gli fa i complimenti per il suo discorso, definendolo il ghost writer del Papa, lui si schermisce: «Non sono mie le parole… vengono dal nostro capo. È lui il Ghost writer che ci fa dire le cose giuste nel modo giusto. Che arrivano al cuore. Anche del Papa».
La svolta arriva con la visita a Francesco del 6 dicembre 2019 e con la consegna di un crocefisso con il giubbotto di salvataggio che fa innamorare i preti. Don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo della Mare Jonio, festeggia: «Abbiamo fatto un lavorone. Abbiamo ottenuto un risultato enorme: abbiamo portato molti vescovi e cardinali a sostenere Mediterranea, abbiamo ottenuto che Papa Francesco ha speso parole di elogio enorme per Mediterranea e ha fatto esporre la croce e il giubbotto con il logo di Mediterranea nell’atrio del Palazzo apostolico. Abbiamo ottenuto risultati storici. Siamo a un passo dall’obiettivo di avere una nuova nave».
Per la verità dal 2018 Casarini & C. continuano ad andare per mare con il rimorchiatore Mare Jonio, classe 1972, una nave vecchia, ma «robusta e affidabile». Eppure nelle chat è tutto un discutere di finanziamenti e bonifici e le nostre fonti hanno ricostruito, tra il 2021 e il 2023, donazioni per circa 2 milioni di euro da parte della Cei, della Caritas e delle diocesi. L’assedio ai vescovi bergogliani, progressisti «spinti», giudicati a volte in modo irriconoscente «un po’ coglioni» («nessuno si è spinto a regalare il libro su Med ai propri preti» si lamenta don Mattia) e a quelli «centristi tendenti a sinistra», persino più «coraggiosi», ha portato al risultato di sbloccare gli aiuti da parte delle diocesi, nonostante l’iniziale opposizione del «tesoriere» del Papa, il cardinale Konrad Krajewskij, «dubbioso» sul finanziare le ong per il soccorso in mare e per questo bollato come un «pazzo» dalla combriccola, «la Carola Rackete del Vaticano».
Don Mattia spiega: «Krajewskij non è stato pregiudizialmente ostile all’operazione, lui è perplesso sul fatto di pagare l’acquisto della nuova nave, ma c’è anche un’altra via percorribile. Infatti, se la Chiesa pagasse le prossime quattro missioni di Mediterranea (per un totale di 800.000 euro), Mediterranea potrebbe procedere autonomamente all’acquisto della nuova nave, grazie alle banche». Infatti l’unica condizione sarebbe quella di dimostrare di poter salpare.
Il sacerdote sa di avere un asso nella manica: «Bisogna anche ricordare che nell’udienza privata con Mediterranea del 6 dicembre scorso (2019, ndr), papa Francesco aveva detto apertamente che lui sosteneva Mediterranea sia nella possibilità di acquisto diretto della nuova nave sia nella possibilità di finanziamento delle prime quattro missioni».
Don Mattia, che come consigliori può contare sul futuro presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, fa sapere che si procederà «con l’inviare le richieste (dei vescovi, ndr) da mandare timbrate a Krajewskij». Alla fine la soluzione si trova: dalle diocesi inviano richieste di denaro per opere caritatevoli a Krajewskij, il quale gestisce l’Obolo di San Pietro, cioè le offerte dei fedeli, e l’Elemosiniere scuce quanto richiesto senza dover pagare direttamente soggetti che evidentemente non gli piacciono troppo come l’ex no global con 4 anni e 7 mesi di condanne passate in giudicato.
La banda Casarini passa le giornate a fare i conti dei soldi da spillare ai preti con la scusa della «nuova barca» e delle missioni (la prima, come detto, non ancora acquistata, le seconde effettuate con il contagocce). Caccia invia a Casarini lo «schema delle donazioni permanenti» a cui puntano. Il risultato deve essere di 60.000 euro al mese.
Nei suoi piani, sulle 25.000 parrocchie italiane, punta a coinvolgerne 3.300, con offerte diverse: cento parrocchie dovrebbero donare 100 euro al mese, duecento 50 euro, mille solo 20 euro e duemila appena 10. Così i conti tornerebbero.
Dopo una lunga azione di pressing sulla Chiesa il gruppetto di Mediterranea è convinto di riuscire a passare all’incasso. Il 5 ottobre 2019 don Mattia lancia in chat i cinque step per chiudere la partita. Si punta sull’effetto domino: «Se per dire Caritas internationalis mettesse 100.000 euro, poi Caritas europea ne metterebbe altrettanti e Caritas italiana pure, poi la Migrantes idem e così via. Alla fine si supera il milione di euro». Ma l’incombenza considerata più urgente è quella di «far firmare ai nostri vescovi la garanzia che la Chiesa restituirà» agli istituti di credito «i soldi della nave entro la data stabilita». Una garanzia fideiussoria di cui Panorama ha trovato traccia e che sarebbe stata presentata a Banca etica.
Il 7 maggio 2020, alla vigilia del suo compleanno, Casarini scrive: «Messaggio di Zuppi: oggi arrivati e oggi fatto bonifico». Don Mattia non sta nella pelle: «E così finalmente, per la prima volta, la Chiesa italiana finanzia il soccorso in mare. Abbiamo fatto la storia ragazzi».
L’8 maggio un altro vescovo amico, Giovanni Ricchiuti, consiglia a don Mattia come muoversi e spiega di aver scritto alla fondazione Migrantes che il loro direttore generale don Giovanni de Robertis è della partita e avrebbe consigliato a Casarini di scrivere una lettera, sulla falsariga di quella inviata ai vescovi, al presidente della Cei Bassetti (Gualtiero, ndr) e al segretario generale Stefano Russo. Il consiglio è di indicare il costo delle quattro missioni o anche di una sola. L’accerchiamento è quasi completato e tutti hanno iniziato a scrivere al riottoso Krajewskij. Don Mattia a questo punto suggerisce «di alzare la posta per la richiesta alla Cei». E commenta. «La lettera del Papa a Luca ha proprio sbloccato tutto». Quindi ironizza: «Pensate il povero Krajewskij che adesso di troverà subissato di lettere. Dirà: “Perché non gli ho dato tutto subito?”».
Casarini, in quel momento, deve avere il simbolo dell’euro al posto delle pupille, come nei fumetti: «Se fa la somma vengono fuori tre milioni». Don Mattia rilancia: «Ma ora che abbiamo sbloccato il meccanismo la cifra aumenterà. Se addirittura la Cei fa una donazione, dopo è il tana liberi tutti. E per come certi devono far vedere di non essere da meno, fanno partire le richieste anche loro».
Una previsione che sarebbe stata confermata nei fatti, come ha rivelato l’inchiesta di Panorama in edicola. Il 22 maggio 2020 il vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada invia una missiva al miele a don Ferrari e questi va in brodo di giuggiole: «Il vescovo di Brescia è uno aperto, anche se non è tra i più spinti. Aveva ragione Beppe, dobbiamo sfondare anche tra questi, che forse sono più concreti. Intanto comunque la conquista dei vescovi è cominciata: uno dopo l’altro cadranno nelle mani di Med. Presto la Cei sarà in mano a Luca Casarini». Ma il progetto è persino più ambizioso. In quelle stesse ore l’ex mangiapreti si esibisce in un commovente discorso davanti ad alcuni vescovi e don Mattia commenta: «Pare che l’intervento di Luca abbia sbancato. Ma non poteva che essere così. Era davvero un intervento al livello dei Dossetti (Giuseppe, ndr) e La Pira (Giorgio, ndr)».
Casarini fa il modesto: «Sei troppo buono… semplice intervento da marinaio del lago Tiberiade». Don Mattia insiste: «Come vedete qui stanno arrivando tutti gli elogi dei vescovi per Luca. Al prossimo conclave ce lo giochiamo. Secondo me sei il candidato più quotato». Una battuta, ma forse neanche troppo. Nella Chiesa bergogliana anche Casarini, forse, può ambire al soglio di Pietro.
Salvatore Cannavo' per "Il Fatto Quotidiano" - Estratti domenica 3 dicembre 2023.
Dopo giorni di attacchi mirati da parte del quotidiano La Verità e di Panorama ieri dal mondo della Chiesa italiana sono giunte le prime risposte. Il quotidiano e il settimanale diretti da Maurizio Belpietro pubblicano infatti da giorni stralci dell’inchiesta che vede Luca Casarini accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina tramite l’associazione Mediterranea dando risalto, però, non al cuore dell’accusa (il presunto traffico operato tra Meditarrenea e la compagnia danese Maersk), ma alle conversazioni riservate tra i vari leader della Ong – oltre a Casarini, Beppe Caccia ,e il parroco di bordo Mattia Ferrari – che riguardano il presidente della Cei, cardinal Matteo Zuppi, altri prelati e lo stesso Papa Francesco.
LA TESI DI FONDO degli articoli è che i soldi, ingenti, arrivati dalle varie strutture vaticane, dalle diocesi, e garantiti dallo stesso Pontefice, in realtà siano serviti a Casarini e compagni per interessi personali – “se non arrivano i soldi dai vescovi mi tocca lavorare in un bar”, dice Casarini – e che tutta l’operazione sia stata solo un raggiro degli alti prelati di fatto accusati di aver finanziato con milioni Mediterranea e di aver messo, addirittura, “la Cei nelle mani di Casarini”. Ieri il quotidiano della Cei, Avvenire, in modo molto asciutto ha dato una prima risposta. “Accoglienza e integrazione, così la Chiesa aiuta i migranti”, il titolo in prima pagina mentre in un corsivo interno, non firmato, si legge: “La notizia c’è. Ed è buona, in effetti: da duemila anni o giù di lì, accanto ai migranti, la Chiesa c’è. La trovi del resto soprattutto nelle situazioni di maggiore vulnerabilità e debolezza. E quindi c’è accanto a chi cerca asilo e un domani lontano da guerre e ingiustizie”.
“Le notizie di questa accoglienza e di questa denuncia”, si legge ancora su Avvenire “trovano spesso la prima pagina”. Anche per dare giusta cittadinanza mediatica a chi la vede quasi sempre negata”. “I nostri lettori – e non solo loro – lo sanno. E sanno pure che questa è l’unica trama, in senso letterale, che unisce i vescovi italiani: carità nella verità. Altro sono le inchieste giudiziarie e i processi di cui ci siamo occupati”.
(...)
Un altro messaggio è giunto invece da Palermo con l’incontro, e l’abbraccio, tra don Luigi Ciotti e lo stesso Casarini. L’occasione è stata data da un convegno organizzato dall’istituto gesuita Pedro Arrupe cui ha partecipato anche il vescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che farebbe parte di quella Chiesa finita “in mano” a Meditarranea.
Raggiunto dal Fatto Casarini racconta dell’incontro con i due prelati: “Don Luigi mi ha abbracciato e mi ha detto che lui è con noi. Che non dobbiamo avere paura, né farci intimidire. Ha assicurato che Libera contribuirà alle missioni, in maniera più forte di prima. E ha anche detto che dobbiamo tutti stringerci a Papa Francesco, che è il vero obiettivo di ‘un’odio strutturato, organizzato, agito da professionisti della disinformazione e della demolizione della dignità delle persone’”. Abbraccio anche con il cardinal Lorefice che ha invitato Casarini all’incontro di lunedì prossimo in Cattedrale dove ci saranno il Nunzio apostolico di Damasco e l’arcivescovo di Tunisi.
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Fazio chiedeva a Casarini &c che domande fare alla Lamorgese. Giacomo Amadori su Panorama il 3 Dicembre 2023
Nuove rivelazioni nell'inchiesta di Panorama e La Verità sui soldi dei fedeli alle Ong La «banda» in chat rivela che il conduttore ha cercato don Mattia Ferrari e Beppe Caccia per preparare il colloquio con l’allora ministro sui decreti Sicurezza. Il prete: «È un bene che Fabio sia così schierato». E lui per una volta fa una intervista quasi vera. Luca Casarini è il classico personaggio che piace alla gente che piace. Con quella sua faccia stropicciata, i capelli sale e pepe raccolti in uno chignon, l’orecchino e la parlata venesiàn ispirata. Un pregiudicato per svariati reati, condannato a 4 anni e 7 mesi in via definitiva (lo dice lui nel suo cv, come se fosse la prova del suo impegno) che, evidenzia la Guardia di finanza, al momento dell’inaugurazione della Mare Jonio non sta più negli abiti e pronuncia una frase che inquieta gli investigatori. I quali, nella loro informativa, annotano: «Dopo una serie di ripetuti messaggi inviati nel gruppo in cui si discute dei finanziamenti necessari all’acquisto della nave, della formazione e ricerca dell’equipaggio e dei salvataggi in corso nel Mediterraneo centrale, Luca Casarini afferma testualmente: “Compagni, questa è la nuova Genova”, naturalmente in riferimento al G8 del 2001 in cui lo stesso fu il protagonista delle note rivolte». Giocò a fare la guerra e ci scappò il morto. Quindi non può non destare preoccupazione che Casarini paragoni i salvataggi in mare al disastro del capoluogo ligure. Ma forse non ha tutti i torti, se il riferimento è alla luce abbacinante dei riflettori che l’ex leader delle Tute bianche riesce ad attirare sulle sue imprese. Tra i suoi tifosi gente come Fabio Fazio, Checco Zalone, Roberto Saviano, Aboubakar Soumahoro e don Luigi Ciotti. Tutti in gradinata a tifare per lui e la sua ciurma. Anche a costo di esagerare un po’. Nonostante cotanti sponsor, fa specie che questa combriccola, apparentemente a nome dell’associazione di promozione sociale Mediterranea saving humans, sia riuscita a infiltrarsi nella redazione di Fazio in veste di suggeritrice quando il conduttore savonese ha intervistato nello studio di Che tempo che fa niente meno che l’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. È un po’ come se ad Al Capone avessero fatto preparare le domande per il ministro delle Finanze americano. Ovviamente, è bene precisarlo, la nostra è un’iperbole. Altrimenti Casarini & C. , che hanno già minacciato querele su tutti i giornali, potrebbero ulteriormente adontarsi. Ma torniamo al feeling tra l’equipaggio della Mare Jonio e la trasmissione Che tempo che fa, oracolo consultato non certo per prevedere procelle e fortunali. Già a maggio del 2019 l’ex imitatore si unisce a una campagna di Mediterranea e posta un video pro migranti il cui succo è: «Nessuno sceglie dove nascere». Il 25 ottobre dello stesso anno, don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo del rimorchiatore, informa la ciurma che il futuro presidente della Conferenza episcopale italiana il cardinale Matteo Zuppi presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi, sarà ospite della trasmissione. Due giorni dopo don Mattia è in sollucchero sulla chat di gruppo: «Ragazzi, guardate il video di Zuppi da Fazio». Pausa. «Strepitoso. Ha detto delle robe fortissime». Il 18 dicembre don Mattia annuncia: «Fazio disponibile ad aderire alla campagna per il dissequestro. Domani mattina mi chiama». Questa volta la petizione si intitola «Adesso basta. Basta una firma#Free Mediterranea» ed è stata avviata dopo che la Mare Jonio è stata bloccata in porto e ha ricevuto una multa da 300.000 euro per la violazione del decreto Sicurezza. Il 20 dicembre il prete allega una foto del presentatore e chiosa: «Intanto Fazio mi ha mandato questa». Caccia chiede: «È la nuova campagna “Krajewskij firma l’assegno!”?». L’armatore, con questa battuta, confessa l’ovvio: le catene di Sant’Antonio dei vip servono a fare pressione sulla Chiesa per ottenere i sospirati finanziamenti. Anche Luciana Littizzetto manda uno scatto, suscitando l’entusiasmo dei nostri. L’equipaggio porta in Vaticano un crocifisso con il giubbotto di salvataggio in dono al Papa e Fabiolo ha un attimo di confusione. Poco apprezzato da capitan Caccia: «Quel cazzaro di Fazio è riuscito a dire che il crocifisso al Papa è stato regalato dai profughi di Lesbo». «No, davvero?!» domanda don Ferrari. Che comunica: «Gli mando un messaggio». Caccia annota: «Sta intervistando don Carmelo. Magari dopo la pubblicità rettifica». Il prete ha qualche dubbio: «Ma non so se legge. Comunque gli ho scritto. A lui e all’autrice Monica Tellini». Caccia non sembra apprezzare la puntata: «È spottone per i pranzi di Sant’Egidio». Anche don Mattia boccia il programma: «Mah. Fazio bigotto. Non c’è più religione. A me non piacciono i bigotti». Poi inoltra un Whatsapp: «Grazie Mattia. Lo dico ad autori». E spiega: «Questa la risposta di Monica Tellini, una delle direttrici di Che tempo che fa». Fazio è per i Casarini boys un po’ come Ambra per Gianni Boncompagni. Gli mancano solo auricolare e mossette. Caccia aggiorna gli amici: Ha appena rettificato. #DioTiPerdonaDonMattiaNO». Il prete è contento: «Ho fatto bene Beppe?». Replica dell’ex assessore veneziano: «Benissimo. Seduta in prima fila c’era pure Francesca Bazoli». Ossia la figlia del presidente emerito di Banca Intesa San Paolo e loro finanziatrice. Il don spedisce un messaggio penitente di Fazio: «Ho rimediato e scusa». Il prete commenta: «Poveretto. Quando il capomissione Caccia chiama il soldato Ferrari risponde». A fine gennaio 2020 don Mattia, in occasione dell’uscita di un suo libro firmato con il giornalista di AvvenireNello Scavo, annuncia: «L’1 marzo sono da Fazio. O ci siamo insieme con Nello. Io ho chiesto che si possa far parlare con me qualcun altro di Mediterranea. Mi devono saper rispondere». Caccia lo applaude: «Complimenti Autore! Poi dobbiamo metterci d’accordo per gestione tour di presentazioni». L’8 febbraio arriva il momento di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo: «Mi ha chiamato Fazio dicendomi che domenica sera avrà ospite la Lamorgese» scrive don Mattia. Caccia non è sorpreso: «Lo so. La redazione mi ha chiesto una consulenza sulle domande da farle». Il prete informa i compagni di aver ricevuto a stessa proposta: «Ah ottimo. Lo ha chiesto anche a me. Allora ci tiene proprio. Se gli hai già risposto tu siamo a posto». Replica di Caccia: «No, devo parlare domattina con il suo autore, Arnaldo Greco. Sentiamoci prima, così concordiamo su quali punti insistere». Don Mattia è soddisfatto delle loro cheerleader: «Comunque bene che Fazio e i suoi autori siano così schierati». È utile ricordarlo, con i soldi del servizio pubblico. «È un’ottima cosa» chiosa. Il Viminale dà visibilità all’intervista sul proprio sito: «Immigrazione e sbarchi, sicurezza e percezione della sicurezza: il ministro Lamorgese ospite di Rai 2». Il brain storming equosolidale sembra dare qualche risultato. Fabio-Ambra quasi subito piazza una domanda che ha la risposta incorporata: «Secondo lei i decreti sicurezza (quelli che hanno bloccato la Mare Jonio, ndr) sono da modificare o da cancellare?». Tertium non datur (ovvero il loro mantenimento). Fazio sfoglia gli appunti. E poi sornione chiede, riferendosi ai migranti recuperati da una Ong: «Quindi non le viene in mente di non farli sbarcare?». La Lamorgese accenna un sorrisino complice e risponde secca: «No». continua: laverita.info
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” lunedì 4 dicembre 2023.
Avvenire, il giornale dei vescovi, per anni si è opposto alle politiche dei porti chiusi sull’immigrazione. Ma oggi scopriamo che lo ha fatto coordinandosi con Luca Casarini e i suoi soci, una ciurma di imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Personaggi che hanno ricevuto sostanziosi finanziamenti dalla Chiesa, erogazioni che avrebbero potuto essere concesse a tante altre organizzazioni umanitarie guidate da incensurati.
E, anche se il quotidiano manifesta grande serenità, di fronte alla nostra inchiesta a puntate sui soldi concessi all’associazione Mediterranea saving humans e alla compagnia armatoriale Idra social shipping (socio di maggioranza Beppe Caccia, a sua volta indagato e amico fraterno di Casarini), in realtà è palpabile l’imbarazzo.
Che aumenterà con le novità di giornata, riguardanti il rapporto ambiguo dell’equipaggio con i cronisti del quotidiano. Una vera sinergia in chiave antisalviniana.
Le carte dell’inchiesta di Ragusa mostrano, infatti, come i vescovi e il loro organo di stampa non ce la raccontino giusta e abbiano usato le notizie per fare politica. Una malizia che dal giornale dei monsignori non ci si aspetterebbe.
Casarini & c. […] hanno da anni un rapporto privilegiato con il giornalista di Avvenire Nello Scavo, autore nel 2020 di un libro, Pescatori di uomini, scritto a quattro mani con don Mattia Ferrari, cappellano di bordo della Mare Jonio. Un legame che, già nel 2019, permetteva a don Mattia di poter anticipare a Casarini e al suo socio Giuseppe Caccia, gli articoli che il giornalista avrebbe pubblicato.
L’ex leader delle Tute bianche, il Capitan Fracassa del G8 di Genova, il 28 aprile 2019, su una chat di gruppo, inoltra un messaggio di Scavo su come gestire alcune notizie. La prima riguardava l’imbarco di don Mattia, con la benedizione dei vescovi, sulla Mare Jonio, in quel momento al centro di una violenta contrapposizione con il governo e in particolare con il ministro dell’Interno Salvini.
Un’informazione che sarebbe stata divulgata in contemporanea con la conferenza stampa indetta da Mediterranea e Idra social shipping per annunciare la partenza da Marsala del rimorchiatore e una denuncia per diffamazione nei confronti del leader leghista.
«Ciao Luca, stiamo organizzando con Repubblica l’uscita in esclusiva e in tandem circa don Mattia a bordo. Ne ho parlato anche con Beppe Caccia e se sei d’accordo anche tu, siamo dell’idea di dare la notizia con grande rilevanza sull’edizione cartacea di martedì e contemporaneamente sui siti (con foto e brevi filmati).
Questo ci permetterà anche di cogliere di sorpresa il Truce (Salvini, così soprannominato in senso dispregiativo dal Foglio ndr). Visto che sempre martedì (30 aprile, ndr) alle 12 ci sarà, poi, la vostra conferenza stampa a Roma a cui daremo grande rilevanza sia sui siti che il giorno dopo sui giornali (1 maggio, poi il 2 non saremo in edicola). Io avrò anche una dichiarazione del vescovo di Modena che ha autorizzato don Mattia, e questo terrà calma la “gerarchia”. […]»
[…] Casarini ha una sola obiezione, per non deludere gli altri amici giornalisti: «Carissimo, mi sembra un ottimo schema. Unica cosa che mi viene in mente: se la vostra uscita di martedì rimane centrata su don Mattia e si riesce a non dire che siamo già partiti, ma che “stiamo partendo”, allora così non ci bruciamo la notizia con gli altri media, oggetto poi della conferenza stampa. Sostanzialmente sul cartaceo di mercoledì darai notizia che MJ (Mare Jonio, ndr) è già in zona Sar libica. Che ne pensi? Comunque ovviamente va bene». Caccia commenta: «Ottimo. Le stesse cose che gli ho detto io».
Il 30 aprile, Avvenire titola: «Io don Mattia, a bordo con chi salva vite». E spiega: «C’è anche un sacerdote a bordo della Mare Jonio, che sta per riprendere i soccorsi in mare. “Gesù è vicino ai ragazzi affamati di pace e di giustizia”. La Messa domenicale sulla nave di Mediterranea con i ringraziamenti al suo vescovo Castellucci (Erio, ndr) e ai presuli Zuppi (Matteo, ndr) e Lorefice (Corrado, ndr)».
Ovvero le menti dell’operazione di sostegno economico alle missioni della Mare Jonio. La Repubblica, con Fabio Tonacci, fa eco al quotidiano della Cei: «La Chiesa sale a bordo della Mare Jonio che salva i migranti. “Il Vangelo è qui”». Sottotitolo: «Sulla nave italiana si è imbarcato anche don Mattia Ferrari, parroco a Nonantola (Modena, ndr). Con il permesso di due arcivescovi. Dirà messa ogni giorno. “Sono il cappellano di bordo, il mio compito è rappresentare vicinanza ai ragazzi di Mediterranea che hanno un gran rispetto per papa Francesco”». Anche in questo caso vengono nominati Castellucci e Lorefice. […]
[…] Ma l’episodio che attira maggiormente l’attenzione degli investigatori, avviene l’estate successiva. È l’8 luglio del 2020 quando il cappellano di bordo annuncia a Casarini: «Venerdì mattina Nello e io siamo stati invitati a un webinar con i rappresentanti della sezione Migranti e rifugiati. Cioè Baggio, Czerny (i cardinali Fabio e Michael, all’epoca sottosegretari della sezione, ndr), Flaminia (segretaria di Crezrny, ndr) e altri cinque loro fedelissimi».
Poi aggiunge: «Siamo d’accordo con Nello di essere durissimi venerdì mattina. Di far capire che o si passa alla concretezza o è la sconfitta per tutti, Chiesa compresa». Infine chiosa: «Per noi è l’occasione per metterli con le spalle al muro». Il 12 luglio, il parroco modenese aggiorna Casarini sull’incontro: «Il webinar è andato molto bene. Nello direttissimo nel dire: “Se volete che io continui il lavoro di inchiesta, dovete finanziare Mediterranea e sostenere le Ong, perché senza di loro che vedono e testimoniano le mie inchieste non potrebbero continuare”».
Un avvertimento che avrebbe sortito effetti immediati, sempre stando alle parole del cappellano: «Come reazioni, c’è stata quella di Bruno Forte che ha detto che intanto farà subito un versamento dalla sua diocesi». […]
Sempre riguardo al rapporto con i media, le indagini relative alle «operazioni di trasbordo migranti» avvenute il 12 settembre 2020 dalla petroliera danese Maersk Etienne al rimorchiatore alla Mare Jonio rivelano la spregiudicatezza con cui Casarini e i suoi gestiscano le informazioni da veicolare all’opinione pubblica. Dagli atti risulta che a bordo era presente una donna, M.N., nata in Camerun nel 1991, che «riferiva di avere comunicato al personale sanitario della «Mare Jonio» di avvertire forti dolori allo stomaco e a fronte di tale quadro anamnestico, le era stato comunicato […] che sicuramente era incinta e, poiché chi l’aveva visitata non era riuscita a infilarle l’ago della flebo per curare la disidratazione», era stata richiesta la sua «evacuazione medica» dalla nave.
Che non vi fosse certezza sullo stato interessante è confermato da un messaggio inviato dal medico di Mediterranea, Agnese Colpani, neolaureata, a una collega a terra […]. Ma un pancione, in una situazione di stallo, poteva far comodo a Mediterranea e accelerare le procedure di sbarco.
In quelle ore di concitazione Nello Scavo scrive a Caccia: «Da Pozzallo alcuni sostengono che la ragazza forse non era neanche in gravidanza. Voi avete fatto qualche riscontro medico su questo?». Nel documento inviato ai pm ragusani gli investigatori non annotano nessuna risposta.
In compenso, c’è il messaggio (inviato ad Alessandra Ziniti, giornalista di Repubblica) con cui Caccia cerca di sminuire l’informazione appena ricevuta: «Alessandra, solo per avvertirti che a Pozzallo c’è chi sta mettendo in giro la voce che la donna non sia mai stata incinta, ma solo colpita dal fibroma». E alla domanda se fosse o meno gravida, Caccia replica: «Sì, di quattro mesi. No ciclo da 4 mesi».
Due giorni dopo, il portavoce di Mediterranea, Luca Faenzi, domanda: «Come sta la ragazza incinta ricoverata? Sappiamo qualcosa?». L’ex assessore veneziano risponde: «Dimessa. Si trova all’hotspot col marito. Non era incinta, ma colpita da fibroma uterino. Notizia deve restare riservata tra noi, prima che la destra la possa usare».
Dunque le notizie vanno manipolate o nascoste, con il solo obiettivo di non far emergere verità scomode. In un’ottica tutta politica. Come confessa don Mattia, quando, il 17 novembre 2020, è impegnato nel suo solito lavoro di propaganda e ha appena ottenuto un articolo su Mediterranea sul giornale diocesano e un incontro con il vescovo: «Diciamo che questa è la vostra riconquista di Padova», dice a Casarini e Caccia, ex militanti no global nella città di Sant’Antonio.
E aggiunge: «Passando per la Chiesa e in questo modo, paradossalmente (questo è il bello della Chiesa di papa Francesco), superando tutti a sinistra». Persino i centri sociali. Casarini approva soddisfatto: «La Chiesa cattolica, quanta saggezza e intelligenza politica in quel vecchio grande partito». Se i preti ragionano così, non deve stupire che i cronisti del quotidiano dei vescovi organizzino imboscate a un ministro della Repubblica.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” lunedì 4 dicembre 2023.
Luca Casarini è il classico personaggio che piace alla gente che piace. Con quella sua faccia stropicciata, i capelli sale e pepe raccolti in uno chignon, l’orecchino e la parlata venesiàn ispirata. Un pregiudicato per svariati reati, condannato a 4 anni e 7 mesi in via definitiva […] che, evidenzia la Guardia di finanza, al momento dell’inaugurazione della Mare Jonio non sta più negli abiti e pronuncia una frase che inquieta gli investigatori.
I quali, nella loro informativa, annotano: «Dopo una serie di ripetuti messaggi inviati nel gruppo in cui si discute dei finanziamenti necessari all’acquisto della nave, della formazione e ricerca dell’equipaggio e dei salvataggi in corso nel Mediterraneo centrale, Luca Casarini afferma testualmente: “Compagni, questa è la nuova Genova”, naturalmente in riferimento al G8 del 2001 in cui lo stesso fu il protagonista delle note rivolte».
Giocò a fare la guerra e ci scappò il morto. Quindi non può non destare preoccupazione che Casarini paragoni i salvataggi in mare al disastro del capoluogo ligure. Ma forse non ha tutti i torti, se il riferimento è alla luce abbacinante dei riflettori che l’ex leader delle Tute bianche riesce ad attirare sulle sue imprese. Tra i suoi tifosi gente come Fabio Fazio, Checco Zalone, Roberto Saviano, Aboubakar Soumahoro e don Luigi Ciotti.
[…] Nonostante cotanti sponsor, fa specie che questa combriccola, apparentemente a nome dell’associazione di promozione sociale Mediterranea saving humans, sia riuscita a infiltrarsi nella redazione di Fazio in veste di suggeritrice quando il conduttore savonese ha intervistato nello studio di Che tempo che fa niente meno che l’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese.
[…] Ma torniamo al feeling tra l’equipaggio della Mare Jonio e la trasmissione Che tempo che fa, oracolo consultato non certo per prevedere procelle e fortunali. Già a maggio del 2019 l’ex imitatore si unisce a una campagna di Mediterranea e posta un video pro migranti il cui succo è: «Nessuno sceglie dove nascere».
Il 25 ottobre dello stesso anno, don Mattia Ferrari, il cappellano di bordo del rimorchiatore, informa la ciurma che il futuro presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi, sarà ospite della trasmissione. Due giorni dopo don Mattia è in sollucchero sulla chat di gruppo: «Ragazzi, guardate il video di Zuppi da Fazio». Pausa. «Strepitoso. Ha detto delle robe fortissime».
Il 18 dicembre don Mattia annuncia: «Fazio disponibile ad aderire alla campagna per il dissequestro. Domani mattina mi chiama». Questa volta la petizione si intitola «Adesso basta. Basta una firma #Free Mediterranea» ed è stata avviata dopo che la Mare Jonio è stata bloccata in porto e ha ricevuto una multa da 300.000 euro per la violazione del decreto Sicurezza.
Il 20 dicembre il prete allega una foto del presentatore e chiosa: «Intanto Fazio mi ha mandato questa». Caccia chiede: «È la nuova campagna “Krajewskij firma l’assegno!”?». L’armatore, con questa battuta, confessa l’ovvio: le catene di Sant’Antonio dei vip servono a fare pressione sulla Chiesa per ottenere i sospirati finanziamenti.
[…] L’8 febbraio arriva il momento di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo: «Mi ha chiamato Fazio dicendomi che domenica sera avrà ospite la Lamorgese» scrive don Mattia. Caccia non è sorpreso: «Lo so. La redazione mi ha chiesto una consulenza sulle domande da farle». Il prete informa i compagni di aver ricevuto a stessa proposta: «Ah ottimo. Lo ha chiesto anche a me. Allora ci tiene proprio. Se gli hai già risposto tu siamo a posto».
Replica di Caccia: «No, devo parlare domattina con il suo autore, Arnaldo Greco. Sentiamoci prima, così concordiamo su quali punti insistere». Don Mattia è soddisfatto delle loro cheerleader: «Comunque bene che Fazio e i suoi autori siano così schierati». È utile ricordarlo, con i soldi del servizio pubblico.
«È un’ottima cosa» chiosa. Il Viminale dà visibilità all’intervista sul proprio sito: «Immigrazione e sbarchi, sicurezza e percezione della sicurezza: il ministro Lamorgese ospite di Rai 2». Il brain storming equosolidale sembra dare qualche risultato. Fabio-Ambra quasi subito piazza una domanda che ha la risposta incorporata: «Secondo lei i decreti sicurezza (quelli che hanno bloccato la Mare Jonio, ndr) sono da modificare o da cancellare?».
Tertium non datur (ovvero il loro mantenimento). Fazio sfoglia gli appunti. E poi sornione chiede, riferendosi ai migranti recuperati da una Ong: «Quindi non le viene in mente di non farli sbarcare?». La Lamorgese accenna un sorrisino complice e risponde secca: «No».
In studio scatta la ola. Il presentatore cerca di mettere in difficoltà il ministro sulla conferma del «contestatissimo memorandum» degli accordi con la Libia preparato dal precedente governo giallo-verde.
E poi arriva la domanda delle domande, con la foto gigante del rimorchiatore di Casarini & C. sullo sfondo: «Martedì il tribunale di Palermo ha dissequestrato la Mare Jonio della Rete Mediterranea» esordisce Fazio. Ma già l’incipit contiene un falso: l’imbarcazione è di una compagnia commerciale privata, la Idra social shipping, che offre agli armatori servizi profumatamente pagati, compresa il prelievo dei migranti a bordo.
Per questo la banda è alla sbarra a Ragusa con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Fazio prosegue: «Ora si spera di rimetterla in mare, però, le multe alle Ong rimangono e sono anche pesanti… a persone che hanno salvato altre persone. Qual è l’atteggiamento suo e del governo nei confronti delle Ong?». Il ministro cincischia un po’ e allora Fazio, in una versione quasi mai vista di intervistatore incalzante, cerca lo sconto per gli amichetti: «Le multe sono 300.000 euro…».
La Lamorgese concede: «Le modificheremo con i decreti sicurezza». Una promessa che probabilmente, sulla Mare Jonio, fa scattare i brindisi come a Capodanno. Il 10 aprile don Ferrari scrive: «Ragazzi, mi ha chiamato Fazio. Mi chiede di intervenire domenica sera alle 20. Presentazione del libro, coronavirus, migranti e Mediterranea. Domenica sentiamoci che dite quello che devo dire». Casarini si è appena scritto con il Papa e Caccia istruisce il cappellano: «Benissimo. Domani fagli avere anche tutti i materiali sullo scambio epistolare».
Quello tra Casarini e Papa Francesco, in quel momento ancora riservato. Don Mattia fa sapere che pure il cardinale Michael Czerny si è trasformato in portavoce: «Mi ha detto di far preparare a Mediterranea una bozza di comunicato stampa sulla lettera che verrà pubblicata da Avvenire. Dobbiamo mandargliela e Czerny la farà tradurre in altre lingue».
Il 13 aprile Fazio riceve una ricca rassegna stampa sulla questione e risponde a stretto giro con alcuni emoticon sorridenti e una frase da curato di campagna: «State facendo una grande grande cosa per tante persone sfortunate e così facendo state redimendo tanti di noi che per egoismo non vediamo o non vogliamo vedere… ti abbraccio».
[…] Fazio […] evidentemente viene considerato come un marinaio ad honorem della nave. Passano 20 minuti e Casarini scrive: «Fatto». E soggiunge: «Saviano mi ha scritto dicendo che da Fazio dirà sul blocco Civil fleet». Il giorno dopo Caccia è soddisfatto: «Per il pomeriggio che ne dite di recuperare i passaggi più significativi di Saviano e Scavo da Fazio ieri sera e rilanciarne via Fb un bel montaggio?».
Tutto rigorosamente sulla fiducia, come spiega lo stesso armatore: «Io non li ho visti, ma ho sentito giudizi positivi». L’8 novembre don Mattia assicura di aver riscritto al conduttore: «Dice di dirgli bene la situazione del blocco» racconta. E aggiunge: «C’è speranza che stasera ci citi». Quindi chiede all’amico Beppe Caccia di preparare «un messaggio da girargli». Il mozzo savonese Fazio, come sempre, è pronto a lucidare la tolda della Mare Jonio.
Giacomo Amadori per “la Verità” - Estratti mercoledì 6 dicembre 2023.
Anche i «buoni» nel loro piccolo si incazzano. E fanno le faide. Nelle carte dell’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in cui sono imputati Luca Casarini, il sodale Giuseppe Caccia e altri quattro, emerge come la banda no global abbia epurato dal direttivo dell’associazione Mediterranea tutti quelli che avevano dubbi sulla gestione delle donazioni.
Come il cuculo, Casarini si è candidato a entrare nel politburo (tra l’altro rivendicando i 4 anni e 7 mesi di condanne definitive) della Ong e poi, una volta entrato nel nido, è riuscito a scalzare chi voleva controllare i maneggi dell’ex leader delle Tute bianche e dei suoi presunti complici. E da Mediterranea sono volati fuori, tra gli altri, Cecilia Strada, figlia di Gino, fondatore di Emergency, e il marito della donna Tommaso Ferdinando Nogara Notarianni, detto «Maso».
I due sono stati sentiti dagli inquirenti «in quanto dall’attività tecnica erano stati rilevati forti contrasti in ordine alla trasparenza dei costi sostenuti dalla Mare Jonio non riportati alla associazione» e «dalle dichiarazioni acquisite sono emersi rilevanti elementi investigativi che hanno corroborato ulteriormente il quadro indiziario, che non lasciano dubbi sulla poca chiarezza posta in essere dal duo Caccia-Casarini nei confronti dell’associazione Mediterranea».
Per le Fiamme gialle «costoro, con le loro decisioni e iniziative, hanno fatto sì che si affermasse il loro ruolo all’interno della predetta associazione portando come conseguenza le dimissioni dei membri del vecchio direttivo e l’elezione di uno nuovo con soggetti scelti ad “hoc” che perseguissero, senza ostacolare, le loro decisioni».
Gli investigatori annotano anche che Donatella Albini, ex medico di bordo della Mare Jonio, pure lei dimissionaria, «ha riferito che, a seguito di una riunione nel mese di ottobre 2020 del Consiglio direttivo dell’associazione, “furono sollevati problemi di trasparenza proprio in ordine alle modalità di impiego delle risorse raccolte da Mediterranea. In quella occasione erano presenti Erasmo Palazzotto (parlamentare di Leu), Maso Notarianni, Alessandra Sciurba (portavoce di Mediterranea, ndr) e Cecilia Strada».
La Albini avrebbe anche riferito di una riunione del Consiglio di indirizzo di Mediterranea di fine novembre 2020, «nell’ambito della quale una tale Letizia Terna, laureata in filosofia, sollevò perplessità in ordine alla trasparenza dei bilanci» e chiese «chiarimenti sui rapporti tra Mediterranea e Idra», ovvero la compagnia di navigazione di proprietà di Caccia che possiede il rimorchiatore Mare Jonio utilizzato dall’associazione. «In quella occasione fui pubblicamente accusata da Luca Casarini di aver predisposto o indotto l’intervento di Letizia su quell’argomento. Molti appartenenti di Mediterranea a seguito di quelle accuse hanno preso le distanze nei miei confronti» avrebbe affermato la dottoressa.
Le tensioni interne, secondo quanto riportato nell’informativa finale della Guardia di finanza, esplodono nel momento della decisione di andare a recuperare 27 migranti sul mercantile Maersk Etienne, un’operazione che, secondo gli inquirenti, sarebbe stata compiuta a fine di lucro per liberare la nave da quel carico ingombrante che impediva la prosecuzione della navigazione. Per questo lavoro Casarini & C. avrebbero intascato 125.000 euro e successivamente, come rappresentanti della Idra social shipping, avrebbero trattato con altre compagnie armatoriali per offrire lo stesso servizio.
(…)
La notizia della giovane incinta si rivelerà falsa, ma pazienza. Cecilia Strada nella chat del gruppo direttivo di Mediterranea, dopo le comunicazioni di Metz esterna «i propri timori e dubbi per l’operazione in corso»: «Immagino che i responsabili abbiano valutato pro e possibili contro di questa azione e deciso di conseguenza, d’altronde l’intenzione di andare verso la Maersk era già stata ventilata ieri e non ho considerazioni da aggiungere».
Metz non fa un plissé: «La possibilità era effettivamente stata» prospettata «anche ieri.
[…] Adesso però c’è una richiesta formale di verifica condizioni medico-sanitarie da parte della nostra equipe, a bordo abbiamo dottoressa e paramedico e una risposta altrettanto formale va data».
Ma il paramedico, F.G., in realtà ha come unica esperienza quella di aver guidato le ambulanze e allora la Strada, che sente puzza di bruciato, consiglia: «Per la comunicazione pubblica: suggerisco di verificare con Fabrizio come si chiama la sua figura, perché a quanto ne so in Italia non esiste la figura del “paramedico” come, invece, è precisamente normata in altri Stati; penso che se ci vogliamo riferire a chi presta soccorso sulle ambulanze, in Italia sia definita “soccorritore”, ma sicuramente Fabrizio sa meglio di me come chiamarsi».
Caccia è molto arrabbiato sia con la Strada che con la Albini, la dottoressa colpevole di avere sollevato dei dubbi sulle capacità professionali della neolaureata Agnese Colpani, (…)
A scaldare ancora di più gli animi è una comunicazione di Casarini condivisa con il gruppo dirigente di Mediterranea che la Strada commenta in questi termini: «Ho riletto, per la terza volta, la mail odierna di Luca. Raramente ho visto una mail così densa di offese, screditamento degli altri, insinuazioni; e pure cose che non so da dove gli derivino - come il fatto che qualcuno “fin dall’inizio” avrebbe insinuato che lui lo faceva per soldi […]
«E quindi? Conclusioni?
Andate fuori dai coglioni o no?».
Metz al telefono rimarca il ruolo di comando di Caccia e Casarini: «Le decisioni sulla nave e su chi la governa e su chi la faccia partire sono prese da Beppe e Luca». Nella faida i loro nemici sono destinati a uscire sconfitti.
L’ex presidente vaticina che «circa 10 persone del direttivo attuale usciranno da “Mediterranea”» e che «alcuni di loro tra i quali Alessandra (Sciurba, ndr), Cecilia, Maso, Palazzotto, avrebbero gettato fango su Luca e Beppe e che il loro intervento in assemblea sarà di protesta e causerà la loro fuoriuscita».
La Strada e Notarianni sono soprannominati dalla «banda» Rosa e Olindo, come i due assassini di Erba, e insultati in modo feroce. Per un suo intervento Maso, il 24 settembre 2020, viene definito un «merdoso sciacallo» e pure «brutta merda infame», uno che dà «pugnalate alle spalle di chi già sta gestendo una situazione difficile».
In chat Caccia e Casarini commentano gli interventi di un direttivo. Casarini inizia: «Nervosetti». Caccia replica: «Io non risponderei alla Strada». Poi Casarini se la prende con chi non si è esposto abbastanza al loro fianco: «Si è sprecato il signor dirigo tutto io. Ma stavolta gli diamo sui denti a ogni cagata. Come sempre Sandrone (Metz, ndr) non ha capito una mazza… ah ah ah». Caccia: «Infatti bisogna non fargliene passare una. E archiviare foto di tutte le porcherie. Perché se voleranno gli stracci faremo un bel dossier con tutte le infamie (e i silenzi di chi doveva fermarle)».
Casarini: «Certo. Ma vedrai che li disintegriamo. Perché questi non fanno politica, ma solo trame da miserabili. E sul piano umano sono delle merde». Insomma chi oggi ci accusa di dossieraggio era pronto a raccogliere prove contro i nemici. Ma proseguiamo nell’edificante lettura. Caccia è soddisfatto della piega che ha preso il dibattito: «Buona mail di Meco, Ada e Giuliana. Proposto ordine del giorno che non nomina nemmeno Idra. Adesso basterebbe che don Mattia e Arestivo si dicessero d’accordo con loro». Casarini condivide.
L’ex no global manda una missiva che entusiasma Caccia: «Ottima mail fratellone.
Ti lovvo, come dicono i nostri ragazzi. E poi, per fortuna, un po’ lo siamo rimasti».
Casarini: «Grazie fratello. Aqui no se rinde nadie!». Qui non ci si arrende, celebre frase di Che Guevara. Caccia chiede di non rispondere all’ex portavoce, Sciurba. E Casarini concorda: «Non ci penso nemmeno. Conferma quello che ho scritto: le vittime sono tra noi, non in Libia». Se il riferimento fosse ai tanto vituperati lager per migranti, sarebbe sconcertante. Ma Casarini, in passato, si è distinto per i commenti sprezzanti nei confronti degli extracomunitari. Come quando, in una manifestazione, gridò «metti ‘sti cazzo di migranti davanti». Figurine da usare, più che persone da tutelare.
Casarini riprende il discorso: «Ora vedrai che la merda la farà Maso e lì salta il palco». E conclude: «Vediamo se completiamo l’opera e facciamo Emergency 2 il remake. Se se ne va anche quel pezzo di merda». Caccia si vanta di aver preparato «una rispostina di Sandrone sui rendiconti», lasciando intendere che Metz sia eterodiretto nei suoi interventi. Casarini chiede: «Hai visto Cecilia?». Replica di Caccia: «Non capisco se c’è una strategia o dementi incattiviti in libertà». Casarini propende per la seconda che ha detto: «Dementi in libertà». Caccia: «Elegantissima la rivendicazione dei 60k raccolti. Noi che cosa dovremmo scrivere?
E, comunque, se se ne va davvero, sparerà merda nel ventilatore». Casarini: «Beh, con il suo curriculum viene facile ributtargliela in faccia. In tema di uscita da associazioni non la batte nessuno. Ora dobbiamo riallacciare i rapporti con Gino». Ossia Gino Strada, che sarebbe mancato di lì a pochi mesi. Vuoi vedere che i nostri capitani coraggiosi non portano neppure troppo bene.
Passano alcuni giorni e Caccia osserva: «Questi non mollano affatto e vogliono trasformare il 10 (il consiglio del 10 ottobre 2020, ndr) nel vomito dei loro rancori. Vedrai che trappola che ci fanno, se noi non la prepariamo bene». Casarini risponde: «Dobbiamo pregare bene certo. Ma intanto si stanno mangiando la merda». «Pregare?» lo interroga Caccia. «Preparare» si corregge Casarini. «Ormai vado in automatico». Il 6 ottobre Caccia riassume un intervento della Strada: «Con velenoso rancore sino all’ultimo minuto… ma questa è la storia che racconterà: noi due (Caccia e Casarini, ndr) volevamo solo dei prestanome e lei non c’è stata».
Casarini non ha dubbi: «Sarà seppellita dall’oblio. Questo è il suo terrore. Ieri telefonata di Cecilia a Leon, quasi piangendo, “chiudiamola qua, Maso non si ricandida, vi prego di non fargli niente, etc…”». Il 9 ottobre, alla vigilia dell’assemblea che dovrà eleggere il nuovo direttivo, Casarini definisce i rivali «morti che (…) La Strada e il marito sono fuori dal direttivo. Casarini è incoronato responsabile del rapporto con i garanti e della comunicazione. Caccia, in veste di invitato permanente, è promosso coordinatore operativo. Il terzo socio, Metz, rappresentante di Idra. La battaglia è vinta. La guerra non ancora.
Oggi parte l’udienza preliminare che vede Caccia e Casarini imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Reato aggravato dal profitto ricavato nella vicenda Maersk. Forse Cecilia Strada non aveva tutti i torti a sospettare di Casarini & C.
Casarini fra le avance a Soumahoro e l’appoggio di don Ciotti. Ecco il piano per finanziare le Ong. Angelo Vitolo su L'Identità il 7 Dicembre 2023
Arriva a coinvolgere il nome di don Luigi Ciotti, il sacerdote antimafia, lo sviluppo giornalistico su Luca Casarini che anche oggi il quotidiano La Verità porta avanti circa i contenuti degli atti di inchiesta del processo Mare Jonio a Ragusa – ieri slittata l’udienza preliminare – e fa tornare in primo piano Aboubakar Soumahoro. Nella città siciliana il noto attivista Luca Casarini è indagato con altri (Pietro Marrone, Alessandro Metz, Beppe Caccia, Agnese Colpani e Fabrizio Gatti) per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di violazione del Codice di navigazione. E si difende dal caos mediatico in cui è finito sostenendo che in questo modo si tende a condizionare l’esito del processo.
Perché da giorni Casarini e i suoi compagni della ong Mediterranea sono tirati in ballo anche per quanto emerge dalle intercettazioni sui loro colloqui, che La Verità ricostruisce come un sistema opaco collegato ai finanziamenti della Chiesa cattolica per i progetti di Mediterranea e delle altre ong impegnate nel salvataggio dei migranti.
Al centro di questo sistema la Comece, la Commissione delle conferenze episcopali della Comunità Europea fondata nel 1980 e che riunisce i vescovi europei, dal marzo di quest’anno guidata da Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno.
Snodo dei progetti che puntavano ad ottenere finanziamenti, la Comece ha un segretariato anche a Bruxelles. In occasione dei suoi 40 anni, il cardinale Jean-Claude Hollerich, allora al vertice della Commissione, alla fine del mese di gennaio aveva scritto insieme ai cardinali Czerny e Krajewski una lettera indirizzata a tutti i vescovi e i presidenti delle Conferenze episcopali dell’Unione Europea e dell’Europa, invitando le Chiese a farsi promotrici di accoglienza nei confronti dei profughi. Un obiettivo prioritario, la tutela dei migranti. Un fine analogo a quello delle ong in campo in Europa.
A partire da quelle italiane, che La Verità dipinge in una corsa contro il tempo per ottenere l’approvazione dei progetti. Con Casarini e i suoi compagni – il cappellano della Mare Jonio Mattia Ferrari come raccordo dei rapporti intessuti nella vicenda alla fine del 2019 – alla ricerca di una conferma del pieno appoggio di don Ciotti ai loro progetti. Appoggio che il sacerdote ribadisce.
A questo punto le intercettazioni pubblicate dal quotidiano evidenziano, oltre che un linguaggio a dir poco assai esplicito, quella che il giornale diretto da Maurizio Belpietro definisce “una faida” tra ong. Con Mediterranea a competere con la ResQ di Milano cui sono vicini Cecilia Strada e l’ex pm Gherardo Colombo (nei colloqui anche “accusata” di aver millantato in comunicazioni di posta elettronica l’appoggio del sacerdote antimafia). Una “corsa contro il tempo” per la quale era necessario arrivare per primi. Adeguatamente sostenuti, oltre che incoraggiati. Tra i propositi, quello di contattare anche Aboubakar Soumahoro, all’epoca non ancora finito nello scandalo di moglie e suocera.
Giacomo Amadori Fabio Amendolara per “la Verità” - Estratti giovedì 7 dicembre 2023.
Amore contro odio. Il nuovo mantra dell’ex barricadero Luca Casarini fa sorridere chi legge le chat depositate nell’inchiesta sul traffico di migranti clandestini della Procura di Ragusa.
Infatti l’ex leader delle Tute bianche e i suoi coimputati, a partire dall’armatore della Mare Jonio Giuseppe Caccia, sprizzano bile contro chi prova a intralciare la loro scalata dentro al Vaticano. In particolare la nemica giurata Cecilia Strada, irrisa e insultata senza ritegno, o i concorrenti milanesi della ResQ, ossia «la nave della società civile», salpata per la prima volta il 7 agosto 2021.
Volti simbolo di questa esperienza, tanto detestata da Casarini & C. sono la solita Strada, l’ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo, il sindacalista della Cgil Corrado Mandreoli, Lia Manzella, vicepresidente della Onlus, e l’ex giornalista di Famiglia Cristiana e presidente Luciano Scalettari. Tutti visti come fumo negli occhi da capitan Fracassa Casarini e soci, i quali, in questa guerra fratricida, a voler credere a quanto scrivevano in chat, potevano contare su un pezzo da 90 dell’associazionismo catto-progressista, il fondatore di Libera don Luigi Ciotti. La marcatura di Mediterranea comincia a fine 2019 quando i milanesi di ResQ iniziano a sondare il terreno.
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L’agenda di don Ciotti è indispensabile anche ad aprire le porte di diocesi che si dimostreranno particolarmente generose nei finanziamenti: «Il nuovo vescovo di Napoli è monsignor Battaglia (Domenico, ndr), grande amico di don Ciotti» sottolinea sempre don Mattia.
(...)
Don Ciotti non lo conosce personalmente (e questa cosa secondo me è già una cosa significativa). Se vogliamo, lui può parlare direttamente con Czerny e con il Papa per superare l’ostacolo. Per quanto riguarda i milanesi, […] ha aggiunto che nella mail che avevano mandato a qualcuno avevano scritto che don Ciotti e Libera aderiscono e lui ha smentito».
Nelle chat quelli di ResQ sono accusati di inserire «arbitrariamente tra gli aderenti» personaggi a loro insaputa. Ma il prete bellunese non si sarebbe fatto fregare: «Lui ha ribadito loro: “Io sto con Mediterranea. Punto. Se c’è Mediterranea, ci sono anch’io, se non c’è Mediterranea non ci sono neanch’io”. Don Ciotti insomma è con noi. Ha detto, se sentite qualcuno che dice […] che lui aderisce a questa cosa dei milanesi, di smentire». Alla fine don Mattia chiosa: «Questi milanesi comunque non mi sembra che stiano facendo un bel gioco.
Altri messaggi confermano che nella corsa all’oro del Vaticano e nella guerra contro i «milanesi» Casarini & C. hanno potuto contare sul sostegno del fondatore di Libera: «Don Ciotti voleva sapere esattamente cosa deve dire lui a Zuppi per smuovere la cosa.
E mi è tornato a dire che è molto infastidito da questa cosa dei milanesi», rivela don Mattia.
Per la ciurma è una corsa contro il tempo: «Dobbiamo puntare a chiudere entro l’Epifania (del 2020, ndr). Anche perché a metà gennaio potrebbe uscire allo scoperto la piattaforma dei milanesi».
Il cappellano in chat conferma l’impegno del loro nume tutelare: «Mi ha scritto Zuppi dicendo che lo ha chiamato don Ciotti per perorare la causa di Mediterranea.
Grande don Ciotti». Per il parroco modenese la mobilitazione del collega nativo di Pieve di Cadore è «un buon segnale». Don Mattia per vincere le ultime resistenze dei vescovi punta sul legame tra l’arcivescovo Michele Pennisi e don Ciotti e consiglia di «calcare sull’amicizia» tra i due.
Il giovane prete marca stretto i concorrenti meneghini e può contare su una rete di informatori degna della Ddr: «Scalettari del progetto dei milanesi ha scritto a don Ivan Maffeis, sottosegretario della Cei per avere soldi. Maffeis ha inoltrato a De Robertis (don Gianni, ndr) e a Soddu (don Francesco, direttore Caritas), che hanno inoltrato a me». Il prete è preoccupato.
«Comunque ragazzi da oggi i nostri rapporti con la Chiesa potrebbero diventare più difficili, se i milanesi, come hanno fatto con don Maffeis, continuano a muoversi in concorrenza con noi per chiedere soldi».
Il 9 ottobre 2020, alla vigilia dell’uscita dal direttivo di Mediterranea della Strada, don Mattia scrive: «Avete visto Cecilia su Facebook che lancia ResQ?». Casarini se la ride: «Hahaha che ridicola». Il mese successivo il prete racconta di essere stato chiamato dal Festival della Migrazione: «La prossima settimana devo partecipare a un incontro con Scalettari e Colombo. Sarà impegnativo. La cosa bella è che in cambio ci danno una bella offerta per Mediterranea». Insomma per denaro ci si può pure confrontare con i «nemici».
L’arma segreta della combriccola è imbarcare don Ciotti, che, come annuncia Casarini in un messaggio, ha il libretto di equipaggio numero 01/2021, e Aboubakar Soumahoro, non ancora travolto dai problemi giudiziari di moglie e suocera. Sulla chat di gruppo viene rilanciato un articolo intitolato «Don Luigi Ciotti entra a far parte dell'equipaggio 2021 di Mediterranea».
La faida prosegue e don Mattia fa riferimento a quanto appreso da una professoressa bolognese «legata alla sinistra di Cl» e «sostenitrice di Mediterranea, pure essendo di provenienza ciellina»: «Ha ricevuto l’invito da qualcuno a finanziare ResQ e mi ha scritto per avere informazioni, perché ha nasato che per come si presenta qualcosa non va».
Dopo pochi giorni il cappellano aggiunge benzina sul fuoco: «Io intanto sono riuscito ad ascoltare un estratto dei discorsi dei nostri passati con ResQ. Sentirli parlare delle nostre missioni senza mai nominare Mediterranea è stata una grande ferita». L’11 febbraio 2021 Casarini lascia intendere di non fidarsi neanche di uno dei loro fedelissimi, un giornalista di Avvenire: «Cerchi di capire per favore che cosa sta combinando Nello Scavo, che stasera si fa promotore di ResQ?».
Nove giorni dopo don Mattia aggiorna i suoi: «Mi ha scritto Zuppi di chiamarlo per una cosa di Gherardo Colombo […]. Se questi di ResQ stanno cercando di metterci i bastoni tra le ruote io mi arrabbio senza precedenti. Cecilia Strada, che è dei loro, sa benissimo che il rapporto con la Chiesa lo abbiamo costruito con grande fatica. Mettersi in mezzo senza neanche dirci nulla mina alla base la possibilità di collaborare con loro». Dopo aver parlato con il presidente della Cei, don Mattia conclude: «Ho parlato con Zuppi. Sono andati da lui Gherardo Colombo e Luciano Scalettari. La prima cosa che lui ha chiesto loro è come sono i rapporti con Mediterranea, che loro hanno detto essere buoni. Io gli ho spiegato tutto». Che cosa gli abbia detto non è difficile da immaginare.
Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per la Verità - Estratti venerdì 8 dicembre 2023.
La Chiesa cattolica, con il progetto Cum-finis, è da anni il più generoso sostenitore delle missioni del rimorchiatore Mare Jonio, quello dei Casarini boys. Ma, quando i vescovi non avevano ancora iniziato a riempire le tasche di questo gruppo di no global attempati con gli oboli dei fedeli, la barca è rimasta a galla anche grazie alla generosità di personaggi come Checco Zalone.
Capace di far arrivare alla società armatrice, la Idra social shipping, la bellezza di 201.300 euro in un mese per usare la nave e l'equipaggio per le riprese del film Tolo Tolo.
La prima traccia di questa storia l’abbiamo trovata nell’informativa finale della Guardia di finanza depositata agli atti dell’inchiesta per favoreggiamento di immigrazione clandestina della Procura di Ragusa, procedimento che vede alla sbarra, tra gli altri, Luca Casarini e i due principali soci della Idra, Giuseppe Caccia e Alessandro Metz. Il documento rivela quali fossero le vere finalità di Idra, nata nel 2018, e del rimorchiatore Mare Jonio, acquistato ai tempi dei decreti Sicurezza del ministro Matteo Salvini e del governo giallo-verde.
Ad affrontare l’argomento in un’intercettazione è il socio di maggioranza della Idra, Caccia.
L’armatore parla con una giornalista veneziana e, nella conversazione, per gli investigatori, «spicca la preoccupazione di evitare che sia resa pubblica la stessa esistenza di Idra in modo che rimanga celato alla opinione pubblica il particolare rapporto che questa ha con Mediterranea». In particolare, non deve essere divulgato «lo svolgimento di operazioni prettamente commerciali». E a tal proposito Caccia avrebbe citato, a mo’ d’esempio, «il noleggio di un’altra imbarcazione da lui procurata in favore di una impresa che se ne era servita per l’allestimento di un set cinematografico».
Tra queste operazioni a fine di lucro c’è quella per cui Caccia, Casarini e altri quattro sono oggi imputati, ovvero il trasbordo di 27 migranti dal mercantile Maersk Etienne in cambio di 125.000 euro (è questa la ricostruzione dell’accusa).
La giornalista domanda il nome della società e Caccia risponde di «lasciare perdere il nome della società, aggiungendo la testuale frase: “Quella la teniamo coperta perché fa anche attività commerciali tra… per finanziare Mediterranea». L’ex assessore veneziano ribadisce di «utilizzare la società per fare delle operazioni, tra virgolette, commerciali che servono a…». La frase si interrompe e l’uomo invita l’interlocutrice a non diffondere la notizia: «Questa parte teniamola riservata».
Poi, «a patto che resti tra loro due», svela che «Checco Zalone, per finanziarli indirettamente, ha voluto la loro collaborazione al film Tolo Tolo, noleggiandogli la nave con l’equipaggio per le scene dei salvataggi». In un’altra intercettazione Caccia rimarca la differenza tra il loro sistema e quello delle altre Ong. Infatti, precisa che Mediterranea «a differenza delle altre ha un rapporto formalmente commerciale con la società armatoriale (la Idra) che è anomala nella gestione, che condivide gli obiettivi sociali e umanitari» e, per far comprendere meglio il concetto all’interlocutore, «riferisce che come esperienza fatta da loro c’è il noleggio della nave Mare Jonio che ha portato benefici a tutto il meccanismo». Soprattutto al portafogli degli indagati.
Nell’annotazione sui conti bancari di Casarini, in cui si parla, però, dei guadagni di tutta la «banda», si legge: «I rapporti intestati ai soggetti indagati risultano essere alimentati sia dalle somme provenienti dalla Idra social shipping Srl che da bonifici esteri. Le uscite sono rappresentate sia da spese di natura personale che da donazioni alla Mediterranea saving humans Aps che, come detto, procede a sua volta al trasferimento delle stesse alla Idra. Le somme percepite dai soggetti indagati non corrispondono a quanto effettivamente dichiarato anche alla luce del sistematico utilizzo di carte di credito prepagate intestate alla società, ma di fatto utilizzate per fini personali o per far transitare somme provenienti dai conti correnti aziendali».
(…) Sempre Caccia riferisce che «se Mediterranea è riuscita ad andare in mare, è stato possibile farlo grazie al fatto che si sono potute compiere delle operazioni commerciali» e «porta come esempio le scene girate per il film di Checco Zalone, che hanno portato denaro a Mediterranea».
Quanto? In un’annotazione della Guardia di finanza sui conti bancari di Casarini c’è uno specchietto molto chiaro, in cui sono indicati 4 bonifici inviati dalla Taodue Srl, società di produzione televisiva e cinematografica, datati 10 e 20 giugno (come anticipo), 11 e 15 luglio, rispettivamente da 54.900 euro, 45.750, 50.325 e 50.325, per un totale di 201.300 euro.
I soldi, secondo quanto scoperto dalla Finanza, sarebbero finiti direttamente sul conto della Idra, la società privata che ha messo a disposizione la barca e l’ha noleggiata.
Contattato dalla Verità Pietro Valsecchi, fondatore della Taodue e successivamente produttore di Zalone, ricorda la nave, ma non i conti: «È un film di quattro anni fa», dice subito. Poi spiega: «Noi non siamo più nella Taodue e io non mi occupavo di queste cose». Di fronte alle nostre insistenze prova a liquidarci così: «Ma sapete quanti bonifici si fanno per un film?12.000 o 13.000, quindi non so neanche di cosa stiate parlando francamente».
Quando gli viene spiegato, però, che la cifra è importante, Valsecchi cerca di fare due conti al volo e dopo essersi consultato «con un amico» richiama: «Guardi che le cifre che lei mi ha detto non esistono... hanno pagato, così mi han detto, a naso... 40-50.000 euro...».
(…)
I finti "salvataggi" di Casarini nelle foto della Guardia libica. Immortalata la Mar Jonio che imbarca migranti non in pericolo. Il sito Migrant rescue watch accusa: "Operazioni pianificate". Luca Fazzo su Il Giornale l'11 Dicembre 2023
Sei immagini scattate dalla Guardia costiera libica il 18 marzo 2019. Quattro ritraggono la Mar Jonio, la nave della ong italiana Mediterranea, impegnata a prendere a bordo 49 migranti «in pericolo di vita». Due, scattate poco prima, ritraggono lo scafo utilizzato dai migranti: che in pericolo non sembrano affatto, ma vengono ugualmente accolti dalla Mar Jonio per essere trasferiti nel «porto sicuro» più vicino.
Ora, a quattro anni di distanza, quelle immagini sembrano rafforzare gli interrogativi sul ruolo realmente svolto nel Mediterraneo meridionale dalla ong guidata dall'ex leader dei centri sociali veneti Luca Casarini. La ong ora è sotto inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, nell'inchiesta della Procura di Ragusa che ha fatto emergere i finanziamenti per centinaia di migliaia di euro che Mediterranea riceveva da almeno tre Arcivescovi italiani grazie agli appoggi nelle gerarchie vaticane. Al centro dell'inchiesta, un altro trasbordo di migranti: quello avvenuto l'anno dopo quando la Mar Jonio prende a bordo 27 profughi provenienti dal cargo danese Etienne Maersk. Alla ong di Casarini, la Maersk versa 125mila euro.
Il trasbordo del 18 marzo 2019 invece avviene poco al largo delle coste libiche, ed è documentato dalle immagini della Guardia costiera. Si vedono i migranti salire a bordo, e si vede il loro gommone poco prima pienamente gonfio e operativo, non sovraccarico e in normale navigazione.
Le foto scattate dalla Guardia costiera vengono pubblicate sul sito Migrant rescue watch, che accusa Mediterranea di «pianificare operazioni» di salvataggio. È lo stesso sito, gestito dal giornalista canadese Rob Gowans, che in queste ore è stato pesantemente attaccato da una dei principali sponsor politici di Casarini, l'ex deputata dem Giuditta Pini, che lo ha accusato di pubblicare foto riservate della Guardia costiera e soprattutto di essere «il sito ufficiale della mafia libica». È una accusa identica a quella lanciata contro il sito da un altro personaggio di cui in questi giorni si parla molto, don Mattia Ferrari, modenese come la Pini, cappellano di bordo della Mar Jonio e uomo di collegamento tra Casarini e le gerarchie ecclesiastiche. Due anni fa don Ferrari denunciò alla procura di Modena di essere stato «pesantemente minacciato» dal sito che «non è solo portavoce della mafia libica, ma è legato a servizi segreti deviati di diversi Paesi». Otto mesi dopo la Procura chiede la archiviazione del fascicolo, non vedendo traccia di minacce ma di una certa vocazione di don Ferrari alla visibilità mediatica e ad uscire dagli ambiti tradizionali - riservati e silenziosi - del mandato pastorale». Ma il prete modenese si oppone alla archiviazione e ottiene nuove indagini.
Ora lo scontro riparte, con al centro le indagini su Mediterranea della procura di Ragusa, rilanciate anch'esse da Migrant rescue watch. E lo schema sembra ripetersi: l'accusa di essere al servizio di una imprecisata «mafia libica», l'utilizzo di materiale più o meno riservato. Ma senza mai affrontare il tema decisivo: è vero o non è vero quanto viene riportato? Sono vere le foto dei barconi, i soldi dalla Curia, le faide con le altre ong? Luca Fazzo
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” domenica 10 dicembre 2023.
In piena emergenza Covid la banda di Luca Casarini & C. era alla disperata ricerca di soldi per le missioni della nave Mare Jonio (per la verità molto poche), per acquistare un nuovo battello (missione non ancora riuscita) e per pagare gli stipendi (soprattutto quelli dell’armatore Beppe Caccia e di Casarini). Anche perché le spese fatte dai fondatori dell’associazione Mediterranea e della compagnia armatoriale Idra social shipping, secondo gli investigatori, nonostante gli stipendi non stellari (sotto i 2.000 euro) erano notevoli.
Per esempio in un’annotazione delle Fiamme gialle sui conti correnti di Casarini si legge: «Le somme percepite dai soggetti indagati non corrispondono a quanto effettivamente dichiarato anche alla luce del sistematico utilizzo di carte di credito prepagate intestate alla società, ma di fatto utilizzate per fini personali o per far transitare somme provenienti dai conti correnti aziendali. Al riguardo si precisa che il capo missione della Mare Jonio (in quel momento probabilmente Caccia, ma anche Casarini lo è stato, ndr) e principale indagato riceve mensilmente una media di euro 6.000 a titolo di rimborso spese dalla società armatrice Idra social shipping il cui conto corrente è alimentato da bonifici effettuati dalla Mediterranea saving humans Aps».
Quindi nel 2020 i nostri erano particolarmente affamati di soldi, nonostante il supporto dell’allora arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, il quale, oltre a donare i primi 50.000 euro consigliò alla ciurma come convincere gli altri monsignori («Ha detto di dire ai vescovi di non menzionare Med nella richiesta a Konrad Krajewskij», l’elemosiniere del Papa).
[…]
E verso novembre un bonifico della Fondazione migrantes portò a 150.000 euro «la quota di soldi avuti dalla Chiesa. Ma i soldi era considerati insufficienti e quando il vescovo emerito Domenico Mogavero portò in dono sulla nave dolci di pasta di mandorle fatti dalle suore benedettine, due bottiglie di vino Marsala («ottime» ci fa sapere Casarini) e un assegno di 1.000 euro, l’ex assessore veneziano Caccia, replica sarcastico: «Con la visita di altri 959 vescovi potremo acquistare la nave nuova».
Sarà per questo che i due imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e il loro cappellano di bordo, don Mattia Ferrari, puntano, cinicamente, a colpire la sensibilità del Papa. Per esempio, il 14 agosto 2020, don Mattia chiede di poter vedere «la foto del ragazzo crocifisso» e, magari, di poterla mandare ai vescovi.
In realtà si tratta di uno screenshot estrapolato da un breve video in cui si vede il cadavere di un migrante che galleggia in mare con le braccia e le gambe spalancate. Casarini è dubbioso: «Quella foto vorrei mandarla solo al Papa e a Cz», ovvero il cardinale canadese Michael Czerny, particolarmente vicino al Pontefice. «Per i vescovi sto preparando una lettera/report in cui descriviamo».
Dopo due mesi l’ex leader delle Tute bianche rivela che uso abbia fatto di quel filmato con il morto, mentre sta scrivendo un articolo sulle torture in Libia a danno dei migranti: «Ho un’idea: e se ai vescovi facessimo giungere la mia famosa lettera al Papa, quella in cui parlo del crocefisso in mare con la foto, ovviamente attualizzando ad oggi? Cioè parliamo a uno perché intendano gli altri». Il cappellano risponde che «ci può stare».
Ma tra le mosse promozionali che lasciano interdetti ce n’è un’altra altrettanto macabra. E la lancia don Mattia il 18 aprile 2020: «Ragazzi, un’altra cosa importante, che potrebbe essere molto utile. Visto che sappiamo i nomi delle persone morte e chi sono i loro familiari, potremmo chiedere ai loro familiari o amici di scrivere una lettera al Papa. Sicuramente Czerny gliela porterebbe». Casarini anche in questo caso non è completamente d’accordo: «Troppo complicato ora. Ovviamente questa cosa dei nomi è super riservata».
Il cappellano non si arrende: «Però teniamola presente come possibilità per il futuro. Il Papa in generale a questa cosa dei nomi tiene moltissimo. Quindi fargli sapere che li sappiamo sarebbe fargli perdere la testa per Med. E una lettera dei familiari, la farebbe appendere su tutte le bacheche». Un marketing cimiteriale, degno dell’agenzia Taffo, in cui i morti diventano figurine da utilizzare per ottenere finanziamenti dalla Chiesa.
Nelle chat colpiscono molto anche le considerazioni riservate a Papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, morto l’ultimo giorno dello scorso anno. È il 4 maggio 2020 ed è appena uscito nelle librerie tedesche Ein Leben, la biografia di mille pagine del giornalista amico Peter Seewald. Il volume contiene un’intervista intitolata «Le ultime domande a Benedetto XVI», in cui il Pontefice emerito denuncia: «Mi vogliono silenziare». Don Mattia è molto critico: «Avete visto le ultime uscite di Ratzinger? Se c’era ancora lui, altro che il rapporto di Med con la Chiesa».
[…]
Il cappellano fa presente come sarebbe la situazione senza Francesco: «Non avremmo avuto neanche Zuppi a Bologna, Lorefice (l’arcivescovo Corrado, ndr) a Palermo e Czerny cardinale». Ovvero i bancomat della banda. E sebbene Ratzinger nell’intervista non avesse attaccato Jorge Mario Bergoglio e anzi avesse assicurato che l’amicizia con lui era cresciuta, don Mattia ironizza: «Con i soldi dati ai trans da Papa Francesco gli è venuto un colpo». Anche perché il Papa emerito, nel tomo, sosteneva che il «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» sono il «potere spirituale dell’Anticristo». […]
Addirittura Don Mattia posta un cuore quando Casarini cita il libro Impero dell’ex «cattivo maestro» padovano Toni Negri e di Michael Hardt, in cui è scritto che «la leggenda di San Francesco d’Assisi» potrebbe «illuminare la vita futura della militanza comunista».
[…]
A un certo punto don Mattia punta a diventare presidente di Mediterranea: «Per quanto riguarda la gestione interna di Med, ricordatevi anche che se si va verso l’ipotesi di una mia presidenza […], l’autorizzazione di don Erio è fondamentale perché la nomina possa avere effetto. Nel caso, potete fargli il nome di don Luigi Ciotti come esempio di prete presidente di un’associazione».
Purtroppo per il giovane prelato il via libera non arriva.
Il giovanotto chiede il parere a Czerny, specificando che i membri dell’associazione lo vorrebbero incoronare e che Zuppi e Castellucci pensano che dovrebbe accettare, ma ammette anche che forse non sarebbe un buon presidente. E il cardinale canadese lo gela: «Sono d’accordo con la tua conclusione (no grazie), anche se saresti un buon presidente. Per favore, prova a rifiutare con fermezza».
Zuppi suggerisce: «Fatti fare onorario. Lui forse non vuole che ti identifichi e prendi responsabilità dirette». Pure il vescovo Castellucci frena l’entusiasmo del candidato: «Anche la Congregazione della dottrina della Fede chiede di declinare, forse è bene che tu chieda a Luca e Beppe di pazientare almeno per un mandato». L’aspirante presidente è scorato: «Non ho capito che sta succedendo».
Casarini non vuole problemi: «Scrivigli che farai così e che ti fidi di loro». Don Mattia si scalda: «Certo non ho scelta. Ma questa modalità di Czerny che non dà spiegazioni e che pare che sia intervenuta la Congregazione per la dottrina della fede mi fa arrabbiare». Caccia prova a smorzare la tensione: «Niente di grave: sanno anche Loro quanto vali e vogliono tenerti a far carriera nella Loro Organizzazione».
Casarini prova a inserirsi: «Siamo Mediterranea, mica la bocciofila». E il cappellano rincara: «Io tengo più a Mediterranea che a far carriera nella mia organizzazione». E conclude: «Il segretario della Congregazione per la dottrina della fede è un destrone. È contro le Ong». Probabilmente il riferimento è all’attuale vescovo di Reggio Emilia Giacomo Morandi. Caccia, curiale, chiude il discorso: «La Provvidenza farà in modo che tutto funzioni per il meglio».
"Compagni, questa è la nuova Genova". I progetti eversivi della Ong di Casarini. Lodovica Bulian e Luca Fazzo il 12 Dicembre 2023 su Il Giornale.
"Operazione Disobedience": si chiamava proprio così, "Operazione Disobbedienza", il progetto originale che dà il via a Mediterranea, la ong guidata dall'ex rivoluzionario veneziano Luca Casarini
«Operazione Disobedience»: si chiamava proprio così, «Operazione Disobbedienza», il progetto originale che dà il via a Mediterranea, la ong guidata dall'ex rivoluzionario veneziano Luca Casarini, finita ora al centro dell'inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina della procura della Repubblica di Ragusa. Negli atti depositati dai pm saltano fuori i finanziamenti per centinaia di migliaia di euro forniti a Mediterranea da tre Arcivescovadi, e l'altro giorno la Conferenza episcopale italiana ammette la circostanza, rivendicando il diritto-dovere della Chiesa a «schierarsi dalla parte di chiunque soffre».
Benissimo. Ma la genesi di Mediterranea, così come ricostruita dalla Procura ragusana, racconta una storia diversa dal nobile amore per il prossimo. Lo spirito con cui Casarini & C. danno vita al progetto è poco umanitario e molto politico. Di contrapposizione frontale, senza mediazioni, col governo. Uno spirito che viene sintetizzato da Luca Casarini in una frase sola: «Compagni, questa è la nuova Genova». Commenta il rapporto informativo della Guardia di finanza: «Naturalmente in riferimento al G8 del 2001 in cui lo stesso (Casarini, ndr) fu il protagonista delle note rivolte».
La genesi di Mediterranea viene ricostruita dalle «fiamme gialle» grazie al contenuto dei telefoni sequestrati a Casarini e agli altri indagati l'1 marzo 2021. Analizzandone la memoria, gli investigatori sono risaliti al 28 giugno 2018, quando Casarini crea su Telegram la chat intitolata «Operazione Disobedience». Nel gruppo inserisce Giuseppe Coccia, futuro presidente di Mediterranea, e Alessandro Metz, entrambi oggi indagati con lui. La Finanza si sofferma però su altri due nomi inseriti dal leader nel gruppo: Gianmarco De Pieri e Meco Bologna, «ovvero Domenico Mucignat». Spiega la Gdf: De Pieri è «già leader in passato del centro sociale Tpo - Teatro polivalente occupato di Bologna)»; Mucignat ovvero Meco è «leader già appartenente al gruppo dei disobbedienti del Tpo», il teatro occupato del capoluogo emiliano. De Pieri è da vent'anni un antagonista doc, legato al circuito dei Disobbedienti, accanto a Casarini sin dai tempi dell'assalto al Cpt di Bologna e dei convegni accanto a Toni Negri, leader dell'Autonomia operaia negli anni Ottanta. Nel curriculum di De Pieri c'è l'accusa di istigazione a delinquere per l'attacco a Bankitalia nel 2011, il divieto di soggiorno a Bologna per gli scontri del giugno 2015, seguito dagli arresti domiciliari e dalla condanna per lo stesso reato. Un singolare tipo di pacifista che quando nel 2016 Matteo Salvini si fermò a prendere un caffè in un bar vicino al suo lo attaccò dicendo «torna a Milano, ricordati che hai due figli», e che due anni fa partecipò agli scontri con la polizia per impedire lo sgombero del centro sociale La'Bas.
Significativa la presenza nel «nucleo fondatore» di Meco Mucignat, perché proprio l'antagonista è già allora uno dei primi interlocutori della Chiesa bolognese: a partire dall'allora arcivescovo Matteo Zuppi, ora presidente della Cei, che tre mesi prima della chat, nel marzo 2018, ha accettato l'invito nel centro sociale Tpo. «Ha introdotto i temi della accoglienza e della disobbedienza», dice Mucignat. Sarà Zuppi, secondo le intercettazioni della Gdf, a benedire il flusso di soldi in direzione di Mediterranea.
Stando ai verbali dell'indagine, a venire finanziata dalle Curie italiane è più un circolo antagonista che una organizzazione umanitaria (anche perché Giuseppe Caccia, che diverrà il presidente, viene registrato mentre dice «io non ne capisco un cazzo di navi»). Un gruppo di soccorritori improvvisati, dove emerge - scrive sempre la Gdf - «la quasi totale mancanza di preparazione, delle elementari nozioni marinaresche in possesso dei partecipanti al progetto che li condurrà di lì a poco a diventare degli esperti di salvataggio in mare (...) traspare la mancanza dei minimi requisiti di sicurezza nello svolgere i salvataggi in mare». Ma più che di salvare i disperati, forse a Casarini e gli altri interessava combattere il governo. Fare «una nuova Genova» con la benedizione (e i soldi) dei vescovi. Lodovica Bulian e Luca Fazzo
DALLA METSOLA A SOUMAHORO: LA “BANDA DEI BUONI” DI CASARINI AVEVA I SUOI INFILTRATI NEI PALAZZI DELLA POLITICA. Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” lunedì 11 dicembre 2023.
I giudizi sui compagni di viaggio non erano dei migliori, ma Luca Casarini, Giuseppe Caccia e i loro compagni dell’associazione Mediterranea, potevano contare, oltre che su una lunga lista di politici italiani, a partire dai cosiddetti garanti, anche su una rete internazionale utilizzata per fare pressing sulle politiche degli Stati e dell’Unione europea.
Una squadra che andava dai socialisti statunitensi di Bernie Sanders all’ex ministro greco Yanis Varoufakis sino all’attuale presidente del Parlamento europeo, la maltese Roberta Metsola. Ma a colpire nelle chat agli atti dell’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina della Procura di Ragusa è in particolare il rapporto con Aboubakar Soumahoro, in quel momento lanciatissimo sulla scena politica.
I Casarini boys e il deputato con gli stivali si spalleggiano. I primi aprono al secondo le porte del Vaticano e l’ex sindacalista, quando Mediterranea è insidiata dai concorrenti di ResQ, fa una scelta di campo e si iscrive all’associazione.
Uno dei primi passi insieme di questa cordata coincide con l’organizzazione dell’incontro dei movimenti sociali del Mediterraneo. L’appuntamento è affidato al cardinale Michael Czerny, attuale prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, e don Mattia, il cappellano di bordo dell’associazione, fa sapere che «la segreteria organizzativa sarà composta innanzitutto da noi». […]
Czerny lavora per far entrare Mediterranea nel segretariato della rete ufficiale dei movimenti popolari, l’Emmp (Encuentro mundial de movimientos populares), che è apparentata con il suo dicastero. Un circuito in grado di garantire potere, visibilità e risorse economiche. Sarà per questo che il 5 maggio del 2020 don Mattia informa i suoi compagni di aver ricevuto un messaggio da Soumahoro: «Mi ha chiesto di girare al cardinale Czerny il video in cui si rivolge al Papa» spiega il parroco.
E aggiunge: «Stasera Czerny mi ha scritto dicendo di guardare l’udienza domani. Quindi penso che il Papa citerà le lotte di Abou». Quest’ultimo, nel 2019, era riuscito a farsi un selfie con il Pontefice, insieme con la compagna Liliane (arrestata a ottobre con l’accusa di bancarotta delle cooperative guidate dalla sua famiglia) e il 6 maggio del 2020, all’udienza generale del mercoledì, Francesco annuncia: «In occasione del 1° maggio, ho ricevuto diversi messaggi riferiti al mondo del lavoro e ai suoi problemi. In particolare, mi ha colpito quello dei braccianti agricoli, tra cui molti immigrati, che lavorano nelle campagne italiane […]. Perciò accolgo l’appello di questi lavoratori e di tutti i lavoratori sfruttati e invito a fare della crisi l’occasione per rimettere al centro la dignità della persona e la dignità del lavoro».
L’asse Mediterranea-Soumahoro ha prodotto un primo importante risultato. Tanto che l’allora sindacalista viene «taggato da Vatican news». Don Mattia precisa: «È Czerny che ha gestito tutta la partita di Abou. Se non fosse stato per lui al Papa non sarebbe arrivato neanche il video».
Il 2 agosto il cappellano avverte gli amici di essere stato nuovamente contattato da Soumahoro: «Domani vede Czerny e mi ha detto di accompagnarlo». Casarini esulta: «Anche Abou varrebbe la pena adesso che si è liberato di Usb». Don Mattia, il giorno dopo, spiega che l’incontro è «andato molto bene» e che Soumahoro «è felicissimo di collaborare» con Mediterranea.
La vispa star dei salotti giusti, attraverso una sua collaboratrice, organizza una sua visita alla Mare Jonio e invita, a sua volta, i pescatori di migranti a «visitare le baraccopoli». Nei mesi successivi Abou si iscrive a Mediterranea e fa un video messaggio di sostegno. Anche grazie ai buoni uffici dei Casarini boys finisce nel giro dei movimenti popolari e viene invitato come relatore a uno dei loro incontri, organizzati con il patrocinio della Chiesa.
A ottobre la sinergia si concentra sui decreti Sicurezza, che il governo Conte 2 è chiamato a sconfessare. Ma, secondo i nostri eroi, con scarsa determinazione. Don Mattia si fa latore di una notizia «riservatissima»: «Mi ha chiamato Abou. Sta organizzando, nel caso in cui le modifiche ai decreti fossero insufficienti, come sembra, una manifestazione sotto Palazzo Chigi dei costruttori di umanità e dei dannati dei decreti sicurezza. Ovviamente ci chiede di essere protagonisti di questa cosa».
Ma la Chiesa non ha solo favorito la consacrazione della stella di Soumahoro. Per esempio, ha spinto anche le relazioni internazionali di Mediterranea nel mondo delle diocesi. A partire dall’arcipelago maltese, dove Casarini & C., sono entrati in confidenza con due prelati di peso, Charles Scicluna, arcivescovo a La Valletta, e il cardinale Mario Grech, già vescovo di Gozo.
Il primo è descritto da don Mattia come «braccio destro del Papa nella lotta agli abusi», nonché «segretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede», il secondo è, invece, «pro-segretario generale del Sinodo dei vescovi». In particolare Scicluna ha un fitto rapporto epistolare con la banda e, per esempio, invia in anteprima una lettera «segreta» con cui «la Chiesa maltese chiede ufficialmente l’intervento del Vaticano per aiutare» la nave di una Ong spagnola e di «far riaprire i porti di Malta».
In un altro scrive una dettagliata relazione di un incontro avuto con il ministro degli Esteri Evarist Bartolo sulla questione degli sbarchi e informa i Casarini boys anche dei suoi scambi di messaggi con il ministro dell’Interno Byron Camilleri. La ciurma della Mare Jonio è entusiasta: «Le nostre fonti di Malta (Jrs, ovvero il Jesuit refugee service, ndr) confermano che Scicluna sta forzando il governo maltese a non ordinare il push-back (operazioni di respingimento, ndr)». Ma anche che, grazie lui, lo stesso governo è stato costretto «a far intervenire un mercantile» per soccorrere dei migranti.
[…] Il cappellano racconta anche che attraverso l’alto prelato si può arrivare nel cuore di Bruxelles: «Mi scrive Silvia direttrice umanitaria di Caritas Europa che la nuova presidente del Parlamento europeo, Metsola, è maltese ed è in contatto stretto sia con Scicluna sia con loro.
Secondo Silvia possiamo coinvolgerla nel sistema di pressing, con loro ha sempre lavorato bene». Ma la banda si muove pure su altri tavoli. Il 5 novembre 2020 don Mattia annuncia: «Ragazzi mi ha contattato David Atler della rete Progressive international di Sanders e Varoufakis. Stanno preparando una grande battaglia contro Frontex (l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, ndr). Con molti movimenti di tutto il mondo.
Sanders, Corbin e altri sarebbero direttamente coinvolti in questa lotta». Casarini smorza l’entusiasmo del giovane prete: «Dividi sempre per cinque quello che dicono David e soprattutto VarouVogueFakis. Sono sempre fanfaroni. La sparano grossa e poi non hanno nulla dietro. Comunque è importante. Fatti mandare materiali e dettagli e poi guardiamo».
Il cappellano commenta che gli attivisti bolognesi di Mediterranea «hanno perso la testa per Varou». Caccia e Casarini, nelle chat, mostrano di avere anche rapporti intensi pure con i laburisti di Jeremy Corbyn e gli spagnoli di Podemos e in particolare con uno dei loro leader Pablo Bustinduy, ma, almeno in questo, caso Mediterranea non c’entra molto.
La Cei in imbarazzo sui soldi a Casarini. Luca Fazzo il 9 Dicembre 2023 su Il Giornale.
I vescovi: "Basta con le accuse diffamatorie". Ma non prendono le distanze dai suoi guai
«L'impegno della Chiesa è combattere l'illegalità con la legalità», fa sapere ieri la Cei, la Conferenza del vescovi italiani. È la prima reazione pubblica dopo una settimana in cui sulla Cei e sul Vaticano sono piovute quotidianamente paginate di rivelazioni sui rapporti con Mediterranea, la organizzazione pro-migranti guidata dall'antagonista Luca Casarini. Combattere l'illegalità con la legalità dicono i vescovi: peccato che il loro beniamino Casarini abbia agito, secondo l'inchiesta della procura di Ragusa, abbondantemente fuori dai sentieri della legge, e che per questo i pm abbiano chiesto di rinviarlo a giudizio per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, aggravato dall'accusa di avere agito «per trarne profitto». Ma la Cei neanche ieri scarica Casarini, continua a parlare di «presunto favoreggiamento», e se la prende con la pubblicazione delle chat «in modo strumentale e improprio», «una pratica che merita sdegno e disappunto».
Disappunto comprensibile, in effetti. Man mano che intercettazioni e accertamenti contabili venivano pubblicati da La Verità, i vescovi si sono trovati costretti a elaborare una linea di difesa. Non devono essere stati giorni facili. Perché nelle carte dell'indagine pullulano di nomi di porporati di primo piano, a partire dal numero 1 della Cei, l'ex arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, registrato ripetutamente mente parla con il cappellano di bordo della Mar Jonio, la nave di Mediterranea. Zuppi appare come lo sponsor di Casarini dentro il Vaticano, il promotore dell'incontro dell'ex antagonista con Papa Francesco. Ma Zuppi non è solo: nelle intercettazioni due vescovi, Mario Grech e Augustus Lojodice, vengono indicati come così legati a Mediterranea che la loro promozione a cardinali viene vissuta dalla ong come un omaggio di Bergoglio.
Della dimestichezza con cui Casarini e i suoi si muovono negli ambienti vaticani, della conoscenza dettagliata che mostrano delle dinamiche ecclesiastiche, il comunicato della Cei non dice nulla. Non spiega perché, nella nobile campagna in soccorso di profughi e migranti («Ogni vita va salvata!») il Vaticano abbia scelto come interlocutore privilegiato proprio la ong di Casarini, senza nemmeno effettuare una due diligence sui suoi conti. Col risultato che i fondi dell'8 per mille sono finiti anche a ripianare le spese private dell'ex leader dei centri sociali.
Sul tema cruciale dei finanziamenti arrivati a Mediterranea, la nota si limita a dire che «la Cei non ha mai sostenuto in modo diretto «Mediterranea Saving Humans» e di avere «accolto una richiesta presentata da due Diocesi in una cornice ampia». Peccato che nelle intercettazioni si apprende che l'idea di fare passare i soldi attraverso i vescovi di Napoli e Palermo per evitare contatti diretti con Mediterranea sia stata partorita proprio dai vertici della Cei; «È stato come sempre geniale Zuppi che ha avuto l'idea di proporci per Mediterranea di aggirare la Cei e di passare attraverso Czerny e Hollerich», ovvero i cardinali Michael Czerny e Jean Claude Hollerich. Ai calcoli della Verità, che parla di due milioni in tutto, la Cei ribatte che si tratta solo di 400mila euro. La sostanza non cambia.
Casarini, la Cei e Avvenire. Una rete tra soldi e potere che ora imbarazza la Chiesa. Invano sul sito di Avvenire si cercherebbe oggi un accenno al caso che sta investendo la Chiesa italiana proprio sul tema dei rapporti con Casarini e il suo staff. Luca Fazzo il 5 Dicembre 2023 su Il Giornale.
«Papa Francesco incontra i soccorritori di Mediterranea, contate su di me», 10 aprile 2020. «Papa Francesco incontra i soccorritori di Mediterranea», 22 marzo 2023. «Il Papa e le Ong dei soccorsi, non ci fermeranno, politiche scellerate», 25 settembre 2023. «Luca Casarini, tra i migranti in mare ho riscoperto il mio essere cristiano», 4 ottobre 2023.
Sono tutti titoli di Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, che raccontano in modo inequivocabile il rapporto privilegiato che la Chiesa, a partire da Papa Bergoglio, ha creato in questi anni con Mediterranea, la ong dell'ex antagonista veneziano Luca Casarini. Ma invano sul sito di Avvenire si cercherebbe oggi un accenno al caso che sta investendo la Chiesa italiana proprio sul tema dei rapporti con Casarini e il suo staff. Rapporti di militanza comune, di propaganda, e di soldi. Con i fondi del Vaticano che finiscono con ripianare i bilanci di Mediterranea, svuotati da Casarini usando per fini personali contanti e bancomat (compresso il cinema con i figli).
A raccontare in diretta la rete tra Casarini e il Vaticano sono le intercettazioni compiute dalla Guardia di finanza per conto della Procura di Ragusa, nell'indagine per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a carico di Mediterranea. Da alcuni giorni il quotidiano La Verità sta dando conto di quanto emerso nelle intercettazioni delle «fiamme gialle». Sono rivelazioni destinate a dare voce a chi accusa da tempo i vertici vaticani di una sorta di deriva movimentista, soprattutto sul tema dell'immigrazione. Anche a costo di legarsi a un personaggio come Casarini, protagonista del sanguinoso G8 di Genova nel 2001. E responsabile, secondo le indagini della procura ragusana, di gravi violazioni delle leggi sugli interventi in mare.
A tessere i rapporti con le gerarchie ecclesiastiche è, insieme a Casarini, un sacerdote: Mattia Ferrari, sedicente «cappellano di bordo» della Mar Jonio, la nave utilizzata da Mediterranea per i soccorsi in mare. È don Ferrari a vantarsi dei risultati raggiunti, «abbiamo ottenuto che Papa Francesco ha speso parole di elogio enorme per Mediterranea, e ha fatto esporre la croce e il giubbotto di Mediterranea nel palazzo apostolico». Dopo un omelia di Bergoglio, il cappellano della Mar Jonio può addirittura proclamare: «Casarini è diventato il ghost writer di Papa Francesco».
Forte dell'appoggio del Pontefice, la ong di Casarini incamera finanziamenti a pioggia, grazie anche ai contatti diretti con due vip vaticani: i vescovi Giovanni Ricchiuti e soprattutto Matteo Zuppi, attuale presidente della Cei. Secondo La Verità, grazie a questi contatti Mediterranea avrebbe incassato circa due milioni di euro in due anni. Non direttamente dal Vaticano, anche per i dubbi dell'elemosiniere Konrad Krajewski, ma attraverso Curie, parrocchie, associazioni territoriali.
Le intercettazioni raccontano dall'interno anche la oculata strategia mediatica dei capi di Mediterranea, basata su rapporti privilegiati con giornalisti di quotidiani e testate televisive. Un giudizio particolarmente severo, nelle informative della Guardia di finanza, viene riservato a un cronista di Avvenire, accusato di fornire un «aiuto ricattatorio nei confronti di alti prelati» per aiutare la Ong di Casarini a raggiungere i suoi obiettivi.
Le accuse che hanno portato Casarini e quattro dei suoi collaboratori sotto processo nascono dall'ingente somma che Mediterranea incassò in cambio del trasbordo sulla Mar Jonio di 27 migranti. Ma è chiaro che a mettere in imbarazzo il Vaticano è anche, e sopratutto, la figura di Casarini, che ancora ad aprile scorso, quando il canale con Bergoglio era già operativo, minacciava così il ministro dell'Interno e un suo predecessore: «Marco Minniti e Matteo Piantedosi ieri a Napoli avete goduto della protezione dei manganelli per fare la vostra passerella. Ma siete responsabili dell'orrore. E i manganelli non vi salveranno per sempre».
Così i vescovi finanziano Casarini (esclusivo migranti). Chiara De Zuani su Panorama il 28 Novembre 2023.
Così i vescovi finanziano Casarini (esclusivo migranti) - Panorama in edicola Diocesi che finanziano con milioni di euro la ong di Luca Casarini; intese comuni in materia di migranti tra UK e Francia; la conquista politica e culturale della Cina in Africa; i Re Magi della politica italiana; il tesoretto quasi inutilizzato per aiutare gli enti a pagare l'energia; il fenomeno in aumento degli adolescenti con problemi neuropsichici e le scarse risorse per aiutarli. Tutto questo nel numero in edicola dal 29 novembre Gli arraffa-oboli Prelati e diocesi, con l'autorizzazione della Conferenza episcopale italiana, finanziano con milioni di euro (che appartengono ai fedeli) Luca Casarini e la sua ong Mediterranea per sostenere il salvataggio di migranti in mare. Peccato che i capi dell'organizzazione siano indagati per aver fatto business sulla pelle dei naufraghi.
C'è un migrante da spostare Mentre l'Europa critica l'accordo tra Italia e Albania per gestire il flusso degli sbarchi nel nostro Paese, Regno Unito e Francia usano il pugno duro verso i richiedenti asilo tramite intese comuni. Intanto la Cina sta già organizzandosi per la "conquista" politica e culturale dell'Africa. I Re Magi La politica italiana ha i suoi Re Magi, la "sacra" triade antigovernativa: Benedetto Della Vedova, Marco Cappato e il segretario +Europa Riccardo Magi. Questi, sovvenzionati dal miliardario George Soros e adorati da Elly Schlein, portano in dono accoglienza ai migranti, carne sintetica, droghe libere ed eutanasia. Se lo Stato non spegne la luce Da quasi dieci anni esiste un "tesoretto" per aiutare gli enti a pagare l'energia. Peccato che in passato nessun governo l'ha pubblicizzato, e così ne sono state utilizzate soltanto le briciole. Adolescenza alla deriva In Italia quasi due milioni di adolescenti manifestano disturbi neuropsichici e malesseri esistenziali, e il fenomeno è in costante aumento. Purtroppo però, i reparti ospedalieri specializzati che dovrebbero prenderli in carico sono troppo pochi, così come mancano posti letto e personale preparato.
Vaticano, Papa Francesco invita Luca Casarini: esplode il caso. Libero Quotidiano l'08 luglio 2023
La XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, convocata in due sessioni distinte a ottobre 2023 e a ottobre 2024, partirà dal testo dell'Instrumentum Laboris in cui sono presenti alcuni dei temi più divisivi nella vita della Chiesa: dall'accesso delle donne al diaconato alla richiesta di passi concreti verso la comunità Lgbt e i divorziati risposati fino alla discussione su come essere più accoglienti con i migranti. Proprio per questo Papa Francesco, per la prima volta, ha aperto il Sinodo sulla sinodalità anche alla partecipazione, e al voto, di chi non è vescovo e di chi non è consacrato. Ci sta. Quello che desta sorpresa, e scalpore, è che tra gli invitati di Bergoglio si sia anche Luca Casarini, capo della ong Mediterranea Saving Humans, che ha utilizzato parole di fuoco contro il nuovo governo sul tema dei migranti sostenendo che "meglio pirati che assassini".
Ebbene, l'uomo che l'opinione pubblica italiana imparò a conoscere nei drammatici giorni del G8 di Genova del 2001 come leader delle Tute Bianche e che fu tra i promotori della cosiddetta "Dichiarazione di guerra ai potenti dell'ingiustizia e della miseria" che fu letta dal Palazzo Ducale della città ligure, si troverà a discutere con personaggi che rappresentano due visioni opposte della Chiesa. Da un lato, rivela Nico Spuntoni sul Giornale, il prefetto emerito del Dicastero per la Dottrina della Fede, il cardinale Gerhard Ludwig Müller e dall'altra il gesuita padre James Martin, simbolo di chi vorrebbe una linea aperturista sulle battaglie arcobaleno. Di nomina pontificia anche padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e considerato uno dei più stretti collaboratori del Papa, e la teologa spagnola Cristina Inogés Sanz sostenitrice dell'ordinazione femminile. Tra i cardinali anche l'arcivescovo di Washington, Wilton Gregory e l'arcivescovo di Chicago Blase Joseph Cupich, contrari a chi vorrebbe negare l'eucarestia ai politici cattolici pro-choice sull'aborto.
Nell'aprile del 2020, ricorda il Giornale, Papa Francesco aveva inviato una lettera a Casarini che iniziava con un caloroso "Luca, caro fratello, grazie per la pietà umana che hai davanti a tanti dolori. Grazie per a tua testimonianza, che a me fa tanto bene". Bergoglio ci teneva a far sapere di essere "a disposizione per dare una mano sempre" e aggiungeva, rivolto ai volontari della ong: "contate su di me". Le parole di stima del Papa arrivavano in risposta ad una lettera polemica di Casarini che si lamentava di chi rendeva la vita difficile all'attività in mare delle ong.
Estratto dell’articolo di Ferruccio Pinotti per corriere.it il 9 Luglio 2023
Luca Casarini, storico leader dei Centri sociali, dei No Global italiani e dei Disobbedienti del G8 a Genova, oggi in prima linea nell’aiuto ai migranti con la Ong «Mediterranea Saving Humans» (il cui cappellano don Mattia Ferrari è stato oggetto di minacce su cui indaga la Procura di Modena), sarà «invitato speciale» al prossimo Sinodo dei Vescovi che si terrà in ottobre. Il suo nome è stato pubblicato dalla Sala Stampa vaticana nell’elenco dei partecipanti alla prima sessione della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sul tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione» (dal 4 al 29 ottobre).
(...)
Luca Casarini, da ex leader dei centri sociali e delle rivolte del G8 di Genova a «invitato speciale» di papa Francesco al prossimo Sinodo dei Vescovi: soddisfatto di questo prestigioso ruolo?
«Assolutamente sì, è un grande onore e una grande opportunità per me come persona, ma anche un messaggio forte di sostegno per Mediterranea Saving Humans e per tutto il soccorso civile in mare. Non a caso questo invito deve molto a don Mattia Ferrari, nostro capo missione in quella che chiamerei la navigazione di Mediterranea dentro la Chiesa. Con Mediterranea saremo anche presenti a un incontro con i vescovi dal 18 al 24 settembre promosso dalla Diocesi di Marsiglia, preparatorio a un possibile Sinodo del Mediterraneo cui partecipino realtà laiche e cristiane».
Al Sinodo dei vescovi che contributo porterà? L’impegno del «nuovo Casarini» con la Chiesa in quali altre direzioni procede?
«Lavoro a stretto contato con la Caritas in Ucraina e anche con Migrantes. Al Sinodo vado per ascoltare, ma certamente mi piacerebbe condividere l’esperienza che sto facendo da 5 anni in mare coi migranti perché parla dello stesso Vangelo di papa Francesco, così come della sua enciclica Fratelli Tutti: ovvero l’importanza di sentire come fratelli sorelle le altre persone e in particolare i più deboli. Quelle che chiamiamo democrazie riservano ad alcune categorie di persone un trattamento diverso e ineguale: sono i più poveri che arrivano dal Sud del mondo, coloro che troviamo in Libia, nei campi profughi turchi finanziati dalla Ue, che muoiono nei naufragi di Cutro e Pylos. Se non affrontiamo seriamente questi temi le democrazie fondate nel dopoguerra sul concetto di diritti umani perdono senso».
A livello personale, i 5 anni con Saving Humans cosa le hanno insegnato?
«L’elemento dell’amore viscerale, un’espressione che torna spesso nel Vangelo ma anche nel Corano. Mi hanno insegnato poi la necessità dell’impegno personale: di fronte alla sofferenza bisogna agire, non accettare quella che papa Francesco chiama la globalizzazione dell’indifferenza, un mondo costruito su questo livello di diseguaglianze. Ho compreso che nessuno si salva da solo, l’azione deve essere mossa dall’amore, come arma potentissima».
Cosa rappresenta per lei Papa Francesco? È noto che avete un rapporto di amicizia...
«Papa Francesco rappresenta una Chiesa che sceglie di confrontarsi con il mondo. Che raffigura non un potere, ma un condannato a morte, Gesù Cristo, inchiodato a una Croce. Attraverso quello che facciamo con Mediterranea in mare, con il Papa e con molti Vescovi abbiamo costruito un rapporto solido basato sul fare, sulla concretezza, sulla pratica del soccorso civile in mare. È un rapporto fondato su grande stima, grande amicizia e soprattutto grande fratellanza. Incontrarsi facendo le cose».
Non teme, con questo invito, di diventare un «caso», un problema più che una risorsa?
«Col Papa, in questi anni, mi sono spesso rapportato. Ci conosciamo bene, il Papa ci ha sempre sostenuto e aiutato anche in questa cosa difficile. Io forse sarò visto un po’ come la “pietra dello scandalo”. Che ci fa uno come me in mezzo ai Vescovi? Ma penso sia invece lo spirito che vuole dare il Papa».
Ma un tempo era un antagonista nelle piazze: ora ha trovato la fede?
«In questi anni ho scoperto preti di strada, suore nei campi profughi che danno un prezioso aiuto nella gestione , parrocchie che sono luoghi di rifugio per chi è respinto. Gente come don Gallo, don Ciotti, don Vitaliano Della Dala. Al Sinodo sarà un incontrarsi tra persone che fanno le stesse cose. Vivo ormai in Sicilia, ora con Mediterranea siamo fermi a Tarpani in sosta tecnica, ma tra due settimane saremo in mare, intanto mi muovo in Ucraina con Caritas, Sant’Egidio, Salesiani.
Non rinnego la mia storia da antagonista, quanto alla fede mi sento più cristiano che cattolico, vicino a coloro che vivono la fede in Gesù come colui che è stato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. In fondo vengo da una famiglia cattolica di operai, fino a 12 anni frequentavo la Chiesa, poi mi sono allontanato. Bergoglio ha aperto un portone e mi ha avvicinato molto alla Chiesa degli ultimi e dei poveri. Il Papa sta provando a cambiare molte cose. Questo mondo va cambiato. E nella sfida che ci pongono le migrazioni è fondamentale riconoscersi tutti appartenenti alla famiglia umana».
Estratto dell’articolo di Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 18 aprile 2023.
Un video girato sottocoperta dagli scafisti della Summer Love, naufragata a Cutro, con il telefonino, per pubblicizzare e promuovere l’efficienza della loro organizzazione nella gestione del traffico di migranti.
Uno spot destinato a chi voleva attraversare il Mediterraneo. Il filmato, acquisito dalla Procura di Crotone, è stato poi inviato in Turchia, a un’agenzia di viaggi che evidentemente si dedicata alla tratta, proprio dal telefonino di uno degli scafisti arrestati sulla costa calabrese.
A parlare di continue riprese video durante il viaggio è stato l’iraniano Rezapourmoghaddam Motjabuu, 47 anni, scampato al naufragio del 26 febbraio davanti alla costa di Cutro: 94 morti l’attuale bilancio. L’immigrato ha parlato durante l’incidente probatorio, che mette a confronto i superstiti con i presunti scafisti. […]
In effetti, Motjabuu ha parlato della pubblicità che veniva filmata sulla barca: «A turno alcuni degli scafisti, che indica nei numeri 4 e 15 nell’album fotografico mostratogli dalla polizia, scendevano nella stiva e ci filmavano, inquadrando i nostri volti e, in generale, le condizioni del gruppo stipato nella pancia dell’imbarcazione.
E nel filmarci volevano che noi celebrassimo un nome, che dovevamo pronunciare ad alta voce (probabilmente il capo dell’organizzazione, ndr ), ringraziandolo per averci dato la possibilità di attraversare il Mediterraneo senza insidie, usufruendo dei migliori servizi.
Come se fossimo in crociera, anche perché — dice sempre rispondendo alle domande del pubblico ministero Pasquale Festa — la gestione delle traversate avveniva pagando proprio questa persona che era titolare, in Turchia, di una sorta di agenzia di viaggi a cui devono rivolgersi necessariamente chi decide di migrare». [….]
«Con una barca da 20 mila euro, per guadagnare 1 milione di euro, avete ucciso donne e bambini» ha detto ieri il superstite iraniano, indicando in aula il pakistano Khalid e i turchi Sami Fuat e Gun Ufuk come tre dei presunti scafisti che avrebbero governato la barca. […]
Estratto dell’articolo di Cristiana Mangani per ilmessaggero.it il 16 aprile 2023.
Una nave che è tutta un mistero e che ora è sotto inchiesta della procura di Catania. È sbarcata il 12 aprile con 600 migranti a bordo. Un carico di umanità, composto perlopiù da siriani, egiziani, pachistani e da qualche palestinese.
Grande gioia al momento dell’arrivo in porto a Catania, ma anche grande attenzione da parte delle forze dell’ordine. Perché quella barca “così monitorata” non era il solito gommone sgonfio o i gusci di noce fatti di fogli di alluminio che reggono a malapena il mare.
Kefiah 1, battente bandiera libica, è un peschereccio di 231 tonnellate, lungo 32 metri, con un bel ponte e due radar a guidare la rotta. Quando esce dal cantiere inglese nel 1968 si chiama “Clupea” e viene adibita alle ricerche scientifiche nelle aree offshore e nel mare del Nord, fino al 2015, data in cui diventa una barca di Search and rescue.
Insomma, una storia molto lontana da quella dei trafficanti di esseri umani. “Clupea”, infatti, viene comprata dalla ong tedesca Sea Watch che l’ha rinominata Sea Watch 2, mandandola a svolgere servizio civile di soccorso in mare per rifugiati e migranti nel Mediterraneo.
Nell’autunno del 2016, il peschereccio passa ancora di mano e va a “Mission Lifeline”, organizzazione umanitaria con sede a Dresda. A giugno del 2018, la Lifeline (con 239 migranti a bordo) è diretta in Italia, ma l’allora ministro degli Interni, Matteo Salvini, ordina la chiusura dei porti e ingaggia un braccio di ferro con l’Olanda, che scarica l’ong e se ne lava le mani.
La nave viene dirottata a Malta, dove il 5 marzo del 2019 finisce sotto sequestro. Viene ritrovata qualche giorno fa con i trafficanti di esseri umani che la riempiono fino all’inverosimile e la mandano verso le coste siciliane dove, scortata dalla Guardia costiera, fa ingresso nel porto di Catania.
Ma come è finita una barca utilizzata da volontari per il soccorso umanitario nelle mani degli scafisti? Il sito Marine traffic la segnala nel porto di Bar, nel Montenegro, dopo un viaggio durato cinque giorni. La tappa successiva è Bengasi, dove carica i passeggeri e si dirige verso l’Italia.
Bengasi non è un porto qualunque, è uno degli approdi della Cirenaica, il cui leader resta il feldmaresciallo Khalifa Haftar. L’est della Libia da dove sta partendo il maggior numero di migranti provenienti dal Paese africano. In quelle zone nulla si muove senza l’autorizzazione di Haftar e, infatti, da qualche tempo la gestione del traffico di esseri umani, così come molti altri traffici, sembra essere gestita dal figlio Saddam.
Haftar ha bisogno di denaro, anche per pagare “la protezione” dei mercenari russi della Wagner che agiscono con l’obiettivo di destabilizzare. Proprio quello che ora il leader della Cirenaica sta tentando di fare con l’Italia e con l’Europa, nel tentativo di alzare il prezzo della trattativa. Sul peschereccio misterioso e sul passaggio di mano, in particolare quello che riguarda le bande criminali che gestiscono i flussi irregolari, sta indagando il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che ha aperto un’inchiesta. […]
Geo Barents, l'ong smascherata: "La nave non era in pericolo". Libero Quotidiano il 07 aprile 2023
"È stato uno dei soccorsi più impegnativi, se non il più impegnativo, della nave Geo Barents", dice Riccardo Gatti, responsabile dei soccorsi a bordo della nave Ong di Medici Senza Frontiere. "C’è il bisogno di un operativo di soccorso che protegga la vita delle persone", prosegue. "In particolare questo soccorso ha avuto inizio mentre ci stavamo dirigendo verso Nord, per cercare riparo dalla tormenta che si stava per abbattere sul Mediterraneo centrale, a quel punto abbiamo ricevuto in copia le comunicazioni da parte di Alarm Phone l’informazione su un’imbarcazione in pericolo che si trovava, in quel momento, a circa 160 miglia dalla nostra posizione. In una posizione molto critica, proprio nelle vicinanze di quella tormenta". Secondo Gatti "l'imbarcazione era in pericolo, si stava dirigendo verso una zona dove potevano essere presenti onde fino a 4 metri e mezzo e raffiche da 40 nodi di vento. Le condizioni meteo critiche hanno fatto sì che noi impiegassimo circa 11 ore per portare a compimento il salvataggio dei naufraghi. Vi erano donne e bambini, purtroppo le persone erano in condizioni molto critiche, in mare e senza acqua da giorni".
Ma secondo i documenti esclusivi de Il Giornale in realtà il peschereccio non era alla deriva e aveva carburante a sufficienza. Nonostante questo l'imbarcazione della Ong lo ha fermato e costretto a sbarcare in Italia mettendo a rischio le persone a bordo. "Il Giornale pubblica le mail maltesi e del capitano di una delle navi mercantili intervenute, che svelano le bugie della Ong denunciando il comportamento al di sopra di indicazioni e regole. Medici senza frontiere, furbetti del mare, questa volta l’hanno fatta grossa violando il decreto Piantedosi", si legge nell'articolo. "Adesso rischiano il secondo fermo della loro nave per due mesi. Al terzo l’imbarcazione viene confiscata in maniera definitiva". L’operazione della Geo Barents, secondo quanto rivela una fonte del Giornale, "è stata forzosa, senza rispettare le indicazioni delle autorità maltesi e ha messo a rischio gli stessi migranti. Con un mare forza 4 o 5 è più sicuro far navigare il peschereccio, che non era minimamente alla deriva, verso acque più tranquille piuttosto che fermarlo in mezzo al mare per un pericoloso trasbordo di oltre 400 persone".
Il finto femminismo sulle "eroine" delle Ong. Da sinistra si spellano le mani ed elevano tre donne a simbolo della lotta al governo di Giorgia Meloni. Francesca Galici il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il vittimismo sembra essere diventata la principale arma delle Ong, appoggiate della sinistra italiana, contro il governo italiano. La regolamentazione dell'operato delle navi della flotta civile non viene digerita facilmente da chi pretende di poter agire autonomamente al di sopra delle indicazioni delle autorità, come dimostra quanto accaduto nell'ultimo weekend. La Louise Michel, che ha disobbedito alle indicazioni della Guardia costiera sarà ora costretta a restare in porto per i prossimi 20 giorni senza l'autorizzazione per lasciare la banchina e non è escluso che venga aperto un fascicolo dalla procura. In tutto questo, i soliti paladini del politicamente corretto sostengono la violazione delle regole e cercano di spostare l'attenzione elevando tre donne facenti parte di altrettante organizzazioni a paladine nello scontro con il governo che vede una donna come suo principale esponente.
Violano le leggi e poi frignano: l'attacco della capomissione al governo
La Repubblica le chiama "pasionarie del mare" ma la loro presenza, soprattutto da chi appoggia la lotta al patriarcato non dovrebbe essere motivo di sorpresa. Dovrebbe essere la normalità la presenza di tre donne in posti di rilievo, dovrebbe invece, stupire l'assenza di altre donne o, se ci sono, l'elevazione di tre a discapito delle altre. Da sabato a Lampedusa, e per i prossimi 20 giorni, dovrà starci Morana Milijanovic, capomissione di Louise Michel, che dopo aver disatteso per 15 ore le indicazioni della Guardia costiera, mettendo in pericolo i migranti presi a bordo, in numero ben maggiore rispetto a quelli che il motoscafo poteva trasportare. Il tutto nonostante le indicazioni della Guardia costiera di raggiungere il porto indicato, e le comunicazioni che informavano l'inizio delle operazioni di recupero delle stesse motovedette italiane.
Alza la voce anche Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch, e lo fa puntando il dito contro la Guardia costiera, proprio per il caso della Louise Michel: "Riteniamo che una simile comunicazione non sia abituale e che, al contrario, possa essere associata alla nuova direzione politica della Guardia costiera, affidata a un ministro che ha come sua unica verità la feroce propaganda politica, soprattutto sul tema migratorio". Impossibile per lei, e per gli altri esponenti delle Ong, ammettere che esistono delle regole e che la Guardia costiera è chiamata a farle rispettare. Linardi cerca di addossare le responsabilità di tutti i naufragi nel Mediterraneo alla politica ma mai nelle sue parole, nemmeno nell'ultimo intervento fatto tramite l'Adnkronos, vengono menzionati i trafficanti, veri responsabili delle morti in mare.
Anche Luisa Albera, che da anni opera sulla Ocean Viking, viene inserita tra le "pasionarie del mare". Era a bordo della nave lo scorso weekend, quando la Guardia costiera libica ha esploso alcuni colpi di fucile contro la Ocean Viking che si stava avvicinando a un gommone carico di migranti. Anche in quell'occasione è stato allertato il centro di controllo italiano, che non ha alcuna capacità di intervento, viste anche la distanza dal nostro Paese. Il tutto mentre l'Italia era impegnata in numerosi altri interventi di sua competenza, in un weekend che è stato all'insegna degli sbarchi.
Telefoni satellitari e controllo delle rotte: così i trafficanti trovano le Ong. Francesca Galici il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.
I contatti satellitari con i barchini e il controllo della posizione delle Ong: così si organizzano le partenze dalla Libia che puntano alle navi
La presenza in mare delle navi Ong è un tema alquanto controverso. Se da un lato loro si difendono e si appellano all'obbligo di salvare le persone in mare, come impongono il diritto internazionale e quello del mare, dall'altra parte è pur vero che se non ci fossero loro in tanti non partirebbero. Anche questo significa essere un pull-factor. A dimostrazione di questo ci sono le conversazioni che abbiamo avuto nei giorni precedenti con uno dei trafficanti di migranti in Libia ma anche alcuni video che abbiamo intercettato in questi giorni nelle chat che prolificano sui social network e su Whatsapp.
"In mare aperto ci aspettano le Ong". In contatto con gli scafisti
Posizionandosi davanti alla costa, le navi Ong diventano un fattore di attrazione per chi vuole raggiungere l'Italia, perché è sufficiente dirigere il barchino nella zona in cui si trova la nave per avviare l'attività di recupero da parte dell'equipaggio della Ong di turno. Ce l'ha detto chiaramente il trafficante, che in prima istanza ha riferito che il suo convoglio si sarebbe diretto verso Lampedusa ma poi, spiegandoci che il "lancio" sarebbe avvenuto in presenza di una nave di soccorso in mare e che il suo capitano si sarebbe diretto in quella direzione. Ci ha anche riferito che sussistono contatti radio tra i comandanti dei barchini e le navi delle Ong ma questa informazione va presa con il beneficio del dubbio, in quanto potrebbe anche essere solo un'affermazione fatta per convincerci a pagarlo per il trasferimento.
Abbiamo, invece, trovato conferma sull'altra indicazione che ci è stata fornita per quanto concerne la rotta seguita dalle imbarcazioni in uno dei video pubblicati dagli stessi trafficanti. Nella clip, viene inquadrato uno smartphone sul quale si legge chiaramente un numero di cellulare con prefisso +882, che dopo una rapida ricerca abbiamo scoperto essere riconducibile a un operatore telefonico cellulare satellitare dei Paesi Arabi. Il numero è probabilmente quello affidato a uno dei telefoni che vengono affidati agli scafisti a bordo dei barchini.
Durante la chiamata, si vede la persona che effettua uno switch verso un'applicazione di tracciamento marittimo, in cui si vede un tracciamento satellitare con due elementi, dei quali uno è probabilmente la nave delle Ong verso la quale si sta dirigendo il barchino. La presenza a distanza ravvicinata dalle coste delle grandi navi di soccorso è inevitabilmente un fattore di attrazione Questo video è stato pubblicato in uno dei post in cui si annunciano le nuove partenze dalla Libia. La clip in questione è stata affiancata da un'altra, che presumibilmente proviene dagli stessi con i quali era in comunicazione attraverso il telefono satellitare, che si trovano in viaggio a bordo di un barchino. Risate e saluti a casa ma non ci sono notizie sul loro effettivo sbarco.
Violano le leggi e poi frignano: l'attacco della capomissione al governo. Luca Sablone il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.
Morana Milijanovic, capomissione della Louise Michel, se la prende con la nuova legge: "Assurdo, vogliono ostacolare le operazioni di soccorso". Ma Salvini accusa le Ong: "Complicano il lavoro dei nostri marinai"
Le Ong continuano a sentirsi sul piedistallo e a dare lezioncine all'Italia, che deve fare i conti con l'emergenza immigrazione senza l'adeguato supporto dell'Unione europea. Questa volta a frignare è Morana Milijanovic, capomissione della Louise Michel: la nave si trova in stato di fermo al porto di Lampedusa per violazioni del nuovo decreto che contiene disposizioni in materia di transito e sosta nelle acque territoriali delle navi non governative impegnate nelle operazioni di soccorso in mare.
La capomissione frigna
Milijanovic non vede di buon occhio il pugno duro contro le navi delle Ong, nei confronti di cui l'esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha messo in campo una vera e propria stretta mediante un nuovo sistema di sanzioni ai danni chi non rispetta le regole. La capomissione della Louise Michel, intervistata da La Repubblica, si è scagliata contro l'intento della nuova legge che a suo giudizio è molto chiaro: "Ostacolare le operazioni di soccorso della flotta civile".
Dal suo punto di vista tutto questo "sembra assurdo" perché la nave è bloccata mentre "là fuori ci sono centinaia di persone in pericolo". E ha indicato l'aumento delle morti in mare come una delle tante conseguenze. Come riportato da Local Team, anche ieri aveva denunciato che il progetto che si nasconde dietro queste decisioni sarebbe quella di "impedire attivamente che le navi capaci di soccorrere soccorrano", avendo come effetto la morte di persone in mare.
In realtà il governo non vuole affatto mettere il bastone tra le ruote a chi svolge le operazioni di salvataggio: semplicemente è stato ritenuto necessario e doveroso stabilire che le modalità di ricerca e soccorso non devono impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco e che in caso di operazioni plurime non bisogna compromettere l'obbligo di raggiungimento (senza ritardo) del porto di sbarco. Invece la Louise Michel ha portato a termine ben quattro operazioni di soccorso in 24 ore. E ora dalla nave avvertono pure: "Prenderemo tutte le misure necessarie per combattere questo fermo".
"Le Ong intralciano la Guardia Costiera"
La Guardia Costiera ha denunciato che la nave - dopo aver effettuato il primo intervento di soccorso in acque libiche - ha contravvenuto "all'impartita disposizione di raggiungere il porto di Trapani, dirigendo invece su altre tre unità di migranti". Eppure, stando a quanto riferito dall'Ansa, secondo Sos Mediterranée la posizione "sembra più motivata politicamente che tecnicamente". Ora si arriva a mettere in discussione anche la linea delle nostre autorità.
"Ha una posizione politica". Ora le Ong attaccano la Guardia costiera
Gli uomini della Guardia Costiera ogni giorno svolgono un ruolo di grande rilievo, mettendo a rischio la propria vita per evitare che si verifichino altre tragedie in mare. Ma il loro lavoro instancabile è messo a dura prova da chi, ad esempio, finisce per inceppare i sistemi di comunicazione. Non a caso è stato fatto notare che le continue chiamate dei mezzi aerei Ong "hanno sovraccaricato i sistemi di comunicazione del Centro nazionale di coordinamento dei soccorsi, sovrapponendosi e duplicando le segnalazioni dei già presenti assetti aerei dello Stato".
Proprio su questo punto è arrivata la presa di posizione di Matteo Salvini che, a margine di un incontro a Trieste, ha rispedito al mittente le accuse contro le autorità: "È l'Italia sotto attacco, non le Ong". Il vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture ha fatto riferimento proprio alle lamentele per gli ostacoli al lavoro dei nostri uomini: "Se le Ong complicano il lavoro dei nostri marinai sicuramente il problema si pone. Sicuramente l'immigrazione non può essere regolata da organismi privati finanziati da Paesi stranieri".
Estratto dell'articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 28 marzo 2023.
Quindici ore di liti in mare. Con la Guardia costiera che ripete di puntare «con rotta diretta e alla massima velocità sostenibile verso il porto di Trapani» e con la Louise Michel che ogni volta ignora l’ordine «perché c’è una chiamata di soccorso per una barca in difficoltà».
[...] Comincia tutto alle 13.43 di venerdì 24 marzo. Gli attivisti della ong Louise Michel — che poi è il nome della nave su cui viaggiano, finanziata dall’artista Banksy e costretta a un fermo amministrativo per 20 giorni nel porto di Lampedusa — «comunicano per la prima volta di dirigere verso un natante in area Sar libica, a circa 95 miglia da Lampedusa», scrive la Guardia costiera nel suo resoconto.
Ore 14.49: la Louise Michel ha terminato il soccorso e ha imbarcato 78 persone. Fin qui tutto normale. Le regole a questo punto imporrebbero la rotta verso un porto sicuro, senza altre tappe se non davanti a situazioni di rischio per la vita delle persone.
Ore 15.06: la ong chiama di nuovo la Guardia costiera per avvisarla che ha ricevuto un «mayday» da Frontex e sta andando in acque Sar maltesi verso la barca in difficoltà.
Alle 16.29 la Guardia costiera li contatta: vi è stato assegnato il porto di Trapani, andateci alla massima velocità. Ma niente. La Louise Michel non obbedisce. I sistemi di bordo segnalano un’altra rotta.
Alle 17.24 di nuovo l’ordine: andate a Trapani, stiamo andando noi verso l’obiettivo del «mayday». Come non detto.
Alle 19.20 la nuova comunicazione dalla ong: abbiamo soccorso 38 migranti in area Sar maltese, ora siamo in 116, assegnateci un porto sicuro. Al secondo barchino ne segue un terzo, sempre in acque Sar maltesi […]
Alle 23.21 la Louise Michel comunica: «Abbiamo intercettato un altro barchino vicino alla nostra posizione». È lo stesso verso il quale stava andando la Guardia costiera. Che a verbale riassume: «Durante le operazioni di recupero condotte autonomamente dalla Louise Michel, il barchino si è ribaltato. Ci comunicano di aver recuperato tutti i naufraghi e che un adulto e un bambino sono in stato di incoscienza».
Così, quando la Guardia costiera raggiunge la Louise Michel, non può far altro che trasbordare i due e portarli a Lampedusa di corsa. Impossibile non vedere quanto fosse sovraccarica, a quel punto, la nave di Banksy.
Così, alla 1.06, la Guardia costiera dispone che la Ong «diriga alla massima velocità sostenibile verso Lampedusa» poiché per «l’elevato numero di persone a bordo l’unità risultava unsafe ». Niente più Trapani. Alle 4.40 la Louise Michel attracca nel porto di Lampedusa.
«Abbiamo solo salvato delle vite», si difendono gli attivisti fieri di aver disobbedito «perché», dicono, «la Guardia costiera aveva ignorato il nostro “mayday” per più di mezz’ora. […]
La Guardia Costiera affonda le Ong ‘anarchiche’. Le autorità italiane si sono stufate delle navi umanitarie: “Intralcio ai soccorsi”. Indaga anche la procura di Agrigento. Redazione su Nicolaporro.it il 27 Marzo 2023
Mettiamo subito in chiaro: nessuna motovedetta della Guardia Costiera italiana ha sganciato un missile per affondare una nave umanitaria. Ma da un punto di vista figurato è un po’ come se lo avesse fatto, come se si fosse tolta un macigno dalle scarpe, altro che sassolino. La nota pubblicata ieri dalle autorità marittime è stato un duro j’accuse alle attività delle Ong che con le “continue chiamate” e gli ordini ignorati intralciano le attività di salvataggio dei nostri guardiacosta.
L’anarchia della Luise Michel
Perché va bene salvare i migranti in mare. Va bene cercare di evitare nuove tragedie come quelle di Cutro o come quella al largo della Libia di qualche settimana fa. Ma le regole sono regole. E vanno rispettate. Per questo l’autorità marittima di Lampedusa ha messo le ganasce alla Louise Michel, la nave disegnata e finanziata da Bansky, ispirata ai valori del femminismo e antirazzismo ma dai comportamenti che – a giudicare dal comunicato della Guardia Costiera – sanno un po’ di “anarchia”. La nave è arrivata sabato nell’isola con a bordo 178 migranti soccorso su quattro diverse imbarcazioni. Il primo evento di soccorso è avvenuto in area Sar libica, gli altri tre in area Sar maltese. In base all’ultimo decreto legge varato dal governo Meloni, alla Ong era stato indicato il porto di Trapani come base di sbarco subito dopo il primo soccorso avvenuto in acque libiche. Ignorato l’ordine, spiega l’Imrcc di Roma, la Louise Michel ha fatto rotto verso “altre 3 unità di migranti sulle quali, peraltro, sotto il coordinamento di IMRCC Roma, stavano già dirigendo in soccorso i mezzi della Guardia Costiera italiana”.
Il duro comunicato della Guardia Costiera
Già questo basterebbe per mandare su tutte le furie qualsiasi comandante. Figuratevi poi se alla Ong era stato impartito l’ordine di evitare di far salire a bordo un numero eccessivo di migranti. Il motivo è semplice: la Louise Michel è una imbarcazione piccola, inadatta al trasporto di troppe persone in sicurezza. Se si fosse limitata a caricare a bordo solo i primi migranti soccorso avrebbe potuto raggiungere in tranquillità Trapani. “La non osservanza delle disposizioni – scrive la Guardia Costiera – ha rallentato il raggiungimento di un porto di sbarco per i migranti salvati nel primo intervento, inizialmente individuato in quello di Trapani dal Ministero dell’Interno, inducendo così a ridisegnare la decisione in modo da far convergere l’arrivo della Ong, per motivi di sicurezza e di urgenza, nel porto di Lampedusa, già peraltro sollecitato dai numerosi arrivi di migranti di questi ultimi giorni”. L’isola è allo stremo: a fronte di un hotspot di 400 posti sono presenti circa 2mila migranti. Portarli al porto di Trapani sarebbe stata opera meritoria, per quanto il viaggio sia più lungo.
L’ira contro Ocean Viking
Altro giro, altra corsa. Ieri la Guardia Costiera ha sparato a pallettoni (sempre figurati, s’intende) anche contro la Ocean Viking, la nave di Sos Mediterranee. Al comportamento “anarchico” della Luise Michel “che già di per sé complicava il delicato lavoro di coordinamento dei soccorsi”, vanno poi sommate anche “le continue chiamate dei mezzi aerei ONG che hanno sovraccaricato i sistemi di comunicazione” che si sovrapponevano e duplicavano “le segnalazioni dei già presenti assetti aerei dello Stato”. Insomma: un gran casino, come può già essere il coordinamento di salvataggi in mare, peggiorato dalle continue telefonate delle Ong. “Allo stesso modo, l’episodio citato da Ocean Viking e riferito ai presunti spari della guardia costiera libica avvenuto in area Sar ricadente nella responsabilità di un altro centro di coordinamento nazionale, non veniva riportato al Paese di bandiera come sarebbe previsto dalle norme sulla sicurezza della navigazione, bensì al centro di coordinamento italiano, in modo continuativo, finendo anche questo col sovraccaricare l’IMRCC in momenti particolarmente intensivi di soccorsi in atto”.
Ora, bisogna tenere a mente che il rapporto tra Ong e Guardia Costiera si è un tantino incrinato negli ultimi tempi. Dopo la strage di Cutro, e le continue accuse ai guardiacosta di non aver avviato l’operazione Sar in tempo, più volte i comandanti dei nostri marinai hanno chiesto di rispettare il lavoro portato avanti ogni giorno dalle nostre motovedette. Per non parlare del successivo naufragio al largo della Libia, pure questo addossato all’Italia benché fosse in area di competenza di un Paese straniero. Solo nel fine settimana la Guardia Costiera italiana ha soccorso 3.300 persone coordinando 58 imbarcazioni, come sempre fatto. Un lavoro che – a giudicare dal comunicato stampa di ieri – senza il caos generato dalle Ong verrebbe pure meglio. Non a caso la Procura di Agrigento secondo l’Ansa potrebbe interessarsi al caso e indagare sul presunto “intralcio ai soccorsi” a causa delle “continue chiamate dei mezzi arei delle Ong” che sovraccaricano i sistemi di comunicazione italiani.
Sbarchi continui e Ong sotto accusa. "Le loro chiamate frenano i soccorsi". Le carte in Procura. Le Ong intralciano le operazioni della Guardia costiera e continuano a fare quello che vogliono in mezzo al mare piangendo il morto se poi le loro navi vengono bloccate in porto. Fausto Biloslavo il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.
Le Ong intralciano le operazioni della Guardia costiera e continuano a fare quello che vogliono in mezzo al mare piangendo il morto se poi le loro navi vengono bloccate in porto. Dalla Tunisia continua ad arrivare il grosso del flusso dei migranti con l'appoggio dei pescherecci locali che lanciano le richieste di soccorso e probabilmente servono da punto di appoggio per i barchini.
La Capitaneria di porto di Lampedusa ha fermato ieri la nave Louise Michel finanziata dal misterioso Banksy, l'artista di strada super amato dai radical chic. In una nota la Guardia costiera denuncia che la piccola unità navale avrebbe dovuto recarsi a Trapani, come stabilito dal Viminale, in seguito al recupero in mare di una settantina di migranti. «Dopo aver effettuato il primo intervento di soccorso in acque libiche, contravveniva all'impartita disposizione di raggiungere il porto di Trapani - si legge nel comunicato - dirigendo invece su altre 3 unità di migranti sulle quali, peraltro, stavano già arrivando i mezzi della Guardia Costiera italiana».
Chi è in prima linea sul mare fa notare che «se autorizzati è possibile effettuare più salvataggi, ma in coordinamento con il Centro di soccorso di Roma». La nave batte bandiera tedesca ed il nome si ispira ad un'eroina anarchica francese. Sul sito dei talebani dell'accoglienza si specifica che l'operazione mira a «combinare il salvataggio con i principi del femminismo, dell'antirazzismo e dell'antifascismo».
Louise Michel ha platealmente violato il decreto sull'immigrazione e soccorso in mare del nuovo governo. «Le disposizioni impartite alla nave Ong, valutate le sue piccole dimensioni, erano altresì tese a evitare che la stessa prendesse a bordo un numero di persone tale da pregiudicare sia la sua sicurezza che quella delle imbarcazioni di migranti a cui avrebbe prestato soccorso» spiega la Guardia costiera. Non solo: le Ong del mare, che vogliono sostituirsi agli Stati per aiutare i migranti illegali ad arrivare in Italia, stanno intralciando le operazioni. «L'aereo Seabird ha bombardato il Centro di soccorso di segnalazioni dei barchini in mare. Si rischiano duplicazioni di avvistamenti sovrapponendosi ad altri assetti governativi creando confusione in operazioni delicate» spiega la fonte del Giornale.
Anche i documenti di bordo della nave Life support di Emergency, che si sta dirigendo verso il porto assegnato di Ortona con il suo carico di migranti, verranno controllati per capire se ha violato o meno il decreto Ong. La procura di Agrigento si occuperà della nave di Banksy e dell'intralcio alle operazioni segnalato della Guardia costiera. Dalla Tunisia continua il boom degli arrivi, soprattutto di sub sahariani, che possono entrare nel paese senza visto per novanta giorni. E pagando appena 600 euro in dinari locali si imbarcano su una bagnarola di ferro verso l'Italia. «Più che navi madre il fondato sospetto è che siano coinvolti nel traffico, come punto di appoggio, i pescherecci tunisini. Sia per supporto nella navigazione, sosta in caso di difficoltà e recupero dei barchini e dei motori fuori bordo» rivela una fonte in prima linea sul mare. E aggiunge: «Non è un caso che il 60-70% dei barchini vengono intercettati grazi ai mayday di soccorso lanciati dai pescherecci tunisini». Domani inizia la visita a Tunisi del Commissario europeo, Paolo Gentiloni e a fine aprile arriverà il ministro dell'Interno Matteo Piatendosi con l'omologo francese Gerald Darmanin. Sul tappeto l'addestramento delle forze tunisine impegnate nel contrasto all'immigrazione illegale, consiglieri, mezzi e aiuti finanziari.
Il processo e il dito medio: quando Pia Klemp "disobbidì" a Salvini. Le provocazioni delle Ong all'Italia partono da lontano e la stessa Pia Klemp, ora fermata con la Louise Michel, se n'è fatta porta bandiera da anni. Francesca Galici il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.
La nave Louise Michel è stata fermata al porto di Lampedusa per la violazione del decreto Piantedosi. A comunicarlo è stata la guardia costiera dopo le verifiche effettuate con l'Imrcc Roma, che hanno rilevato comportamenti non lineari con quanto dispone la norma. In particolare, spiegano le autorità, dopo aver effettuato il primo intervento di soccorso in acque libiche, come riporta la Guardia costiera, ha contravvenuto "all'impartita disposizione di raggiungere il porto di Trapani, dirigendo invece su altre tre unità di migranti sulle quali, peraltro, sotto il coordinamento di Imrcc Roma, stavano già dirigendo in soccorso i mezzi della Guardia costiera italiana". L'operato del capitano della Ong ha di fatto causato una serie di conseguenze a catena che hanno inciso sull'organizzazione dei soccorsi da parte dell'Italia. Ai comandi del motoscafo Louise Michel c'è Pia Klemp, un nome ben noto nel nostro Paese, perché già al centro di azioni di disobbedienza contro le autorità nell'ambito della gestione dei migranti. "Non vedo il salvataggio in mare come un’azione umanitaria ma come una forma di lotta antifascista", dichiarà al Guardian.
Sequestrata una nave delle Ong "Favorì l'arrivo dei clandestini"
Pia Klemp è il capitano della nave dal 2019, da quando è stata messa in mare per la prima volta dall'artista Bansky per le operazioni nel Mediterraneo centrale. Ha una lunga esperienza in questo settore, avendo già operato su navi come la Sea-Watch la Iuventa. E risale proprio al periodo in cui stava ai comandi di questa seconda imbarcazione, nel 2017, il procedimento a suo carico, che si trova ora nelle fasi dell'udienza preliminare. Per lei l'accusa è di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. A causa del suo operato, la nave Iuventa è stata sequestrata dalla procura di Trapani al largo delle coste di Lampedusa.
Il sequestro della nave è per un filone di indagine che è partito nel 2016 e che ha portato gli investigatori a "raccogliere elementi indiziari in ordine all’utilizzo della motonave 'Iuventa' per condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina". Così si leggeva nella nota della questura e della procura di Trapani. Pia Klemp prosegue, comunque, le sue attività a bordo delle Ong. Nel 2019, intervistata da un magazine tedesco, il capitano, che era appena salito ai comandi della Louise Michel, dedicò il dito medio a Matteo Salvini, allora ministro degli Interni e fautore di una politica stringente sulle Ong. Le provocazioni di Pia Klemp, che da molti viene associata a Carola Rackete, contro l'Italia, mettono le radici molti anni fa e quanto accaduto con la Louise Michel si va ad aggiungere a tutto il resto, diventando l'ennesimo manifesto di un atteggiamento irrisorio da parte di queste organizzazioni nei confronti della sovranità del nostro Paese.
"C'è posto per tutti, venite". Il messaggio del clandestino inviato dopo lo sbarco a Lampedusa. Francesca Galici il 15 Marzo 2023 su Il Giornale
Uno dei clandestini appena arrivati in Italia spinge i suoi "fratelli" alla partenza per Lampedusa, dove sono in corso evacuazioni d'emergenza
Esclusiva
Nelle ultime settimane in Italia si è assistito a un incremento elevato degli arrivi, in particolare a Lampedusa, figli dell'aumento delle partenze dalla Tunisia che, stando ai rapporti del Viminale, hanno superato quelle dalla Libia. Sui barchini, spesso in metallo, che lasciano le coste di Sfax e di altre città costiere prospicienti la piccola isola italiana non ci sono solo tunisini ma si tratta per la maggior parte di migranti subsahariani. Nelle chat dei facilitatori di "convogli" non sono rari gli annunci in cui si specifica che non sono ammessi tunisini a bordo delle carrette del mare, probabilmente in risposta a quanto sta accadendo nel Paese di Kaïs Saïed.
"Bussola o app?". Così i migranti si nascondono durante il viaggio
In Italia "c'è posto per tutti"
In una di queste chat, impegnato in una discussione su quale sistema di guida sia meglio a bordo dei barchini, abbiamo incrociato anche un migrante che, almeno stando alle sue parole, ora si trova in Italia. Sarebbe arrivato a Lampedusa con gli sbarchi degli scorsi giorni e sembra entusiasta di quello che ha trovato nel nostro Paese. Con gli altri partecipanti alla chat, che a differenza sua si trovano ancora in Tunisia in attesa del "convoglio" giusto per raggiungere l'Italia discute del miglior modo per non farsi tracciare dalla marina tunisina in acque territoriali e di come non perdere l'orientamento durante la navigazione per arrivare rapidamente in Italia. Nel corso di quella conversazione si è interfacciato anche con un partecipante che ha raccontato di non essere riuscito a partire ma di voler raggiungere l'Italia.
A lui, con grande semplicità, il migrante già in Italia replica: "Preghiamo per voi che siete rimasti lì. C'è posto per tutti, venite". Davanti alle immagini che arrivano dall'hotspot di Lampedusa al collasso e agli sforzi immani che sta compiendo il nostro Paese tra navi e aerei militari impiegati per i trasferimenti, oltre che personale dislocato per le emergenze, stona leggere che uno dei migranti che ne sta usufruendo inviti gli altri a partire perché in Italia "c'è posto per tutti". In questi giorni fervono i preparativi per nuove partenze, che ritardano solo per le non ottimali condizioni meteo.
Le case dei migranti e i giubbotti di salvataggio
Da quanto abbiamo avuto modo di appurare, i facilitatori raggruppano i migranti pronti a partire in abitazioni, spesso fatiscenti, non lontane dalla costa in cambio di qualche centinaio di dinari, finché non sopraggiungono le condizioni per la partenza. Qui vengono anche ospitate le donne, che se non dispongono del denaro sufficiente per la traversata, se vogliono imbarcarsi devono concedersi carnalmente ai facilitatori. "Smettila di voler dormire con tutte le ragazze solo perché organizzi il viaggio. Non è degno, cerca una donna, è meglio", scrive un utente rivolgendosi all'organizzatore che, senza fare una piega, replica: "Questo ha fumato erba stamattina [...] finché non è stupro è legale davanti alla legge".
Tra chi lo difende perché "è uomo ed è fatto di carne" e chi lo implora perché "per favore, ho anche mia moglie che viene lì", c'è chi mette in guardia: "Le ragazze evitino di andare a Sousse senza i soldi per il movimento, altrimenti il loro corpo ne soffrirà". Abbiamo anche scoperto che ci sono casi in cui le camere d'aria o, per chi se li può permette, i giubbotti di salvataggio vengono venduti a parte. Al costo della partenza, per avere quella minima percezione in più di sicurezza, i migranti devono quindi aggiungere ulteriori costi da versare ai trafficanti e a tutto l'indotto che specula su questo business della morte.
Dal tracking navale alle app "amiche": partenze organizzate monitorando le mosse delle Ong. Il tracking usato per trovare la posizione delle Ong. E l'ira dei trafficanti quando queste navi sono lontane. E sulla pagina "Amici di Ocean Vicking" vengono organizzati i viaggi. Francesca Galici il 15 Marzo 2023 su Il Giornale
Esclusiva
La narrazione secondo la quale lea presenza delle Ong non hanno alcuna influenza sulle partenze dei migranti, in particolare dalla Libia, non regge più. Probabilmente non ha mai retto, se non agli occhi dei soliti propagandisti dell'immigrazione, che vorrebbero l'Italia, e solo l'Italia, aperta a qualunque tipo di sbarco, e trasformata in un hub per stranieri. Le accuse che in questi giorni piovono sul nostro Paese per il naufragio al largo della Libia, poi, completano un quadro distopico che vede l'Italia responsabile di qualunque evento nel mar Mediterraneo, nonostante non sia l'unico Paese che vi si affaccia. Ma sull'influenza delle Ong sui viaggi della speranza a bordo di barchini precari, inabili anche solo a galleggiare, non è difficile trovare traccia dall'altra parte del mare, nelle conversazioni di chi organizza le traversate e di chi si prepara a compierle.
Continuando la nostra ricerca nei siti e sui gruppi social dedicati all'immigrazione illegale, compiuta alla luce del giorno, ci siamo imbattuti in un post molto particolare. Le traversate hanno ripreso vigore nelle ultime settimane, complice il bel tempo e l'imminente inizio del Ramadan, durante il quale i praticanti non effettueranno i viaggi. Ciò, per le leggi dei grandi numeri, ha portato a numerosi incidenti in mare. Naufragi che hanno causato decine di morti e di dispersi. Se nel nostro Paese c'è indignazione, dall'altra parte del Mediterraneo c’è molta rabbia. Il motivo? Non ci sono le navi delle Ong, quindi manca la percezione di sicurezza. Il messaggio che abbiamo trovato, d'altronde, parla chiaro: "Non ci sono navi di salvataggio in mare ma avete davvero 'lanciato' la gente. I corsari della Libia...". È stato accompagnato da un barchino in legno in fiamme, probabilmente un'immagine di repertorio, utilizzata per rendere l’idea di quanto accade senza l’intervento degli equipaggi delle Ong.
Effettivamente, in questi giorni le navi delle Ong sono tutte in porto e non attive sulla rotta che solitamente viene battuta. L'unica sottoposta a fermo amministrativo per violazione del decreto è la Geo Barents, le altre teoricamente potrebbero operare ma sono comunque ferme. Quel messaggio lasciato sui social è esemplare di quello che accade in Nordafrica e involontariamente suggerisce che le navi Ong sono realmente un fattore di pull-factor. Tra i vari post troviamo poi gli annunci che riferiscono sull'inizio delle missioni delle varie navi
E che siano un elemento di garanzia lo si evince anche dal fatto che, come abbiamo avuto modo di appurare, nei telefoni dei migranti sono installate le applicazioni di tracking marittimo, che permettono di individuare la posizione delle navi in tempo reale, quindi anche quella delle Ong, per verificare quando saranno nei pressi della Libia ed effettuare i “lanci” con maggiore sicurezza. "Dio li punirà", risponde qualcuno nei commenti, sottolineando la malafede di chi mette in pericolo i migranti quando mancano le navi del soccorso civile.
Nel corso della nostra ricerca abbiamo avuto modo di percepire la reale influenza che le Ong hanno nell'immaginario collettivo al di là del Mediterraneo anche imbattendoci in una pagina che si chiama "Amici della Ocean Viking in Europa". Scorrendo tra i post pubblicati ne abbiamo anche trovati alcuni di recente condivisione che propongono partenze per l'Italia prima dell'inizio del Ramadan, anche se non sono previste missioni delle Ong nell’immediato futuro.
C’è il numero di telefono da contattare per prendere accordi prima della partenza, ci sono le foto dei motori impiegati e della barca che dovrà ospitare i migranti, un piccolo peschereccio ben più grande rispetto a quelle utilizzate in Tunisia. Tra le foto c'è anche un grande motoscafo, con ben due motori da 100 cavalli ognuno: ora, dire con certezza che sarà una delle barche impiegate per il trasporto nei migranti è impossibile ma, considerando anche i video che circolano su quelle stesse pagine e quanto fino a oggi noto, non è escluso che si tratti di una "nave madre" utilizzata per portare i migranti fuori dalla Libia quanto più vicino possibile alle coste italiane.
Estratto dell'articolo di Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 2 febbraio 2023.
[…] Sean Penn, allergico allo star system, è riuscito – attraverso una carriera lunga più di quarant’anni – a diventare una delle star più pagate, e più premiate: ha vinto due Oscar come migliore attore protagonista, onore riservato a un club ristrettissimo […]
Da oltre un ventennio si dedica anche alla solidarietà (oltre che alla letteratura: ha scritto un romanzo non benissimo recensito): la recitazione gli sta stretta. Nel 2010 ha fondato Core (Community Organized Relief Effort), non profit che dal terremoto di Haiti di quell’anno in poi si è attivata in varie emergenze, e durante l’emergenza Covid ha avuto un ruolo di primissimo piano nella somministrazione di vaccini in California.
Ora però Bloomberg Businessweek, in un lunghissimo e documentato servizio, accusa Core di inefficienze, gestione sgangherata dei fondi, e di aver ignorato un problema di molestie. Per esempio il party di Penn al Soho Beach House, un club privato di Miami Beach, l’anno scorso durante Art Basel (c’erano Leonardo DiCaprio, Anitta e Delphine Arnault) ha raccolto 1,6 milioni di dollari per Core. […]
Secondo i documenti interni visti da Bloomberg Businessweek l’amministratore delegato Ann Lee, ha ripetutamente comunicato internamente che l’organizzazione non profit potrebbe invece utilizzare i fondi per altri progetti, fuori dal Brasile.
Trentotto dipendenti di Core sentiti dalla rivista affermano di aver dovuto passare mesi a incitare i loro capi a inviare il denaro come promesso in Brasile. Alla richiesta di chiarimenti, un portavoce di Core ha affermato che il denaro raccolto all’evento Art Basel è stato inviato alle destinazioni previste «in tutta la regione». Ma una e-mail mostra che dell’incasso dell’evento, Core non ha speso un dollaro per il Covid in Brasile. […]
L’indagine di Businessweek mostra che Core ha restituito aiuti ai donatori perché non aveva personale per gestirle. Accusano anche la charity di Penn di «una gestione disinvolta di sovvenzioni federali multimilionarie» e di avere omesso informazioni sul modo in cui spende i suoi soldi nei suoi moduli fiscali».
I dipendenti affermano inoltre che le accuse di violenza sessuale e molestie da parte del personale e dei partner di Core non sono state prese in considerazione, e che molti di coloro che hanno parlato hanno subito ritorsioni e poi intentato cause di lavoro.
Il chief business officer Matt O’Connell ha detto alla rivista che Core «ha affrontato adeguatamente tutte le denunce di cattiva condotta sessuale» e nega le accuse dei dipendenti secondo cui avrebbe gestito male i fondi dei donatori. Ma riconosce che l’operazione è cresciuta troppo velocemente e ha avuto problemi a gestirne le finanze […]
Dissequestrato un milione di euro alla coop Costruiamo Insieme a Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Luglio 2023
La cooperativa tarantina Costruiamo Insieme , attualmente indagata, ha gestito negli anni che vanno dal 2015 al 2018 sette centri di accoglienza straordinaria per lo più nel tarantino e nel barese (a Bitonto e Modugno) attività per la quale ha incassato dalla Prefettura di Taranto e da quella di Bari la somma 16,5 milioni di euro .
Militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Taranto guidati dal colonnello Valerio Bovenga hanno dato esecuzione a un decreto di sequestro preventivo di disponibilità finanziarie, per un importo complessivo di oltre 1 milione di euro. Il provvedimento cautelare in questione, emesso dal Gip dr. Francesco Maccagnano del Tribunale di Taranto, su richiesta di adozione avanzata dalla pm dr.ssa Marzia Castiglia della Procura della Repubblica locale, rappresenta l’epilogo di complesse attività investigative condotte dalle Fiamme Gialle tarantine a partire dal 2021 nei confronti dalla società cooperativa Costruiamo Insieme che ha sede legale in via Cavallotti 84 a Taranto.
4 persone sono indagate per l’ipotesi di reato di appropriazione indebita: la presidente della cooperativa Nicole Sansonetti, di 52 anni, del vicepresidente Felice Guarino di 53 anni, Chiara Castello di 53 anni ed Alberto Durante di 66 anni, soci sino al marzo del 2017. All’esito delle investigazioni svolte è emerso che gli indagati, tra il 2017 e il 2018, avrebbero ricevuto dalla cooperativa Costruiamo Insieme che opera a Taranto nel settore dell’assistenza agli immigrati, somme di denaro a titolo di “anticipazioni”, per un importo di oltre 1 milione di euro, apparentemente mai reinvestite nell’attività del soggetto economico. Il credito accumulato dalla cooperativa nei confronti dei soci sarebbe stato successivamente compensato mediante il riconoscimento in favore dei beneficiari di ingenti e ingiustificati ristorni.
Inoltre risulta che la cooperativa Costruiamo Insieme ha utilizzato i fondi societari per acquistare un’appartamento a Milano del valore di 250mila euro che non è mai stato utilizzato per i fini sociali per i quali è stata costituita la cooperativa. Ma non solo. Acquistata anche una villa nel villaggio residenziale “Riva dei Tessali” a Castellaneta Marina, ed una masseria a Martina Franca.
Attualmente la cooperativa Costruiamo Insieme è inattiva e risulta aver ceduto la sede del centro d’accoglienza tarantino alla cooperativa barese Lavoriamo Insieme che secondo gli investigatori delle Fiamme Gialle potrebbe essere controllata dagli stessi indagati, e che peraltro si occupa prevalentemente di progettazione, l’erogazione e la gestione di servizi socio-educativi diurni per minori e famiglie, e che nel 2016 ha ottenuto l’ autorizzazione definitiva al funzionamento della Comunità Alloggio per Gestanti e Madri con Figli a Carico “OIKOS”(ai sensi della L. R. 19/2006 e s.m.i.), con determinazione del Comune di Bari.
La cooperativa tarantina Costruiamo Insieme , attualmente sotto indagine, ha gestito negli anni che vanno dal 2015 al 2018 sette centri di accoglienza straordinaria per lo più nel tarantino e nel barese (a Bitonto e Modugno) attività per la quale ha incassato dalla Prefettura di Taranto e da quella di Bari la somma 16,5 milioni di euro .
L’attività di questo genere di cooperative si basa sull’aggiudicazione di bandi pubblici delle Prefetture a cui fa seguito l’accoglienza ed assistenza degli immigrati da ospitare nelle strutture idonee. L’ultimo bilancio disponibile della cooperativa Costruiamo Insieme è quello relativo all’esercizio chiuso al 31 dicembre 2019, che riporta una perdita pari a 2,7milioni di euro. Nei due anni precedenti, cioè 2017-2018 le attività societarie avevano riportato utili per un totale di oltre 5 milioni di euro.
Una circostanza controversa è che la cooperativa indagata, seppure risulta “inattiva” alla luce degli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza, sul proprio sito e sulla pagina Facebook (vedi QUI) sembrerebbe essere attiva, l’ultimo post pubblicato è in data 16 agosto 2022, e pubblica una serie di interviste audio (che dalla voce sembrerebbero effettuate dal giornalista tarantino Claudio Frascella) che spaziano dal gruppo musicale dei Pooh al comandante della Polizia Locale di Taranto Michele Matichecchia.
AGGIORNAMENTO DEL 26.07.2023
A seguito del dissequestro disposto dal Tribunale del Riesame di Taranto, e della richiesta di archiviazione richiesta dalla Procura di Taranto nei confronti degli indagati, accolta dal Gip che ha disposto l’archiviazione e la restituzione degli atti al pm.
Redazione CdG 1947
Racket migranti, deputato di FdI denuncia tutto alla Gdf: "Così provano a corrompere i politici". Il Tempo il 02 luglio 2023
Il racket internazionale dell'immigrazione clandestina incassa milioni di euro e prova a corrompere i politici italiani. Il parlamentare di Fratelli d'Italia, Andrea Di Giuseppe, ha presentato una denuncia alla Guardia di finanza che scoperchia il business degli ingressi clandestini da Pakistan, Bangladesh, Filippine e altri Paesi asiatici. A parlarne è Libero che racconta la vicenda che parte dal marzo scorso, quando Di Giuseppe, eletto nella circoscrizione del Centro-Nord America con FdI, sporge una denuncia al Nucleo di Polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Roma. Un ristoratore di origini bangladesi, che conosceva, gli ha chiesto "di fare da tramite con un fantomatico «Console italiano in Bangladesh» al fine di facilitare il rilascio di visti in entrata per l’Italia. L’uomo, racconta il parlamentare ai finanzieri, parla apertamente di «compravendita di visti d’ingresso»".
Di Giuseppe a quel punto inizia a registrare di nascosto con il suo iPhone la conversazione da cui emerge la proposta di corruzione e le tariffe del racket: 15mila euro per un visto di lavoro e 7mila per quello turistico. Il parlamentare incasserebbe 300mila euro subito e poi 120mila euro al mese, ma il bangladese afferma che si può arrivare a tre milioni d’incassi in un solo giorno. Dopo la conversazione, Di Giuseppe dà i file ai finanzieri e successivamente viene contattato di nuovo da membri del gruppo criminale mentre è a Miami dove ha la residenza. Ne consegue un'altra cena con analoghe proposte di corruzione, tutto nuovamente registrato e denunciato. Da questa seconda occasione, si capisce che il racket per far entrare clandestinamente in Italia e in Europa gli asiatici disposti a pagare coinvolge non solo il Bangladesh ma numerosi altri Paesi come Sri Lanka e Filippine. La Guardia di finanza indaga per metter fine al traffico grazie alla denuncia di un servitore dello Stato.
Le mani della 'ndragheta sul business dei migranti. Massimo Malpica Doppia operazione della Dda a Catanzaro e Vibo Valentia: i fermati favorivano gli sbarchi e lucravano sugli appalti. Massimo Malpica su Il Giornale l'11 Maggio 2023
Migranti e ndrangheta. Due operazioni della Dda di Catanzaro colpiscono il business criminale degli sbarchi e quello «tradizionale» delle ndrine, che avevano trovato il modo non solo di infiltrare le amministrazioni del territorio ma pure di lucrare sull'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati. La prima operazione, condotta dal Dac della Polizia e coordinata dalla Dda guidata da Nicola Gratteri, ha smantellato un'organizzazione transnazionale che trafficava esseri umani, portandoli per compensi tra i 7mila e i 15mila euro - dalla Turchia al Nord Europa, viaggiando su navi a vela e attraversando Grecia e Italia. Sono serviti quattro anni di indagini, iniziate con gli accertamenti della Gdf del 2018 su alcuni sbarchi di velieri con migranti e «capitani» russofoni, per arrivare all'arresto di 29 persone, tutte curde-irachene, accusate di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di riciclaggio del denaro incassato con il business. Soldi versati in una cassa comune a Trieste e poi trasferiti all'estero in tranche di 999 euro per non sollevare sospetti. L'organizzazione intercettava i «clienti» ad Aksaray, quartiere di Istanbul, e da qui dopo aver incassato la prima tranche (col sistema di trasferimento fondi della «Hawala», basata sull'onore e su una serie di intermediari), i migranti venivano trasferiti sui vascelli a Smirne o sulla costa greca, entrando nel Paese da Salonicco e versando ai greci la seconda parte del compenso prima di tornare in mare a Patrasso. Anche gli italiani davano una mano negli sbarchi che avvenivano nel Sud, incassando 5-600 euro per i viaggi verso il Nord Italia. Da qui, passando per Trieste o per Ventimiglia e viaggiando, a seconda delle possibilità, nascosti in camion o su treni e taxi, i migranti proseguivano per le nazioni di destinazione. Sempre che avessero, ovviamente, pagato tutta la tariffa. Altrimenti venivano bloccati finché qualche parente provvedeva al saldo. L'altra operazione, Maestrale-Carthago, vede 167 indagati e il fermo di 61 appartenenti alle famiglie ndranghetiste della provincia di Vibo Valentia. Accertate infiltrazioni nel comune di Cessaniti per «aggiustare» graduatorie di concorsi pubblici a favore di dirigenti «vicini», estorsioni a una società appaltante del servizio di raccolta rifiuti a Mileto e Briatico, il condizionamento, anche attraverso accordi corruttivi, di dirigenti medici dell'Asp di Vibo Valentia (per lucrare su appalti o per ottenere perizie compiacenti) e, appunto, l'emissione di fatture per operazioni inesistenti per raggirare per 400mila euro il sistema dell'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati nei comuni di Joppolo, Mileto e Filadelfia. Soddisfatto il governatore calabrese Roberto Occhiuto, mentre per il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi le due operazioni «confermano che il nostro sistema di sicurezza c'è e ci sarà sempre per contrastare i fenomeni criminali». Preoccupato invece il commissario del Carroccio in Calabria, Francesco Saccomanno, che rimarca come la ndrangheta sia «sempre più forte e radicata» in Calabria e in Italia, e con rapporti «profondi» in tutto il mondo. Intanto, mentre gli sbarchi superiori dal primo gennaio a oggi di quasi 4 volte rispetto allo stesso periodo degli ultimi due anni, oltre 45mila contro meno di 13mila concedono un giorno di tregua, proseguono i trasferimenti per alleggerire l'hotspot di Lampedusa: 465 dei 639 ospiti ieri erano infatti in partenza, con due voli diretti a Bologna e a Milano e con una nave partita alla volta di Porto Empedocle.
Bandi milionari e pochi controlli: le ombre dietro la gestione dei migranti minorenni. Un minore morto a Modena. Era sotto il controllo di una comunità di accoglienza. Ma stando ali atti in possesso del Giornale.it a controllare i ragazzi durante la notte c'era solo una persona. Bianca Leonardi il 9 maggio 2023 su su Il Giornale.
La tragedia di Muhammad Haram, l'immigrato ammazzato a Modena durante una rissa, riaccende i fari sul mancato controllo dei minorenni stranieri non accompagnati da parte delle comunità di accoglienza. E a finire nel mirino, a questo giro, è uno dei centri più importanti della città emiliana, la cooperativa "San Filippo Neri".
La gestione del centro
"Per anni una parte della politica ha finto che il problema immigrazione incontrollata non esistesse e abbiamo assistito al boom di un vero e proprio business legato al traffico di essere umani, spesso minori - ha dichiarato al Giornale.it il capogruppo azzurro in Consiglio comunale Piergiulio Giacobazzi - Chiedere verifiche su chi accoglie i minori è un dovere morale. Così come la massima trasparenza sulle ingenti risorse pubbliche che vengono erogate a soggetti terzi per la gestione". In questi giorni Forza Italia ha, infatti, presentato un esposto all’anticorruzione per presunte irregolarità sulla Fondazione che aveva in carico il ragazzo. Dai documenti relativi alla gestione, di cui IlGiornale.it è entrato in possesso, sembrerebbe infatti che l’organico del centro non rispettasse le normative. "Il cento per minori deve sottostare a una specifica normativa nazionale e regionale - prosegue Giacobazzi - Nello specifico l’ente che aveva in carico il minore ucciso ha confermato di avere al massimo due persone per turno per un totale di venti ospiti".
Cosa prevede la normativa
La normativa regionale prevede un rapporto di un operatore ogni sette minorenni e, per il gruppo, uno ogni sei. In pratica, nello specifico del "San Filippo Neri", come ci conferma anche il consigliere azzurro, gli operatori in servizio sarebbero dovuti essere quattro e non la metà. Ma c'è di più. "Sabato, domenica e festivi - continua Giacobazzi - il rapporto scende addirittura a un solo operatore in servizio per tutti i minori ospitati". Il fine settimana, insomma, a vigilare i minori durante tutta la giornata sembrerebbe presente un solo educatore. Stessa cosa per le notti: gli atti dimostrano come la gestione dei minori venga affidata a una sola persona. "Per il turno di notte il controllo è affidato a una guardia notturna, che è una persona qualificata, ma non un educatore".
I finanziamenti economici
Se la gestione dei minori non accompagnati sembra far acqua da tutte le parti, lo stesso non vale per i finanziamenti. "L’ultimo bando vinto dal San Filippo Neri affida 380mila euro per venti minori", racconta ancora Giacobazzi. La gestione dei minori a Modena è stata infatti affidata a quattro operatori, tra cui il "San Filippo Neri", con un accordo della durata dal primo novembre 2021 al 31 ottobre 2025. Il piano economico per quattro anni ammonta a poco più di 11 milioni di euro, passando a un rimborso giornaliero per minore da 60 euro a 100 euro. Si legge però, da un documento in possesso de IlGiornale.it, che la quota pro-capite in realtà supera anche questa soglia, addirittura raddoppiandola. Un altro centro accoglienza, uno dei più importanti e strutturati della città, fissa come rimborso per minore addirittura 250 euro al giorno. Molti soldi e poco controllo: minori lasciati soli durante la notte e se ci scappa il l'omicidio nessuno che si prenda la responsabilità.
"Ho agenti in ogni consolato". Dove arrivano davvero i documenti dei migranti. Permessi di soggiorno, visti e passaporti europei per migranti: la questura di Milano ci spiega l'origine dei documenti venduti online. Francesca Galici il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.
Il mondo dell'immigrazione clandestina ha innumerevoli sfaccettature, ognuna delle quali concorre a creare un business enorme attorno al traffico di esseri umani. Nelle scorse settimane abbiamo rivelato l'esistenza di un vero e proprio tariffario inerente la vendita di documenti europei ai migranti che si organizzano per raggiungere l'Europa. Passaporti, Visti, documenti di identità, permessi di soggiorno, patenti di guida e qualunque altro tipo di documento possa tornare utile per la vita in Europa può essere acquistato online. Siamo riusciti a ottenere il contatto diretto con un trafficante di documenti che dichiara di trovarsi in Turchia e che ci aveva già mostrato alcuni esempi di passaporti, anche italiani, che è in grado di realizzare e che è disposto a vendere per 1500 euro ma siamo riusciti a entrare in possesso anche di altri esempi di documenti, tra i quali un permesso di soggiorno apparentemente rilasciato dalla questura di Milano.
Il tariffario di documenti falsi per i migranti diretti in Italia
"Fratello mio, ho molti clienti e nessuno ha mai avuto problemi", ci dice il trafficante quando cerchiamo di capire da lui in che modo entri in possesso o produca questi documenti. Insistiamo, proviamo a farci dire come è possibile che possa vendere documenti che, effettivamente, vengono letti e riconosciuti dagli scanner. La sua risposta è spiazzante: "Ho agenti in ogni consolato, i miei affari sono regolari al 100%. Sono musulmano, non posso deluderti". Millanta contatti nelle varie ambasciate europee e negli uffici istituzionali per convincerci ad acquistare i suoi documenti. Facciamo finta di credere alla sua versione continuiamo a dialogare con lui, che continua a portare avanti la sua opera di persuasione: "Sono originali al 100%, anche con timbro di ingresso e di uscita".
Portiamo avanti la discussione su Whatsapp in arabo, quindi vogliamo essere sicuri di aver capito bene quale sia la costruzione del suo business e gli chiediamo l'ennesima conferma della sua verità. La nostra domanda è circostanziata in base alle informazioni che ci ha fornito fino a questo momento: "Hai degli agenti nelle ambasciate che ti passano i documenti veri e tu li compili?". La sua risposta è altrettanto diretta: "Esatto". Nel frattempo, abbiamo preso contatti con la questura di Milano, ossia l'amministrazione che risulta aver emesso il documento di cui abbiamo preso visione tramite il video condiviso dal trafficante.
Fatte le doverose verifiche e controlli, dalla questura ci viene spiegato che, in relazione alle immagini del permesso di soggiorno in nostro possesso, lo stesso "è certamente falso o contraffatto". Infatti, prosegue la questura, "da accertamenti esperiti dall'Ufficio Immigrazione milanese stesso, risulta esser stato emesso l'estate scorsa - da un'altra questura lombarda - un permesso avente tale numero per motivi familiari a un minorenne di nazionalità differente". La situazione, quindi, appare chiara: difficilmente il migrante che acquista questo documento riuscirebbe a spenderlo nel nostro Paese senza essere fermato.
Il tariffario di documenti falsi per i migranti diretti in Italia. Nelle chat dei trafficanti ora spunta anche un listino: carta d'identità 500 euro, per i passaporti fino a 1.500. Francesca Galici il 20 aprile 2023 su Il Giornale.
Sfogliando le chat dei migranti ci si imbatte in ogni genere di proposte. La promozione dei convogli è solo una parte del mondo che ci si è aperto quando abbiamo iniziato a monitorare le loro conversazioni. Tra i post più preoccupanti ci sono quelli dei trafficanti di documenti falsi. Abbiamo iniziato a cercare qualcosa di concreto dopo alcuni «specchietti per le allodole» e ci siamo imbattuti in un personaggio che promette qualunque tipo di documento europeo, con tanto di prova video documentale. Solo pochi giorni fa un «passeur» dalla Turchia assicurava il rilascio della «Carta blu» europea una volta arrivati in Grecia per proseguire il viaggio verso l'Italia e verso gli altri Paesi europei. Ma stavolta la posta è molto più alta.
«Per tutti gli immigrati clandestini: vi forniamo documenti europei di alta qualità a prezzi adatti a tutti», si legge nell'annuncio in arabo. Il messaggio è stato lasciato in un gruppo in cui c'è un'alta concentrazione di cittadini bangladesi che, dopo essere arrivati in Libia con i propri documenti in regola, compreso il visto per il transito da Dubai, cercano il modo di salire sui barchini illegali per raggiungere l'Italia. Il ventaglio di proposte è ampio: passaporti biometrici, certificati di residenza, carte d'identità e patenti di guida. Per queste ultime, viene anche specificato: «Senza bisogno di imparare una lingua».
Nel messaggio è presente anche un numero di telefono e decidiamo di contattare l'uomo dell'annuncio per avere maggiori informazioni sulla sua attività. Ci fingiamo interessati alla proposta e gli scriviamo un messaggio Whatsapp: come immagine profilo ha una serie di passaporti, quindi il numero che abbiamo segnato è quello giusto, nonostante ci sorprenda il fatto che il prefisso del suo numero corrisponda a un'utenza greca (+30). Gli spieghiamo che vorremmo saperne di più in merito ai documenti europei, soprattutto per quanto riguarda i costi di un passaporto italiano. La sua risposta è immediata: «Quello costa 1500 euro». Approfittando della sua disponibilità nel fornire rapidamente le informazioni di cui abbiamo bisogno, chiediamo i costi anche per gli altri documenti di cui potrebbe avere necessità un clandestino in Europa. Altrettanto velocemente otteniamo quello che sembra essere un vero e proprio listino prezzi: «Carta Visa (visto, ndr) 1200 euro; carta di identità 500 euro; patente di guida 500 euro».
Ci garantisce che «in una settimana il documento sarà nelle tue mani» e che può realizzare documenti «per ogni Paese in cui vuoi andare». Gli chiediamo dove si trova, per capire anche la provenienza della sua utenza telefonica e la sua risposta è netta: «Turchia». Anche in questo caso, come quando ci proposero la «Carta blu», il trafficante dichiara di trovarsi in quella terra di passaggio tra il Medio Oriente e l'Europa che è la Turchia. Ma per preparare il documento ha bisogno dei nostri dati. Vuole che gli inviamo: «Fotografia con sfondo bianco, fotocopia della firma, attuale indirizzo di residenza, fotocopia del passaporto in proprio possesso». Insieme a questo, chiede che venga inviato anche un anticipo per iniziare il lavoro, una sorta di acconto che crei le basi per l'accordo. A quel punto, il trafficante promette di iniziare a realizzare i documenti che gli vengono richiesti e al termine del lavoro garantisce l'invio di un video di prova in cui dimostra il funzionamento del documento (nel caso di passaporto biometrico) e la veridicità degli altri eventuali che vengono richiesti. Prima dell'invio, che ci spiega che avviene mediante un noto corriere internazionale, deve essere saldato il conto complessivo di quanto pattuito. E ci assicura: «Spediamo in qualunque Paese tu voglia». Quella che ci viene descritta è una vera e propria fabbrica di documenti europei falsi, il che apre scenari inquietanti sul giro di affari reale che si nasconde dietro l'immigrazione clandestina.
Aiuti allo sviluppo, la denuncia di Oxfam Italia: «Un aumento illusorio». Francesco Petrelli (Oxfam Italia) su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023
Sulla carta sono soldi per i Paesi più poveri, di fatto in buona parte non escono dai confini del Paese donatore. È la denuncia di Oxfam Italia, secondo cui l’aumento globale da 186 a 202 miliardi di Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) registrato lo scorso anno è solo illusorio: quasi il 30& di quei fondi servono per «costi dei rifugiati nel Paese donatore»
I dati presentati nei giorni scorsi dall’ Ocse sull’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps) europeo per il 2022 ci propongono contraddizioni e incongruenze. Secondo il quadro presentato dal Comitato Sviluppo dell’organizzazione che raggruppa gran parte dei Paesi industrializzati, tradizionali donatori, si registra un incremento dell’Aps globale del 13,6 % : da 186 miliardi di dollari nel 2021 a 204 nel 2022. La realtà è ben diversa. Di questi 204 miliardi complessivi quasi 30 sono per la voce «costi dei rifugiati nel Paese donatore», più 134% rispetto al 2021. Si tratta di risorse importanti naturalmente, ma da anni contabilizzate impropriamente nei bilanci della cooperazione, in quanto non varcano i confini del Paese donatore, coprendo la gestione delle spese di accoglienza dei richiedenti asilo. Non contribuiscono quindi alla lotta alla povertà, alla fame o a creare nei paesi del Sud globale uno sviluppo più equo e sostenibile.
Il secondo fattore fuorviante è in relazione alle risorse per la crisi umanitaria in Ucraina prodotta dalla guerra, con il più grande esodo di profughi dal secondo dopo guerra in Europa, che sono state «reindirizzate» in gran quantità dall’Aps per far fronte all’emergenza (16 miliardi dollari, pari all’8% sul totale dell’APS globale). Aiuti necessari, che dovrebbero essere addizionali, altrimenti il rischio è che gli effetti della guerra in Europa lo paghino i Paesi più poveri e fragili. Significativo che in questo quadro di aumenti quantitativi gli aiuti per l’Africa diminuiscano dell’8%.
E l’Italia non fa eccezione, se non va peggio. Il nostro Paese passa infatti dallo 0,29% del 2021 allo 0,32%del 2022 di Aps in rapporto al reddito nazionale lordo, con un aumento sulla carta del 15%, cioè da 6,085 miliardi di dollari a 6,468. Come sostiene però la stessa Ocse nei giudizi sulle tendenze dell’aiuto dei vari paesi: «Si tratta di un aumento esclusivamente dovuto alla quota dei costi dei rifugiati nel Paese donatore, senza il quale l’aiuto allo sviluppo diminuirebbe». Questi costi sono passati da 557 milioni a quasi 1 miliardo e mezzo e rappresentano il 23% del totale dell’intero Aps italiano. Certamente pesa l’aumento degli arrivi attraverso il Mediterraneo: da 67.000 nel 2021 ab104.000 nel 2022 e il reindirizzamento di 359 milioni di dollari per la crisi Ucraina. Resta però un’evidenza lampante: sono risorse non destinate ai Paesi poveri. Tutto ciò mentre, nonostante i proclami fatti su “Piani Marshall” o” Piani Mattei” gli aiuti italiani verso l’Africa si sono stati più che dimezzati, passando da 1,030 miliardi di dollari nel 2021 a 491 milioni di dollari nel 2022. Lo stesso vale per i fondi destinati ai cosiddetti Paesi a basso tasso di sviluppo (Ldc), che crollano da 925 milioni di dollari nel 2021 a 335 nel 2022».
Tra i Paesi donatori Ocse l’obiettivo dello stanziamento dello 0.70% in Aps resta un miraggio, così come il mantenimento degli impegni presi oltre 50 anni fa e ribaditi nel 2015 con l’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile. In particolare quello di raggiungere lo 0.70% rispetto al reddito nazionale lordo in aiuto allo sviluppo: si allontanano gli obiettivi di sostenibilità sociale, ambientale e di lotta alla povertà estrema, considerando che questi indicatori peggiorano in 9 Paesi su 10. Secondo le stime di Oxfam questa promessa mancata è costata ai Paesi a basso e medio reddito 6.500 miliardi di dollari dal 1970 al 2021.
Quello a cui stiamo assistendo non solo è un gioco a somma zero o negativo, ma denuncia una mancanza di visione e di assunzione di responsabilità, che mette a rischio il futuro dell’intero Pianeta. Per queste ragioni sosteniamo la Campagna 070, promossa dalle reti delle ONG italiane, nel chiedere al Governo e al Parlamento che si inverta la tendenza e si cambi rotta, a partire dalla prossima Legge di bilancio.
Delmastro, il sospetto di Chirico: "Strano doppio standard. Per anni...". Il Tempo il 29 novembre 2023
Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove è stato rinviato a giudizio dal Gup di Roma Maddalena Cipriani. Delmastro dovrà rispondere davanti al giudice monocratico del tribunale penale di piazzale Clodio, di rivelazione di segreto d’ufficio per la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis che per mesi protestò con lo sciopero della fame. Questo è stato il tema che ha acceso il dibattito a Stasera Italia, il programma di cultura e di attualità di Rete 4. Ospite in studio, Annalisa Chirico è intervenuta nel salotto di Nicola Porro e ha avanzato i suoi dubbi sul caso.
"Noi abbiamo visto per anni stralci di atti, quelli sì, secretati, delle procure, che finivano sui quotidiani italiani. Io mi ricordo che la condanna avvenne per la famosa intercettazione e per anni non abbiamo mai visto una tale sensibilità", ha detto Annalisa Chirico, dopo aver preso la parola. "Che cosa mi vuoi dire?", l'ha incalzata il conduttore del programma. "Questa polemica su Delmastro, Donzelli...mi sembra di non vivere nel Paese in cui ho vissuto negli ultimi quarant'anni, è uno strano doppio standard", ha risposto. "Così come è censurabile il magistrato che dà il colpetto al politico, è censurabile anche il comportamento del politico (inteso come Angelo Bonelli esposto contro Demastro, Salvini, ecc.. n.d.a) che vive d'inchiesta per colpire l'opposizione. Non è normale che un parlamentare viva in Procura, è un malcostume", ha concluso la giornalista.
Dynasty Soumahoro: Il bancomat migranti. di Rita Cavallaro su L'Identità il 12 Novembre 2023
Dal fango dei campi al velluto degli scranni di Montecitorio, dai pomodori arsi dal sole nelle lande desolate alle ostriche nei ristoranti gourmet in riva al mare. Dalla difesa dei diritti degli ultimi all’indifendibile diritto all’eleganza a spese degli ultimi. È la parabola della famiglia di Aboubakar Soumahoro, diventata quasi una fiction ma tragicamente reale. Tanto che la moglie e la suocera del deputato con gli stivali, Liliane Murekatete e sua madre Maria Therese Mukamitsindo, sono finite agli arresti domiciliari, accusate di aver fatto la bella vita con i soldi dell’accoglienza migranti, di aver sottratto i milioni degli appalti pubblici dalle casse della coop Karibu per spese folli. Di aver dirottato fior fior di quattrini in Ruanda, usati del cognato del deputato Richard Mutangana per aprire un minimarket, pagare la scuola di lusso ai figli e costruire un ristorante-resort a Kigali, Gusto Italiano. E ancora la casa nella via più chic di Bruxelles, che Liliane ha finemente arredato tra una seduta per le extension ciglia e lo shopping nelle boutique delle grandi firme.
Su tutto un fiume di contanti per milioni di euro svaniti nel nulla e quegli strani viaggi in Svizzera. Mentre nelle strutture della coop dell’accoglienza di Latina, che nell’ultimo decennio ha ricevuto fondi pubblici statali e europei per almeno 65 milioni di euro, i rifugiati venivano lasciati nel degrado, senza servizi di prima necessità, senza riscaldamento e con cibo scadente, mentre i lavoratori della cooperativa non ricevevano lo stipendio da due anni. Per il giudice Lady Soumahoro e i suoi hanno “mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale a gestione familiare”, con “malafede” e “condotte volontarie”, volte a distrarre più denaro possibile dalle casse delle coop e devono rispondere di frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale (per distrazione) e autoriciclaggio. Eppure di quella spregiudicatezza Aboubakar Soumahoro, che non è indagato, giura di non essersene mai accorto, nonostante la sede del suo sindacato Lega Braccianti fosse nello stesso ufficio della Karibu a Latina. Ha pianto in diretta Facebook quando, un anno fa, è scoppiato lo scandalo e le foto della sua Liliane, firmata e ingioiellata, hanno cominciato a circolare. E lui è andato in tv a difenderla, a dire che “il diritto all’eleganza, il diritto alla moda, è una libertà.
La moda non è né bianca né nera. La moda è semplicemente umana”. Umanamente il diritto all’eleganza di Lady Soumahoro, non costituzionalmente garantito come il diritto alla dignità degli ultimi e quello al lavoro degli sfruttati che il deputato di sinistra ha sempre sbandierato, è tracciato nella mappa del lusso contenuta nelle centinaia di pagine di sottrazioni, per almeno due milioni di euro, perpetrate tra il 2017 e il 2022 sui conti correnti e sulle carte di credito della coop. L’eleganza di Lady Soumahoro nel vestire, con abiti di Ferragamo da 1.990 euro spesi nella boutique di Roma il 2 dicembre 2018 o i 1.260 pagati da Cannella a Latina. L’eleganza in camera da letto, con 700 euro da Intimissimi il 21 aprile 2018. L’eleganza del corpo, in un salone di bellezza ad Assisi (150 euro) e un profumo da 298,90. L’eleganza dello spirito, tra hotel di lusso in giro per il mondo e ristoranti gourmet. Per un quattro stelle in Ruanda, il primo gennaio 2018 sono stati sottratti alle spese per il cibo dei migranti 2.140 euro. Sempre in Ruanda, all’enoteca Tiani’s, sono stati strisciati 2.148,66 euro mentre all’Ecco Restaurant di Drummoyne, in Australia, il 4 marzo 2020 la cena è costata 364,70 euro. Il mese prima, a febbraio, la carta della suocera di Soumahoro, che la ricaricava spostando denaro dal conto Karibu, è stata utilizzata, nel lockdown da Covid, per cinque cene costosissime al ristorante del figlio: 5.857,63 euro.
Mutangana, tra il 2017 e il 2019, solo sulla sua prepagata ha spostato oltre 210mila euro, mentre alla Jambo, società satellite della Karibu, ne ha dirottati 922.095. Un giro d’affari enorme, che ha spinto Mukamitsindo a sbarcare a Bruxelles, per fare business sui migranti anche in Ue. A Ixelles, l’8 febbraio 2019, ha costituito la Karibuni, una gemella della Karibu, con il giornalista ruandese Roger Henri Dèsirè N’zouzi e ha preso a Liliane il lussuoso appartamento in Avenue Louise, come dimostra il bonifico del 14 luglio 2019, di euro 4.442,57, giustificato come “costi progetto internazionalizzazione” ma con causale “rata PV DV/21914 8 4 Matis Chantal/Murekatete Liliane” proprio per Avenue Louise. La stessa cifra bonificata dalla Karibu con la medesima causale dieci giorni dopo e ancora 4.500 euro per “Matis Chantal/Murekatete affitto” il 25 agosto. E mentre Liliane faceva la vita dorata con i soldi dei migranti, Aboubakar lottava contro il caporalato a Torretta Antonacci, in Puglia. Lui che era partito dal basso, da sindacalista dell’Usb al vertice della Lega Braccianti, fino a difensore degli ultimi in tv e all’ascesa a simbolo della sinistra di Fratoianni e Bonelli, che l’hanno portato in Parlamento.
Lui ci è andato con gli stivali e il pugno chiuso. Ma l’esordio nei palazzi del potere non ha impressionato i suoi ex colleghi, che hanno denunciato ammanchi da una raccolta fondi per i bimbi dei ghetti del foggiano, oggetto di accertamenti della Procura. Di fronte alle illazioni su come avesse acquistato la villa di Casal Palocco, pagata 360mila euro a giugno 2022, con un mutuo da 264mila e il restante in parte dal parlamentare e in parte da Liliane, Aboubakar ha farfugliato degli introiti del suo libro. Che però non è stato un bestseller.
(In)giustizia patria. L’ipocrisia del caso Soumahoro nel paese che non rispetta i diritti dei migranti. Iuri Maria Prado su Linkiesta il 7 Novembre 2023
L’illecito sui fondi elettorali del deputato correda una vicenda giudiziaria e mediatica che sembra incoerente in un’Italia già condannata più volte per gravissime violazioni congenite nella sua politica di accoglienza
E così lo sfoglio della cipolla ha portato al nucleo malandrino, e questa volta personale, di Aboubakar Soumahoro: che non deve più vedersela con le borsette di lusso della moglie, con i mastruzzi della suocera, con il resort in Ruanda in difetto di Tari e con le mutande griffate della prozia. No, adesso il trionfo della legalità repubblicana sul «talentuoso ivoriano» (così, preveggente, lo definiva la stampa coi fiocchi già sul nascere del “caso”) avviene non più per via parentale ma tramite l’investigazione del contegno pre-elettorale del candidato, cui si addebitano erroneità di rendicontazione e giustificativi di spesa improbabili.
Il tutto, ovviamente, a guarnizione della più generale e squalificante accusa: già scodellata un anno fa ma ora rinvigorita dalle notizie sui provvedimenti cautelari ai danni della cerchia familiare e, appunto, sull’avvio di un procedimento che potrebbe condurre alla destituzione parlamentare del deputato con gli stivali ‘ncretati. Quale accusa? Di aver fatto bensì carriera nel nome e sulla pelle dei migranti: ma appunto, e oltretutto, in questo modo increscioso, e cioè chiudendo gli occhi sulle creste che la guapa in Vuitton faceva sui soldi destinati ai poveretti e poi, lui stesso, finanziando la campagna elettorale con i blood-santini che gli hanno assicurato il seggio.
È una provvidenza, insomma, che la giustizia giornalistica prima, e ora quella tribunalizia, facciano piazza pulita del clan Soumahoro: una provvidenza per la legalità e per la pubblica economia e, soprattutto, una benedizione per i migranti i quali, sottratti alle angherie di quella banda, potranno tornare a essere trattati con ogni cura com’è successo sempre e ovunque in questo Paese.
Un solo particolare, in questo quadro di giustizia in via di ripristino, è incoerente. Ed è questo: che già solo prendendo quest’ultimo anno, già solo considerando quel che è successo nei fatti (sulla stampa, no) da quando è scoppiato “il caso Soumahoro”, la Repubblica italiana è stata condannata non si sa più quante volte dalla giustizia europea e domestica per essersi resa colpevole di gravissime violazioni dei diritti dei migranti, le violazioni di cui non si parla perché non le ha commesse una furbacchiona di colore ma il sistema carcerario in cui consiste la politica di accoglienza secondo il protocollo nazionale.
Il bovero negro issato sul palco Ruspa&Ordine per fargli dire che i Soumahoro non lo pagavano va naturalmente benissimo: non altrettanto il ragazzino di tredici anni sbattuto, in violazione di qualsiasi regola, in strutture inadatte e dedicate ai grandi; non altrettanto il ventenne, qui da quando ne aveva quindici, che ha preso a studiare e a lavorare regolarmente ma deve essere rispedito in Tunisia perché, se rimane, va a rotoli la sicurezza del Paese; non altrettanto le centinaia, le migliaia di immigrati che senza nessuna sollevazione della stampa investigativa condividono residenze di fango e lamiera con eserciti di blatte e pantegane, ma accidenti senza poter lamentare che quel degrado è il frutto degli sperperi del manipolo di affamatori in ghingheri. Ma sono dettagli, e il punto è un altro. Come si permetteva questo qui di maltrattare gli immigrati? Era forse di ceppo italico?
Fondi, le cinque anomalie di Soumahoro. E per le toghe è uno "smemorato seriale". La Giunta attende la Corte prima di avviare la decadenza. Fi: "A parti inverse..." Pasquale Napolitano il 9 Novembre 2023 su Il Giornale.
Uno «smemorato seriale»: è l'identikit che i giudici della Corte di Appello di Bologna fanno del deputato Aboubakar Soumahoro nella contestazione, inviata alla Camera dei deputati, sulle rendicontazioni delle spese per l'ultima campagna elettorale per le Politiche nell'anno 2022. Le «amnesie» dell'idolo della sinistra sono numerose. E singolari - secondo quanto scrivono i giudici appaiono anche le giustificazioni fornite da Soumahoro. I magistrati mettono in fila tutte i «vuoti» di «memoria». E di legge.
Primo: il parlamentare dimentica di attivare un conto corrente per la raccolta di eventuali fondi per la campagna elettorale. Eppure la legge lo impone. È chiaro. Ma Soumahoro lo dimentica.
Secondo: il deputato ignora l'obbligo di fornire alla Corte di Appello il nominativo del mandatario elettorale, figura chiave in una campagna elettorale. Lo farà solo nel gennaio 2023, ad elezioni concluse. Un vero e proprio record.
Terzo: alla fine della competizione elettorale nella documentazione consegnata alla Corte dei Conti manca l'estratto conto dal quale è possibile evincere entrate e uscite delle spese elettorali. Soumahoro depositerà una semplice lista movimenti. Dimenticando cosa, invece, richiede la normativa.
Quarto: le operazioni registrate nella lista movimenti non sono accompagnate dalle fatture che devono certificare eventuali spese elettorali.
Ed infine la quinta amnesia: il rendiconto della campagna elettorale sarà presentato solo il 24 gennaio del 2023, oltre i 90 giorni, previsti dalla legge, dalla data della proclamazione che era avvenuta il 10 ottobre 2022. Tante amnesie e vuoti di memoria che hanno spinto la Corte di Appello di Bologna ad emettere, per ora, una sanzione economica nei confronti del deputato pari a 40mila euro. Ma il vero rischio è la decadenza dalla carica. Su questo punto la giunta per le elezioni di Montecitorio ha avviato l'istruttoria. Ieri al termine delle votazioni in Aula, il caso Soumahoro è stato portato all'attenzione dell'organismo parlamentare presieduto da Federico Fornaro (Pd). L'orientamento che trapela secondo quanto apprende il Giornale sarebbe quello di «salvare» Soumahoro dalla decadenza. La giunta vorrebbe attendere l'esito del contenzioso al Tribunale di Bologna, che per ora è ancora al primo grado di giudizio, prima di adottare un'eventuale decisione nei confronti del deputato di sinistra. Un esponente di Fi della commissione scherza: «Da buoni garantisti, non condanniamo nessuno. A parti invertite sarebbe scattata la ghigliottina».
Giacomo Amadori per La Verità - Estratti mercoledì 8 novembre 2023.
I finanziamenti e le spese della campagna elettorale di Aboubakar Soumahoro sono stati, se possibile, gestiti anche peggio dei fondi della Lega braccianti, il sindacato fondato dal parlamentare di origini ivoriane.
Un pasticcio degno dei bilanci creativi delle cooperative guidate dalla suocera Marie Thérèse Mukamitsindo e dalla compagna Liliane Murekatete, arrestate con le accuse di bancarotta patrimoniale per distrazione, frode nelle pubbliche forniture e autoriciclaggio. Per questo il Collegio regionale di garanzia elettorale della Corte d’appello di Bologna (Corege, composto da 7 toghe e presieduto da Maria Cristina Salvadori) il 31 marzo scorso ha contestato ben nove violazioni che rendono molto probabile la decadenza da parlamentare di Soumahoro.
(...) Leggere le contestazioni una dietro l’altra fa una certa impressione. La prima violazione è alla legge elettorale del 1993 e riguarda la designazione del mandatario, la persona incaricata di tenere i conti della campagna. La sua nomina, per legge, deve avvenire il «giorno successivo all’indizione delle elezioni politiche».
È la prima mossa che deve fare un candidato. Ma Soumahoro sembra essersene completamente dimenticato: «La designazione» di Stefano Manicardi, consigliere comunale pd di Modena, «non risulta tempestiva e rituale. Il modulo è stato depositato nel mese di gennaio 2023 (quattro mesi dopo la proclamazione dell’elezione, ndr), privo di data, sottoscritto con firma non autenticata». L’accettazione è stata sottoscritta, questa volta con firma autenticata, il 26 gennaio scorso, «quindi ben oltre il termine». Anche la dichiarazione e il rendiconto sono stati trasmessi fuori tempo massimo il 24 gennaio 2023 e integrati il 3 febbraio e «quindi oltre il termine di tre mesi dalla proclamazione avvenuta il 10 ottobre 2022». In più «non sono stati indicati gli erogatori dei contributi».
L’accusa principale è, però, un’altra: «Non risulta aperto alcun conto bancario e/o postale destinato alla raccolta fondi, avendo il candidato utilizzato una carta Postepay intestata a Manicardi», del quale, però, non era stato indicato il ruolo. Inoltre, a marzo, mancava pure «l’estratto conto, essendo stata trasmessa solo una lista movimenti della carta con l’indicazione di una serie di operazioni, l’ultima delle quali» risultava «essere stata effettuata addirittura il 10 gennaio 2023 (accredito di 800 euro)». Dunque sulla carta usata per la campagna elettorale (e colpevolmente «chiusa solo a seguito di sollecitazioni il 31 gennaio 2023») sarebbero arrivati denari anche diversi mesi dopo l’elezione. Una gestione allegra della carta confermata anche dai «prelievi in contanti per un importo di 850 euro non giustificati».
Nella lista movimenti della carta «risultano anche operazioni estranee al finanziamento della campagna elettorale», come se si trattasse di uno strumento di pagamento personale.
(...) Infatti la carta «non risulta l’unico mezzo di raccolta fondi». Per esempio dalle dichiarazioni prodotte dai tesorieri dei partiti Europa verde-Verdi e Articolo uno emerge che sono stati versati 2.000 euro al comitato elettorale del deputato e 250 euro direttamente sul sito aboubakarsoumahoro.it.
Ma la contestazione più insidiosa riguarda taluni accrediti dell’importo complessivo di euro 6.981,23 effettuati dalla società estera Stripe Tecnology Europe Ltd Spa con sede in California. A proposito di questi fondi i magistrati fanno riferimento a una possibile violazione dei commi 4 e 5 della legge sul finanziamento dei partiti, in particolare l’aggiornamento del 1981.
Essi prevedono che per i finanziamenti provenienti dall’estero sia fatta una specifica dichiarazione alla Camera di appartenenza da parte del soggetto che li percepisce. Cosa che non è accaduta. E a fronte di questa violazione, il comma 6 prevede una multa e la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che per un deputato comporta la decadenza dalla carica. A queste accuse Soumahoro ha risposto con una memoria presentata il 27 luglio 2023. In essa spiega che la firma autenticata del mandatario, «anche se inviata in lieve ritardo», «copre l’intero periodo precedente la data della consultazione elettorale e l’elezione del sottoscritto».
Lo strumento della Postapay «è stato, in buona fede, ritenuto equivalente al conto corrente» ed è, a giudizio del deputato, «altrettanto verificabile».
(...) La reprimenda si fa dura: «Aboubakar non solo ha violato la norma che impone l’apertura del conto quale unico strumento specificamente individuato dal legislatore idoneo a garantire la trasparenza delle fonti di finanziamento», ma «ha raccolto fondi utilizzando una pluralità di strumenti (peraltro neppure correttamente e compiutamente dal candidato, ma risultati in esito alle contestazioni)». E qui i giudici ribadiscono che alcune operazioni passate dalla Postepay sono «in parte anteriori e in parte successive alla campagna elettorale», mentre il rendiconto delle donazioni sulla piattaforma californiana promesso da Soumahoro a luglio, al momento della decisione, non era ancora pervenuto.
La mancata apertura del conto potrebbe far passare in secondo piano le altre violazioni, che, per il Corege, «comunque non vanno sottaciute, al fine della valutazione complessiva del comportamento del candidato». Per questo vengono rimarcate «le ulteriori molteplici irregolarità riscontrate e contestate circa la mancata giustificazione delle spese e la mancata corrispondenza delle somme indicate nel rendiconto con quelle risultanti nella lista movimenti della carta». Contestazioni «in relazione alle quali non sono state formulate idonee e chiare giustificazioni nella memoria depositata».
Alla fine il Collegio ha inflitto a Soumahoro una pena pesantissima, da saldare entro trenta giorni dalla notifica: 40.000 euro, solo 10.000 euro sotto il tetto massimo. Una punizione che ai giudici pare congrua, «tenuto conto della molteplicità e della rilevanza delle irregolarità riscontrate, espressione di condotta gravemente lesiva del principio di trasparenza delle fonti di finanziamento» dal momento che il candidato si è «completamente sottratto a ogni controllo circa la provenienza e l’entità dei contributi ricevuti». Il Corege ha ritenuto opportuno trasmettere gli atti alla Camera «per quanto di sua competenza», in quanto «la scarsa trasparenza della documentazione prodotta non consente di definire con certezza l’entità delle spese sostenute dal candidato e di accertare l’eventuale superamento dei limiti massimi di spesa» che comporterebbe la decadenza automatica del parlamentare. Una conclusione, che letti gli atti, pare inevitabile e rende plausibile anche possibili risvolti penali.
Siamo certi che il segretario dei Verdi Angelo Bonelli, sponsor di Soumahoro, gli imporrà di depositare la lista dei finanziatori anonimi «californiani» e che provvederà, con la consueta solerzia, alla debite denunce del compagno deputato presso la competente Procura della Repubblica e presso la Presidenza della Camera dei deputati così come ha fatto con i colleghi Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli per il caso Cospito e con Matteo Salvini per il presunto dossieraggio ai danni della giudice Iolanda Apostolico.
I bus al centro migranti per portarci a manifestare, il testimone sotterra Soumahoro
Autore : liberoquotidiano l'8 Novembre 2023
"I bus al centro migranti per portarci a manifestare": il testimone sotterra Soumahoro (Di mercoledì 8 novembre 2023) «Aboubakar ci ha preso in giro, ci ha tradito. Noi, quando ci chiamavano, andavamo sempre, e dico sempre a protestare con lui per i diritti dei braccianti. Quando però gli dicevamo che da noi non c'era l'acqua calda, che eravamo al freddo e non ci davano il pocket money, rispondeva che sui conti delle cooperative non c'erano soldi per colpa della prefettura, che dovevamo aspettare». Sidy Traore ha 28 anni, è sbarcato a Catania quando ne aveva 21, ed è stato trasferito nella struttura d'accoglienza di Roccasecca dei Volsci, a Latina. Prima era ospite. Poi, avuto il permesso di soggiorno provvisorio, ha cominciato a lavorarci: «Aspetto ancora 6mila euro di stipendi». È seguito dalla Uiltucs. Il segretario locale del sindacato è Gianfranco Cartisano. A Roccasecca il centro per i migranti era gestito dal Consorzio Aid, guidato da Marie Terese …
Soumahoro, altro mistero: "Non ci sono tracce", la scoperta di Striscia la Notizia. su Libero Quotidiano il 06 novembre 2023
Altri misteri si aggiungono al caso "Soumahoro". A voler fare ancora chiarezza è Striscia la Notizia. Il programma di Canale 5, nella puntata di lunedì 6 novembre, si sofferma sui nomi dei donatori della campagna elettorale dell'ex deputato di Verdi-Sinistra Italiana, oscurati. Pinuccio, che si è occupato per mesi delle incongruenze nelle raccolte fondi dell’ex sindacalista dei braccianti, ricorda come a marzo, dopo che Soumahoro era già stato eletto, fosse ancora possibile versare soldi sulla piattaforma Politically per la sua campagna elettorale (ormai chiusa).
La riprova? Lo stesso inviato fece una donazione, poi andata a buon fine. Eppure, e qui sta il sospetto, non si trovano tracce di quelli o di altri soldi sulla pagina ufficiale della Camera dei deputati, dove gli onorevoli devono pubblicare la rendicontazione dei soldi ricevuti. Intanto la Corte d’Appello di Bologna ha chiesto alla Camera dei deputati di far decadere dal seggio Soumahoro, eletto a settembre 2022. Il motivo? Presunte irregolarità nella rendicontazione di 12 mila euro di fondi pubblici ricevuti in campagna elettorale.
Soumahoro deve anche fare i conti con gli arresti domiciliari di moglie e suocera, finite nel mirino della magistratura per la gestione delle coop di migranti e dei loro fondi. "Non sono né indagato e né risulto negli atti delle indagini della Procura di Latina. Quindi ribadisco nuovamente la mia totale estraneità - ha scritto in una nota il deputato - Al contempo, prendo atto della misura applicata alla mia compagna Liliane Murekatete che chiarirà nelle sedi opportune la sua posizione visto che i processi non si celebrano né sui giornali né in rete. Continuo, come sempre, a confidare nella giustizia e nel principio costituzionale della presunzione di innocenza. Tuttavia, chiedo il rispetto della privacy di mio figlio, vista anche la delicatezza del momento. Il mio impegno nei luoghi del bisogno e in Parlamento continua con lo stesso spirito di dedizione e di abnegazione in una prospettiva di servizio alla collettività".
Il caso Soumahoro e certi silenzi imbarazzati in Puglia. Avviato l’iter per far decadere il parlamentare, ma tutte le anime belle pronte a scattare indignate ora sono puntualmente mute. MIMMO MAZZA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Novembre 2023
C’è un silenzio imbarazzato e imbarazzante che copre in Puglia le vicende di Aboubakar Soumahoro, il fondatore della Lega braccianti finito in Parlamento nelle liste Sinistra italiana-Verdi, liste che proprio in Puglia fu chiamato a guidare in occasione delle elezioni politiche del settembre 2022, soffiando il posto al responsabile regionale di Sinistra Italiana Nico Bavaro. Per carità, si trattava di un nome di richiamo nazionale: Soumahoro, in Italia da quasi venticinque anni, era stato protagonista di numerosissime manifestazioni a difesa dei migranti e dei braccianti e dunque venne scelto per guidare il listino del quale faceva parte un altro nome di richiamo nazionale ovvero Elisabetta Piccolotti, tra i fondatori di Sinistra, ecologia e libertà e moglie del leader di Si e Nicola Fratoianni.
Ora, però, la Corte d’Appello di Bologna ha segnalato alla Camera dei deputati delle irregolarità riguardo i 12mila euro di fondi elettorali di Aboubakar Soumahoro e Montecitorio ha avviato l’iter per far decadere il parlamentare.
Soumahoro oltre a guidare il listino in Puglia, fu candidato anche nel collegio plurinominale Emilia-Romagna (dove ottenne il 36,06% delle preferenze, venendo sconfitto da Gabriella Dondi del centrodestra) e fu poi «ripescato» nella distribuzione di seggi su scala nazionale. La sua permanenza nel gruppo di Alleanza Verdi Sinistra è durata sino allo scoppio della vicenda dei soldi della coop di sua moglie Liliane Murekatete e della suocera Marie Therese Mukamitsindo. La donna, assieme alla madre e ad altre quattro persone, è coinvolta nell’inchiesta sulla gestione dei fondi pubblici da parte delle cooperative che si occupano di migranti nella provincia pontina. Indagine nella quale la Guardia di Finanza avrebbe portato alla luce un «sistema fraudolento» che avrebbe dirottato, tra il 2017 e il 2022, i fondi che arrivavano alle cooperative che si occupavano di migranti nella provincia Pontina. I quali però, secondo gli inquirenti, vivevano invece in condizioni fatiscenti.
La donna, assieme alla madre e a un fratello, è stata raggiunta lunedì scorso da un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari: le accuse nei confronti dei tre sono a vario titolo frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale e auto riciclaggio.
Sulla vicenda giudiziaria lo stesso Soumahoro è intervenuto con un post su Facebook per ribadire la sua estraneità affermando di non essere «né indagato e né risulto negli atti delle indagini» e chiedendo rispetto per la privacy del figlio. «Il mio impegno nei luoghi del bisogno e in Parlamento continua con lo stesso spirito di dedizione e di abnegazione in una prospettiva di servizio alla collettività», ha aggiunto il deputato.
Un impegno inevitabilmente macchiato dal contenuto dell’ordinanza di oltre 150 pagine nella quale il gip ricostruisce quello che definisce «un collaudato sistema fraudolento fondato sull'emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti e altri costi inesistenti, adoperati dalla Karibu nelle dichiarazioni dal 2015 al 2019». Una struttura «delinquenziale organizzata a livello familiare che negli anni (almeno dal 2017 in poi) non ha fatto nient'altro rispetto all’attività criminale oggetto delle imputazioni».
Sarà naturalmente un processo a stabilire eventuali responsabilità ma nel frattempo il dato politico si è già cristallizzato: le battaglie – sacrosante – per la difesa dei diritti dei braccianti, spesso venuti in Italia a seguito di viaggi della speranza pagati ai trafficanti di vite umane in servizio permanente effettivo nel Mediterraneo, sono state strumentalizzate per altri fini, iniziando da quelli elettorali. E tutte le anime belle pronte a scattare indignate contro chi osava sollevare dubbi su Soumahoro, ora sono puntualmente mute, dimentiche di quanto ripeteva Pietro Nenni: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro... che ti epura».
Ecco come la sinistra ha costruito Soumahoro. Francesco Maria Del Vigo il 31 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Ora che sono precipitati nella polvere nessuno parla e nessuno li difende
Ora che sono precipitati nella polvere nessuno parla e nessuno li difende. Ora. Ma non dobbiamo dimenticarci che Aboubakar Soumahoro (che non è indagato) e la moglie Liliane Murekatete e la suocera Marie Therese Mukamitsindo (adesso entrambe in arresto) per un lunghissimo periodo hanno goduto non solo di ottima stampa, ma anche di importantissimi agganci politici e istituzionali. Dove non arrivavano da soli - con uno spregiudicato arrivismo e una capacità inconsueta di infilarsi in ogni situazione - c'erano già i vari leader ed esponenti della galassia di sinistra a offrir loro palchi, microfoni e financo premi. Sì, perché la cooperativa Karibu, la struttura che secondo i pm offriva «condizioni indegne» ai migranti e attorno alla quale sarebbe germogliata una frode milionaria, per il mondo progressista era un modello virtuoso da esportare. Riavvolgendo il nastro della propaganda agiografica diffusa dal mondo «democratico» emerge chiaramente un'evidenza: quello di Soumahoro è un personaggio creato meticolosamente a tavolino. La proiezione di tutti i cliché buonisti racchiusi in una sola biografia: una storia di riscatto, di lotta sindacale, di impegno politico e difesa dei più deboli. Una storia troppo bella e perfetta per essere vera. E infatti non lo era. Ma questa trama, non dimentichiamolo, è un'opera collettiva scritta da molte mani, tendenzialmente tutte mancine.
Tra i primi talent scout del futuro deputato ivoriano c'è Diego Bianchi, in arte Zoro, che dal palco del suo «Propaganda Live» più volte, a partire dal 2018, ospita Soumahoro per evangelizzare gli spettatori con la sua virtuosa parabola. Scoppia subito la scintilla. E l'effetto è a catena: dopo Zoro tocca a Marco Damilano, che dedicherà al sindacalista una copertina dell'Espresso violentissima, nella quale lui viene definito come «umano» a fronte del «disumano» Salvini.
Il processo di consacrazione è quasi arrivato a compimento, siamo nel giugno del 2018 e molti vedono nel sindacalista il futuro leader della coalizione di sinistra. Nel frattempo gli incontri vip di Soumahoro e famiglia si moltiplicano esponenzialmente e, manco a dirlo, approda subito nel salotto radicalchicchissimo di Fabio Fazio, che significa essere a un passo dalla beatificazione. Nei due anni successivi conosce il sindaco di Milano Giuseppe Sala che s'innamora subito della sua causa («Io sto con lui», avrà modo di dire), con il suo libro sbarca in pompa magna al Salone del libro di Torino celebrato da tutta l'intellighenzia che piace alla gente che piace, L'Espresso se lo porta pure in tournée come una mascotte, Saviano va in visibilio per lui e la moglie e, tra un selfie e un altro, si spende per la sua «coraggiosissima battaglia», Elly Schlein - allora europarlamentare - lo incontra a Bologna e pubblica su Facebook un autoscatto accompagnato da un'entusiastica didascalia: «Finalmente con Aboubakar Soumahoro, gran testa e grande cuore, una persona vera». A un certo punto riesce pure a farsi ricevere da Papa Francesco in Vaticano. Insomma, tutto sembra girare per il verso giusto. Ma, quello dei Soumahoro, è un lavoro di squadra. Nel frattempo la consorte e la suocera tessono la loro trama, sempre a favore di telecamere e sempre accanto a personaggi illustri e influenti. Marie Therese Mukamitsindo nel 2018 viene premiata come «Imprenditrice immigrata dell'anno» nientepopodimeno che da Laura Boldrini; un anno dopo, tra un'ospitata tv, interviste a Vanity Fair e sermoni pubblici sui diritti dell'uomo, ha anche occasione di concionare di flussi migratori e cambiamenti climatici a fianco dell'ex premier Romano Prodi. Ma le ambizioni della numero uno della Karibu non si fermano all'interno dei confini nazionali e il 29 ottobre del 2019 vola al Parlamento Europeo per incontrare il parlamentare del Pd Pierfrancesco Majorino con il quale ha - scriveva la pagina Facebook ufficiale della cooperativa - «una fruttuosa riunione circa il sistema d'accoglienza considerato che la Cooperativa ha maturato un'esperienza ventennale nel settore». Ma, adesso che il sistema Karibu è crollato, attorno a Soumahoro, moglie e suocera regna solo il silenzio e i primi a scomparire sono proprio coloro i quali hanno contribuito a creare questo fenomeno.
Quando la sinistra annunciava (in lacrime) il “seggio sicuro” per Soumahoro. Michel Dessì il 10 Novembre 2023 su Il Giornale.
Torniamo ad occuparci del caso Soumahoro: in particolare ci soffermiamo sulle vecchie dichiarazioni di Angelo Bonelli (in lacrime) e Nicola Fratoianni quando annunciavano per Soumahoro il seggio blindato e che oggi invece lo rinnegano
Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.
Rieccoci qui. Costretti, ancora una volta, a parlare di Aboubakar Soumahoro, il parlamentare con gli stivali. Ormai lo conoscete tutti, l’ex paladino della sinistra è finito nei guai. Questa volta, però, non per colpa della moglie o della suocera (accusate dalla procura di Latina per la cattiva gestione dei fondi destinati ai migranti usati per spese pazze) ma per delle sue gravi inadempienze. Stiamo parlando della cattiva gestione dei fondi usati dal parlamentare per la propria campagna elettorale. A dirlo non siamo noi, ma la Corte d’Appello di Bologna che ha aperto un’istruttoria. Molte cose non tornano, soprattutto i conti e ora è in ballo la sua permanenza in Parlamento. Già, perché Soumahoro potrebbe decadere.
E i suoi sponsor, che fine hanno fatto? Fabio Fazio, Roberto Saviano, Marco Da Milano sono spariti. Tutti si vergognano di averlo “lanciato” verso il successo, verso le luci della ribalta. Anche i suoi “compagni” di partito lo hanno scaricato come Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni.
Solo per voi assidui ascoltatori de “La Buvette” siamo andati a ripescare delle vecchie (ma non troppo) dichiarazioni dei due deputati di Verdi e Sinistra Italiana che hanno voluto fortemente Aboubakar Soumahoro in Parlamento assegnandogli addirittura un seggio blindato. Eccole…
Le lacrime di gioia di Bonelli nell’annunciare il seggio blindato hanno lasciato spazio al silenzio. L’orgoglio di Fratoianni ha lasciato spazio alla sfiducia. Non poteva essere altrimenti, a sinistra non ne azzeccano mai una. Ma come avrebbero potuto sapere che il paladino dell’accoglienza dei “fratelli” migranti fosse così “distratto”? Beh, magari prima di portarlo (con tutti gli stivali) in Parlamento e farlo sedere su quelle comode poltrone con un assegno da oltre 10mila euro al mese avrebbero potuto fare qualche verifica in più.
Ma così non è stato e ora bisogna fare i conti con la realtà. La dura realtà. Ai nostri microfoni Angelo Bonelli parlava così: “La solidarietà si dà quando si conoscono le cose, bisogna essere chiari e Aboubakar non lo è stato. Se vuoi la solidarietà sii chiaro con le persone che ti stanno vicine”. Così va in frantumi l’ennesima bandiera inutile della sinistra. Per fortuna se ne sono resi conto anche loro.
Bonelli piangeva per Soumahoro? Ecco come lo scarica: cos'è la sinistra. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 9 novembre 2023
Da una lacrima sul viso/Ho capito molte cose/Dopo tanti e tanti mesi ora so/Cosa sono per te... Angelo Bonelli, per Aboubakar Soumahoro, era più che un leader politico. Era un padre putativo. Lo era anche Nicola Fratoianni.
Soumahoro, per Bonelli e Fratoianni, era il paladino degli ultimi, un eroe senza macchia. E prima delle lacrime di Soumahoro, versate nel mitologico video di un anno fa in cui il deputato giurava di non sapere niente dei guai delle cooperative “di famiglia”, c’erano state le lacrime di Bonelli - lacrime sul viso - e in pochi le ricordano. Rimediamo. Dieci settembre 2022, mancano due settimane al voto. Alla Camera conferenza stampa congiunta del “Verde” Angelo Bonelli e del rosso Nicola Fratoianni, a capo di Sinistra Italiana. Prende la parola Bonelli: «Ebbene, ho il piacere di annunciarvi che ha accettato di candidarsi con l’Alleanza Verdi -Sinistra Aboubakar Soumahoro». Addirittura!
SENZA FIATO
Bonelli si commuove. Poi riparte: «Aboubakar Soumahoro è laureato in sociologia. Sono anche emozionato, devo dirvi...perché... sono molto emozionato». Bonelli singhiozza. «Perché Soumahoro è una figura...», Bonelli avanza a scatti. «È una figura importante, un attivista sociale e sindacale che da vent’anni difende le persone invisibili». Bonelli supera l’impasse. Vai Bonelli, vai: «Difende i senza voce e le lavoratrici e i lavoratori della filiera agroalimentare e tanti altri dell’era dell’economia digitale. Oltre alle sue lotte sul campo, Aboubakar Soumahoro», attenzione, «è scrittore che cerca di concettualizzare le sue lotte per coniugare azione e pensiero in un’ottica della giustizia sociale e ambientale. In Italia, in Europa e a livello globale». Supercazzola quasi degna del Conte Mascetti di Amici Miei: «Mi scusi dei tre telefoni qual è come se fosse tarapia tapioco che avverto la supercazzola?».
Le lacrime di Soumahoro, più finte di una profezia del mago Mario Pacheco do Nascimento ex spalla sinistra di Wanna Marchi, avevano immediatamente spopolato sul web, tanto che le “lacrime di Soumahoro eau de toilette” - sbertucciamento via social- sono andate a ruba. Quelle di Bonelli invece non se l’era filate nessuno, che ingiustizia. Ma è come quei film che per fare breccia impiegano un po’, nel frattempo succede qualcosa e la pellicola di colpo fa il botto. E nel frattempo è successo che moglie e suocera di Soumahoro sono finite agli arresti domiciliari con l’accusa, questa la sintesi, di aver usato per se i soldi pubblici destinati all’accoglienza dei migranti tramite la coop Karibu e il Consorzio Aid.
Nel mentre Soumahoro ha reclamato il diritto all’eleganza per la consorte Liliane, accusato di razzismo chiunque riportasse le vicende giudiziarie dei familiari, ha detto che chi lo attaccava e tutt’ora gli chiede conto di tutta questa vicenda - ribadiamo, non è indagato - lo faceva e continua a farlo perché aveva e ha paura delle sue battaglie in difesa dei migranti. In quel video Soumahoro diceva che chi scriveva di lui lo voleva morto. E però capiamo anche lo sconforto di Soumahoro, idolatrato da Bonelli e poi scaricato in un amen, appena scoppiato il caos delle cooperative. Bonelli e Fratoianni quasi fingono di non averlo mai conosciuto questo Soumahoro. Giurano che non erano al corrente di nulla: Soumahoro chi? «Mi sento ferito», diceva Bonelli, «non posso credere che la moglie non parli col marito di queste cose».
CHE DELUSIONE
Soumahoro ci era rimasto malissimo perché Bonelli e Fratoianni non l’avevano difeso, e così si è autosospeso dal gruppo parlamentare Verdi-Sinistra, che non vuol dire niente ai fini dello scranno: è semplicemente passato al Gruppo misto. «Sono stupito per l’assenza di solidarietà», si era sfogato il deputato ripudiato. A Soumahoro pensa solo la moglie di Fratoianni, la deputata di Sinistra Italiana Elisabetta Piccolotti, la quale di recente su La7 ha provato a fare scudo ad Aboubakar. Ma che tempi, che nostalgia, che commozione di Bonelli per il pupillo Soumahoro, «lo scrittore che cerca di concettualizzare le sue lotte per coniugare azione e pensiero in un’ottica della giustizia sociale e ambientale». Non ho mai capito/Non sapevo che/Che tu, che tu/Tu mi amavi, ma come me/Non trovavi mai/Il coraggio di dirlo, ma poi... Quella lacrima sul viso...
La cagnara. La copertura razzista e moralista dei media sul caso Soumahoro. Iuri Maria Prado l'1 Novembre 2023 su L'Inkiesta.
Giornali e tv non si limitano a riportare le notizie sulla inchiesta che coinvolge il deputato di origine africana e la famiglia, ma il tono degli interventi lede la sua dignità personale. Abbiamo addirittura assistito a richieste umilianti di scuse pubbliche e giudizi severi. Altri politici in situazioni peggiori non hanno subito lo stesso livello di scrutinio e biasimo
Pressappoco le reazioni all’arresto di mezza cerchia familiare di Aboubakar Soumahoro hanno questo segno e fondamento politico-giuridico: «Visto? Ve l’avevamo detto che erano negri!». Vale la pena di ricordarle, dopo un anno e sulla scorta degli ultimi sviluppi, le belle requisitorie di allora sul «talentuoso ivoriano», le mute di cani del giornalismo d’inchiesta attaccate ai polpacci del buffone con gli stivali infangati, le steppe di reportage sul rogito della casa firmato con il sangue dei migranti sfruttati e le chilometriche coltivazioni degli editoriali a commento delle borsette di lusso della moglie e delle mutande griffate della trisnonna.
Perché tutta quella bella roba si ripropone oggi, ma in versione processualmente attrezzata, alla luce dei provvedimenti di arresto che non per caso, ma pour cause, sono adoperati a riprova dell’indegnità morale del «parlamentare immigrato» che non poteva non sapere e ciò non ostante rifiutava di ripudiare la moglie, continuava a prendere lo stipendio e non chiedeva scusa per aver lasciato maltrattare gli immigrati in un Paese che notoriamente e da sempre li tratta benissimo.
E questo era forse il tratto più osceno di quella cagnara: l’imputazione a Soumahoro di aver lasciato i migranti a languire nei lager, l’accusa mossa dagli stessi che impugnano il rosario chiedendo che siano ributtati in mare in nome di Gesù Cristo o mossa dagli altri, anche peggio, anche più incarogniti, anche più mascalzoni, i democratici del Porcaio Unico Televisivo che allargavano le braccia davanti all’inoppugnabilità delle accuse perché venivano persino dai braccianti di colore, tipo «ho tanti amici ebrei!».
Naturalmente chi (eccomi) osservava il tratto distinguibilmente razzista di quella inguardabile scena era investito dai berci dei «Liberali per il ku klux klan» e dalle spataffiate di «Mani pulite dell’immigrazione» secondo cui no, figurarsi il razzismo, no, figurarsi il pregiudizio, noi bianco giallo o nero guardiamo solo le notizie, noi guardiamo solo i reati: e pace se era abbastanza inedito un simile casino sul signor Tizio colpevole di avere la moglie neppure indagata, pace se non si era mai visto niente di simile sul signor Caio co’ la soscera trafficona, pace se in un caso diverso non sarebbe stato né in cielo né in terra quel processone a reti unificate e a editoriali sull’attenti, pace se a nessun Sempronio era mai capitato di doversi scusare in prima serata e di essere convenuto alla sbarra del giornalista democratico che gli chiedeva «Ma a sua moglie gliel’ha detto che è una sporcacciona?», «Ma lo riconosce davanti agli italiani che la sua è una famiglia di delinquenti?», «Ma lo sa che tanti africani come lei se la passano male mentre lei e la sua famiglia ve la spassate sulla loro pelle?».
Tutto così, pressappoco, con il prosieguo di urli e fischi dei colleghi parlamentari quando il deputato nero prendeva la parola alla Camera senza fare quello che doveva, e cioè starsene a cuccia e tenere gli occhi abbassati dopo lo scandalo di cui si era reso responsabile facendo finta di aiutare i poveracci fortunatamente tutelati, invece, dalla rete di assistenza del ceppo italico.
Per non dire del merito processuale, chiamiamolo così. Il garantismo amical-perimetrale che sbraita quando la giustizia lambisce la gente dabbene e poi, vedi tu la combinazione, si fa nebbia quando una misura cautelare – dopo un anno! – è disposta a indispensabile contenimento del clan Soumahoro: sgominato il quale, finalmente, gli immigrati potranno tornare a essere affidati alle cure esclusive del circuito «prima gli italiani».
Estratto da open.online sabato 4 novembre 2023.
La Corte d’Appello di Bologna ha segnalato alla Camera dei deputati delle irregolarità riguardo i 12 mila euro di fondi elettorali di Aboubakar Soumahoro. Montecitorio ha avviato l’iter per far decadere il parlamentare. Soumahoro si è presentato nel collegio plurinominale Emilia-Romagna Po2 con 91.694 voti e il 36,06% delle preferenze, sconfitto da Gabriella Dondi del centrodestra. E poi “ripescato” nella distribuzione di seggi su scala nazionale. Ha raccolto fondi su Internet, ricevendo 7.372 euro da 108 donatori. Si è iscritto al gruppo di Alleanza Verdi Sinistra e poi al Gruppo Misto dopo lo scoppio della vicenda dei soldi della coop di sua moglie Liliane Murekatete e di sua suocera Marie Therese Mukamitsindo.
La Corte d’Appello di Bologna
Il Corriere della Sera fa sapere che la commissione elettorale della Camera su indicazione dell’ufficio di presidenza di Montecitorio, ha avviato l’iter per far decadere il deputato di origini ivoriane. La Corte d’Appello di Bologna ha il compito di verificare la regolarità di tutti i documenti degli eletti nel territorio dell’Emilia-Romagna. Soumahoro, nato il 6 giugno 1980 in Costa d’Avorio, è iscritto al misto dal 9 gennaio scorso.
Fa parte della Commissione Lavoro e della Commissione d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia e sullo sfruttamento nei luoghi di lavoro pubblici e privati. Sotto la lente dei giudici, come detto, ci sono 12 mila euro di contributi irregolari. Che sarebbero stati registrati con delle irregolarità. La procedura di decadenza è regolata dall’articolo 66 della Costituzione. Le cause di ineleggibilità e incompatibilità sono giudicate dalla camera in cui il rappresentante è stato eletto
(...)
La richiesta della Corte d’Appello di Bologna: “Irregolarità nei fondi
elettorali, Soumahoro sia espulso dalla Camera”.
Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno
sabato 4 novembre 2023.
Arriva la richiesta della Corte d'Appello di Bologna: riscontrata una non corretta rendicontazione di Soumahoro su 12mila euro di fondi pubblici. Il deputato: "Farò ricorso, sono sereno".
Una nuova tegola con effetti più pesanti e immediati rispetto ai guai giudiziari della moglie e della suocera, potrebbe abbattersi a breve su Aboubakar Soumahoro, nella rendicontazione dei fondi elettorali delle ultime elezioni politiche, per le quali rischia la decadenza dal seggio di deputato per irregolarità. Proprio nel giorno dell’interrogatorio di garanzia delle moglie di Soumahoro, Liliane Muraketeke e della suocera Marie Terese Mukutsindo, entrambe le donne poste agli arresti domiciliari frode nelle pubbliche forniture e bancarotta fraudolenta, della prima udienza preliminare che le vede imputate per reati fiscali nella gestione della cooperativa Karibu, su indicazione dell’ufficio di presidenza di Montecitorio la commissione elettorale della Camera dei Deputati, ha avviato l’iter procedurale per la decadenza del deputato di origini ivoriane, che dopo essere stato eletto nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra confluito nel gruppo misto .
Se si dovesse comunque arrivare alla decadenza, al suo posto subentrerebbe Giovanni Paglia. Angelo Bonelli, alla guida dei Verdi, commenta: “Non sappiamo nulla. Le dichiarazioni sulla rendicontazione dei fondi elettorali spettano ai singoli candidati, non ai partiti. Inoltre Soumahoro si era candidato con l’alleanza Verdi e Sinistra, ma con lui abbiamo rotto i rapporti da un anno, e il parlamentare è attualmente nel gruppo misto”.
Alla base della decisione c’è la segnalazione della corte d’Appello di Bologna che al termine della revisione compiuta d’ufficio sulla documentazione di ogni candidato, ha riscontrato irregolarità su 12mila euro di fondi ricevuti da Aboubakar Soumahoro in campagna elettorale. Per sostenere la sua candidatura, Soumahoro aveva avviato anche una raccolta fondi pubblica, arrivata a totalizzare 7.372 euro grazie a 108 donatori.
Aboubakar Soumahoro, laureatosi in Sociologia alla Federico II di Napoli e residente a Roma, esponente sindacalista di sinistra e attivista per l’accoglienza dei migranti, è stato eletto nel collegio plurinominale Emilia-Romagna P02 con 91.694 voti e il 36,06% delle preferenze, finendo dietro a Daniela Dondi (95262 voti, 37,44%) candidata del Centrodestra, venendo poi “ripescato” ed entrato in Parlamento nella distribuzione dei seggi su scala nazionale.
Soumahoro si è difeso sulla richiesta della Corte d’Appello di Bologna: “Le contestazioni di irregolarità che mi vengono mosse riguardano aspetti meramente formali – ha scritto il deputato in una nota -. I fondi, come previsto dalla legge, sono stati tutti utilizzati per la campagna elettorale: i miei avvocati stanno predisponendo il ricorso contro il provvedimento della Corte per confutare con precisione gli addebiti che sono stati sollevati nei miei confronti” aggiungendo “Inoltre la Giunta delle elezioni che è l’organo parlamentare competente, riceverà quanto prima la mia documentazione per fare piena luce su ogni aspetto: sono sereno, dimostrerò la mia assoluta trasparenza nelle sedi opportune“.
Se le contestazioni della Corte di Appello di Bologna venissero confermate, allora sarebbe un colpo da ko per Aboubakar Soumahoro che già deve far i conti con l’imbarazzante situazione relativa alle note vicende giudiziarie della cooperativa Karibu. Un nuovo ostacolo lungo il percorso politico intrapreso da circa un anno che si è mostrato abbastanza tortuoso. Una vicenda questa che peraltro questa volta, lo coinvolgerebbe personalmente, rispetto alla vicenda giudiziaria della moglie e della suocera. Il caso in questione rischia di avere effetti più dirompenti sulla sua precaria reputazione che diminuisce di giorno in giorno , nel silenzio imbarazzante della sinistra politica e mediatica.
Il “personaggio” Soumahoro infatti è il risultato di un “bluff” mediatico e politico, spacciando ai quattro venti una storia di riscatto e di presunta lotta sindacale a difesa dei più deboli. Un processo di consacrazione del finto “paladino” dei migranti che ha lasciato un baratro politico ed un vergognoso mutismo di chi lo esaltava. Redazione CdG 1947
Perché sono state arrestate moglie e suocera di Soumahoro, lo show illegale dei Pm. Probabilmente è illegale, ma piace da morire ai razzisti. E poi chissà, magari la costringono ad accusare il marito, e allora si fa tombola. Piero Sansonetti su L'Unità il 31 Ottobre 2023
Hanno arrestato la moglie e la suocera di Aboubakar Soumahoro. Con grande gioia dei razzisti italiani, che non sono pochissimi e abbondano nell’establishment e nell’intellettualità, specialmente politica e giornalistica. In particolare hanno arrestato la moglie di Soumahoro perché è indiziata di aver provocato un danno erariale all’Italia per circa 14.000 euro.
E sospettata anche di avere tenuto per sé, in questi anni (cinque o sei) circa 4000 euro. Un po’ meno di 1000 euro all’anno. Se paragono queste cifre a quelle contestate a grandi personaggi dello sport, dell’impresa, dello spettacolo (milioni e milioni di euro di evasione fiscale) per nessuno dei quali sono mai state chieste misure cautelari, beh, un po’ mi viene da ridere. Se però la moglie di Soumahoro davvero ha fatto sparire dei soldi, anche se pochi – ma lei nega – è giusto che li restituisca e che subisca una sanzione per questo illecito.
L’arresto è un altra cosa. Per arrestare una persona in linea generale occorrerebbe una condanna. E una condanna pesante, superiore ai due anni, e non ci sono precedenti di condanne al carcere per danno erariale. Poi, in via eccezionale, la legge consente anche l’arresto preventivo (si chiama custodia cautelare) che può essere eseguito anche nei confronti di persone – come la moglie e la suocera di Soumahoro – non ancora condannate. Solo però in condizioni particolari.
Deve esserci un pericolo di fuga, oppure il rischio che gli indiziati inquinino le prove, oppure che reiterino il reato. Vediamo bene. La vicenda Soumahoro è iniziata circa un anno fa. Soumahoro dà solo il nome alla vicenda, perché lui non c’è mai entrato nulla. E’ stato travolto da una campagna di stampa e politica molto compatta ma mai sfiorato da un sospetto di illecito. I sospetti riguardano solo sua moglie e sua suocera.
Dal momento che la vicenda è iniziata un anno fa possiamo ben dedurre che se le due signore avessero voluto fuggire, sarebbero fuggite da un pezzo. Quindi niente rischio fuga. E così se avessero voluto inquinare le prove. Niente rischio inquinamento. Resta il rischio che continuino nel reato per il quale sono accusate. Ma siccome il reato è relativo alla conduzione delle cooperative che loro avevano realizzato, e siccome queste cooperative non esistono più, ed è abbastanza improbabile che il governo conceda dei fondi pubblici a moglie e suocera di Soumahoro, neanche questo rischio esiste.
E allora come hanno potuto i giudici ordinare l’arresto della moglie di Soumahoro e di sua suocera? Lo hanno fatto nel più semplice dei modi. Violando la legge e confidando che il Csm – come ha fatto per migliaia di casi precedenti – chiuda un occhio e non prenda provvedimenti. Perché le cose stanno così: la magistratura è un corpo separato dello Stato ed è l’unico che vive al di sopra della legge. Si autogoverna, e nessun’altra autorità può immischiarsi nelle sue cose. Gestisce una quantità di potere mostruoso, in una società moderna, e lo gestisce in modo del tutto discrezionale e autoreferenziale.
Questo è un caso di scuola: l’arresto è illegale ma il giudice lo fa eseguire ugualmente. Nessuno può accusarlo per questo eccesso. L’unica cosa che si può fare è ricorrere in Cassazione ( e succede abbastanza spesso che la Cassazione annulli l’arresto) ma la Cassazione non può sanzionare il giudice che ha violato la legge. Potrebbe il Csm ma non lo fa. E così il circolo vizioso si chiude e le possibilità di sopraffazione da parte di una coppia Pm-Gip è infinita.
Poi bisognerebbe capire perchè sono state arrestate moglie e suocera di Soumahoro. Ci sono due ipotesi. Una meno preoccupante e una più preoccupante. La prima è la ricerca dello spettacolo. La reazione entusiasta del mondo politico e giornalistico alla misura cautelare è la prova evidente che c’era un grande spazio di spettacolarizzazione. Che produce fama e prestigio. E questo spazio è stato utilizzato al meglio.
La seconda ipotesi invece inquieta parecchio. Spesso i magistrati arrestano le persone per metterle in condizioni di forte inferiorità e convincerle a parlare e a dire quel che gli stessi magistrati vogliono sentirsi dire. Avete presente il famoso Qatargate, finito in una bolla di sapone? Beh lì, senza ombra di dubbio, è stata arrestata una deputata, mamma di una bambina di due anni, ed è stata tenuta in cella in condizioni durissime, per costringerla a confessare e a chiamare qualcuno a correo. Lei però non lo ha fatto e l’inchiesta è crollata. Se fosse crollata lei sarebbe decollata l’inchiesta. E’ un vecchio metodo di indagine che si ispira alla tortura.
Questa volta, per assurdo, si potrebbe ipotizzare che l’obiettivo è fare in modo che la moglie o la suocera accusino Soumahoro. Che è l’obiettivo vero. Pensate che colpo straordinario se si ottenesse questo risultato. E che spinta formidabile al razzismo e ai tanti razzisti che stanno lì famelici: non aspettano altro. Piero Sansonetti 31 Ottobre 2023
Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” martedì 31 ottobre 2023.
Youssef Kadmiri, lei è stato il primo a denunciare le ombre della cooperativa Karibu: non solo lo sfruttamento dei lavoratori, molti stranieri come lui, ma anche le condizioni «senza dignità» in cui venivano tenuti i migranti, tanti minori. Oggi che sono finite agli arresti domiciliari Liliane Murekatete e sua madre Marie Terese Mukamitsindo è soddisfatto?
«Le loro bugie finalmente sono state scoperte».
Liliane ha sempre sostenuto di non saper nulla del giro di denaro, ma soprattutto delle condizioni in cui vivevano i ragazzi. Non è così?
«Non è vero niente. Io l’ho vista negli uffici di Panorama dove c’era la sede della Karibu, assieme alla sorella […] . Come faceva a non sapere quello che succedeva? Tutte bugie. Si deve vergognare».
Voi non venivate pagati, ma dicono che Liliane comprasse vestiti, gioielli, profumi...
«C’è molta tristezza. Io non ho ancora ricevuto il pagamento di quello che mi spetta e la cosa peggiore è che senza quei contratti pagati non posso avere il permesso di soggiorno […] ».
Quando si è deciso a denunciare al sindacato Uiltuc quella situazione?
«Quando mi hanno chiesto delle fatture false per pagarmi. Altri hanno portato buste paga false. Io non ho voluto. Ma quello che mi faceva ancora più male era come venivano trattati quei ragazzi».
Gli ospiti della struttura?
«Sì, non potevo sopportare di vedere cosa succedeva lì. I ragazzi non avevano abbastanza cibo, e quello che avevano era congelato e spesso scaduto, non avevano acqua calda, i vestiti erano pochi e sporchi. Non c’era nessuno che si prendesse cura di loro. Gli rubavano la paga settimanale e tanti per potersi comprare le scarpe andavano a lavorare in nero invece di andare a scuola. Una vergogna». […]
Soumahoro, moglie e suocera arrestate: spese per un locale in Ruanda, hotel e vestiti. «Società gestita per delinquere». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2023.
Il gip di Latina e i domiciliari per Liliane Muraketete e Marie Terese Mukamitsindo: «Quella società gestita per delinquere»
Una corsa frenetica a spendere per sé denaro pubblico e a sottrarlo ai creditori. Acquisti continui in abbigliamento di lusso, ristoranti di alta cucina, cosmetici, centri estetici, viaggi, finte operazioni umanitarie. Occupa oltre 120 pagine nelle 150 dell’ordinanza di arresto la lista delle cifre contestate a Maria Terese Mukamatsindo e Liliane Murekatete in quello che il gip definisce «un collaudato sistema fraudolento fondato sull’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti, non solo con la specifica finalità evasiva ma altresì per giustificare, in sede di rendicontazione, la richiesta di finanziamenti».
Ciglia, griffe e liquori
L’elenco delle somme “distratte” parte dal 2017 con bonifici, anche all’estero, dai conti della Karibu per «servizi non classificati» o con causali generiche («rimborso spesa anticipato») e voci non deducibili che si scopriranno poi essere fittizie. Il grosso di queste contestazioni è riferito al biennio 2017-2018 (oltre 16 milioni).
Questa prima parte dell’elenco stilato dai finanzieri del comando provinciale pontino viene poi integrato dalle spese correnti con carte prepagate intestate alle coop, effettuate materialmente da suoi dipendenti ma riconducibili sempre a suoi vertici. Sono gli stessi inquirenti a darne una sintesi significativa, tanto da configurare l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante entità: dal gennaio 2017 al novembre 2022 la coop Karibu spende 368.298,95 euro per acquisto di beni e servizi che niente hanno a che fare con la sua ragione sociale.
Pescando qui e là: 1.735 euro nelle boutique di Elena Mirò, 235 euro nel centro estetico Nails and the city per le extension delle ciglia, soggiorni nel villaggio Arenas di Gaeta, Il Farò Boutique Hotel di San Felice al Circeo, acquisti in Australia, Gambia, Ruanda, Portogallo e ancora spese nel negozio Calzature Ferrandi a Brescia (250 euro), la boutique Salvatore Ferragamo a Roma (1.990 euro), un negozio di abbigliamento sportivo a Zaventem (in Belgio), i punti Kiko (cosmetici) a Latina e Milano, quello di abbigliamento Tommy Hilfiger di Roma (188 euro), enoteche, fiorai, agriturismi, locande, resort a Sabaudia, scarpe Geox (209 euro), Hugo Boss all’outlet di Castelromano, Ikea (ancora in Belgio), 125 euro in guanti a Sermoneta, H&M, gioiellerie, Golden Point ed Intimissimi, abiti da cerimonia, bisteccherie, Decathlon.
I falsi progetti
Ma le nuove contestazioni di autoriciclaggio che hanno portato in carcere moglie e suocera di Soumahoro riguardano in particolare i bonifici verso l’estero per 472.909 euro totali. Un caso in particolare racconta bene quella che il gip definisce «una struttura delinquenziale organizzata a livello familiare», ossia la possibilità per Richard Mutangaga, uno dei fratelli di Murekatete, di accedere ai conti della Karibu a suo piacimento, pur non ricoprendo cariche al suo interno, e «trasferire ingenti somme di denaro a se stesso per aprire in Ruanda un supermercato e il ristorante “Gusto Italiano”». O ancora i 185mila euro con l’intestazione «costi progetto internazionalizzazione» a favore alla Karibu Rwa, una società di diritto inglese che ha come ragione sociale le escursioni turistiche in Ruanda, Uganda, Kenya e Tanzania. «Mio marito — ha raccontato agli investigatori la moglie italiana di Mutangaga — mi coinvolse con mia suocera nell’apertura davanti a un notaio di una sede della coop Karibu a Kigali. Tale società sarebbe dovuta servire per partecipare a bandi di formazione internazionali ma che io sappia non ha mai gestito progetti».
Soumahoro, da nuova icona a «compagno» scomodo: «Ora mi vogliono morto». Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2023.
Dopo l'arresto della moglie e della suocera è sparito dal Parlamento. I vicini di casa: «Ripeteva sempre: vorrebbero farmi tornare in Africa. Fa una certa pena, no?»
L’onorevole Aboubakar Soumahoro, moglie e suocera agli arresti domiciliari, dice di avere la coscienza «piena di cose belle». Non per essere polemici: ma è bello pieno anche il suo conto corrente. Con stipendio da oltre 10 mila euro netti al mese (più la possibilità di viaggiare gratis su qualsiasi treno: sembra un dettaglio, però i dettagli sono importanti).
Simpatico e vittimista, istrionico, furbo e spregiudicato. Entrò a Montecitorio alzando il pugno chiuso e sfoggiando un paio di stivali sporchi di fango.
Botta mediatica geniale: suggestioni inevitabili, gruppettari sinistrorsi in festa e coscienza collettiva nel frullatore, un perfido inganno per fotografi e cronisti, sullo sfondo il magnifico fantasma di Giuseppe Di Vittorio, mantra struggenti, compagni ce l’abbiamo fatta, eccoci che stiamo arrivando e lui, pensateci, è un ex bracciante nero.
Nessuno si accorse che, forse, gli stivali erano di Prada. Dove sei, adesso, Soumahoro? Non risponde al cellulare. Non apre i WhatsApp.
Magari però ha deciso di andare a mettere la faccia in Transatlantico. Si va a controllare mentre la mattina finisce. Con un colpo d’occhio sulla luce livida che filtra dai finestroni e su un clamoroso affollamento di parlamentari provocato dal voto per il Decreto Sud, nonostante l’imminente ponte dei morti (i ponti, tra i parlamentari, sono ambitissimi, e perfettamente annotati in ogni loro agenda: molti i trolley parcheggiati in corridoio, certi deputati guardano nervosamente l’orologio, chi sbuffa, chi prenota alberghi, i lavori — lo scrivo per le lettrici e i lettori che nei prossimi giorni staranno al chiodo — qui riprenderanno lunedì prossimo, nel pomeriggio).
Soumahoro, comunque, non s’è visto. Inutile chiedere sue notizie ad Angelo Bonelli, il capo dei verdi, che convinse Nicola Fratoianni a candidarlo con l’alleanza Verdi e Sinistra (era il 10 agosto del 2022 e Bonelli — un politico sincero ai limiti dell’ingenuità, e anche coraggioso e visionario — ne annunciò la presenza in lista arrivando a commuoversi: «Difende gli invisibili»).
Ma invisibili, in quei giorni, sono soprattutto Liliane Murekatete, sua moglie, e Marie Therese Mukamitsindo, sua suocera. Nessuno le conosce, nessuno sa come utilizzano i quasi 30 milioni d’euro di fondi pubblici ottenuti dal 2017 al 2022 per accogliere i migranti nelle cooperative che gestiscono in un miscuglio di connivenze (anche istituzionali). Sono nell’ombra. Se la godono, alla grande, nell’ombra. Tipo: 1.735 euro spesi nella boutique Elena Mirò di Latina; un pranzo al ristorante «Il Porticciolo» di Fiumicino con conto da 500 euro; e poi stabilimenti balneari di lusso, e hotel a cinque stelle, e shopping a Roma, con 1.990 euro lasciati da Ferragamo, in via dei Condotti.
Come può, Soumahoro, non essersi accorto di niente? (è la domandina semplice semplice che le si vorrebbe fare, caro onorevole, se solo rispondesse al cellulare).
Un tontolone stratosferico. O un feroce illusionista. Che, intanto, subito dopo essere stato eletto, si lascia adulare come il nuovo totem di una nuova sinistra. Affascinata e stordita da quest’uomo di 42 anni che arriva in Italia da Bétroulilié, Costa d’Avorio, Africa occidentale, quando ne ha 19, lavora nei campi e riesce a laurearsi in Sociologia all’università di Napoli, un talento per l’autopromozione e un eloquio appassionato, l’inevitabile strada del sindacato, sindacalista abile e inquieto contro lo sfruttamento e il caporalato, formidabile nel tenere insieme Mandela e Chiara Ferragni, subito anche lui un fenomeno social e quindi divo televisivo, tra ospitate osannanti e copertine di settimanali, retroscena in cui viene indicato come possibile papa nero del Pd, una scena trionfale cui lui aggiunge uno sciopero della fame e un libro per Feltrinelli, «Umanità in rivolta», che alla presentazione la moglie infila in una borsa di Gucci.
Il libro, racconta l’onorevole, gli ha consentito di comprarsi casa.
Eccola: una villetta a due piani, case a schiera, la stradina di Casal Palocco, periferia sud-ovest di Roma, che è attraversata dall’odore del mare e da troupe televisive.
Din don, c’è qualcuno in casa? (nel riverbero dei lampioni, sembra di vedere un’ombra dietro la finestra, ma potrebbe essere la moglie, che è ai «domiciliari», o il figlio).
Comunque è improbabile, anzi impossibile che l’onorevole Soumahoro sia riuscito ad acquistare questa casa con i guadagni di quel libro. Lo sanno tutti che gli editori pagano una miseria agli esordienti. Si ferma una donna che spinge una carrozzina: «L’onorevole? Conosco lui e la moglie. Lei taciturna, ma al supermercato ci va come andasse a una festa di gala». E lui? «Poverino. Ripeteva sempre: mi vogliono morto, vorrebbero farmi tornare in Africa. Fa una certa pena, no?».
Gira voce che l’inviata di un talk tv sia riuscita a beccare l’onorevole. Vabbè: ma, a pensarci bene, cosa può averle detto di fondamentale? Le cose che doveva dire, Soumahoro, le ha già dette un anno fa. Quando, indignato per il silenzio mortificato di Bonelli e Fratoianni — «Non hanno speso mezza parola per tutelarmi» — traslocò nel Gruppo Misto. E, per difendere la moglie — paparazzata in una tragica eleganza da soap, tutta firmata dagli occhiali al portafogli, unghie colorate e sopracciglia disegnate — disse che «il diritto all’eleganza e alla moda è libertà, la moda non è né bianca né nera».
Nelle 152 pagine dell’ordinanza, il gip Giuseppe Molfese racconta di aver indagato su una struttura «delinquenziale organizzata a livello familiare». Soumahoro non è mai sfiorato da alcuna accusa: ma per la moglie e la suocera i capi d’imputazione sono di frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale e autoriciclaggio. Non solo: i dipendenti delle cooperative Karibu e Consorzio Aid aspettano ancora gli stipendi arretrati, per un totale di oltre 400 mila euro (sorvolando sulle condizioni delle strutture che accoglievano gli immigrati, fatiscenti).
E lei, onorevole Soumahoro, non sapeva niente? Chi è lei, di preciso, onorevole Soumahoro?
Soumahoro: come perdere un seggio e la faccia. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.
Caro Aldo, Il Corriere riporta oggi che «30 milioni (di Euro) di fondi pubblici» sarebbero stati usati per scopi privati dal clan Soumahoro. Non bisognerebbe indagare anche su chi ha affidato quelle somme alla rinomata e premiata cooperativa Karibu che le avrebbe poi distratte per fini personali? Tommaso Procopio Cicciolina, Vladimir Luxuria, Sumahoro, signori progressisti per favore scegliete meglio i vostri parlamentari, visto che ormai le preferenze sono state abolite! E ridateci Togliatti e Berlinguer… Gianluigi De Marchi
Cari lettori Il caso Soumahoro è uno dei più gravi errori dei progressisti italiani degli ultimi anni. Da tempo ormai il Pd e la galassia alla sua sinistra — tante sigle e pochi voti: dal 2008 in avanti la sinistra radicale in Italia sta tra il 3 e il 4 per cento — mandano in Parlamento la propria nomenklatura, cui aggiungere qualche figurina: l’operaio sopravvissuto alla strage sul lavoro, l’imprenditore illuminato o presunto tale, il capo dei braccianti immigrati. Il capo dei braccianti immigrati era Soumahoro. Non occorreva Sherlock Holmes, sarebbe bastato un bravo funzionario di partito per rendersi conto che dietro la famiglia Soumahoro c’era un sistema di sfruttamento che andrà certo accertato dai processi ma era già stato denunciato — non da Casa Pound, da un sacerdote della Caritas, don Andrea Pupilla — e intanto ha portato agli arresti domiciliari la moglie e la suocera. Ma anche se la storia di Soumahoro fosse stata edificante come credevano i dirigenti che l’hanno candidato, sarebbe comunque stato un errore paracadutarlo nel collegio di Modena. Un collegio non impossibile ma difficile, che già nel 2018 la sinistra aveva tenuto per un pugno di voti. In città il Pd è ancora forte, ma sui borghi dell’Appennino sono cresciuti prima la Lega, poi Fratelli d’Italia. Un militante modenese, un leader sindacale del posto, una donna o un uomo d’esperienza quel collegio l’avrebbe tenuto. Candidando Soumahoro (poi eletto nel proporzionale) per motivi propagandistici e mediatici, la sinistra ha perso un seggio e la faccia.
Arrestata la moglie del deputato Soumahoro, Liliane Murekatete. Ai domiciliari anche la suocera. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Ottobre 2023
La decisione adottata dal gip di Latina sul caso Soumahoro e la gestione di cooperative che si occupavano della gestione di migranti, anche minorenni. Agli arresti domiciliari la moglie e la suocera del parlamentare
Poste agli arresti domiciliari Liliane Murekatete moglie del parlamentare Aboubakar Soumahoro e la suocera Marie Therede Mukamatsindo ed i membri del Consiglio di Amministrazione della cooperativa sociale integrata ‘Karibu‘. Le misure cautelari sono state effettuate dalla Guardia di Finanza su disposizione dal gip di Latina nell’ambito della gestione di cooperative che si occupavano della gestione di migranti e di minori non accompagnati nella provincia di Latina, con fondi pubblici percepiti da diversi Enti (Prefettura, Regione, Enti locali etc.) destinati a specifici progetti o piani di assistenza riguardanti i richiedenti asilo e i minori non accompagnati, fornendo tuttavia un servizio inadeguato e comunque difforme rispetto a quello pattuito.
Nell’ordinanza del gip di Latina si legge che dalle indagine è emerso “un collaudato sistema fraudolento fondato sull’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti e altri costi inesistenti, adoperati dalla Karibu nelle dichiarazioni relative agli anni 2015-2016-2017-2018 e 2019, non solo con la specifica finalità evasiva (inserendo in dichiarazione costi non deducibili) ma anche per giustificare in sede di rendicontazione, la richiesta di finanziamenti alla Direzione Centrale del ‘sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati”’.
“Come ampiamente ricostruito dalla documentazione acquisita e sintetizzato nell’informativa della Guardia di Finanza di Latina (datata febbraio 2021), negli anni la Karibu ha percepito fondi pubblici da diversi enti statali, poiché è stata ente attuatore di diversi progetti indicati come: Cas (centri accoglienza straordinaria), Sprar (sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati) servizio di accoglienza minori e, ancora, progetto rete antitratta’‘ spiega il gip. “Le condotte risultano volontarie e consapevolmente mirate ad un risparmio di spesa (e successiva distrazione) dei fondi pubblici percepiti“.
L’ordinanza cautelare interessa anche Michel Rokundo, fratellastro di “Lady Soumahoro“: lui non è stato arrestato,ma avrà l’obbligo di dimora in provincia di Alessandria. Il nucleo familiare del parlamentare Soumahoro è accusato di “frode in pubbliche fornitura, bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio” . Come emerge dall’ordinanza del gip di Latina, Michel Rokundo “avendo la disponibilità delle credenziali di accesso al conto corrente principale della Karibu e della Jambo, ha potuto disporre, a suo piacimento, delle risorse pubbliche erogate per la gestione dei migranti, trasferendo ingenti risorse di denaro pubblico a favore di sé stesso oltreché verso l’estero ed in particolare in Rwanda dove lo stesso ha avviato prima l’apertura di un Supermercato e, successivamente, di un Ristorante sotto l’insegna ‘Gusto Italiano‘‘ intestato da Richard Mutangana, cognato di Soumahoro in quanto figlio di Marie Therese, alla moglie italiana: “Mio marito – ha raccontato la donna agli investigatori – mi coinvolse con mia suocera nell’apertura davanti a un notaio di una sede della coop Karibu a Kigali. Tale società sarebbe dovuta servire per partecipare a bandi di formazione internazionali ma che io sappia non ha mai gestito progetti”.
A fronte dei considerevoli flussi di denaro pubblico, (nel 2017 la Karibu ottenne dallo Stato 6,8 milioni, nel 2018 furono 9,7 milioni, nel 2019 scesero a 6,8 milioni). Un fiume di denaro che in parte, secondo l’accusa, è stato utilizzato per fini privati che nulla avevano a che vedere con l’accoglienza dei migranti. La Guardia di Finanza ha ricostruito tutte le disposizioni bancarie “prive di congrua giustificazione causale e comunque per finalità diverse da quelle alle quali era preposta la Karibu”. In particolare, viene riportato nell’ordinanza, “si evidenziano bonifici verso l’estero per 472.909 euro negli anni 2017/2022, utilizzo di carte di credito e prepagate, intestate alla Karibu, ma adoperate per finalità private (ristoranti, gioiellerie, centri estetici, abbigliamento, negozi di cosmetica) per importi come 93.976 euro nel 2017, 208.394 euro nel 2018, 49.946 euro nel 2019; 13.803 euro nel 2020; 2.177 nel 2021”. In molte occasioni, come emerge dall’ordinanza, le carte prepagate sono state ricaricate con causali relative a “progetti“, quando in realtà le spese effettuate con la medesima carta risultano presso attività di ristorazione, strutture recettive, negozi di abbigliamento, gioiellerie, in Italia e all’estero (Ruanda, Belgio, Portogallo).
Disposto il sequestro di beni per un ammontare complessivo di circa 2 milioni di euro, (1.942.684) vale a dire la somma di denaro pubblico che la Guardia di Finanza ha certificato essere stata spesa per finalità diverse da quella della gestione dei centri d’accoglienza che facevano capo alla cooperativa Karibù, del Consorzio A.I.O. Italia (Agenzia per l’inclusione e i diritti in Italia ) nonché la Jambo Africa (per il tramite della Karibù) La Procura di Latina spiega che : “I reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale (per distrazione) a seguito dell’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza della cooperativa Karibù e di autoriciclaggio di parte di dette somme, che sono state trasferite all’estero (Ruanda, Belgio e Portogallo) e reimpiegate in attività imprenditoriali e comunque estranee rispetto alle finalità di assistenza e gestione in Italia dei migranti e/o richiedenti asilo”.
Per il Gip del Tribunale di Latina oltre alle ”condotte di frode in pubbliche forniture” gli accertamenti contabili e le stesse valutazioni del commissario liquidatore, hanno permesso alla Procura di ricostruire ”un quadro allarmante di distrazioni patrimoniali idonee a svuotare la Karibu (anche per il tramite della Jumbo Africa– soggetto giuridico fittizio) e portarla allo stato di insolvenza, dichiarato con sentenza del Tribunale di Latina del maggio 2023′‘
I molti soldi pubblici destinati ai migranti venivano distratti dal gruppo alberghi, ristoranti, abbigliamento di lusso, accessori, gioielli , tra i quali emerge Liliane Muraketete moglie del parlamentare boubakar Soumahoro (eletto nelle liste dei Verdi-Sinistra Italiana) la quale viene accusato di aver sperperato una cifra calcolata intorno al milione di euro con una progressione incredibile: 2 mila euro nel 2017 tra ristoranti e hotel della provincia di Latina, più del doppio l’anno dopo estendendo il raggio d’azione alla Capitale, al nord Italia e all’estero. Pescando qui e là: il villaggio Eneas di Gaeta, Il Farò Botique Hotel di San Felice al Circeo, Les Six Colonnes di Waterloo in Belgio, il negozio Calzature Ferrandi a Brescia (250 euro), la boutique Salvatore Ferragamo a Roma (1990 euro), un negozio di abbigliamento sportivo a Zaventem (ancora in Belgio), l’hotel Hilton a Fiumicino, il Villa in the Sky di Bruxelles.
Ma non solo. Shopping di Lady Soumahoro anche nel negozio di cosmetici Kiko a Latina e Milano, il centro estetico Nails & the city, sempre a Latina, quello di abbigliamento Tommy Hilfiger di Roma (188 euro), enoteche, fiorai , agriturismi, locande, resort a Sabaudia, scarpe Geox (209 euro), Hugo Boss all’outlet di Castelromano, Ikea (ancora in Belgio), 125 euro in guanti da Sermoneta, H&M, gioiellerie, negozi di intimo (Golden Point, Intimissimi), abiti da cerimonia, bisteccherie, ancora saloni di bellezza, 534 euro non rendicontati in un negozio Elena Mirò.
L’indagine ha verificato ed analizzato anche il flusso di denaro che ha preso, in gran parte, la via dell’Africa per il finanziamento di un resort in Ruanda, mentre in Italia i centri di accoglienza venivano lasciati in pesante stato di abbandono con sovrannumero di ospiti, alloggi fatiscenti con arredamento inadeguato, condizioni igieniche carenti, derattizzazione e deblattizzazione assenti; riscaldamento assente o comunque non adeguato. Inoltre riscontrate e contestate carenze nell’erogazione dell’acqua calda, carenze nella conservazione delle carni, insufficienza e scarsa qualità del cibo, presenza di umidità e muffa nelle strutture, carenze del servizio di pulizia dei locali e dei servizi igienici, insufficiente consegna di vestiario e prodotti per l’igiene.
Liliane Muraketete e Marie Therede Mukamatsindo
Al riguardo sono esemplificative le vicende dei CAS di Aprilia (Via Lipari), di Latina (Hotel de la Ville Centrai) e di Maenza (Gasai dei Lupi) gestiti dalla Karibu nonché quelle dei CAS di Latina (Via Romagnoli e Via del Pioppeto) gestiti dal Consorzio AIO. Tali distrazioni di danaro sono state oggetto di approfondimenti investigativi che hanno consentito di ipotizzare a carico degli indagati i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale (per distrazione) a seguito dell’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza della cooperativa Karibu e di autoriciclaggio di parte di dette somme, che sono state trasferite all’estero (Ruanda, Belgio e Portogallo) e reimpiegate in attività imprenditoriali e comunque estranee rispetto alle finalità di assistenza e gestione in Italia dei migranti e/o richiedenti asilo.
La gestione della famiglia Soumahoro ha causato anche un pesante problema occupazionale per gli ex lavoratori della cooperativa Karibù, alcuni dei quali sono rimasti senza lavoro e stipendio da 3 anni. La loro battaglia per pretendere le proprie spettranze economiche è appena iniziata, l’udienza dinnanzi al Tribunale del Lavoro di Latina è prevista il prossimo 3 ottobre.
Un anno fa dopo le polemiche per il caso Aboubakar Soumahoro, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. Italiana (che si era autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera Marie Therese Mukamitsindo, Liliane Murekatete la figlia e compagna del deputato Soumahoro era un fiume in piena e puntava il dito contro i media per aver portato avanti una campagna “odiosa, dov’è la presunzione d’innocenza? Io diffamata ai limiti dello stalking”. Lady Soumahoro accusava la stampa di aver avuto un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti : “Posso capire, senza giustificarli, gli attacchi politici, ma la narrazione della maggior parte dei giornalisti è stata improntata ad un teorema fondato sulla colpevolezza certa e manifesta, con buona pace della presunzione di innocenza: colpevole io, colpevole mia madre, colpevole il mio compagno“.
Immediata la reazione del parlamentare Soumahoro dopo l’arresto della moglie e della suocera: “Prendo atto della misura applicata a mia moglie Liliane, null’altro ho da aggiungere o commentare, se non che continuo a confidare nella giustizia“. Il deputato Soumahoro deputato eletto nelle liste di Alleanza Verdi e Sinistra Italiana (che si era autosospeso dopo le indagini aperte sulle cooperative gestite dalla suocera, la figlia e compagna del deputato il quale ribadisce ancora “come è agli atti, la mia totale estraneità a tutto e chiedo nuovamente di rispettare la privacy di mio figlio“. Anche il difensore della moglie di Soumahoro, l’ avv. Lorenzo Borrè interviene nel dibattito e condanna l’interpretazione delle accuse rivolte alla sua assistita. “La notizia della conclusione delle indagini sulla cooperativa Karibu ha portato alla pubblicazione di articoli che non forniscono una corretta rappresentazione del quadro accusatorio e che in diversi casi veicolano assunti che non trovano riscontro nell’avviso notificato dalla Procura di Latina“.
Le reazioni ed i silenzi della politica
Silenzio imbarazzante da parte della sinistra politica che esaltava Soumahoro arrivando a candidarlo e farlo eleggere in Parlamento, e dei giornalisti che hanno sponsorizzato a partire da Marco Damilano. Soumahoro è la denuncia vivente di una politica ormai priva di principi, che va alla ricerca dei ‘’simboli’’ per riconoscere in essi se stessa. Questo caso ha fatto emergere ancora una volta le criticità ben note del nostro Paese, dove le coop rosse hanno il predominio su un settore delicato come quello dell’accoglienza dei migranti.
“Gli sviluppi dell’inchiesta Karibu e le dure accuse dei pm sono inquietanti – ha commentato Matteo Salvini leader della Lega – Fermo restando la presunzione di innocenza, è incredibile che la sinistra e alcune delle sue trasmissioni tv avessero scelto Soumahoro come testimonial delle loro battaglie. Peraltro, le cronache degli ultimi anni hanno provato i troppi sprechi e gli abusi da parte della macchina dell’accoglienza targata sinistra. È anche per questo che piace l’immigrazione clandestina?“, ha dichiarato il vicepremier. “Due familiari si Soumahoro ai domiciliari. Complimenti a Bonelli: ora ha più parenti di parlamentari arrestati che voti. Un bel record” è il commento di Gianangelo Bof, parlamentare della Lega.
Sara Kelany responsabile Immigrazione di Fratelli d’Italia, chiede a Soumahoro “una forte presa di posizione politica sul caso, che Soumahoro non prende e non può prendere. È inaccettabile che seguiti ad affermare che non abbia nulla da dire. L’arresto della moglie e della suocera, oltre che la confisca dei beni, disposte dal tribunale di Latina, aprono uno spaccato inquietante rispetto alla gestione delle cooperative di accoglienza“. Il sottosegretario alle Imprese e Made in Italy Massimo Bitonci allarga il campo, spiegando che gli ultimi fatti “richiamano l’attenzione sulla necessità di riformare il sistema di revisione e vigilanza del settore cooperativo. Urge una maggiore trasparenza e incremento dei controlli, purtroppo le verifiche annuali esercitate si sono dimostrate insufficienti nel garantire il rispetto delle norme fondanti che regolamentano il funzionamento delle cooperative“.
Maurizio Gasparri mette il focus sui tempi della giustizia: “In tutti questi mesi gli indagati hanno avuto probabilmente mano libera e non comprendiamo un intervento ritardato. Che o non era necessario, o, diversamente, doveva avere altri tempi. Misteri della giustizia italiana. Quindi vedremo gli sviluppi“.
Liliane Murekatete: “Non chiamatemi Lady Gucci”. Il diritto all’eleganza con i soldi dei migranti? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Ottobre 2023
Soumahoro, il 24 novembre dello scorso anno facendosi intervistare da Corrado Formigli, a Piazzapulita, su La7 aveva provato a rimediare ad un suo video in lacrime di coccodrillo . Risultato tragicomico. Il deputato ivoriano aveva spiegato così le foto della moglie vestita con abiti firmati e in hotel a 5 stelle: "C’è il diritto all’eleganza e alla moda. La moda non è né bianca né nera. È semplicemente umana".
Liliane Murekatete 46 anni, originaria del Ruanda, compagna del deputato Aboubakar Soumahoro, eletto con Verdi e Sinistra Italiana e passato con non poche polemiche al gruppo misto per la “scarsa solidarietà” ricevuta da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, è finita nell’ inchiesta che l’ha vista finire ieri agli arresti domiciliari dal Gip dr. Giuseppe Molfese del Tribunale di Latina per l’inchiesta sulle coop di famiglia, allorquando esplose lo scandalo ispirandosi all’antico detto secondo cui “la miglior difesa è l’attacco si era difesa “Non chiamatemi Lady Gucci”, ha di fatto “inguaiato” Soumahoro, suo malgrado coinvolto dall’inchiesta che vede la moglie e sua suocera ai domiciliari per “frode in pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale e autoriciclaggio“.
L’inchiesta aveva portato Liliane Murekatete sotto i riflettori. E in molti avevano sottolineato il differente look stilistico della coppia. Lui, neoeletto, aveva scelto di presentarsi a Montecitorio in giacca, cravatta e galosce di gomma, simbolo della sua lotta al caporalato. Lei invece preferiva apparire nei suoi selfie postati sui social con abiti e borse firmate, pose appariscenti da “vamp”, rossetti sgargianti, occhiali griffate.
La passione di Lady Soumahoro era la moda, che aveva introdotto anche nel suo lavoro nelle cooperative di famiglia che utilizzavano il lavoro dei migranti e richiedenti asilo diventati la manodopera utilizzata nella primavera del 2018 per realizzare. “K Mare“, una collezione di costumi da bagno, pareo e abbigliamento da spiaggia di gusto etnico con la quale Liliane Murekatete aveva scelto di esercitarsi nel ruolo improprio di stilista.
Già ai tempi di “K Mare” qualcuno l’aveva attaccata per lo stile esibito sui social, e lei si era difesa negando di aver finanziato la sua passione per l’alta moda. anche con un solo centesimo dei soldi incassati dalla cooperative di famiglia. Attività a suo dire lecita, come anche la immagine pubblica che la donna dava di sé, che però contrastava non poco con il “personaggio” che suo marito si era costruito . Immagini stridenti, quelle foto di Liliane, in abbigliamento griffato, nonostante gli inutili tentativi da parte di Soumahoro di giustificarla, arrivando a definirla “disoccupata“, probabilmente per sminuire il suo ruolo nelle presunte illegalità emerse nell’inchiesta sulle cooperative sociali.
Lei si difendeva sostenendo di aver “avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono e mi sono potuta permettere abiti firmati”, assicurando di essere pronta a mostrare gli scontrini. Solo che a mostrare gli scontrini dei suoi acquisti, sono state le Fiamma Gialle delegate dalla Procura della repubblica di Latina secondo i quali, invece, alla luce degli accertamenti effettuati i soldi destinati ai migranti in realtà sono serviti ai soggiorni nei resort, agli investimenti in Ruanda e nei suoi acquisti griffati in lussuosi negozi in Italia e all’estero.
la copertina dell’ Espresso, giugno 2018 (direzione Marco Damilano) con Soumahoro e Salvini e quella modificato da Libero
Il quotidiano Libero aveva svelato i redditi annui di Soumahoro prima di entrare in parlamento, 8mila euro (cioè meno di 700 euro al mese) , e quindi, se anche sua moglie era disoccupata, come aveva fatto a ottenere il mutuo per una villetta da 360mila euro acquistata in una zona residenziale alle porte di Roma Sud ? Soumahoro si arreampucava sugli specchi: “Ho scritto un libro…”. In realtà il suo libretto in questione, “Umanità in rivolta”, in 3 anni ha venduto soltanto 9mila copie (13 euro l’una per un totale di 117mila euro), e notoriamente all’autore in media va solo il 10% delle vendite, cioè in questo caso intorno agli 11mila euro ! Nel suo saggio Soumahoro richiamava l’epico incontro di boxe tra Mohammed Alì (meglio noto come Cassius Clay) e Foreman. “Mi sento trascinato in un angolo”, aveva detto in tivù, “e da quell’angolo ho fatto quel video“. Quello delle “Lacrime di Soumahoro eau de toilette” !
Era il 20 novembre 2022 quando appena scoppiato il caso delle cooperative di migranti gestite dalla suocera del deputato ivoriano e in cui lavorava anche la moglie (indagata un mese dopo rispetto alla madre, esattamente il 15 dicembre), spopolavano gli sfottò sui social le “Lacrime di Soumahoro eau de toilette”. “Voi mi volete morto, pensate di seppellirmi. Io non ho mai lottato solo per Aboubakar. Ho sempre lottato per le persone che voi avete abbandonato”. Il deputato Aboubakar Soumahoro frignava in televisione nei programmi dei sodali di “Piazza Pulita“ e “Propaganda Live” arringando in terza persona ed accusando la destra al Governo: “Avete paura delle mie idee, perché sapete che in parlamento non vado a pulire la scrivania, ma per portare la dignità, i diritti di chi avete abbandonato. Sono le idee di lavoratori abbandonati, dei migranti…”.
Soumahoro, il 24 novembre dello scorso anno facendosi intervistare da Corrado Formigli, a Piazzapulita, su La7 aveva provato a rimediare ad un suo video in lacrime di coccodrillo . Risultato tragicomico. Il deputato ivoriano aveva spiegato così le foto della moglie vestita con abiti firmati e in hotel a 5 stelle: “C’è il diritto all’eleganza e alla moda. La moda non è né bianca né nera. È semplicemente umana“.
Il neo-parlamentare giurava a quel tempo di non sapere nulla degli affari di famiglia sostenendo che “La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro ogni forma di sfruttamento. Voi volevate il negro di cortile… Io non lo sono mai stato. Sono una persona integra, pulita” aggiungendo “Mia moglie è disoccupata, è iscritta all’Inps. Non possiede nessuna cooperativa. Perché non parlate con lei? Parlate con mia suocera, che è proprietaria della sua cooperativa. Io sarò il primo ad andare lì a scioperare e a difendere i loro diritti”. L’onorevole Soumahoro in realtà non si è presentato ad alcun sit-in.
Le contestazioni arrivarono immadiatamente. Ma come, gli veniva contestato, i dipendenti delle cooperative di famiglia aspettano di ricevere i loro stipendi da anni, le cooperative rispondono che “è colpa dello Stato che non versa i soldi“, e sua moglie intanto se la spassa? Aboubakar Soumahoro aveva replicato “Foto vecchie” . Paradosso della solita “sinistra” a maggio 2018, sua suocera invece, era stata premiata come come “imprenditrice straniera” dell’anno dall’allora presidente della Camera, la “dem” Laura Boldrini . Che ora tace.
Liliane Murekatete e Chiara Ferragni: quel paragone senza senso
Tra le feroci accuse, si è alzata una voce in difesa di lady Soumahoro: quella della giornalista Concita De Gregorio. In un articolo pubblicato su Repubblica,si era lanciata in una lunga disquisizione in difesa di Liliane Murekatete, arrivando addirittura a paragonarla a Chiara Ferragni. Secondo la De Gregorio, sono entrambi giovani e bellissime donne che amano gli abiti firmati e le borse di lusso, e concedono qualche scatto senza veli. Dopo aver elencato tutti i grandi successi della Ferragni, dai suoi 30 milioni di follower all’incontro con Liliana Segre, dal lancio del suo marchio al Festival di Sanremo, la giornalista ex direttore del quotidiano L’ UNITA’ sino al suo fallimento e chiusura, affermava: “Non vedo perché una giovane donna arrivata in questo paese dal Ruanda non debba prendere appunti e provare a imitarla. Chiedo. Se il gioco è questo, è così che si fa”.
Il paragone tra Liliane Murekatete e Chiara Ferragni, era decisamente azzardato ed infatti erano arrivate una marea di critiche nei confronti di Concita De Gregorio. C’ è da chiedersi se fosse davvero necessario prodigarsi esporsi in una lunga e complessa difesa di una donna da molto giudicata come indifendibile? Che senso ha mettere a confronto la moglie di un sindacalista, coinvolta in un’indagine sulle irregolarità contrattuali di una cooperativa che l’hanno portata ad essere arrestata , e l’influencer più famosa d’Italia? È ciò che si sono chiesti in molti. Soprattutto anche perché le due donne, sono ispirate da intenti decisamente diversi. Da un lato Chiara Ferragni, che degli abiti lussuosi ci ha fatto un mestiere. Dall’altro Liliane Murekatete, che nella nostra società ricopre un ruolo completamente diverso: gestire la cooperativa di famiglia nata con l’intento di aiutare gli ultimi, ed usata per usare i loro soldi per il proprio shopping griffato. “Mia moglie è disoccupata” la giustificava suo marito.
Ieri, 30 ottobre, Liliane Murekatete moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, e la madre (e suocera del deputato), Marie Terese Mukamitsindo, sono state arrestate dalla Guardia di Finanza. Arresti domiciliari disposti dal gip di Latina. Redazione CdG 1947
Gli arresti in casa Soumahoro: i pm allargano il Migrantigate. Rita Cavallaro su L'Identità il 31 Ottobre 2023
“Un collaudato sistema fraudolento” che ha portato in casa Soumahoro oltre 65 milioni di euro di fondi pubblici, distratti dalle casse delle coop dell’accoglienza per abiti di lusso e ristoranti. A distanza da quasi un anno dallo scandalo che ha travolto il deputato con gli stivali Aboubakar Soumahoro, del tutto estraneo alle indagini, sono finite ai domiciliari la moglie Liliane Murekatete e la suocera Marie Therese Mukamatsindo per accuse che vanno, a vario titolo, da frode nelle pubbliche forniture a bancarotta fraudolenta patrimoniale (per distrazione), fino all’autoriciclaggio. L’indagine della Guardia di Finanza, coordinata dalla Procura di Latina, ha aperto il vaso di Pandora sugli affari milionari che le lady Soumahoro avrebbero concluso grazie al sistema di accoglienza, attraverso il quale le arrestate avrebbero fatto la bella vita, usando i fondi della Karibu come un bancomat personale. Sono decine le pagine delle spese per abiti griffati e cene in ristoranti di lusso riportate nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa ieri dal gip di Latina Giuseppe Molfese, che ha disposto i domiciliari per il pericolo di inquinamento delle prove. E che ha aperto a un nuovo filone di indagine, sul quale la Procura pontina mantiene il massimo riserbo ma che riguarda scenari più ampi, “anche con riferimento a temi investigativi diversi e complessi”, scrivono i pm in una nota. C’è qualcosa di molto più grave, dunque, nel caso delle coop Soumahoro, la bufera iniziata con la denuncia di lavoratori non pagati, sfociata nelle decine di milioni di euro passati nelle casse dlla Karibu e poi spariti.
Distrazioni di denaro che sono state oggetto di approfondimenti investigativi e che hanno consentito di ipotizzare a carico degli indagati i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale (per distrazione) “a seguito dell’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza della cooperativa Karibu e di autoriciclaggio di parte di dette somme, che sono state trasferite all’estero (Ruanda, Belgio e Portogallo) e reimpiegate in attività imprenditoriali e comunque estranee rispetto alle finalità di assistenza e gestione in Italia dei migranti e/o richiedenti asilo”, scrive la Procura. L’inchiesta, ora, ha portato la Finanza a sequestrare circa due milioni di euro alle coop che gestivano i migranti a Latina e ad accertare che almeno mezzo milione di euro sarebbe stato fraudolentemente trasferito all’estero tra il 2017 e il 2022. E ha spianato la strada per disporre l’arresto per Liliane e Marie Therese, che potrebbero inquinare le prove alla luce del nuovo filone investigativo più complesso. Mamma e figlia avrebbero utilizzato le carte di credito e prepagate intestate alla Karibu “per finalità private (ristoranti, gioiellerie, centri estetici, abbigliamento, negozi di cosmetica) per importi come 93.976 euro nel 2017, 208.394 nel 2018, 49.946 euro nel 2019; 13.803 euro nel 2020; 2.177 nel 2021”, scrive il gip. Non solo distrazione dei fondi, ma anche frode nelle pubbliche forniture, visto che di quei milioni per l’assistenza solo una parte veniva destinata ai migranti. Nelle strutture delle coop c’era un sovrannumero di ospiti, alloggi fatiscenti con arredamento inadeguato, condizioni igieniche carenti, l’assenza del riscaldamento, niente acqua calda, carenza nella conservazione delle carni e scarsa qualità del cibo.
Mentre i dominus della cooperativa mangiavano nei ristoranti gourmet. Per il gip le “condotte risultano volontarie e consapevolmente mirate ad un risparmio di spesa (e successiva distrazione) dei fondi pubblici percepiti. Il dato oggettivo e contabile, non superabile, è che buona parte del denaro ricevuto non è stato adoperato per le finalità preposte, questo alla luce delle documentate distrazioni ma, anche e soprattutto, per la carenza dei servizi offerti”. Senza contare che già nella prima fase gli indagati avevano tentato di far sparire una serie di documenti, trovati dagli inquirenti nella spazzatura. Sono state inoltre ricostruite tutte le condotte “distrattive” di Richard Mutangana, figlio di Maria Therese e cognato del deputato di Alleanza Versi-Sinistra passato al gruppo Misto, che “avendo la disponibilità delle credenziali di accesso al conto corrente principale della Karibu e della Jambo, ha potuto disporre, a suo piacimento, delle risorse pubbliche erogate per la gestione dei migranti, trasferendo ingenti risorse di denaro pubblico a favore di se stesso oltreché verso l’estero ed in particolare in Rwanda dove lo stesso ha avviato prima l’apertura di un supermercato e, successivamente, di un ristorante sotto l’insegna “Gusto Italiano”.
Dalle borse agli abiti griffati: tutte le spese pazze di Lady Soumahoro. Rita Cavallaro su L'Identità l'1 Novembre 2023
Il diritto all’eleganza di Lady Soumahoro, a spese nostre e sulla pelle dei poveri migranti. Così spudorato, senza scrupoli e poco compatibile con l’attività delle coop che a Latina gestivano l’accoglienza. Il deputato con gli stivali, Aboubakar Soumahoro, giura di non sapere nulla del sistema illegale attraverso il quale sua moglie Liliane Murekatete e sua suocera Marie Therese Mukamatsindo gestivano i milioni di euro di fondi pubblici, entrati nella casse delle cooperative Karibu e Consorzio Aid, finite sotto la lente della Guardia di Finanza lo scorso anno, dopo la denuncia dei lavoratori non pagati che hanno scoperchiato il vaso di Pandora. E che ora hanno portato ai domiciliari le due donne, accusate di frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale (per distrazione) e autoriciclaggio. Gli inquirenti hanno ricostruito le spese pazze di casa Soumahoro, che ormai da anni faceva affari con gli immigrati e aveva vinto bandi per oltre 65 milioni di euro.
Soldi che sarebbero serviti per le strutture dell’accoglienza, il cibo per gli ospiti, i pocket money e i servizi di prima necessità e che invece sono finiti nelle tasche di Liliane e della sua famiglia. Una famiglia che avrebbe “mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale a gestione familiare”, con “malafede” e “condotte volontarie”, volte a distrarre più denaro possibile dalle casse delle coop. Sono due i milioni di fondi pubblici per ora sequestrati dalla Finanza. Ma l’elenco dei soldi spariti è così lungo da occupare 120 delle 152 pagine dell’ordinanza del gip. Tra il 2017 e il 2022 sono stati dirottati dai conti della Karibu e dalle carte di credito, usate come bancomat personali, oltre 920mila euro. Sono in corso inoltre approfondimenti su alcuni bonifici, tra cui uno da 8.270 euro del primo dicembre 2017, recante la causale “rimborso trasporto cibo africano”. Queste operazioni non trovano riscontro, così come i 10mila euro, con la stessa causale, inviati a Liliane il 27 settembre 2017. Nello stesso anno sono arrivati alla moglie del deputato di sinistra due bonifici per un totale di 70mila euro per consulenze.
A dimostrazione del diritto all’eleganza di Lady Soumahoro, la mappa del lusso tracciata dall’elenco movimenti delle carte di credito. L’eleganza nel vestire, con abiti di Ferragamo per un totale di 1.990 euro spesi nella boutique di Roma il 2 dicembre 2018 o i 1.260 pagati al negozio Cannella di abbigliamento donna a Latina. L’eleganza in camera da letto, con 700 euro di acquisti da Intimissimi il 21 aprile 2018. L’eleganza del corpo, tra un salone di bellezza di Assisi (150 euro), un profumo da 298,90, un monile in oro pagato 480 euro in gioielleria il 6 settembre 2018 e gli integratori per la palestra comprati online nel 2021. L’eleganza dello spirito, tra hotel di lusso in giro per il mondo e ristoranti gourmet. Per saldare un quattro stelle in Ruanda il Primo gennaio 2018 sono stati sottratti alle spese per il cibo, già scadente, dei migranti ben 2.140 euro. Sempre in Ruanda, all’enoteca Tiani’s, il 29 maggio 2018 sono stati strisciati 2.148,66 euro mentre all’Ecco Restaurant di Drummoyne, in Australia, il 4 marzo 2020 la cena è costata 364,70 euro.
Il mese prima, a febbraio, la carta prepagata intestata alla suocera di Soumahoro, che la ricaricava spostando continuamente denaro dal conto Karibu, è stata utilizzata, nel momento di lockdown da covid, per una serie di cene costosissime al ristorante Gusto Italiano, aperto a Kigali da Richard Mutangana, figlio di Maria Therese e cognato di Soumahoro. Il 5 febbraio un pagamento da 1.098,07 euro, il 19 da 1.235,07, il 20 da 893,17, il 21 altri 1.129,49 e il 25 un conto da 1501,83. Scontrini sospetti, che fanno il paio con le condotte “distrattive” di Mutangana, il quale “avendo la disponibilità delle credenziali di accesso al conto corrente principale della Karibu e della Jambo, ha potuto disporre, a suo piacimento, delle risorse pubbliche erogate per la gestione dei migranti, trasferendo ingenti risorse di denaro pubblico a favore di se stesso”, ha scritto il gip. Tra il 2017 e il 2019 Mutangana, solo sulla sua prepagata, ha spostato oltre 210mila euro, mentre alla Jambo, ritenuta una società satellite della Karibu, sono stati dirottati nello stesso periodo 922.095 euro con bonifici esteri. Sempre a lui sono stati mandati, nel 2018, oltre 15mila euro di “pocket money” destinati ai migranti, che il cognato di Soumahoro ha invece speso per pagarsi le bollette
Soumahoro e il giallo dell’hotel: La notte nella Puglia dei braccianti. Rita Cavallaro su L'Identità il 2 Novembre 2023
Una notte al museo. E più precisamente all’Up Museum Wellness e Spa di Foggia. È in questo lussuosissimo hotel, tra Jacuzzi e percorsi benessere, che il 14 dicembre 2018 vengono pagati 240 con la carta di credito della Karibu, la coop di casa Soumahoro che prendeva appalti milionari per l’accoglienza dei migranti. Una delle tante spese folli che gli inquirenti contestano a Liliane Murekatete e a sua madre Maria Therese Mukamatsindo, moglie e suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, finite agli arresti domiciliari per frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale, per distrazione, e autoriciclaggio. Oltre 920mila euro di acquisti su carte di credito dalla coop che, per l’accusa, sarebbero stati impiegati per spese personali. Per abiti di grandi firme, gioielli, ristoranti e viaggi di lusso in tutto il mondo. Come i 2.140 euro pagati il primo gennaio 2018 al Kigali Serena Hotel in Ruanda o il lungo elenco di soldi per pernottamenti a Bruxelles. Ci sono perfino i pagamenti a suite finemente arredate a Latina, luogo di residenza delle due arrestate, e alcune spese in alberghi della Puglia, roccaforte dell’attività di sindacalista di Aboubakar.
Dall’analisi delle carte dell’inchiesta ora, sul parlamentare con gli stivali si addensano i sospetti. Soumahoro è estraneo all’indagine di Latina e sostiene di non sapere nulla delle pratiche della famiglia della moglie, che per il gip ha mostrato “elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale a gestione familiare, con “malafede” e “condotte volontarie” volte a distrarre più denaro possibile dalle casse delle coop. Eppure proprio nei giorni in cui la carta della Karibu è stata strisciata all’Up Museum, Soumahoro si trovava nella città pugliese, come ha evidenziato Striscia la notizia in un servizio nel quale ha riesumato il video in cui il sindacalista della Lega Braccianti parlava dalle campagne del foggiano contro il caporalato, in difesa dei disperati che raccoglievano pomodori tra cumuli di rifiuti. “A noi risulta che in quei giorni, 13 e 14 dicembre, Aboubakar Soumahoro era a Foggia. Dove avrà dormito?”, si domanda l’inviato del tg satirico. E ancora: “È possibile che fosse all’oscuro di tutte le spese pazze della famiglia che sperperava i soldi della cooperativa?”. Insomma, la coincidenza getta l’ombra sulla possibilità che Soumahoro, dopo la giornata di lotta per gli ultimi, possa aver cercato un po’ di relax con la moglie nell’Up Museum. Resta comunque pur sempre una coincidenza, come tutti gli altri pagamenti negli alberghi della regione in cui il sindacalista si recava continuamente.
Tra queste ci sono 200 euro a spese della Karibu il 20 giugno 2017 nella Masseria Baroni Nuovi di Mesagne, una lussuosa country house del Salento. Come ancora sarà una coincidenza anche il fascicolo aperto dalla Procura di Foggia lo scorso aprile per la vicenda della raccolta fondi della Lega Braccianti sotto la guida di Soumahoro. Sempre ai microfoni di Striscia, i colleghi del sindacalista si erano lamentati per alcuni soldi che sarebbero spariti dal conto sul quale arrivavano le donazioni. Conto aperto da Soumahoro nella stessa filiale della banca da cui, a giugno scorso, è arrivato il denaro per l’acquisto della villetta di Casal Palocco, comprata a 360mila euro, con un mutuo da 264mila e il restante saldato in parte dal parlamentare e in parte da Liliane. Ora metà di quella villetta, che Aboubakar sostiene di aver potuto permettersi grazie agli introiti di un libro che non è stato certo un bestseller, è sotto sequestro. Perché la Finanza deve recuperare circa 2 milioni di euro spariti dalla Karibu. Sui conti correnti delle donne non c’è più nulla così sono scattati i sigilli alla parte della villa di proprietà di Lady Soumahoro. Che è reclusa lì ai domiciliari e che domani si presenterà davanti al gip con sua madre per l’interrogatorio. Le indagini della Procura di Latina proseguono e puntano ancora all’estero. Non solo in Ruanda, dove sono stati dirottati centinaia di migliaia di euro, ma anche a Bruxelles, dove nel 2019 è stata costituita un’altra società, la Karibuni Asbl, e dove Liliane avrebbe comprato un’altra casa.
Estratto dell’articolo di Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” martedì 31 ottobre 2023.
Duemila euro da Salvatore Ferragamo, 700 da Intimissimi, 600 al Radisson Blu hotel di Kigali in Ruanda, 648 al Duty free del Dubai Word Center Airport, 450 al Raito hotel cinque stelle di Vietri sul Mare, 401 da Swarovsky, 500 al Porticciolo, ristorante stellato di Gianfranco Pascucci, a Fiumicino.
È sterminato l’elenco delle spese, effettuate coi soldi destinati all’accoglienza dei migranti, che il gip di Latina Giuseppe Molfese ha contestato a Liliane Murekatete, nota come “lady Soumahoro”, sua madre Marie Terese Mukamitsindo, e i figli di quest’ultima Michel Rukundo e Richard Mutangana, da ieri mattina ai domiciliari. Pesantissime le accuse, che vanno dalla bancarotta, alla frode in pubbliche forniture, all’autoriciclaggio. La Procura aveva chiesto il carcere.
[…] L’indagine della guardia di finanza, partita un paio di anni fa, ha riguardato la cooperativa “Karibu”, il “Consorzio agenzia per l’inclusione e i diritti Italia” e “Jambo Africa”, ora in liquidazione, tutte riconducibili a Soumahoro moglie e suocera, che dal 2017 hanno percepito circa 25 milioni di fondi per il tramite della Prefettura di Latina e dalla Regione Lazio ed erogati dalla Direzione centrale del sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). […] «Il dato oggettivo è che buona parte del denaro ricevuto non è stato adoperato per le finalità preposte», scrive il giudice […].
I centri erano stamberghe fatiscenti, senza servizi igienici e riscaldamento, piene di topi e gli scarafaggi. Il sovraffollamento e la pessima qualità del cibo determinavano poi risse continue fra i migranti a cui non veniva neppure distribuito il kit di benvenuto previsto per contratto col ministero dell’Interno: tessera telefonica, dotazione di vestiario, lenzuola, asciugamani.
«Condotte volontariamente e consapevolmente mirate ad un risparmio di spesa», prosegue il gip, [...]. In occasione delle visite ai centri, gli ispettori avevano contestato le pessime condizioni ambientali, ricevendo rassicurazioni che le stesse sarebbero state sanate. […] Gli arresti si sono resi indispensabili per il pericolo di inquinamento delle prove dopo che è stato scoperto un tentativo di disfarsi della documentazione contabile, una parte della quale era finita nel centro della raccolta differenziata.
«Risibile il tentativo difensivo di non sapere cosa accadesse» da parte di lady Soumahoro che a novembre del 2019, già nel mirino degli ispettori, era andata a Milano per incontrare il sindaco Sala e l’eurodeputato Majorino per trovare nuovi business lavorativi per la cooperativa. Coi soldi dell’accoglienza, per non farsi mancare nulla, era stata aperta in Ruanda una società che si occupava di safari in Uganda, Kenya e Tanzania. […]
Soumahoro, l'anno tragicomico: dal video in lacrime alla sparata sulla villetta. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano l'1 novembre 2023
Un anno fa il video con le mani giunte, le lacrime, e l’interpretazione degna di Alberto Tomba in Alex l’ariete, dimenticabile film del duemila. Sui social le “Lacrime di Soumahoro eau de toilette”, ficcante sfottò, avevano spopolato. Era il 20 novembre 2022 ed era appena scoppiato il caso delle cooperative di migranti gestite dalla suocera del deputato ivoriano e in cui lavorava anche la moglie, indagata un mese dopo rispetto alla madre, il 15 dicembre. «Voi mi volete morto, pensate di seppellirmi. Io non ho mai lottato solo per Aboubakar. Ho sempre lottato per le persone che voi avete abbandonato». Arringa in terza persona e accuse alla destra. E ancora, Soumahoro: «Avete paura delle mie idee, perché sapete che in parlamento non vado a pulire la scrivania, ma per portare la dignità, i diritti di chi avete abbandonato. Sono le idee di lavoratori abbandonati, dei migranti...». L’allora neo-parlamentare giurava di non sapere nulla degli affari di famiglia. «La mia vita è stata caratterizzata dalla lotta contro ogni forma di sfruttamento. Voi volevate il negro di cortile... Io non lo sono mai stato. Sono una persona integra, pulita. Con una rettitudine morale. Avete paura che quel mondo che volevate in guerra tra loro hanno deciso di unirsi e dare una casa a questo paese». Tarapia tapioco, prematurata la supercazzola o scherziamo?
SENZA UN LAVORO
«Mia moglie è disoccupata, è iscritta all’Inps. Non possiede nessuna cooperativa. Perché non parlate con lei? Parlate con mia suocera, che è proprietaria della sua cooperativa. Io sarò il primo ad andare lì a scioperare e a difendere i loro diritti». L’onorevole non si è visto ad alcun sit-in. Ieri, 30 ottobre, la moglie, Liliane Murekatete e la suocera, Marie Terese Mukamitsindo, sono state arrestate dalla guardia di finanza. Arresti domiciliari disposti dal gip di Latina. Le accuse, a vario titolo, sono di bancarotta fraudolenta patrimoniale, frode nelle pubbliche forniture e autoriciclaggio. Venerdì (3 novembre) il gip deciderà l’eventuale rinvio a giudizio anche per frode fiscale. Questa la nota, diffusa ieri, delle fiamme gialle: «Le cooperative “Karibu” e “Consorzio agenzia per l’inclusione e i diritti Italia” (Consorzio Aid), nonché la Jambo Africa (per il tramite della Karibu) hanno percepito ingenti fondi pubblici da diversi enti (Prefettura, Regione, Enti locali, etc.) destinati a specifici progetti o piani di assistenza riguardanti i richiedenti asilo (...), fornendo tuttavia un servizio inadeguato e comunque difforme rispetto a quello pattuito». Torniamo a un anno fa.
Soumahoro, il 24 novembre, aveva provato a rimediare al suo video facendosi intervistare da Corrado Formigli, a Piazzapulita, su La7. Risultato tragicomico. Il deputato ivoriano aveva spiegato così le foto della moglie vestita con abiti firmati e in hotel a 5 stelle: «C’è il diritto all’eleganza e alla moda. La moda non è né bianca né nera. È semplicemente umana». Ma come: i dipendenti delle coop aspettano gli stipendi da anni, le coop rispondono che è colpa dello Stato che non versa i soldi, e la moglie intanto se la gode? Foto vecchie, aveva replicato Abou. La suocera invece, a maggio 2018, era stata premiata dall’allora presidente della Camera, la dem Laura Boldrini, come imprenditrice straniera dell’anno. Un trionfo.
Soumahoro è diventato deputato il 25 settembre 2022, candidato dall’Alleanza Verdi-Sinistra (leader Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni) nel collegio uninominale di Modena grazie all’accordo col Pd. Il 25 ottobre ha fatto il suo esordio alla Camera indossando stivali di gomma sporchi di fango e brandendo il pugno chiuso.
Gli stivali, ha protestato a Striscia la Notizia qualche tempo dopo uno dei suoi ex soci della Lega Braccianti di San Severo - nel Foggiano non erano suoi: «Ridammeli, mi servono per lavorare». Non ci sono conferme. La premier Meloni, per sbaglio, in aula gli aveva dato del “tu”. Inammissibile, per Soumahoro, che ospite di Fabio Fazio era tornato ad alti livelli: «Tanti anni fa nelle colonie i colonizzatori chiamavano i colonizzati dandogli del “tu” semplicemente perché il “lei” era riservato solo ai bianchi. Usare questo termine è un richiamo a tutto questo». Nel frattempo Bonelli e Fratoianni l’hanno disconosciuto e l’ivoriano è passato al gruppo misto.
IL BEST SELLER
Soumahoro, vestito da Babbo Natale, ha raccolto fondi per distribuire i regali di Natale ai bimbi del ghetto di San Severo (dove Abou faceva i selfie con gli immigrati), e però il parroco, don Pupilla, ha segnalato che lì di bimbi quasi non ce ne sono. Libero aveva svelato i guadagni annui di Soumahoro prima di entrare in parlamento, 8mila euro, e dunque, se anche la moglie era indigente, come aveva fatto a farsi concedere il mutuo per una villetta da 360mila euro? «Ho scritto un libro...». Il saggio in questione, “Umanità in rivolta”, in 3 anni ha venduto la bellezza di 9mila copie (13 euro l’una), e all’autore in media va il 10% degli incassi... Nel saggio richiama l’epico incontro di boxe tra Alì e Foreman. «Mi sento trascinato in un angolo», aveva spiegato in tivù, «e da quell’angolo ho fatto quel video». Quello delle “Lacrime di Soumahoro de toilette”.
Fulvio Fiano per corriere.it - Estratti sabato 4 novembre 2023.
Per il giudice che fa l’appello a inizio udienza è «irreperibile». Il suo avvocato, nominato d’ufficio, Francesco Cossa, non ha mai avuto nessun colloquio con lui («e dubito che si farà mai vivo»), mentre per il gip che ha firmato gli arresti domiciliari per sua mamma Marie Terese Mukamitsindo, sua sorella Liliane Murekatete e ha imposto l’obbligo di dimora in provincia di Alessandria (dove vive da due anni) a suo fratello Michel Rukundo, nei confronti di Richard Mutangana non sussistono esigenze cautelari perché «non si ravvedono specifiche esigenze da tutelare».
Dal 2016 il 47enne (secondo dei tre fratelli), è tornato vivere in Ruanda, i fatti a lui contestati risalgono al 2015 (quindi avviati a prescrizione) e anche se il giudice include anche il suo patrimonio tra quelli da sequestro fino al totale di due milioni di euro, difficilmente questo lo distrarrà dalla sua attività di titolare del Gusto Italiano, risto-bar di Kigali, oltre che di gestore di un supermercato.
Secondo la guardia di finanza di Latina, entrambe le attività sono state aperte attingendo a piene mani dalle casse della Karibu. Nei riscontri forniti al pm ci sono decine di bonifici a suo favore con causali generiche o fasulle («progetto Uganda», «donazione orfanatrofio»). Mutangana non aveva cariche nella coop per migranti (e per questo non ci sono le esigenze di arresto), ma nello schema illecito su base familiare era «il terminale estero per il reinvestimento del denaro». Migliaia di euro sono stati destinati anche all’istruzione e delle attività sportive dei due figli, Stefano e Roberto, alla Green Hill Academy. E qui si apre un altro capitolo, anche doloroso, ai margini della vicenda giudiziaria.
Tagliando i ponti con l’Italia, Mutangana non ha esitato a relegare nel suo passato anche la moglie, conosciuta a Latina, Valeria Giglioli. Laureata alla Sapienza, master in Risorse umane, per 14 anni dipendente della Karibu a 1.200 euro mensili. È stata anche lei intestataria di bonifici di dubbia veridicità, ma è risultata estranea alle indagini rivelando il sistema di finanziamento di supermercato e risto-bar a due passi da Avenue de la Justice (dj set, pool party, partite in diretta della coppa d’Africa, capra allo spiedo, pollo ripieno e una imperdonabile pizza friabile ostentate nel “menù italiano”): fondi a una società di progetti umanitari, in realtà dedita ai tour per turisti.
(…)
Estratto da lastampa.it sabato 4 novembre 2023.
Gli oggetti di lusso, le borsette costose «non li ho comprati io: gli unici pagamenti che ho effettuato sono stati gli stipendi, e le spese per acquistare il cibo per gli ospiti della struttura». In dieci minuti di dichiarazioni spontanee davanti al gip di Latina, Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, ha respinto le accuse di aver utilizzato fondi delle cooperative pro-migranti per beni voluttuari.
«Non ho mai avuto in uso le carte di credito della cooperativa», ha aggiunto. Murekatete, assieme alla madre Marie Therese Mukamitsindo e ad altre quattro persone, è coinvolta nell'inchiesta sulla gestione dei fondi pubblici da parte delle cooperative che si occupano di migranti nella provincia pontina. Indagine nella quale la Guardia di Finanza avrebbe portato alla luce un «sistema fraudolento» che avrebbe dirottato, tra il 2017 e il 2022, il denaro che arrivava per le attività di assistenza degli stranieri nel Lazio. I quali però, secondo gli inquirenti, vivevano invece in condizioni fatiscenti.
La donna, assieme alla madre e a un fratello, è stata raggiunta lunedì da un'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari: le accuse nei confronti dei tre - tutti oggi coinvolti nel passaggio processuale - sono a vario titolo frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale e autoriciclaggio.
«Alla mia assistita - ha spiegato però l'avvocato Lorenzo Borrè - non possono essere contestate condotte distrattive» e anche una presunta consulenza da 70 mila euro è stata contestata davanti al giudice: «Quei soldi - ha detto la donna - non risultano nel mio conto corrente».
Dunque, quei beni di lusso «non sono stati comprati da lei» ha proseguito il legale, tant'è vero che «nella stessa ordinanza si fa riferimento a questi acquisti, ma non li si riferisce alla signora Murekatete, che non ha mai approvato bilanci relativi a queste spese».
Per ora la donna rimarrà ai domiciliari. Il legale dubita che al momento possano essere revocati, «ma non per la sua colpevolezza - ha sottolineato - quanto perché in questa fase processuale ciò non avviene quasi mai. Faremo istanza al Tribunale del Riesame».
Giacomo Amadori per la Verità- Estratti sabato 4 novembre 2023.
Che cosa faceva davvero a Bruxelles Liliane Murekatete, la compagna del deputato Aboubakar Soumahoro? Si occupava di migranti o di altro? Lo abbiamo scoperto intervistando Samah Ben Halima, la presunta «tesoriera» della Karibu Belgique, l’associazione senza fini di lucro finita nel mirino della Procura di Latina. Gemella e quasi omonima della cooperativa fondata a Sezze (Latina) da Marie Thérèse Mukamitsindo, madre di Liliane, è stata costituita il 22 giugno del 2016. La moglie di Soumahoro è stata presidente sino al fallimento, avvenuto nel 2019. Ben Halima, di professione estetista inizia il suo racconto: «Liliane ci ha detto che era una donna d’affari. Era cliente del salone dove lavoravo all’epoca.
Poi ha offerto a me e a Giovanni (Nugnes, ndr), un mio collega coiffeur, di lavorare per lei». Il resoconto prosegue: «Ha affittato un salone di estetica e parrucchiere e ha assunto me e Giovanni. Ma, poi, per molto tempo non abbiamo avuto notizie. Ci diceva che avremmo aperto presto». E non è mai successo, giusto? «Esatto».
Era una truffa? «Non credo. Aveva comprato tutto, ma poi l’attività non è partita. Il motivo non lo so». Chiediamo alla testimone del suo ruolo di tesoriera. Risposta: «Dovrebbe chiedere a Liliane o a sua madre. Io non voglio più avere niente a che fare con queste persone. In ogni caso mi hanno messo dentro alla Karibu senza dirmelo».
Mi spieghi meglio…
«Hanno falsificato la mia firma. Quando ho appreso che mi avevano inserito nell’associazione come tesoriera a mia insaputa, allora ho contattato un avvocato perché non c'entravo niente con la Karibu. Io sono un’estetista. E là dentro hanno messo anche il nome del parrucchiere». E poi che cosa è successo? «Quando ho annunciato la denuncia la madre è venuta in Belgio per risolvere il problema prima che io depositassi la querela in tribunale. Adesso però non voglio più sapere niente di loro. Non ho nulla a che fare con i loro imbrogli. Ho strappato il contratto molto tempo fa».
Dunque la Murekatete a Bruxelles anziché occuparsi di migranti aveva provato ad avviare un centro estetico e anche l’associazione fondata nel 2016 in Belgio sembrava andare in quella direzione. Soumahoro, in tv, in fondo, aveva difeso la compagna, spiegando che «il diritto all’eleganza, il diritto alla moda è una libertà, la moda non è né bianca né nera la moda è semplicemente umana».
E così mentre i migranti ospitati nelle strutture d’accoglienza di sua suocera vivevano in mezzo a topi e blatte, mangiando cibo di scarsa qualità (è evidenziato nell’ordinanza che ha portato le due donne ai domiciliari), lady Soumahoro si sbizzarriva con i suoi sogni.
L’anno scorso era diventato virale un video di una sfilata di moda organizzata dalla Murekatete a Latina. Ma sembra che quel défilé fosse parte di un progetto più complesso. Portato avanti con determinazione a Bruxelles con la Karibu Belgique.
Nel 2016 Liliane, la madre, il fratello Michel, la cognata Marina, un commercialista e un trentenne napoletano, che secondo Ben Halima è un parrucchiere, fondano la Karibu Belgique il cui oggetto sociale è davvero sorprendente.
L’articolo 2 spiega che l’associazione prende «spunto dal lavoro sul campo portato avanti da diversi anni dalla cooperativa sociale Karibu nel campo dell’accoglienza, dell’inserimento socio-professionale e del sostegno alle persone in difficoltà». Ma contiene anche un’osservazione che è la stella polare della nuova iniziativa: «Il successo di qualsiasi progetto professionale dipende, in particolare, dal livello di fiducia che si ha in se stessi».
Il tema è questo: la fiducia in se stessi che porta a ottenere successo.
E come si costruisce questa autostima? Lo spiega lo statuto: «Si modella e si mantiene attraverso tecniche e azioni concrete.
In questo contesto, i fondatori di Karibu Belgique intendono creare un quadro adeguato destinato a offrire attività diversificate che contribuiscono al raggiungimento di questo obiettivo.
(…) Eppure nella città metropolitana di Bruxelles Liliane ha acquistato uno studio e lo ha affittato per diversi mesi alla Karibu italiana. Inoltre le indagini della Procura hanno registrato decine di migliaia di euro di spese effettuate in Belgio con i soldi pubblici destinati all’accoglienza. Liliane, oltre agli affitti, avrebbe incassato anche una consulenza da 35.000 euro e 7.000 euro sarebbero stati destinati a un non meglio specificato «convegno europeo». Ma agli atti sono rimasti anche i conti di ristoranti stellati e negozi di lusso. Tracce, forse, della vita spensierata di Liliane a Bruxelles, quando voleva regalare eleganza a tutti. Ma soprattutto a sé stessa.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per “La Verità” venerdì 3 novembre 2023
La dolce vita della matrona ruandese Marie Thérèse Mukamitsindo, già presidente della ormai famigerata cooperativa Karibu, e del suo parentado (compreso il genero-deputato Abubakar Soumahoro) era garantita dai fondi per l’accoglienza.
Ma per poter godere di ristoranti stellati e resort di lusso, di vestiti griffati e gioielli, la signora e i suoi figli hanno dovuto costituire un reticolo di società e associazioni in grado di drenare denari apparentemente per finalità in linea con le erogazioni e fungere da bancomat per i capricci della schiatta originaria dell’Africa nera.
Nella sua relazione, il commissario liquidatore della coop Francesco Cappello elenca queste organizzazioni satellite, una in Belgio e tre in Italia, che hanno permesso tutto questo.
Particolarmente interessante è il ruolo dell’associazione Mukra onlus (senza fini di lucro), costituita a Latina il 21 aprile 2015 […]. La ragione sociale era questa: «La tutela dei diritti civili ed accoglienza delle persone in stato di bisogno, con particolare attenzione agli stranieri, richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale o permesso umanitario». Anche questa realtà sarebbe servita come bancomat per la Mukamitsindo e i suoi figli per distrarre buona parte dei contributi pubblici.
Cappello collega alla Mukra «operazioni distrattive» per 1.041.034,37 euro, ovvero l’importo dei pagamenti effettuati dalla Karibu in suo favore.
Tra i soci fondatori figura un ex sindacalista della Cisl e presidente provinciale dell’Inail di Latina, F. F., scomparso a 61 anni nel 2019. Di lì a poco l’associazione avrebbe chiuso i battenti. Hanno partecipato alla costituzione della onlus anche due dipendenti della Karibu, S. R. e S. D., e uno degli attuali indagati nelle inchieste della Procura di Latina sulla cooperativa fallita, Michel Rukundo, ultimogenito della suocera di Soumahoro.
Secondo il commissario liquidatore l’associazione era stata creata per consentire di occultare fondi che poi la famiglia avrebbe usato nei modi più disparati. Intanto il personale a libro paga della Karibu effettuava attività di prima accoglienza negli Sprar magari anche a nome della Mukra. […] Karibu avrebbe versato alla Mukra […] in poco più di tre anni oltre un milione di euro attraverso bonifici bancari.
Nel frattempo, tra il 2015 e il 2018, la Karibu registrava le fatture emesse dall’associazione, per un importo totale di quasi 1,5 milioni di euro. Il commissario ha commentato: «Dai prospetti si evince che la associazione Mukra emetteva (sostanzialmente) fatture solo in favore della Karibu […] che venivano da quest’ultima registrate tutte a fine anno». Di fronte a questo dato Cappello alza la palla alla Procura: «Si lascia dunque all’Autorità giudiziaria ogni valutazione in merito a tali fatture».
[…] La situazione della Jambo Africa, fondata nel 2007 e, per anni, presieduta da Christine Kabukoma, è persino più sconcertante: «Dalle verifiche effettuate dalla Polizia giudiziaria, e emerso che la Jambo Africa e un’associazione apparentemente creata “al solo scopo di permettere l’evasione delle imposte a terzi (nello specifico alla coop Karibu) nonché, riciclo di denaro, mediante fatturazione e riscossione di servizi non effettuati. La suddetta associazione presenta caratteristiche tipiche di soggetti economici inesistenti”» annota Cappello.
I dipendenti dell’associazione, tra il 2016 e il 2018, sono stati circa 20. Risultavano assunti Richard Mutangana (figlio della Mukamitsindo), V. G. (anche dipendente della Karibu, ex moglie/compagna di Mutangana), Alina Mutesi (altra figlia della Mukamitsindo, nonché presidente del cda del Consorzio Aid), G. P. e M. T. (entrambe già dipendenti della Karibu).
La Karibu, tra il 2012 e il 2019, ha inviato alla Jambo 2,785 milioni di euro in bonifici. «Tali pagamenti sono avvenuti» continua il commissario, «a seguito della presentazione di fatture emesse per operazioni inesistenti o comunque per le quali il sottoscritto non ha rinvenuto alcuna utilità in favore della cooperativa. Non solo […] con una specifica finalità evasiva, ma - ad avviso del sottoscritto - anche per giustificare in sede di rendicontazione la richiesta di finanziamenti alla direzione centrale del “sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati”» è la conclusione del commissario.
Il quale ha riportato anche le dichiarazioni di un consulente del lavoro, A. Q., il quale l’11 febbraio 2014 ha scritto questa sconcertante mail: «Da quel momento (cioè dalla fondazione, ndr) l’associazione non ha più fatto nulla a livello amministrativo, non c’è contabilità, bilanci e verbali di assemblee. […]».
Vale la pena di ricordare che con questo pedigree da associazione fantasma, nel 2012, la Jambo ricevette bonifici per 200.000 euro e per 280.000 nel 2013. L’ultima «creatura» italiana della famiglia è il Consorzio Aid. E anche qui sono stati dirottati molti denari, per l’esattezza 885.000 euro.
Cappello ricorda che, in ordine ad alcune fatture emesse negli anni 2017-2018, sono stati già contestati reati fiscali, come l’utilizzo e l’emissione di fatture per prestazioni inesistenti per l’evasione delle tasse. All’estero la presunta «scatola vuota» più utilizzata è stata, invece, la Karibu Belgique, un’associazione senza scopo di lucro di Bruxelles, dichiarata fallita nel 2019, proprio l’anno in cui ha passato il testimone alla Karibuni.
A fondare la Karibu Belgique sono stati Liliane Murekatete, compagna di Soumahoro, la madre Maria Thérèse, il fratello Michel, l’ex fidanzata di quest’ultimo, un commercialista di origini africane e un cittadino napoletano che, a quanto risulta alla Verità, farebbe l’operaio in Campania. Nell’elenco dei fondi distratti dalle casse della Karibu di Latina figurano 74.560 euro destinati alla gemella belga, a cui bisogna aggiungere pagamenti per 7.000 euro sempre ricollegabili all’associazione belga. Di questi soldi, 35.000 euro erano destinati a una consulenza a Liliane e circa 7.000 euro per un «convegno europeo».
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” martedì 31 ottobre 2023.
L’Italia dei buoni, dopo il caso del sindaco Mimmo Lucano, subisce un altro uppercut dal Tribunale di Latina, dove il gip Giuseppe Molfese ha liquidato il sistema d’accoglienza garantito dalla coop Karibu presieduta dalla ruandese Marie Terese Mukamitsindo, suocera del deputato con gli stivali Aboubakar Soumahoro e per anni icona della sinistra con sette parole: «Una struttura delinquenziale organizzata a livello familiare».
Non sono mancate le stilettate per la figlia Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, la quale, per il giudice «si è affiancata e ha sostituito la madre nei principali atti gestionali, risultando tutt’altro che una semplice segretaria amministrativa».
Le due donne sono accusate di aver utilizzato milioni di euro destinati all’accoglienza per vivere nel lusso, mentre i migranti a loro affidati erano tenuti in condizioni miserabili. Molti soldi sono stati dirottati all’estero, per esempio in Belgio, in Portogallo, in Ruanda, nazione d’origine della famiglia. Uno sperpero […] che ha portato le due donne agli arresti domiciliari con l’accusa di frode in pubbliche forniture, bancarotta per distrazione e autoriciclaggio. […]
Il gip denuncia «un sistema collaudato che è risultato esclusivamente proteso ad eludere gli obblighi pubblicistici […], dotato di schermi societari fittizi riconducibili allo stesso management della Karibu (Jambo Africa e Consorzio Aid), nonché connotato da evidenti caratteri di transnazionalità, tutti unicamente finalizzati a distrarre i fondi pubblici, in buona parte reinvestiti all'estero».
Con l’effetto di «porre i soggetti ospitati, già in condizione di particolare vulnerabilità poiché migranti richiedenti protezione internazionale, in stato di accoglienza gravemente lesivo della loro stessa dignità». Inoltre, gli indagati non avrebbero esitato a disfarsi della documentazione anche contabile della cooperativa Karibu.
Le indagini hanno riscontrato moltissime criticità nelle strutture gestite dagli affini di Soumahoro: ospiti in sovrannumero, alloggi fatiscenti (con umidità e muffa) e arredamento inadeguato, condizioni igieniche carenti, a partire dai bagni e dalla carenza di prodotti per la pulizia personale, mancanza di derattizzazione e «deblattizzazione», riscaldamenti accesi nelle sole ore notturne o del tutto assenti, carenze nell’erogazione dell’acqua calda e nella conservazione della carne, insufficienza e scarsa qualità del cibo, mancata consegna, all’ingresso nella struttura, del kit vestiario, della scheda telefonica di 15 euro.
Tutte mancanze rilevate dai controlli ispettivi, ma anche dalle testimonianze di alcuni ex responsabili. Per esempio un capo struttura ha riferito che sin dall'agosto 2018 «la situazione alloggiativa degli ospiti era molto precaria», ha ricordato che […] «la situazione igienico-sanitaria degli ospiti era anch’essa precaria in quanto la struttura decisamente sovraffollata» e che questo «sovraffollamento causava sporcizia e battibecchi fra i beneficiari».
Nel mirino degli inquirenti sono finiti bonifici per 473.000 euro inviati all’estero e l’utilizzo allegro (in ristoranti, hotel e negozi di lusso) di carte di credito e prepagate per quasi 370.000 euro dal 2017 al 2021. Talvolta le carte erano intestate a dei dipendenti, ma i reali utilizzatori erano «i principali indagati».
Le ricariche erano effettuate «con causali relative a “progetti”», ma poi le spese effettuate erano voluttuarie. Il gip evidenzia anche il ruolo centrale della Murekatete, la quale, come risulta dalle mail, nel periodo sotto osservazione, «esercita poteri gestori sui dipendenti, autorizza pagamenti […] condiziona e determina in base ai suoi impegni le riunioni del Consiglio di amministrazione della cooperativa».
Ma soprattutto «organizza per lei (e chiede la prenotazione dei relativi biglietti) incontri istituzionali finalizzati a trovare nuovi sbocchi lavorativi per la cooperativa». Quali riunioni? Nell’ordinanza si fa riferimento a una in particolare: con il sindaco Giuseppe Sala (che, però, nega l’episodio) e il deputato europeo Pierfrancesco Majorino (all’epoca assessore alle Politiche sociali), entrambi esponenti del Pd.
[…] Il giudice, per le somme distratte alla Karibu, ha ordinato un sequestro preventivo diretto (quindi solo di denaro) di 1,9 milioni di euro da ricercare nelle casse della stessa cooperativa fallita e in subordine sui conti degli indagati, ma con tetti diversi. Alla Mukamitsindo potrà essere prelevato l’intero importo, a Liliane e al fratello Michel circa 1 milione di euro, a Richard 660.000 euro.
Per quanto riguarda l’accusa di autoriciclaggio (relativa ai soldi inviati all’estero) il gip ha disposto un sequestro per equivalente (che può essere soddisfatto anche con beni come auto e appartamenti) da 740.000 euro per la suocera di Soumahoro e il figlio Richard e nei limiti di 285.000 euro per Liliane e Michel. Confische che, però, non dovranno eccedere i circa 2 milioni di cui sopra. Dall’ordinanza emerge, seppur appena accennata, anche un’altra vicenda interessante.
A proposito delle esigenze cautelari per la Mukamitsindo si legge: «Continua a rivestire cariche sociali all’interno di soggetti giuridici con finalità non diverse da quelle della Karibu.
È presidente del consiglio di amministrazione della Edelweiss con sede in Nola, avente quale “codice principale” quello di “altre attività di assistenza residenziale” e presidente del consiglio di amministrazione della Karibuni Asbl (associazione no profit di diritto belga)».
Ed ecco la notizia. In Belgio la suocera di Soumahoro ha fondato nel 2019 la Karibuni, associazione senza fine di lucro, che, da statuto, «si ispira al lavoro» che la Karibu italiana svolge da «diversi anni» [...]
Su Facebook si trova ancora una foto della Mukamitsindo con l’europarlamentare Majorino (sempre lui) a Bruxelles dopo «una fruttuosa riunione sul sistema d’accoglienza». Un incontro che, magari, era propedeutico alla nascita della «cugina» belga della Karibu. [….]
Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara e Paolo Gianlorenzo per “La Verità” martedì 31 ottobre 2023.
Gioielli, scarpe, occhiali, pelletteria di lusso, abbigliamento delle grandi firme, borse, makeup, trattamenti estetici e pernottamenti in hotel a tariffe da capogiro. Ogni spesa dei familiari di Aboubakar Soumahoro tra il 2017 e il 2022 è stata scandagliata e analizzata dagli investigatori della Guardia di finanza ed è riportata nell’ordinanza di custodia cautelare per la moglie del deputato con gli stivali, Liliane Murekatete, per la suocera Marie Therese Mukamitsindo, finite agli arresti domiciliari, e per il cognato Michel Rukundo, per il quale il gip del Tribunale di Latina ha disposto l’obbligo di dimora.
[…] Gli inquirenti hanno scoperto che le carte di credito e prepagate intestate alla coop di famiglia, la Karibu, sarebbero state «adoperate per finalità private»: ristoranti, gioiellerie, centri estetici, abbigliamento, negozi di cosmetica. Il famoso «diritto all’eleganza» accampato da Aboubakar per la moglie. Gli importi dello shopping sono stati così quantificati dagli investigatori: 93.976,99 euro nel 2017; 208.394,92 euro nel 2018; 49.946,48 euro nel 2019; 13.803,40 euro nel 2020; e 2.177,16 euro nel 2021. Per un totale complessivo di 368.398,95 euro.
[…] Il vortice di spese creato dagli indagati impegna i tre quarti delle pagine dell’ordinanza. La carta di Murekatete, in particolare, sembra aver fatto dei giri stratosferici. Ma non è detto che fosse lei l’unica utilizzatrice. Il 30 maggio 2018, per esempio, striscia 320 euro da Topkapi, una pelletteria dei grandi marchi (Guess, Armani e Calvin Klein) di Latina. Il 2 dicembre 2018 è da Salvatore Ferragamo a Roma. La spesa è da 1.990 euro. Da Gucci ad Amsterdam il 24 aprile 2017 il pagamento è da 323 euro. Il marchio di abbigliamento Elena Mirò doveva essere un must per chi maneggiava la carta dei signori dell’accoglienza pontina: il 12 aprile 2019 il Pos segna 475,60 euro, mentre il 28 giugno successivo altri 534,40. Shopping anche da Cannella. Sono tre gli acquisti nel 2018, per 1.250, 423 e 932,80 euro. Mentre il 20 maggio 2018 risulta una spesa da Tommy Hilfiger Roma per 169 euro. E il 24 dicembre 2018 da Hugo Boss di Castelromano per 110 euro.
Non mancano i cosmetici: da Kiko vengono effettuati tre acquisti tra il 2017 e il 2018: 128,17, 31,20 e 35,80 euro.
Mentre da Sephora l’importo è da 138,77 euro. Spese tracciate anche per estetica e solarium: il 14 aprile 2018 da Nails & the city a Latina per 170 euro; il 28 luglio 2019 da Madame Bovary ad Assisi per 150 euro; il 5 aprile 2019 all’Aesthetics time center di Angri (Salerno) per 50 euro; il 28 aprile 2019 al Tempio di Venere di Roma per 109 euro.
Anche nei negozi di borse la carta di Murekatete sarebbe passata spesso nel Pos. Il negozio più gettonato (ben cinque acquisti) è Prima classe Alviero Martini. Tra il 2017 e il 2019 vengono spesi: 188, 280, 736, 270 e 260 euro. Da Bimba e Lola a Lisbona risulta un acquisto da 82 euro il 30 giugno 2019. E ci sono anche gli accessori. Da Sermoneta Gloves a Fiumicino (guanti di alta moda) il 4 gennaio 2019 vengono spesi 125 euro. Da Tiffany a Fondi il 15 maggio 2018 la spesa è da 90 euro. Da Occhialissimi nel 2019 dalla carta partono 198 euro. E per uno Swatch a Fiumicino 49,50 euro nel 2019.
Grandi marchi anche per le calzature: da Scarpamania a Latina il costo sostenuto è di 186,98 euro, da Ferrandi a Brescia di 260, da Melluso di 103. Compere anche nei negozi di lingerie: da Intimissimi a Latina 700 euro nel 2018, da Udiz a Namur (Belgio) 34,90 nel 2017. Sono diverse pure le gioiellerie visitate, per una spesa complessiva da 2.230 euro tra il 2018 e il 2019.
E c’è una strisciata anche nel Pos di Swarovsky Australia per 401,44 euro. Anche questa spesa è del 2019. Per i profumi i soldi della coop sarebbero stati investiti da Beauty parfums il 6 giugno 2019: la spesa è da 298,90 euro. All’Ikea di Zaventem (Belgio) un acquisto del 2018 è notevole: 1.736,76 euro.
[…] Di certo quanto a pranzi e cene gli indagati non sembrano essersi fatti mancare nulla. I conti più alti li hanno pagati al Monaco Coffee di Kigali (Rwanda), dove la cucina europea s’incontra con quella africana. E dove sono stati spesi ben 1.139 euro in una occasione e 762 in una seconda. Ammonta a 500 euro, invece, il conto del ristorante Porticciolo di Fiumicino e a 400 euro quello dell’Enoteca dell’orologio di Latina.
All’estero gli indagati avrebbero infine soggiornato in hotel esclusivi e con ogni tipo di servizi. Spiccano il Serena hotel di Rubavu (Rwanda) con una enorme piscina per 2.140 euro nel 2017, il lussuoso Pentahotel di Bruxelles, a soli cinque minuti dall’elegante Avenue Louise, nel quale sono stati spesi 1.173 euro nel 2018, il Villa in the sky, sempre a Bruxelles, per 805 euro, e il famoso Hotel L’Adresse di Parigi, attaccato a Champs Elysées per 933 euro nel 2019. Uno dei pernottamenti, infine, appare coincidere con le attività di Soumahoro ai tempi in cui battagliava per i braccianti foggiani. Mentre Aboubakar probabilmente arringava nei campi, la carta della coop il 14 dicembre 2018 è stata infilata nel pos dell’Up Museum hotel di Foggia. La spesa: 240 euro.
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e Paolo Gianlorenzo per “La Verità” sabato 7 ottobre 2023.
È pronto l’ennesimo capitolo dell’intramontabile saga delle guerre tra famigliari. Dopo i Totti, Henry e Meghan e la famiglia reale, gli Agnelli, è arrivato il momento della guerra dei Soumahoro. O meglio della moglie del deputato del gruppo misto Aboubakar con mamma e fratelli.
Liliane Murekatete sarebbe pronta per uscire dal processo per reati fiscali che vede coinvolta la sua famiglia (ieri è iniziata a Latina l’udienza preliminare per discutere la richiesta di rinvio a giudizio), a prendere le distanze dalla genitrice, Marie Therese Mukamitsindo e da chi l’ha coinvolta, con i suoi presunti impicci, in questa vicenda.
Infatti ad aprile la difesa della donna ha presentato una memoria, in cui veniva contestata la veridicità dei verbali che la indicavano come presente ad assemblee e consigli d’amministrazione della cooperativa Karibu, con richiesta al contempo di acquisizione degli originali per accertare l’esistenza di sue firme e l’effettiva attribuibilità a lei.
Per la signora, però, è stato invocato dagli inquirenti il processo, come per la madre, per due fratelli e altre due persone. I sei sono accusati di operazioni contabili irregolari finalizzate a evadere le tasse. Complessivamente le fatture false utilizzate contestate alla Mukamitsindo supererebbero i 2,3 milioni di euro.
L’avvocato Lorenzo Borré, difensore di Liliane, ha spiegato alla Verità la propria strategia: «Le posizioni sono in un certo senso conflittuali. Ho preannunciato un deposito documentale, ma anche delle istanze istruttorie per fare determinate verifiche che porterebbero a escludere qualsiasi responsabilità della mia cliente».
Il legale prosegue: «Quello che viene contestato alla signora è di aver omesso il controllo della dichiarazione dei redditi presentata dalla madre e che avrebbe creato questo danno di 13.400 euro a causa di fatture che vengono definite soggettivamente inesistenti». Infatti la dichiarazione è basata su documentazione fiscale emessa da una società, la Jambo Africa, sempre riconducibile alla famiglia, che non poteva erogare il servizio prestato, ovvero offrire manodopera alla Karibu. Ma per Borré la Muarekatete «non aveva responsabilità amministrative».
La vera nota dolente sarebbe l’assenza in cda e assemblee della moglie di Soumahoro, la quale, invece, dai verbali risultava presente. La figlia sostiene di non sapere ciò che ha fatto la madre in sua assenza, visto che nel periodo sotto esame era a casa incinta: «Mi rendo conto che dopo certe cronache giudiziarie dire che le cose accadevano a propria insaputa può muovere al sorriso. Ma è andata effettivamente così. Noi abbiamo contestato la presenza della mia cliente nei consigli di amministrazione e nelle assemblee che hanno votato i bilanci e l’esistenza delle relative convocazioni. Nel verbale di maggio del 2019 c’è una firma in stampatello con un altro nome al posto di quello della mia cliente. Chi l’ha fatta, H.
S., lo ha anche ammesso».
In ogni caso la signora in quel momento faceva parte del consiglio di amministrazione… «Formalmente questo risulta, ma noi contestiamo anche i presupposti della sua nomina e dell’accettazione della stessa e questa è la nostra linea difensiva. Quanto alla presenza nell’assemblea di agosto, noi abbiamo prodotto i tabulati che dimostrano che Liliane stava a 200 chilometri di distanza».
[…]
Ieri è svolta l’udienza preliminare che vede coinvolti la suocera, la moglie e due cognati di Soumahoro per reati fiscali. Nonostante non avessero ricevuto la convocazione si sono costituiti parte civile la cooperativa Karibu e il consorzio Aid. In aula c’era il commissario liquidatore di Aid, Jacopo Marzetti, molto ben accolto dal sindacato. Rappresentato, invece, solo dal legale il commissario liquidatore Francesco Cappello di Karibu, nominato dal ministero dello Sviluppo economico su indicazione di Legacoop.
L’udienza è stata rinviata al 3 novembre in quanto i difensori degli imputati sono stati appena nominati dopo la revoca dei precedenti. Il processo appena iniziato riguarda solo presunti reati fiscali, bisognerà attendere per capire come si concluderanno le indagini per altre ipotesi di reato portate avanti dalla Procura guidata da Giuseppe De Falco.
Fuori dal Tribunale, ieri, alcune decine di lavoratori iscritti alla Uiltucs, guidati da Gianfranco Cartisano, hanno manifestato con fischietti e striscioni, elencando come in una giaculatoria i denari incassati dalle cooperative commissariate, ovvero oltre 62 milioni di euro, una lista ripresa dal nostro quotidiano.
Fondi pubblici erogati e incassati attraverso i progetti su accoglienza ed immigrazione.
«Per ora si sono costituiti 16 lavoratori come parti civili, ma c’è ancora tempo per presentare altre richieste. Oggi avremmo voluto vedere con i nostri occhi gli imputati, che non si sono presentati, per gridare loro che stipendi e lavoro sono stati distratti e distrutti». Gli ex dipendenti chiedono il pagamento di numerosi stipendi arretrati per un valore di circa 400.000 euro.
In piazza e in aula ieri, tra gli ex lavoratori della Karibu e di Aid c’era un solo ragazzo africano. Brahim Ait Salem, quarantenne di origini marocchine: si è presentato insieme con gli altri ex colleghi e la moglie per rivendicare le spettanze mai versate. Si tratta di una bella cifra per lui, 25.000 euro di mancati introiti. Quattro figli da mantenere e la moglie italiana Rabaa Beggoun Luminelli (di padre italiano e madre tunisina) quasi nelle stesse condizioni. Infatti anche lei ha lavorato gli ultimi sei mesi con il consorzio Aid.
Era addetta alle cucine utilizzate per il confezionamento dei pasti da somministrare ai ragazzi affidati alle cooperative della Mukamitsindo. «Io ero un tuttofare», ci racconta Brahim, «mi occupavo della logistica, di accompagnare i ragazzi e della sorveglianza degli appartamenti dove dormivano i minori. Sono stato con loro otto anni.
Prima del Covid non avevamo mai avuto problemi. Poi sono iniziati i ritardi, qualche anticipo e poi più niente». A dare manforte al marito Rabaa, che aveva con sé il figlio più piccolo e indossava il classico hijab: «Non pagavano. Non pagavano. Ci dicevano che era colpa dello Stato che non pagava loro e quindi loro non potevano pagare noi. Invece non era niente vero». […]
Sistema Soumahoro, arrestate moglie e suocera: "Struttura delinquenziale". La Murekatete e la madre ai domiciliari accusate di frode, bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio. Lodovica Bulian e Luca Fazzo il 31 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Erano pronte a riprovarci, erano pronte ad andare avanti: perché in vita loro hanno solo lucrato sulla pelle dei migranti. «Negli anni non hanno fatto nient'altro rispetto alla attività criminale», scrive il giudice preliminare Giuseppe Molfese. Così Marie Therese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, rispettivamente suocera e moglie di Aboubakar Soumahoro - il «deputato con gli stivali», per anni icona della sinistra e dei salotti tv - vengono arrestate ieri mattina dalla Guardia di finanza, colpite dall'ordinanza di custodia che le accusa di frode, riciclaggio e bancarotta.
È l'atto finale dell'inchiesta che ruota intorno alla cooperativa Karibu, l'indagine che ha investito Soumahoro e che ha portato alla sua espulsione dal gruppo parlamentare Alleanza Verdi e Sinistra, che l'aveva candidato e fatto eleggere l'anno scorso. Il nome di Soumahoro non compare mai, neanche in una riga, nelle 152 pagine dell'ordinanza di custodia. Che però ruota tutta intorno alla figura di sua moglie, la donna che il deputato ha difeso strenuamente fin dall'inizio dell'indagine, appoggiando la linea difensiva che dipingeva Liliane come una semplice segretaria dell'Ong guidata da sua madre Marie Therese, sulla quale i due coniugi hanno cercato di riversare tutte le colpe.
Invece, scrive il giudice, lady Soumahoro era a tutti gli effetti la mente di Karibu: «Murekatete si e affiancata e ha sostituti la madre nei principali atti gestionali», si legge nelle carte. É lei a guidare gli affari della Ong, che anno dopo anno conquista milioni di appalti pubblici stanziati per l'accoglienza dei migranti: venticinque milioni di euro, tra il 2017 e il 2022. Una montagna di soldi usate da madre e figlia come se fossero cosa loro, tra ristoranti di lusso, alcolici, alberghi a cinque stelle. Mezzo milione di euro viene dirottato all'estero, in Africa (il giudice parla di «bonifici esteri con causali risibili»), e utilizzato da un altro figlio della Mukamitsindo, Richard Mutangana, per aprire un ristorante: «Gusto italiano». Per madre e figlia la procura della Repubblica di Latina aveva chiesto il carcere, di fronte al rischio concreto che continuassero nella loro attività.
Il giudice decide che gli arresti domiciliari sono sufficienti, senza sminuire in nulla la gravità delle accuse alle due donne, e colpendole entrambe con massicci decreti di sequestro: due milioni alla madre, un milione a carico di Murekatete. Sono provvedimenti inevitabili visto che «il dato oggettivo e contabile è che buona parte del denaro ricevuto non è stato adoperato per le finalità preposte». Siamo di fronte, scrive il giudice, a una «struttura delinquenziale organizzata a livello familiare», che anche dopo l'inizio degli accertamenti ha proseguito sulla stessa strada, utilizzando «collaudati sistemi fraudolenti per giustificare la richiesta di finanziamenti alla direzione centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». E ancora: «le rassicurazioni e gli impegni del management di Karibu erano solo stratagemmi per lasciar credere che vi fosse la volontà di adempiere alle convenzioni».
Ad emergere dalle carte è anche la carenza quasi totale di controlli, che ha permesso per almeno tre anni - tra il 2017 e 2019 - a incassare dalla Karibu finanziamenti pubblici da milioni di euro. Dal 2020 il giocattolo si guasta, gli importi iniziano a scendere bruscamente. Ma ormai il malloppo è al sicuro, riciclato in Africa.
Spese pazze sulla pelle dei migranti. La Karibu maltrattava gli ospiti. Fondi pubblici investiti in hotel di lusso e gioielli. Lodovica Bulian e Luca Fazzo il 31 Ottobre 2023 su Il Giornale.
I migranti venivano accolti in condizioni «offensive dei diritti e della dignità». Così si risparmiava sulla spesa e i soldi intascati dallo Stato venivano usati per spese personali e bonifici all'estero, «del tutto estranei alle finalità del servizio pubblico». Per il gip di Latina quella che avrebbero messo in piedi Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamatsindo - moglie e suocera del parlamentare Aboubakar Soumahoro, estraneo all'indagine - sarebbe una «struttura delinquenziale organizzata a livello familiare». Con la cooperativa Karibu, spolpata e poi dichiarata insolvente a maggio scorso dal Tribunale di Latina, la suocera di Soumahoro - presidente del cda - e la moglie - consigliera - avrebbero dovuto gestire l'accoglienza di migranti e minori, contando sui soldi statali. Il denaro pubblico sarebbe stato speso invece per alberghi, ristoranti, gioielli, capi d'alta moda e bonificato all'estero, anche tramite un «soggetto fittizio», l'associazione Jambo Africa.
Negli anni, «almeno dal 2017 in poi», si legge nell'ordinanza, la Karibu «non ha fatto nient'altro rispetto all'attività criminale oggetto delle imputazioni». Con le carte di credito e prepagate intestate alla cooperativa «adoperate per finalità private». Parliamo di importi come 93.976 euro nel 2017, 208.394 nel 2018, 49.946 euro nel 2019. E 13.803 euro nel 2020, 2.177 nel 2021. Spese che tempo fa Soumahoro aveva infelicemente giustificato con il «diritto all'eleganza» della moglie. Pagamenti e bonifici sono elencati nel provvedimento del gip da 152 pagine. Solo alcuni esempi: 500 euro in un ristorante a Fiumicino, 857 euro in un hotel di Latina, 1.900 euro in un negozio di alta moda a Roma, Salvatore Ferragamo. Altri 1.150 euro per cosmetici, 240 euro in un centro estetico, 400 euro in enoteca. E poi 1.154 euro all'Ikea di Bruxelles, in Belgio, 125 euro in un negozio di «guanti di alta moda in pelle scamosciata». Ancora gioiellerie, saloni di bellezza, outlet, e altri hotel fino a 990 euro. Per il gip «il dato oggettivo e contabile, non superabile, è che buona parte del denaro ricevuto non è stato adoperato per le finalità preposte». Quasi mezzo milione di euro è stato trasferito all'estero tra il 2017 e il 2022, in Ruanda, Belgio e Portogallo, impiegato in attività imprenditoriali. Soldi che sarebbero arrivati al fratello della moglie del deputato, Richard Mutangana, che vive in Ruanda, e che aveva «accesso al conto corrente principale della Karibu e della Jambo, potendo disporre, a suo piacimento, delle risorse pubbliche». Ha aperto «un supermercato e un ristorante». Denaro trasferito anche con bonifici da 185mila euro con causale «costi progetto internazionalizzazioni» in favore di una società di diritto inglese, la Karibu Rwa. Peccato che non ci fosse alcun progetto estero nelle convenzioni tra lo Stato e la Karibu. Del resto la Karibu Rwa ha come oggetto sociale «escursioni in Ruanda, Uganda, Kenya e Tanzania».
Come è stato possibile tutto questo? Grazie a un «collaudato sistema fraudolento», scrive il gip, «fondato su fatture per operazioni e costi inesistenti» e su «schermi societari fittizi». Gli indagati avrebbero «approfittato delle difficoltà organizzative degli enti pubblici». Promettevano di rimediare alle criticità rilevate dopo alcune ispezioni nei centri, ma «le rassicurazioni erano solo stratagemmi per evitare il blocco delle erogazioni».
La finanza annota che avrebbero tentato di disfarsi della documentazione, tanto che «parte degli atti contabili è stata trovata nella raccolta differenziata». Lodovica Bulian e Luca Fazzo
Liliane, "disoccupata" col vizio dell'alta moda. Foto sexy, selfie griffati e ambizioni da stilista. Chi è la donna che ha inguaiato il marito parlamentare. Massimo Malpica il 31 Ottobre 2023 su Il Giornale.
«Non chiamatemi Lady Gucci». Finita nella bufera per l'inchiesta che ieri l'ha vista spedita ai domiciliari dal gip di Latina per l'inchiesta sulle coop di famiglia, Liliane Murekatete 46 anni, originaria del Ruanda, aveva reagito ispirata dall'antico adagio secondo il quale la miglior difesa è l'attacco. La donna è lei. È lei, moglie del parlamentare Aboubakar Soumahoro, eletto con Verdi e Sinistra e passato polemicamente al gruppo misto per la «scarsa solidarietà» ricevuta, ad aver «inguaiato» il marito, coinvolto suo malgrado dall'inchiesta che ora vede moglie e suocera ai domiciliari per frode in pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale e autoriciclaggio.
L'inchiesta, nell'autunno dello scorso anno, aveva portato Liliane sotto i riflettori. E in molti avevano sottolineato la diversa cifra stilistica della coppia. Lui, neoeletto, aveva scelto di presentarsi a Montecitorio in giacca, cravatta e galosce di gomma, simbolo della sua lotta al caporalato. Lei preferiva apparire nei suoi selfie sui social con abiti e borse firmate, pose da vamp, rossetti, occhiali, cover griffate per il cellulare. Dopo l'inchiesta, spuntano anche foto sexy, scattate da un fotografo nel 2012 e per dieci anni rimaste a disposizione di tutti sul sito del professionista, prima che l'indesiderato picco di fama di Liliane le facesse saltare fuori, mandando lei su tutte le furie e il fotografo sotto indagine.
Ma la passione vera della donna è la moda, e Liliane l'aveva portata anche nel suo lavoro nelle coop di famiglia che lavoravano con migranti e richiedenti asilo. Proprio questi ultimi erano divenuti la manodopera per realizzare, nella primavera del 2018, «K mare», una collezione di costumi da bagno, pareo e abbigliamento da spiaggia di gusto etnico con la quale Liliane aveva scelto di mettersi alla prova come stilista, affidandone appunto la manifattura agli ospiti della coop Karibu in attesa di un sì o di un no alla richiesta di asilo. Attività lecite, certo, come pure non c'era molto da sindacare sulla immagine pubblica che la donna dava di sé, ma che certo strideva un po' con il personaggio costruito da suo marito.
E stridevano, quelle foto in abbigliamento griffato di Liliane, anche con i tentativi di giustificarla da parte di Soumahoro, che l'aveva definita «disoccupata», forse per sminuire il suo ruolo nelle magagne dell'inchiesta sulle cooperative sociali. Già ai tempi di K mare qualcuno, tra gli altri Casapound, l'aveva attaccata per lo stile sfoggiato sui social, e lei si era difesa negando di aver finanziato anche con un solo centesimo dei soldi incassati dalla coop la sua passione per l'alta moda. «Ho avuto una vita precedente nella quale ho lavorato e mi sono e mi sono potuta permettere abiti firmati», sospirava, assicurando di esser pronta a mostrare gli scontrini. A mostrarli, però, sono stati gli inquirenti. Secondo i quali, invece, proprio i soldi destinati ai migranti sono serviti ai soggiorni nei resort, agli investimenti in Ruanda e a quegli acquisti griffati in lussuosi negozi in Italia e all'estero. Massimo Malpica
62 milioni alla coop dei Soumahoro: lavoratori non pagati. Che fine hanno fatto i soldi? Il sit in degli ex dipendenti davanti al tribunale di Latina. L'udienza preliminare per i sei indagati, tra cui i familiari del deputato, è stata rinviata. Le accuse di false fatturazioni ed evasione fiscale. Tonj Ortoleva il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
È stata rinviata al prossimo 3 novembre l’udienza preliminare per il caso Karibù, che vede coinvolti i familiari del deputato Aboubakar Soumahoro. Infatti uno degli indagati ha cambiato avvocato appena due giorni fa, dunque il giudice per l’udienza preliminare Pierpaolo Bortone ha disposto il rinvio. Davanti al tribunale di Latina, dove erano attesi gli indagati, c’è stata una manifestazione di protesta da parte degli ex dipendenti delle cooperative che si occupavano di accoglienza dei migranti. I lavoratori lamentano la mancata corresponsione degli stipendi arretrati. Assieme al sindacato che li rappresenta, si sono costituiti parte civile.
Gli indagati e il rinvio dell’udienza
Sono sei in totale gli indagati in questa vicenda che nasce dalle indagini della guardia di finanza di Latina sulle cooperative che gestivano l’accoglienza dei migranti. Nel mirino ci sono Karibù e Consorzio Aid, coop la cui proprietà faceva capo ai familiari di Soumahoro. La fondatrice è infatti Marie Therese Mukamitsindo, madre della moglie del deputato, Liliane Murekatete, che è stata per diverso tempo componente del consiglio di amministrazione della cooperativa Karibu. Indagati anche gli altri due figli di Murekatete, Michel Rukundo e Richard Mutanganga, oltre a due persone che erano legali rappresentanti ai tempi della coop, Ghislaine Ada Ndongo e Christine Ndyanabo Koburangyira. Tutti sono indagati a vario titolo per i reati di evasione fiscale e false fatturazioni. Il gup Bortone, questa mattina, ha disposto il rinvio dell’udienza preliminare al 3 novembre prossimo. In quella data si saprà se gli indagati andranno a processo o se le loro posizioni saranno archiviate. Il rinvio è stato necessario in quanto uno degli indagati, 48 ore prima dell’udienza, ha revocato l’incarico al proprio legale nominandone un altro. Quest’ultimo, chiaramente, ha chiesto tempo per studiare la mole di carte relativa all’intricata vicenda.
La protesta dei lavoratori: alle coop 62 milioni, loro ancora senza stipendi
Hanno chiesto la costituzione parte civile nell’eventuale processo gli ex lavoratori di Karibù e Consorzio Aid, assistiti dal sindacato Uiltucs. “Ci siamo costituiti parte civile con l'auspicio di essere considerati per il danno che abbiamo subito - dicono i lavoratori guidati dalla Uiltucs Latina – Pretendiamo chiarezza dignità e rispetto. Le coop Karibù e Consorzio Aid hanno ottenuto 62 milioni di fondi e denaro pubblico, tutti erogati ed incassati attraverso i progetti su accoglienza ed immigrazione. Progetti rispetto ai quali noi lavoratori eravamo gli unici davvero impegnati per la buona accoglienza ed integrazione. Ma la conseguenza è stata che siamo rimasti senza stipendi perché le coop a un certo punto e molto prima delle inchieste, hanno smesso di pagarci”. Ora questi lavoratori, assistiti dal sindacato, stanno cercando di riavere le loro spettanze trattando con il commissario nominato dal governo per la liquidazione delle cooperative.
Soumahoro, africani in piazza contro di lui a Latina: "Non ci ha pagato". Tommaso Montesano Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023
L’appuntamento è fissato alle 9 di oggi davanti al tribunale di Latina, in piazza Bruno Buozzi. Quello degli ex lavoratori della cooperativa Karibu e del consorzio Aid sarà un «presidio permanente», avverte Gianfranco Cartisano, il segretario del sindacato Uiltucs che li assiste da quando la crisi delle due società riconducibili alla compagna e alla suocera di Aboubakar Soumahoro - il deputato eletto con l’alleanza Verdi-Sinistra paladino dei braccianti - li ha lasciati senza lavoro e senza stipendio. E questo a fronte dello «scandalo dei tantissimi fondi pubblici erogati» a favore delle due società, come ricorda il comunicato con il quale la Uiltucs annuncia la mobilitazione davanti al palazzo di giustizia.
LO STRISCIONE
L’ex personale delle Coop impegnate nell’assistenza dei migranti esibirà uno striscione che riassume la vicenda sull’onda della quale - ancorché non coinvolto dall’inchiesta - lo stesso Soumahoro ha dovuto lasciare il gruppo parlamentare di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. «La coop Karibu e il consorzio Aid hanno incassato 62 milioni di euro. Noi lavoratori ancora senza stipendi. Integrazione, accoglienza e lavoro sono altro!».
La protesta di oggi non è casuale: stamattina, alle 9,30, il giudice Pierpaolo Bortone presiederà l’udienza preliminare al termine della quale dovrà decidere se accogliere o meno la richiesta della procura di Latina di rinviare a giudizio i sei imputati: la compagna di Soumahoro, Liliane Murekatete; la suocera, Marie Terese Mukamitsindo; i cognati Michel Rukundo e Richard Mutangana e due collaboratrici delle società oggetto delle indagini: Ghislaine Ada Ndongo e Christine Kabukoma. Tre dei sei imputati (Mukamitsindo, Rukundo e Murekatete) sono anche già destinatari delle misure interdittive «del divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione e del divieto temporaneo di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche». La suocera di Soumahoro, in precedenza, era stata oggetto pure di un sequestro preventivo di oltre 600mila euro.
Il sostituto procuratore che lo scorso 19 giugno ha siglato la richiesta di rinvio a giudizio è Andrea D’Angeli. Sotto accusa c’è la gestione pluriennale delle società amministrate dalla famiglia, caratterizzata, secondo l’accusa, da evasione fiscale e fatturazione di «operazioni inesistenti». La famiglia di Soumahoro, secondo gli inquirenti, avrebbe realizzato un sistema «connotato da rilevanti opacità nella gestione», con i fondi destinati alle Coop «in parte non rendicontati, in parte utilizzati per scopi apparentemente estranei allo scopo sociale».
E questo mentre 40 lavoratori- metà italiani e metà stranieri di origine africana- sono stati lasciati praticamente a piedi. È stato proprio grazie alle denunce raccolte dal sindacato di Cartisano che il caso è esploso a livello nazionale. Quasi un anno dopo l’avvio delle indagini, però, poco o nulla si è mosso per gli ex dipendenti di Karibu e consorzio Aid. «Ad oggi, oltre ad aver perso il posto di lavoro, non hanno ancora percepito stipendi, liquidazioni di fine rapporto e competenze finali», attacca Cartisano. Dopo circa un anno di confronti con la prefettura di Latina, nonostante gli appalti di cui erano titolari Karibu e consorzio Aid siano stati assegnati ad altre cooperative sul territorio, i ricollocamenti non hanno sortito alcun esito.
BATTAGLIA LEGALE
«La situazione è ferma, piatta», confessa con amarezza il numero uno della Uiltucs. Gli ex dipendenti, denuncia, «non hanno preso un euro». Ecco perché nell’udienza di stamattina lo stesso sindacato, insieme ai lavoratori, si costituirà parte civile. «I lavoratori hanno subìto un danno. Nonostante la nomina di due commissari per Karibu e consorzio Aid, nonostante i numerosi confronti in prefettura, gli accordi per i ricollocamenti sono rimasti sulla carta, tutto è finito nel cassetto».
La questione immorale. Tommaso Cerno su L'Identità il 22 Settembre 2023.
Se non è questa una questione morale da aprire, beh significa che davvero la sinistra ha cambiato le sue parole d’ordine. Dice di sapere bene di aver sbagliato. E lo dice uno che sta in galera. Ma quella Mafia Capitale, su cui poi quella parola mafia è stata così tanto discussa, sembra avere dimenticato l’altro sostantivo: Capitale.
E così Salvatore Buzzi, uscito di prigione per un cavillo e già pronto in cuor suo a tornarci, muove uno j’accuse a quella politica che lo portava a bere la tazzulella e cafè e che poi se l’è data a gambe quando il processo è cominciato. Sissì, parliamo proprio di quel signore che aveva detto al telefono che i migranti fanno guadagnare più della cocaina. E a vedere in che stato sta messo il nostro Paese c’è proprio da credergli. E così in una intervista al giornalista Edoardo Sirignano, il Buzzi si toglie qualche sassolino.
E apre una questione mastodontica su di noi e sui processi. Non tanto quelli fatti, ma forse quelli che non si faranno mai. Porta due esempi che fanno accapponare la pelle. E lo dice così, come parla uno che ormai ha rinunciato a tutto. Dice che quando c’era lui in mezzo a quelle cooperative milionarie il convento era ricco e i frati erano poveri, mentre invece il caso Soumahoro ci mostra che i miliardi sono gli stessi, ma stavolta il frate è in Parlamento mentre povero è il convento. E ci racconta anche come lui si senta vittima di uno straordinario errore giudiziario a rovescio.
Eravamo in dieci imputati, 8 di noi hanno confessato, hanno ammesso davanti al magistrato di avere fatto proprio quello che la Procura ci contestava ma, dice ridendo, siamo stati assolti. Un palese errore della Giustizia. Che forse salvando loro evitava che qualche coperchio in più su quelle pentole piene di soldi che sono la storia di quegli anni oscuri della Capitale si scoperchiasse e mostrasse là dentro la faccia di qualche politico importante, di quella sinistra e di quel Pd che governava Roma, e che come racconta Buzzi improvvisamente non gli telefonava più-
Insomma, leggetevi l’intervista qui a fianco. Che cosa ci dice davvero Salvatore Buzzi. Una cosa banale quanto grave. Noi non abbiamo fatto chiarezza su Mafia e su Capitale.
Noi non siamo arrivati fino in fondo a questo racconto. Noi ci siamo fermati in superficie, quando un pezzo di Paese era contento per avere ottenuto dei colpevoli e forse un altro pezzo di Paese sospirava sapendo di essersela cavata. È proprio al centro di questo ponte tibetano fra una sponda e l’altra della Giustizia, l’accusa che diventa condanna, che bisogna guardare mentre si cammina. Perché se la capitale d’Italia è stata davvero incastrata in un sistema di guadagni facili e di crimini è difficile immaginare che nessuno lo sapesse.
Buzzi: “Corrotto dalla sinistra, intanto Soumahoro è in Parlamento”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 22 Settembre 2023.
“Sto pagando per essermi fatto corrompere da quella sinistra che prima mi ha utilizzato e oggi non mi vuole più sentire. Posso dire, però, che nelle mie cooperative il convento era ricco e i frati poveri, non come invece accade in quelle cooperative vicine a Soumahoro”. A dirlo Salvatore Buzzi, qualche giorno fa uscito dal carcere. E’ forse il nome più noto dell’inchiesta che sconvolse Roma, quella Terra di Mezzo che mise sotto i riflettori della magistratura il sistema delle cooperative e i suoi rapporti con la politica. E creò un terremoto nel sistema dell’accoglienza. Buzzi non parlava da anni e accetta di farlo con L’Identità.
Quali le sue condizioni di salute?
Sta un po’ ammaccato perché si è fatto undici mesi e sei giorni di ingiusta detenzione. Lo ha detto la Cassazione, aprendomi la strada a un’eventuale richiesta di risarcimento danni. Trovandomi in una comunità per curarmi dall’alcolismo dovuto alle varie depressioni, non potevo essere arrestato. La normativa non lo prevede. Sono, invece, stato mandato in carcere per un incidente di esecuzione. Sono dovuto arrivare fino in Cassazione per avere ragione. Questo vuol dire che la giustizia con me è stata a dir poco sopra le righe. Avevo diritto a una sospensiva che non mi è stata data, mentre a tutti gli altri diciannove imputati in quel famoso processo è stata concessa.
Qual è la sua giornata tipica?
Sono fuori da pochissimi giorni. Sono stato scarcerato il 6 settembre. Entro pochi giorni andrò in una comunità per curarmi dalle mie dipendenze. La giornata tipica di Buzzi è girare fra comunità, avvocati e salutare amici. È come se stessi vivendo un lungo permesso premio.
Nel libro di Baccolo ha deciso di raccontare la sua verità. Perché ha sentito quest’esigenza?
Ho detto per la prima volta la verità nel 2015, durante gli interrogatori. L’ho ridetta, poi, nel 2017, in occasione del processo. Le varie udienze possono essere ascoltate su Radio Radicale. È tutto registrato. L’ho ridetta nell’appello del 2021. Ho più volte provato a raccontare qualcosa di scomodo, tanto che quattro editori hanno rifiutato il libro di Baccolo. Abbiamo, poi, trovato per fortuna la Bussola che ci ha permesso di pubblicare quanto realmente successo. Il libro è uscito il 6, lo stesso giorno della mia inaspettata scarcerazione.
Buzzi, intanto, è conosciuto per essere l’uomo delle cooperative. Negli ultimi mesi abbiamo visto diversi scandali, come quello legato alla famiglia del deputato Soumahoro. Che idea si è fatto rispetto a tutto ciò?
Le mie cooperative erano amministrate benissimo, tanto è vero che non è stato trovato nessun reato fiscale, nessun omesso versamento di contributi, nessun mancato pagamento di stipendio. Hanno trovato soltanto tante corruzioni, che mi hanno addossato perché ho assunto delle persone su segnalazione dei politici.
Da dove arrivavano queste segnalazioni?
Tutte dalla sinistra. La mia casa madre era quella.
I signori, che a suo dire, prima la chiamavano per pagarle quotidianamente il caffè, adesso sono interessate alla sua salute?
Non mi ha chiamato nessuno di loro. Quando, invece, servivo il mio telefono squillava ogni secondo. Nella sconfitta, purtroppo, ognuno di noi resta sempre solo. Io, però, nemmeno cerco questi signori. Mi è dispiaciuto solo tanto che quelli del Pd non mi abbiano difeso dall’accusa di Mafia. Buzzi ha dato dei soldi, avrà corrotto qualcuno, ci può stare. Come fai, però, a non difendere chi è cresciuto insieme a te dall’accusa di criminalità organizzata? In questo modo avrebbero pure aiutato Pignatone a non fare una bruttissima figura.
Ciò non significa che Buzzi non vuole pagare per i reati commessi?
Io sono l’unico in Italia che ha preso dodici anni e dieci mesi per corruzione. Impossibile trovarne un altro. L’avvocato Amara, che ha corrotto magistrati, ha patteggiato a tre anni e mezzo.
Nonostante questo, però, ammette di aver sbagliato?
Assolutamente! Mi dispiace, però, che altri soggetti, che hanno sbagliato come me, non sono stati nemmeno inquisiti, ma archiviati. Questa è la giustizia in Italia.
Adesso è al governo il centrodestra. Nordio riuscirà a fare la tanto discussa riforma?
No! Vedo un governo, purtroppo, sempre più giustizialista. Mi stupisco di Nordio. Sono quaranta anni che scrive contro le cose che sta facendo. Oggi ha introdotto l’omicidio nautico. Tra poco introdurremo quello con le vacche, con i cani? Già c’è quello colposo, quello stradale. A cosa serve l’ennesima inutile novità? Siamo di fronte a un governo che si esprime sulla sicurezza solo con gli aumenti delle pene. La riforma della giustizia? Volevano eliminare l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, ma poi si sono spaventati con due o tre starnuti del Fatto Quotidiano. Non capisco dove si vuole andare. Nordio è stato un grande magistrato e lo ripeterei mille volte. Fa, però, delle cose che ha sempre criticato quando scriveva sul Messaggero.
In Italia, però, diversi sono coloro che si professano garantisti…
Quello vero lo fa solo Sansonetti. Tutti gli altri sono a senso unico, cioè se toccano l’amico sono garantisti, mentre se a essere colpito è il nemico non lo sono più. Lo abbiamo visto sul caso Soumahoro, pur non avendo niente da condividere con questo soggetto.
Ha conosciuto quelle cooperative?
Per fortuna non avevo niente a che dividere con quel mondo. Tra noi, allora, circolava un detto di Rino Formica, ex ministro socialista degli anni Ottanta: convento ricco e frati poveri, ovvero Buzzi. Lì, invece, accadeva l’esatto contrario: il convento era povero e i frati ricchi. Non a caso quando ci sono stati gli arresti relativi a Mafia Capitale la Cooperativa aveva un patrimonio da 30 milioni di euro, mentre io sono stato trovato con poche cose.
Buzzi, intanto, continua a pagare la sua pena, mentre altri girano tranquillamente?
La moglie di Soumahoro e soprattutto la suocera, artefice di quel disastro, è a piede libero.
Quando ha visto sui giornali tutte queste vicende, come Qatargate, cosa ha pensato?
Eva Kaili è una mia eroina. Accusata ingiustamente, si è difesa, ha fatto il carcere e non gli hanno fatto vedere la figlia. Il tutto mentre il figlio del magistrato che inquisiva faceva affari con la figlia di Arena, eurodeputata socialista, che non ha fatto nemmeno un giorno di carcere. Anche lì ci troviamo di fronte a qualcosa di anomalo. Hanno arrestato Kaili, Panzeri, però, guarda caso, non hanno toccato Arena.
Cosa è cambiato nella capitale rispetto a quello che era il mondo di Buzzi?
A mio parere, non è cambiato nulla. I problemi di Roma sono gli stessi e sempre gli stessi rimarranno. Con queste parole, ho detto tutto.
La vittoria del centrodestra alla Regione Lazio può segnare una svolta?
Spero che Rocca, che ho conosciuto personalmente, riesca a fare riforme utili. Stiamo parlando di una persona molto competente, essendo stato un manager del sociale. La Regione è un mostro di burocrazia, una macchina difficile da governare. Vediamo cosa riuscirà a fare questo presidente.
L’Italia, intanto, vuole sapere la verità sul mondo sommerso di Roma…
Anche io sono ancora curioso di sapere come finisce questo film. Ho ancora quattro anni e mezzo di pena da espiare. Non ho mai contestato la sentenza, anzi la rispetto. Sono curioso di capire se il libro scritto da Baccolo verrà pubblicizzato e soprattutto se la gente sarà curiosa di conoscere quanto è successo. Così si capirà uno bello spaccato dell’Italia…
Può anticipare qualcosa?
Eravamo in dieci imputati, in otto abbiamo confessato e ci hanno assolto tutti. Anche io! Questo vale più di mille dichiarazioni! Perché? È la domanda che dovrebbero porsi tutti quelli che oggi commentano questa storia.
Le accuse di Buzzi i silenzi del Pd i dubbi di Schlein. Rita Cavallaro su L'Identità il 23 Settembre 2023
Parla Salvatore Buzzi e il Pd romano tace. Perché tanto la narrazione del ras delle cooperative di sinistra, travolto dal terremoto giudiziario di Mafia Capitale, ormai è storia vecchia, minimizzata con un’abile strategia della comunicazione e relegata a livello “cazzaro”. Così, dietro un veltroniano “si scherza, ma anche no”, i dem capitolini continuano ad evitare di affrontare la questione morale che l’inchiesta sul Mondo di mezzo, nel 2014, aveva reso palese con gli arresti illustri, le mazzette, gli affari d’oro sugli immigrati che ormai rendono più della droga. Da sinistra a destra, il sistema corruttivo dei politici a libro paga di Buzzi è stato messo nero su bianco nelle decine di migliaia di pagine del processo che, alla fine, ha fatto cadere l’accusa di mafia e ha lasciato così com’era la Capitale. Con un colpo di spugna, in Campidoglio hanno semplicemente cancellato dalla banca dati degli appalti la cooperativa 29 giugno di Buzzi e hanno puntato su altri cavalli, provenienti sempre dalla stessa scuderia, quella della sinistra.
Che corrono e vincono le corse capitoline finché non arriva un giudice a fermare la gara, perché le irregolarità sono così evidenti da non poter volgere lo sguardo altrove. E allora torna alla ribalta la questione morale, che deve essere difficile da perseguire se ogni due per tre scoppia lo scandalo, se perfino la famiglia del deputato con gli stivali Aboubakar Soumahoro guadagna centinaia di migliaia di euro sulla pelle dei migranti, con un giro d’affari di 65 milioni di fondi pubblici per i centri di accoglienza e più di due pagati da Roma Capitale dal 2016 sui conti della Karibu, la cooperativa della suocera Maria Therese Mukamitsindo, nella cui gestione era coinvolta anche la moglie di Soumahoro, Liliane Murekatete. Uno scandalo che ha campeggiato sui giornali per un paio di settimane, un fascicolo aperto alla Procura di Latina, poche decine di migliaia di euro sequestrati e nulla di più. “La moglie di Soumahoro e soprattutto la suocera, artefice di quel disastro, è a piede libero”, ci ha detto in esclusiva Buzzi, il compagno-corruttore abbandonato da tutti, che guarda con amarezza al doppiopesismo nei confronti del compagno con gli stivali seduto invece in Parlamento. Ma non si tratta di un gesto ad personam, di chi è più bravo o più simpatico al partito, piuttosto di una questione di opportunità. Di fingere che non sia successo nulla, di incedere sulla scia del meme “a mia insaputa” o, male che vada, di negare sempre, anche di fronte all’evidenza, per tutelarsi da possibili coinvolgimenti finanche morali e salvaguardare un partito che già ha fin troppi problemi.
D’altronde le correnti che infestano il Nazareno si riflettono anche nel Pd romano, dove il sindaco è fantasma soltanto per i cittadini, che si trovano con una Capitale allo sbando, ma resta attivo sulla scacchiera dem nella partita per la corsa al potere. Roberto Gualtieri, seppure espressione di una fronda minoritaria rispetto alle altre due anime che seguono la linea della segretaria Elly Schlein, ha un peso importante legato non solo al suo ruolo apicale in Campidoglio, ma anche all’amicizia di lunga data con colui che è considerato l’altro sindaco di Roma, Claudio Mancini. Il primo cittadino, inoltre, è inserito nel polo di Stefano Bonaccini, il maggior competitor di Elly, tanto che sta portando avanti progetti in netta contrapposizione con la visione della segretaria. Primo tra tutti il mastodontico inceneritore per i rifiuti della Capitale, un’opera che Gualtieri deve realizzare a tutti i costi per dimostrare l’azione celodurista all’interno della Federazione romana del Pd e conquistare quello che, fin dall’inizio, è l’obiettivo primario del sindaco, ovvero la completa autonomia del suo ufficio capitolino da quelli che sono i dettami del Nazareno. Un modo per smarcarsi anche dai vecchi compagni delle amministrazioni del passato, quelli che sono sopravvissuti indenni e silenti agli scandali di Mafia Capitale, i cui tentacoli avevano lambito perfino la Regione Lazio guidata all’epoca da Nicola Zingaretti.
La cui posizione venne archiviata nell’inchiesta, nonostante gli attacchi che Buzzi continua a rivolgere all’ex segretario del Pd. Zingaretti, seppure siede in Parlamento, è riuscito a prendere in mano la segreteria romana del partito, che il 12 luglio scorso ha eletto a capo Enzo Foschi, uomo vicino all’ex governatore. Della scuderia di Zingaretti anche Nicola Passanisi, che ha ottenuto l’incarico di tesoriere e che, dopo una serie di attacchi arrivati dalle anime di base riformista del suo stesso partito, poiché aveva assunto anche il ruolo nel cerimoniale della Regione Lazio a traino centrodestra con il presidente Francesco Rocca, si è dimesso. Non per incompatibilità legale o amministrativa, ma perché quel doppio ruolo con un piede a destra e uno a sinistra rappresentava un’inopportunità politica. Restano infine i nodi da sciogliere nei rapporti di forza tra il Pd romano e quello laziale del nuovo segretario Daniele Leodori, uomo forte di Dario Franceschini e di quell’area dem che vede in Elly Schlein il futuro della sinistra.
Dopo anni di affari la sinistra si sveglia e lancia l'allarme. "L'accoglienza rischia di essere business". Lodovica Bulian il 21 Settembre 2023 su Il Giornale.
La sinistra attacca il governo sui costi dei nuovi centri e oggi "scopre" i rischi del "business dell'accoglienza", evocati ieri da Repubblica
La sinistra attacca il governo sui costi dei nuovi centri e oggi «scopre» i rischi del «business dell'accoglienza», evocati ieri da Repubblica. Lo stesso business che è finito alla sbarra in diversi processi da nord a sud per reati fiscali e non solo, che hanno coinvolto direttamente o indirettamente soggetti spesso contigui a quel mondo politico. È il risultato di indagini che negli ultimi anni hanno scoperchiato fenomeni di malaffare di cooperative, cioè soggetti che dovrebbero avere uno scopo sociale mutualistico, e che invece hanno lucrato sulle strutture di accoglienza che gestivano. Di fatto guadagnando sui costi sostenuti dallo Stato per consentire condizioni dignitose alle persone sbarcate in Italia. Onlus ammantate talvolta da un orientamento ideologico e politico dalle nobili finalità, che invece avrebbero partecipato ai bandi delle prefetture, vinto l'assegnazione di diverse strutture e messo in piedi reti di business. Il reato più contestato è truffa ai danni dello Stato: si attestano numeri di ospiti superiori a quelli realmente accolti, per gonfiare gli stanziamenti, o si abbassa la qualità dell'accoglienza delle persone, riducendo i costi di gestione.
Ieri davanti alla Corte d'Appello di Reggio Calabria nel processo di secondo grado a Mimmo Lucano, l'ex sindaco di Riace ha voluto mandare una lettera ai giudici per ribadire la sua innocenza. Il Tribunale di Locri aveva già condannato il padre del cosiddetto «modello Riace» a 13 anni e due mesi di reclusione e a 700mila euro di risarcimenti. Ora l'appello, per ribaltare la sentenza: «Come tutti gli esseri umani posso aver commesso degli errori - ha scritto Lucano - ma ho sempre agito con l'obiettivo e la volontà di aiutare i più deboli e di contribuire all'accoglienza e all'integrazione di chi fuggiva dalla fame, dalla guerra, dalle torture». I magistrati di primo grado parlavano invece di «una logica predatoria delle risorse pubbliche» asservite agli «appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica, e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema di accoglienza dei migranti che è diventato un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico».
Ieri ha attaccato il governo e la gestione dell'emergenza anche Aboubakar Soumahoro, deputato del gruppo Misto: «Non è più tempo di fare propaganda sulla pelle degli immigrati per racimolare qualche punto in più nei sondaggi». Soumahoro si trova nel Misto dopo essersi autosospeso dal gruppo Sinistra-Verdi. Un atto dovuto a seguito dell'imbarazzo della stessa alleanza con cui era stato eletto in Parlamento, come simbolo della lotta contro lo sfruttamento dei migranti. Invece sua moglie, sua suocera ed altre quattro persone rischiano di andare a processo: la Procura di Latina ha chiuso le indagini per reati fiscali, nell'ambito della gestione delle coop che si occupavano di migranti. Soumahoro è sempre stato estraneo a ogni accusa e alle indagini.
Lo strumento della cooperativa era anche quello usato nel «Mondo di mezzo» dal ras delle coop Salvatore Buzzi, che intercettato spiegava che «con i migranti si guadagna più che con la droga». L'inchiesta della Procura di Roma aveva scoperchiato la rete di corruzione che scorreva sotto l'accoglienza dei migranti nella Capitale, attraverso esponenti della classe dirigente sia della sinistra che della destra romana.
Sono trascorsi anni, sono state aperte e chiuse decine di inchieste, ma il business resta appetibile. L'ennesimo schema è emerso a giugno, nell'indagine della Procura di Ancona che ora accusa una cooperativa di Perugia di truffa aggravata ai danni dello Stato. I responsabili, secondo i pm, attestavano la falsa presenza di ospiti stranieri nei Cas, inducendo in errore la prefettura e ottenendo soldi per migranti che non c'erano. Lodovica Bulian
Da ilgiornaleditalia.it venerdì 1 settembre 2023.
Lo scorso aprile la Procura di Latina ha chiuso le indagini per Liliane Murekatete, moglie del deputato di Europa Verde, Aboubakar Soumahoro, e per la suocera, Marie Therese Mukamitsindo, nell’ambito dell'inchiesta sulla gestione delle cooperative che si occupavano di migranti. Murekatete, in particolare, è accusata di “evasione dell’imposta sui redditi”.
Le presunte fatture irregolari e la memoria difensiva
La chiusura delle indagini, che di solito prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, è datata 17 marzo. A Mukamitsindo, ha scritto La Verità, “si contestano fatture per operazioni inesistenti tra 2015 e 2016 per 2,17 milioni di euro”. I soldi sarebbero stati versati dalla cooperativa Karibu all’associazione Jambo Africa. “Nel 2017 vengono contestate fatture irregolari emesse dal Consorzio Aid Italia (anch’esso riconducibile alla famiglia della donna) per oltre 98 mila euro. Nel 2018 alla stessa ditta viene contestata una sovrafatturazione di circa 6 mila euro, mentre nel 2019 la Jambo Africa avrebbe emesso a favore della Karibu fatture per 55 mila euro”.
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La denuncia per diffamazione per aver ripreso fotografie pubbliche
Sin qui la cronaca spicciola degli eventi. Perché la riportiamo? Perché Murekatete ha denunciato televisioni e programmi, tra i quali Striscia la notizia, e molti quotidiani nazionali, tra i quali Il Giornale d’Italia (la denuncia per diffamazione ci è stata notificata oggi, giovedì 31 agosto, presso un commissariato milanese identificando il nostro direttore), per diffamazione e violazione della privacy per aver ripreso (con tanto di citazione) le fotografie da lei stessa pubblicate sul suo profilo pubblico di Facebook.
È buon uso di un giornalista correlare il pezzo con le immagini per completare la notizia. Va da sé che se qualcuno non vuole che vengano diffuse le proprie fotografie non dovrebbe postarle sui social, che sono la cosa più pubblica che esista (di più: sono fatti apposta per condividere pensieri, parole e immagini con gli utenti). Ma se vengono riprese da un giornale no, non si può. Un tempo la chiamavano censura.
Gli organi d’informazione per aver fatto mero diritto di cronaca. Una “vendetta” per la pubblicazione delle notizie in merito all’indagine. Altra questione: sulla diffamazione indagano sia la Procura di Milano, nella persona del pm Luca Poniz, sia quella di Roma. Due organi giudiziari al lavoro (con impiego di tempo e spesa di denaro pubblico) per aver ripreso alcune fotografie da un profilo di Facebook aperto. Dire che questa è l’Italia sarebbe scontato e banale. Però questa è l’Italia.
Estratto dell’articolo di Bianca Leonardi per “il Giornale” giovedì 17 agosto 2023.
Torna all’attacco la coppia Soumahoro. […] Liliane Murekatete […], indagata insieme alla madre per malversazione di fondi e truffa, in quanto destinavano i fondi per le cooperative di accoglienza a scopi personali - come gli acquisti in boutique di alta moda - ha denunciato il fotografo romano Elio Carchidi.
La Procura di Roma ha infatti aperto un fascicolo sul professionista che aveva scattato il famoso book «osé» a Lady Soumahoro. Una serie di foto di nudo, la cui anteprima compare sul sito dello studio fotografico nella sezione «osé», con la foto di Liliane Murekatete in primo piano. Gli scatti invece sono riservati a chi ne fa richiesta.
La notizia, che già venne fuori mesi fa in pieno scandalo Karibù, non destò particolare preoccupazione a Lady Soumahoro che solo ora dichiara di essere «psicologicamente sconvolta». Sconvolta, a quanto pare, da un book fotografico che risale ad almeno 10 anni fa. Il fotografo, rintracciato dal Giornale, ha dichiarato infatti: «Risalgono (le foto, ndr) sicuramente al periodo tra il 2012-2013. Il periodo storico è quello e sono online da quel momento, cioè da quando è stato fatto il servizio».
E ancora: «Si presentò con il nome di Liliane e basta, non sapevo niente di lei, né della sua famiglia e cosa facevano. È una delle tante, decine e centinaia di ragazze e donne che ho fotografato: nulla di più, nulla di meno. Anzi, è sempre stata molto carina ed educata, ci siamo sentiti anche successivamente per gli auguri e per salutarci».
Una Lady Soumahoro gentile e carina che nel lontano 2012 decise di farsi fare un servizio fotografico decisamente spinto […]. Ora, e solo ora, la stessa Lady Soumahoro […] si definisce però distrutta dalla scoperta che quelle foto esistono. Carchidi ha infatti sottolineato che Liliane Muraketate afferma il falso sostenendo di non sapere che erano pubblicati gli scatti, ma soprattutto che ha affidato al suo legale la difesa riguardo all’accusa di «diffusione illecita di dati sensibili». Il fotografo amico […] sembrerebbe essere diventato il pretesto perfetto per tornare al centro dell’attenzione mediatica. Che si tratti di un disperato tentativo di togliersi di dosso la veste di «carnefice»?
Daniela e Aboubakar. Il caso Santanchè e quello Soumahoro e il garantismo etnico-razziale. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 5 Luglio 2023
C’è da aspettarsi che l’informativa della ministra al Senato sulle disavventure delle sue società e le posizioni della maggioranza contro le accuse sia una versione molto edulcorata del linciaggio che ha dovuto subire a suo tempo il deputato scaricato da Verdi e Sinistra. E lui rispondeva delle accuse solo indirettamente
Ho una spiccata preferenza per i politici che non volgono le spalle al collega, che sia compagno o camerata, finito nel mirino o nelle grinfie di qualche Procura per un’accusa più o meno infamante e che, prima di scaricarlo, aspettano non dico una sentenza definitiva, ma una verità un po’ meno provvisoria di una velina giudiziaria o di uno di quei dossieraggi, utili solo a confermare quanto avesse ragione Massimo Bordin a chiedere la separazione delle carriere tra magistrati e giornalisti, prima di quella tra inquirenti e giudicanti.
Non si può quindi dire che, in linea generale, non apprezzi l’idea che una maggioranza e un esecutivo, prima di liquidare un ministro per una inchiesta giornalistica (a maggior ragione se di Report e de Il Fatto) o per una indagine giudiziaria, aspetti che si posi la polvere dello scandalo e delle indignazioni a comando. L’apprezzerei invero di più se questa cautela non valesse unicamente per gli amici.
Non mi sfugge neppure che, in un Paese avvezzo a ritenere “illecito” sinonimo di “male”, lo scrupolo garantista sia spesso risolto – come è ovvio, a beneficio degli amici – in una paradossale condizione di immunità da qualunque giudizio e censura, anche per fatti e comportamenti il cui rilievo politico sia del tutto indipendente dalla loro eventualissima rilevanza penale.
Tutto ciò detto, c’è da aspettarsi che quel che accadrà oggi al Senato – l’informativa della ministra Daniela Santanchè sulle disavventure delle sue società e le posizioni della maggioranza contro le accuse e le richieste di dimissioni dell’opposizione – suonerà come una grottesca palinodia del linciaggio preventivo riservato qualche tempo fa a Aboubakar Soumahoro, per una inchiesta che riguardava la suocera e lambiva la moglie, ma in cui il deputato di origini ivoriane non era allora, né sarebbe stato in seguito coinvolto.
Lasciamo da parte – senza dimenticarlo – il modo in cui i partiti che l’avevano candidato l’hanno abbandonato in balia dei picchiatori politico-mediatici (di destra e di sinistra) che finalmente si vendicavano dell’ex bracciante, accusandolo, nella sostanza, di non vivere più in una baracca, dove tutti gli ex braccianti neri devono vivere se vogliono essere presi sul serio e non vogliono passare per venduti e traditori.
Consideriamo invece le ragioni del «Soumahoro si dimetta!» minacciosamente agitate ai tempi dalla attuale maggioranza parlamentare: un insieme di presunte malversazioni compiute da moglie e suocera nell’esercizio dell’attività imprenditoriale e un agio economico palesemente esibito, malgrado la spilorceria ricattatoria riservata ai dipendenti. Soldi spesi in vestiti di lusso e stipendi da fame, in ritardo o non pagati. Bella vita sbattuta in faccia a collaboratori dalla vita grama. Cosa manca per chiedere le dimissioni di Santanchè?
Si dirà: c’è una bella differenza con il caso Soumahoro! Certo che c’è, a tutto vantaggio del deputato scaricato da Verdi e Sinistra. Tutte le accuse transitavano su di lui indirettamente, per via familiare. Aboubakar doveva rispondere della suocera, Daniela non deve rispondere nemmeno di se stessa.
Perché? Perché la ministra editrice e balneare ha dalla sua la posizione (sta evidentemente dalla parte giusta, quella di chi comanda) e anche il colore (come direbbe il suo collega Francesco Lollobrigida, appartiene al ceppo autoctono italiano), e quindi non rischia né la poltrona, né l’oltraggio di quei fischi razzisti, che allo stadio fanno interrompere le partite, ma alla Camera, a quanto pare, non interrompono neppure l’emozione della caccia al deputato nero.
Il ritratto del parlamentare. Chi è Aboubakar Soumahoro, colpevole di essere negro. Una vita dedicata ai diritti e alle lotte dei profughi e dei migranti. Redazione su L'Unità il 30 Giugno 2023
Aboubakar Soumahoro è un sociologo e parlamentare italiano che fa parte del gruppo misto a Montecitorio. Ha 42 anni. E’ nato in Costa d’Avorio nel 1980. Ha vissuto lì l’infanzia e la gioventù. A 19 anni, proprio alla fine del secolo scorso, è riuscito a raggiungere l’Italia. Si è arrangiato a lavorare e a studiare. e a 30 anni ha ottenuto la laurea in sociologia alla Federico II di Napoli, con il voto di 110.
Si è dedicato tutta la vita ai diritti e alle lotte dei profughi e dei migranti. Ha fatto il sindacalista per molti anni e ha fondato un’associazione internazionale che si chiama “la coalizione dei sans papiers dei migranti e dei rifugiati”, con la quale ha realizzato una marcia di molti giorni che ha attraversato sei paesi europei. Nel 1920 iniziò uno sciopero della fame e si incatenò a una inferriata per convincere il Presidente del Consiglio a riceverlo. Alla fine ottenne il colloquio, ma solo il colloquio. Nessuna concessione per i migranti. Il Presidente del Consiglio era Conte.
Nel settembre del 2022 si è candidato al Parlamento con la lista della sinistra e dei verdi. E’ stato eletto. Si è messo in vista sin dai primi giorni da parlamentare con azioni e proteste spettacolari. La più famosa è la performance davanti a Montecitorio, dove si presentò, nel primo giorno da deputato, calzando degli stivaloni di gomma sporchi di fango.
In novembre è scattata una campagna giornalistica contro di lui. L’accusa era di essere il genero di una signora che gestiva male una cooperativa di assistenza ai migranti. Sulla base della campagna, condotta da televisioni e giornali e guidata dal Corriere, la suocera è stata indagata e lui cacciato dal suo gruppo parlamentare. Non si sa se la suocera è colpevole. Si sa che Soumahoro non è colpevole di nessuna delle mascalzonate attribuite a lui dalla stampa. E’ certamente colpevole però di un reato molto più grave: è negro.
Redazione - 30 Giugno 2023
Soumahoro, la denuncia di Faraone: “Contro di lui ululati come i cori razzisti allo stadio”. Scontro in aula questa mattina dopo l’episodio di ieri, quando dai banchi della maggioranza si sono levati schiamazzi contro l’ex deputato dei Verdi-Sinistra. Il Dubbio il 29 giugno 2023
Scontro in aula alla Camera questa mattina tra maggioranza e opposizione prima della ripresa dell'esame degli odg sul Dl Lavoro. Uno strascico del finale di seduta di ieri, quando nel corso dell'intervento di Aboubakar Soumahoro si sono levati brusii dai banchi della maggioranza. "Chiedo che nel resoconto stenografico, vi sia una descrizione qualitativa di ciò che è successo ieri in Aula. Non si può scimmiottare in quest'Aula. Non si può ululare in quest'Aula. Nel resoconto stenografico ci si limita a menzionare 'commenti': è generico rispetto alla gravità di ciò che è successo", ha detto questa mattina Soumahoro.
Già ieri sera, immediatamente dopo il suo intervento, Davide Faraone (Iv) aveva preso la parola per stigmatizzare questi comportamenti. "Tutte le volte che interviene il Parlamentare Soumahoro in aula, dai banchi della maggioranza, alcuni parlamentari, fanno partire cori da stadio, schiamazzi, ululati, simili a quelli che allo stadio vengono sanzionati come razzisti. Non è accettabile che il Parlamento, la casa della democrazia, possa accettare questi comportamenti". In molti tra i rappresentanti delle opposizioni hanno chiesto interventi più incisivi in questo senso da parte della Presidenza.
Roberto Giachetti, collega di partito di Faraone, prendendo la parola questa mattina subito dopo Soumahoro, ha affermato: "Non mi sono accorto di quanto è accaduto ieri. Ho ascoltato ora le parole dell'onorevole Soumahoro e penso che non possiamo limitarci a consentire che il collega lasci agli atti il fatto che il processo verbale - per com'è fatto, ovviamente, non per chi lo realizza - sia così sintetico, soprattutto perché noi, qualche giorno fa, abbiamo approvato un protocollo riguardo agli stadi e all'usanza che vige negli stadi di adottare atteggiamenti razzisti nei confronti delle persone".
Per Federico Cafiero de Raho (M5S), "dietro questi interventi si può leggere anche lontanamente una discriminazione razziale". Ma dalla maggioranza si sottolinea che accade spesso che quando un parlamentare parla, i suoi avversari mostrano disapprovazione o i suoi alleati mostrano apprezzamento. Deborah Bergamini (FI) sottolinea: "Ieri di razzismo non ce ne è stato, ma una contestazione. Secondo me, qualche volta succede che chi vuole vedere per forza il razzismo lo va a cercare anche dove non c'è e ieri non c'era". Il presidente di turno dell'Aula, sia ieri sera che questa mattina, Sergio Costa (M5S), spiega che si farà carico di riferire le istanze di Soumahoro "al presidente Fontana per le eventuali valutazioni che saranno prese sul caso".
Il caso Soumahoro. Allo stadio il razzismo è vietato, in Parlamento è permesso. Quando prende la parola l’on Soumahoro nell’aula della Camera dei deputati si alza il coro dei buuu. Servirebbe un Daspo, come per gli ultras. Davide Faraone su L'Unità il 30 Giugno 2023
Non è la prima volta. Tutte le volte che in Aula Aboubakar Soumahoro prende la parola, dai banchi del centro destra, alcuni parlamentari, ululano, rumoreggiano, manifestano insofferenza per ogni sua parola. Ho aspettato qualche seduta prima di intervenire e segnalare alla Presidenza quanto fosse irrispettoso.
Pensavo fosse un caso, pensavo fosse legato alla non condivisione di quanto espresso dal collega. E invece tutte le volte si ripeteva la stessa scena: Aboubakar si alza, prende la parola e man mano che l’intervento va avanti i brusii si trasformano in schiamazzi, in risate, quasi come se il deputato Soumahoro avesse meno diritto di altri a parlare. Fastidioso e antidemocratico questo comportamento, ma ancora di più c’è un sottinteso: è già tanto per lui stare in Parlamento e vuole pure dire la sua? Di colore e colpito dallo scandalo delle cooperative, più di lui la moglie e la suocera. Parla già meno di tutti perché non è in un gruppo parlamentare, e in quei pochi minuti in cui esprime il suo pensiero l’Aula si trasforma in una bolgia.
Lo stesso trattamento che allo stadio viene riservato ai giocatori di colore. Comportamenti puniti con squalifiche, chiusure dello stadio al pubblico e partite a porte chiuse. Il Parlamento è la casa della democrazia, l’intolleranza non può essere in alcun modo accettata. Spero che la Presidenza della Camera faccia tesoro di quanto accaduto e non tolleri più tali comportamenti intrisi di razzismo e giustizialismo allo stesso tempo. Sopratutto spero che ne facciano tesoro tutti coloro che finora hanno dato prova di comportamenti contrari alla democrazia ed al buongusto. Forse è il caso, così come accade allo stadio con i d.a.spo, che gli elettori si dotino presto di un “d.a.parl”, un divieto di acceso in Parlamento per chi si rende protagonista di comportamenti intolleranti in aula.
Davide Faraone 30 Giugno 2023
“Commenti” o ululati? Bagarre alla Camera sul centrodestra che protesta contro Soumahoro. Angelo Vitolo su L'Identità il 29 Giugno 2023
“Nel resoconto stenografico della seduta di ieri della Camera occorre che siano riportati gli insulti razzisti che mi sono stati rivolti dai banchi della maggioranza, dopo un intervento nel corso dell’esame del decreto legge lavoro”. Lo ha chiesto il deputato Aboubakar Soumahoro, intervenendo in Aula questa mattina. Roberto Giachetti, di Azione-Italia viva, ha chiesto quindi che l’Ufficio di presidenza accerti se sia vero quanto accaduto, ottenendo l’appoggio di altri esponenti del centrosinistra – ieri lo aveva stigmatizzato anche Davide Faraone -, mentre esponenti del centrodestra, pur non opponendosi alla richiesta, hanno respinto le accuse, sostenendo che tutto può essere ricondotto alla normale dialettica parlamentare.
“Raccogliendo tutte le istanze pervenute -ha annunciato Sergio Costa, vicepresidente della Camera e presidente di turno dell’Assemblea- mi farò carico di riferire al presidente Fontana le richieste come pervenute e le eventuali determinazioni che saranno prese sul caso specifico”.
Soumahoro ha lamentato che “dalle voci, dalle urla che provenivano dai banchi della maggioranza, nel resoconto stenografico c’è menzionato commenti. È generico rispetto alla gravità di ciò che è successo e parliamo del luogo più alto della nostra democrazia. Chiedo che ci sia non soltanto un riferimento ma una descrizione qualitativa, sostanziale, entrando nel merito di questi commenti. Non lo chiedo per me, ma per i nostri studenti e i nostri figli. Non si può scimmiottare, ululare in quest’Aula, non si può continuare a vedere ciò che avviene negli stadi all’indirizzo di chi viene stigmatizzato in quanto diverso per il colore della pelle. Sentire in quest’Aula le stesse urla, gli stessi atteggiamenti, penso che sia una violenza non alla mia persona ma alla nostra Carta costituzionale”.
Giachetti ha quindi chiesto di utilizzare nell’Ufficio di presidenza “i filmati interni che abbiamo, affinchè sia verificabile se questo è effettivamente accaduto” e che gli eventuali responsabili vengano perseguiti.
Soumahoro denuncia ululati razzisti alla Camera, smentito da Costa. Il Tempo il 30 giugno 2023
Il deputato Soumahoro denuncia episodi di presunto razzismo quando interviene in Aula. Ieri mattina alla Camera i deputati stavano esaminando gli odg sul Dl Lavoro. Quando nel corso dell’intervento di Aboubakar Soumahoro si sono levati brusii dai banchi della maggioranza. «Chiedo che nel resoconto stenografico, vi sia una descrizione qualitativa di ciò che è successo in Aula. Non si può scimmiottare in quest’Aula. Non si può ululare in quest’Aula. Nel resoconto stenografico ci si limita a menzionare "commenti": è generico rispetto alla gravità di ciò che è successo», ha detto Soumahoro.
Già due giorni fa, immediatamente dopo il suo intervento, Davide Faraone (Iv) aveva preso la parola per stigmatizzare questi comportamenti. «Tutte le volte che interviene il Parlamentare Soumahoro in aula, dai banchi della maggioranza, alcuni parlamentari, fanno partire cori da stadio, schiamazzi, ululati, simili a quelli che allo stadio vengono sanzionati come razzisti. Non è accettabile che il Parlamento, la casa della democrazia, possa accettare questi comportamenti».
Di tutt’altro avviso Sergio Costa, M5S, che presiedeva l’Aula durante l’intervento di Soumahoro. «Io ieri ho percepito delle intemperanze» durante il discorso di Somuahouro, «ma ululato è una parola grossa, non» si è trattato di «una cosa da stadio, io queste non le ho percepite. Neanche lontanamente si deve pensare che qualcuno possa pensare al razzismo in aula».
I mobili dei Casamonica custoditi nella coop della moglie di Soumahoro. Il Tempo il 20 dicembre 2022
Nuovi retroscena inediti sul caso del deputato eletto con l'Alleanza Verdi-Sinistra, Aboubakar Soumahoro. Come riportato dal quotidiano La Repubblica all'interno del garage di un centro per migranti gestito dalla coop della moglie e della suocera di Soumahoro erano custoditi mobili del clan Casamonica.
Un "giallo" che sarebbe stato denunciato quasi quattro anni fa dall'allora senatrice M5s Elena Fattori, passata poi a Sinistra Italiana, all'allora sottosegretario agli interni Luigi Gaetti. Ma la relazione della parlamentare, che l'11 marzo 2019 visitò il Cas "Rehema", non sarebbe mai finita sul tavolo di un magistrato. Fattori riferì quanto le aveva confessato una dipendente della struttura, secondo la quale all'epoca la cooperativa Karibu, presieduta dalla suocera di Soumahoro, Marie Terese Mukamitsindo e amministrata anche da Liliane Murekatete, compagna del deputato, avrebbe pagato circa 10mila euro per un sub-affitto. E che in alcuni locali del Cas erano stipati mobili che "appartenevano a una famiglia importante, alla famiglia Casamonica". Ma non è la sola denuncia di quel periodo. Il 23 maggio 2019, infatti, Rosella Di Giulio, direttore dell'esecuzione del contratto di appalto nei confronti di Karibu per conto della prefettura di Latina, inviò agli stessi vertici della prefettura e alla cooperativa una relazione sullo stato del Cas dopo la visita ispettiva del 13 novembre 2018. Nel documento erano segnalati carenze igieniche; sovraffollamento; stanze non idonee; assenza di derattizzazione e deblatizzazione; umidità e muffa nelle stanze; assenza di presidi all'ingresso e all'uscita; scarsa pulizia e, anche, la presenza di mobili vecchi. In alcune stanze, poi, le suppellettili sarebbero state addirittura assenti. Inoltre, già nel 2019 erano note le difficoltà della coop Karibu visto che sulla base di un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Latina il 28 settembre, il custode giudiziario il successivo 14 dicembre aveva intimato alla società il pagamento di 139mila euro. Somma non versata, con conseguente pignoramento di tutti i crediti vantati da Mukamitsindo nei confronti di ministero dell'Interno, Regione Lazio e Comuni di Latina e di Sezze.
Ieri presso il tribunale di Latina, davanti al gip Giuseppe Molfese e in presenza del pm Giuseppe Miliano, si sono svolti gli interrogatori di Mukamitsindo e di Murekatete, entrambe indagate. Secondo indiscrezioni, la suocera di Soumahoro si sarebbe avvalsa della facoltà di non rispondere, mentre la compagna di Aboubakar avrebbe negato gli addebiti. Come riporta il Corriere della Sera, arriva subito l'eco di un imminente guerra in famiglia: Liliane avrebbe depositato documenti per prendere le distanze dalla gestione della madre Marie Therese.
Le cooperative, i contratti e le assunzioni "a tempo": ecco le carte che inguaiano i Soumahoro. Le regine dell'accoglienza raggiravano il sistema. Youssef Kadmiri, dopo due anni di lavoro nelle coop della famiglia del deputato, risulta invisibile. I documenti esclusivi. Bianca Leonardi su Il Giornale il 26 Maggio 2023
“Voglio solo il mio stipendio e i documenti, niente di meno e niente di più. A causa loro ora sono in una situazione illegale". A parlare è ancora Youssef Kadmiri, ex lavoratore Karibu che nonostante il commissariamento delle due coop di Latina, Aid e Karibu, della famiglia Soumahoro non ha ricevuto la retribuzione né la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno. "Da chi verrà risolta la questione? Non è giusto che non abbia la possibilità di curarmi per colpa loro e della burocrazia", dice al Giornale.it. Nonostante i due anni e mezzo in cui ha lavorato nella coop, Youssef è a tutti gli effetti un clandestino.
Vengono fuori dai documenti di cui IlGiornale.it è entrato in possesso, nuovi dettagli di quella "strategia" che la famiglia del deputato Aboubakar Soumahoro ha messo in atto nella gestione dell’accoglienza. Si legge di un primo incontro all’Ispettorato del Lavoro di Latina, datato 2 novembre 2022, per "le retribuzioni non percepite". Erano presenti Kadmiri e il rappresentante della Karibu, cioè Marie Therese Mukamitsindo. "L’azienda (Karibu ndr), preso atto delle richieste del lavoratore precisa e dichiara che il lavoratore ha intrattenuto rapporti con la cooperativa Consorzio Aid Italia…e pertanto si ritengono estranei alla odierna convocazione": queste le parole messe a verbale della suocera di Soumahoro. Insomma, ciò che emerge è che Youssef non avrebbe mai lavorato nella Karibu, nonostante le chat proprio con la Mukamitsindo e i turni di gestione della cooperativa, dove spicca sempre il nome di Youssef per anni. Tutti documenti di cui IlGiornale.it è in possesso.
Segue così una seconda convocazione sempre all’Ispettorato del Lavoro, il 29 novembre 2022, che questa volta convoca Aid e a presentarsi come rappresentante del consorzio è di nuovo la Mukamitsindo. Sembrerebbe una presa di giro ma gli atti non mentono. Un incontro che anche quella volta non portò a nulla: "Le stesse parti non sono in grado di perfezionare alcun accordo al momento" e, si legge "le parti saranno riconvocate al più presto". In realtà, prima dell’ultima convocazione passeranno mesi visto che risale solo a qualche settimana fa, il 9 maggio scorso, quando l’ispettorato del Lavoro convoca Youssef Kadmiri ma non Aid, che scompare dalle carte per tutto questo tempo. All’incontro c’è di nuovo Karibu che ancora una volta afferma di non aver avuto rapporti lavorativi, riportando tutto il procedimento alla fase iniziale. Un cane che si morde la coda, uno scaricabarile tra i vari membri di quella famiglia che, come citato negli atti dei magistrati in fase di inchiesta, ha messo su “un sistema criminale a conduzione familiare”.
“Mi hanno sfruttato per due anni senza paga o almeno un contratto di lavoro per rinnovare il permesso di soggiorno. Ho solo detto la verità di come venivano trattati i bambini”, ha raccontato ancora al Giornale.it Kadmiri che sta cercando di far valere i propri diritti. Ma non finisce qui. Nei documenti in nostro possesso emerge un altro particolare agghiacciante. Youssef Kadmiri è stato iscritto al centro per l’impiego il 24 novembre 2021, alle 12.58, con datore di lavoro "Consorzio Aid" e rappresentante legale Aline Mutesi, figlia della Mukamitsindo. La tipologia contrattuale inserita è quella di "collaborazione coordinata e continuativa" e la qualifica "mediatore interculturale". Tutto nella norma se non fosse per il secondo documento che smentisce tutto. Lo stesso giorno, infatti, il 24 novembre 2021, ma alle 17.21, sempre Aline Mutesi procede all’annullamento della precedente comunicazione. In questo modo, Youssef - come molti altri sembrerebbe - è stato "assunto" solo per qualche ora ma attraverso questo metodo risulta non abbia mai lavorato per la famiglia. Ma non solo, risulta che nei due anni in cui ha prestato servizio per la famiglia dell’onorevole non abbia proprio lavorato, causa che non gli permette di ottenere un permesso di soggiorno. In tutto ciò, è curioso come proprio Aline Mutesi sia l’unica a non essere comparsa tra gli indagati di questa organizzazione fasulla dell’accoglienza.
Youssef Kadmiri ad oggi sulle carte è invisibile a causa, sembrerebbe, proprio della gestione oscura della famiglia di Soumahoro. Quel Soumahoro che da anni port avanti "la lotta per gli invisibili" da cui però proprio Youssef è escluso.
Estratto dell’articolo di Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 4 maggio 2023.
Dice che «anche grazie» alla sua testimonianza «in Italia si è avviata una riflessione su quanto sta accadendo», l’onorevole Aboubakar Soumahoro, ma non parla delle cooperative gestite dalla suocera e dalla moglie finite sotto indagine bensì del «razzismo», delle «discriminazioni» e delle «disuguaglianze» subite qui da noi dagli immigrati.
Sono africani, in parte, anche gli ex lavoratori della Karibu e del Consorzio Aid che reclamano stipendi mai ricevuti dai suoi parenti ma vabbè, l’ivoriano Soumahoro rimasto orfano di Zoro - il conduttore de La7 che l’aveva portato in palmo di mano - fa spallucce, scrolla il mantello e indossa la maschera di Zorro per fustigare la Meloni e quei fascistacci del governo […]
«Sono a Ginevra dove le Nazioni Unite hanno ospitato la prima riunione dei parlamentari afro-discendenti d’Europa», annuncia il vendicatore Aboubakar, «questo importante appuntamento ha come obiettivo quello di un’alleanza tra gli onorevoli europei per combattere diseguaglianze legate al colore della pelle». Bravo Soumahoro, giusto.
Però ad Abou al solito sfugge l’arma e di fronte all’uditorio internazionale descrive l’Italia come l’Alabama segregazionista: «Con preoccupazione s’è parlato delle politiche razzializzanti», dice così, «dei governi di destra, che attraverso leggi sull’immigrazione stanno legittimando gli orrendi fenomeni di razzismo sociale e digitale. Per questo s’è deciso di tenere la prossima riunione a Roma, e l’incontro sarà aperto alla società civile (non a quella incivile, ndr) e agli attivisti dei diritti, al mondo della cultura, ai giovani e a tutti coloro che resistono (scritto con la “r” maiuscola) quotidianamente contro l’avanzata dei razzismi delle destre estreme».
Chissà che tutti assieme non siano più degli elettori di Sinistra Italiana e Verdi grazie ai quali Soumahoro allora eroe di Fratoianni e Bonelli è stato eletto per un soffio in parlamento, salvo poi essere scaricato pure da questi due.
[…]
Soumahoro intanto ha provato anche a costituire l’intergruppo parlamentare per i rapporti socio-economici con l’Africa occidentale inviando mail a sinistra e a manca ma per ora non ha fatto proseliti, un cruccio perché il proponente ne diventa in automatico anche il presidente.
Quasi in contemporanea lo Sportello dei Diritti ha presentato una denuncia alla procura di Foggia chiedendo di indagare sulle raccolte fondi per aiutare i migranti lanciate dell’ex sindacalista delle campagne pugliesi di San Severo, dove qualche bracciante sostiene che Abou in campagna elettorale pagasse per selfie e video, banconote in cambio di proteste a fini di propaganda, ma sono voci, non c’è un’inchiesta.
Ci sono invece video e foto di lui vestito da Babbo Natale che raccoglieva fondi per i regali ai bimbi poveri del ghetto (i primi a diffonderli sono stati quelli di Striscia la Notizia), ma il prete della Caritas del ghetto, don Pupilla, dice che i bimbi lì si contano sulle dita di una mano. […]
La deriva delle politiche sull'immigrazione. Cosa era l’apartheid, attenzione alla cultura della segregazione. Aboubakar Soumahoro su Il Riformista il 19 Aprile 2023
I processi migratori non dovrebbero essere usati strumentalmente per esacerbare un infruttuoso scontro politico, per radicalizzare e normalizzare un odio nei confronti di una parte della popolazione volutamente e strumentalmente stigmatizzata, per nascondere una mancanza di identità politica o di una visione della società, né tantomeno per alimentare e polarizzare dannose dinamiche di tifoserie opposte sul corpo di esseri umani.
Il varo delle leggi sui processi migratori dovrebbe essere fatto con serietà, realismo, responsabilità, competenza e umanità perché si tratta di legiferare sulle vite di esseri umani che fuggono da guerre, fame, carestie, crisi climatica e conflitti di varia natura. Come diceva Antonio Gramsci, “chi non è capace di costruire ipotesi, non sarà mai scienziato. E quando il politico sbaglia ipotesi, di mezzo ci va il dolore, la sofferenza, le umiliazioni degli uomini e delle donne” indipendentemente dal colore della pelle e della provenienza.
Per questo, chi ha il potere di legiferare deve affrontare questo delicato tema con il dovuto senso di responsabilità che impone il dovere di Stato senza cedere a superficiali slogan ma adoperandosi in modo strutturale e olistico basandosi su una chiara identità politica e una netta visione della società. Per fare questo occorre dare sempre, nella sana dialettica politica ed intellettuale, la giusta centralità al tema dell’immigrazione sottraendolo alle dinamiche strumentali di convenienza che, a seconda delle stagioni politiche, viene trattato con intensità differente.
In questi ultimi giorni, si dibatte sul fatto che il Governo Meloni abbia deciso di svuotare una delle tre forme di protezione riconosciute ai richiedenti asilo. Prima di addentrarsi in questo dibattito, occorre tuttavia ricordare che lo Stato Italiano non concede la protezione ma si limita solamente a riconoscerla. Sono le condizioni de iure che conferiscono lo status di rifugiato. Al riguardo, la legge italiana prevede tre distinti istituti per riconoscere la protezione a chi scappa. La prima è “lo status di rifugiato”, la seconda è “la protezione sussidiaria” e la terza è “la protezione speciale” che il Governo Meloni vorrebbe restringere, di fatto abolendola. Quest’ultima, istituita in sostituzione della protezione umanitaria abolita dai Decreti Sicurezza di Salvini durante il Governo “Conte I”, è stata successivamente ripristinata per rimediare ai danni causati da questi decreti, tuttora in vigore, e per tutelare il diritto al rispetto della vita privata e famigliare.
Abolire la protezione che tutela “il diritto al rispetto della vita privata e familiare” (previsto e tutelato dall’art8 CEDU) di chi scappa equivale di fatto ad abrogare il terzo istituto di protezione previsto dall’ordinamento giuridico del nostro Paese ed assimilabile a diversi strumenti esistenti in vari paesi europei. Purtroppo, questa miope scelta politica del Governo porterà molte conseguenze per il nostro Paese sia in termini umanitari e di sicurezza. Tra le varie ripercussioni ci sarà l’aumento dei dinieghi da parte delle commissioni territoriali, l’incremento dei ricorsi che ingolferanno ulteriormente i già oberati tribunali, l’allungamento oltre misura del tempo di permanenza nei centri di accoglienza, la crescita dei numeri delle persone rinchiuse nei Centri di Permanenza e di Rimpatri (CPR) che dovrebbero essere chiusi, e l’ingrossamento delle fila del numeroso esercito degli invisibili.
Il Governo, oltre alla propaganda del “blocco navale” e dei “porti chiusi”, sembra non avere una politica seria per governare i processi migratori. Facendo un’attenta analisi dei provvedimenti e del linguaggio usato finora dalla maggioranza, sembra che l’obiettivo primario sia quello di ghettizzare il “diverso”, attraverso una segregazione amministrativa, e di farlo diventare capro espiatorio del malessere economico degli italiani. Purtroppo, bisogna riconoscere che questa politica della segregazione amministrativa è la filosofia politica che da tre decenni fa da trait d’union in larga parte dell’iniziativa politico-legislativa in materia di immigrazione. È una forma di costruzione sociale che riduce la vita sociale e lavorativa del migrante in una sorta di gabbia burocratica accompagnata da un apposito apparato amministrativo e che di lui fa un sub-umano.
Per cui è possibile ad esempio trattenerlo in un CPR senza aver commesso alcun reato sanzionabile sul piano penale, perché ad essere punito è il suo essere e non ciò che fa. La stessa cultura e filosofia di deriva razzializzante e classista è alla base della legge Bossi Fini voluta dalla Destra. L’obbiettivo di questa legge, ancora in vigore nel nostro Paese dal 2002, è quello di ghettizzare e dominare socialmente, culturalmente, politicamente ed economicamente una parte della popolazione.
La cultura della segregazione è stata uno dei tratti del sistema apartheid nel Sud-Africa subito anche da Nelson Mandela. Un sistema voluto dal Partito nazionale nel 1948 ed imposto ai neri e a tutte le popolazioni considerate non-bianche relegandoli ai margini dei centri urbani. Una politica, quella dell’apartheid che vuol dire “separare”, che si fondava su un sistema istituzionalizzato di controllo spaziale e di repressione attraverso una serie di leggi segregazioniste.
Ci vorrà una lunghissima e durissima lotta che porterà alla sconfitta nel 1991 di questa politica di accanimento razzista attraverso il diritto all’elettorato attivo e passivo per i neri e con l’elezione di Nelson Mandela a presidente della Repubblica nel 1994. Purtroppo, in un contesto di labilità della memoria e del riduzionismo storico, occorre vigilare con fermezza affinché la politica dell’accanimento e della segregazione amministrativa non producano fenomeni morbosi con forme evidenti o latenti di deriva razzista e discriminatoria nei confronti del nemico pubblico di turno. In questo caso dei richiedenti asilo naufraghi.
La vigilanza deve essere rafforzata soprattutto in un momento in cui il nostro Paese si accinge a festeggiare la festa della Liberazione del 25 aprile. Bisogna ricordare che governare non è schiacciare il “diverso” ma è consentirgli di (Re)esistere e di emanciparsi nel solco dei valori e principi di uguaglianza e di solidarietà che incarnano la Carta costituzionale. È proprio per questo motivo che presenterò una proposta di legge, messa a punto con l’ausilio di esperti, nell’ottica di rimettere al centro la dignità della persona. Questa proposta terrà insieme anche il tema della giustizia sociale perché si tratta di argomenti indissolubili.
Aboubakar Soumahoro
Da striscialanotizia.mediaset.it il 20 aprile 2023.
L’8 marzo (vai al servizio) Striscia la notizia aveva documentato la denuncia presentata alla Procura di Foggia dall’Associazione Sportello dei Diritti, con la richiesta di aprire un’indagine sulle controverse raccolte fondi lanciate dall’ex sindacalista Aboubakar Soumahoro e anche sui presunti metodi simili al caporalato utilizzati dalla Lega Braccianti nei ghetti di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone.
Nel servizio in onda ieri sera, mercoledì 19 aprile, Pinuccio ha annunciato che ora la Procura di Foggia ha ufficialmente aperto un’indagine verso “noti”. E chi potranno mai essere questi “noti”?
Il caso del parlamentare. Soumahoro è completamente innocente, ma intanto è stato linciato. Massimiliano Smeriglio su Il Riformista l’11 Aprile 2023
Aboubakar Soumahoro con le vicende relative alla cooperativa Karibù non c’entra nulla. Questo dice la procura di Latina nelle conclusioni delle indagini. Nulla. Ma non solo questo. Alla compagna Liliane Murekatete l’unica condotta contestata è quella di aver provocato un danno erariale di 13.368 euro, di cui 4.456 a suo carico, conseguente alla violazione dell’obbligo di controllo della dichiarazione dei redditi presentata nel 2020. Insomma poca, pochissima roba. Falsa la notizia che gli sarebbero stati sequestrati conti correnti e centinaia di migliaia di euro. Nessun riferimento da parte della procura all’acquisto di articoli di moda.
Dunque dovremmo aspettarci, in queste ore, un ritorno di fiamma nei talk e nelle redazioni, una volontà di rettifica, un cambio di registro, non dico le scuse, una riflessione più attenta sulla potenza devastatrice dei processi sommari a mezzo stampa. Diciamo un certo grado di cosciente ripensamento da parte di chi si è adoperato, a testa bassa, per rovinargli la carriera e in fondo la vita. La reputazione, per chi svolge funzioni pubbliche, è il bene più prezioso. Per imbrattarla ci vuole pochissimo. La responsabilità deontologica di chi fa informazione dovrebbe collocare la visibilità del risarcimento al medesimo grado in cui è andata in scena la gogna, il rogo liberatorio contro il capro espiatorio. Sì, perché Soumahoro è il capro espiatorio perfetto. Per un eventuale danno erariale di poco più di 4mila euro della compagna è stata pubblicamente lapidata una coppia, macchiata una storia di riscatto, infangata una carriera sindacale e politica, pubblicate foto personali intime, costruiti castelli di allusioni e calunnie. Temo peraltro che il danno sia talmente incardinato nel profondo della coscienza nazionale da risultare inemendabile.
A fronte delle parole della procura tra le redazioni vige la cautela, quella mancata nel momento di appiccare il fuoco, il silenzio, o qualche pallone tirato in tribuna. Come nel caso della famosa testata progressista ora impegnata ad indagare le scale antincendio della cooperativa. Tanto per continuare a parlare del caso Soumahoro, caso che appunto non esiste. «Come ribadito sin dall’inizio, io con le indagini, concluse dalla Procura di Latina non c’entravo e non c’entro nulla. Non risulto né coinvolto né indagato. A questo riguardo, parlare di “caso Soumahoro” vuol dire negare l’evidenza della magistratura con il chiaro intento di diffamare». Questo dichiara l’onorevole alle agenzie. Senza ricevere la necessaria attenzione. Questa la verità giudiziaria, una e incontrovertibile. Forse molti politici, giornalisti, moltissimi odiatori social dovrebbero semplicemente chiedere scusa.
Ma perché si è prodotta questa montagna di fango, fake e ossessioni pruriginose sulla vita pubblica e privata di un parlamentare? La domanda la rivolgo prevalentemente al campo in cui milito, quello della sinistra. Anche perché, spesso, il garantismo della destra appare peloso e orientato esclusivamente a casi specifici, quelli in cui i guai entrano in casa, dunque non del tutto attendibile. E su Soumahoro, che non è cosa loro, non hanno fatto eccezione. Violenti tra i violenti. Sulla sinistra invece va fatta una riflessione di fondo sul giustizialismo come cattiva coscienza che rischia di stritolare la sua anima. Lo abbiamo visto in questa vicenda, lo abbiamo osservato sul cosiddetto Qatargate e la indegna carcerazione di Eva Kaili, lo abbiamo visto ancora sul caso Cospito e l’incredibile silenzio sulla palese violazione dello Stato di diritto. Per rimanere all’attualità e non allungare lo sguardo sulla tentazione giudiziaria di risolvere la contesa storica con Berlusconi in un’aula di tribunale piuttosto che sul terreno politico e culturale.
E cosa tiene insieme destra e sinistra in questa brutta storia? Cosa impedisce ai conduttori televisivi di destra e sinistra e alle grandi firme che fanno opinione di considerare la vicenda Soumahoro a partire dalla verità giudiziaria? Il pregiudizio sul personaggio (della persona non gli importa granché) e il giudizio sulle maldestre comparsate tv, di cui peraltro hanno goduto in termini di audience e pubblicità, fatte di “radicalità posturale” e “diritto all’eleganza”. E può bastare il fastidio borghese per questo profeta un po’ contraddittorio, talvolta confuso, a promuovere questa gigantesca rimozione: la consegna, considerata tradita, ricevuta dai salotti progressisti di comportarsi bene, da santo laico, con la promessa di essere portato in processione a favore di telecamera?
A un personaggio del genere si richiede una coerenza che nessuno chiede a se stesso. I suoi stivali devono essere al medesimo tempo “sporchi” e “puliti”, sporchi per le campagne pubbliche, puliti perché non devono macchiare i salotti che contano. Pena il fuggi fuggi. C’è anche dell’altro. C’è il razzismo strisciante, c’è il rancore che colpisce uno che sembra avercela fatta, c’è la peggiore ferocia, quella che la plebe aizzata rivolge verso i propri figli migliori. La verità è che ci sono troppe coscienze sudicie in giro e tutte concorrono ad un obiettivo: l’oblio di Abou. Per questo abbiamo l’obbligo di batterci, per Abou e per impedire ai farisei di farla franca ancora una volta. Massimiliano Smeriglio
Estratto dell’articolo di Bianca Leonardi per “il Giornale” l’11 aprile 2023.
Ingegnere, marocchino, 42 anni: è Youssef Kadmiri arrivato in Italia e approdato alla Karibu, Latina, la creatura delle regine dell’accoglienza Liliane Murekatete Marie Therese Mukamitsindo, compagna e suocera del deputato Aboubakar Soumahoro. […]
Tu lavoravi alla Karibu?
«Sì, ho lavorato con la cooperativa Karibu per due anni, con tutta la famiglia Soumahoro: Marie Terese, Liliane, Aline».
Sei stato retribuito?
«Sto ancora aspettando lo stipendio. Lavoravo a nero perché rimandavano sempre il fatto di farmi un contratto. Mi dicevano che i pagamenti non arrivavano perché c’erano ritardi dalla prefettura, dai comuni e dagli enti. Avrei dovuto avere 1200 euro al mese ma ancora dopo tre anni niente. Come si fa a vivere così?»
Come si viveva alla Karibu?
«Male. Non c’era niente, ma la cosa più brutta erano i minori che vivevano lì. Erano lasciati a loro stessi per settimane, completamente abbandonati. Non c’era acqua, non c’era luce e pochissimo cibo. Non avevano vestiti, non c’era nemmeno una lavatrice e non sapevamo davvero come andare avanti […]».
La compagna di Soumahoro e la madre sapevano di questo?
«Certo, loro venivano sempre al centro di accoglienza e vedevano la situazione degradante, vedevano che i minori si arrangiavano e andavano a lavorare per pochi euro in aziende agricole o in qualsiasi altro posto pur di riuscire ad ottenere qualche euro per mangiare e vestirsi.
Ma non hanno mai fatto niente, a loro non è mai importato nulla. Facevano promesse su promesse, a noi di pagarci - con la scusa che non c’erano fondi - e ai minori che sarebbe migliorata la situazione».
Sai che la Procura ha scoperto che i fondi destinati ai migranti venivano usati dalla compagna e suocera di Soumahoro per comprare vestiti molto costosi?
«Ho visto, non mi stupisce. Tutta la famiglia è così. Si sono sempre presentate con abiti firmati, di marca. La moglie di Soumahoro è una donna ricca e lo è sempre stata, come Marie Terese».
Hai mai visto Soumahoro?
«Si certo, lo scorso anno, qui a Latina. Sia alla sede Karibu […]».
Era quindi a conoscenza di come si viveva lì?
«Beh sì, come poteva non vedere i ragazzi lasciati lì senza acqua né cibo? […]».
"Irregolarità negli appartamenti dei migranti". Nuovi guai per le coop della famiglia Soumahoro. A seguito di controlli effettuati nel 2018, la suocera di Aboubakar Soumahoro è stata inviata a giudizio per irregolarità nella sicurezza degli appartamenti dei migranti. Francesca Galici l’8 Aprile 2023 su Il giornale.
Emergono nuovi dettagli sulle vicende delle coop gestite dalla famiglia di Aboubakar Soumahoro, dopo che le verifiche condotte dalla procura hanno rilevato come i fondi ricevuti per l'accoglienza dei migranti pare non venissero completamente utilizzati per lo scopo per il quale venivano erogati. "Spregiudicatezza e opacità nella gestione degli ingenti fondi assegnati alla cooperativa sociale... In parte non rendicontati e in parte utilizzati per scopi apparentemente estranei allo scopo sociale: acquisto di beni presso negozi di abbigliamento di lusso", si legge nell'avviso di chiusura indagini.
"Era lei la presidente". Lady Soumahoro sempre più nei guai
Oltre a questo, come riporta la Repubblica in edicola questa mattina, nei sopralluoghi effettuati nel 2018 da Asl e Vigili del fuoco di Latina negli appartamenti nei quali venivano ospitati i migranti dalla famiglia Soumahoro sono state rilevate irregolarità alle norme sulla sicurezza, in particolare sull’antincendio. Gli immobili si trovavano ad Aprila e nella zona del pontino, dove le cooperative erano piuttosto attive. Per questo motivo è stata inviata a giudizio la suocera di Aboubakar Soumahoro, la stessa che proprio cinque anni fa, in quel periodo in cui venivano fatte le rilevazioni, riceveva il MoneyGram Award come imprenditrice immigrata dell’anno.
Paradossi della sinistra che, a distanza di anni, emergono nella loro verità più cruda. Marie Therese Mukamitsindo sta affrontando due processi per la gestione delle coop dei migranti e per la pericolosità degli appartamenti nei quali venivano alloggiati gli stessi. Inoltre, il sostituto procuratore Valerio De Luca, come riporta La Repubblica, avrebbe rilevato che le indicazioni fornite sarebbero state eseguite solamente in parte ma non solo, perché la stessa "non si sarebbe preoccupata neppure di garantire la necessaria formazione ai lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e di quelle antincendio".
Ovviamente, la difesa della donna nega ogni attribuzione e sostiene che le indicazioni non vennero eseguite perché quegli appartamenti non erano più in uso. La prossima udienza è prevista per il prossimo giugno e la difesa delle donne di casa Soumahoro punta all'unificazione dei procedimenti. Moglie e suocera del deputato con gli stivali, insieme ad altri quattro loro parenti, rischiano infatti il rinvio a giudizio dopo la conclamazione delle accuse, per evasione fiscale. "L'unica condotta che si contesta a Liliane Murekatete è quella di aver provocato un danno erariale da 13.368 euro, conseguente all'asserita violazione dell'obbligo di controllo della dichiarazione dei redditi presentata nel 2020 dalla presidente della Karibu", specifica il legale della moglie di Soumahoro.
Estratto dell’articolo di François de Tonquédec per “la Verità” il 4 aprile 2023.
Rischiano di finire a processo Marie Therese Mukamitsindo e Liliane Murekatete, rispettivamente suocera e compagna del deputato Aboubakar Soumahoro […] L’inchiesta, emersa a fine 2022, ha avuto un’accelerazione e il 17 marzo è stato firmato dal pm Andrea D’Angeli della Procura di Latina l’avviso di conclusione delle indagini per sei persone, tra cui quattro famigliari del parlamentare.
La posizione più pesante è quella della capofamiglia. Alla Mukamitsindo viene contestato per i soli anni d’imposta 2015 e 2016, di aver contabilizzato fatture per operazioni inesistenti per 2,17 milioni di euro, che avrebbero consentito alla Karibu di evadere 597.000 euro di Ires. Tutto in famiglia, visto che le fatture false sarebbero state emesse da un’altra realtà riconducibile alla famiglia: l’associazione Jambo Africa.
Negli anni successivi la contabilità creativa sarebbe proseguita, ma con importi più bassi. Nel 2017 vengono contestate fatture irregolari emesse dal Consorzio Aid Italia (anch’esso riconducibile alla famiglia della donna) per oltre 98.000 euro, nel 2018 alla stessa ditta viene contestata una sovrafatturazione di circa 6.000 euro, mentre nel 2019 la Jambo Africa avrebbe emesso a favore della Karibu fatture per 55.000 euro.
Complessivamente il valore delle fatture false utilizzate e contestate alla Mukamitsindo ammonta a più di 2,3 milioni di euro. La suocera è anche accusata per l’emissione di fatture false per un valore 70.000 euro. Pure alla moglie di Soumahoro, Liliane, è stato notificato l’avviso di chiusura delle indagini. Alla donna e al fratello Michel Rukundo i pm del capoluogo pontino contestano, in concorso con la madre, di aver utilizzato ulteriori false fatture per 55.000 euro, che avrebbe permesso un’evasione di poco più di 13.000 euro.
Nella loro qualità di consiglieri di amministrazione della Karibu, «al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto» avrebbero indicato (o omesso «di vigilare affinché altri, e in particolare, la Mukamitsindo» lo facessero) elementi «passivi fittizi nella dichiarazione a fini Iidd (le imposte dirette) relativa all’anno 2019, utilizzando le fatture relative a operazioni inesistenti emesse dall’associazione di promozione sociale “Jambo Africa”». Dalle carte del procedimento emerge un dettaglio che riporta alla mente le parole di Soumahoro, non indagato, che in televisione aveva difeso la moglie per le foto che la ritraevano in abiti firmati, rivendicando il «diritto all’eleganza».
Diritto che, stando a quanto messo nero su bianco dal Tribunale del riesame nel febbraio scorso, qualcuno della famiglia avrebbe esercitato con i soldi delle cooperative. Nel respingere il ricorso presentato dalla Murekatete e dal figlio contro i sequestri e le misure interdittive i giudici evidenziano che la condotta contestata agli indagati «si inserisce in un sistema connotato da rilevanti opacità nella gestione dei fondi […], in parte utilizzati per scopi apparentemente estranei all’oggetto sociale», indicando tra questi, «l’acquisto di beni presso negozi di abbigliamento di lusso, tra cui Ferragamo a Roma».
[…] In una delle informative del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Latina gli investigatori annotano che «dagli accertamenti bancari è emerso che la Karibu ha disposto numerosi bonifici verso l’estero per un totale di 506.000,43 euro per la maggior parte in favore della medesima Karibu, di Marie Terese Mukamitsindo e di Richard Mutangana […] creando verosimilmente una sostanziosa disponibilità finanziaria a vantaggio degli stessi così decurtando tali somme dalla loro reale destinazione».
Come rivelato nel dicembre scorso dalla Verità, i bonifici all’estero erano stati oggetto di una segnalazione di operazione sospetta dell’Uif della Banca d’Italia. A far scattare l’allarme era stato un bonifico da 1.314.512 euro proveniente dalla Karibu e diretto su un «conto corrente intestato alla Jambo Africa». La banca che aveva trasmesso la segnalazione, rimarcava che la movimentazione da gennaio 2016 rilevava «diversi bonifici esteri (diretti, ndr) verso conti in Ruanda intestati alla Karibu Rwa».
Lady Soumahoro, guai via mail. "Karibu, era lei la presidente". Bianca Leonardi il 4 Aprile 2023 su Il Giornale.
Il documento in possesso del «Giornale» sbugiarda la moglie del deputato: anche nel 2020 guidava la coop
Esclusiva
Nuova bugia per Lady Soumahoro che aggrava ancora di più la sua posizione ma anche quella del suo compagno Aboubakar Soumahoro. Dallo scoppio del caso Karibu la linea difensiva della donna, portata avanti dall’avvocato Lorenzo Borrè, è stata sempre quella di dimostrare la sua estranea ai fatti. Se questo, dopo l’avviso di garanzia arrivato pochi giorni fa, sembra dimostrato essere falso, false sono anche le affermazioni riguardo le cariche occupate nella Karibu, dichiarate sempre marginali e mai di dirigenza.
La Murekatete viene inserita nell’ufficio di Presidenza nel biennio 2017-2018, come dimostra anche un post su Facebook della pagina Karibu dove si legge: «Una nota della nostra Presidenza, Liliane Murekatete».
Dopo lo scandalo della coop, però, le informazioni sul suo ruolo sono state confuse e riferiscono la sua estraneità a ruoli gestionali nella cooperativa nel 2019, ma anche nel 2021. Nel 2019 a scagionarla sarebbe stata la testimonianza di una dipendente che ha dichiarato di aver messo lei la firma della Murekatete perché assente e in maternità.
Per quanto riguarda il 2021, Borrè ha affermato che la sua assistita non si sarebbe trovata geograficamente nel luogo dell’assemblea perché in compagnia di Soumahoro. Però esiste un documento, una pec, di cui Il Giornale è in possesso, che dimostra la continua e attiva carica di Liliane Murekatete non solo nei ruoli di gestione della Karibu, ma addirittura nella Presidenza. La mail, datata 30 dicembre 2020, è stata inviata dalla coop al sindaco e alla polizia di un comune vicino Sezze con cui la Karibu ha lavorato assiduamente sul tema accoglienza. In copia è inserita proprio la compagna dell’onorevole, con la dicitura «Liliane Presidenza».
Sembra quindi chiaro che sia sempre stata, almeno dal biennio 2017-2018 e fino a fine 2020 alla presidenza della Karibu. Ma c’è di più, questa data mette inevitabilmente in gioco anche il deputato. È proprio lui, infatti, in un’intervista, ad affermare: «Durante la pandemia ho portato cibo e mascherine in giro per l’Italia, con mia moglie a sostenermi, ho lasciato un neonato a casa per accudire i bisognosi». I tempi tornano: tra il 2019 e il 2020 Soumahoro lasciava il piccolo a casa per girare nei ghetti foggiani a distribuire mascherine, affiancato dalla moglie, quella moglie che dichiarava però di non essere presente alle assemblee della Karibu perché in maternità. Ma soprattutto: come è possibile che Soumahoro non sapesse che Liliane - accanto a lui in quelle battaglie - fosse in quel momento alla presidenza di una cooperativa, già sotto indagine e già al centro di proteste per quanto riguarda le condizione in cui vivevano i migranti accolti dalla Karibu?
Le spese contestate a Lady Soumahoro: “I soldi dei migranti utilizzate per acquistare borse firmate”.
Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Aprile 2023
Il neo deputato Aboubakar Soumahoro ha sempre mancato di credibilità per quanto riguardava le spiegazioni di ciò che succedeva tra le mura della sua casa, anche quando la compagna Liliene veniva indicata dal Tribunale del Riesame come "consapevole e attiva nella partecipazione del meccanismo fraudolento".
La Procura di Latina ha inviato gli avvisi di garanzia dopo aver chiuso le indagini, a tutti i membri della famiglia della compagna dell’onorevole con gli stivali, simbolo “farlocco” della sinistra che va dalla Schlein a Marco Da Milano. Non si è salvato nessuno, tranne il deputato Aboubakar Soumahoro che non ha più proferito parola sulla vicenda. L’inchiesta è finita e la squallida pantomima “Soumahoro and family” si è conclusa nel peggiore dei modi per loro. Indagati Liliene Murekatete, suo fratello Michel Rukundo, la madre Marie Therese Mukamitsindo e l’altro figlio Richard Mutangana anche lui fondatore della Cooperativa Karibù.
L’avviso di garanzia è stato notificato anche ai due legali rappresentanti delle società “satellite” alla Cooperativa Karibu. Il neo deputato Aboubakar Soumahoro ha sempre mancato di credibilità per quanto riguardava le spiegazioni di ciò che succedeva tra le mura della sua casa, anche quando la compagna Liliene veniva indicata dal Tribunale del Riesame come “consapevole e attiva nella partecipazione del meccanismo fraudolento“.
Ed stato proprio il Tribunale del Riesame a darci spiegazione su quello che Soumahoro aveva definito il “diritto all’eleganza” quando ha cercato goffamente di giustificare a quel tempo solo mediaticamente la sua compagna accusata di sfoggiare abiti e borse di lusso dopo lo scoppio dello scandalo. Questo perché nei documenti agli atti, emerge che i fondi destinati alla Karibu, e che sarebbero dovuti servire per la gestione dei migranti e per l’accoglienza , battaglie che hanno contribuito sensibilmente alla conquista della “poltrona” da deputato in Parlamento, con soldi che venivano usati in realtà per fare acquisti nel negozio romano di alto lusso Salvatore Ferragamo, e non solo.
Nelle motivazioni del Tribunale del Riesame che ha rigettato le richieste di revoca dell’interdizione si legge che “La condotta in contestazione, oltre ad essere indicativa di una certa spregiudicatezza, si inserisce in un sistema connotato da rilevanti opacità nella gestione degli ingenti fondi assegnati alla cooperativa sociale e agli altri enti coinvolti, fondi in parte rendiconti, in parte utilizzati per altri scopi apparentemente estranei allo scopo sociale (acquisto di beni presso negozi di abbigliamento di lusso, tra cui Ferragamo a Roma)“. In pratica, i “furbetti” dell’accoglienza dei migranti affamati e disperati, per due volte in questi ultimi due mesi, dopo aver fatto shopping sfrenato in via Condotti, hanno addirittura fatto ricorso per annullare l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche, imposta invece per la durata di 1 anno.
Il loro ricorso però è stato rigettato ed è stato confermato anche il sequestro disposto dalla Procura di Latina – per oltre 650mila euro: poco meno di 640 mila nei confronti dell’ imprenditrice Mukamitsindo, persino premiata incredibilmente qualche anno fa da Laura Boldrini, e il rimanente diviso tra i figli, compresa “Lady Soumahoro”, la compagna del deputato Aboubakar Soumahoro. In pratica, dopo il danno la beffa, ed è crollato una volta per tutti il finto regno dell’accoglienza targato Karibu ed Aid , specializzato ad incassare tanti soldi, (tra bandi, contributi e finanziamenti) ottenuti per offrire una nuova vita a chi arrivava in Italia senza niente ma che in realtà venivano usati in modi tutt’altro che coerenti con le linee di indirizzo delle cooperative, tra cui comprare vestiti alla moda in negozi costosissimi.
A cornice di questo trionfo di ipocrisia non poteva mancare uno degli ultimi interventi di Soumahoro il quale, ancora oggi, si prodiga sfacciatamente a parlare di migranti: “La proposta riguarda il tema dei processi migratori“, ha affermato qualche giorno fa l’onorevole in aula . “È una situazione strutturale e vuol dire che occorre ragionare su una prospettiva di progetto europeo, un piano europeo sul tema dei processi migratori”. Per dopo concludere, tra i fischi degli altri parlamentari: “Nel rispetto della dignità, nel rispetto dei diritti e dell’uguaglianza”. Sarebbe importante capire di quale uguaglianza parlasse, quella con i migranti che vivevano come topi, senza acqua e cibo, nelle coop gestite dalla sua famiglia? E’ forse rispetto quello nei confronti dei dipendenti della Karibu che non venivano pagati, proprio sotto gli occhi – “distratti” come lui stesso afferma, da parte dell’Onorevole Soumahoro? Quella dignità di avvalersi del “diritto all’eleganza” sulla pelle degli immigrati disperati? Redazione CdG 1947
Stangata per la famiglia Soumahoro: il caso coop finisce nel peggiore dei modi. Il Tempo l’01 aprile 2023
Ritorna di attualità la vicenda legata alla famiglia di Aboubakar Soumahoro, deputato del Gruppo Misto eletto con l’Alleanza Verdi-Sinistra. Come riferisce Il Giornale si è conclusa l’inchiesta della Procura di Latina e sono stati emessi sei avvisi di garanzia, con il coinvolgimento di tutti i membri della famiglia di Liliane Murekatete, compagna dell’onorevole che si era presentato in Parlamento con gli stivali nel suo primo giorno di lavoro. Oltre alla stessa donna l’avviso riguarda il fratello Michel Rukundo, la madre Marie Therese Mukamitsindo e l'altro figlio, Richard Mutangana, anche lui fondatore della cooperativa Karibù che si occupava della gestione dei migranti.
Il quotidiano, consultati alcuni documenti del Tribunale del Riesame, sottolinea come emerga che i fondi destinati alla Karibu, che andavano destinati alla gestione e all’accoglienza dei migranti, sono stati in realtà utilizzati per fare acquisti nel negozio romano di alto lusso Salvatore Ferragamo. “La condotta in contestazione, oltre ad essere indicativa di una certa spregiudicatezza, si inserisce in un sistema connotato da rilevanti opacità nella gestione degli ingenti fondi assegnati alla cooperativa sociale e agli altri enti coinvolti, fondi in parte rendiconti, in parte utilizzati per altri scopi apparentemente estranei allo scopo sociale (acquisto di beni presso negozi di abbigliamento di lusso, tra cui Ferragamo a Roma)” la citazione dalle motivazioni del Tribunale del Riesame, che ha rigettato le richieste di revoca dell’interdizione per Murekatete e il resto della famiglia. Oltre all’interdizione sono stati sequestrati complessivamente circa 650mila euro. Dagli aiuti per occuparsi dei migranti allo shopping tra le vie del lusso di Roma.
Le spese di Lady Soumahoro: "I soldi dei migranti per le borse firmate". Bianca Leonardi l’1 Aprile 2023 su Il Giornale.
Chiuse le indagini sulla moglie e la suocera del deputato. Contestato anche lo shopping in negozi di lusso
L'inchiesta è finita e la soap-opera «Soumahoro and family» si è conclusa nel peggiore dei modi per loro. La Procura di Latina, dopo aver chiuso le indagini, ha inviato gli avvisi di garanzia a tutti i membri della famiglia della compagna dell'onorevole con gli stivali. Liliene Murekatete, il fratello Michel Rukundo, la madre Marie Therese Mukamitsindo e l'altro figlio - anche lui fondatore della Karibù - Richard Mutangana. A ricevere l'avviso anche i due legali rappresentanti di quelle società satellite alla Karibu. Non si è salvato nessuno, tranne il deputato che non ha più proferito parola sulla vicenda. Aboubakar Soumahoro ha sempre peccato di superficialità per quanto riguarda le spiegazioni di ciò che succedeva tra le mura della sua casa, anche quando la compagna Liliene era stata bollata dal Tribunale del Riesame come «consapevole e attiva nella partecipazione del meccanismo fraudolento».
Ed è proprio il Tribunale del Riesame che sembrerebbe darci spiegazione a quello che Soumahoro ha definito «diritto all'eleganza» quando ha cercato di giustificare la compagna accusata - a quel tempo solo mediaticamente - di sfoggiare abiti e borse di lusso dopo lo scoppio dello scandalo. Questo perché nei documenti agli atti, di cui Il Giornale è in possesso, emerge che i fondi destinati alla Karibu, e che sarebbero dovuti servire per la gestione dei migranti e per l'accoglienza - battaglie che sono valse la conquista della poltrona da deputato - venivano usati in realtà per fare acquisti nel negozio romano di alto lusso Salvatore Ferragamo, e non solo.
«La condotta in contestazione, oltre ad essere indicativa di una certa spregiudicatezza, si inserisce in un sistema connotato da rilevanti opacità nella gestione degli ingenti fondi assegnati alla cooperativa sociale e agli altri enti coinvolti, fondi in parte rendiconti, in parte utilizzati per altri scopi apparentemente estranei allo scopo sociale (acquisto di beni presso negozi di abbigliamento di lusso, tra cui Ferragamo a Roma)». Così è scritto, nero su bianco, nelle motivazioni del Tribunale del Riesame che ha rigettato le richieste di revoca dell'interdizione. In pratica, i furbetti dell'accoglienza per due volte in questi ultimi due mesi, dopo aver fatto shopping sfrenato in via Condotti, hanno addirittura fatto ricorso per annullare l'impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche, imposta invece per la durata di 1 anno. Ricorso però rigettato e che ha previsto anche il sequestro - disposto dalla Procura di Latina - per oltre 650mila euro: poco meno di 640 mila nei confronti dell' imprenditrice Mukamitsindo, premiata qualche anno fa da Laura Boldrini, e il rimanente diviso tra i figli, compresa Lady Soumahoro.
Insomma, oltre il danno la beffa e il regno dell'accoglienza per eccellenza targato Karibu ed Aid è crollato una volta per tutti. Soldi, tanti - tra finanziamenti, bandi, contributi - ottenuti per dare una nuova vita a chi arriva in Italia senza niente ma che in realtà venivano usati in modi tutt'altro che coerenti con le linee di indirizzo delle cooperative, tra cui - appunto - comprare vestiti alla moda in negozi costosissimi. A cornice di tutta questa ipocrisia non poteva mancare uno degli ultimi interventi di Soumahoro che, ancora, si prodiga a parlare di migranti: «La proposta riguarda il tema dei processi migratori», ha affermato l'onorevole in aula qualche giorno fa. «È una situazione strutturale e vuol dire che occorre ragionare su una prospettiva di progetto europeo, un piano europeo sul tema dei processi migratori». Per poi concludere così, tra i fischi degli altri parlamentari: «Nel rispetto della dignità, nel rispetto dei diritti e dell'uguaglianza». Quell'uguaglianza con i migranti che vivevano come topi, senza acqua e cibo, nelle coop gestite dalla sua famiglia? Quel rispetto nei confronti dei dipendenti della Karibu che non venivano pagati proprio sotto gli occhi - distratti, come lui afferma - dell'Onorevole? Quella dignità di avvalersi del «diritto all'eleganza» sulla pelle degli ultimi?
Soumahoro, "cos'è successo nella banca". Striscia fa un altro scoop. Giada Oricchio su Il tempo il 16 marzo 2023
Striscia la Notizia e l’inviato Pinuccio non mollano la presa su Aboubakar Soumahoro, l’ex deputato di Sinistra Italiana-Verdi la cui moglie e suocera sono accusate di truffa, maltrattamenti e malversazione nella gestione di alcune coop. Il tg satirico di Canale 5 ha affrontato più volte il tema, in particolare la questione del mutuo di 270.000 euro per l’abitazione di Roma. Come ha fatto l’ex sindacalista a dare un anticipo di 90.000 euro (su un totale di 360.000 euro) e ottenere in prestito l’alta cifra residua a fronte di un reddito lordo di circa 9.000 euro nel 2022 e 24.000 nel 2021? Forse la banca si fida dei suoi correntisti.
Così Pinuccio ci ha provato mandando un attore a chiedere un prestito di pari importo a parità di condizioni nella stessa banca. Il “gancio” è uscito a mani vuote. E allora perché a Soumahoro è stato concesso? L’inviato ha un dubbio e lo palesa: “La banca erogatrice del mutuo è la stessa dove arrivavano i soldi delle controverse raccolte fondi, ovvero quelli che anziché andare alla Lega Braccianti finivano direttamente sul conto corrente personale di Aboubakar Soumahoro”. Una curiosa coincidenza.
Flat tax, salario minimo, contrattazione collettiva: la segretaria del Pd Elly Schlein, il leader del M5s Giuseppe Conte e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, riuniti sul palco del congresso del sindacato a Rimini, pensano a un patto per rilanciare il lavoro in Italia. La mobilitazione indigna Gianluigi Paragone, fondatore di Italexit. In un reel pubblicato sul suo account Instagram, il giornalista denuncia: “Giusto per capire, quelli della Cgil, che adesso invitano a protestare contro il governo sono gli stessi che prima hanno fatto pappa e ciccia con Mario Draghi?! Adesso che non ci sono i loro amichetti a Palazzo Chigi invitano alla mobilitazione? I problemi dei lavoratori i sindacati non li vedono da tempo. Anzi, quando c’era da fare il siero (il vaccino anti Covid, nda) li hanno discriminati. I sindacati da tempo reggono il gioco del neoliberismo e dei padroni”.
Striscia la Notizia "nella banca di Soumahoro": la pesante scoperta. Libero Quotidiano il 15 marzo 2023
Pinuccio e Striscia la Notizia non si arrendono. La trasmissione di Canale 5 vuole a tutti i costi fare chiarezza sulla vicenda che ha visto protagonista il deputato Soumahoro. E in particolare sul mutuo di 270mila euro erogato all’ex sindacalista a fronte di un reddito lordo piuttosto esiguo. Soumahoro ha infatti dichiarato circa 9mila euro nel 2022 e circa 24mila l’anno precedente. Stando alle sue stesse parole, per l’acquisto della casa a Roma costata 360mila euro nel 2022, aveva dato un anticipo di 90mila euro.
Eppure a Pinuccio qualcosa non torna. L'inviato di Antonio Ricci ha mandato un attore nella stessa banca per richiedere un prestito di pari importo a parità di condizioni. Niente da fare. Da qui la domanda: "Ma è possibile ottenere un mutuo di questo genere con un reddito così basso?". O meglio, come ha fatto Soumahoro a ottenerlo?
Da qui la scoperta che Pinuccio definisce "una piccola curiosità". "La banca erogatrice del mutuo è la stessa dove arrivavano i soldi delle controverse raccolte fondi, ovvero quelli che anziché andare alla Lega Braccianti finivano direttamente sul conto corrente personale di Aboubakar Soumahoro". Non è la prima volta che il tg satirico tenta di far luce sul caso ancora oggetto di dibattito.
Estratto dell’articolo di “Libero quotidiano” il 3 marzo 2023.
Il ministero delle Imprese e del Made in Italy annuncia in una nota di aver adottato il decreto di liquidazione coatta per la società cooperativa “Karibu Società cooperativa sociale integrata a R.L.”, con sede a Sezze (in provincia di Latina), di cui è socia la moglie del deputato Aboubakar Soumahoro. Il decreto, firmato dal ministro Adolfo Urso il 27 febbraio, nomina Francesco Cappello commissario liquidatore.
Sulla base dell’opaca gestione della cooperativa, per quanto estraneo era comunque finito nella bufera Aboubakar Soumahoro eletto con Sinistra Italiana e Verdi […] La Direzione generale vigilanza sugli enti cooperative e società (in quanto Autorità di Vigilanza) aveva disposto una ispezione straordinaria conclusasi il 29 novembre, ricorda la nota diffusa ieri.
Gli ispettori del Mise avevano già sottolineato «una grave carenza gestionale e irregolarità amministrative», concludendo che la Karibu fosse una coop fittizia, dunque da liquidare.
[…] Gli ispettori […] hanno ravvisato l’ipotesi di insolvenza della società avendo maturato debiti in particolare verso l’erario.
Inoltre, dalla visura camerale aggiornata, si evince che l’ultimo bilancio depositato dalla cooperativa, riferito all’esercizio al 31 dicembre 2021, evidenzia una condizione di sostanziale insolvenza in quanto, a fronte di un attivo circolante di 1.484.139 euro, e si riscontrano debiti a breve termine di 2.059.953 euro ed un patrimonio netto negativo di 50.540 euro, aggravato da ulteriori perdite risultanti alla data del 30 settembre 2022.
Le attività di verifica hanno altresì rivelato che la situazione di insolvenza ha portato al mancato pagamento di mensilità stipendiali, per cui pendono anche diverse vertenze all’esame dell’Ispettorato del Lavoro, nonché dell’omesso versamento di contributi previdenziali e ritenute erariali. […] Gli ex vertici della cooperativa, Marie Therese Mukamitsindo e Michel Rukundo, rispettivamente suocera e cognato dell’onorevole Soumahoro, sono accusati di presunta evasione fiscale e false fatturazioni nell’ambito della gestione dell’ospitalità ai migranti, tramite la cooperativa Karibu ma anche il consorzio Aid. […]
Estratto dell’articolo di Vincenzo Bisbiglia per “il Fatto quotidiano” il 9 febbraio 2023.
La cooperativa Karibu, tra il 2017 e il 2020, ha spostato mezzo milione di euro (506.000,43 euro) all’estero, disponendo “numerosi bonifici”, per “la maggior parte” in favore della stessa società Karibu e su conti utilizzati da Marie Terese Mukamitsindo e Richard Mutangana, rispettivamente suocera e cognato del deputato Aboubakar Soumahoro.
È quanto emerge da un’informativa della Guardia di Finanza di Latina del 23 marzo 2022, agli atti dell’inchiesta della Procura pontina per false fatturazioni che coinvolge la famiglia di Liliane Murekatete, moglie del parlamentare eletto con Verdi-SI (ora nel Gruppo misto). […]
La Gdf nella relazione ai pm parla di “una sostanziosa disponibilità finanziaria a vantaggio degli stessi, così decurtando tali somme dalla loro reale destinazione”, ovvero i conti della coop che, nel frattempo, accumulava centinaia di migliaia di euro di debiti verso i lavoratori.
Il veicolo utilizzato per lo spostamento dei fondi all’estero è, per i pm, un’ulteriore società del gruppo, l’associazione Jambo Africa, la cui presidente era Christine Kabukoma, risultata in un primo momento irreperibile.
La Jumbo, per i pm, aveva emesso centinaia di fatture per servizi mai effettuati: corsi di italiano destinati ai migranti, laboratori di cucina, mediazione interculturale, e anche laboratori di cucito, tutte operazioni – scrive la Gdf – “inesistenti”. “Tale associazione – si legge nell’informativa – nell’ultimo periodo è stata utilizzata non tanto per rendere servizi alla Karibu, ma per drenare risorse da destinare all’estero”.
C’è poi un tema che riguarda Murekatete. La moglie di Soumahoro è indagata, anche lei, per false fatturazioni, ma per importi residuali afferenti la sua partecipazione, in qualità di consigliere d’amministrazione (dal 3 aprile 2018), alle assemblee dei soci. In queste sedute, venivano approvate le fatture contestate. Nei documenti agli atti tuttavia le firme sui verbali di partecipazione risultano apposte in maniera “disordinata”.
[…] Che i presunti illeciti siano avvenuti a sua insaputa? “È di tutta evidenza come (...) Liliane Murekatete si sia resa parte attiva nelle attività gestorie della Karibu”, insistono i finanzieri, citando i circa 40 mila euro, anni di compensi ottenuti dalla donna dal 2019 al 2021.
Soumahoro, scandalo senza fine: toh, che 100mila euro sono scomparsi. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 02 febbraio 2023
Una pagina. D’altronde è lì da vedere: scaricabile con pochi click. Il download è immediato: basta scorrere il sito della Lega Braccianti, l’associazione del deputato Aboubakar Soumahoro, e scegliere la spunta “rendiconto gestionale 2020”. Tutto il nodo del contendere, quella querelle infinita, è racchiusa in una paginetta: 57 righe (compresi avanzi e disavanzi), sei colonne e una manciata di numeri. Stop. Il resto è politica. È lui, l’ex “rosso” scaricato da Nicola Fratoianni, l’ex “verde” scaricato da Angelo Bonelli, l’ex immigrato che in Parlamento è entrato con gli stivali para-fango e che, adesso, le domande sui suoi conti che non tornano le schiva come un’anguilla del lago Trasimeno. Sorride. Parla di «legalità e trasparenza», dice: «Io seguo le indicazioni del ministero delle Politiche sociali, non quelle di Caruso» (Francesco Caruso, l’ex leader dei No-global che con Soumahoro ha condotto la raccolta fondi “Cibo e diritto” durante la pandemia), ma mica risponde.
CONTI OPACHI
Lunedì sera, nel corso della trasmissione di Rai3 Report, l’inviato Bernardo Iovene gliel’ha chiesto almeno due volte: «Tra il rendiconto di Caruso e il suo ballano 101mila euro, dove sono le fatture che testimoniano ciò che lei ha messo a bilancio?». Niente. «Papa Francesco dice che il silenzio è la strada e anche la risposta alle chiacchiere». Onorevole, no. Per due motivi: il primo è che la religione, qui, c’entra un tubo. Il secondo è che lei, ci permetta, non è un cittadino qualunque. È un deputato della repubblica. Se un giornalista fa il suo lavoro (e cioè chiede), lei è tenuto a rispondere. Almeno da un punto di vista politico. Altrimenti «legalità e trasparenza» un piffero.
Il punto, però, è anche un altro. Ed è che quel “rendiconto gestionale 2020” è stato scritto così, due anni fa, perché due anni fa si poteva scriverlo così. Ong, attività del terzo settore, onlus, associazioni a vario titolo allora avevano obblighi molto meno stringenti rispetto a oggi. Un vuoto normativo, il solito intreccio di cavilli, burocrazia e leggi che mancavano: è così che si arriva a quella paginetta scarsa. Un’attività (che però fa girare soldi, 120.998 euro di «materie prime e merci» e 38.376 euro di «trasporti»: non bruscolini) ridotta a un foglio A4. «Fino al 2020 le associazioni non avevano obblighi, se non di natura statutaria. Poi è cambiato il mondo», spiega Fabio Zucconi, esperto di diritto societario. «Era normale che un’associazione avesse colonna entrate e colonna uscite, qualcuno metteva anche il saldo del conto corrente: era finita lì». Ci riferiamo agli “Ets”, ossia agli Enti del terzo settore: qualifica che la Rete Braccianti di Soumahoro ha nel nome.
Controlli, pochini. Paletti, idem. Vincoli, lo stesso. Una manciata di rimandi al Codice civile e poco più. Insomma, un imbuto a manica larga, spesso giustificato: nel senso che le associazioni del terzo settore sono tante e variegate, rientrano nel volontariato, e una sorta di flessibilità (diversamente dalle società per azioni o a scopo di lucro) è nella natura delle cose. Ci mancherebbe.
POCHE REGOLE
«Il Testo unico è stato varato nel 2017», continua Zucconi, «ed è composto da 115 articoli che toccano anche il tema della contabilità: oggi il sistema è assimilabile per modalità a quello societario». Ma è stato attivato solo nel 2021, l’anno dopo il “rendiconto gestionale” contestato a Soumahoro e con un periodo ancora insufficiente per testarne la validità. «Di controlli non ce ne sono ancora semplicemente perché i primi bilanci depositati sono quelli del 2022: serve tempo». E gli altri? Per aprire un salone di parrucchiere sono necessari 75 autorizzazioni, per un’autofficina 76 adempimenti. Lo dice l’Osservatorio nazionale della Cna.
Da radioradio.it il 31 gennaio 2023.
Nuovi guai per Aboubakar Soumahoro. Report avrebbe raccolto una testimonianza inedita nei suoi confronti che riguarderebbe una raccolta fondi, organizzata durante il lockdown del 2020, realizzata insieme a Francesco Caruso, ex capo dei No global, per portare il cibo nei ghetti.
“Secondo quanto riporta Caruso, che si sarebbe occupato dei trasporti alimentari da Benevento, lui avrebbe speso 58mila euro dei 220mila raccolti“, rivela il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci.
“Nel bilancio del 2021, si legge, Soumahoro avrebbe scritto 159mila: la differenza è significativa. Secondo Soumahoro sarebbe tutto a bilancio, ma quando il nostro giornalista gli ha chiesto le fatture l’onorevole ha sviato.
Ci aspettiamo che ci dia gli allegati al bilancio per sgombrare ogni dubbio sulla vicenda, e sarebbe la prima volta che il caso lo riguarda personalmente: lui per ora si è dimesso solo per le vicende legate alla moglie“.
Estratto dell’articolo di Francesca Galici per ilgiornale.it il 31 gennaio 2023.
Striscia la notizia non molla e continua con Pinuccio le sue indagini su Aboubakar Soumahoro e, in particolare, sulla Lega Braccianti. […] Pinuccio e Striscia la notizia si concentrano da tempo […] sulle raccolte fondi organizzate per sostenere le spese della Lega Braccianti sulla piattaforma Gofundme.
L'inviato di Striscia la notizia ha trovato una (seppur scarsa) rendicontazione pubblicata proprio sul sito della Lega Braccianti e relativa all'utilizzo dei fondi raccolti con Gofundme per lo sciopero di Roma e per l'acquisto dei regali per i bambini di Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci, che però non ospitano bambini, se non pochissimi.
E sono state messe in evidenza da Pinuccio alcune voci che appaiono quantomeno esagerate in rapporto alla realtà. "Abbiamo trovato le spese, almeno così risulta dalle loro carte, di alcune missioni fatte con i soldi raccolti attraverso Gofundme e altre piattaforme ma ci sono alcune cose che non abbiamo capito, perché non si capisce niente", spiega Pinuccio, che poi entra nello specifico del caso.
In relazione alla raccolta fatta per il Natale dei bambini nel 2021, su Gofundme erano stati raccolti 16.061 euro. Bene, come si evince dalla rendicontazione mostrata da Pinuccio, "14.266 euro sono stati spesi per acquisti di beni previsti dallo statuto, immaginiamo i regali ma bambini non ne abbiamo visto, e poi circa 1.700 per l'acquisto di servizi come realizzazione di video e altro", prosegue l'inviato leggendo la rendicontazione. Il commento di Pinuccio è chiaro: "Ma che cosa? Hanno raccolto i soldi sulla piattaforma per i regali e poi spendono 1.700 euro per un video? E poi che video? C'è una fattura, qualcosa? Niente".
Ma Striscia la notizia non si ferma e prosegue nella sua indagine, analizzando la rendicontazione per l'altra raccolta fondi, quella per lo sciopero di Roma dei braccianti. Per quella specifica iniziativa, sulla piattaforma Gofundme sono stati raccolti esattamente 31.285 euro, come risulta dal sito.
"Da come dicono loro sulla Lega Braccianti, circa 10mila euro sono stati spesi per vestiario e cibo. E che vestiti sono? Gli abiti hanno comprato a tutti quanti? 10mila euro mi sembra un poco troppo", commenta Pinuccio davanti a una spesa così ingente. Ma Aboubakar Soumahoro è colui il quale si appella al diritto all'eleganza e alla moda come libertà.
Ma non è finita qui, perché l'inviato di Striscia la notizia trova nella rendicontazione anche "21mila euro per trasporti. A noi non risultano migliaia di persone trasportate, a meno che non siano venuti con la Ferrari". […] C'è poi il nodo della salma di Oumar Fofana, il bracciante morto per il cui rimpatrio della salma risulta siano stati spesi i soldi della raccolta per lo sciopero dei braccianti e per il Natale. Ma nella rendicontazione questa specifica spesa risulta essere stata fatta con i proventi della raccolta "cibo e diritti", per la quale erano arrivati 83.582 euro.
Uscire dai ghetti. Report Rai. PUNTATA DEL 30/01/2023
di Bernardo Iovene
Collaborazione di Lidia Galeazzo
Un reportage di Report nei ghetti del foggiano: le condizioni e le esigenze dei migranti braccianti che li popolano.
Dietro un piatto di spaghetti al pomodoro c’è il lavoro di migliaia braccianti agricoli, che vivono in baracche senza acqua né luce e riscaldamento. La loro condizione di irregolari crea dipendenza dai caporali che speculano sulla paga già bassa e sui trasporti. Per superare questa situazione negli anni sono stati stanziati milioni di euro su progetti ancora in corso sia per lo smantellamento delle baraccopoli che per creazione di moduli, container provvisori affiancati da progetti di formazione e inclusione gestiti da associazioni e volontari. L’ultimo progetto viene dal PNRR: 200 milioni di euro. Questa volta il Ministero del Lavoro ha incaricato l’Anci, quindi i comuni, di fare un censimento dei ghetti, e stanziare dei fondi in base alle presenze. In Puglia arriverà la fetta più grossa, 114 milioni. Quali sono i progetti e i tempi di realizzazione che hanno un cronoprogramma da rispettare pena la perdita del finanziamento? Siamo stati nei ghetti del foggiano, abbiamo visto le condizioni e le esigenze dei migranti braccianti che li popolano, e analizzato i progetti dei comuni. Infine, un’attenzione maggiore al gran ghetto di Torretta Antonacci, dove l’onorevole Aboubakar Sumahoro aveva lanciato la raccolta fondi durante il lockdown. Francesco Caruso, che era all’epoca con Sumahoro, ci ha segnalato i suoi rendiconti.
USCIRE DAI GHETTI Di Bernardo Iovene Collaborazione Lidia Galeazzo Immagini Paco Sannino Grafiche Federico Ajello
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In Puglia, nella provincia di Foggia, sono proliferati i ghetti, un rifugio disumano per migliaia di braccianti, spesso invisibili perché senza documenti. Per anni si è occupato di loro l’ex parlamentare Francesco Caruso, che qualche anno fa ha cominciato questa attività con Aboubakar Sumahoro. Insieme gestirono anche la famosa raccolta fondi Cibo e diritti. Fino a quando le loro strade si sono divise e, a sentire Caruso, i conti non tornano.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA io non ne voglio parlare … perché se no finiamo a discutere di Aboubakar.
BERNARDO IOVENE Ma lui l'ha fatto in buona fede.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Ma quale buonafede, allora, anche questo telecamere spente.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si svolge tutto così rapidamente che sia la mia telecamera che quella del mio collega restano accese.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Tu tieni che quando noi andavamo nelle campagne insieme, lui stava là con la telecamera e si faceva il selfie e a me arrivava tutta sta fila di disperati, ognuno con il suo C3 che era scaduto, con la convocazione che non gli era stata... E quindi a un certo punto la cosa semplicemente lui diceva andiamocene, andiamocene, e io dicevo come li risolviamo questi casi... io che mi occupo dei micro-casi, appresso a Aboubakar senti dobbiamo far questa cosa, ti prego. Sì, sì, sì sì, sì dal giorno dopo esce ‘sta videoconferenza: io abbandono il sindacato. Chiamo Abou, ma tu sei impazzito? Ma che? Non mi risponde, mando un messaggio: Abou ti posso chiamare gentilmente abbiamo un cazzo di problema serio a Foggia, non mi risponde più al telefono, come i creaturi! ti faccio vedere la chat io e Abu. il problema qual è che tutte le famose spese che abbiamo fatto della spesa della cosa braccianti le abbiamo fatte uno due e tre, e lo sai dove le abbiamo fatte? a Benevento. Faccio tutte le spese.
BERNARDO IOVENE Ma le spese alimentari?
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Alimentari a Benevento e il camion lo prendevamo da Ermanno e pigliavamo questo camion a 500 euro per fare le consegne. 2
BERNARDO IOVENE I soldi quei 220mila li hai gestiti tu?
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Li ho gestiti tutti io, tranne le ultime due che le ha gestite Sambarè.
BERNARDO IOVENE Di quelli che sono stati spesi dei 220.000 euro che sono. Quanti?
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Io 38 e 522 euro, lui altri 15.
BERNARDO IOVENE Sambarè. Il resto?
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Non sappiamo che fine ha fatto. Io non lo so che gli è girato in testa, si è fatto due conti e ha detto sai che c’è? Arrivederci e se n’è fuiuto con i soldi, ma sotto gli occhi miei!! Quei soldi devono andare, ma no a me a te a Sambarè, devono andare ai poveri cristi che stanno nelle campagne
BERNARDO IOVENE è mai possibile lo conosci da vent'anni non riesci a parlargli di questa cosa.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO - DELEGATO USB FOGGIA Bernà, la smetti di rompere il cazzo tu e Aboubakar. Ok? registrato? Dobbiamo parlare, se non ci vieni tu a fare sui guai di Torretta Antonacci, non ti mettere pure tu su sto cazzo di Aboubakar.
BERNARDO IOVENE A questo punto abbiamo contattato l'onorevole Soumahoro, che ci ha dato appuntamento a Foggia, nel ghetto di Torretta Antonacci, dove, uscito dal sindacato, ha fondato l'associazione Lega Braccianti. Prima va a visitare i resti dell'incendio scoppiato il 12 gennaio. Ad accompagnarlo ci sono alcuni suoi associati che per l'occasione hanno indossato il cappellino della Lega.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Lega Braccianti.
BERNARDO IOVENE Sì, ma dico che attività fanno loro.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Loro di fatto lavorano nei campi.
BERNARDO IOVENE Ho capito, cioè non fate attività sindacale?
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Ma non esiste, non siamo un sindacato e chi lo dice, dice il falso. BERNARDO IOVENE Infatti, dico.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Questo è, non fa né trattenute, non è un sindacato! Qua siamo giunti a un livello: mancano i cavolfiori, colpa di Soumahoro! Mancano i cavolfiori, colpa di Soumahoro! Vieni, si può, si può vivere così? Mi chiedi cosa fa la Lega Braccianti, facciamo questo.
BERNARDO IOVENE E adesso che fate con questa documentazione?
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Sollecitiamo la Questura di Foggia per chiedere lo stato della pratica.
BERNARDO IOVENE Cioè vuole tornare al suo Paese. Qual è il suo paese?
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Il Mali.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Arrivati nella sede della Lega abbiamo chiesto perché ha lasciato il sindacato USB, ma è finito a parlare della colonizzazione dell'Africa.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Si parlava di tesi congressuali che l'Africa è stata saccheggiata, lo dico da cittadino orgoglioso italiano
BERNARDO IOVENE Che c’entra questo con il sindacato, cioè, non ho capito il momento di rottura?
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Sono discussioni che abbiamo fatto dentro il sindacato.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Abbiamo poi provato a chiedere conto delle otto missioni nei ghetti italiani del 2020, dove hanno portato cibo durante il lockdown: hanno raccolto in totale 225.000 euro.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Nel 2020 siamo andati avanti, abbiamo distribuito generi alimentari.
BERNARDO IOVENE Avete fatto le missioni, lei si ricorda quante missioni ha fatto fino al 31 dicembre?
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO 4 Tutto, tutto, tutto sta all'interno dei due bilanci della Lega braccianti che lei trova on line.
BERNARDO IOVENE Che è questo qua. Allora, io ho un elenco di tutte le missioni che avete fatto: il 9 aprile a Torretta, il 18 aprile a Borgo Mezzanone, il 25 aprile a Rosarno.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il resoconto preciso di Caruso e Sambarè per le otto missioni del 2020 e di 53.640 euro di acquisto merci, mentre dai bilanci dell'onorevole Soumahoro risultano 120.998. Così anche per il trasporto: il conto di Caruso sarebbe 4.200 euro; dai bilanci dell'onorevole ne risultano 38.376. In pratica, nel 2020 Soumahoro dichiara 159.000 euro. Per Caruso e Sambarè, invece, solo 58.000. Mancherebbero 101.000 euro.
BERNARDO IOVENE Praticamente mancano all'appello 101.000 euro del 2020 parlo, no?
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Dico sempre che siamo alle leggende.
BERNARDO IOVENE Le uscite delle missioni non corrispondono a quelle del bilancio.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO No, no, no, no, no, non è vero questo. O Caruso decide di scrivere le regole della stesura di un bilancio, non so dove lo decide. Io seguo il ministero delle Politiche sociali, per legge, per una questione di legalità e di trasparenza. Questo è.
BERNARDO IOVENE Cioè lei avrebbe modo di documentare attraverso delle fatture tutte queste uscite?
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Caruso come mai non cita che Lega Braccianti ha rimborsato giustamente, dico giustamentem l'anticipo del trasporto per le manifestazioni fatte da USB Foggia? Allora è una questione di accanimento da parte di alcuni ambienti della USB.
BERNARDO IOVENE Sì, però lei non ha mai risposto se ha delle fatture che giustificano ad esempio questi 120.000 euro di cibo nel 2020.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Guardi 159 per l'acquisto di beni e servizi.
BERNARDO IOVENE È quello che sto dicendo io, quello che c'è sul bilancio. Io le sto dicendo perché non lo dimostra. 5 ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO Il bilancio conta, queste cose fatte...
BERNARDO IOVENE Se lei riesce a dimostrare.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO il bilancio lo dimostra, se lei mi dice devo farlo in base a quello che dice Francesco Caruso per me conta lo Stato italiano, di cui Francesco Caruso è cittadino, anch’io sono cittadino
BERNARDO IOVENE Vabbè non arriviamo da nessuna parte comunque
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO No, arriviamo da qualche parte. Marzo 2020.
BERNARDO IOVENE Sì, ma le cifre le mette lei non è che presenta le fatture.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO 2020, non me le invento. Io non rispondo a illazioni, sa cosa dice Papa Francesco? il silenzio è la strada e anche la risposta alle chiacchiere.
BERNARDO IOVENE Lui dice che quando andavate in giro lei pensava solo a fare i selfie e poi lui risolveva i problemi.
ABOUBAKAR SOUMAHORO – DEPUTATO GRUPPO MISTO No, è falso posso dirlo falso. Si parlava solo dei braccianti solo quando c'è il morto. Mi sono detto visto: che ci sono i social media, trasformo i miei canali social in uno strumento per rilanciare e condividere con i cittadini che a casa mangiano ma non sanno da dove provengono il cibo. Da quando non sono più in USB è diventato anche quello un problema, poi il selfie l’ho fatto anche col Papa.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Soumahoro e Caruso hanno aperto una raccolta fondi nel periodo del lockdown per portare cibo nei ghetti. Totale 225 mila euro. Ora Caruso dice io mi sono occupato di comprare il cibo a Benevento e poi della gestione dei trasporti, totale costi 58 mila euro. Solo che Soumahoro ha messo a bilancio 159.000 euro. Tra la versione di Caruso, e quella di Soumahoro ballano 101 mila euro. Che fine hanno fatto? Secondo Soumahoro è tutto quanto a posto perché è stato scritto nel bilancio, però quando il nostro Bernardo gli chiede mostrami che hai ragione, mostrami le fatture che hai allegato lui ha sviato. Noi ora aspettiamo che l’onorevole ci dia le prove di quello che dice, questo per sgombrare le ombre alle spalle di quei braccianti che dice tanto di difendere.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Sarebbero oltre 500.000 i braccianti stranieri che vivono nel nostro Paese, secondo un rapporto del Ministero del Lavoro, realizzato in collaborazione con le Politiche Sociali e ANCI, ci sarebbero 10.000 braccianti stranieri censiti che vivono in 37 ghetti. Che sono sostanzialmente baracche o immobili dismessi. Sono stime perché queste sono state realizzate in base alle autodichiarazioni dei Comuni e non tutti li hanno dichiarati. Il 70% di questi ghetti sono nel sud Italia perché è là che i braccianti per la raccolta di arance, olive, pomodori. Si tratta di invisibili che vivono in condizioni disumane, senza acqua, senza corrente e riscaldamento. I cui nomi emergono solo a delle tragedie. Ora ci sono 200 mln di euro del PNRR per strapparli dalla vergogna dei ghetti, e dal malaffare dei caporali. Il ministero del lavoro ha indetto un censimento, ha incaricato una fondazione dell'Anci di realizzare un censimento. In base alle autocertificazioni dei Comuni ben 114 milioni dei 200 finiranno in Puglia . Saranno in grado i comuni pugliesi di presentare dei progetti nei tempi e all’altezza? E i soldi sono stati distribuiti equamente? E soprattutto serviranno a strappare una volta per tutte i braccianti dalla vergogna dei ghetti? Cominciamo da quello più vecchio realizzato 14 anni fa su una pista di un aeroporto abbandonato e che nel frattempo si è trasformato in una cittadella con dei servizi, servizi si fa per dire.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo mezz'ora di questa strada dissestata, si arriva al ghetto di Borgo Mezzanone. Per il superamento di questo campo, dove vivono 4000 persone, ci sono per il Comune di Manfredonia 53 milioni di euro. Una buona notizia, di cui, però, i braccianti non sanno nulla.
ABDULLAH ISMAIL Buttare fuori soldi per dare un migrante che non lavora su una sedia così sta seduto non ha alcun senso.
BERNARDO IOVENE Cioè secondo te che cosa dovrebbero fare con questi soldi che hanno stanziato?
ABDULLAH ISMAIL Se tu mi fai dormire mi dai 600 mese io non mi piace, non serve! dà loro documenti loro va a lavorare prende case da soli.
BERNARDO IOVENE Servono alla base documenti e lavoro.
ABDULLAH ISMAIL E lavoro, questo due cose, basta.
DANIELE IACOVELLI - SEGRETARIO GENERALE FLAI-CGIL FOGGIA In automatico dovrebbe scattare ad esempio un permesso per lavoro, che però sia istantaneo al momento che un lavoratore possa dimostrare che ha un rapporto di lavoro valido.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I soldi sono stati stanziati in base alla presenza dei lavoratori nel ghetto che sono in gran parte senza documenti
DANIELE IACOVELLI - SEGRETARIO GENERALE FLAI-CGIL FOGGIA Negli anni effettivamente gli sono state fatte tante promesse, però la possibilità e l'occasione di questo PNRR potrebbe essere, come dire, l'ultima possibilità reale.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I 53 milioni di euro arriveranno al Comune di Manfredonia che deve fare un piano di azione e rispettare i tempi, altrimenti questa valanga di soldi si perde.
BERNARDO IOVENE Sono tanti soldi.
GIANNI ROTICE - SINDACO DI MANFREDONIA (FG) Sono tanti soldi. Ma soprattutto non ci veniva detto cosa fare. ho detto alla Regione, scusate, io vengo, sono sindaco da sei mesi in un comune dove abbiamo il dissesto finanziario, una struttura di personale ridotto. Come faccio a adempiere a quelle date che loro avevano predisposto.
BERNARDO IOVENE Arrivano i soldi, è un problema. Siamo al paradosso.
GIANNI ROTICE - SINDACO DI MANFREDONIA (FG) Il rischio è quello, dobbiamo essere onesti su questo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Sindaco di Manfredonia ma anche gli altri comuni che hanno avuto il finanziamento hanno chiesto aiuto alla Regione Puglia, che ha già esperienza con i progetti europei Supreme di fuoriuscita dai ghetti, e ha creato a ridosso di Torretta Antonacci questi moduli abitativi, e nelle vicinanze, casa Sankara.
PAPA LATYR FAYE - PRESIDENTE CASA SANKARA - ASSOCIAZIONE GHETTO OUT Noi abbiamo portato fuori dalle baracche le persone, e le abbiamo portate a casa Sankara.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per questi progetti che ospitano 400 persone a insediamento, però, sono stati stanziati pochi milioni di euro, dal PNRR, invece, ne arriveranno 114 e c’è bisogno quindi di tecnici e ingegneri per elaborare in tempi stretti i progetti esecutivi.
RAFFAELE PIEMONTESE - ASSESSORE AL BILANCIO E AGLI AFFARI GENERALI REGIONE PUGLIA Noi non siamo nelle condizioni di mettere nostri dipendenti regionali, nostri tecnici regionali, perché anche noi abbiamo bisogno di ulteriori ingegneri e quindi facciamo 8 in modo che le università, a partire dal Politecnico, possano dare un supporto ai comuni.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Politecnico di Bari, a spese della Regione, ha individuato cinque piccoli borghi, isolati nelle campagne, dove spostare parte dei migranti, costruiti per la riforma agraria del 1930. Borgo Cervaro, Borgo giardinetto, Borgo Incoronata, il Borgo di Mezzanone e Borgo Segezia.
CARLO MOCCIA - DIRETTORE DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA POLITECNICO DI BARI Sono soprattutto alcuni edifici pubblici, le scuole o l'ex Casa del fascio che non hanno una utilizzazione ma possono benissimo essere riutilizzati invece come edifici della vita collettiva.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma prima però sarebbe opportuno risolvere la questione dei documenti. In tanti magari potrebbero anche lasciare la Puglia. La CIGL afferma di avere assunto un ruolo guida al tavolo con i Comuni, la Regione, gli altri sindacati, associazioni e il Politecnico.
GIUSEPPE GESMUNDO - SEGRETARIO GENERALE CGIL PUGLIA Bisogna superare quel problema a monte attraverso l'abolizione della Bossi-Fini e provare ad intervenire con una nuova normativa che regolarizzi intanto quelli che ci stanno.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il problema è nazionale, i Comuni dovrebbero essere al corrente della situazione nei ghetti visto che sono stati investiti di tanta responsabilità
BERNARDO IOVENE Però lei ci dovrebbe andare dentro là, perché se non hanno i documenti non hanno il lavoro.
GIANNI ROTICE - SINDACO DI MANFREDONIA (FG) Però ecco questo è interessante che sta dicendo, io veramente andrei proprio in mezzo a loro a parlarci di questo, cioè tu con una cosa minima risolvi un problema grande, però questa cosa non me l’ha mai sottoposta nessuno.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il sindaco di Manfredonia con noi ha scoperto l’acqua calda. Tuttavia, lui in quanto sindaco di un Comune è uno dei soggetti attuatori dei progetti per superare i ghetti e contrastare il caporalato. A decidere così è stato il ministro del Lavoro del passato Governo.
BERNARDO IOVENE Perché avete pensato di dare ai Comuni questi soldi?
ANDREA ORLANDO - MINISTRO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI 2021- 2022 Beh, perché sono l'entità territoriale più vicina, che sono quelle che hanno fatto la mappatura, perché sono quelle poi anche che devono anche poi continuare un'attività che non finirà con la realizzazione diciamo del progetto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questo invece è il Gran ghetto di Torretta Antonacci: il Comune di San Severo ha dichiarato che qui vivono 2000 persone e quindi riceverà 28 milioni di euro.
SAMBARE SOUMALIA Il progetto che viene fatto sull'immigrazione per aiuti non c'è nessuno che parla dei documenti quello che interessa agli immigrati, non ci sta.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sambare si occupa di tutte le questioni anche burocratiche dei migranti del ghetto. Ad aiutarlo tra le complicate normative e richieste ai vari enti c'è l'ex deputato Francesco Caruso.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Segnami qua il cellulare, devo controllare quante giornate hai.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All'interno del ghetto c'è un ufficio dove tutti i giovedì c'è lo sportello aperto. Ad esempio, il Comune di San Severo non riconosce il cedolino della questura che invece è a tutti gli effetti un documento in attesa della consegna del permesso di soggiorno.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Almeno la carta d'identità, quella ce la dovrebbero dare.
BRACCIANTE Io sono arrabbiatissimo, oggi ha detto fuori d'Italia o io torno al mio paese perché sta a Italia senza niente.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Lo sportello USB raccoglie anche la posta.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA È Arrivato il codice fiscale che fra due mesi gli scade.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Spesso succede che i migranti si ritrovano con la sovrapposizione di più codici fiscali oppure, e non si sa perché, invece del classico codice gli rilasciano un numero.
BERNARDO IOVENE E che difficoltà, che difficoltà ti crea il codice numerico?
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA 10 Non gli fanno i contratti, il padrone non glielo riconosce.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Altro servizio è il controllo sul sito dell'Inps delle giornate effettivamente lavorate
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA al 30 novembre hai 33 giornate, tu da quand'è che lavori con loro?
BRACCIANTE Io lavoro tre mesi
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Questa è la solita truffa che gli fanno, non gli segnano le giornate.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E sono stati loro a denunciare alla Guardia di Finanza la truffa di alcuni impiegati di Poste, Agenzia delle Entrate e CAF che hanno intascato i soldi del reddito di emergenza per 700.000 euro destinato agli abitanti del ghetto.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Abbiamo raccolto le denunce di tutte queste persone che gli hanno rubato i soldi all'ufficio postale. Cosa mi raccontavano loro che andavano dai carabinieri: Ah mi hanno rubato, io dovevo avere i soldi e non li ho avuti, e il carabiniere diceva, per piacere, la verità è anch'io all'inizio facevo così, ma mi dicevano non ci sono i soldi
BERNARDO IOVENE Ti sembrava impossibile.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA E non ci credevo.
BERNARDO IOVENE Vanno oltre.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi quando chiedo a Caruso se come USB partecipano al tavolo con gli altri sindacati e i Comuni sui fondi del PNRR.
FRANCESCO SAVERIO CARUSO – DELEGATO USB FOGGIA Ah, quindi loro stanno facendo e stanno discutendo del piano del PNRR, senza sentire gli abitanti di Torretta Antonacci, i quali sono i beneficiari di questo piano. Con 29 milioni di euro costruisci il mega villaggio, ma dopodiché questi rimarranno qua perché non hanno i documenti.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Comune di San Severo, dicevamo, non riconosce i cedolini della questura con cui, lo dice la norma, si può chiedere e ottenere l’iscrizione anagrafica.1
BERNARDO IOVENE Questo qua è un cedolino no, voi qua non glielo riconoscete. Il problema più grosso di queste persone sono i documenti, i documenti, i documenti, dico, voi perché non andate incontro a queste persone?
FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) Questo non è possibile fare una cosa del genere.
BERNARDO IOVENE E l’avete fatto voi dal Comune.
FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) C'è un'interlocuzione in atto tra di noi e quindi.
BERNARDO IOVENE All’interno del Comune ci sono queste problematiche che state risolvendo?
FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) Assolutamente.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO San Severo grazie a queste persone con o senza documenti prenderà dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza circa 28 milioni di euro.
FRANCESCO MIGLIO - SINDACO DI SAN SEVERO (FG) Questa misura è per superare gli insediamenti informali per contrastare il caporalato. Proporremo al ministero la creazione di tre siti residenziali a bassa intensità.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Uno dei tre siti individuati è su quest’area e il progetto sarà lo stesso che hanno previsto per la ristrutturazione del vecchio mattatoio per cui già stati stanziati, alcuni anni fa, e sempre per proteggere i lavoratori dal caporalato, con i fondi Pon-legalità, 4 milioni e 300mila euro.
SIMONA VENDITTI - ASSESSORA ALLE POLITICHE SOCIALI COMUNE DI SAN SEVERO (FG) Questo è il mattatoio, il mattatoio. Questo è il layout di come l'abbiamo immaginato. Come vede, i moduli sono pensati per essere moduli abitativi autonomi.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 28 e 4 sono 32 milioni di euro, ma a Torretta Antonacci non si è visto niente e niente si vedrà a Stornara, in questo campo dove l’anno scorso morirono due bambini in un incendio, ci vivono in 300 sono braccianti di nazionalità bulgara, ma per loro dal PNRR non arriverà neanche un euro.
PINUCCIO GRIPPO - ISPETTORE POLIZIA MUNICIPALE COMUNE DI STORNARA (FG) Non hanno residenza, sono comunitari dalla Bulgaria.
BERNARDO IOVENE Perché non hanno la residenza?
PINUCCIO GRIPPO - ISPETTORE POLIZIA MUNICIPALE COMUNE DI STORNARA (FG) Perché mancano i requisiti di legge, cioè il contratto di lavoro e il contratto di affitto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sono braccianti senza documenti, lavoreranno a nero, rientrano a pieno titolo nel PNRR. Per ottenere il finanziamento dal ministero del Lavoro, occorreva compilare un questionario inviato dall'Anci a tutti Comuni.
ROBERTO NIGRO - SINDACO DI STORNARA (FG) E ci siamo trovati in pratica fuori.
BERNARDO IOVENE Non avete fatto in tempo a fare il questionario? Come si spiega è colpa vostra oppure è colpa del ministero che non vi ha individuato?
ROBERTO NIGRO - SINDACO DI STORNARA (FG) Secondo me, non era spiegato bene diciamo di che cosa si trattava. Se si parlava chiaramente dice mette a disposizione dei fondi a riguardo penso che uno capiva che.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Comune di Stornara non è riuscito a compilare il questionario inviato dalla Fondazione Cittalia di ANCI a tutti i Comuni. Ma all’interno si comunicava che il censimento dei ghetti era legato a un finanziamento?
BERNARDO IOVENE Lo sapevano loro?
MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Questo lo sapevano perché era scritto
BERNARDO IOVENE Tutti i comuni?
MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Certo.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO C'era scritto chiaramente nella lettera di accompagnamento al questionario.
BERNARDO IOVENE Gentile Sindaco, questa qui.
MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Sì. Rappresenta il riferimento informativo.
BERNARDO IOVENE Che condizionerà direttamente l’attivazione di 200 milioni. C’era scritto chiaro insomma.
MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Esatto.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Era scritto talmente chiaro che altri comuni, più attenti, e senza nemmeno avere i ghetti, hanno risposto indicando di avere la presenza di solo dieci stranieri, come il comune di Bisceglie, che ha ottenuto ben 2.129.000 euro.
BERNARDO IOVENE Però voi con questi dieci lavoratori che cosa dovreste fare con questi soldi che vi arrivano.
ANGELANTONIO ANGARANO - SINDACO DI BISCEGLIE (BT) L'idea è quella di creare degli alloggi temporanei.
BERNARDO IOVENE Attualmente questi dieci che arrivano dove dormono?
ANGELANTONIO ANGARANO - SINDACO DI BISCEGLIE (BT) Dormono o presso la Caritas oppure, purtroppo, dormono in casolari connessi ovviamente alle aziende agricole che li assumono.
BERNARDO IOVENE Non è stato fatto un controllo sulle dichiarazioni dei Comuni, vi siete fidati diciamo no.
MONIA GIOVANNETTI - DIRETTRICE DIPARTIMENTO STUDI E RICERCHE FONDAZIONE CITTALIA-ANCI Stiamo parlando appunto di Comuni, cioè sono delle istituzioni.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Bisogna fidarsi. Il Comune di Carapelle ha dichiarato anch'esso dieci presenze di migranti in un ghetto che non esiste e il ministero gli ha riconosciuto un finanziamento di 1.129.000 euro.
UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Gli uffici sono riusciti a censirne, hanno messo dieci ma sono sicuramente molto di più.
BERNARDO IOVENE Ah, dodici saranno. Sono stagionali questi qua se ho capito bene.
UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) No, sono molti di più, alcuni sono stagionali altri sono fissi.
BERNARDO IOVENE Sì, ma sono 10.
UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Io le dico è stato il finanziamento che abbiamo ottenuto è stato una casualità, chi ha risposto a quei questionari ha avuto i finanziamenti.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Bastava rispondere e indicare il numero di presenze. Il Comune con 1.129.000 euro farà degli uffici informativi, un pulmino e dieci biciclette elettriche a disposizione dei braccianti per andare e tornare dalla campagna.
UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Uno torna dal campo deve pure pedalare sotto 40 gradi. Vedo anche un po' di sarcasmo da parte sua, dieci persone avete avuto tutti questi soldi.
BERNARDO IOVENE No, io sono venuto a dirle bravo mica sono venuto a dirle. Se uno pensa alle biciclette elettriche perché questi si affaticano in campagna e non devono. Io le devo dire solo bravo! Se si trasforma questa zona in una piccola Svizzera, dobbiamo essere solo contenti.
UMBERTO DI MICHELE - SINDACO DI CARAPELLE (FG) Magari.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comune di Cerignola ha dichiarato che in questo Borgo nel periodo estivo vivono 530 migranti e per questo riceverà quasi nove milioni di euro, ma quando chiediamo al sindaco con nostro stupore ci dice di non saperne nulla e chiama l’assessore.
BERNARDO IOVENE Ma a chi deve ringraziare il comune visto che il sindaco non ne sapeva proprio niente.
MARIA DIBISCEGLIA - VICESINDACA E ASSESSORA AL WELFARE COMUNE DI CERIGNOLA (FG) Sì, devono ringraziare gli uffici sicuramente
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con i primi 4 milioni di euro sarà ristrutturato questo borgo che ospiterà i braccianti e poi, in pieno centro storico, adibiranno un'ex caserma a centro servizi e alloggi.
BERNARDO IOVENE 60 persone verranno qua.
MARIA DIBISCEGLIA - VICESINDACA E ASSESSORA AL WELFARE COMUNE DI CERIGNOLA (FG) Si
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche qui potranno usufruire degli alloggi solo chi è in regola con permesso di soggiorno e lavoro. Ma facendo un giro al Borgo dove vivono attualmente poche persone rispetto ai 530 del periodo estivo, l'unica e sola cosa che chiedono sono i documenti.
MARIA DIBISCEGLIA - VICESINDACA E ASSESSORA AL WELFARE COMUNE DI CERIGNOLA (FG) Per loro è necessaria la prima accoglienza, i documenti, i documenti sanitari, regolarizzarsi ove possibile, ovviamente sotto questo punto di vista.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Documenti regolari e saper far bene il proprio lavoro. Sarebbero questi gli ingredienti per il successo del finanziamento dei 200 milioni di euro. Ma invece di rilascio dei documenti non se ne parla proprio. Poi abbiamo visto che c’è chi ha incassato denunciando la presenza di braccianti nessuno ha controllato. Invece c’è chi avrebbe avuto bisogno di incassare perché ha i braccianti ma non si è reso conto che bastava compilare un modulo per ottenere i finanziamenti. Poi c’è chi invece ha dovuto rinunciare a 4,5 milioni di euro, il Comune di Turi, perché non è riuscito a fare squadra con i Comuni limitrofi. Pure lì c’è un problema di braccianti che si accampano nelle campagne periferiche per la raccolta stagionale delle ciliegie. Poi c’è il Comune Manfredonia, 53 milioni di euro per il ghetto più grande d’Italia, ma lì il sindaco che ha interessi nel campo dell’edilizia non si è affacciato mai nel ghetto per capire quali sono le reali esigenze. Poi c’è invece chi ha uffici talmente competenti che è riuscito a incassare finanziamenti pure non avendo ghetti. Ed è il Comune di Bisceglie, 2,1 milioni. Quello che è mancato sicuramente è un censimento serio della presenza dei braccianti. Questo per evitare il rischio di costruire le ennesime cattedrali nel deserto, e di lasciare che gli invisibili serbatoio di quel malaffare e quelle speculazioni che abbiamo visto fino ad oggi.
Caso Soumahoro, "Striscia la Notizia": quasi 10mila euro in vestiti per lo sciopero. Storia di Redazione Tgcom24 il 30 gennaio 2023.
Prosegue l'inchiesta di "Striscia la Notizia" in merito al deputato Aboubakar Soumahoro, nell'occhio del ciclone per le presunte attività illecite della sua famiglia con "Lega Braccianti".
Dopo le testimonianze del socio e di alcuni collaboratori, l'inviato del tg satirico Pinuccio torna sul caso e durante la puntata di lunedì 30 gennaio analizza le voci di spesa da quello che è stato pubblicato sul sito della Lega Braccianti, ponendo l'attenzione sulle rendicontazioni del 2020 e del 2021.
Come raccontato da "Striscia la Notizia", tali documenti proverebbero che degli oltre 31mila euro raccolti per lo sciopero organizzato a Roma, circa 10mila sarebbero stati spesi per indumenti e alimenti, mentre oltre 21mila sarebbero stati dedicati al trasporto dei manifestanti.
Inoltre, dei 16mila euro raccolti per i regali di Natale destinati ai bambini dei ghetti di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone (dove non ci sarebbero bambini), oltre 1.700 euro sarebbero stati pagati, invece, per la realizzazione di un video.
Striscia la Notizia, scoop su Soumahoro: "Quasi 10mila euro in vestiario". Libero Quotidiano il 30 gennaio 2023
Nuovi dettagli mettono in difficoltà Aboubakar Soumahoro. Ancora una volta merito di Striscia la Notizia. Il tg satirico di Canale 5, in onda lunedì 30 gennaio, torna a far luce sulla vicenda che ha tirato in ballo il deputato. In particolare la trasmissione svela qualche cifra, ossia come sono stati spesi alcuni dei soldi delle raccolte fondi lanciate dall'ex esponente di Verdi-Sinistra italiana. Risultato? Quasi 10mila euro in alimenti e vestiario, oltre mille per un video, più di 20mila per i trasporti.
Nonostante l'onorevole continui a non fornire i giustificativi delle donazioni, Pinuccio prova a ricostruire le voci di spesa da quello che è stato pubblicato sul sito della Lega Braccianti, dove ha trovato le rendicontazioni del 2020 e del 2021. Da questi documenti spunta che, degli oltre 31mila euro raccolti per lo sciopero a Roma, circa 10mila sono stati spesi per indumenti e alimenti, mentre oltre 21mila per il trasporto dei manifestanti.
"Ma a noi non risultano migliaia di persone trasportate", commenta l'inviato. Mentre dei 16mila euro raccolti per i regali di Natale destinati ai bambini dei ghetti di Torretta Antonacci e Borgo Mezzanone (dove non ci sono bambini), oltre 1.700 euro sono stati pagati per la realizzazione di un video. Insomma, qualcosa ancora non torna mentre Soumahoro preferisce il silenzio.
Il caso e la gogna. Caso Soumahoro e l’editorialismo inquirente. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 27 Gennaio 2023
C’è un solo motivo per cui a destra e a manca si son rivoltati come vipere calpestate quando qualcuno ha denunciato che era la componente classista e razzista – e questa più che quella – a mobilitare la piazza del linciaggio contro Aboubakar Soumahoro. E il motivo è molto semplicemente questo: perché era così; perché era vero. E perché la vicenda scopriva un disturbo della nostra società, del nostro giornalismo, della nostra giustizia, e insomma del nostro generale tenore civile, ben più profondo rispetto a quello esploso intorno al caso del “talentuoso ivoriano”, per usare una delle definizioni dell’editorialismo inquirente che ha guidato la campagna.
Se non fosse stato così, se non fosse stato vero, se non fosse stata quella componente a motivare in modo magari subdolo ma effettivo quell’aggressione, e se la cosa non avesse implicazioni ben più vaste e significative, il fronte razzial-giustizialista avrebbe trattato quella denuncia come si fa con una gratuita boutade, e soprattutto non avrebbe fatto ricorso al più classico degli espedienti difensivi in argomento: vale a dire la raccolta delle prove a sostegno della pretesa equanimità e neutralità delle requisitorie contro il balordo che cianciava di diritti dei deboli mentre il suo clan familiare affamava i migranti e i lavoratori e ci faceva pure i soldi. Quali prove? Voilà: il fatto che ad accusarlo fossero anche – anzi soprattutto! – persone con il suo stesso tono di epidermide. I braccianti neri che lui stesso avrebbe dovuto rappresentare e difendere.
I migranti di cui avrebbe dovuto occuparsi. Infine (questa è l’ultima puntata) la giornalista nera – quella sì una brava persona, perché non si infila populistici stivali fangosi e non ha parenti con le borse di lusso – che ha fatto un’onorata carriera in Rai dopo un’infanzia migrante di lavori umili: e che ora – lo vedi, tu che blateri di razzismo? – rimprovera a Soumahoro di aver tradito la causa e di aver semmai pregiudicato, altro che difeso, le ragioni degli ultimi della società. Un armamentario probatorio e di giustificazione che assomiglia come una goccia d’acqua a quello dell’antisemita che non è tale perché ha tanti amici ebrei, o chiama al convegno neonazista l’ebreo che sottoscrive il manifesto contro la multinazionale giudaica. O, per star più vicini, è la stessa riprova di non razzismo offerta dal partito politico il cui senatore dà di “orango” a una ministra di colore, il cui capo annuncia le ruspe contro la “zingaraccia”, il cui candidato alla presidenza della regione vagheggia di difesa della “razza bianca”: ma senza nessun razzismo, appunto, com’è comprovato dal fatto che hanno candidato e portato in parlamento un nero.
Solo che dare di razzista a certa destra in questo Paese ancora si può, anzi è quasi facile, mentre se quel pregiudizio lambisce gli intendimenti e produce gli automatismi di un milieu non etichettabile, e investe la natura intima di un atteggiamento diffuso, allora non si può più. Perché il razzismo in Italia non c’è, salvo quello protocollare a braccio teso o a rosario agitato. Perché dare addosso a reti e a giornali unificati a un parlamentare che non ha ripudiato la moglie griffata, e non vive in una baracca ma si è pure preso l’appartamento, e non rinuncia allo stipendio pur avendo una suocera trafficona, è quel che ordinariamente si fa con qualsiasi politico accusato di incoerenza. E lo confermano anche tanti neri perbene, signori miei.
Iuri Maria Prado
I casi Soumahoro e Qatargate. Il garantismo a targhe alterne della destra, vale solo per i ricchi e gli amici. Luigi Manconi su Il Riformista il 26 Gennaio 2023
Caro Direttore,
per i partiti e per i giornali di destra è stato un gioco fin troppo facile quello di denunciare la vocazione giustizialista della sinistra in occasione della polemica sul ministro della Giustizia Carlo Nordio e sulle sue intenzioni di ridurre il ricorso alle intercettazioni telefoniche. Fin troppo facile, e posso dirlo a ragion veduta, perché di quella sinistra – ancorché faticosamente – faccio parte. E, dunque, posso affermare che la vocazione giustizialista alberga tuttora nella maggioranza di questa area politica.
Ma non riesco, non riesco proprio, a evitare la replica (un po’ puerile, lo ammetto): e allora voi? Qui, l’abusata parabola della pagliuzza e della trave si impone, e non solo per ripicca: perché, piuttosto, colpevolizzare esclusivamente la sinistra, come si merita, rischia di assolvere la destra italiana. Che è, poi, la più giustizialista d’Europa. Come sempre, bisogna salvaguardare e valorizzare le eccezioni, ma se i garantisti collocati a sinistra possono contarsi sulle dita di due mani, o poco più, quelli collocati a destra (nei media e nel sistema politico) non superano le dita di una. Innumerevoli le conferme. La fallacia di un presunto garantismo di destra rivela impietosamente tutta la sua povertà rispetto a tre regole fondamentali. Uno: il garantismo vale per tutti, amici e nemici, alleati e avversari, sodali e competitori. Due: il garantismo deve essere universalista. Cioè capace di tutelare ricchi e poveri, potenti e deboli, privilegiati e non garantiti. Tre: il garantismo si afferma a prescindere dall’identità di colui al quale va applicato, dunque a prescindere dal curriculum criminale, dalle idee politiche, dall’adesione al sistema democratico, dalla simpatia che suscita o dalla riprovazione che ispira.
Quanto i partiti e i media di destra facciano strame di questi principi, è sotto gli occhi di tutti. Basti notare che, in occasione delle due più recenti vicende giudiziarie “di sinistra” (caso Soumahoro, Qatargate) la destra compattamente, come un sol uomo e un solo vocabolario, come un unico pensiero e un’unica postura, si è scatenata contro il campo avversario, senza la più esile preoccupazione garantista. (Ricordo una sola eccezione: Iuri Maria Prado). E così è andata, inesorabilmente, nel corso degli ultimi trent’anni. D’altra parte, il connotato classista del garantismo della destra è lampante: non vale mai, dico mai, quando diritti e garanzie dovrebbero tutelare gli individui più deboli e in particolare gli stranieri e le persone private della libertà personale. I decreti sicurezza del ministro Salvini hanno fatto scempio di tutte le garanzie, processuali e penali, e hanno contribuito all’introduzione di un “diritto diseguale” per chi non sia titolare della cittadinanza italiana.
L’abolizione di un grado di giudizio per coloro che ricorrono contro il mancato riconoscimento dello stato di rifugiato (introdotta, peraltro, da un governo di centro – sinistra), la pratica dei respingimenti collettivi, le limitazioni al diritto – dovere di soccorso in mare, sono altrettanti strappi inferti al sistema delle garanzie. Infine, mentre una dozzina di anni fa, la difesa della causa di Stefano Cucchi veniva assunta anche da esponenti della destra (da Melania Rizzoli a Flavia Perina), oggi nulla del genere. Non un solo esponente dell’attuale maggioranza ha pronunciato una sola parola sulla vicenda dello sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41-bis. E appena un paio di anni fa, in occasione della “mattanza” (parole della procura) ai danni dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, i parlamentari di destra che si sono espressi lo hanno fatto per comunicare la propria solidarietà agli aguzzini. In conclusione, mi sembra innegabile che non possa essere la destra a dare lezioni di garantismo alla sinistra. Come non può essere il contrario. E la cosa riguarda anche il cosiddetto Terzo Polo.
Come dimenticare che, al momento della formazione del suo esecutivo, Matteo Renzi, per il Ministero della Giustizia, fece al capo dello Stato il nome di Nicola Gratteri, il più lisergico e spensierato (in senso letterale) dei giustizialisti italiani? E nel corso di quello stesso governo, le preoccupazioni garantiste del premier si adattavano agevolmente alla valutazione delle opportunità. L’intransigenza garantista di Renzi è, ahilui, acquisizione più recente. Quindi, come si vede, il più pulito c’ha la rogna (anche io, e ne ho fatto pubblica ammenda proprio su queste colonne). La conseguenza è una sola: rinfacciare tentazioni manettare all’opposto schieramento non porta da nessuna parte. Fino a che qualcuno non dismetterà per primo le armi e, dunque, non rinuncerà a colpevolizzare un avversario perché avversario, il populismo penale umilierà tutte le nostre migliori intenzioni. Cordiali saluti. Luigi Manconi
Soumahoro, che tristezza. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.
L’immigrato ivoriano difensore dei diritti dei braccianti africani in Italia, eletto a settembre alla Camera, accusa un po’ tutti di averlo tradito. Ma non si rende conto del danno che ha causato all’immagine degli africani in questo Paese
Lunga vita ad Aboubakar Soumahoro, l’immigrato ivoriano per almeno un paio di decenni difensore dei diritti dei braccianti africani ridotti in schiavitù nelle baraccopoli meridionali (e non solo), eletto a settembre alla Camera dove si presentò con gli stivali infangati e poco dopo travolto dalle inchieste sulle cooperative della moglie e della suocera. Se ha commesso dei reati lo diranno i tribunali. Fino ad allora è immacolato. Punto. Ma prima di accusare lui un po’ tutti di averlo tradito e più ancora di insistere su un «linciaggio mediatico razzista» subìto non per certe contraddizioni ma solo perché è nero («Mi han fatto un processo a reti unificate». «Sono un capro espiatorio. Mancava solo che qualcuno dicesse: “Oggi fa freddo, colpa di Soumahoro”. Oppure “Non ci sono più patate, colpa di Soumahoro”», «Bonelli e Fratoianni mi chiedevano i selfie, ora cambiano strada») sarebbe bene che riflettesse anche su quanto gli ha scritto sulla sua pagina social Maria de Lourdes Jesus.
La prima immigrata africana che, nata poverissima a Capo Verde, cresciuta portando bambina mattoni sulla testa e portata quando aveva dodici anni a Lisbona come domestica, riuscì a studiare, a laurearsi, a fare la giornalista fino a lavorare in Rai alla conduzione (la prima in tivù) del programma Nonsolonero: «Eh no, Soumahoro, non ti puoi permettere di continuare a fare il “poverino” e metterti a piangere spettacolarizzando in questo modo ridicolo il tuo vittimismo. (...) Sei riuscito a riportare alla ribalta, e soprattutto nei mezzi di comunicazione, temi riguardanti lo sfruttamento degli immigrati, il razzismo, la richiesta della legalizzazione e la cittadinanza ai figli di immigrati... Sei riuscito a entrare nel Parlamento italiano infrangendo il tetto di cristallo. Sei entrato nella storia di questo Paese e con te il mondo dell’immigrazione, fondamentale soprattutto per i giovani della comunità africana che vedono in te se non la certezza almeno la speranza di un mondo migliore anche per loro. Che tristezza... Onorevole Soumahoro, lei rappresentava un’immagine molto bella e positiva dell’Africa e degli africani in Italia. Un’immagine vincente che ci rendeva tutti molto orgogliosi. Si rende conto del danno che ha causato all’immagine degli africani in questo Paese? (...) No onorevole, lei non si può permettere di spargere lacrime nei social. Lo faccia privatamente, per favore». È razzista anche Lou? Ma dai...
Anticipazione da “Striscia la Notizia” il 25 Gennaio 2023.
A Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Pinuccio torna a occuparsi dell’ex sindacalista Aboubakar Soumahoro con la testimonianza di Antonio Maria Mira, giornalista del quotidiano Avvenire, che già nel 2018 aveva scritto sul suo giornale che c’era qualcosa che non andava nell’operato di Soumahoro.
«Andavo da anni nei ghetti del Foggiano e ho toccato con mano alcuni gesti di violenza per impedire l’accesso ad altre associazioni in nome dell’autogestione», dice il giornalista, che continua:
«Due anni e mezzo fa Aboubakar mi mandò un messaggio in cui c’era scritto che non era vero quello che avevo scritto e che voleva parlarmi per dirmi cosa succedeva davvero a Torretta Antonacci. Io mi resi disponibile, ma a una condizione: permettere l’accesso al ghetto alle altre associazioni. Non mi rispose più».
Il giornalista conferma anche che Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, gli esponenti politici che hanno appoggiato la candidatura di Soumahoro, erano stati informati di quello che succedeva nei ghetti. «Al momento della candidatura ho parlato con alcuni politici che conoscevo e ho inviato loro i miei articoli. La stessa cosa è stata fatta da rappresentanti dei sindacati».
E allora perché Bonelli e Fratoianni hanno fatto finta di niente? «Ho sentito dire che c’era un accordo tra il PD e i due partiti più piccoli (Europa Verde e Sinistra Italiana) che si basava, tra le altre cose, sulla candidatura di Aboubakar. Anche perché lui veniva da una presenza mediatica molto forte».
Infine, sulla raccolta fondi per i regali di Natale destinati ai bambini nei ghetti, Mira dice: «È un’evidente falsità. Io vado nei ghetti da quindici anni e posso affermare che i bambini non ci sono. Solitamente lì vivono solo giovani maschi. Poi non c’è neanche un’immagine in cui si vede la consegna dei doni ai bambini. E un personaggio mediatico come Soumahoro non avrebbe mai perso un’occasione del genere».
Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia.
Migranti. Nel ghetto foggiano, discarica di lavoratori, vincono degrado e illegalità. Antonio Maria Mira, San Severo (Foggia), su Avvenire mercoledì 17 agosto 2022
La baraccopoli tra San Severo e Rignano è rinata, ma la "foresteria" presenta seri problemi. Aggredito il presidente di Anolf, associazione che si batte per l'accoglienza legale.
Sale la tensione, assieme al degrado, nel "gran ghetto" di Torretta Antonacci, nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico (Foggia). Minacce, intimidazioni, sfociate il 10 agosto nell’aggressione a Mohammed Elmajdi, presidente di Anolf (Associazione nazionale Oltre le frontiere) Puglia e segretario territoriale della Cisl di Foggia. Al centro delle tensioni il campo container, "la foresteria", realizzato dalla Regione nel 2019 dopo l’incendio che aveva distrutto gran parte delle baracche. Ma la baraccopoli è rinata dalle sue ceneri, più ampia e degradata di prima. E ospita, in queste settimane di raccolta del pomodoro, più di 2mila braccianti. Mentre la foresteria, dove vivono 500 persone, è da anni terra di conquista, di affari illeciti, nascosti dietro la parola "autodeterminazione".
Nessuno interviene per bloccare l’illegalità. Anzi quando si prova a mettere ordine scatta la reazione violenta di alcuni personaggi e di alcune sigle pseudosindacali. Ne avevamo già scritto due anni fa quando nel mirino dei violenti erano finiti la Caritas diocesana di San Severo, la Flai Cgil del Foggiano, Intersos e l’associazione Baobab, accusate di voler fare soldi con l’assistenza, mentre erano le uniche presenze efficaci nel ghetto.
Dopo minacce e aggressioni, le attività (scuola, ambulatorio, sportello di ascolto) erano state sospese ed era poi stato possibile riprenderle solo con la presenza delle forze dell’ordine. A minacciare poche persone, allora aderenti al sindacato Usb e capitanate da Aboubakar Soumahoro, poi uscito dal sindacato per fondare la Lega braccianti e ora candidato di Verdi e Si alle politiche. Motivo della protesta la rivendicazione dell’autogestione del campo container. Ma probabilmente altro. Poi la situazione si era calmata e le attività del volontariato erano riprese.
La tensione è tornata quando, scaduta il 30 settembre 2021 la gestione delle Misericordie, la Regione ha fatto un nuovo bando. È andato due volte deserto, fin quando si è presentata l’Anolf, come unica manifestazione di interesse. Appena è corsa voce dell’assegnazione, sono partiti ricorsi alla prefettura per inesistenti irregolarità e poi le prime minacce sempre delle stesse persone (come riportato nell'intervista qui sotto).
Nel mirino proprio la gestione dei container, che questi personaggi non vogliono mollare e, più in generale, la predisposizione finalmente di controlli e sorveglianza. Noi siamo tornati al ghetto accompagnati da don Andrea Pupilla, direttore della Caritas diocesana.
L’unica novità positiva è che è stata asfaltata la strada, prima sterrata e piena di buche. Ma non era certo la prima urgenza. Giriamo tra container e baracche.
«Da due mesi abbiamo cambiato modalità di intervento – ci spiega don Andrea –, ogni giovedì facciamo ascolto girando, per instaurare un rapporto di fiducia. Poi chi vuole approfondire alcuni problemi viene allo sportello Caritas a San Severo aperto due giorni a settimana». Nell’ultimo anno si è riusciti a inserire sette immigrati in attività lavorative regolari: due in un centro sportivo, uno come commesso in un negozio, tre nella ristorazione, uno in un’azienda di barche. «Questo li rende finalmente autonomi ed è fondamentale».
A settembre, nell’ambito del Progetto Sipla, partirà un corso con Adecco di formazione professionale e sulla sicurezza. Iniziative concrete. Incontriamo Domenico Lamarca che con gli altri operatori dell’associazione Baobab porta avanti la scuola di alfabetizzazione. Oggi si impara l’italiano studiando per prendere la patente. Anche lui ci conferma che «c’è una brutta aria, c’è tensione. È difficile operare». Ma loro come altri volontari non si tirano indietro.
Che la situazione sia peggiorata si vede chiaramente. Le baracche sono aumentate, così come le automobili. Sono centinaia, anche alcuni tir, un vero mercato, probabilmente molte sono state rubate, altre vengono smontate per farne ricambi. «Sono alcuni rom a gestire questa attività», ci dicono i volontari. E infatti sono ben visibili. In fondo al ghetto il mercato di abiti, scarpe e oggetti vari. Enormi mucchi a terra, tra rifiuti e cani randagi. C’è davvero tanto degrado.
Ecco dove c’era la baracca di Joof Yusupha, 35 anni del Gambia, morto bruciato il 27 giugno, finito a vivere qui dopo aver perso il permesso di soggiorno a causa del cosiddetto "decreto sicurezza".
C’è tanta disumanità.
Un algerino che sta in Italia da 35 anni vive in un vecchissimo e sgangherato Fiat Fiorino. Ha 55 anni ma ne dimostra molti di più. Parla con accento calabrese perché ha vissuto a lungo a Gioia Tauro, e dice di stare bene lì. Non si muove mai dal suo rifugio di lamiera perché ha problemi alle gambe. Ma beve molto, come dimostrano i tanti cartoni di vino buttati a terra. I più "fortunati" stanno nei 114 container, anche se, come ci dicono tanti immigrati, devono pagare 100 euro al mese, illegalmente, proprio al gruppo dei violenti. Così come si paga 80 euro per avere la residenza, mentre la Caritas lo fa gratis.
In un container abita una ragazza nigeriana di 24 anni, incinta. Faceva la prostituta, come altre donne del ghetto, ci spiega Serena De Michele, mediatrice culturale della Caritas. Una presenza in crescita, un affare in crescita. La giovane voleva abortire ma i volontari della Caritas l’hanno aiutata ad accettare la maternità. Hanno poi convinto lei e il ragazzo ad entrare in un Sai (ex Sprar) ma dopo pochi mesi sono tornati al ghetto. Per fortuna nel container, lo stesso dove vivevano prima, l’evidente conferma di una gestione organizzata. Quella che con l’arrivo dell’Anolf perderà potere e affari. Ed è scattata la reazione violenta.
Il gran ghetto è divenuto una discarica di lavoratori
«No, proprio non mi aspettavo un’aggressione fisica. Opero lì dal 2008, sanno bene chi sono. Ho sempre cercato il dialogo ma queste persone si rifiutano. Dicono che il campo container deve essere autogestito. Ma dietro la scusa dell’autodeterminazione ci sono affari illeciti». Così Mohammed Elmajdi, presidente dell'Associazione nazionale Oltre le frontiere, aggredito il 10 agosto. Marocchino, ma da poco cittadino italiano, e sposato con una polacca, racconta le violenze subite. «Sono stato aggredito da una decina di persone con testate e pugni. Poi mi hanno tolto le chiavi dall’auto impedendomi di andare via per un’ora».
È stata la prima volta?
No. Le minacce sono cominciate a giugno quando si è saputo che avevamo vinto il bando. Il 5 agosto hanno impedito il passaggio delle consegne con le Misericordie. Ci hanno cacciati. Mi hanno detto: «Sei stato già avvisato, non devi più tornare!».
Chi sono?
Fanno riferimento sia alla Lega braccianti che alla nuova associazione Terra e libertà. Non più di 15 persone ma capaci di condizionare gli altri. È un comportamento mafioso. Sono divisi tra di loro, tra le diverse sigle, ma uniti contro gli esterni. Lo hanno già fatto nel passato con la Caritas, la Flai-Cgil, Intersos, Baobab, ora se la prendono con noi.
Ma gli altri lavoratori non reagiscono?
Hanno paura, oppure pensano di poter ottenere favori. Perché forniscono servizi: trasporto, alloggio nei container, documenti. Ovviamente a pagamento. I lavoratori un po’ si fidano perché questi personaggi sono nel "gran ghetto" da anni. Si sono accreditati.
Vi accusano di voler fare soldi con l’accoglienza…
L’affidamento è per 6 mesi, prorogabili, e prevede il pagamento di 50mila euro. Ma dobbiamo garantire custodia e sorveglianza del campo container, attività di accoglienza con una presenza 24 ore su 24. Non mi sembra un affare… Inoltre noi continuiamo la nostra attività al fianco dei braccianti. Ma anche questo non è gradito.
In che senso?
Pochi giorni prima dell’aggressione stavo parlando con un ragazzo per fissare un appuntamento per risolvere i suoi problemi, di lavoro e personali. È passato uno di quei personaggi e lui non ha più voluto parlare. Silenzio. Aveva paura.
Lei ha presentato una denuncia ai carabinieri e venerdì scorso è stato convocato dal prefetto di Foggia, Maurizio Valiante, in una riunione con le forze dell’ordine e rappresentanti sindacali e della Regione. Cosa le hanno detto?
Mi hanno garantito che saremo accompagnati. Ma servirebbe un presidio fisso delle forze dell’ordine per dire che lo Stato è presente. Comunque a settembre torneremo e riprenderemo la nostra attività. C’è tutta la nostra disponibilità a ripristinare la legalità. Non ci tiriamo indietro. Vadano via loro. Noi non lasceremo Torretta Antonacci perché qui c’è gente che ha bisogno di noi.
Intanto le condizioni del "gran ghetto" stanno peggiorando.
Proprio così. È diventata una "discarica" di lavoratori. Soprattutto i senegalesi con più di 50 anni. Stavano al Nord, hanno perso il lavoro ma a quell’età e per di più immigrati, non li vuole nessuno. Così vengono qua, nella "discarica" di Torretta Antonacci.
L'odissea degli ultimi. A scuola nel ghetto: «Aiutateci». Antonio Maria Mira, inviato a San Severo (Foggia), su Avvenire domenica 5 luglio 2020
Viaggio tra i braccianti di San Severo coi volontari e gli operatori della Caritas, tra violenze e soprusi. La sfida delle regolarizzazioni contro il racket degli sfruttatori
Un momento di incontro tra i volontari di Baobab e gli operatori della Caritas con i braccianti del “Gran ghetto” di San Severo. Sotto le tende si fa lezione di italiano
«Tornate. Non ci abbandonate. Abbiamo bisogno di voi, ci dovete aiutare». È quello che si sono sentiti dire i volontari e gli operatori della Caritas di San Severo, della Flai Cgil e del centro culturale Baobab, lo scorso giovedì, nel “Gran ghetto” di Torretta Antonacci. Un ritorno tra i braccianti immigrati che vivono nell’insediamento, dopo la sospensione della scuola e dello sportello informativo sulla regolarizzazione, decisa per le minacce di un gruppo di facinorosi tra i quali alcuni militanti del sindacato Usb. «È andato tutto bene, tranquillo, anche se ci siamo sentiti osservati. Ma dovevamo venire perchè i lavoratori hanno bisogno di aiuto per capire come muoversi per la regolarizzazione», dice il segretario provinciale della Flai, Daniele Iacovelli.
Le associazioni non si sono dunque arrese di fronte alla violenza. Anche perché dopo la pausa decisa il 25 giugno, molti immigrati hanno chiesto che ritornassero. Alcuni hanno pagato anche 10 euro a “taxi” (non regolari, s’intende) per venire alla sede della Caritas, per chiedere aiuto. Soprattutto per le pratiche per la regolarizzazione, per loro molto complesse. E per evitare truffatori e sfruttatori che si sono fatti avanti offrendo a caro prezzo, anche 3.500 euro, la documentazione necessaria, ovviamente falsa. Già più di trenta immigrati sono stati aiutati nella sede di San Severo, tutti braccianti. Così si è deciso di riprendere il percorso interrotto al ghetto. «Proprio per difenderli», dice con convinzione Serena, mediatrice della Caritas. Ma, purtroppo, non in piena libertà. Discreta presenza, ma ben visibile, di alcuni poliziotti in borghese. «Li ringraziamo, ma è brutto che si debba fare volontariato sotto scorta», si sfoga ancora Serena. Ma i motivi per giustificare la presenza degli agenti c’erano tutti. Abbiamo potuto vedere un video del 18 giugno, quando a Caritas, Flai Cgil e Baobab è stato impedito l’accesso. Si vedono alcuni immigrati che portano cartelli con la scritta “Libertà” e col megafono urlano “Non vi vogliamo!”.
A guidarli sono militanti dell’Usb, gli stessi che lo scorso 15 giugno hanno affiancato il loro leader Aboubakar Soumahoro a Roma, nel corso della protesta in occasione degli Stati generali dell’economia, e poi nell’incontro col premier Conte. Due rappresentazioni ben diverse. E anche l’ennesimo invito al dialogo e alla col- laborazione è stato totalmente ignorato. Ma giovedì non c’è stata l’opposizione violenta delle settimane precedenti, che ha obbligato anche i medici di Intersos ad abbandonare la preziosissima presenza quotidiana al “Gran ghetto”. «Appena i ragazzi ci hanno visto sono venuti da noi – racconta Serena –. In più di trenta hanno partecipato alla scuola di italiano, mentre una decina è venuta per regolarizzazione e residenza. Sono stati molto contenti di vederci. E noi continuremo ad andare perché ce lo chiedono e perché è per loro che lo facciamo ». E questo rende ancora più incomprensibile il comportamento dei militanti di un sindacato come l’Usb. Anche se molto critico nei confronti del provvedimento di regolarizzazione. «Molti lavoratori sono venuti per capire come mai non possano accedere all’emersione – spiega Iacovelli –. E noi cerchiamo di vedere con loro come trovare delle soluzioni».
Dopo le minacce dei giorni scorsi da parte di un gruppo di facinorosi (tra cui alcuni militanti del sindacato Usb) riprendono, anche se sotto scorta, le lezioni e le consulenze dello sportello informativo ai lavoratori stranieri: «Hanno bisogno di capire come presentare le domande»
Un servizio prezioso. Eppure, denuncia il sindacalista, «anche questa volta chi è venuto da noi e dalla Caritas è stato avvicinato dicendo che non doveva più venire. Neanche alla scuola». Non si stupisce Domenico Lamarca, di Baobab. «Due giovedì fa hanno fatto irruzione durante le lezioni dicendo 'a noi non importa imparare l’italiano'. Ma il nostro obiettivo è di non tenerli più qui nel ghetto. Li vogliamo far uscire. E per questo la conoscenza dell’italiano è fondamentale. Siamo qui anche per una sola persona e ne abbiamo avute trenta. Ma l’importante è la continuità. Per questo le minacce ci fanno male. Perché si è costruito tanto». E tanto c’è ancora da fare. Soprattutto in questi giorni. Ma restano aperti i problemi. Il container che la Regione Puglia ha assegnato alla Caritas e alle associazioni della Rete di prossimità di Capitanata, resta occupato dall’Usb, obbligando Caritas e Flai Cgil a svolgere al di fuori lo sportello informativo, con le evidenti difficoltà organizzative. «Chi ci minaccia rivendica la libertà, ma questo vuol dire anche rispettare la libertá degli altri», è il messaggio di Domenico che è particolarmente dispiaciuto che sia stata impedita addirittura l’attività ludica che avevano portato, come il calcio o la dama. «Dopo una giornata di lavoro anche loro hanno bisogno di questo. Invece ci hanno aggrediti urlando 'non abbiamo bisogno di giocare!'. Ma i ragazzi ci dicono che non è giusto». E commossa Serana ci riferisce come si sono salutati. «Ci vediamo presto, ci vediamo giovedì».
Antonio Maria Mira da cittanuova.it
Toni Mira, sposato e con quattro figli, è capo redattore e inviato speciale della redazione romana di Avvenire, giornale per il quale da anni cure le inchieste e i reportage. È tra i collaboratori dei dossier annuali “Ecomafia” di Legambiente e “Sindaci sotto tiro” di Avviso Pubblico. Fa parte del Comitato scientifico del bimestrale di Libera “lavialibera”, dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente, della Commissione consultiva di Avviso Pubblico.
Nel 2006 ha vinto il premio “Ambiente e legalità”, nel 2007 il “Premio Saint Vincent” per il giornalismo d’inchiesta, nel 2016 il “Premio per l’impegno civile Marcello Torre”, nel 2018 il “Premio Franco Giustolisi”, nel 2019 il “Premio Paolo Borsellino”.
Nel 2019 ha pubblicato con la collega Alessandra Turrisi il libro Dalle mafie ai cittadini. La vita nuova dei beni confiscati alla criminalità (San Paolo), e il libro Spezzare le catene (Città nuova) sul caporalato.
CURRICULUM DI ANTONIO MARIA MIRA da lanuovaecologia.it.
Antonio Maria Mira è nato a Roma il 5 gennaio 1954. E’ sposato e ha quattro figli. E’ caporedattore, inviato e editorialista nella redazione romana di Avvenire, giornale per il quale da anni cura le inchieste e i dossier di approfondimento. Dal 1989 è giornalista parlamentare e si è occupato in particolare del settore tra politica e giudiziaria seguendo, tra l’altro, le attività delle commissioni parlamentari di inchiesta e di controllo (Servizi di informazione e sicurezza, Stragi, Antimafia, Ciclo dei rifiuti, Bnl-Atlanta, Cooperazione allo sviluppo), la vicenda di “Tangentopoli” nel suo versante politico (le richieste di autorizzazione a procedere), il commercio delle armi. Da sedici anni tiene una propria rubrica sui rapporti tra politica e ambiente sul mensile “La Nuova Ecologia” per il quale scrive anche inchieste sui temi dell’illegalità ambientale. Dal 2001 insegna al corso di giornalismo ambientale organizzato da “La Nuova ecologia”. Tra il 2001 e il 2003 ha realizzato per “Raisat Album” (il canale satellitare della Rai) una serie 36 puntate dedicata alla “Storia delle rogatorie”; uno speciale per i dieci anni dalla morte di Giovanni Falcone; una serie di 55 puntate sul rapimento di Aldo Moro; uno speciale sugli interventi politici di Moro; uno speciale sul disastro del Vajont in occasione del quarantesimo anniversario. E’ stato chiamato a collaborare a numerose iniziative (seminari e incontri su tematiche relative a criminalità organizzata, legalità, beni confiscati, ecomafie, ambiente, sicurezza scuole, informazione, azzardo) della Conferenza episcopale italiana, Anci, Cisl, Cgil, Pd, Protezione civile, Azione Cattolica, Acli, Legambiente, Cittadinanzattiva, Libera, Avviso Pubblico, Federparchi, Greenaccord, Università di Camerino, Università Cattolica, Università di Roma La Sapienza, Fnsi, Regione Campania, Regione Toscana, Provincia autonoma di Trento, Comunità della Val di Non, Politicamente scorretto, Trame, Diocesi di Roma, Napoli, Acerra, Aversa, Nola, Sessa Aurunca, Locri, Cassano, Reggio Calabria, Frosinone, e vari Comuni e Regioni. E’ tra i promotori di Libera Informazione, scrive sul sito e partecipa a incontri nelle regioni assieme ai giornalisti locali. Collabora a Narcomafie. Fa parte della Commissione Consultiva Permanente di Avviso pubblico ed è tra gli autori del rapporto annuale “Amministratori sotto tiro”. Ha collaborato al rapporto "Lose for life" sul gioco d'azzardo. Fa parte del Comitato scientifico del Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento antimafia di Corleone. Fa parte del Comitato scientifico del progetto “Libera il bene” promosso da Libera e dalla Conferenza episcopale italiana. Ha coordinato incontri e dibattiti in occasione di varie edizioni della Giornata della memoria e dell’impegno e di Contromafie. Nel 2006 ha coordinato gli incontri-seminari sui beni confiscati organizzati da Libera in Campania e collaborato alla realizzazione della prima edizione di “Contromafie” gli Stati generali dell’antimafia. Nel 2007 è stato docente del corso di formazione professionale sulla gestione dei beni confiscati, organizzato nell’ambito del Pon sicurezza del ministero dell’Interno e coordinato da Libera. E’ stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio Alpi-Hrovatin. E stato vicepresidente dell’Associazione Stampa Romana, il sindacato dei giornalisti del Lazio. Nel 2006 ha vinto il premio “Ambiente e lagalità”, assegnato da Legambiente alle persone che in vari settori si sono particolarmente impegnati nella difesa della legalità e dell’ambiente, e il premio “Il Parco in prima pagina” promosso da Federparchi, Regione Liguria, Provincia di Genova, Parco regionale del Beigua. Nel 2007 ha vinto il “Premio Saint Vincent” per il giornalismo d’inchiesta, il maggior riconoscimento italiano nel campo dell’informazione. Nel 2010 ha vinto il premio “Sentinella del Creato” promosso da Greenaccord, Ucsi e Ordine dei giornalisti. Nel 2013 ha vinto il Premio Costruttori di Pace, promosso dalla Rete del Servizio civile e del disarmo, per l’informazione sulla lotta alle mafie e il Premio Giornalistico Nazionale per il turismo e l’ambiente “Gennaro Paone”, per le inchieste sulla “Terra dei fuochi”. Nel 2016 ha vinto il Premio Nazionale per l'Impegno Civile, dedicato alla memoria di Marcello Torre, il Sindaco di Pagani assassinato brutalmente dalla camorra l'11 dicembre 1980. Nel 2017 ha vinto il premio "IoSonoUnaPersonaPerbene".
Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 9 gennaio 2023.
"Mi ha francamente stupito e amareggiato, ad eccezione di qualche parlamentare, l'assenza della solidarietà umana e del supporto politico da parte del gruppo parlamentare Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), con il quale sono stato eletto da indipendente. Dopo un'attenta e sofferta meditazione sul piano umano e politico, ho maturato la decisione di aderire al gruppo parlamentare Misto, lasciando il gruppo AVS, per proseguire la mia attività di parlamentare".
Ad annunciare il passaggio al nuovo gruppo è proprio il deputato Aboubakar Soumahoro che in un corposo dossier ribalta le accuse che gli sono piovute addosso in questi mesi. L'esito era nell'aria: o per sua decisione o per quella del gruppo parlamentare, il deputato era ormai da settimane a un passo dal misto.
Soumahoro si era autosospeso dal gruppo parlamentare dell'Alleanza verdi sinistra lo scorso novembre. Una decisione 'spintanea', nel senso che fu decisamente caldeggiata da Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, i due promotori della lista rossoverde. Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi Sinistra, replica con poche parole: "Non ho nulla da dire su questo, se non che siamo terribilmente delusi umanamente da questa persona".
Le richieste di chiarimento sulla vicenda che ha coinvolto la sua famiglia, ma pure la gestione dei fondi della Lega Braccianti, non sono mai arrivate, perlomeno non a coloro che lo aveva candidato e portato in Parlamento. "Ha fatto tutto da solo, non abbiamo più avuto nessun confronto, ne sappiamo di dossier. Mi sarei aspettata una comunicazione più diretta e meno burocratica, mentre ho solo ricevuto per conoscenza la sua lettera al presidente Fontana", si lamenta la capigruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera Luana Zanella.
Poi torna a parlare della moglie, Liliane Murekatete, e della sua dichiarazione sul "diritto alla moda e all'eleganza" fatto durante una trasmissione televisiva: "Non sono stato compreso. Mi riferivo al diritto di chiunque di vestirsi come meglio crede. Tuttavia trovo davvero singolare che mi si chieda di esprimere un giudizio di valore circa foto della mia compagna risalenti a 4 anni prima che io la conoscessi".
E sull'indagine aperta dalla Procura di Latina sulle condizioni dei lavoratori nella cooperativa Karibu, si legge nel dossier, le foto di Liliane Murekatete sono state riprese "da quotidiani, siti e rotocalchi che hanno sottolineato e commentato il suo modo di vestirsi, la tipologia di abbigliamento e accessori utilizzati, etc. Soprannominata provocatoriamente 'lady Gucci' - prosegue il dossier - la donna è stata al centro di una serie di pesanti commenti e insinuazioni da parte della stampa e di opinionisti di varia natura".
Una persona di colore "va bene finché è un 'negro da cortile', finché protesta con gli striscioni, cosa che peraltro ho fatto mille volte e non smetterò mai di fare, se è povero e sta ai margini. Ma se prova a fare un salto di qualità immediatamente disturba". E' questo, secondo Aboubakar Soumahoro, uno dei motivi che hanno portato ad un "ingiustificato accanimento" nei suoi confronti.
Si tratta di una "dimensione relativa a me come individuo", sottolinea nel dossier parlando poi di una seconda dimensione, relativa questa al "modello sociale": il modello della Lega Braccianti, con i lavoratori dei campi non solo stranieri ma anche italiani - afferma - che si autodeterminano e si autogestiscono".
Questo "fa molta paura, toglie potere a un sistema di assistenzialismo che ha come obiettivo quello di mantenere lo stato di emergenza, semplicemente perché finché c'è emergenza ci sono soldi a pioggia per gestire l'emergenza, e, dal momento che nulla accade per caso, forse questo può far comprendere perché vi sia stato così tanto ingiustificato accanimento nei miei confronti".
"A fine 2021 lessi da alcuni articoli di stampa sulla mancata retribuzione ad alcuni dipendenti della Karibu e - pur non avendo alcun interesse diretto nelle cooperative - chiesi immediati chiarimenti a riguardo. Venni informato del fatto che non erano ancora pervenuti tutti i soldi necessari per pagare gli stipendi, che si erano sollecitati gli Enti pubblici, e - così mi venne detto - che auspicabilmente tutto si sarebbe risolto in tempi ragionevoli", conclude in un dossier il deputato Aboubakar Soumahoro.
Solidarietà per Soumahoro. “Questa vicenda diventerà un caso che farà scuola”. Caso Soumahoro, svolta nelle indagini: la firma che incriminava la moglie è falsa. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Gennaio 2023
Si dirada il polverone sul caso Soumahoro. Un caso che non esiste, basato su prove inesistenti. Il procedimento – che per la verità non riguarda affatto lui, ma la moglie – è infatti innervato su un atto notarile del 2019 che attribuisce le deleghe statutarie della cooperativa Karibù. Istanza presentata al Tribunale del riesame di Latina per verificare il compendio probatorio. Modifica statutaria che integra nuove voci di competenza e funzioni della cooperativa. A differenza di chi si è avvalso della facoltà di non rispondere, il legale di Liliane Murakatete, l’avvocato Lorenzo Borré ha iniziato a suffragare a suon di documenti medico-sanitari l’estraneità della sua assistita dalla gestione della cooperativa.
Dimostrando la sostituzione della firma, e rendendo pacifica l’inefficacia dell’atto che riassetta le deleghe e le funzioni direttive, viene meno uno dei presupposti in forza dei quali l’accusa ritiene che la Murekatete abbia svolto, nel periodo oggetto di contestazione, attività gestionali. Lo conferma l’ammissione stessa della firmataria. “Quella firma chiaramente non è di Liliane Murekatete (moglie di Soumahoro, ndr) ma la mia. Quel giorno lei non c’era, era in maternità. È stata la madre di Liliane, Marie Terese, a chiedermi di firmare al posto suo”. Sono le parole di Hassenatu Sow, ex dipendente della cooperativa Karibu – fondata da Marie Terese Mukamitsindo, suocera del deputato Aboubakar Soumahoro – sulla quale sta indagando la Procura di Latina. Il riferimento della donna, originaria della Guinea, è a un allegato di un atto notarile risalente al 2019, che secondo gli inquirenti contribuirebbe a dimostrare il ruolo gestionale nella cooperativa ricoperto da Murekatete, indagata insieme alla madre nell’ambito dell’inchiesta sull’uso dei fondi destinati alla coop per l’accoglienza degli immigrati. Ma la firma apposta accanto al nome di Murekatete sul foglio delle presenze all’assemblea straordinaria dei soci non è della moglie di Soumahoro.
Per comprendere bene la vicenda occorre tornare indietro al 28 maggio 2019. In quella data i soci della Karibu vengono convocati da un notaio di Latina per un’assemblea straordinaria: devono aggiornare lo statuto della cooperativa per modificare alcune attività della Karibu. Nell’elenco dei soci (in tutto 16) figura anche il nome di Murekatete ma in corrispondenza non c’è la firma della moglie di Soumahoro bensì quella di un’altra socia della coop, che peraltro avrebbe visto interrompersi la sua collaborazione pochi giorni dopo l’assemblea: “Alla fine di quel mese ho smesso di lavorare per la Karibu. Il mio contratto è scaduto e non è stato più rinnovato”, racconta. Inoltre, a Murekatete viene contestata la partecipazione a un’altra assemblea, quella del 22 giugno 2021, con verbale riportante il suo nominativo, per l’approvazione del bilancio: la difesa però sostiene che esistano prove informatiche che collocherebbero geograficamente Murekatete nella provincia di Rieti in orari che si ritengono incompatibili con la partecipazione all’assemblea.
Quel giorno, secondo quanto si apprende, Liliane avrebbe accompagnato il compagno Aboubakar Soumahoro in un centro vaccinale a Rieti. “La firma che secondo alcuni giornalisti ‘inchiodava’ la mia assistita non esiste. Chi ha dato della bugiarda alla mia assistita inizi a chiedere in scusa, e faccia in fretta perché la fila è lunga”, dice l’avvocato Borrè, legale della moglie di Soumhaoro: “Questa vicenda diventerà un caso che farà scuola e spero servirà ad essere più cauti nel tranciare giudizi su una persona che, lo ricorda la Costituzione ma anche una recente direttiva Ue, è da considerarsi non colpevole, come in effetti non è colpevole”.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.
L’onorevole Soumahoro ha deciso di abbandonare il gruppo parlamentare rossoverde dei Fratoianni e dei Bonelli perché nella nota vicenda che ha coinvolto moglie e suocera. Ohibò, questa si chiama inversione dell’onere della scusa. Invece di chiedere lui venia ai compagni di strada (e agli elettori) per averli messi in imbarazzo, e magari rassicurarli riguardo alla propria affidabilità con una spiegazione convincente, Soumahoro recita il lamento dell’offeso, come se fosse la vittima di un raggiro. Vive da anni con una persona che, secondo il gip, «ha mostrato elevata spregiudicatezza criminale nell’attuare un programma delinquenziale» a scapito dei migranti per i quali egli si batte. E, anziché farsi delle domande, si dà solo delle risposte. Stereotipate, per giunta: sarebbe tutto un complotto dovuto al colore della sua pelle e toccava allo Stato vigilare sulle eventuali malefatte delle parenti strette. Sta scherzando, onorevole? No, perché se il suo fosse un ricatto morale, sarebbe quantomeno ridicolo. Il razzismo non c’entra un fico, anzi un comportamento così lamentoso e sfuggente non fa che portare nuovi argomenti ai razzisti veri, ben felici di poter bollare come ipocriti coloro che credono in una società aperta ma che si sono anche stufati di vedersi rappresentati da figurine simboliche che pretendono solidarietà senza mai dare nulla in cambio che assomigli alla serietà. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. Chi non è ancora abbonato ple modalità per farlo — — e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio st
Antonio Bravetti per “la Stampa” il 10 gennaio 2023.
Aboubakar Soumahoro è uscito dal gruppo. L'ex sindacalista dei braccianti entrato a Montecitorio da «indipendente» lascia il gruppo di Alleanza Verdi-Sinistra alla Camera, «stupito e amareggiato per l'assenza di solidarietà umana e supporto politico», e si iscrive al Misto. «Non esiste alcun caso Soumahoro» è il titolo del lungo dossier che pubblica sul suo sito per annunciare l'addio e chiarire alcune delle vicende che riguardano lui e la sua famiglia, coinvolta in un'inchiesta della procura di Latina. Incolmabile ormai la distanza con i compagni di viaggio che l'hanno candidato. «Non sono per nulla sorpreso, perché non ci ha mai dato sufficienti spiegazioni - dice il co-portavoce dei Verdi Angelo Bonelli - Sono però umanamente deluso».
Nel corposo dossier, Soumahoro ribadisce la sua estraneità alla vicenda giudiziaria: «Non sono stato né sono indagato, non sono accusato di alcunché, non c'entro nulla con gli eventuali problemi in quelle cooperative. Eppure il mio nome è stato per 2 mesi sulle pagine di tutti i giornali, in tutte le televisioni ogni sera, e sono stato infangato e diffamato sistematicamente. È stato puro sciacallaggio».
Parla della moglie, «soprannominata provocatoriamente "lady Gucci", è stata al centro di una serie di pesanti commenti e insinuazioni». Torna sul «diritto all'eleganza» declamato in tv e che gli è valso secchiate di critiche, anche feroci. «Intendevo riferirmi al diritto di chiunque di vestirsi come meglio crede. Tuttavia trovo davvero singolare che mi si chieda di esprimere un giudizio di valore circa foto della mia compagna risalenti a 4 anni prima che io la conoscessi».
L'inchiesta di Latina verte sulle due cooperative pro-migranti Karibu e Consorzio Aid e vede indagate sei persone, collegate a vario titolo ai vertici: la suocera di Soumahoro Marie Terese Mukamitsindo, la moglie del deputato Liliane Murekatete e due suoi fratelli, oltre a due collaboratrici. I reati ipotizzati sono legati a presunte false fatturazioni per evadere il fisco. In più, ci sono decine di ex dipendenti rimasti senza stipendio per mesi e accertamenti sulla presunta scarsa qualità dei servizi offerti ai migranti ospiti.
Soumahoro ribatte colpo su colpo, prova a spiegare la sua verità contro quella che definisce la «campagna disinformativa dell'anno». Dice di aveva saputo delle mancate retribuzioni ai dipendenti Karibu nel 2021: «Chiesi chiarimenti e venni informato che non erano ancora pervenuti tutti i soldi necessari» dagli enti pubblici, ma «tutto si sarebbe risolto in tempi ragionevoli».
Nega irregolarità nei fondi e nei bilanci della Lega Braccianti; tutto regolare anche il mutuo sulla casa («dal 2008 ho lavorato come dipendente della Rdb, da fine 2018 a febbraio 2022 sono stato opinionista per l'Espresso»). Parla di «ingiustificato accanimento» nei suoi confronti, dettato anche dal razzismo: «Una persona di colore va bene finché è un "negro da cortile", finché protesta con gli striscioni, che peraltro ho fatto mille volte e non smetterò mai di fare, se è povero e sta ai margini. Ma se prova a fare un salto di qualità immediatamente disturba».
Soumahoro lascia i Verdi e sbatte la porta. “Mai alcuna solidarietà”. Ma non fa chiarezza sul suo arricchimento improvviso…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Gennaio 2023.
Soumahoro ha una sua idea sul "colpevole", affermando di aver fiducia nella magistratura, e la spiega nella sua memoria rispolverando i decreti sicurezza di Salvini ed accusa che "La situazione del mondo dell'assistenza è critica e non certamente da oggi. Lo Stato paga poco, male e tardi, soprattutto dopo l'entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018".
Aboubakar Soumahoro come prevedibile ha lasciato l’alleanza Verdi-Sinistra Italiana grazie alla quale era entrato in Parlamento come “indipendente”, e si trasferisce nel gruppo misto, risparmiando sulla quota da versare al suo ex-partito. La fuoriuscita era nell’aria da tempo. La “notizia” è che sfacciatamente lo fa sbattendo la porta.
Dopo i mesi di accuse e critiche per lo scandalo collegato all’inchiesta giudiziaria sulla della cooperativa Karibu gestita sua suocera, il parlamentare ribalta tutto e parte all’attacco, prendendosela per cominciare incredibilmente proprio con i suoi compagni di partito. Soumahoro, a novembre 2022 si era autosospeso con una decisione caldeggiata dai vertici di Verdi e Sinistra Italiana, ora se la prende proprio con l’accoppiata Bonelli–Fratoianni che a suo dire non l’avrebbero sostenuto.
“Mi ha francamente stupito e amareggiato, ad eccezione di qualche parlamentare, l’assenza della solidarietà umana e del supporto politico da parte del gruppo parlamentare alleanza Verdi-Sinistra“, dice il deputato, che sostiene poi di aver deciso di proseguire la sua esperienza di parlamentare nel gruppo misto “dopo un’attenta e sofferta meditazione sul piano umano e politico”. O forse facendosi quattro conti in tasca ?
Soumahoro, nel dossier al veleno con cui divide la propria strada da quella degli ormai ex alleati, arriva a sostenere di essere stato “vittima” di una “violenta campagna di diffamazione» e parla di un «vergognoso linciaggio mediatico”, ringraziando solo quanti anche in questi mesi gli sono rimasti vicini. Poi, più che chiarire, mette la parola fine alle chiacchiere sull’indagine che ha riguardato sua suocera e sua moglie, affermando di trovare “assurdo continuare a discutere dell’inesistente caso Soumahoro“.
Una vicenda che secondo lui è stata “montata” e non è “accaduta a caso“. Soumahoro si discolpa ancora una volta, sostenendo di aver chiesto chiarimenti sui mancati pagamenti dei dipendenti, “a fine 2021″, ma di aver ricevuto rassicurazioni e di averci creduto perché la coop di famiglia “aveva un’ottima reputazione”, e “dunque non avevo motivo di ritenere vi fossero criticità insanabili”.
Soumahoro ha una sua idea sul “colpevole“, affermando di aver fiducia nella magistratura, e la spiega nella sua memoria rispolverando i decreti sicurezza di Salvini ed accusa che “La situazione del mondo dell’assistenza è critica e non certamente da oggi. Lo Stato paga poco, male e tardi, soprattutto dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018″. Dopodichè non contento, con somma sfacciataggine arriva ad una sua personale possibile morale da trarre dalla sua vicenda. Secondo lui, una persona di colore “va bene finché è un negro da cortile’ (…) se è povero e sta ai margini. Ma se prova a fare un salto di qualità immediatamente disturba”.
Tra libri, ospitate TV ed una candidatura bagnata dal successo, Soumahoro il salto l’aveva certamente fatto, ed aggiunge nel suo dossier che questa vicenda sarebbe stata messa in piedi per mettere il bastone tra le ruote a lui e al modello della Lega Braccianti e «forse c’è stato così tanto ingiustificato accanimento nei miei confronti». Ma non risponde alle domande che Striscia la Notizia aveva fatto, rifiutando qualsiasi intervista. Nè tantomeno fa chiarezza sulla provenienza di quel circa mezzo milione di euro con cui ha comprato una villetta alle porte di Roma. Redazione CdG 1947
Soumahoro dopo le lacrime, ed il silenzio adesso tira in ballo il figlio: “Perché ho comprato casa”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Gennaio 2023.
Da ragazzo Aboubakar Soumahoro aveva scritto la tesi sulla "condizione dei migranti nel mercato del lavoro italiano" e vent' anni viene a galla che sua moglie e la suocera, a capo di due coop di lavoratori migranti a Latina, non pagavano i migranti
Ieri sera a DiMartedì su La7, il direttore del quotidiano “Libero”, Alessandro Sallusti si è trovato faccia a faccia con Aboubakar Soumahoro : “Lei ha comprato una casa e quando le è stato chiesto come l’ha comprata lei ha risposto dicendo di aver fatto un mutuo pagato con i proventi del suo libro. Io sono andato a vedere ma con il ricavato di quel libro lei non compra nemmeno il tavolo di quella casa”: Sallusti si è rivolto di nuovo al deputato, fuoriuscito dal Gruppo Alleanza Verdi-Sinistra Italiana al Gruppo Misto: “Perché dice che ha campato con i proventi di quel libro quando quel libro ha venduto poche migliaia di copie con le quali sicuramente non si può comprare una casa? Perché ci ha raccontato quella storia?“.
Di recente s’ era scoperto che Soumahoro, (anche questo l’ha detto lui), s’ è comprato un villino da 450mila euro coi proventi di un libro che ha venduto appena 9mila copie; che ha lanciato una colletta vestito da Babbo Natale per comprare i regali ai bimbi del ghetto foggiano di San Severo dove però il prete responsabile della locale Caritas ha rivelato che di bambini non ce ne sono e quindi gli ex soci si chiedono cosa ne abbia fatto di quei soldi; e poi ancora sempre gli ex soci lo accusano di aver pagato 50 euro a clic i braccianti di San Severo per scioperare e farsi i video con lui. Soumahoro nel frattempo è diventato parlamentare, oltre 10mila euro al mese.
“Io ho anche scritto un libro – ha risposto Soumahoro – ma per vent’anni ho lavorato in Italia come qualsiasi altro cittadino. E la casa è stata comprata davanti a un notaio con degli atti che sono presso l’Agenzia delle Entrate. Inoltre aggiungo: finché una persona, direi diversamente abbronzata, vive nei sottoboschi e paga un affitto va bene, se compra una casa…“. Eppure sarebbe stato molto facile esibire le proprie dichiarazioni dei redditi e dimostrare la provenienza dei soldi con cui ha acquistato la villa.
Dopodichè Soumahoro ha tirato fuori un altro motivo alla base dell’acquisto dell’abitazione: “Io ho comprato quella casa come qualsiasi altro cittadino non solo coi proventi di attività lecite, ma anche perché mio figlio non sta bene. Mio figlio non sta bene e il dottore di famiglia ci ha consigliato di portarlo in una zona di mare“.
Parlando della sua attuale situazione, il deputato ha detto: “Sono in uno stato di serenità spirituale, non mi dimetto da parlamentare. Sono stato eletto per una missione, dare una rappresentanza ai diseredati, ai senza casa, ai precari, a chi viene discriminato per il genere e l’orientamento sessuale, ai braccianti, ai zappatori, ai rider, ai lavapiatti, ai pendolari“. Non contento ha detto di aver vissuto un periodo difficile: “Una mattina, il 17 novembre scorso, lascio mio figlio piccolo a scuola, apro il telefono e vedo il mio viso sulla quasi totalità dei quotidiani online. Da quel momento in poi mi sono ritrovato all’interno di una betoniera. Al posto del calcestruzzo c’erano menzogne, diffamazione, minacce di morte e giornalisti nel cortile di casa con un bambino di 3 anni che si svegliava di notte e chiedeva ‘papà, perché?’“. Ve l’immaginate un bambino di tre anni che non sa leggere e scrivere ed a stento capisce le parole che pronuncia, fare una domanda del genere al padre ?
“Mi sono pentito di tante cose che ho fatto, ma di quello proprio no”. Giovanni Floris chiede conto ad Alessandro Sallusti del titolo del quotidiano Libero che dirige, sulle foto osè di Liliane Murekatete, la moglie del deputato Aboubakar Soumahoro indagata insieme alla madre per le irregolarità delle loro cooperative. E’ uno dei momenti del dibattito, a tratti molto duro, tra il direttore di Libero e lo stesso Soumahoro, presentatosi in studio a DiMartedì per difendersi. “In quel momento mi sembrava una notizia – ha risposto Sallusti -. C’era una signora che piangeva miseria, ‘non ricevevo soldi…’ e poi conduceva tutto un altro genere di vita”. Giravano anche le foto di “Lady Soumahoro” con borse e vestiti griffati. “La mia compagna l’ho conosciuta nell’estate del 2018, hanno preso una foto di 8 anni fa, decontestualizzata e riportata in un contesto drammatico dove ci sono lavoratrici e lavoratori in attesa di un salario per un ritardo dovuto alla pubblica amministrazione”. “E’ qui che lei cade”, contesta Sallusti. “E’ una manipolazione, un cattivo senso del giornalismo”.
“Capisco che lei debba recitare un ruolo, è quello che l’ha portato a essere eletto. Lei ha citato quella foto di sua moglie: era sul profilo Facebook di sua moglie, se io sposo uno quelle foto le sarò andate a vedere… Detto questo, lei dice lo Stato non pagava. In quei campi, in quelle cooperative, la gente viveva come bestie”. “Io non sono membro di quelle cooperative”. “Non c’era da mangiare per i bambini!“. “Le risulta?“, risponde Soumahoro in evidente difficoltà. “Ci sono due elementi: fin quando i neri vivono nelle baraccopoli sono degni della nostra compassione“. “Ma lasci stare i neri, cosa c’entrano i neri?“, ribatte Sallusti. “Secondo elemento: se una donna si veste bene c’è il sottinteso ‘chissà che lavoro fa’“.
“Viviamo in uno Stato di diritto – ha continuato Soumahoro – e gli organi competenti se ne occuperanno. Ma la mia vita è stata segnata per la difesa dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, e io qui quelle lavoratrici e lavoratori della cooperativa sarò sempre a loro disposizione fino all’ultimo stipendio”. “Ci sono molti lavoratori che sostengono il contrario“, lo ha incalzato Sallusti.
Nel frattempo Striscia la notizia continua a indagare su Aboubakar Soumahoro che 48ore fa ha lasciato i Verdi per passare al Gruppo misto accusando i suoi colleghi di partito di non averlo difesa. Ieri su Canale 5 è andata quindi in onda l’inchiesta di Pinuccio sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti di Soumahoro e veicolate dalla piattaforma GoFundMe. Mentre la campagna per comprare cibo durante la pandemia, al centro dell’inchiesta del Tg satirico, è stata rimossa, altre due sono ancora online. E risultano ancora attive – ed accettano ancora donazioni – nonostante siano di fatto scadute. Una infatti, denuncia Striscia la notizia, era stata lanciata per raccogliere fondi per comprare regali ai bambini del ghetto per il Natale 2021, un’altra per organizzare lo sciopero dei braccianti a Roma del maggio 2021.
L’inviato pugliese di Striscia la Notizia ha provato a fare una donazione che clamorosamente è andata a buon fine. Allora la domanda del Tg satirico sorge spontanea: “Soumahoro cosa se ne fa di questi soldi se le cause per cui venivano raccolti sono superate?”. E ancora: “Come li rendiconta? E, soprattutto, GoFundMe come gestisce le raccolte fondi?“. Nuove domande che come tutte le altre sono ancora rimaste senza risposta.
Da ragazzo Aboubakar Soumahoro aveva scritto la tesi sulla “condizione dei migranti nel mercato del lavoro italiano” e vent’ anni viene a galla che sua moglie e la suocera, a capo di due coop di lavoratori migranti a Latina, non pagavano i migranti . Mentre venivano fuori i selfie della moglie Liliane, con vestiti e borse di lusso da lì il soprannome “Lady Gucci“. Soumahoro fa la vittima: ce l’hanno tutti con lui, non perché è piccolo, ma solo perché è nero, ha detto così nel mitologico video in cui fingeva di piangere e giura che degli affari di consorte e suocera non sapeva nulla.
Sempre su La7 Soumahoro ha invocato per la moglie “diritto all’eleganza”, e pochi giorni dopo s’ è scoperto che la moglie (o compagna, non s’ è ancora capito) per sé rivendicava anche il diritto alle foto erotiche, ne sono spuntate una manciata e chissà se Aboubakar stavolta ne era conoscenza. Così come della provenienza degli stivali di gomma sporchi di fango con cui ha fatto il suo show entrando il primo giorno in parlamento da deputato di Verdi e Sinistra Italiana: subito dopo è saltato fuori un ex socio della Lega Braccianti che ha detto che quegli stivali sono suoi. “Ridammeli, mi servono per lavorare”. Redazione CdG 1947
Da “Libero quotidiano” il 12 gennaio 2023.
Prima la difesa da Giovanni Floris l'altra sera a Dimartedì su La7, poi l'intervista rilasciata ieri al quotidiano Il Riformista. In entrambi i casi, il filo conduttore è lo stesso: l'accusa di essere vittima del razzismo degli italiani. Aboubakar Soumahoro, al centro della bufera per l'inchiesta che ha coinvolto le Cooperative gestite dalla "suocera" - e nelle quali ha lavorato anche la moglie Liliane Murekatete - parla di «un linciaggio a reti unificate».
Su La7, al direttore di Libero Alessandro Sallusti che gli ha chiesto di fare chiarezza sulle sue entrate economiche al centro della polemica, ha tirato in ballo il razzismo: «Fin quando una persona con la melanina diversa, io direi diversamente abbronzato, vive nei sottoboschi e paga un affitto va bene... Io ho comprato quella casa come qualsiasi altro cittadino con proventi di attività lecita, ma anche perché mio figlio non sta bene».
Quest' ultima frase ha lasciato per qualche secondo senza parole ospiti e conduttore. «Il dottore di famiglia ci ha consigliato di portarlo in una zona di mare».
Al Riformista, il deputato ivoriano parla addirittura di una grande operazione di disinformazione, quando in realtà i primi a mollarlo sono stati i suoi compagni di viaggio dell'Alleanza Verdi-Sinistra. «Sono saltate le regole del vivere civile, della buona informazione». Secondo Soumahoro «in questo Paese pesa molto essere neri. Rende tutto molto più complicato, e lo sappiamo, non lo scopriamo oggi».
Per questo «prendere coscienza è urgente. E ancor di più lavorare alle leggi di civiltà che mancano». E dopo il passaggio al Gruppo misto, sul rapporto con Fratoianni e Bonelli dell'alleanza Sinistra-Verdi, racconta: «Quelli che erano venuti a cercarmi per candidarmi e che in campagna elettorale mi chiedevano i selfie, a un certo punto li ho visti attraversare la strada per non incontrarmi».
Parla il deputato. La verità di Aboubakar Soumahoro: “Bonelli e Fratoianni mi cercavano per i selfie, ora cambiano strada”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l’11 Gennaio 2023
Aboubakar Soumahoro torna sulle barricate. Il deputato di origini ivoriane eletto con l’Alleanza Verdi-Sinistra dice basta con la campagna di odio che ha vissuto. Rompe il silenzio stampa per parlare con il Riformista: “Siete i soli che mi hanno sempre sostenuto”, poi va anche in televisione, da Giovanni Floris a La7. La bufera è durata anche troppo. Le accuse contro di lui sono cadute come foglie d’autunno, tutte tanto infondate da non avergli aizzato contro le Procure. Adesso è il momento della chiarezza: Soumahoro ha predisposto un dossier informativo ed è tornato a indossare gli stivali, stavolta per cavarsi fuori dal fango del processo mediatico che ha subìto.
E dire che si era presentato in Parlamento con gli stivali per il fango…
Sì ma non potevo immaginare quale tritacarne mediatico può costruirsi sul nulla. Ho subìto un processo a reti unificate. Con un dolore, una sofferenza che non auguro a nessuno in questa vita. Sono saltate le regole del vivere civile, della buona informazione. La disinformazione si è sostituita all’informazione. Ed è saltata la capacità di essere razionali.
In che senso, onorevole?
Lo capisci quando diventi un capro espiatorio. Mancava solo che qualcuno dicesse: “Oggi fa freddo, colpa di Soumahoro”. Oppure “Non ci sono più patate, colpa di Soumahoro”. In pochi giorni sono diventato il simbolo di ogni male, di ogni cattiva condotta. Senza la capacità minima di tenere in piedi la buona informazione. Ho subìto un linciaggio. Con giornalisti che entravano nel cortile di casa, che rubavano le immagini di mio figlio.
“Appena un nero si affaccia in politica, scattano gli esami”, ha scritto Paolo Mieli. È stato questo, il suo primo problema? Lei è nero, e l’hanno fatta nero…
Sono diversamente abbronzato, è innegabile. In questo paese pesa molto, essere neri. Rende tutto molto più complicato, e lo sappiamo. Non lo scopriamo oggi.
Quando l’ha scoperto?
Io vengo dalla lotta. Ho lottato per il pane. Ho sempre lavorato duro, e da lavoratore ho incontrato lo sfruttamento. Mi svegliavo alle 4,30 del mattino per andare nei cantieri edili. In uno di questi feci amicizia con un giovane napoletano, Salvatore. Facevamo lo stesso lavoro ma prendevano una paga diversa. Lui prendeva di più perché è un italiano bianco. Io prendevo di meno perché nero. Chi passa per questo processo, impara presto cosa significa essere vittima del doppio ricatto che nasce dall’intreccio perverso tra la Bossi-Fini prima e lo sfruttamento dei padroni poi. Se ti ribelli alla paga dimezzata, ti tolgono il contratto, ti ritrovi spalle al muro con il foglio di via. Se non ti ribelli, vivi in una sorta di schiavitù. E in molti casi rischi la vita, lavorando per paghe da fame senza le dotazioni di sicurezza, nei cantieri. E allora ho deciso di dedicarmi alla lotta. Non per me, ma per noi. Per emancipare non solo me stesso ma i tantissimi sfruttati di questo paese. Invisibili per i grandi media, ma che esistono eccome.
Delle indagini della magistratura sulla cooperativa Karibu cosa può dirci?
A fine 2021 lessi alcuni articoli di stampa sulla mancata retribuzione di alcuni dipendenti della Karibù e, pur non avendo alcun interesse diretto nelle cooperative, chiesi immediati chiarimenti al riguardo. Mi dissero che non erano arrivati tutti i soldi necessari per pagare gli stipendi e che erano stati sollecitati gli enti pubblici ritardatari. Chiesi di far presto, per quanto possibile. Una situazione sulla quale non potevo però influire e sulla quale non ho responsabilità di alcun genere.
Poi se la sono presa con le attività di Lega Braccianti, la sua associazione sindacale.
La devo correggere: Lega Braccianti non è un sindacato. È una associazione iscritta al registro del Terzo Settore. Hanno contestato le raccolte fondi con la piattaforma GoFundMe, che traccia tutto in trasparenza. Sono accuse inconsistenti e sempre intrecciate con un gossip su di me e su mia moglie che francamente fa cadere le braccia. La stessa piattaforma non ha evidenziato anomalie e tutti i fondi raccolti sono stati usati per acquistare e distribuire cibo, mascherine e dispositivi socio-sanitari per il Covid. Voglio anzi dire grazie a chi ha generosamente contribuito a far arrivare quello che serviva nell’emergenza della pandemia.
I suoi conti correnti personali, ce lo conferma, erano sempre distinti e separati?
Assolutamente sì, come è facile verificare. L’associazione ha tutto certificato, conti e bilanci. Il mio conto corrente è sempre stato distinto. Le donazioni sono rendicontate e i tanti beneficiari possono testimoniarlo.
Perché ha lasciato l’impegno sindacale per la politica?
Non ho lasciato nessun impegno ma ho provato a portarlo in Parlamento. Non vedo le cose come ambiti separati. Per me la politica è una cosa alta, seria. Dove continuare la mia lotta con le forme che mi vengono consentite.
A chi si ispira?
A Sandro Pertini, Giuseppe Di Vittorio, Nelson Mandela e Martin Luther King. Persone che hanno lottato e sofferto, conosciuto la gogna e fatto la storia. Quello che ho vissuto in questa fase, con gli attacchi personali, non è politica.
È degenerazione della politica?
No, mi rifiuto di associarlo alla politica. Un’amica mi disse: “Ti candidi? Ricordati che vai a nuotare in una vasca di squali”. Io le ho risposto che non so nuotare e che anche se fossi circondato dagli squali, sono un uomo e rimango umano. Però, mi chiedo: come mai ogni volta che una persona viene dai bassifondi dell’umanità vi è una sorta di accanimento?
Domanda retorica, che risposta si è dato?
Non vorrei che la differenza della melanina abbia inciso. Sono portatore di istanze scomode, di disagio, della richiesta di cittadinanza per milioni di bambini nati in questo Paese. Delle battaglie di chi rischia la vita per guadagnare dieci euro. Di chi sta in quelle discariche sociali che sono le carceri italiane, gironi di dannati spesso ignari di come ci siano finiti dentro… Se sommiamo a questo la mia condizione di partenza, capisco di risultare un corpo estraneo. Ma chiedo che queste battaglie trovino respiro nella vita politica.
L’ha delusa la sua parte politica, il gruppo Avs?
Sono umanamente deluso da molte persone. Alle minacce di morte alla mia persona e alla mia famiglia non è seguita la tutela che doveva esserci. Mi aspettavo una solidarietà che non c’è stata.
Fratoianni e Bonelli l’hanno delusa?
Quelli che mi erano venuti a cercare per candidarmi, e che in campagna elettorale mi chiedevano i selfie, a un certo punto li ho visti attraversare la strada per non incontrarmi. Con una dinamica che si fatica a capire, il giorno prima ti incensano e il giorno dopo ti allontanano.
Adesso si allontana lei, si è iscritto al gruppo Misto.
Continuerò con umiltà, insieme a tante persone che mi hanno manifestato vicinanza, le mie battaglie. Ho avuto solidarietà anche trasversale, non solo dal centrosinistra, da parlamentari e anche da europarlamentari che in privato mi hanno detto che avevo ragione. Fare politica dovrebbe significare avere coraggio anche e soprattutto quando davanti hai la betoniera del fango.
De André diceva che dal fango nascono i fiori. Il suo fiore quale sarà?
Hanno provato a sotterrarmi senza capire che i semi, sotto terra, germogliano. Odio e minacce dalla rete mi hanno fatto capire che bisogna educare ai diritti di cittadinanza digitale, lo dobbiamo ai più giovani e ai più vulnerabili. E poi questa esperienza mi ha fatto capire quanto sia urgente lavorare sulla presunzione di innocenza, un principio troppo spesso ignorato a sinistra. La nostra Carta costituzionale dice chiaramente che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, bisogna che la stampa prenda atto di questo principio. Anche se io, non indagato, non ho avuto nemmeno il beneficio del dubbio.
L’Italia è più razzista di quello che si dice?
La mia vicenda è sotto gli occhi di tutti. Per questo prendere coscienza è urgente, e ancor di più lavorare alle leggi di civiltà che mancano. Il diritto alla cittadinanza per chi nasce in Italia. E creare le condizioni affinché il viaggio dall’Africa all’Italia possa svolgersi tutelando la vita umana di chi si sposta alla ricerca di una vita migliore.
Qual è la sua proposta?
Scriviamo un piano insieme ai paesi africani. Stabiliamo una modalità di arrivo in Europa dall’Africa che consenta spostamenti in sicurezza, anche coinvolgendo la rete consolare italiana nelle capitali africane, per individuare via legale di ingresso in Italia deve consentire di scongiurare il cimitero del mare. E smettiamola di finanziare i lager in Libia, una misura che davvero non ci fa onore.
Continuerà queste sue battaglie in un altro partito?
Continuerò ad andare casa per casa e strada per strada, come diceva Enrico Berlinguer.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Soumahoro, donazioni attive e giallo sui soldi: cosa ha scoperto Striscia La Notizia. Il Tempo il 10 gennaio 2023
È un vero e proprio giallo quello sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti di Aboubakar Soumahoro e veicolate dalla piattaforma GoFundMe. Nel giorno in cui il parlamentare - finito nell'occhio del ciclone per l'inchiesta sulle coop - lascia Verdi-Sinistra per il Gruppo misto dopo aver accusato i suoi colleghi di partito di non averlo difeso, Striscia la Notizia continua a indagare sul caso migranti e manda in onda un servizio esplosivo. Si tratta dell’inchiesta di Pinuccio sulle raccolte fondi lanciate dalla Lega Braccianti di Soumahoro e veicolate proprio dalla piattaforma GoFundMe.
Mentre la campagna per comprare cibo durante la pandemia, al centro dell’inchiesta del Tg satirico, è stata rimossa, altre due sono ancora online. E risultano ancora attive – e accettano donazioni – nonostante siano di fatto scadute: una infatti era stata lanciata per raccogliere fondi per comprare regali ai bambini del ghetto per il Natale 2021, un’altra per organizzare lo sciopero dei braccianti a Roma del maggio 2021. L’inviato di Striscia fa una donazione a va a buon fine. Allora si domanda: "Soumahoro cosa se ne fa di questi soldi se le cause per cui venivano raccolti sono superate? Come li rendiconta? E, soprattutto, GoFundMe come gestisce le raccolte fondi?". Mistero.
Comunicato stampa di “Striscia la notizia” il 18 gennaio 2023.
Questa sera a Striscia la notizia (eccezionalmente alle ore 19.30) Pinuccio torna a occuparsi delle bugie dell’ex sindacalista Aboubakar Soumahoro contenute nel corposo dossier difensivo in cui l’onorevole ha provato a rispondere ai tanti dubbi sollevati dal tg satirico riguardo al suo operato con la Lega Braccianti.
L’inviato di Striscia torna sulla raccolta fondi “Cibo e diritti”, nata in teoria per aiutare i braccianti durante la pandemia. In particolare, sulla mai avvenuta consegna di beni di prima necessità in Abruzzo, evento organizzato dall’ex amico fraterno di Soumahoro, Yacouba Saganogo. Nel dossier, l’ex sindacalista sostiene di non essersi potuto recare a Pescara a causa di un lutto e dà la colpa a Saganogo per non aver riorganizzato l’evento.
Eppure, fu proprio il suo amico, ai microfoni di Striscia, a raccontare che «la consegna fu rinviata almeno quattro volte e lui non è mai venuto. Ho chiesto ad Abù che, se non poteva venire di persona, poteva almeno mandarci il furgone con il cibo, ma niente: ha sempre voluto rimandare. La gente ha pensato che l’avessimo fregata».
Di sicuro non una bella figura, da parte di chi si erge a paladino dei braccianti: «Ho fatto il bracciante e lo zappatore», ha ribadito Soumahoro in tv. Ma, anche in questo caso, era stato proprio Yacouba Saganogo a confidare a Pinuccio che «Abù non ha mai fatto il bracciante, non ha mai lavorato la terra o i campi».
Il mistero del mutuo a Soumahoro. Bianca Leonardi il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Villino da 360mila euro comprato con prestito. E il reddito era appena 9mila euro
«Non è così, la verità è un'altra». Così l'onorevole Soumahoro, dopo il salto al Gruppo misto, ha annunciato la pubblicazione di un dossier che dovrebbe chiarire tutti i nodi della vicenda che lo ha reso protagonista negli ultimi mesi. Una serie di documenti che Soumahoro ha pubblicato nell'intento di sbugiardare le notizie di un «livello disumano al quale è arrivato il giornalismo in Italia», come si legge proprio nel dossier. Tra le carte fornite, anche la dichiarazione dei redditi del parlamentare, che mostra un reddito complessivo di 24mila euro nel 2020 e di 9mila euro nel 2021. Come è noto, il parlamentare, nel giugno scorso, ha comprato un villino del valore di 360 mila euro a Casalpalocco, in provincia di Roma, insieme alla compagna. Al tempo Soumahoro non faceva più il sindacalista per Usb e ancora non era parlamentare, mentre la Murekatete era nel Cda della Karibu, dalla quale si è licenziata lo scorso settembre e ora indagata per fatturazioni false. L'acquisto ha fin da subito sollevato molti dubbi. Per questo sono due i documenti di cui siamo entrati in possesso: l'atto di compravendita del villino e il contratto di mutuo stipulato dai Soumahoro, entrambi firmati dal notaio Giovanni Floridi. Nell'atto di compravendita compaiono 50mila euro pagati subito dalla famiglia e i restanti 310 mila «mediante due bonifici effettuati a mezzo Credito Emiliano Spa, utilizzando un mutuo concesso dal predetto istituto alla parte acquirente». Così si legge sul documento. Soldi concessi, sembrerebbe, dalla Credem Banca anche se il contratto del mutuo dice altro: è Intesa San Paolo, infatti, ad erogare 266 mila euro, da saldare entro il 2052 con rette mensili. Il contratto è infatti firmato anche dalla rappresentante di Intesa San Paolo.
Chi ha concesso, quindi, realmente il mutuo: Credem Banca o Intesa San Paolo? E anche sulle somme di denaro qualcosa sembrerebbe non tornare. A fronte del costo della villetta di 360mila euro, l'importo massimo finanziabile con il mutuo, è prassi, sia dell'80% e cioè 288 mila euro, contro i 266 mila scritti nel contratto. Quei 22mila euro da dove provengono? «Probabilmente da un conto personale - ci spiega un consulente finanziario - intestato a Soumahoro o alla compagna che, però, sarebbe stato opportuno precisare nell'atto».
Si scopre, inoltre, che il venditore del villino è un private banker executive presso Fideuram - proprio nelle sedi di Roma centro e Casalpalocco - controllata interamente da Intesa San Paolo. Inoltre gli atti non presentano nessun terzo garante.
Su come si sia potuto permettere una villetta del genere, Soumahoro ha sempre risposto con «ho scritto un libro». Si scopre, però, che i ricavi ottenuti da «Umanità in rivolta» corrispondono a 13900 euro nel 2019, anno di uscita, 3300 euro nel 2020 e 12000 nel 2021. Al contrario, i proventi ottenuti dalle campagne crowdfunding, nel solo 2021, ammontano a 130 mila euro. Soldi che non sono soggetti a tassazione né a dichiarazione e che arrivano su un conto corrente intestato proprio a Soumahoro che, nonostante affermi sia destinato solo ed esclusivamente alle finalità benefiche della Lega Braccianti, non presenta il rendiconto. I dubbi sull'acquisto della casa sembrerebbero quindi concreti: «Negli atti mancano oggettivamente dei passaggi. Nessuna banca concederebbe un mutuo di 360 mila euro a fronte di un reddito di 9 mila euro, senza garanzie di terzi e con le sole informazioni che risultano dalle carte», afferma l'esperto. Resta la possibilità che i soldi li abbia versati Liliane Muraketate, derivati dal suo ruolo nel Cda della coop indagata proprio per malversazione di fondi e truffa.
Soumahoro, la verità nascosta: quello che nessuno ha mai detto. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano l’1 gennaio 2023
Novanta giorni di scandali, supercazzole e sbertucciamenti. Buon per lui che ad offuscarli un po', per ora, è arrivato il Qatargate. Da ragazzo Aboubakar Soumahoro ha scritto la tesi sulla "condizione dei migranti nel mercato del lavoro italiano" e vent' anni dopo s' è scoperto che la moglie e la suocera, a capo di due coop di lavoratori migranti a Latina, i migranti non li pagavano. Nel mentre Libero ha scoperto i selfie della moglie Liliane, con vestiti e borse di lusso - se è finito il pane i migranti mangino brioche - e da lì il soprannome Lady Gucci. Povero Abou: ce l'hanno tutti con lui, non perché è piccolo, ma solo perché è nero, ha detto così nel mitologico video in cui finge di piangere (altro che Dan Harrow che all'Isola dei Famosi confessa alla sua di moglie di aver rubato i cestini perché aveva fame) e giura che degli affari di consorte e suocera non sapeva nulla. Su La7 Abou per la moglie ha invocato il "diritto all'eleganza", e pochi giorni dopo - bomba-bombastica di Dagospia - s' è scoperto che la moglie (o compagna, non s' è ancora capito) per sé rivendicava anche il diritto alle foto erotiche (e ci mancherebbe), ne sono spuntate una manciata e chissà se Abou stavolta ne era conoscenza. Così come della provenienza degli stivali di gomma sporchi di fango con cui ha fatto il suo show entrando il primo giorno in parlamento da deputato di Verdi e Sinistra Italiana: è saltato fuori un ex socio della Lega Braccianti che ha detto che quegli stivali sono suoi. «Ridammeli, mi servono per lavorare».
Di recente s' è scoperto anche che Abou, anche questo l'ha detto lui, s' è comprato un villino da 450mila euro coi proventi di un libro che ha venduto appena 9mila copie; che ha lanciato una colletta vestito da Babbo Natale per comprare i regali ai bimbi del ghetto foggiano di San Severo dove però il prete ha detto che di bimbi non ce ne sono e quindi gli ex soci si chiedono cosa ne abbia fatto di quei soldi; e poi ancora gli ex soci lo accusano di aver pagato 50 euro a clic i braccianti di San Severo per scioperare e farsi i video con lui. Il 2022 per Soumahoro sarà anche stato l'anno in cui è diventato parlamentare, 8mila euro al mese, e però quante scoperte. Quante delusioni.
L'hanno scaricato tutti: i padri putativi Bonelli e Fratoianni che dopo averne fatto il paladino degli ultimi non gli parlano più; quelli del Pd hanno cancellato il numero; in parlamento, se non per il tempo necessario a votare, attorno al deputato ivoriano non si siede più nessuno. Di lui non parla più Marco Damilano che da direttore dell'Espresso aveva accompagnato Abou all'udienza generale del Papa e s' è scoperto che a dispetto dei racconti non c'è stata alcuna udienza privata, solo un seflie in piazza. L'Espresso a Soumahoro non dedica più una copertina perché quella in cui l'ivoriano era un uomo perché difendeva i migranti e Salvini no, be', basta e avanza. Per fortuna di Abou il 2022 è finito. Altrimenti chissà quante altre scoperte, tra suocera e moglie. Certe cose meglio non saperle. Buona fine Aboubakar. E buon inizio. Gli ultimi tre mesi sono stati una stivalata. Per lei e per la sinistra, che già non se la passava troppo bene.
Dalle lacrime di Soumahoro alle minacce di querela di Liliane Murekagtete, la magistratura scopre un castello di bugie. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Dicembre 2022
Il Gip Giuseppe Molfese nelle motivazioni di rigetto dell'istanza, ha invece evidenziato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane Murekatete sarebbe stata perfettamente consapevole ed attiva operativamente nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Inoltre il giudice ha messo in chiaro un probabile sotteso interesse economico in quanto la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù.
I magistrati della procura di Latina non ci hanno messo molto a scoprire il “bluff” di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro e a rigettare la richiesta di sospensione del provvedimento di interdizione nell’inchiesta sulle cooperative Karibù e Aid. Mentre la Murekatete affermava di non aver avuto ruoli nella cooperativa in quanto era in gravidanza, i magistrati hanno ritrovato documenti gestionali firmati da “lady Soumahoro” e riscontrato come la stessa abbia percepito lo stipendio regolarmente dal 2018 al 2021.
Liliane Murekatete
Perdono quindi “peso” e consistenza i documenti consegnati dalla donna e dal suo legale Lorenzo Borrè ai magistrati di Latina nel corso dell’interrogatorio avvenuto lo scorso 12 dicembre. Il dossier depositato dalla difesa avrebbe voluto dimostrare la sua estraneità alle evidenze a fondamento delle accuse emerse dall’inchiesta. Il Gip Giuseppe Molfese nelle motivazioni di rigetto dell’istanza, ha invece evidenziato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane Murekatete sarebbe stata perfettamente consapevole ed attiva operativamente nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Inoltre il giudice ha messo in chiaro un probabile sotteso interesse economico in quanto la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù.
l’ avvocato Lorenzo Borrè e Liliane Murekatete
La linea difensiva durante l’interrogatorio a cui la donna non ha voluto sottoporsi avvalendosi della facoltà di non rispondere, preferendo presentare il dossier era stata indirizzata su un argomento “chiave”: la moglie di Soumahoro all’epoca dei fatti a suo dire non sarebbe stata a conoscenza di quello che accadeva nelle cooperative gestite e controllate dalla madre. Il giudice ha però fatto chiarezza spiegando che le cose starebbero diversamente, in quanto la Murekatete avrebbe continuato a ricevere lo stipendio e la sua presenza sarebbe riscontrabile da alcune firme sui documenti in mano agli inquirenti. Infine il Gip Molfese ha rimarcato che anche in gravidanza, Liliane Murekatete ha continuato a partecipare a tutte le attività. Adesso la battaglia della difesa, persa davanti al Gip, si sposta davanti ai giudici del Riesame.
Questa non è la prima volta che “lady Soumahoro” sostiene qualcosa che subito dopo viene smentita dai fatti. Da sempre sostiene estraneità nella gestione della cooperativa, ma già qualche settimana fa sono venuti alla luce gli screenshot di alcuni suoi messaggi scambiati con ex dipendenti che indicavano come fosse pienamente cosciente di quanto accadeva nella cooperativa, in particolare per le fatture non pagate.
Un’altro episodio in cui lady Soumahoro è stata smentita è stato quella delle foto “hot” pubblicate qualche settimana fa e rilanciate online da diversi siti web. Lei ha sostenuto con determinazione di non aver mai dato il consenso alla pubblicazione di quegli scatti, ma il fotografo Elio Leonardo Carchidi ha dichiarato di essere in grado di provare, documenti alla mano, che invece aveva tutte le autorizzazioni.
L’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia e coordinata dal pubblico ministero Andrea D’Angeli, procede concentrandosi su diversi fronti ancora aperti che vanno dalle ipotesi di raggiri da parte delle cooperartive dei familiari di Soumahoro per ottenere fondi pubblici a frodi relative a servizi resi ben diversi da quelli oggetto degli affidamenti, fino allo stato in cui erano lasciati appunto i migranti.
Per Liliane Murekatete le cose non si mettono bene ed adesso la sua speranza è riposta nel tribunale del Riesame di Roma, al quale il suo legale presenterà ricorso.
Se lady Soumahoro piange e si lamenta, il marito, il neo-deputato con gli stivali Aboubakar Soumahoro quello che si faceva i selfie davanti alle baracche del ghetto foggiano dove vivono tanti lavoratori immigrati che la sua Lega Braccianti secondo i proclami avrebbe dovuto tutelare e invece le accuse nei suoi confronti sono note, pochi aiuti e soltanto “show” a fini elettorali, compresi i 50 euro a bracciante (in questo caso sì che li avrebbe aiutati !) per protestare assieme a lui a favore di smartphone e telecamere invece di lavorare, ha ben poco da ridere.
Angelo Bonelli quando applaudiva Aboubakar Soumahoro
Aboubakar nelle campagne di San Severo nel foggiano, si faceva i selfie anche coi soci della Lega Braccianti che oggi gli chiedono conto della raccolta fondi da 16mila euro che doveva servire pure a regalare dei giocattoli ai bimbi del ghetto, ma don Andrea Pupilla direttore della Caritas di San Severo abbia reso noto che i bimbi si contano sulle dita di una mano, e quindi in molti si chiedono che fine abbiano fatto quei soldi raccolti.
Le feste di Natale per il deputato ivoriano è stata squallida propaganda ma anche tanta rabbia e odio politico indirizzato un po’ a tutti: “Auguri di un sereno Natale all’insegna dell’amore che ci permette di resistere alla malvagità e alla cattiveria per coltivare l’altruismo e la solidarietà” ha postato su Twitter il giorno di Natale, il 25 dicembre. “Come disse Martin Luther King: alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici“.
I “nemici” di Aboubakar Soumahoro sono ben noti, li aveva già nominati nei tragicomici tentativi di difendere sua moglie e la suocera entrambe indagate a vario titolo per frode, bilanci falsi, lavoratori senza stipendio, nell’inchiesta della procura di Latina sulle cooperative di famiglia: sono la destra, ma non solo i politici ma anche i quanto i giornali, quelli che secondo lui lo vorrebbero come “il nero da giardino”, come aveva detto nel suo video in lacrime (finte) di coccodrillo.
Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni
Il problema è che gli “amici”, quelli che all’insorgere dello scandalo l’hanno scaricato, l’ex onorevole di Sinistra e Verdi si è autosospeso dal gruppo parlamentare, non dall’incarico di onorevole, ma continua a sedersi accanto a loro in aula, non fa esplicito riferimento, sono tre: Nicola Fratoianni (leader di Sinistra Italiana), Angelo Bonelli (leader dei Verdi ) ed i vertici del Pd che in campagna elettorale l’avevano eretto a paladino degli ultimi, e poi sono stati i primi a tacere e disconoscerne vita opere e operette.
Nel frattempo le domande di Striscia la Notizia, attendono ancora, ma a casa Soumahoro tutti hanno perso la parola….Redazione CdG 1947
Inchiesta Soumahoro. La Procura accelera sugli illeciti della coop. Tonj Ortoleva il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Nell'inchiesta sulle cooperative della famiglia del deputato Soumahoro che gestivano l'accoglienza dei migranti in provincia di Latina, la procura ha avviato una serie di audizioni convocando alcune persone informate sui fatti. Si tratta di professionisti che hanno collaborato con Karibù e Consorzio Aid e di dipendenti che lavoravano nelle coop.
I magistrati inquirenti della Procura di Latina stanno provando in questi giorni a ricostruire tutta una serie di passaggi poco chiari emersi dalle carte dell'inchiesta e contenuti, in parte, anche nell'ordinanza che ha portato al sequestro preventivo di oltre 650 mila euro a tre indagati e alla loro interdizione per un anno dalle attività gestionali.
Gli inquirenti si stanno concentrando ora sulle ultime annualità, 2020 e 2021, della Karibù, la cooperativa gestita dalla suocera e dalla moglie del il sindacalista di origini ivoriane e deputato eletto con l'alleanza Verdi-Sinistra. Sono gli anni in cui le difficoltà economiche della coop sono esplose in modo deflagrante.
Tra i documenti contabili sono emersi atti giudiziari mossi da persone che non sono state pagate per i servizi effettuati. Tra esse, c'è un consulente aziendale di Gaeta, Emiliano Scinicariello, che è stato convocato nei giorni scorsi dai magistrati di Latina per essere ascoltato come persona informata sui fatti.
Scinicariello, ovviamente, non può dire molto rispetto al colloquio coi magistrati, che è coperto dal segreto istruttorio. Ma conferma il fatto «di aver avuto un incarico di consulenza da parte della Karibu che mi ha visto impegnato dal febbraio 2021 all'agosto dello stesso anno. Un incarico che non è stato retribuito». Da qui una ingiunzione di pagamento avanzata nei confronti della cooperativa. Una situazione che lo accomuna a diversi ex lavoratori che attraverso il sindacato Uiltucs hanno denunciato il fatto di non aver ricevuto gli stipendi per mesi.
Anche alcuni di loro potrebbero essere ascoltati dagli inquirenti come persone informate sui fatti, come già accaduto ad altri ex dipendenti, le cui dichiarazioni sono contenute all'interno della recente ordinanza firmata dal gip Giuseppe Molfese. La sensazione è che la procura di Latina stia trovando una corsia veloce nell'indagine, con diversi riscontri come quelli emersi relativamente ai documenti gestionali legati alla figura di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro, che la porrebbero come consapevole di quanto accadeva della coop nonostante abbia affermato di essersi fatta da parte, nel periodo in cui ricade l'inchiesta, in quanto in stato di gravidanza.
L'inchiesta di Latina è relativa alle cooperative gestite in passato dalla moglie del deputato Soumahoro, Liliane Murekatete, da sua madre Marie Terese Mukamitsindo e dal fratellastro Michel Rukundo. Per i tre è scattato ai primi di dicembre un pesante provvedimento cautelare che ha disposto il divieto per un anno di contrattare con la pubblica amministrazione e esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche, oltre al sequestro di oltre 639 mila euro alla madre e di circa 13 mila ai due figli. Intanto il prefetto di Latina Maurizio Falco ha annunciato che nel 2023 sono stati programmati 140 interventi ispettivi nelle cooperative che gestiscono i migranti e che hanno preso in carico quelli di Karibù e Aid.
Stipendi, firme e sms: tutte le bugie di Lady Soumahoro. Si era dichiarata estranea alle malversazioni delle coop perché in gravidanza: smentita. Tonj Ortoleva su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.
Non ci hanno messo molto i giudici di Latina a scoprire il bluff di Liliane Murekatete, moglie del deputato Aboubakar Soumahoro e a rigettare la richiesta di sospensione del provvedimento di interdizione nell'inchiesta sulle coop Karibù e Aid. Mentre lei affermava di non aver avuto ruoli nella cooperativa in quanto era in gravidanza, i magistrati hanno ritrovato documenti gestionali firmati da lady Soumahoro e riscontrato come la stessa abbia percepito lo stipendio regolarmente dal 2018 al 2021.
Perdono dunque definitivamente consistenza i documenti consegnati dalla donna e dal suo avvocato Lorenzo Borrè ai magistrati di Latina nel corso dell'interrogatorio avvenuto lo scorso 12 dicembre. Il dossier avrebbe dovuto dimostrare la sua estraneità alle accuse mosse dall'inchiesta. Invece il gip, nelle motivazioni di rigetto dell'istanza, ha sottolineato come non sia possibile revocare il provvedimento cautelare in quanto Liliane sarebbe stata consapevole e attiva nella partecipazione del meccanismo fraudolento. Il giudice Giuseppe Molfese ha messo in luce un probabile sotteso interesse economico perché la donna ha continuato ad essere pagata dalla cooperativa Karibù. La linea difensiva durante l'interrogatorio (a cui la donna non ha risposto, presentando il dossier) era stata indirizzata su un punto chiave: lady Soumahoro all'epoca dei fatti non sarebbe stata a conoscenza di quello che accadeva nelle coop di famiglia. Ma il giudice ha fatto capire che le cose starebbero diversamente, in quanto Murekatete avrebbe continuato a ricevere lo stipendio e la sua presenza sarebbe riscontrabile da alcune firme sui documenti in mano agli inquirenti. Infine il gip ha rimarcato che anche in gravidanza, Liliane ha continuato a partecipare a tutte le attività. La battaglia adesso si sposta davanti ai giudici del Riesame.
Non è la prima volta che lady Soumahoro afferma qualcosa che subito dopo viene smentita dai fatti. Da sempre sostiene estraneità nella gestione della cooperativa, ma già qualche settimana fa emersero gli screenshot di alcuni messaggi scambiati con ex dipendenti che indicavano come fosse pienamente cosciente di quanto accadeva nella cooperativa, in particolare per quanto concerne le fatture non pagate. Altra vicenda in cui lady Soumahoro è stata smentita è quella delle foto hot pubblicate qualche settimana fa e rilanciate online da diversi siti web. Lei ha sostenuto con determinazione di non aver mai dato il consenso alla pubblicazione di quegli scatti, ma il fotografo Elio Leonardo Carchidi ha detto di essere in grado di dimostrare, carte alla mano, che aveva tutte le autorizzazioni.
Insomma, per Liliane Murekatete le cose non si mettono bene e ora la sua speranza è il tribunale del Riesame di Roma, a cui il suo legale presenterà ricorso. L'inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e dalla Polizia e coordinata dal pubblico ministero Andrea D'Angeli, prosegue concentrandosi su diversi fronti ancora aperti che vanno dalle ipotesi di raggiri da parte delle coop dei familiari di Soumahoro per ottenere fondi pubblici a frodi relative a servizi resi ben diversi da quelli oggetto degli affidamenti, fino allo stato in cui erano lasciati appunto i migranti.
Estratto dell’articolo di Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2023.
Nel 2021 Aboubakar Soumahoro ha guadagnato 9.150 euro. Lo si legge nella dichiarazione dei redditi pubblicata in queste ore sul sito della Camera. […]
[…] Se è vero, e non ne dubitiamo, che il reddito complessivo di Soumahoro è di 9.150 euro, viene da pensare che la compagna, Liliane Murekatate, ne guadagni parecchi di più, ma molti di più, perché- ha detto l'ivoriano e gli crediamo di nuovo - al mutuo da 270mila euro concesso per il villino da quasi mezzo milione a Roma ha contribuito anche la signora, così ha detto Soumahoro la cui compagna e suocera sono indagate per i mancati pagamenti ai dipendenti delle cooperative Karibu e Consorzio Aid. E in effetti dalla dichiarazione sul sito della Camera risulta che l'abitazione è al 50%: il nome del proprietario dell'altro 50 è annerito, ma insomma, si capisce.
Poco più di 9mila euro in un anno sono 750 euro circa al mese, al di sotto della soglia di povertà, poco più dell'importo medio di un reddito di cittadinanza. Soumahoro ha anche dichiarato 7.291 euro ricevuti da finanziatori in campagna elettorale, quasi come il suo reddito complessivo. [...]
Soumahoro tra pianti e silenzi. Ma le donazioni sono ancora attive. Ancora attiva la raccolta fondi della discordia. Su GoFundMe, la campagna dei 220mila euro mai arrivati nel ghetto non è mai stata chiusa e dopo un aggiornamento del deputato sono ripartite le donazioni. Bianca Leonardi su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.
Prima il silenzio, poi il pianto isterico sfociato in accuse contro tutti coloro che "mi vogliono morto". Quindi il diritto all'eleganza e - a correlare il tutto - l'ormai noto slogan "non sapevo niente". Questa la parabola dell'onorevole Aboubakar Soumahoro, sempre più in picchiata verso un baratro che sembrerebbe irrecuperabile, soprattutto alla luce degli ultimi colpi messi a segno dagli inquirenti nel cui mirino non sono finite soltanto le cooperative gestite dalla famiglia della compagna - indagata insieme alla madre e al fratellastro - ma anche le testimonianze dei braccianti che IlGiornale.it ha raccolto sul posto.
A Foggia, infatti, l’ex sindacalista è stato sbugiardato più volte proprio dai propri compagni, il tutto nel silenzio delle istituzioni. Se è vero che Soumahoro si è trovato esposto su un fronte da cui vorrebbe tirarsi fuori (non a caso rimanda le dichiarazioni al legale, Maddalena Del Re), è anche vero che il tempo per pensare ai soldi sembra trovarlo.
La famosa raccolta fondi della discordia, quella dei 220mila euro mai arrivati nel ghetto di Torretta Antonacci - come ci hanno raccontato personalmente i braccianti - è infatti ancora attiva su GoFunMe. Questo significa che ancora oggi è possibile inviare soldi alla Lega Braccianti, di cui Soumahoro è il Presidente - nonché, stando ai documenti (non) forniti, l'unico rappresentante formale dell'ente - e ne detiene il conto corrente. Si legge sul sito un aggiornamento, pubblicato negli ultimi mesi di bufera, che riporta le stesse parole scritte sul profilo facebook di Soumahoro e che punta il dito contro il "fango mediatico".
"Non consentirò mai a nessuno - indipendentemente dal colore della pelle, dal collocamento giornalistico, dal posizionamento sindacale e dall’appartenenza politica - di gettare ombre sul nostro operato e sulla mia integrità per rancore, per odio o per invidia”. E ancora: “Tutte le nostre azioni sono compiute in trasparenza e da uomini che rispettano la legge. Per questo, so che i processi di ricerca della verità e della giustizia si celebrano in tribunale e non si sentenziano sui giornali o in rete, a meno che siano animati dall’intento diffamatorio finalizzato a ledere la reputazione. Al riguardo, ho dato mandato ai miei legali di procedere nelle sedi opportune contro chiunque in queste ore tenterà di gettarmi del fango”.
La dichiarazione strappa lacrime che, però, non riporta giustificazione o spiegazioni concrete sui fatti avvenuti ha comunque fatto breccia nei cuori degli idealisti e di chi ancora crede nella bontà e correttezza del deputato tanto che, proprio dopo questo exploit, le donazioni sono riprese aumentando così il valore raggiunto.
Stesso discorso sul sito della Lega Braccianti dove gli obiettivi concreti non sono riportati, i bilanci sono fermi al 2020 - e sono quelli contestati che riportano la spesa di circa 50mila euro per qualche missione, a fronte dei più di 200mila raccolti con il crowfunding - ma il modulo per le donazioni è ben in vista.
Chiedendo poi informazioni all'unico indirizzo mail indicato, a rispondere - come IlGiornale.it hapotuto verificare - è proprio l'addetta stampa di Soumahoro, pronta a indicare le modalità di pagamento, senza far riferimento a chiarimenti aggiuntivi.
Insomma, il deputato con gli stivali continua a "non sapere niente" ma, almeno due cose sembrerebbe le avesse chiare: il posto da parlamentare e le tasche che, nonostante tutto, continuano a riempirsi.
Sinistra umanitaria, Sallusti: fanno i buoni, ma non gratis. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2022
È Natale, dobbiamo essere tutti più buoni. Ci sto, a una sola condizione: non passare per fessi, che nel mio mestiere significa andare appresso ai furbi che si fanno passare per saggi, o se preferite ai furbi che intrallazzano facendosi scudo con "l'aiuto umanitario", pratica nobile ma scivolosa. E non è un caso se a scivolare sono soprattutto esponenti della sinistra comunista nel cui pantheon ci sono solo figure che all'umanità hanno fatto più male che bene. Nessuno in queste ore ha il coraggio di mettere in fila tre fatti di cronaca e dimostrare che il vero problema non sono le singole storie ma la cultura comune che le ha generate, per l'appunto la cultura comunista.
Proviamoci. Antonio Panzeri, regista dello scandalo Qatar, è stato un potente segretario della Cgil, poi membro della direzione dei Ds, deputato europeo del Pd e infine socio di Articolo 1, il partito di Speranza, D'Alema e Bersani. A Bruxelles è stato presidente della sottocommissione europea per i diritti umani e ha fondato l'Ong umanitaria Fight Impunity che oggi sappiamo essere un bancomat di famiglia (ieri gli hanno sequestrato altri 240 mila euro di provenienza sospetta).
La storia di Panzeri è molto simile a quella della famiglia Soumahoro, l'immigrato adottato dagli intellettuali di sinistra e portato da Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, a sedere in Parlamento come paladino degli ultimi. Oggi sappiamo che anche l'Ong, ovviamente umanitaria, dei Soumahoro era un bancomat personale che ha dissipato milioni di soldi pubblici.
E arriviamo alla terza storia. Anche in questo caso ci sono di mezzo Fratoianni, Sinistra Italiana e una Ong va da sé umanitaria, specializzata nel soccorso di naufraghi. Fratoianni è infatti l'ultimo padrino politico di Luca Casarini, già attivista no global e comunista a tempo pieno. Il tribunale di Ragusa ha disposto ieri il sequestro di 125 mila euro che l'Ong di Casarini aveva intascato da un armatore danese per liberarlo dalla scocciatura di avere a bordo 27 immigrati casualmente intercettati in mare aperto. L'accusa è di favoreggiamento di immigrazione clandestina, un taxi del mare alla modica cifra di 4600 euro a immigrato. Ma quanto sono umanitari 'sti comunisti? Ma soprattutto, quanto sono fessi i non pochi che ancora gli tengono bordone?
*** Ps. Con affetto e riconoscenza buon Natale a tutti voi lettori. Libero, come tutti i quotidiani, tornerà in edicola martedì 27 dicembre.
Tre Ong partite verso la Libia. Ma arrivano i primi sequestri. Su 100mila migranti, 86mila non scappano da guerre.. Fausto Biloslavo e Valentina Raffa il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Dei 101.127 migranti sbarcati in Italia da gennaio, il grosso viene dalla Libia, ma oltre 30mila sono partiti dalla Tunisia ed è in aumento anche il flusso dalla rotta più lunga del Mediterraneo orientale. E oltre 86mila non scappano da paesi in guerra. Se poi non esistesse la tanto vituperata Guarda costiera libica, sarebbero arrivati da noi 22.216 migranti in più. Fra le Ong del mare, la parte del leone spetta a Medici senza frontiere, che ha portato nel nostro paese quasi 4mila migranti. Dalla Libia sono partiti, ingrassando i trafficanti, 73.173 persone fino al 20 dicembre, ma la Guardia costiera di Tripoli ha intercettato il 30% del flusso. Proprio in questi giorni natalizi sarebbero in arrivo sulle coste libiche tre navi di Ong: la Ocean Viking, la Geo Barents e la Aurora Sar. Ieri sono sbarcati a Livorno i 108 migranti recuperati da Sea Eye 4, la nave dei talebani dell'accoglienza tedeschi. Le Ong del mare comunque protestano: «L'assegnazione veloce di un porto lontano ha un prezzo. La volontà politica è di tenere le navi lontane dai soccorsi il più a lungo possibile». L'obbligo di sbarcare i migranti, subito dopo il primo recupero, è contenuto nel decreto sull'immigrazione illegale che sarà varato in gennaio. La tattica del Viminale di assegnare un porto lontano serve ad allungare i tempi di viaggio e aumentare i costi delle Ong. Un rapporto elenca le 15 navi di 12 Ong, tutte straniere, a parte Mediterranea Saving human, che ha ancora problemi con un'inchiesta giudiziaria a Ragusa. Altre tre unità navali sono già operative come Life support o si stanno preparando in cantiere per il 2023 nel caso della super ammiraglia Sea Watch 5 a Flensburg, in Germania e la più piccola Sea Punk a Buriana, una specie di «Tortuga» spagnola delle Ong.Sulla flotta di 18 navi ben 12 sono state messe in mare con costi minimi di 1 milione di euro da Organizzazioni non governative tedesche. Quest'anno Msf ha fatto sbarcare in Italia 3844 migranti, fino al 7 dicembre, con la nave Geo Barents, che batte bandiera norvegese. Ocean Viking, dei francesi di Sos Mediterranee, è al secondo posto con 2387 migranti illegali. Poi arrivano i tedeschi di Sea Watch che con due navi hanno recuperato 1815 persone. Humanity 1, la nave sponsorizzata dalle chiese tedesche, supera anche i mille, ma di poco. In tutto le Ong hanno trasportato oltre 11mila persone. Le partenze sono aumentate pure dalla Tunisia con 30.261 migranti illegali. Fra il 21 e 22 dicembre la Guardia costiera tunisina ha recuperato 218 persone riportandole a terra. Dall'Algeria sono sbarcati in Italia 1.271 migranti, fino al 20 dicembre, ma un'ulteriore, forte impennata, è stata registrata sulla rotta dal Mediterraneo orientale. Soprattutto dalla Turchia e dal Libano sono partiti e arrivati in Italia 17.585 migranti da gennaio. Oltre 86mila persone sbarcate da noi, a cominciare da egiziani, tunisini e cittadini del Bangladesh non scappano da paesi in guerra. La Procura di Ragusa non molla la presa su Mare Jonio, la nave di Luca Casarini e soci di estrema sinistra. Il Gip ha convalidato il sequestro preventivo di 125mila euro alla società Idra social shipping, armatrice di Mare Jonio, della Ong Mediterranea Saving Humans. La somma era stata versata dagli armatori danesi della motonave Maersk Etienne per trasferire 27 migranti a Pozzallo. L'accusa è di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, reato aggravato dallo scopo di profitto. Casarini si è sempre professato innocente, ma una fonte del Giornale conferma che «sono state trovate le prove documentali del previo accordo con la società danese e non solo».
La magistratura indaga sulla Ong di Casarini per i 125mila euro ricevuti dalla petroliera danese. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno 26 dicembre 2022.
Nel mirino dei magistrati si contano ben 8 attivisti, tra i quali spunta puntuale la figura di Casarini, appunto, oltre a quella dell'armatore Alessandro Merz e del capo missione Beppe Caccia che sono stati tutti indagati per "favoreggiamento dell'immigrazione clandestina".
Luca Casarini 52 anni, mestrino, ex “no global”, ex “disobbediente” (non si è mai capito bene verso chi), ex agitatore dei centri sociali dal Pedro di Padova al Rivolta di Marghera, è stato speronato dalla magistratura. La sua Ong è stata fondata grazie ad una serie di donazioni, tra cui 70 mila euro in parte donati dal deputato e segretario di Sinistra Italia Nicola Fratoianni e dall’ex governatore della Puglia Nichi Vendola, fondatore di SEL-Sinistra ecologia e libertà in cui militava un’altro finanziatore Nicola Palazzotto, oltre a Rossella Muroni. Nel corso degli anni molteplici sono state le controversie giudiziarie che hanno coinvolto la “Mare Jonio”, con alcuni fermi amministrativi per violazioni delle norme del decreto sicurezza.
Per la Ong di Casarini sono arrivate donazioni pure dall’ Arci, dal magazine I Diavoli e da imprese sociali come Moltivolti. Soltanto nel 2018 la Ong aveva raccolto fondi per 1 milione di euro, 600 mila euro nel 2020. Il rapper Ghali ha voluto contribuire lanciando una mega-colletta online. E per finanziare l’avvio della attività della Ong è stato necessario un prestito di 465mila euro ottenuto da Banca Etica. Ma di etico nella vicenda che ha coinvolto Casarini (che diceva “ci sarebbero molte considerazioni da fare sull’etica pubblica”) per ora, c’è rimasto ben poco…
Su richiesta dal procuratore capo di Ragusa Fabio D’Anna e del pm Santo Fornasier, titolari del fascicolo d’indagine , il gip del Tribunale di Ragusa, ha disposto il sequestro di 125mila euro nell’ambito delle eterne indagini sulla vicenda della Ong Mediterranea Saving Humans di cui Luca Casarini è capomissione e della sua nave corsara dei migranti “Mare Ionio“. La somma sequestrata sarebbe arrivata alla Ong dalla petroliera danese “Maersk Etienne” per aver trasportato 27 migranti sulla “Mare Ionio“. Nel mirino dei magistrati si contano ben 8 attivisti, tra i quali spunta puntuale la figura di Casarini, appunto, oltre a quella dell’armatore Alessandro Merz e del capo missione Beppe Caccia che sono stati tutti indagati per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina“.
I fatti hanno origine dall’estate del 2020 con lo sbarco di migranti nel porto siciliano di Pozzallo. Ma la vicenda del sequestro di danaro riaccende, peggiorando la vocazione della stessa “Mare Ionio”, un rimorchiatore di 37 metri degli anni ’70 trasformato in taxi del mare ed accusato di caricare e scaricare migrati dietro lauto compenso. In questo caso trattasi di 27 migranti per 125mila euro, cioè 4629 euro a passeggero.
I magistrati contestano ai tre indagati un fitto scambio di messaggi con i danesi che volevano liberarsi del “carico umano” (un mese di stop in mare stava costando decine di migliaia di euro al giorno) prima di raggiungere l’accordo. All’inizio pare che la cifra richiesta da Casarini fosse addirittura di 270mila euro. E pare secondo la Procura che il capo missione Beppe Caccia si sarebbe incontrato a Copenaghen con i dirigenti della Maersk al fine di “lucrare il controvalore pecuniario dell’operazione di trasbordo”.
L’11 settembre la “Mare Ionio” salpava da Licata verso Lampedusa: poi cambiava rotta dirigendosi verso la Maersk che il 20 ottobre 2020 bonificava 125mila euro sul conto della società Idra Social Shipping s.r.l. armatrice della nave. Secondo l’impianto accusatorio, i dialoghi intercettati proverebbero la presunta trattativa. “Domani a quest’ ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi” diceva Casarini a Merz. Soldi che servivano per “pagare stipendi e debiti“, eludendo la legge facendo apparire l’operazione il più “legale” possibile. E ancora, si esalta Casarini intercettato: “Mi sa che abbiamo fatto il botto”. In un certo senso, il botto l’hanno fatto, ma al contrario.
Il bonifico ricevuto dai danesi datato 30 novembre, riportava la causale “servizi di assistenza forniti in acque internazionali”. I magistrati sostengono che, per liberarsi dei migranti dopo il lungo stallo, i danesi presentino “un’emergenza sanitaria a bordo con richiesta di assistenza della Mare Jonio ufficialmente salpata per consegnare 80 litri di benzina”, come attesta il comandante Pietro Marrone, anch’egli indagato . A 12 miglia dalla costa italiana, vengono fatti evacuare urgentemente dalla petroliera danese una migrante “in presunto stato di gravidanza stimato al secondo trimestre” e suo marito.
La migrante viene visitata, in Italia, in ospedale dove si scopre non avere “nulla di patologico” e che non è assolutamente incinta. Il giorno dopo, il 12 settembre, arriva l’autorizzazione a sbarcare a Pozzallo i migranti. I “talebani dell’accoglienza” – li definisce Fausto Biloslavo – hanno risolto il problema ai danesi; e l’arrivo dei 125mila euro da Copenaghen, fa sì che Caccia preannunci a Casarini “l’attribuzione di una confortante gratifica natalizia”, secondo gli atti giudiziari. I magistrati non si sono affatto convinti della linea difensiva della Mediterranea Save Humans, dei pirati dei Caraibi: quella per cui non si nega il passaggio di denaro, ma quel passaggio è avvenuto causa “sostegno per l’attività umanitaria“.
Il sequestro dei 125 mila euro è un segno che la magistratura finalmente si sta muovendo, e che la situazione non sia affatto rosea per gli attivisti. Altro che le levate di scudi contro il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il quale con grande rigore sta facendo il suo dovere cercando di tutelare i confini italiani.
Redazione CdG 1947
"125mila euro per 27 migranti". È bufera sulla ong di Casarini. Sembra aggravarsi la posizione degli attivisti, il gip di Ragusa dispone il sequestro di 125 mila euro. I messaggi non lasciano adito a dubbi. Federico Garau il 23 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Pronto a levare gli scudi e a protestare contro il governo italiano quando questo tenta di far rispettare i confini del Paese, Luca Casarini, capo missione della nave Mare Jonio, deve ora pensare alle indagini portate avanti dalla procura di Ragusa sulla ong Mediterranea Saving Humans.
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Il gip ha disposto il sequestro
L'inchiesta sta infatti andando avanti, e il gip di Ragusa ha provveduto al sequestro di 125 mila euro. Tale somma è stata sequestrata agli attivisti della organizzazione non governativa come misura cautelare. Secondo l'accusa, infatti, il denaro sarebbe stato inviato dai danesi di Maersk Etienne per il trasbordo di 27 migranti sulla Mare Ionio. Insomma, soldi in cambio del trasferimento delle persone a bordo.
Nel mirino degli inquirenti ci sono ben 8 attivisti, fra cui lo stesso Luca Casarini. Con lui anche l'altro capo missione Beppe Caccia e l'armatore Alessandro Merz. Tutti quanti sono oggi indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
La misura del sequestro dei 125 mila euro è stata richiesta dal procuratore capo Fabio D’Anna e del sostituto Santo Fornasier, incaricati di condurre le indagini.
I messaggi
La procura si sta concentrando in particolare su dei messaggi scambiati fra gli attivisti e i danesi prima del trasbordo sulla Mare Ionio. Era l'11 settembre 2020 quando la nave ong parte da Licata (Agrigento) in direzione della petroliera della compagnia danese Maersk. Un mese dopo, il 20 ottobre 2020, arriva il bonifico da 125 mila euro sul conto della Idra Social Shipping Srl, società armatoriale della Ionio.
La trattativa emerge dai messaggi scambiati. Gli indagati parlano senza filtri, e pare evidente cosa c'è in ballo. "Domani a quest'ora potremmo essere con lo champagne in mano a festeggiare perché arriva la risposta dei danesi", scrive Luca Casarini all'armatore Alessandro Merz. "Mi sa che abbiamo fatto il botto", si legge ancora.
Il sequestro dei 125 mila euro è un segno che la procura si sta muovendo, e che la situazione non sia affatto rosea per gli attivisti. Altro che "macchina del fango" e levate di scudi contro il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, che sta solo cercando di tutelare i confini italiani.
"Ci vogliono lontani...". Il piagnisteo delle Ong contro il governo. Le Ong dei migranti vogliono continuare a operare senza alcuna regola: è questo il senso dell'ultimo comunicato di Sea Watch contro il governo. Francesca Galici il 23 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Nelle ultime settimane, la sinistra si sta esibendo nel suo sport preferito, ossia la polemica strumentale tesa a destabilizzare il governo, picconandolo dall'esterno attraverso una strategia di delegittimazione agli occhi degli elettori. Ogni loro tentativo, però, fallisce miseramente e non serve nemmeno che sia la maggioranza di governo a smentirli, come è accaduto in queste ultime ore con le Ong. Mentre si attacca Giorga Meloni e la si accusa di aver tradito le promesse elettorali sui migranti, e di aver fatto solo propaganda inutile, le organizzazioni non governative dimostrano che l'azione che sta portando avanti il governo è efficace al suo scopo.
Porto spostato e soldi: ecco le assurde richieste delle Ong all’Italia
Dopo la Ong che ha minacciato di lasciare in porto le sue navi davanti alle nuove norme che potrebbero essere varate dal governo già nelle prossime settimane, incluso il codice di condotta, un'altra Ong ha iniziato a piagnucolare contro i "cattivi" del governo di Giorgia Meloni, il cui scopo è quello di tutelare la sovranità nazionale e di difendere i confini marittimi italiani e, di conseguenza, europei nel Mediterraneo centrale. Stavolta è Sea Watch a lamentarsi, perché l'assegnazione del porto di Livorno, come si dice in Toscana, non garba alle organizzazioni non governative, che lo considerano troppo distante.
"Accogliamo chi ha soldi per gli scafisti". Meloni non cede sui migranti
"Le recenti operazioni delle navi di soccorso dimostrano che l'assegnazione veloce di un porto lontano ha un prezzo. I porti sicuri devono essere assegnati subito, ma con i porti molto a nord la volontà politica è di tenere le navi lontane dai soccorsi il più a lungo possibile", dicono dalla Sea Watch, che al momento non ha navi in mare. Ma nel mirino della Ong è finita anche la norma che, se inserita nel prossimo decreto, prevede l'obbligo di chiedere il porto al primo salvataggio: "Se le navi di soccorso civili dovessero essere costrette a entrare in un porto dopo il primo salvataggio completato, mentre altre persone sono in pericolo in mare, questo non sarebbe solo cinico ma violerebbe il dovere di soccorrere di ogni capitano".
Il lamento dell'Ong: "Con la stretta del governo Meloni costretti a fermare le navi"
Una ricostruzione che fa leva su una presunta etica morale da parte delle Ong, che però non fotografa l'esatta realtà dei fatti. Le navi delle Ong, infatti, effettuano interventi anche a diversi giorni di distanza tra loro e solo raramente raramente uno di seguito all'altro. Nel tempo che intercorre tra un intervento e l'altro, le navi restano a fare i "bastoni" davanti alle coste della Libia, in acque internazionali, con a bordo i migranti recuperati precedentemente. Sono le Ong, quindi, le prime a costringere le persone a una permanenza obbligata a bordo, almeno fino a quando le navi non raggiungono la capacità massima.
La mossa di Geo Barents dopo il salvataggio: ecco cosa nasconde
Ma, omettendo questo passaggio, dall'organizzazione si vuol far credere che la norma che potrebbe essere inserita nel decreto potrebbe risultare illegale: "Rifiutando questo dovere di salvataggio, il capitano è perseguibile penalmente. Sono previste pene fino a 3 anni di reclusione, molto più elevate, fino a 15 anni, se le persone dovessero perdere la vita. Non abbandoneremo le persone in pericolo in mare". Il senso delle parole della Ong sembra essere chiaro: non rispetteranno le indicazioni del governo italiano e tenteranno di operare ancora al di là dei paletti normativi.
Troppo facile far finta che l'emergenza sia finita, che in mare non ci siano decine di migliaia di disperati costretti a scappare dalle loro patrie e che le nostre città non siano sempre più invase dal popolo "invisibile" degli immigrati. Francesco Maria Del Vigo il 23 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Troppo facile far finta che l'emergenza sia finita, che in mare non ci siano decine di migliaia di disperati costretti a scappare dalle loro patrie e che le nostre città non siano sempre più invase dal popolo «invisibile» degli immigrati. Ieri il macabro conto delle vite disgraziate che si mettono su un gommone insicuro nella speranza di trovare un'esistenza più certa ha raggiunto quota centomila. Centomila. Anzi, 100.985. Tanti sono i migranti sbarcati in Italia nel 2022, più della somma degli arrivi nei due anni precedenti. Un esodo gigantesco passato pressoché sotto silenzio, fagocitato e poi risputato dal dibattito politico, nascosto dalla pandemia, da emergenze che sono sempre più emergenze e soprattutto sono meno divisive, calpestano meno il nervo sempre scoperto dell'ipocrisia del politicamente corretto. Per una parte dell'opinione pubblica e del mondo culturale progressista quello dei migranti è un argomento tabù, invasione è una parola censurata, proibita, messa al bando dall'algoritmo del buonismo. La galassia di sinistra di fronte all'allarme immigrazione ha due reazioni opposte e schizofreniche: da un lato nega categoricamente che esista tale problema, lo derubrica a fanfaronata elettorale di centrodestra, a paranoia da conservatore allergico all'inclusione. E poi dall'altro lato - che è solo la seconda faccia della stessa medaglia - fa affari politici ed economici sui migranti. L'industria dell'accoglienza non è solo una macchina elettorale buona per raccattare qualche voto radical chic, ma è anche e sopratutto una fabbrica di soldi, come hanno dimostrato le inchieste che si sono dipanate nel corso degli anni, da Mafia Capitale (vi ricordate la massima di Buzzi: «Con gli immigrati si fanno più soldi che con la droga»?, correva l'anno 2014) fino al recentissimo caso che riguarda Aboubakar Soumahoro e la sua famiglia. Per anni abbiamo subito la spocchia intollerabile di chi voleva spalancare le porte dell'Italia a migliaia di clandestini - al netto dei pochi profughi verso i quali abbiamo il dovere dell'accoglienza - nel nome di un buonismo e di un multiculturalismo che hanno fatto da paravento ai traffici più loschi e indecenti, mentre nelle nostre città aumentavano la criminalità e l'insicurezza. Il dovere di un governo di centrodestra è spezzare questo circolo vizioso, gestire i flussi migratori, assicurare il rispetto della legalità e, soprattutto, coinvolgere l'Europa intera in un processo di responsabilizzazione e di redistribuzione dei migranti. Per questo ha fatto benissimo, ieri, il premier Giorgia Meloni a rivendicare le frizioni con la Francia di Macron proprio su questo tema. Non si possono accettare veti e lezioni da un Paese che in un anno ha accolto poche decine delle migliaia di migranti arrivati sulle nostre coste. Perché l'Italia non deve essere mai più il campo nomadi dell'Unione Europea.
Il tribunale di Travaglio “condanna” Lucano anche per reati mai contestati dai pm...Il direttore del Fatto accusa l’ex sindaco di Riace di episodi penalmente irrilevanti ma che pure sono stati inseriti nelle motivazioni della sentenza. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 4 Gennaio 2023.
Non so proprio come si possa colpire con ferocia un uomo che giace sanguinante a terra e quindi non riuscirò mai a comprendere come un direttore di un giornale molto conosciuto come Il Fatto possa insultare Mimmo Lucano condannato a 13 anni di carcere indicandolo in un suo editoriale di qualche giorno fa come: “…il Cetto La Qualunque della Sinistra”.
Ammettiamo per un solo attimo che Lucano sia colpevole e dovrà per questo scontare 13 anni di carcere. In tal caso la sua vita sarebbe finita e non mi sembrerebbe il caso di aggiungere alla pena regolarmente comminata dei giudici gli insulti gratuiti.
Travaglio non è garantista e ci sta; crede ciecamente nell’operato della magistratura e ci sta pure, ma proprio per questo dovrebbe rifuggire dalla gogna che aggiunge al reo una pena mai inflitta dai giudici. La libertà di insulto non ha niente a che vedere con la Giustizia.
Ora torniamo alla realtà: Mimmo Lucano deve essere ancora giudicato in appello ed eventualmente in Cassazione. Un Tribunale potrebbe riconoscerlo innocente in tal caso non sconterà gli anni di galera ma le ferite resteranno. Per esempio, l’insulto di essere un “Cetto La Qualunque” gli brucerà anche dopo un’eventuale assoluzione. E brucerà ancora di più la frase sibillina usata da Travaglio nel suo editoriale per far credere che Lucano abbia usato i soldi dell’accoglienza per provvedere «alla scuola per la figlia».
Il riferimento è alle rate che un amico di Mimmo Lucano ha mandato per pagare l’alloggio di Martina figlia dell’ex sindaco di Riace. A dimostrazione di quanto dice Travaglio cita la sentenza nella parte in cui c’è scritto: «Monitorando il conto corrente di Zurzolo (l’amico di Lucano) è emerso che dal gennaio 2015 fino al novembre 2016 ha versato mensilmente a tale… il canone d’affitto dell’appartamento romano della figlia di Lucano per un totale di 9500 euro».
“Carta canta in cannolo”!
Peccato però che Mimmo Lucano per tale reato non sia mai stato condannato e mai perseguito e lo Zurzolo non ci sia mai stato chiamato a rispondere di un reato così grave e non per una svista o per benevolenza dei giudici ma perché entrambi sono risultati estranei a tale fatto delittuoso. Infatti gli inquirenti hanno accertato che tra Rosario Zurzolo (incensurato) e Mimmo Lucano non c’è stato alcun rapporto di tipo economico e quindi nessun motivo per cui il primo avrebbe dovuto pagare qualcosa a Lucano. Si deduce che lo Zurzolo si limitava semplicemente a spedire un bonifico perché usava lo sportello bancario on line che il Lucano non aveva. Dov’è il reato? A quanti anni è stato condannato l’ipotetico corruttore di Lucano? Del resto una mazzetta di circa 400 euro mensili pagata con regolare bonifico e con tanto di nome e cognome della persona che invia quanto del destinatario sarebbe una cosa ben strana.
Travaglio sa bene che esiste per i magistrati l’obbligo di perseguire i reati, se in questo caso non l’hanno fatto è perché l’intera vicenda delle rate non contiene assolutamente nulla di illegale, di anomalo, di sospetto, di immorale. A questo punto se io avessi la forza mediatica del dottor Travaglio, vorrei capire perché i giudici hanno scritto nelle motivazioni della sentenza un episodio che non è reato facendolo apparire tale fino al punto da trarre in errore lo stesso direttore del Fatto.
Non muovo un’accusa ma sottolineo un fatto almeno per me incomprensibile. Inoltre vorrei comprendere perché Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni e mezzo di carcere pur in assenza di frequentazione di alberghi o ristoranti di lusso, di macchine fuori serie, di escort, di vestiti griffati, di viaggi costosi, di affari, di depositi alle Cayman. Molti più anni di quelli comminati ai responsabili della Parmalat, della Cirio, del MPS, dei “furbetti del quartierino”, del San Raffaele, del Mose o per andare ancora indietro nel tempo, dello” scandalo petroli”, della maxi tangente Montedison, della Lockheed.
Non difendo Lucano innanzitutto perché Lui lo sa fare molto meglio di me ma anche perché ha ottimi difensori nel processo e la solidarietà di numerose personalità della politica, della cultura e della società civile. E tuttavia mi pongo una domanda: nulla di anormale in tutta questa vicenda? Possibile che dinanzi alle accuse di Travaglio, l’unica a prender carta e penna, sia stata la figlia quasi che sia del tutto normale sputtanare senza appello una persona.
Nella Mecca del giustizialismo che è la Calabria può succedere di tutto. Per esempio, ricordo che anni fa, nello stesso tribunale, un imputato di conclamata appartenenza alla mafia e che ha praticamente e volontariamente ucciso un uomo a colpi di pistola è stato condannato alla metà degli anni di Lucano. Sembrerebbe strano ma, credetemi, non lo è affatto. Strano (e colpevole) è il nostro silenzio. La nostra omertà!
Dal “Fatto quotidiano” il 23 dicembre 2022.
Nell'editoriale del 14 dicembre ("Furti a fin di bene") su sinistra e affari, Marco Travaglio scrive, parlando di migranti e soldi: "Ne sa qualcosa Mimmo Lucano che, a furia di accoglierli a Riace, iniziò a confondere i fondi statali per i migranti col bilancio familiare e divenne il Cetto La Qualunque della sinistra (i viaggi della vorace compagna, la scuola della figlia, la bella vita della sua cricca)". Ci ha scritto la figlia dell'ex sindaco di Riace. Il direttore le ha risposto.
Lettera di Martina Lucano al “Fatto quotidiano”
Ho un vecchio ricordo di scuola, di quando mi iscrissi alle superiori. Quel giorno mi accompagnò mio padre, al Liceo di Locri. Ci fermammo a un bar a prendere una granita. C'era una villetta lì di fianco, molto bella, oscurata da alti cumuli di immondizia che infestavano la via.
Mio padre disse che l'aver pensato al suo bene privato non aveva salvato quel proprietario dalla bruttezza che lo circondava. Questo è un ricordo personale che condivido ora per la prima volta. Quello che tutti sanno invece, è che tanti anni dopo, sempre a Locri, il Tribunale avrebbe giudicato mio padre per presunti illeciti, tra cui l'affidamento diretto della gestione dei rifiuti a una piccola cooperativa riacese, di paesani e immigrati, condotta porta a porta, con asini e carretto.
In un suo editoriale Marco Travaglio scrive che Mimmo Lucano, il "Cetto La Qualunque della sinistra", ha forse confuso il bilancio pubblico con quello della sua famiglia. Ed ha sicuramente ragione, avrebbe dovuto solo aggiungere che ciò è avvenuto a vantaggio della comunità, e con mio estremo orgoglio.
E non faccio retorica. Se Mimmo Lucano è il simbolo (senza averlo ricercato) rimasto in piedi della sinistra è perché è restato saldo al mandato morale del suo ruolo, come sindaco, e già fuori da ogni ruolo, come continua a dimostrare con la stessa passione di sempre, anche ora che istituzionalmente non rappresenta nulla.
Quello di cui non vado orgogliosa sono le mie vulnerabilità, riguardo il mio percorso universitario, lungo e discontinuo, portato avanti con difficoltà sempre maggiore, non solo economica. Ma sempre contando sulle mie sole risorse. Due anni fa sono tornata in Calabria, a lavorare a quattro euro l'ora, e a sentirmi grata nonostante tutto. Tanti, tra cui i difensori legali di mio padre, che lo assistono gratuitamente, hanno insistito sulla nostra condizione di povertà come prova d'innocenza.
Il Giudice ha scritto addirittura che si tratta di una copertura, di un'astuzia. Io vorrei replicare ad entrambi in maniera più radicale, rispondendo che questo è proprio il movente. Un assoluto disinteresse verso l'arricchimento personale, è questo che ha animato l'azione politica di Mimmo Lucano sul territorio, per vent' anni, a Riace, un borgo semiabbandonato, non certo dai palazzi di Bruxelles.
Questa storia è stata documentata in ogni aspetto e comunque mio padre non si è mai sottratto a nessun esame. Ho un ultimo ricordo legato alla scuola, e si tratta della scuola elementare di Riace. Il primo giorno i miei genitori mi chiesero se avessi con me "la colazione", e di stare attenta a chi era senza. Oggi quell'istituto è chiuso, era riuscito ad andare avanti negli ultimi anni grazie ai bambini stranieri.
Solo grazie alla loro presenza. Il bene pubblico che abbiamo difeso e continuiamo a difendere. Sulle pareti di quell'edificio scolastico c'è un murales che ritrae la testa di un Bronzo di Riace a colori accesi, l'artista l'ha intitolato Il sogno del guerriero, e io spero ancora che non sia un sogno infranto, quello di vedere la vita, e solo quella, venire dal mare.
Risposta di Marco Travaglio
Cito tre passaggi della sentenza di primo grado del Tribunale di Locri, che ha condannato Mimmo Lucano: egli "non ha detto alcuna parola sulle ragioni di fondo per le quali Zurzolo Rosario (legato alla gestione del progetto Eurocoop di Camini e alle stesse logiche perverse dell'accoglienza da lui poste in essere in Riace) ha versato mensilmente a sua figlia, per svariati mesi, i soldi dell'affitto di una casa in Roma, risultando essere suo debitore per motivazioni che sono apparse più che opache (per come si trae dalle intercettazioni in atti)".
"Monitorando il conto corrente dello Zurzolo, è emerso che dal mese di gennaio del 2015 fino a quello di novembre del 2016 ha versato mensilmente a tale... il canone d'affitto dell'appartamento romano della figlia di Lucano, a nome Martina, che studiava all'università, per un totale di 9.200 euro; somma che non è stata, quindi, prelevata dallo stipendio dell'ex Sindaco di Riace (che ammontava a poco più di mille euro), il quale, peraltro, per molti mesi non ha mai effettuato alcun prelievo dal suo conto corrente per vivere, come invece avrebbe ordinariamente fatto un normale uomo medio che fosse effettivamente vissuto del suo solo reddito".
"Le menzogne oramai messe in circolo (da Lucano, ndr) assumevano, però, i toni più drammatici nel corpo della successiva intercettazione telefonica, captata quello stesso 06.10.2017 con il figlio Lucano Roberto. Trattasi di un dialogo doloroso e triste, nel corso del quale il ragazzo chiedeva conto al proprio genitore delle gravi accuse che gli venivano mosse dagli inquirenti e delle motivazioni per le quali aveva compiuto le distrazioni che gli venivano imputate.
In tutta risposta Lucano, senza recedere di un millimetro dalla falsa rappresentazione dei fatti che aveva deciso di accreditare, continuava a mentire anche di fronte a suo figlio e, pur ammettendo di aver distratto soldi che servivano per gli stranieri e che non potevano essere impiegati in altre finalità, spiegava che però lo aveva fatto per migliorare l'integrazione complessiva dei migranti, mediante acquisto di un frantoio e di fattorie didattiche.
Il ragazzo, tuttavia, mostrando elevata rettitudine e senso dello Stato, a fronte delle poco convincenti giustificazioni che il proprio genitore tentava di dargli, chiudeva il discorso, in modo deciso, dicendogli con estrema semplicità: 'Questi è ovvio che erano fondi destinati... poi erano soldi della Comunità europea'. E allorché il padre cercava di insistere, riprendendo il discorso di prima, il ragazzo lo stoppava dicendogli: 'Ho capito, ma... lo so, lo so, però la Comunità europea dice: 'I soldi non erano destinati a quello'...".
(ANSA mercoledì 11 ottobre 2023) - - Crollano in appello le accuse contestate all'ex sindaco di Riace Domenico "Mimmo" Lucano. I giudici della Corte d'appello di Reggio Calabria, infatti, lo hanno condannato ad un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della Procura generale di 10 anni e 5 mesi e stravolgendo la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che gli aveva inflitto 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d'ufficio.
Dalla lettura del dispositivo emerge che la Corte ha assolto Lucano dai reati più gravi. La Corte ha assolto tutti gli altri 17 imputati. La sentenza della Corte d'appello di Reggio Calabria, presieduta da Elisabetta Palumbo, è giunta dopo 7 ore di camere di consiglio ed ha riformato profondamente la sentenza del settembre 2021 dal Tribunale di Locri che aveva condannato Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione nel processo scaturito dall'inchiesta "Xenia" su presunte irregolarità nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel Comune di Riace.
Lucano è stato condannato per un falso in relazione ad una delibera del 2017 mentre sono stati assolti tutti gli altri 17 imputati del processo che, in primo grado, erano stati giudicati colpevoli. L'ex sindaco di Riace era accusato di diversi reati. Il più grave era quello di essere il promotore di un'associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita dei fondi destinati ai progetti Sprar e Cas. Tra i reati contestati dalla Procura generale all'ex sindaco di Riace anche la truffa aggravata, abuso d'ufficio, diversi falsi e un peculato. Tutti reati caduti in appello, tranne un falso.
La sinistra tira un sospiro di sollievo: Mimmo Lucano è santo. La sentenza di appello riduce la condanna di primo grado contro Mimmo Lucano: da 13 anni e 6 mesi a 1 anno e 6 mesi. Matteo Milanesi su nicolaporro.it il 12 Ottobre 2023.
Una condanna di primo grado a 13 anni e 6 mesi di carcere ad una di appello di 1 anno e 6 mesi. È questo l’esito della sentenza di secondo grado nel processo contro Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace, osannato a sinistra per aver instaurato un sistema migratorio orientato sui principi di solidarietà ed accoglienza, dietro però la vicenda giudiziaria – iniziata nel 2017 – che lo vedeva imputato per vari tipi di reati, tra cui associazione a delinquere.
La vicenda di Mimmo Lucano
Ma riassumiamo brevemente la storia del procedimento. Secondo l’accusa, l’ex primo cittadino avrebbe intascato i soldi del ‘modello accoglienza’ per garantirsi una ricchezza personale una volta andato in pensione. Un orientamento che poi è stato accolto nella sentenza di primo grado, dove Lucano è stato condannato a più del doppio della pena richiesta dai pubblici ministeri (13 anni e 6 mesi). Tra i 21 reati imputati, vi erano falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio, truffa, fino ad arrivare appunto all’associazione a delinquere.
Lo scenario si ribalta però in appello, dove l’ex sindaco – nonostante la caduta delle accuse più pesanti – è condannato ad 1 anno e 6 mesi per falsità materiale ed ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Le motivazioni della sentenza devono essere ancora pubblicate, ma le riduzioni della pena dovrebbero essere viste sotto almeno due profili.
Il primo: la Corte d’Appello dichiarato il non luogo a procedere per difetto di querela per alcuni reati e concesso la sospensione condizionale della pena per altri. A ciò, si aggiunge il mutamento del calcolo della pena, dove in primo grado erano stati individuati due disegni criminosi (oltre 10 anni per il primo e 2 per il secondo), che portarono appunto ad una condanna addirittura superiore rispetto a quella richiesta dall’accusa.
Doppiopesismo a sinistra
Ma il dato più curioso riguarda l’esultanza della sinistra all’esito della sentenza d’appello. L’Espresso parla addirittura di “giustizia è fatta”; il Domani non parla di condanna, bensì di assoluzione da “quasi tutte le accuse”; oppure Today scrive di Mimmo Lucano come “uomo perbene”. Insomma, un atteggiamento garantista che non ha riguardato tanti esponenti del centrodestra in passato. Tanto per citare il più importante, l’ex premier Silvio Berlusconi, al centro di eterne congetture nonostante le continue assoluzioni nel corso degli anni.
Questa volta, però, la sinistra si riscopre garantista: non è più il principio di presunzione di colpevolezza ad essere la spada di Damocle dei progressisti, ma verso i propri ‘kompagni’ ecco che rispunta improvvisamente la presunzione di innocenza. Peccato che, in questo caso, la condanna nei confronti dell’ex sindaco di Riace è arrivata. Eppure, abbiamo una novità: una riduzione della pena dal primo al secondo grado significa assoluzione. Si badi bene, però: questo vale solo per gli esponenti progressisti, che vengono travestiti pure da eroi.
Intervista a Mimmo Lucano: «Mi hanno distrutto ma non provo rancore. Riace non morirà mai». Parla l'ex sindaco, la cui condanna è stata fortemente ridimensionata dai giudici di secondo grado: «Salvini? Abbiamo visioni del mondo e della vita completamente differenti, non potrei mai accettare una politica da Stato di polizia, in cui la vita delle persone conta meno della burocrazia». Simona Musco su il Dubbio il 13 ottobre 2023
Riace è un via vai di gente. Non solo da mercoledì, quando i giudici della Corte d’Appello hanno sancito che Mimmo Lucano non ha sfruttato l’accoglienza per un proprio tornaconto, ma dal 1998, quando uno sbarco di curdi rese il paesino dei bronzi crocevia di popoli. «Ho sofferto molto», racconta l’ex sindaco finito a processo per quell’utopia della normalità che altro non è se non la convivenza pacifica tra i popoli. Ma da quel dolore è nata un’altra speranza: «Subito dopo la condanna in primo grado - racconta - ho sentito forte, attorno a me, l’indignazione di molti. Pensavo tutto fosse finito, invece quell’accoglienza che sembrava destinata a morire è rinata. Ancora una volta spontaneamente».
Da 13 anni e 2 mesi a un anno e mezzo il passo è grande. Come si sente a cinque anni dall’arresto che ha stroncato la sua attività politica?
Non provo rancore, non voglio vendetta. Ma ho sempre pensato che qualcosa non tornava. Quella inchiesta non aveva a che fare con la mia storia, con il mio impegno, con i miei ideali. Era un mistero. Era facile dichiararsi innocente, ma non ho mai voluto sconti o condizioni particolari. Non mi sono sentito un “prigioniero politico” e non volevo sembrarlo: se ho sbagliato, ho sempre detto, devo pagare. Era una questione d’orgoglio per il mio impegno politico, legato anche alle rivendicazioni non vittimistiche di una terra che, spesso, viene rappresentata per luoghi comuni. Non miravo solo ad accogliere, ma anche a riscattare la Calabria, legata all’immagine negativa della criminalità organizzata.
Cosa ha pensato dopo l’assoluzione?
Il mio primo pensiero, dopo la sentenza, è andato ad Antonio Mazzone, uno dei miei difensori, morto durante il processo. Sin dal primo istante, mentre la procura si difendeva dall’accusa di voler fare un processo politico, ha deciso di dedicarsi anima e corpo, gratuitamente, per inseguire lo stesso sogno, lo stesso ideale di giustizia e di riscatto.
Come si spiega questa differenza abissale tra primo e secondo grado?
Me lo domando pure io. L’accoglienza ha avuto sin da subito la fisionomia di un riscatto politico. I primi profughi, nel 1998, provenivano dal Kurdistan. Sono arrivati dicendo: non vogliamo l’elemosina, ma giustizia per il nostro popolo, libertà. Erano combattenti per la libertà ed io sono diventato uno di loro. Questo è stato Riace e la cosa più dura è stata la volontà di stravolgere questa storia. C’è una differenza abissale tra Riace e il racconto criminale che ne è stato fatto. La stessa distanza che c’è tra queste due sentenze.
È tutta l’idea di sistema che viene spazzata via: nessuno ha commesso reati, secondo questa sentenza. Vuole sapere chi erano i miei “complici”?
Monsignor Bregantini, che in aula ha definito quella di Riace una storia profetica. Padre Alex Zanotelli, che ha speso la vita nelle baraccopoli cercando la luce per le persone povere. Giovanni Ladiana, uno straordinario prete antimafia, il missionario scalabriniano Salvatore Monte. Questa era la mia “associazione a delinquere”. Come poteva essere un crimine la solidarietà? Questo me lo devono spiegare. La mia storia giudiziaria inizia nel 2016, negli anni delle leggi più repressive contro chi si occupa di solidarietà, contro i salvataggi in mare, le ong. Riace era stata presa come esempio: in un’area il cui destino sembra segnato, l’accoglienza aveva prodotto un valore straordinario, capace di rigenerare le realtà. Era diventata un’indicazione per il mondo: raccontava che le migrazioni non sono un’invasione, come ci raccontano oggi, dove ad essere criminalizzate sono addirittura le vittime. Avevamo dimostrato che si poteva fare accoglienza con umanità e che i migranti erano preziosi cittadini per la rinascita dei luoghi. E hanno messo in piedi un teorema.
Ma qual era il messaggio pericoloso di Riace?
La risposta è semplice: le destre hanno costruito tutto il loro consenso politico su questo unico argomento, il contrasto all’immigrazione. I termini che usano sono ormai nel vocabolario di tutti, occupano tutti gli spazi con l’egoismo. Si vogliono rafforzare i confini, si invoca la sicurezza, che giustifica la produzione delle armi, giustifica la guerra e la morte. Riace era la prova che tutto questo non è necessario.
Mentre parliamo Roberto Saviano viene condannato per aver criticato pesantemente queste politiche. Vuole dirgli qualcosa?
Che ha tutta la mia solidarietà. È stato tra i primi a capire che non era una storia criminale, la nostra. Mi auguro che ne esca completamente, lui così come tutti coloro che combattono per la libertà.
Qual è stato il momento peggiore?
La condanna a 13 anni e due mesi, il 30 settembre 2021. Mi sembrava tutto finito, ero smarrito, sconfortato. Non capivo perché stesse accadendo. Non avevo fatto nulla di ciò di cui mi accusavano, non ci avevo guadagnato nulla, anzi, avevo distrutto la mia famiglia, ho creato loro tanti problemi. Facevo il sindaco, ma non ho mai pensato di approfittare del mio ruolo. Ho pagato di tasca mia le carte d’identità che mi venivano contestate. La generosità è reato? Ok, magari posso aver fatto degli errori amministrativi. Ma come si può voler condannare qualcuno che fa una carta d’identità per un bambino di 4 mesi che altrimenti non può curarsi? Gli aspetti burocratici possono prevalere sulla vita delle persone? Becky Moses è morta bruciata in una tendopoli per colpa di norme restrittive che le impedivano di fare ricorso contro il diniego del riconoscimento dello status. La carta d’identità che le ho fatto ha consentito di identificare il suo corpo. Mi hanno detto che non potevo, ma sono orgoglioso di averlo fatto: prima veniva la vita di una ragazza in viaggio con una speranza che si chiama vita, poi la burocrazia.
Oggi le politiche sono quelle che lei contrasta.
La propaganda su cui si fondano hanno fatto diventare la società egoista e si scontrano con gli ideali che io inseguo. C’è una visione delle cose che rifiuta i valori sociali, il senso di fraternità, la dignità delle persone, i diritti umani. È sorprendente che riescano ad avere consenso. Hanno instillato paura, quella che noi avevamo dimostrato essere inutile: abbiamo solo vissuto nella normalità dei rapporti umani.
Dopo la condanna come si è rialzato?
Quella sentenza, paradossalmente, è stata l’occasione per una rinascita. Qualche giorno dopo ho ricevuto una telefonata da piazza Montecitorio. C’era tanta gente e a chiamarmi era Luigi Manconi. Sentivo centinaia di voci protestare contro la mia condanna, sentivo molta indignazione e solidarietà. Ho sentito parole bellissime. Era l’inizio di una raccolta fondi per pagare la mia multa da 700mila euro. Ma non mi importavano i soldi, mi importava sapere che tanti condividevano il mio stesso sogno.
Quei soldi che fine hanno fatto?
Non ho mai voluto che qualcuno pagasse per me quella sanzione. Era una questione di principio. Ma quei fondi - in poco tempo hanno raccolto quasi 400mila euro - non potevano essere usati per altro. Così li ho autorizzati ad usarli per fare accoglienza a Riace. Quei soldi, ora, tengono in vita il villaggio globale, pagano le borse lavoro per le famiglie di rifugiati, hanno salvato quell’idea di accoglienza. Sono tornato a fare, istintivamente, ciò che ho sempre fatto. Come vedete non era una questione di potere politico.
A proposito, vuole tornare a fare politica?
Ma fare politica cosa vuol dire? La facciamo anche respirando. Non me ne sono mai allontanato. Posso essere sindaco, un volontario, un cittadino attivo: mi basta partecipare. L’accoglienza è il mio orizzonte. E quello che uno è prescinde dal ruolo che occupa. Il senso della politica, spesso, si perde nei formalismi.
Vuole dire qualcosa a chi ha esultato per il suo arresto e la sua condanna, ovvero Matteo Salvini?
Posso dire solo che abbiamo visioni del mondo e della vita completamente differenti. Non potrei mai accettare una politica da Stato di polizia, una politica in cui la vita delle persone conta meno della burocrazia.
Matteo Milanesi, 12 ottobre 2023
Estratto dell'articolo di Enrico Ferro per "la Repubblica" il 19 dicembre 2022.
Dopo più di 20 anni nell'accoglienza dei migranti, don Luca Favarin, il prete degli ultimi, capelli lunghi e sciarpa arcobaleno sempre al collo, è stato sospeso "a divinis" dalla Diocesi di Padova.
Significa che non potrà più celebrare messa, battezzare, confessare, sposare. Lui se ne va sbattendo la porta, dopo un confronto duro con il vescovo Claudio Cipolla, che non condivide la modalità di quel sistema di accoglienza.
Don Favarin ha aperto bar, tavole calde, mense, ristoranti, addirittura un villaggio per minori non accompagnati. Le sue idee hanno incontrato il favore dell'imprenditoria progressista padovana e questo ha generato, negli anni, una realtà che si sostiene e funziona. Una realtà che produce utili. Ma la Diocesi padovana non transige: «Non possiamo essere coinvolti nelle sue attività a carattere imprenditoriale». E quindi addio, ognuno per la propria strada. (…)
Quante cooperative avete e con quale volume d'affari?
«Abbiamo Percorso Vita, Percorso Altro e Percorso Terra: il volume d'affari è di circa 1 milione e 700 mila euro l'anno. I soldi vengono reinvestiti nell'attività: non ci sono consulenti da pagare o gettoni di presenza, e nemmeno compensi per consiglieri del cda».
Chi la paga?
«Ogni Comune che affida a noi un minore paga una retta. Ogni anno togliamo dalla strada 160 ragazzi. Arrivano che sono criminali, analfabeti, abusati. Noi lavoriamo con l'inserimento scolastico e poi lavorativo. Abbiamo aziende amiche che li assumono, che li testano. Alla fine del percorso vengono inseriti in società con un loro lavoro e una casa». (…)
Come mai ha deciso di fare il primo passo per l'uscita dallo stato clericale?
«Ormai mi avevano estromesso da tutto: dicevo solo una messa a settimana, la domenica. Altri preti sniffavano e andavano a puttane, e nei loro confronti hanno avuto molto più riguardo. Io faccio accoglienza e per questo sono stato allontanato. Mi sono stancato di sopportare».
Secondo lei papa Francesco è d'accordo con la linea intransigente della Diocesi di Padova?
«Mi dicono di andare a parlare con il Papa ma io non lo farò mai. Sono un pacifista. Non faccio la guerra, nemmeno al vescovo che mi vuole cacciare».
In 20 anni ha messo su una rete di accoglienza che funziona ma non piace alla Chiesa. Chi è don Luca Favarin, il prete sospeso a Padova: le battaglie per i migranti, la cooperativa e il ristorante. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Dicembre 2022
“Da oggi sospeso a divinis ai sensi del can. 1333.1 del diritto canonico. Sic transit gloria mundi. Ma resta e resterà sempre la felicità e la forza di una vita che ci coinvolge per servire e amare con serenità e un cuore abitato dalla gioia”. Così Don Luca Favarin ha annunciato su Facebook la decisione della Chiesa padovana di sospenderlo dalle sue funzioni di prete. Il parroco non potrà più celebrare la messa battezzare, confessare, sposare. Una decisione che arriva dopo le sue numerose battaglie e l’impegno per i migranti. In particolare la Chiesa punta il dito contro la sua gestione dell’accoglienza e la rete di attività messe in piedi e giudicate troppo “a carattere imprenditoriale”. Don Favarin ha aperto bar, tavole calde, mense, ristoranti, addirittura un villaggio per minori non accompagnati. Una modalità che funziona e si autosostiene che però non è piaciuta al vescovo. E così, dopo più di 20 anni di attività don Luca è costretto a fare un passo indietro.
“Umiliazione? Frustrazione? – continua nel post su Facebook accanto a una foto che lo vede con le spalle alla chiesa camminare lungo il viale – Io oggi mi sento come Mosè che, spalle a un luogo diventato ormai di potere e oppressione, guarda in avanti alla ricerca di una terra promessa”. Secondo quanto riportato dal Corriere, le tensioni con la Chiesa sono iniziate già da tempo per la rete di gestione dell’accoglienza dei migranti messa in piedi da don Luca. Tra le sue attività a Padova si contano, oltre al villaggio Kidane, in cui accolgono i migranti, anche il bar Versi ribelli, la Caffetteria al Museo Eremitani e il Ristorante etico Strada Facendo. Una rete in cui la Chiesa padovana vedeva un indirizzo troppo “lucrativo”.
“Pur riconoscendo lo spirito umanitario e solidale che anima l’operato di don Luca Favarin, da parte sua non si è trovata condivisione di metodo – comunicava una nota – la Diocesi pertanto non può essere coinvolta nelle sue attività, che vengono ad assumere carattere imprenditoriale”. A fare male per don Luca non è solo la decisione ma il modo: “Tutto questo senza che una volta, una sola volta in 20 anni, l’istituzione ecclesiastica sia venuta in comunità, mi siano state chieste le ragioni, abbiano ascoltato le radici cristiane, ecclesiali e comunitarie con cui facciamo le cose.. senza guardare ma solo vedendo dalla finestra del palazzo. Si accoglie questo in silenzio e senza rabbia alcuna”, ha spiegato su Facebook.
I numeri che girano intorno alle attività di don Luca, che riveste il ruolo di presidente della cooperativa, sono importanti, segno che le attività funzionano bene. E riscontravano anche un certo favore nel contesto dell’imprenditoria progressista padovana. Una realtà che si autosostiene, funziona e che produce utili. “Abbiamo Percorso Vita, Percorso Altro e Percorso Terra: il volume d’affari è di circa 1 milione e 700 mila euro l’anno. I soldi vengono reinvestiti nell’attività: non ci sono consulenti da pagare o gettoni di presenza, e nemmeno compensi per consiglieri del cda”, ha detto don Luca in un’intervista a Repubblica. Racconta che ogni Comune che affida alle sue attività un minore paga una retta. Ogni anno riesce a togliere dalla strada 160 ragazzi che arrivano in condizioni disperate e dopo il percorso scolastico e lavorativo riesce a inserirli nella società a dare loro un futuro con un lavoro e una casa.
E spiega: “La Chiesa mi contesta sul piano metodologico: è il modo in cui si lavora con i poveri che non va. Noi pensiamo che i poveri non siano sono solo destinatari di attenzione e carità, ma sono anche artefici di qualità, con percorsi di autonomia. Per noi i migranti devono essere protagonisti dell’accoglienza”. E con piglio pragmatico spiega: “Noi non possiamo aspettare l’elemosina della gente. La nostra attività deve essere solida, solo così si sostiene. Con cosa pago gli operatori? Con le Ave o Maria? Con cosa do da mangiare ai ragazzi? I nostri dipendenti sono tutti pagati con contratti nazionali, è tutto trasparente”. Il parroco spiega che i bilanci della cooperativa sono trasparenti e affidati a Confcooperative proprio per non avere problemi con la gestione del denaro.
Don Luca ha sempre portato battaglie in difesa dei diritti della comunità Lgbt e espresso posizioni sul fine vita in contrasto con la Chiesa. “Ma come posso essere testimone dell’inclusione e poi avere atteggiamenti escludenti?”, spiega. Dopo la sospensione a divinis da parte della Diocesi di Padova ha deciso di allontanarsi con grandissimo dispiacere. “Magari ci sono preti che vanno a prostitute e tirano di cocaina – ha detto – ma verrebbero trattati meglio…”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
"Mano razzista e fascista": la gaffe del "prete dei migranti". Il post commemorativo dell'omicidio di due senegalesi di don Massimo Biancalani, ha attirato la critica dei suoi concittadini di Pistoia. "Quindi siamo tutti razzisti?" hanno commentato in risposta ad un'apparente generalizzazione contenuta nel post. Giovanni Fiorentino il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Ha "postato" una targa commemorativa in memoria di due cittadini senegalesi uccisi a Firenze ormai undici anni fa (nel 2011) da un cinquantenne di Pistoia. Peccato solo che, nel condannare il gesto sulla pagina Facebook della parrocchia, abbia tanto indirettamente quanto indistintamente accusato di razzismo un'intera comunità, che invece razzista non è. E quella che è a quanto pare stata intesa come una goffa generalizzazione grossolana non gli è stata perdonata nemmeno dai suoi stessi sostenitori, alcuni dei quali lo hanno apertamente criticato invitandolo a non generalizzare. Questa la "gaffe" della quale sarebbe stato protagonista sui social network don Massimo Biancalani, il "parroco dei migranti" di Vicofaro (una frazione del Comune di Pistoia, in Toscana) che da anni ospita rifugiati nella sua chiesa.
A scatenare la discussione è stata un'immagine che il parroco toscano ha pubblicato su Facebook: "Per Mor Diop e per Samb Modou, uccisi da mano razzista e fascista - 13 dicembre 2011". Una targa che si riferisce all'omicidio di due stranieri avvenuto oltre un decennio fa nella vicina Firenze, quando Gianluca Casseri aprì il fuoco contro alcuni africani che esponevano la propria mercanzia sui banchi del mercato di un quartiere fiorentino particolarmente affollato. Casseri, che stando alle cronache dell'epoca si tolse la vita dopo l'azione compiuta, viveva da qualche tempo a Firenze, ma era originario di Pistoia (di Cireglio per l'esattezza, un piccolo borgo dell'Appennino). E a far storcere il naso a ben più di qualche navigante non è ovviamente stata la foto, quanto la didascalia aggiunta da don Biancalani a proposito dell'origine dell'esecutore della "strage dei senegalesi".
"Mano razzista e fascista pistoiese - ha infatti scritto - Pistoia ha già dimenticato?". E nemmeno chi di solito sostiene le sue iniziative di solidarietà ha gradito quella che è stata recepita come una sorta di insinuazione: tanti i commenti contrari di chi continua a condannare gli omicidi in questione, prendendone le distanze, ma che al tempo stesso ricorda come affibbiare l'etichetta di "razzista" non eventualmente ai singoli, ma ad un'intera provincia (se non a tutta la Regione) sia profondamente sbagliato. "La violenza non ha colore" gli ha fatto notare un suo stesso sostenitore. "Quindi, per la proprietà transitiva, tutti i pistoiesi e tutti i toscani sono razzisti e fascisti? - fa eco un'altra utente - non fa una piega". "Da un prete ci si aspetterebbe la condanna per ogni omicidio" ha aggiunto una terza persona. Non è infine mancato chi gli ha suggerito di dedicare una targa anche a Desirèe Mariottini e Pamela Mastropietro, uccise da giovani stranieri.
L'idea di Italia della sinistra: si ai migranti, no alle Frecce Tricolori. Andrea Soglio su Panorama il 19 Settembre 2023.
Diversi esponenti del Pd hanno detto la loro questi giorni su due temi che raccontano quale sia l'idea di Italia cui aspirano
Settimana scorsa in tv alla domanda su quale fosse la posizione del Pd sull’aumento delle spese per la difesa Elly Schlein, ha così risposto ai due giornalisti attoniti: «quando saremo al governo ce ne occuperemo». Frase che fece fare al segretario del Pd una brutta figura davanti alle telecamere e che diede modo a molti opinionisti, compreso il sottoscritto, di accusare i dem di non avere idee e strategie politiche. Ci siamo sbagliati tutti. Perché la realtà di oggi ci porta davanti, chiara e virgolettata, quale sia la linea politica del Partito Democratico su due situazioni e tematiche fondamentali. La prima ovviamente riguarda i migranti. Anche qui, dalla segreteria oltre alle dovute critiche al governo (lo hanno fatto sempre tutti i partiti di opposizione) non sono arrivate soluzioni ma sono stati altri noti esponenti dem a darci in maniera chiara il loro pensiero. Prendiamo ad esempio il sindaco di Bologna, Matteo Lepore che davanti all’emergenza sbarchi e soprattutto al post-sbarchi ecco che ha ricordato come «Noi (plurale) non diremo mai no all’accoglienza». Insomma, dalla città simbolo del comunismo italiano arriva un’indicazione chiara: porti e braccia aperte per tutti. Un’opinione condivisa da altri primi cittadini di sinistra. Punto due. Dopo l’incidente che ha coinvolto l’aereo delle Frecce Tricolori a Torino ecco che sono tornate a farsi sentire le voci del mondo culturale e giornalistico di sinistra arrivate a chiedere a gran voce «l’abolizione» della Pattuglia Acrobatica. Nell’ordine: «Sono uno spreco di soldi e strumento di propaganda guerrafondaia» (Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione Comunista); «Ma, di preciso, a che c…. servono le Frecce Tricolori» (Frankie Hi-nrg, rapper); «Ora basta con Frecce tricolori e parate militari varie» (Tomaso Montanari); «Frecce Tricolori da abolire subito, provocano tragedie» (Lidia Ravera, scrittrice). La scelta della pancia del partito, che non è IL Pd ma sono quelli che lo sostengono da fuori e che alle primarie hanno scelto la Schlein e non Bonaccini, è chiara: accoglienza per tutti e stop alle spese militari in qualsiasi forma esse si manifestino. Un’Italia senza armi ma piena di migranti. Una scelta legittima, una visione chiara, un’idea di paese molto netta. Siamo certi che questa sia anche la visione di Elly Schlein cui però manca il coraggio di dirlo apertamente anche perché sa benissimo che questa visione non piace alla stragrande maggioranza degli italiani. E così si traccheggia condannati all’opposizione per i prossimo 4 anni. Ps. A chi chiede lo stop agli eventi delle Frecce Tricolori per i costi basta rispondere con l'indotto che generano nelle località che ospitano tali eventi. Alla fine sono un guadagno, anche per l'erario.
Quelle profezie di Andreotti e Craxi. "Arriveranno a milioni, sarà inarrestabile". I due leader invocavano un piano per l'Africa. "Qui non c'è un paradiso per loro". Paolo Bracalini il 21 Settembre 2023 su Il Giornale.
«Non dobbiamo promettere un paradiso che non esiste, questo significa che dobbiamo regolare il flusso immigratorio nelle forme più idonee, avendo ben chiaro che la trasmigrazione dal sud al nord continuerà. Occorre pertanto mettersi in condizioni di potere affrontare a risolvere i problemi che questo comporta. Diversamente, faremmo del male a loro e a noi stessi». È il 1990, il Parlamento sta discutendo una nuova norma sull'immigrazione che prenderà il nome di legge Martelli, dall'allora vice presidente del consiglio socialista Claudio Martelli (governo Andreotti). Bettino Craxi, leader del Psi, ha un quadro molto chiaro e a trent'anni di distanza profetico sul fenomeno ancora agli albori. Il quel momento gli immigrati (si chiamano ancora così, non «migranti») sono un problema molto relativo, la questione diventerà argomento pubblico solo l'anno dopo, con lo sbarco della nave Vlora, a Bari, carica albanesi. Ma l'immigrazione di massa con i barconi dal nord Africa verso l'Italia è qualcosa che non esiste ancora. Craxi però vede avanti. «Bisogna aiutare lo sviluppo delle economie del bacino del Mediterraneo, di paesi ad alto tasso demografico ma senza posti di lavoro. Sono paesi che vedono la televisione italiana, che vivono ormai in simbiosi con noi, e i loro abitanti sanno che a una notte di nave o a un'ora di volo ci sono le luci della citta». Due anni dopo, in un incontro elettorale del Psi sulla politica estera, Craxi disegna uno scenario futuro che, riletto adesso, mette i brividi per la precisione: «Le popolazioni (del Terzo mondo, ndr) sono soggette a un tasso di incremento demografico che è ancora molto alto. Sono iniziate correnti emigratorie e immigratorie che in assenza di un accelerato processo di sviluppo che abbracci tutta la riva sud del Mediterraneo sono destinate a gonfiarsi in un modo impressionante. E saranno delle tendenze inarrestabili e incontrollabili. Paesi con popolazioni giovanissime i quali vanno naturalmente verso le luci della città se noi non accenderemo un maggior numero di luvadel Psi, definendo l'immigrazione «la questione sociale del nostro secolo».
Anche Giulio Andreotti, più volte premier e ministro degli Esteri, aveva previsto quanto sarebbe accaduto anni dopo. In un Meeting di Rimini, nell'agosto 1991, metteva in guardia dagli effetti che l'esplosione demografica dell'Africa insieme al mancato sviluppo dell'Africa avrebbe avuto per l'Europa, e l'Italia in particolare: «Ci saranno milioni e milioni di persone che sfonderanno i confini dell'Europa. Sarà la marcia dei Tartari, sarà qualcosa di straordinariamente inarrestabile se non intensificheremo quello che stiamo facendo, se noi non mettiamo questi paesi in condizione di avere una condizione di vita che sviluppi la loro vocazione artigianale, turistica, industriale» spiegava Andreotti. Ipotizzando già «aiuti ai tunisini, ai libici». Il primo sbarco a Lampedusa sarebbe arrivato solo un anno dopo, nell'ottobre del 1992: 72 immigrati. Numeri ancora irrisori. Da lì in avanti, l'invasione prevista da Craxi e Andreotti, trent'anni fa.
Dagospia 16 settembre 2023. “CI SARANNO MILIONI DI PERSONE CHE SFONDERANNO I CONFINI DELL’EUROPA” – ANDREOTTI AVEVA PREVISTO IL DRAMMA E I PROBLEMI DELL’IMMIGRAZIONE SELVAGGIA - IL "DIVO GIULIO" FU MINISTRO DEGLI ESTERI DEL GOVERNO CRAXI (1983): ERA QUESTA LA DEMOCRAZIA CRISTIANA CHE AVEVA SEMPRE LO SGUARDO LUNGO BEN OLTRE IL PROPRIO NASO IN UN QUADRO DI PARTITI CHE AVEVANO RIFERIMENTI CULTURALI DIVERSI E STRUTTURA DEMOCRATICA, MA MAI PERSONALIZZATA...
Immigrazione, la profezia di Giulio Andreotti: "Sarà la marcia dei tartari". Libero Quotidiano il 19 settembre 2023
L'Italia è alle prese con un'ondata migratoria inarrestabile, drammatica, travolgente. L'hotspot di Lampedusa è al collasso, dunque soltanto per citare due dei fatti degli ultimissimi giorni la rivolta a Porto Empedocle. Tanto, troppo. Anche l'Europa, almeno con Ursula von der Leyen e la sua visita in Sicilia, sembra essersene resa conto. E il premier, Giorgia Meloni, soltanto ieri - lunedì 18 luglio - in CdM ha varato un pacchetto di nuove norme che consentiranno di vagliare le richieste di asilo in maniera esaustiva, prendendosi "tutto il tempo necessario". E ancora, la stretta sui Centri di permanenza per i rimpatri. Un primo passo per contrastare ciò che, per citare un'altra voce, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha paragonato alle invasioni barbariche.
Ed è in questo contesto che, sui social, sta diventando virale alla velocità della luce un vecchio video dal sapore profetico. Protagonista del filmato è l'ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Erano le 17 del 30 agosto 1991 e l'allora Senatore a vita della parlava in veste di relatore al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, moderato da Roberto Formigoni.
Nel corso del suo intervento - si parlava proprio di immigrazione - l'uomo simbolo della Dicci spiegava che milioni e milioni di persone avrebbero varcato i confini dell’Europa: "Ci saranno milioni e milioni di persone che sfonderanno i confini dell’Europa. Sarà la marcia dei Tartari se non intensificheremo quello che stiamo facendo, se noi non mettiamo questi paesi in condizione di avere una condizione di vita che sviluppi la loro vocazione artigianale, turistica, industriale”. Un insospettabile, Andreotti. E a 32 anni di distanza, quelle parole, fanno riflettere. E soprattutto dovrebbero far riflettere chi, sinistra in primis, tutt'oggi nega l'emergenza o, peggio, predica la politica dei porti aperti.
Luca Josi per Dagospia sabato 16 settembre 2023.
Bettino Craxi il 14 febbraio 1992 è a Venezia. Dal dicembre del 1989 era stato nominato Rappresentante del Segretario Generale dell’ONU per i problemi del debito del terzo mondo. Accanto ha Gianni De Michelis: “Le popolazioni sono soggette a un tasso di incremento demografico che è ancora molto alto. Sono iniziate correnti emigratorie e immigratorie che in assenza di un accelerato processo di sviluppo che abbracci tutta la riva sud del Mediterraneo sono destinate a gonfiarsi in un modo impressionante.
E saranno delle tendenze inarrestabili e incontrollabili. Paesi con popolazioni giovanissime i quali vanno naturalmente verso le luci della città se noi non accenderemo un maggior numero di luci in quei paesi. In realtà le grandi nazioni ricche del mondo non compiono o non sono ancora in condizione di compiere lo sforzo che viene considerato necessario per ridurre queste distanze. Le distanze sono assai grandi sono abissali ed è questa, ripeto, la questione sociale del nostro secolo”.
Tendenze inarrestabili e incontrollabili. Tre giorni dopo, il 17 febbraio, arrestarono Mario Chiesa e iniziò, formalmente, Mani Pulite e la seconda, terza, ennesima repubblica che ci ha accompagnati verso questi trent’anni di fulgida trasparenza, floridità e sicurezza fino a una promessa di sconfitta della povertà (per ora rimandata).
Per l’immigrazione, problema locale africano o giù di lì, c’era evidentemente tempo. Non è stato sicuramente un complotto, ma di certo quella rivoluzione italiana, come poi le rivoluzioni delle primavere arabe, hanno portato solo dei pesanti autunni. L’inverno sta arrivando: per l’Europa. E viene da Sud.
Un eurocomplotto contro l'Italia. I tradimenti della Ue sul dossier migranti con la regia del Pd. Gian Micalessin il 14 Settembre 2023 su Il Giornale.
Se volete un mandante, o un colpevole, per i 6mila migranti sbarcati tra martedì notte e mercoledì bussate alle porte di Bruxelles. O a quelle del Pd
Se volete un mandante, o un colpevole, per i 6mila migranti sbarcati tra martedì notte e mercoledì bussate alle porte di Bruxelles. O a quelle del Pd. Nonostante siano trascorsi due mesi dalla firma del Memorandum che prevede l'erogazione «immediata» alla Tunisia di 150 milioni di euro destinati a ridar fiato alle disastrate finanze del Paese nordafricano e di 105 milioni indispensabili per bloccare le sue frontiere, Tunisi non ha ancora visto un soldo. Il tutto per l'entusiasmo degli eurodeputati «dem» che a Bruxelles fanno a gara nel definire una violazione dei diritti umani il tentativo di arginare le partenze da Sfax e dintorni. La mobilitazione non è casuale. Senza quei fondi, spiegano a «Il Giornale» fonti di Palazzo Chigi, Tunisi «non è in condizione di pagare gli stipendi della Guardia Nazionale e delle altre forze di sicurezza chiamate a far rispettare gli accordi stipulati con l'Italia».
La latitanza di Bruxelles e l'attivismo delle sinistre è resa più sospetta dall'aggressività di Parigi, che annuncia nuovi blocchi terresti a Mentone, e dalla duplicità della Germania pronta a rimangiarsi, invece, gli accordi sulla redistribuzione. Accordi peraltro mai rispettati visto che a 11 mesi dalle intese s'è presa 1.022 migranti a fronte degli oltre 120mila sbarcati in Italia. Il tutto mentre Bruxelles, sempre pronta a bacchettare l'Italia per qualsiasi veniale mancanza sul fronte dell'accoglienza, chiude gli occhi sulle condotte di Grecia e Spagna imperterrite nel respingere i migranti provenienti da Turchia e Marocco. Grazie alla ferrea legge dei vasi comunicanti quell'indifferenza contribuisce a spingere sempre più disgraziati sull'unica rotta sguarnita ovvero quella da Tunisi a Lampedusa. E qui torniamo magicamente al punto di partenza. Ovvero alle finalità di quanti dentro alla Commissione o all'Europarlamento puntano, nonostante la firma di Ursula von der Leyen in calce al Memorandum, a sabotare le intese con la Tunisia e a mettere alle corde Giorgia Meloni. Le giustificazioni ovviamente non mancano. Le fonti della Commissione non esitano a riversare ogni colpa sui tunisini colpevoli, nonostante la fame di soldi, di non rispedire a Bruxelles i formulari indispensabili all'erogazione dei fondi. Come dire che la burocrazia viene prima di quella «difesa delle frontiere esterne» enunciata dagli ultimi Consigli Europei e per la quale il budget pluriennale Ue 2021-2027 ha stanziato 43,9 miliardi. Insomma una scusa che diventa barzelletta se attribuita a un'Unione decisa ad imporsi come potenza internazionale. In verità dietro lo schermo di quella barzelletta lavorano i picconatori del Memorandum di Tunisi. Individuarli non è difficile. Martedì il capodelegazione del Pd all'Europarlamento, Brando Benifei, liquidava il memorandum come «l'ennesimo tentativo inutile di esternalizzare il controllo delle frontiere europee con grandi rischi per i diritti umani». E a dargli manforte correva Pietro Bartolo, l'ex-medico di Lampedusa eletto nelle file Pd deciso nel mettere all'indice un'Unione Europea «complice della caccia ai negri aperta da Saied». Due interventi poco in linea con il compassato sdegno del Commissario europeo Paolo Gentiloni che, su altri temi, giura di privilegiare sempre la casacca dell'Italia e dell'Europa a quella del suo partito. «Fin dal primo giorno il Pd e la sinistra europea hanno lavorato per affossare l'accordo Ue-Tunisia - accusa Carlo Fidanza capo-delegazione di Fratelli d'Italia al Parlamento Europeo - gli esponenti della sinistra sono intervenuti più volte intimando alla Von der Leyen di non dare corso all'accordo. È di tutta evidenza che, in una situazione non semplice sul piano tecnico per il reperimento dei soldi da destinare al governo tunisino, sabotare politicamente chi quell'accordo e chi lo ha firmato significa allungare i tempi e renderlo inefficace. La sinistra anti-italiana spara a zero contro l'accordo con la Tunisia, ma tace di fronte al comportamento riprovevole dei governi di Macron e Scholz».
Insomma affossare la Tunisia per far cadere la Meloni. Un obbiettivo che accende non solo i cuori «dem» ma anche quelli di più di un «partner» europeo.
Brescia, rivolta in Procura: basta favori agli immigrati. Claudia Osmetti Libero Quotidiano il 13 settembre 2023
Toh, l’hanno capito anche i magistrati. Magari non tutti, per carità: perché alla fine carta canta e, qui, a gorgheggiare è la richiesta, avanzata a fine luglio, da un pubblico ministero di Brescia, Antonio Bassolino, che ha proposto di assolvere un cittadino originario del Bangladesh, accusato di violenza domestica sulla moglie, perché «è la sua cultura». Ecco, no. E no non solo perché certi comportamenti sono inaccettabili, sia che avvengano a Dacca sia che capitino nel cuore della Lombardia, anzi, a maggior ragione se si verificano nel mondo occidentale, ma no anche perché, poi, a farci una figuraccia, a strabuzzare gli occhi e quasi a non crederci, siamo un po’ tutti.
Compresi i colleghi del pm di cui sopra che da ieri si ritrovano con la patata bollente in mano e (forse) gli ispettori del ministero alla porta.
Ma come? Nel 2023, in Italia, la provenienza geografica diventa una «giustificazione» per fatti del genere che vale, addirittura, pensate, nientepopodimenoche, in tribunale? Non è possibile e, per questo, il procuratore Francesco Prete di Brescia ammette che il suo ufficio «ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stato fermissimo nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento (lo sottolineiamo per essere chiari al cento per cento: ndr) “culturale”, nei confronti delle donne».
DALLA POLITICA
Bravo, Prete. Applausi. Però ci voleva tanto? Ci volevano i commenti indignati, le prese di posizioni politiche, le dichiarazioni piccate da parte di avvocati, associazioni, ministri (come Eugenia Roccella, Famiglia) e istituzioni (il presidente del Senato Ignazio La Russa) delle ultime ore? Tutto sommato è buonsenso. Ed è anche il diritto, che non è proprio quella cosa che si può stravolgere, snaturare o “forzare”. Certo, la procura bresciana sottolinea anche che «in base alle norme del codice di procedura penale, nell’udienza il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni in piena autonomia»: verissimo, fa sempre parte del discorso giuridico che ci siamo fatti, quel un bilanciamento di forme e tutele e ci mancherebbe giusto il contrario.
Epperò, le conclusioni avanzate in aula (quelle dell’«impianto culturale e non della coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge» dato che «la disparità tra uomo e donna è un portato della sua -del bangalese, ndr- cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine») «non possono essere attribuite all’ufficio nella sua interezza, ma solo al magistrato che svolge le funzioni in udienza», continua Prete. Che è come dire: noi-c’entriamo-niente-la-frittata-l’ha-fatta-lui-Bassolino. E va anche bene così, sia chiaro: se la procura bresciana si dissocia è già qualcosa. Almeno è un segnale.
Specie se considerato, al netto delle discussioni sul caso, che nel mezzo c’è una ragazza di appena 27 anni, che ha due figlie piccole, che è venuta nel nostro Paese dieci anni fa come sposa a un cugino, che si è ritrovata (lo racconta lei stessa) «costretta a stare in casa», che ha subito «urla, insulti e botte» se solo provava a dire di no, che ha denunciato il marito nel 2019 e che solo questo basterebbe, perché il 2019 è una vita fa, non c’era nemmeno il Covid, e quattro anni per avere giustizia (ammesso che giustizia ci sia) sono un tantinello troppi. Non a caso il biasimo politico è, per una volta, unito: il Partito democratico con Pina Picierno e Fratelli d’Italia con Riccardo De Corato e Forza Italia con Maurizio Gasparri chiedono, da ieri mattina, di inviare gli ispettori del guardasigilli Carlo Nordio a Brescia, tanto per dire.
COSTITUZIONE
E tanto per rispondere il procuratore Prete fa sapere che quelle richieste «tese a verificare tale assunto ci lasciano assolutamente tranquilli, essendo tutti i magistrati dell’ufficio sicuri di avere sempre agito nel rispetto della legalità, secondo i parametri fornitici dalla Costituzione e dalla legge». D’accordo. Tuttavia, signori, dobbiamo anche raccontarcela tutta: e cioè dirci che i tribunali fanno giustizia (e non vendetta) e che un conto è la richiesta di un pm e un conto è una sentenza e un altro ancora è un processo, anche se quelle frasi («condotte episodiche maturate in un contesto culturale che si è rivelato intollerabile» perché lei ambiva a «canoni marcatamente occidentali»: e che male c’è?) pesano come macigni. Non solo in aula, anche fuori. Punto e a capo. Meglio. Punto e basta.
In nome dell'accoglienza ai migranti concediamo anche la violenza. Andrea Soglio su Panorama il 12 Settembre 2023
La vicenda del pm di Brescia che ha assolto un uomo per le botte date alla moglie giustificate come frutto della loro «cultura» è l'ultimo passo di un percorso di annullamento che sbagliando abbiamo concesso
Sono molti i commenti letti sulla notizia arrivata da Brescia dove un pm ha stabilito l’assoluzione nei confronti di un uomo accusato di maltrattamenti dalla moglie perché quelle botte date alla donna sono «un fatto culturale». I fatti: Nel 2019 una donna del Bangladesh ha denunciato il marito alla procura raccontando le botte ricevute, più volte. Non solo: ha raccontato anche che il matrimonio di fatto era stato combinato dalle rispettive famiglie. Il pubblico ministero però ha deciso che di fatto non si tratta di reato, con queste motivazioni: i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine. Traduzione: nella loro cultura, che lei ha accettato, picchiare la moglie non è reato e quindi non lo è nemmeno se le botte vengono date sul suolo italiano. Dal punto di vista legale questa decisione si commenta da se, Si tratta di una cosa inqualificabile, incomprensibile che in più crea un precedente pericolosissimo ed una sorta di doppio codice penale: uno per gli italiani ed uno per i musulmani o cingalesi. Quello che però va analizzato è il cosa ha portato un giudice ad una decisione simile; quale percorso culturale in Italia ha condotto un pm a trasformare in legale delle botte date da un marito alla moglie alla moglie. Si tratta dell'ennesimo passo fatto nella direzione dell'annullamento del nostro essere in nome dell'accoglienza. Abbiamo cominciato con il cancellare le recite di Natale nelle scuole perché «discriminatorie» nei confronti di bambini e studenti di altre religioni. Abbiamo continuato vietando sempre nelle scuole certi cibi della nostra tradizione perché proibiti in altre religioni. Abbiamo fatto questo ed altro per far sentire «a casa loro» migranti e persone di altre culture, tradizioni, usanze. anche se queste sono barbare ed illegali come creare matrimoni combinati e picchiare la moglie che disobbedisce. Le cronache sono piene di fatti di una violenza inaudita. Settimana scorsa è tornato in Italia il padre di Saman, la ragazza uccisa perché voleva vivere all'occidentale e non sposare il marito che la famiglia aveva scelto per lei. In certe culture si arriva quindi ad uccidere una figlia in nome del rispetto della cultura e delle tradizioni di un altro paese. Sarebbe ora di smetterla di fare passi nella direzione sbagliata. Bisogna fermarsi puntando i piedi su cose che in Italia sono inamovibili: no alla violenza contro le donne, mai, nessuna giustificazione, nessuna comprensione. E se certe cose altrove sono consentite beh, è ora di ribadire a chi arriva nel nostro paese che in Italia ci sono regole diverse e che vanno rispettate. Che non siamo più disposti a metterci in secondo piano, a vendere la nostra storia e la nostra cultura in nome di chissà quale accoglienza. PS. Da 24 ore aspettiamo un'azione di protesta, rabbia, disgusto, da parte del mondo femminista militante. Purtroppo al momento nessuno ha detto nulla e nessuno ha fatto nulla. I casi quindi sono due: o sono d'accordo con il pm di Brescia e anche per le femministe non tutte le donne sono uguali.
Quelli che…porti aperti.
I Politici di Sinistra.
I Magistrati di Sinistra.
I Giornalisti di Sinistra.
Il Papa di Sinistra.
Le illusioni di Sinistra.
La complicità della Sinistra.
Antonio Giangrande: Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.
Antonio Giangrande: Cosa vorrei?
Vorrei una Costituzione, architrave di poche leggi essenziali, civili e penali, che come fondamento costitutivo avesse il principio assoluto ed imprescindibile della Libertà e come obiettivo per i suoi cittadini avesse il raggiungimento di felicità e contentezza. Vivere come in una favola: liberi, felici e contenti. Insomma, permettere ai propri cittadini di fare quel che cazzo gli pare sulla propria persona e sulla propria proprietà, senza, però, dare fastidio agli altri, di cui si risponderebbe con pene certe. E per il bene comune vorrei da cittadino poter nominare direttamente governanti, amministratori e giudici, i quali, per il loro operato, rispondano per se stessi e per i propri collaboratori, da loro stessi nominati. Niente più concorsi truccati…, insomma, ma merito! E per il bene comune sarei contento di contribuire con prelievo diretto dal mio conto, secondo quanto stabilito in modo proporzionale dal mio reddito conosciuto al Fisco e da questi rendicontatomi il suo impiego.
Invece...
L'influsso (negativo) di chi vuole dominare l'altro. Ci sono persone che sembrano dare energia. Altre, invece, sembra che la tolgano, scrive Francesco Alberoni, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale".
Ci sono persone che sembrano darti energia, che ti arricchiscono.
Altre, invece, sembra che te la prendano, te la succhino come dei vampiri. Dopo un colloquio con loro ti senti svuotato, affaticato, insoddisfatto. Che cosa fanno per produrre su di noi un tale effetto? Alcune ci parlano dei loro malanni, dei loro bisogni e lo fanno in modo tale che tu ti senti ingiustamente privilegiato ed è come se avessi un debito verso di loro.
C'è un secondo tipo di persone che ti sfibra, perché trasforma ogni incontro in un duello. Non appena aprite bocca sostengono la tesi contraria, vi sfidano, vi provocano. Lo fanno perché vogliono mostrare la loro capacità dialettica ma soprattutto per mettersi in evidenza davanti agli altri. Se gli date retta, vi logorano discutendo su cose che non vi interessano.
Ci sono poi quelli che fanno di tutto per farvi sentire ignoranti. Qualunque tesi voi sosteniate, anche l'idea più brillante e ragionevole ecco costoro che arrivano citando una ricerca americana che dice il contrario. Magari qualcosa che hanno letto in un rotocalco, ma tanto basta per rovinare il vostro discorso. Ricordo invece il caso di un mio collega che, per abitudine, nella conversazione, faceva solo domande. All'inizio gli raccontavo le mie ricerche, gli fornivo i dati, gli mostravo i grafici, le tabelle, mi sgolavo e lui, dopo avere ascoltato, faceva subito un'altra domanda su un particolare secondario. E io giù a spiegare di nuovo e lui, alla fine, un'altra domanda...
Abbiamo poi quelli che, quando vi incontrano, vi riferiscono sempre qualche cosa di spiacevole che la gente ha detto su di voi: mai un elogio, mai un apprezzamento, solo critiche, solo pettegolezzi negativi. E, infine, i pessimisti che quando esponete loro un progetto a cui tenete molto, vi mostrano i punti deboli, vi fanno ogni sorta di obiezioni, vi fanno capire che sarà un fallimento. Voi lo difendete ma loro insistono e, alla fine, restate sempre con dei dubbi. Un istante prima eravate pieno di slancio, ottimista, entusiasta e ora siete come un cane bastonato. Cosa hanno in comune tutti questi tipi umani? La volontà di competere, di affermarsi, di dominare, di opprimere.
Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa. Andrea Soglio su Panorama il 22 Novembre 2023
Thomas, 16 anni, francese, ucciso perché bianco e nascosto dalla stampa È durata poche ore la vicenda del giovane vittima dell'assalto razzista di un gruppo di nordafricani a Crépol. Ed anche sull'ultimo tentato stupro a Milano si tace sulla provenienza dell'aggressore 14 ore. È quanto è durata sui siti di informazione italiani la vicenda di Crépol, piccolo villaggio francese dove due sere fa una banda di ragazzi ha organizzato quella che (lo hanno gridato loro stessi) è stata una vera e propria «caccia al bianco». Gli aggressori identificati sono tutti nordafricani di origine e provenienti da quelle che ormai abbiamo imparato anche noi a conoscere con il termine francese di «banlieu», quei quartieri ghetto di periferia trasformati dagli immigrati in continuazione dei loro paesi di origine. Con tanti saluti all’idea di integrazione. L’aggressione a colpi di coltello e machete è costata la vita ad un ragazzo, bianco, di 16 anni; si chiamava Thomas, amava il rugby e stava partecipando con altri ragazzi ad una festa di paese. Ma il colore della sua pelle ne he fatto un bersaglio per chi cercava il sangue della sua razza. Il Ministro dell’Interno francese, Darmanin, quello che diverse volte ci ha fatto la morale sull’accoglienza dei migranti, dicendo che il governo di destra di Giorgia Meloni era tendenzialmente razzista ed incapace di gestire la situazione, ieri ha commentato l’aggressione razzista ed omicida di Crépol ammettendo che «È il fallimento generale della nostra società». Ripetiamo: fallimento generale della nostra società. Certo, non è accaduto in Italia, anche se Crépol dista un’ora di macchina dal confine con il Piemonte, ma davanti ad un’aggressione così violenta, razzista e crudele ci saremmo aspettati dalla stampa nostrana e dagli opinionisti un po’ più di attenzione. Invece nulla. Dopo i primi lanci, qualche taglio alto sugli online dalla tarda mattinata di oggi la notizia dall’ora di pranzo è sparita dai radar. È invece ben visibile la news della violenza sessuale subita da una ragazza in pieno centro a Milano, nella centralissima Piazza della Scala. Vi invitiamo a leggerla un po’ dappertutto. Troverete la dinamica raccontata in 20 o 30 righe. Si parla tanto del fatto che a salvarla sia stato il famoso gesto delle mani con cui in codice si chiede aiuto in caso di stupro. In tutti gli articoli della vittima ci dicono subito essere una «bergamasca»; l’autore, poi arrestato, dell’aggressione viene invece presentato come «giovane», poi «ragazzo», ma anche «l’arrestato», e persino la «persona». Poi, solo nell’ultimo capoverso alcuni, non tutti, aggiungono che si tratta di un nordafricano, senza documenti. Insomma, un clandestino extracomunitario. Crépol non c’entra nulla con Milan ad eccezione del fatto che i responsabili di un omicidio e di un tentato stupro (dopo le molestie che, quelle si, la ragazza le ha subite prima di riuscire a chiedere ed avere aiuto) sono extracomunitari e che la cosa viene o fatta sparire in fretta o tenuta nascosta. Certo, perché non bisogna soffiare sulla brace dei razzisti, sempre pronta a riaccendersi. Non bisogna raccontare cose che confermino le loro preoccupazioni. Bisogna quindi nascondere o cancellare. Ma se fosse stato il contrario? Mettiamo il caso che a Crépol ad armarsi, colpire ed uccidere fossero stati dei francesi «bianchi» al grido di «a morte i neri»… cosa sarebbe successo? La notizia sarebbe scomparsa dai radar in poche ore? No, proprio no. Avremmo visto il via alla solita litania del «clima d’odio causato dalla destra», della «cultura salviniana razzista» etc etc etc. D’altronde Lilli Gruber ci ha raccontato due giorni fa che tutto è colpa del governo Meloni e della destra, persino il femminicidio di Giulia. La morte, la violenza non fanno distinguo. Thomas merita la stessa attenzione di Giulia Cecchettin. Per la giovane da 72 ore il paese si sta interrogando, discutendo, dividendo sulle ragioni sociali e culturali di questo femminicidio. Forse dovremmo trovare modo di ragionare senza vergogna su quello che non molto lontano da noi è il «fallimento generale della nostra società (dell’accoglienza e dell’inclusione indiscriminata, aggiungiamo noi). Invece no. Si nascondono le cose, certe cose, sotto la sabbia, senza vergogna.
Pd, alla manifestazione bandiere della Palestina e slogan pro migranti. Gianni Di Capua su Il tempo il 12 novembre 2023
Elly Schlein aveva chiesto ai suoi di non portare bandiere di Israele o della Palestina, ma solo bandiere del Pd o della pace. Ma la tentazione era troppo forte e alla fine due bandiere palestinese sono spuntate vicino al palco. Anche se la segretaria ci tiene a ripetere la litania con cui si attacca Israele senza cadere nell’appoggio ad Hamas. «Al terrorismo sanguinario di Hamas va la nostra condanna ma la brutalità di Hamas non consente altra brutalità verso i civili palestinesi. Chiediamo con forza un cessate il fuoco umanitario non possiamo assistere ancora a questo massacro di civili, non è accettabile né umano. E chiediamo di liberare gli ostaggi di Hamas e difendere i civili palestinesi. Bisogna evitare una spirale di odio e violenza» ha detto dal palco. Nella piazza anche tanti cartelli per chiedere politiche più «accoglienti» in materia di immigrazione. «Basta con la guerra alle Ong, la solidarietà non è un reato» ha detto Schlein dal palco durante il suo intervento conclusivo. Ma c’è anche chi paragona Giorgia Meloni a Wanna Marchi.
Una piazza che ha visto l’ennesimo tentativo di dialogo fra Pd e le altre forze di opposizione. Una presenza che i militanti dem sembrano gradire tant’è che quando Giuseppe Conte entra nel retropalco da una transenna laterale scatta l’applauso. Con il segretario del M5S anche Roberto Fico, con la scorta a seguito, il capogruppo alla Camera Francesco Silvestri, il deputato Riccardo Ricciardi e la senatrice Alessandra Maiorino. Una volta raggiunto lo spazio antistante al palco principale il leader del Movimento 5 Stelle è stato accolto da Francesco Boccia, Roberto Speranza e Nicola Zingaretti. Poi l’incontro con Elly Schlein. «Io sono per il campo giusto non per il campo largo. Siamo oggi qui per confermare il dialogo che abbiamo già avviato con il Pd. Siamo due forze politiche ciascuna con la propria autonomia, quindi il dialogo serve a convergere sulle posizioni ma anche a segnare, qualche volta, qualche differenza» ha detto Conte ai cronisti presenti. Poi il leader grillino ha attaccato la manovra economica del governo «che è assolutamente inadeguata, è una sciagura per il Paese». Ecco perché, per Conte, la piazza di ieri era «un’occasione per ribadire come con il Pd e le altre forze di opposizione disponibili lavoreremo per contrastare l’azione e le politiche sbagliate di questo governo». Non a caso ieri c’era tutta l’opposizione in piazza col Pd come in una sorta di prove generali di carrozzone.
Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato Avs, il segretario nazionale di Sinistra italiana Nicola Fratoianni anche lui deputato di Avs. Una presenza che Schlein ci tiene a sottolineare dal palco: «Un grandissimo applauso alle altre forze politiche dell’opposizione che sono venute a trovarci». In piazza anche Stefano Bonaccini per il quale «la luna di miele fra il governo e il Paese è conclusa e credo che peggiorerà perché le condizioni materiali delle persone peggioreranno». Ma per le critiche al governo bisogna aspettare il discorso di Schlein che addossa a Meloni tutti i mali dell’Italia: dai migranti alla sanità passando per il ponte sullo Stretto e il salario minimo. «Siamo qua per dire basta a questo governo, possono travestirsi come vogliono ma la destra è sempre la stessa» tuona dal palco. E per riuscire nell’impresa l’esempio da seguire è Pedro Sanchez al quale Schlein manda un abbraccio perché «ha dimostrato che le destre si possono fermare». Ritorna in voga anche la battaglia sul salario minimo nonostante il parere del Cnel che ha chiarito come non sia una misura utile per alzare i salari. «Siamo qui a rilanciare una battaglia fatta con le altre opposizioni per dire che in Italia serve un salario minimo legale. Il governo non può continuare a rinviare. Abbiamo già raccolto oltre 500mila firme» ricorda Schlein. E poi ancora sull’immigrazione «al governo sono ossessionati dall’immigrazione e non vedono l’emigrazione dei tanti giovani che devono andare altrove per cercare il proprio futuro».
I "martiri" di Allah che la sinistra non vuol vedere: così l'Italia è a rischio. Aumentano gli arresti di islamici legati ai tagliagole dell'Isis. Anni di immigrazione indiscriminata hanno creato una minaccia sempre più forte. Ecco gli errori commessi e come evitare di finire sottomessi. Matteo Carnieletto il 10 Novembre 2023 su Il Giornale.
Sono tra noi. E noi, per troppo tempo, abbiamo preferito non vederli. Abbiamo preferito sentirci al sicuro a tutti i costi, anche negando la realtà. Anzi: soffocandola. Mentre i jihadisti attaccavano Parigi, Bruxelles, Berlino e Londra noi pensavamo di essere al sicuro.
Poi però Anis Amri, uno degli attentatori di Berlino, veniva ucciso a Sesto san Giovanni e oltre 700 jihadisti venivano espulsi dal nostro Paese dal 2015 ad oggi (e quest’anno abbiamo già superato quota 50). Solamente in quest’ultimo mese, la polizia ha arrestato due egiziani accusati di essere affiliati allo Stato islamico; un gambiano è stato allontanato dall’Italia; un bengalese, affiliato ad Al Qaeda, è stato arrestato; e ieri un algerino, veterano del jihad, è stato fermato nella metropolitana di Milano mentre aveva con sé un coltello.
Sono i fatti e i numeri a dircelo: i combattenti della guerra Santa sono tra noi. E sono, purtroppo per noi, più di quanti pensiamo. Molto spesso sono arrivati con i barconi, mischiandosi ai disperati che partivano dalla Libia e dalla Tunisia. Si sono poi dati alla macchia. Hanno vissuto di espedienti e, apparentemente, hanno condotto una vita normale. Nel frattempo, però, si sono radicalizzati ancor di più e, soprattutto, hanno fatto proselitismo cercando (e trovando) nuovi affiliati. E ora potrebbero iniziare ad agire.
Per troppo tempo, soprattutto a sinistra, si è detto che l’immigrazione indiscriminata non rappresentava un problema. Non è così. E questo vale sia per la sicurezza ordinaria, legata alla criminalità, sia per quella straordinaria riguardante la minaccia terroristica con la quale dobbiamo iniziare a fare i conti. Ciò non significa guardare con sospetto chiunque non sia come noi. Gli immigrati onesti, che lavorano e cercano di costruirsi un futuro nel nostro Paese sono molti. E spesso conservano anche valori che abbiamo perduto. Qualche settimana fa, un video mostrava alcuni poliziotti inseguire uno straniero mentre camminava con un coltello in mano e sbraitava frasi incomprensibili. Lo minacciavano senza far nulla. Tacevano e restavano immobili anche gli italiani che guardavano la scena. Poi, ecco spuntare due ragazzi di colore. Capiscono la situazione e agiscono. Uno imbraccia il monopattino come una clava e abbatte la minaccia.
Quella che ci preoccupa è la minoranza di immigrati islamici che è arrivata qui e che è disposta a colpirci. Forse sogna di farlo. E che può fomentare anche gli altri, i semplici casseurs, che hanno raggiunto l’Europa credendo fosse un Eldorado e che li ha delusi. Lo scenario peggiore, ma forse il più realistico, è quello immaginato da Laurent Obertone in Guerriglia (Signs publishing). Lo scrittore francese, basandosi su alcuni documenti degli 007, immagina una Francia piegata dalle rivolte islamiche, dove tutto è messo a ferro e fuoco. Dove i bianchi vengono cacciati, pestati e ammazzati. Sarà questo il nostro domani? Probabilmente sì. O forse sarà più silenziosa: accetteremo di essere sottomessi. Di diventare minoranza. Di perdere la libertà. In nome di un errato concetto di accoglienza.
Migranti minorenni, cadono le bugie del Pd sull'accoglienza. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 30 settembre 2023
Dove vanno gli immigrati che entrano nel sistema di accoglienza italiano? La risposta è interessante soprattutto per gli «msna», i minori stranieri non accompagnati. O meglio: i presunti minori, visto che il governo è stato costretto a cambiare le regole per l’identificazione proprio perché in troppi dichiaravano di avere meno di 18 anni, e dunque di meritare protezione ed assistenza particolari, pur avendo compiuto da un pezzo quell’età.
Capire come stanno le cose interessa innanzitutto per ragioni economiche, visto che le leggi, inclusa quella voluta dalla pd Sandra Zampa nel 2017, hanno caricato il costo del mantenimento di questi stranieri sulle casse dei Comuni. Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, la cui amministrazione ne ospita più di 250, quantifica la somma necessaria per ognuno di loro tra i 100 e i 120 euro al giorno.
Altri sindaci sostengono di avere spese più alte, ma in ogni caso il contributo quotidiano che lo Stato riconosce ai Comuni è di 100 euro: pagamento che, peraltro, avviene dopo che le spese sono state rendicontate, ossia - di regola - dopo parecchio tempo.
Oltre a questa, c’è una ragione politica. La sinistra, infatti, accusa il governo di dirottare quegli immigrati verso le regioni rosse, anche per far provare ai loro amministratori e a chili ha eletti il peso di quell’accoglienza che a parole apprezzano tanto.
I numeri dicono che questa è una bufala. Né l’Emilia-Romagna di Stefano Bonaccini, né la Toscana di Eugenio Giani – i due governatori del Pd più critici nei confronti dell’esecutivo – stanno subendo un trattamento “particolare”. Lo stesso vale per la Campania di Vincenzo De Luca e la Puglia di Michele Emiliano. Motivi per lamentarsi, semmai, ne avrebbero molti amministratori di centrodestra e i loro concittadini.
I siciliani per primi. Non fa notizia, eppure dovrebbe, perché una cosa è incaricarsi della prima accoglienza degli immigrati, un’altra tenerseli a mesi di distanza dall’arrivo. Ed è proprio questo che accade. A fine agosto erano presenti in Italia ben 22.599 presunti minori che si sono dichiarati non accompagnati. Di costoro, uno su quattro è stato distribuito (o meglio è rimasto) in Sicilia. Innanzitutto ad Agrigento (sindaco di centrodestra, Francesco Miccichè), che è la provincia che ne ospita di più, quindi a Catania e altrove.
Al secondo posto c’è la Lombardia di Attilio Fontana, dove si trovano 2.736 di quegli immigrati, il 12,2% del totale. E certo, la Lombardia è grande, mala sua superficie è di poco superiore a quella dell’Emilia-Romagna e della Toscana, che pure ospitano un numero di sedicenti minori assai inferiore. Nella regione di Bonaccini (terza in questa classifica) c’è l’8% degli immigrati presunti minorenni e in quella di Giani (ottava) solo il 4,1%. La Campania e la Puglia sono quinta e sesta, con poco più del 6% della “quota msna”.
Guardando la divisione per province, l’impressione è che sia stato usato un occhio di riguardo per la Firenze di Dario Nardella, dove sono finiti appena 373 di quei possibili minorenni, ossia l’1,7%. Assai meno che nella Genova di Marco Bucci (620). In questa classifica, dominata dalle province siciliane, Agrigento è prima, con 1.472 stranieri, Milano seconda (1.235), Catania terza (901) e Roma quinta (811). Solo decima la Bologna rossa e solidale amministrata da Matteo Lepore (523), ancora più giù la Napoli di Gaetano Manfredi, che ne ospita appena 498.
Precedenti sinistri. Il successo di Prodi nel contenere i migranti e la ritrosia di Schlein a imitarlo. Carlo Panella su L'Inkiesta il 28 Settembre 2023
Il blocco navale in acque albanesi imposto da Napolitano quando era ministro dell’Interno nel 1997 ha avuto risultati positivi. Un caso da cui si potrebbe prendere spunto oggi, ma la segretaria del Pd si ostina a remare in direzione opposta
Nessuno lo ha ricordato, ma Giorgio Napolitano, nel 1997, ministro dell’Interno, fu tra coloro che imposero un rigido blocco navale all’Albania, preoccupato per i riflessi sull’ordine pubblico dell’afflusso di migliaia di migranti irregolari. Con lui, nel decidere il blocco navale, buona parte del Gotha della sinistra: Romano Prodi presidente del Consiglio, Walter Veltroni vicepresidente del Consiglio, Nino Andreatta ministro della Difesa e poi i ministri Pierluigi Bersani, Carlo Azeglio Ciampi, Franco Bassanini, Rosy Bindi, Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer, Anna Finocchiaro, Livia Turco.
Nessun ministro si dissociò, anzi, dal decreto ministeriale emesso da Nino Andreatta del 4 marzo 1997 che ordinò alla Marina Militare di effettuare un blocco navale fin dentro le acque territoriali dell’Albania con la regola d’ingaggio di «fermare, visitare, dirottare anche navi non italiane e riportarle sulle coste albanesi». L’intervento militare italiano arrivò a distruggere molti gommoni all’interno del porto di Valona. La decisione del blocco navale venne presa a fronte di un afflusso in Italia di trentamila profughi albanesi dal dicembre 1996 all’aprile del 1997. Una piccola quota parte, un quarto, rispetto ai flussi del 2023.
La situazione dell’Albania allora era simile a quella della Libia di oggi. Il governo centrale del presidente Sali Berisha era scosso dal fallimento delle società finanziarie piramidali e esercitava un controllo parzialissimo sulle città e su un territorio in mano a bande armate e milizie irregolari in un clima di guerra civile. Durazzo e Valona, porti di partenza verso l’Italia, erano in mano ai clan criminali degli scafisti. Il governo albanese quindi siglò col governo dell’Ulivo italiano un accordo che autorizzò di fatto il blocco navale anche all’interno delle sue acque territoriali.
Da far notare a Elly Schlein e ai tanti critici di sinistra che oggi ritengono immorali gli accordi col presidente tunisino Kaïs Saïed perché non democratico, che la caratura democratica del governo di Sali Berisha col quale il governo di Romano Prodi siglò l’accordo era vicina allo zero, in più con evidenti venature di complicità con la criminalità. Stati Uniti e Gran Bretagna in seguito l’hanno bollato quale «persona non grata» per i suoi legami con la criminalità organizzata e per la sua attività corruttiva.
L’anno successivo Giorgio Napolitano insieme a Livia Turco formulò una legge sull’immigrazione irregolare, la numero 40 del 1998, che tra l’altro istituì i Centri di permanenza temporanea e assistenza, oggi denominati Cpr. In seguito, nel 2013, in una intervista nella trasmissione Ballarò, Romano Prodi ha rivendicato come giusta la scelta di quel blocco navale.
Ovviamente, non ricordiamo questo precedente, pur clamoroso e di indubbia interpretazione, per auspicare che oggi il governo Meloni segua l’esempio del governo dell’Ulivo e applichi, in accordo coi governi libico e tunisino, come fu allora col governo albanese, un blocco navale nel Canale di Sicilia. Lo ricordiamo invece perché merita una riflessione, soprattutto da parte di Elly Schlein, fan di Romano Prodi, così come di tutta la sinistra, su due elementi fondamentali della crisi migratoria.
Il primo elemento da valutare è il pieno successo proprio di quelle politiche di esternalizzazzione per affrontare e contenere i flussi irregolari tanto criticate dalla segretaria del Partito democratico. Infatti, un pieno successo arride oggi in Albania proprio alla strategia di affrontare e sterilizzare i flussi di clandestini intervenendo sia manu militari per contrastare gli scafisti, sia alla loro fonte.
Secondo quanto valutato da Milano Finanza dal 1991 ad oggi l’Italia ha effettuato spese in aiuti a Tirana per non meno di un miliardo di euro innanzitutto in missioni militari (Pellicano e Alba) così come in aiuti alimentari alla popolazione. Dunque, un mix di azioni di forza contro gli scafisti e di missioni di peacekeeping in un contesto multinazionale europeo affidate alle forze armate che hanno distribuito beni per centinaia di milioni di euro, ha avuto pieno successo.
A oggi il quadro politico interno albanese è normalizzato, il Paese è addirittura entrato a far parte della Nato e sono ormai praticamente inesistenti quei flussi di clandestini tanto robusti da convincere il governo dell’Ulivo e uomini come Romano Prodi e Giorgio Napolitano a istituire un blocco navale. Politiche di esternalizzazione e di intervento militare pienamente riuscite.
Naturalmente, non si vuole ridurre la complessità del fenomeno migratorio che proviene oggi dai Paesi dell’Africa, con quella di un piccolo Paese con solo 2,8 milioni di abitanti. Il continente africano con quasi un miliardo di abitanti nel 2022, secondo il World Migration Report, ha visto ventuno milioni di abitanti emigrati in un altro Paese africano e undici milioni emigrati verso l’Europa, più alcuni milioni di abitanti emigrati verso l’Asia e le Americhe. Un radicale processo continentale di inurbamento interno dalle campagne accompagnato da una crisi delle prospettive di vita decente delle nuove città e megalopoli.
Ma il principio di intervenire sulle radici africane del fenomeno migratorio – la esternalizzazione, parola astrusa tanto cara alla Schlein – e di non occuparsi solo dell’accoglienza diffusa sul territorio e della tutela in mare come pare voglia il nuovo Partito democratico, rimane pienamente valido. Intervento dalle dimensioni enormi, che non può essere affrontato solo dall’Italia come sostanzialmente è avvenuto in Albania, ma che deve essere affrontato dall’Europa nel suo complesso.
Qui, francamente, non si comprende il rifiuto di Elly Schlein e del Partito democratico di condividere la strategia del Piano Mattei di Giorgia Meloni per una cooperazione non predatoria con le nazioni africane, per sconfiggere gli scafisti e per definire canali legali di ingresso in Italia. Strategia peraltro già pienamente condivisa da Marco Minniti, che a ragione ricorda come lui avesse avuto un approccio simile nel 2017 quando era ministro dell’Interno del governo Gentiloni. L’unica ragione che si vede in questa totale estraneità, o meglio ostilità, a interloquire col governo sul Piano Mattei è puramente elettorale, ma di fiato corto.
Qui emerge il secondo punto di riflessione sul quale dovrebbe soffermarsi, ma è ben lungi dal farlo, Elly Schlein. Il successo della normalizzazione dei flussi migratori dall’Albania – lo ripetiamo, un mix di azioni militari di contenimento e di cooperazione allo sviluppo – è stato conseguito nell’arco di venti anni in un contesto sostanzialmente bipartisan. Governi di centrodestra e di centrosinistra, sia pure in una dialettica dura tra maggioranza e opposizione, hanno sostanzialmente perseguito una politica omogenea e coerente nei confronti di Tirana.
Oggi invece Elly Schlein si pone in una posizione di totale estraneità e di rottura completa con le strategie del governo, pare non comprendere che le politiche di esternalizzazione hanno tempi lunghi, decennali, e arriva sino a contestare duramente i tentativi di un accordo quadro tra Italia e Unione Europea con un governo tunisino che vede un Kaïs Saïed campione di correttezza democratica a paragone di quel para criminale di Sali Berisha con cui fecero accordi di blocco navale Romano Prodi e Giorgio Napolitano.
D’altronde, se si applicasse il criterio del rispetto dei diritti dell’uomo e della correttezza democratica non sarebbe possibile siglare accordi di nessun tipo con la quasi totalità dei Paesi africani. Il tutto, peraltro, in posizione di rottura della dinamica del campo largo che vede un Movimento 5 Stelle molto duro nei confronti dell’immigrazione clandestina. Incomprensibile.
Ginevra Bompiani, la comunista che ci insegna la democrazia? Oggi difende gli scafisti. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 26 settembre 2023
Se qualcuno pensa che l’enormità proferita nel salotto di Piazzapulita -“gli scafisti sono poveri cristi”- da Ginevra Bompiani (scrittrice, editrice, traduttrice, accademica, ma soprattutto se stessa, annoverata nell’intellighenzia italica a priori e per lignaggio) sia la più ardita della sua non breve carriera, non ha ben presente il personaggio. Roma, 6 maggio 2019, Casa internazionale delle donne a Trastevere. Presentazione del cartello elettorale iper-gauchista “La Sinistra”, che per le Europee ha riunito Rifondazione Comunista, L’Altra Europa per Tsipras e Sinistra Italiana. «Non stiamo entrando nel fascismo, ma nel nazismo. Salvini è peggio del primo Ventennio. Non lo stiamo combattendo abbastanza». Testi (allucinati) e musica (psichedelica) della candidata di punta del gruppetto tardomaoista (che nelle urne raccoglierà inspiegabilmente solo l’1,75%): Bompiani Ginevra.
Perché la figlia del grande Valentino è così, irresistibilmente incline a deragliare, a fare quel che in altri contesti socio-antropologici sarebbe archiviato come sparata da bar, ma messo in scena con l’allure di chi andava a cena con Italo Calvino, ha vissuto tra una metropoli europea e l’altra, frequentava la “comune” milanese installata nell’appartamento di Giairo Daghini, filosofo e fondatore di Potere Operaio, beh in questo caso diventa acuta e meditabonda provocazione. «Parole, semplicemente», ha premesso prima di snocciolare davanti a un Formigli più che compiacente, deferente (per un radical-chic qualsiasi interloquire con la Bompiani è come per un calciatore di serie C palleggiare con Messi), la sua stralunata teoria sulla differenza tra «bande di trafficanti» criminali e «scafisti poveri cristi».
Sono parole, il gioco di società in cui Ginevra eccelle da decenni è smontarle e rimontarle secondo la necessità ideologica del Salotto, che dal Sessantotto in poi sostituisce il Partito come orizzonte di riferimento della sinistra. Lei è a Parigi, quando esplode questa ossimorica contestazione dell’alta borghesia, ci si ritrova come nel suo ambiente naturale, ha «l’incontro che mi ha cambiato con la vita», quello con Gilles Deleuze, pensatore ispiratore del movimento “anarco-desiderante”, propugnatore di un “pensiero rizomatico” e di una “pop-filosofia”. Sostanzialmente, Deleuze garantisce una fondazione intellettuale a quello che Ginevra vuole fare nella vita: cazzeggiare con le parole, in nome di qualche rivoluzione sempre di là da venire.
Sarà anche per questo che di lì a poco fonda Rivolta Femminile, a suo dire «il primo vero movimento femminista italiano», insieme alla pittrice Carla Accardi e alla critica d’arte Carla Lonzi. Capisaldi del gruppo: il rigoroso “separatismo” rispetto al sesso maschile e la pratica delle sedute di “autocoscienza” tra sole donne. Il separatismo in ogni caso (e per fortuna) non è da prendere troppo alla lettera: suo compagno fin dalla metà degli anni Sessanta è il filosofo (ancora, perdonerete, ma a scorrere la biografia di Ginevra è dura imbattersi in operai) Giorgio Agamben, che poi diventa suo marito. Oggi sono divorziati, ma in ottimo rapporto e spesso in comunanza di idee.
PANDEMIA
Durante il Covid, Agamben ha via via trascinato le sacrosante critiche a certe derive liberticide della politica verso lidi complottistici, arrivando a parlare di epidemia “inventata”. Non volendo essere da meno, Ginevra nel suo libro “La penultima illusione” ha spiegato che i governi italiani non si sono occupati dei migranti in arrivo sulle nostre coste perché troppo presi a gestire la pandemia farlocca. Sul tema, ci ha tenuto a renderci edotti, ha anche litigato con un’altra icona dell’aristocrazia radical, compagna di candidatura con La Sinistra a quelle sfortunate Europee: Luciana Castellina.
In ogni caso, le due si sono ritrovate sul putinismo di stretta osservanza (ovviamente lo chiamano “pacifismo”, suona meglio nel salotto e non fa andare di traverso la tartina). «L’Italia, per ragioni a me misteriose, si fa manipolare da Zelensky, ma sappiamo che è un Paese suddito dell’America e della Nato, quindi non ha tanta scelta», è una profonda analisi geopolitica svolta di recente da Ginevra su La7, ovviamente al caldo della protezione assicurata dai missili della medesima Nato (Mosca non risulta nella mappa delle capitali dove ha vissuto, ha sempre preferito l’Occidente). Ma non è il caso di rimarcare le contraddizioni, sono solo parole, ricordiamoci di Deleuze e di quel Maggio formidabile, è solo cazzeggio. Gli scafisti sono poveri cristi, Salvini è come Hitler, e passami un’altra tartina, quella col caviale.
“I migranti? Tutto questo ci distruggerà”. Parola di sindaco di sinistra. Anche negli Usa è caos immigrazione. E l’accogliente New York adesso è alle corde. Nicolaporro.it il 24 Settembre 2023
“Lasciate che vi dica una cosa, newyorkesi: mai nella mia vita ho avuto un problema per il quale non vedessi alla fine una soluzione. Ma di questo non vedo proprio la fine: questo problema distruggerà New York. La città che conoscevamo stiamo per perderla”. Inizia così l’appello di Eric Adams, sindaco Democratico di New York. Dichiarazioni fortissime, in contrasto con la politica di accoglienza senza limiti predicata dalla sinistra americana. “Ogni mese arrivano in città 10.000 migranti da tutto il mondo” e, da quando il governatore repubblicano del Texas Greg Abbot, “ha iniziato a sfruttare la disperazione di migliaia di richiedenti asilo”, e a inviarli a New York, sono arrivate 110.000 persone.
“Dobbiamo nutrirli, vestirli, dare loro una casa, istruire i bambini, lavare le loro lenzuola, dare loro tutto ciò di cui hanno bisogno”, ha detto Adams. “La compassione dei newyorkesi può essere illimitata, ma le nostre risorse non lo sono”, ha proseguito il primo cittadino. Infine, la staffilata al governo federale e all’amministrazione Biden: “Non riceviamo alcun sostegno per questa crisi nazionale”.
Applausi per le sue dichiarazioni, che fotografano una realtà che presenta delle affinità con la difficilissima crisi migratoria che sta gestendo il nostro Governo, sono arrivati da molti esponenti del Partito Repubblicano, da sempre critici verso Joe Biden per le sue politiche sull’immigrazione, diametralmente opposte a quelle del predecessore Donald Trump (ricorderete il rafforzamento del celeberrimo “muro” tra gli States e il Messico, o il Muslim Ban, che impediva l’accesso negli USA ai cittadini di tredici stati, tutti in Africa o Asia, a maggioranza musulmana, e considerati “nemici” degli Stati Uniti).
Il Sindaco Adams non è rimasto con le mani in mano: con più di 60.000 migranti affidati alle cure della città, ha deciso di limitare a due mesi l’accoglienza per i migranti adulti senza famiglia, eliminando una vecchia legge newyorkese che prevedeva che la città dovesse fornire, senza distinzione, assistenza e rifugio a chiunque ne avesse bisogno per tutto il tempo necessario. Vedremo se questa politica porterà effetti, per limitare una situazione ormai al collasso.
Eppure, nonostante, come evidenziato poc’anzi, il sostegno di molti membri del Gop, tra i quali Mike Pence, candidato alle primarie repubblicane e storico vice di Trump, dal quale si distaccò in seguito all’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, il sindaco Adams ha dovuto fare i conti anche con feroci critiche. Di membri del suo stesso partito (quelli che, oggi, se fosse ancora tra noi, Oriana Fallaci definirebbe “cicale”) ma anche di gruppi di difesa degli immigrati che lo hanno accusato di razzismo, ammonendolo, come ha fatto Murad Awawdeh (direttore della New York Immigration Coalition), poiché le parole usate da Adams potrebbero portare a “episodi di violenza contro gli immigrati”. Parole che stridono con la storia politica e la carriera di Adams, che è appena il secondo sindaco afroamericano di New York e che ha sempre combattuto contro gli episodi di razzismo, durante il suo lavoro da funzionario della polizia prima ancora che da sindaco. LC, 24 settembre 2023
Giuseppe Cruciani, ciclone sui vip del "diritto di migrare": le frasi surreali. Cruciani all'assalto: "Solo l'Italia", il vero scandalo sui migranti su Il Tempo il 23 settembre 2023
Per una certa sinistra l'immigrazione non è un fenomeno da governare o da gestire ma tutti gli uomini devono essere liberi di "viaggiare" e stabilirsi dove meglio credono. A scagliarsi contro questa visione è Giuseppe Cruciani, il conduttore de La Zanzara, che nell'ultima puntata della trasmissione di Radio 24 elenca le frasi di tre vip, tutti protagonisti del mondo dello spettacolo e del jet set italiani.
"Prima frase: ‘Mi auguro che tutti gli uomini e le donne possano viaggiare liberi laddove ritengono che il modello economico-politico sia giusto per loro.’ Seconda frase: ‘Noi non comprendiamo che il diritto allo spostamento è un nostro privilegio e che viviamo come una normalità. Diritto allo spostamento. Diritto allo spostamento. I migranti sono in fondo i maggiori portatori dell’epica contemporanea'", declama Cruciani. La terza citazione è meno articolata, ma nella sua sintesi è tutta un programma: "Chiamatemi radical chic, ma sul tema dei migranti io resto umana".
Ma chi ha pronunciato queste parole? Il conduttore radiofonico svela subito l'arcano e fa nome cognomi: "Sono nell’ordine Claudio Baglioni, ricchissimo cantante. La seconda persona a pronunciare queste parole si chiama Matteo Garrone, fortunatissimo regista. La terza persona è un’attrice, si chiama Anna Foglietta”, afferma il giornalista che nel corso della puntata si è slungo scontrato con il co-conduttore David Parenzo, che guida su La7 L'aria che tira dopo il passaggio di Myrta Merlino a Mediaset. “Io sono per i confini, per la difesa dei confini. Non sono contro i migranti. Significa sputare sui migranti? No. Ma voglio fare come la Francia, la Spagna e l’Australia. Non sono Paesi incivili”, afferma Cruciani.
Da Il Corriere della Sera.
Da La Repubblica.
Da La Stampa.
Da Il Fatto Quotidiano.
Da Il Domani.
Da L’Unità.
Da Avvenire.
Da Il Corriere del Giorno.
Da Il Foglio.
Da Il Tempo.
Da Il Giornale.
Da Libero Quotidiano.
Da La Verità.
Da Panorama.
Da Il Riformista.
La Gazzetta del Mezzogiorno.
Da Quotidiano.net.
Da L’Identità.
Chi è Iolanda Apostolico, la giudice che ha stoppato il decreto sui migranti: «Il mio provvedimento è impugnabile, non sta a me difenderlo». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera di lunedì 2 ottobre 2023.
Da 20 anni a Catania, ai colleghi spiega la sua decisione: «La mia non è affatto una decisione politica, io ho preso le mie determinazioni solo sulla base del diritto»
Il profilo Facebook è inaccessibile. Dopo le polemiche sul provvedimento col quale, di fatto sconfessando il cosiddetto decreto Cutro, non ha convalidato il fermo di tre migranti tunisini trattenuti nel cpr di Pozzallo, Iolanda Apostolico, giudice civile del tribunale di Catania, ha chiuso la sua pagina social. Cinquantanove anni, tre figli, originaria di Cassino, ma da 20 anni a Catania, ha dichiarato illegittimo il fermo disposto dal questore di Ragusa sostenendo che fosse contrario alle normative europee e alla Costituzione.
Chi è
Una esperienza nel penale da giudice del Riesame delle misure di prevenzione, mai iscritta alle correnti della magistratura, Apostolico è una giudice schiva, seria, apprezzata negli uffici giudiziari. Da tempo lavora nel Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione della prima sezione civile del tribunale di Catania, presieduta da Massimo Maria Escher, con le colleghe Marisa Acagnino e Stefania Muratore. «La mia non è affatto una decisione politica, io ho preso le mie determinazioni solo sulla base del diritto», ha detto la giudice ai colleghi più stretti dopo le accuse di «sentenza ideologica» lanciate dal centrodestra nei giorni scorso.
Le parole della premier
Sulle parole della premier Meloni, che su Fb si è detta «basita davanti alla sentenza del giudice di Catania» e ha parlato di «motivazioni incredibili» Apostolico non vuole fare commenti e, appunto, domenica ha chiuso il profilo.
La replica della giudice
«Non voglio entrare nella polemica, né nel merito della vicenda. Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non rientra nei miei compiti. E poi non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale», dice la giudice Iolanda Apostolico.
I quotidiani Libero e il Giornale sono riusciti a leggere alcuni suoi post prima della decisione di lasciare il social e hanno riportato che la magistrata seguirebbe su Facebook l’ong Open arms e avrebbe condiviso diverse campagne lanciate da Potere al Popolo contro la destra e una mozione di sfiducia contro il leader leghista Matteo Salvini nel 2018. Non ha chiuso il profilo Fb, invece il compagno Massimo Mingrino, catanese, funzionario al palazzo di giustizia di Catania che non fa mistero delle sue simpatie per le posizioni di Potere al Popolo e comunque non risparmia critiche alla politica sull’immigrazione anche di governi di centrosinistra. «Minniti, Salvini, Lamorgese - scriveva il 4 aprile del 2021 - Una sequenza senza interruzione. Istituzioni che lasciano crepare centinaia, migliaia di persone in mare, mentre le imbarcazioni della nostra Guardia Costiera languono nei porti (anche al Nic di Catania), spesso e volentieri con i motori accesi. Potrebbero salvare centinaia di vite ogni giorno...».
E, dopo la mancata convalida del fermo di Carola Rackete, comandante della Sea Watch arrestata dopo aver forzato i blocco della Guardia Costiera a Lampedusa: «Bye bye Salvini, il giudice ha studiato le carte, ha verificato i fatti ed ha accertato che la legge non è stata violata. Se tu studiassi (si, vabbè...) ti risparmieresti questi fervorini mediatici che ti espongono - agli occhi delle persone consapevoli - solo al ridicolo... Carola è libera e noi, allegramente, brindiamo alla faccia Tua». Parole dure anche verso la procura di Catania diretta da Carmelo Zuccaro: «Vedete, per la Procura della Repubblica di Catania è l’ennesimo flop in materia di ONG ed organizzazioni connesse. C’è abituata. Il problema è che quello che sembra, non da oggi, l’obbiettivo di questa strampalata e superficiale azione giudiziaria - e cioè la delegittimazione vergognosa dell’operato delle ong nel Mediterraneo - è stato da tempo raggiunto. Grazie alla Procura di Catania le ong sono ormai praticamente scomparse dal Mediterraneo ed è venuta pertanto meno la loro preziosissima azione di salvataggio di vite umane e di monitoraggio di tutto ciò che avviene in quel mare. Questo è un danno enorme in termini di vite umane (e pensare che Zuccaro si spaccia per fervente cattolico...) e di consapevolezza ed informazione».
Non è la prima volta che la sezione migrazioni del tribunale di Catania finisce nell’occhio del ciclone: mesi fa, tra le polemiche, stroncò il cosiddetto decreto anti-sbarchi del ministero dell’Interno, condannando il Viminale e i dicasteri della Difesa e delle Infrastrutture al pagamento delle spese processuali dopo un ricorso della nave Ong tedesca Sos Humanity. L’imbarcazione si trovava nelle acque di Catania il 6 novembre del 2022. Oltre 140 profughi a bordo vennero fatti sbarcare subito, altri 35 rimasero sulla nave in forza della legge che vietava alla ong di restare in acque territoriali oltre il tempo necessario a prestare soccorso a chi avesse problemi di salute, alle donne e ai minori. Gli avvocati della Humanity fecero ricorso al tribunale civile di Catania a tutela di chi non era stato fatto sbarcare. E vinsero. «Dichiarammo Illegittimo il decreto perché contravveniva ai trattati internazionali sui soccorsi in mare e alle direttive europee», spiega Marisa Acagnino, giudice della sezione e collega della Apostolico. Acagino, criticata allora per la sua appartenenza a Md, la corrente di sinistra delle toghe, si schiera con la magistrata finita ora nell’occhio del ciclone. «Noi decidiamo secondo scienza e coscienza, e secondo la legge», dice. «La collega - spiega tornando sul decreto Cutro- ha disapplicato il provvedimento, tra l’altro, perché questo tipo di trattenimento si può fare in frontiera e in questo caso i migranti erano sbarcati a Lampedusa, poi erano transitati a Palermo e infine erano stati portati a Pozzallo, poi c’era il problema legato alla normativa europea e infine mancava il provvedimento della commissione apposita sulla manifesta infondatezza o inammissibilità della domanda di asilo».
«L’elenco dei Paesi sicuri, poi, — prosegue — è un elenco ministeriale che non vincola il giudice, è un atto amministrativo e per giurisprudenza costante i magistrati non sono vincolati». «Io sono orgogliosa di essere di Magistratura Democratica , - spiega- aderire a una corrente non significa che le proprie idee incidano sulle decisioni o che mi condizionino. Critichino nel merito i provvedimenti». «Non vedo nulla di anomalo nell’esprimere le proprie idee», conclude infine difendendo il diritto di Mingrino di esprimersi sui social. «Il Paese – dice - sarebbe peggio di quel che è se non difendessimo le nostre convinzioni».
«C’era la giudice in quel corteo»: l’accusa di Salvini ad Apostolico, con un video, e la lite toghe-politica. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera giovedì 5 ottobre 2023.
La magistrata Apostolico del caso Catania. Salvini posta un video. L’Anm: è vita privata
La giornata inizia, alle 9.46, con un video postato da Matteo Salvini: «25 agosto 2018, Catania, io ero vicepremier e ministro dell’Interno. L’estrema sinistra manifesta per chiedere lo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti: la folla urla “assassini” e “animali” in faccia alla polizia. Mi sembra di vedere alcuni volti familiari».
Il ministro dei Trasporti la lascia cadere così, non nomina i volti familiari. Ma il giallo dura non più di mezz’ora. Il deputato siciliano della Lega Anastasio Carrà, infatti, esce allo scoperto: «Ha ragione Salvini, nel video che ha pubblicato ci sono volti noti. Sono certo di riconoscere la magistrata di Catania Iolanda Apostolico, che in quel 25 agosto 2018 era su un molo del porto catanese». Poi, il parlamentare si «rivolge direttamente alla dottoressa: mi può smentire?». La magistrata nei giorni scorsi non aveva convalidato il trattenimento a Pozzallo di quattro migranti tunisini sbarcati a Lampedusa. Una decisione che aveva lasciato «basita» la premier Meloni. Mentre l’eurodeputata leghista Susanna Ceccardi sostiene che Apostolico era la giudice che nel 2008 condannò a 12 anni il gioielliere catanese Guido Gianni che uccise due rapinatori. Apostolico non ha commentato, mentre Salvini ha fatto sapere del suo «sconcerto». E il vicesegretario Andrea Crippa: «Se quella nel video è davvero la Apostolico va radiata». Così per tutto il giorno, raffiche di dichiarazioni leghiste che chiedono l’intervento di Nordio, a partire da Erika Stefani.
Il tutto, proprio alla vigilia di una nuova udienza del processo a Matteo Salvini per i fatti della nave Open arms. E proprio nel giorno in cui la stessa Open Arms viene bloccata nel porto di Marina di Carrara con 176 migranti: avrebbe contravvenuto al decreto Cutro che vieta i salvataggi multipli. L’Anm replica: «Valuteremo insieme alla diretta interessata se e come intervenire». Con il presidente Giuseppe Santalucia che invita a «valutare la terzietà dei giudici sulla base dei provvedimenti assunti e delle motivazioni poste alla base, e a non fare invece lo screening al passato, alla vita privata di un magistrato, scavando a ritroso per anni. Comunque — dice a La7 — non era una manifestazione contro il governo, invocava il ripensamento di Salvini, un atto umanitario. E partecipare alle manifestazioni è un diritto costituzionale».
Lo stesso Santalucia, poi, riflette: «A cinque anni di distanza si riprende non so bene come un video, quando questo magistrato non convalida il trattenimento dei migranti. Non so bene come spunti il video, se era già online o se appartiene alle forze di polizia come sembrerebbe dal modo in cui sono state effettuate le riprese, alle spalle delle forze dell’ordine che contengono il corteo. Questo mi sembra più grave». Dal Csm Roberto Fontana ritiene che «spostare l’attenzione sulla vita del magistrato è un modo per eludere il confronto sul merito del provvedimento». Il leader del M5S, Giuseppe Conte invita il governo a «non sferrare un attacco a un potere autonomo». Interviene il ministro Giuseppe Valditara: «Stupisce chi parla di irrilevanza della “vita privata” di un magistrato». Il ministro riassume con «la massima per cui un magistrato ha l’obbligo non solo di essere, ma anche di apparire indipendente». Da Noi moderati, Maurizio Lupi osserva che «come per il generale Vannacci, certi comportamenti sono inopportuni per chi ricopre ruoli e cariche pubbliche». E Matteo Renzi trova «scandaloso che un magistrato vada in piazza tra chi urla slogan vergognosi». Il Cdm, ieri, ha prorogato di 6 mesi lo stato di emergenza per «l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti».
Estratto dell'articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 9 ottobre 2023.
Da ieri non più solo Iolanda Apostolico. Un altro giudice di Catania, Rosario Cupri, non ha convalidato, come fece già la sua collega il 29 settembre scorso, il trattenimento nel centro di accoglienza di Pozzallo di alcuni migranti tunisini. Il giudice Cupri ieri ne ha «liberati» sei, vanificando in pratica il provvedimento disposto dal questore di Ragusa.
La collega Apostolico, lo ricordiamo, rigettò un’analoga richiesta nei confronti di altri 4 tunisini, sconfessando di fatto il decreto Cutro del governo Meloni. Da allora è scoppiato un putiferio, soprattutto dopo la comparsa di tre video nel giro dell’ultima settimana che ritraggono la giudice Apostolico sul molo di Catania il 25 agosto 2018 tra i manifestanti che chiedevano di far sbarcare i migranti bloccati da giorni sulla nave Diciotti dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini.
[…] Nel terzo video, spuntato fuori ieri e diffuso — come il primo — sui canali social della Lega, si intravede la giudice battere le mani in mezzo ai manifestanti che cantano, davanti al cordone di polizia schierato, lo slogan «siamo tutti antifascisti».
[…] Nell’intervista a Hoara Borselli su Libero il ministro Nordio ha detto in sintesi che la giudice Apostolico «poteva» manifestare a Catania, ma non «doveva». «I limiti di un magistrato sono fissati da varie pronunce della giurisprudenza, ma soprattutto dalla deontologia e dal buon senso — ha detto —. Più manifesta le sue idee politiche, più vulnera la presunzione di imparzialità».
La maggioranza da giorni invoca le dimissioni della giudice di Catania, ma sul punto il Guardasigilli ieri ha tagliato corto: «Il ministro della Giustizia non può esprimersi prima di aver acquisito tutti gli elementi necessari». Di qui, gli immediati accertamenti disposti.
[…] La maggioranza, invece, tira dritto: «Assordante silenzio — si legge così in una nota del la Lega — dopo il terzo video sulla magistrata di Catania in piazza contro il ministro Salvini, tra accuse volgari alla polizia, cori e battimani. Solidarietà alle donne e uomini delle forze dell’ordine, è scandaloso che non siano ancora arrivate le dimissioni dell’interessata. La riforma della giustizia si conferma urgente e necessaria».
[…] E il ministro delle Politiche del mare, Nello Musumeci (FdI), versa ulteriore benzina sul fuoco: «C’è un altro giudice di Catania politicizzato, non posso dire chi è, ma si tratta di un magistrato che negli ultimi anni si è divertito a utilizzare i propri pregiudizi di uomo di sinistra per attaccare esponenti della destra» .
Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” il 9 ottobre 2023.
Le motivazioni ricalcano il ragionamento seguito dalla collega. La stroncatura del decreto Cutro è totale. E i trattenimenti disposti dal questore di Ragusa nei confronti di sei tunisini richiedenti asilo non vanno convalidati. A firmare la decisione è il giudice catanese Rosario Annibale Cupri che, in tempi record, scrive e motiva le ordinanze che disapplicano le norme dell’esecutivo e fissano paletti rigorosi.
Il trattenimento, che implica la privazione della libertà personale, deve essere una misura eccezionale. La «cauzione» fissata dal decreto come mezzo per evitare la permanenza nei cpr è illegittima. E in materia di richiedenti asilo non si deve generalizzare ma si deve valutare caso per caso.
La linea seguita, dunque, è quella della giudice Iolanda Apostolico […] alle stesse conclusioni della collega è arrivato Cupri, 47 anni, un passato alla sezione lavoro, che in sette pagine spiega il suo no alle convalide.
«Il trattenimento di un richiedente la protezione internazionale — scrive il giudice tra le altre cose — costituisce una misura coercitiva che lo priva della libertà di circolazione e lo isola dal resto della popolazione, imponendogli di soggiornare in un perimetro circoscritto e ristretto», ne discende — premette la decisione — «che è legittimamente realizzabile solo in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge» e «può essere disposto salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive».
Nei casi esaminati, inoltre, i migranti avevano chiesto la protezione internazionale, e quindi acquisito lo status di richiedenti asilo, già al loro arrivo a Lampedusa. La procedura accelerata che implica il trattenimento, prevista dal decreto Cutro per i profughi che vengono da paesi cosiddetti sicuri, secondo il giudice, eventualmente si sarebbe potuta adottare allora e non a Pozzallo, dove i tunisini hanno semplicemente reiterato la loro richiesta.
«In altri termini l’istanza di protezione internazionale formalizzata a Ragusa — secondo il magistrato — non può essere trattata come procedura di frontiera». Per cui il trattenimento non è legittimo.
Il giudice boccia anche la previsione della garanzia finanziaria come mezzo per evitare il fermo. «Come già affermato da precedenti decisioni di questo tribunale in procedimenti analoghi, le cui motivazioni sono condivise da questo giudicante — scrive facendo riferimento alle ordinanze della Apostolico —, la garanzia finanziaria per legge non è alternativa al trattenimento, bensì la norma stabilisce espressamente che, in luogo del trattenimento, il questore può disporre una o più misure alternative come la consegna del passaporto, l’obbligo di dimora o di firma».
Infine, il magistrato catanese ritiene il decreto Cutro in contrasto con la normativa comunitaria perché «il trattenimento può avere luogo soltanto, ove necessario, sulla base di una valutazione caso per caso (e non per la provenienza del migrante da Paesi ritenuti sicuri ndr ), salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive».
Un cane sciolto, mai iscritta a correnti”. Chi è Iolanda Apostolico, la magistrata che sfida il governo sui migranti. Alessandra Ziniti su La Repubblica l'1 Ottobre 2023
Di certo non è una toga rossa. Ma ora gli strali del governo sono contro di lei. Salvini: “Subito una riforma della giustizia”
Di lei in tribunale a Catania dicono: «Se c’è un cane sciolto qui, è Iolanda Apostolico». Mai iscritta a correnti della magistratura, lontana persino dal movimento di chi ne chiede lo scioglimento. Il suo lavoro e basta. Difficile trovare qualcosa che possa rivelare le sue idee e tanto meno qualificare una eventuale appartenenza politica.
La difesa della giudice di Catania Apostolico: “Io scafista in toga? Alla base dei miei atti solo motivi giuridici”. Alessandra Ziniti La Repubblica il 3 Ottobre 2023.
La magistrata accusata dal governo: “Non mi lascio condizionare dalle mie idee”. Il marito lavora in tribunale: “Puntano a indebolire le sentenze”
“Ma davvero mi hanno chiamato scafista in toga? Mi viene quasi da ridere”. Ieri mattina, al rientro in ufficio dopo un weekend di fuoco, Iolanda Apostolico si sfoga con una collega. Se la pressione su di lei non fosse così alta (e basterebbe l’intervento censorio della premier) scapperebbe anche da ridere. Ma la giudice che ha “osato” non convalidare il trattenimento dei primi richiedenti asilo sottoposti alla procedura accelerata di frontiera è finita sulla graticola. Accusata di aver firmato un provvedimento condizionata da un’appartenenza politica che non ha, come testimonia il fatto che in trent’anni di carriera non ha mai avuto una tessera di nessuna corrente della magistratura.
Estratto dell’articolo di Liana Milella per repubblica.it venerdì 6 ottobre 2023.
Stavolta, al Csm, non c’è tutela che tenga per Iolanda Apostolico. A palazzo dei Marescialli, egemonizzato dal centrodestra della politica e delle toghe, in un Consiglio presieduto dall’avvocato leghista Fabio Pinelli, la giudice rischia il trasferimento d’ufficio.
Ma su di lei il Csm si spacca due volte in 48 ore. I laici filogovernativi assieme a Italia viva la “condannano” prim’ancora di averla sentita […]. Dopo che la destra delle toghe di Magistratura indipendente due giorni fa aveva negato la “tutela” chiesta per lei da 13 colleghi dopo l’attacco della premier Giorgia Meloni.
[…] Al Csm il “processo” per Apostolico è già scritto. Lo formalizza addirittura, con una sorta di condanna in anticipo, il presidente della prima commissione che si occupa dei trasferimenti d’ufficio. Enrico Aimi, ex senatore di Forza Italia, di professione avvocato, stavolta veste i panni dell’accusa e chiede che «i giudici siano come la moglie di Cesare».
Proprio mentre il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ricorda che «si criticano i provvedimenti non sulla base di un video di cinque anni prima preso dal cassetto, che allora non ha creato scandalo, e che semmai andava valutato in quel momento e non oggi».
Aimi la pensa all’opposto perché «l’autonomia e l’indipendenza del magistrato deve riguardare anche la sua proiezione esterna e la toga non deve essere solo terza e imparziale, ma deve anche apparire tale».
Apostolico insomma è già stata condannata. E a pensarla come Aimi è Ernesto Carbone, il laico di Iv, che cita «l’interpretazione granitica della Cassazione che impone di escludere anche il sospetto dell’imparzialità». Insomma, dice Carbone, «se hai manifestato sotto la nave Diciotti, devi astenerti sui migranti». Così la pensa Matteo Renzi: «Scandaloso che un magistrato vada in piazza».
Ma è certo che al Csm la battaglia sarà durissima. Perché, almeno in prima commissione, la destra potrebbe perdere sul trasferimento d’ufficio, visto che il centrosinistra può contare su tre togati (Abenavoli di Area, Miele di Md, Forziati di Unicost) e il laico Papa di M5S, a fronte del forzista Aimi e di Paolini di Mi.
Ma anche perché prima si dovrà discutere della pratica a tutela chiesta dall’indipendente Roberto Fontana e firmata da 12 colleghi. […] Lo scontro sarà durissimo, e visti i numeri alla fine potrebbe vincere chi la pensa come Salvini.
Estratto dell’articolo di Felice Manti per “il Giornale” venerdì 6 ottobre 2023.
Ci mancava solo l’alibi della privacy a tormentare i rapporti tra magistratura e politica. Di fronte al video diffuso dal ministro Matteo Salvini […] Anm e Csm anziché fare ammenda gridano allo scandalo.
Per il togato indipendente del Csm Roberto Fontana, uno dei consiglieri che ha raccolto le firme per la richiesta di una pratica a tutela della Apostolico, è tutto normale, anzi serve a confondere i piani: «Criticare una sentenza si può, scandagliare la vita delle persone e spostare l’attenzione sulla vita del magistrato delegittima tutti», scrive Fontana.
Per l’Anm non è lecito dubitare sulla indipendenza di giudizio della giudice, che con una sentenza ha svuotato il Cpr di Ragusa, definendo illegittimo il decreto del governo nella parte in cui obbliga un richiedente asilo pagare una «garanzia sanitaria» di 5mila euro per evitare di essere trattenuto nel Centro.
Un provvedimento che peraltro ha già creato un «orientamento legislativo» contro il decreto del governo (vedi la sentenza dell’altro giorno della Procura di Firenze sulla Tunisia «Paese insicuro»), come conferma lo stesso Fontana, che si augura un pronunciamento della Corte di Cassazione «a confermarlo o smentirlo» quando verrà chiamata a farlo.
«La compressione dei diritti di manifestazione del pensiero dei magistrati diventa impossibile da reggere, si valuti la terzietà sulla base dei provvedimenti, sennò non se ne esce», blatera il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia […] a SkyTg24, invitando «non fare screening al passato, alla vita privata o pubblica». […] È plausibile pensare che il sindacato delle toghe e una parte del Csm difenda il magistrato dai soliti «gravissimi e inaccettabili attacchi» che nascondono l’accusa di essere «prevenuta».
«Ogni magistrato ha un orientamento politico che non si riflette sulla sua imparzialità», è il solito ragionamento del togato Csm Fontana, anche se la sua sentenza demolisce un decreto su presupposti giuridici fallaci, secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio [...], proprio perché il decreto sarebbe stato scritto in osservanza con le stesse normative nazionali e comunitarie che secondo la Apostolico invece sarebbero state violate.
Da qui le critiche nel merito di Viminale e Guardasigilli. Peraltro, dentro il Csm ci sono anche sensibilità diverse, come fa capire il laico di Forza Italia Enrico Aimi, presidente della Prima commissione del Csm, proprio quella che si dovrà pronunciare sulla pratica a tutela della magistrata di Catania chiesta da 13 consiglieri togati di sinistra: «La giustizia non deve essere solo terza e imparziale, ma deve anche apparire tale. Le eloquenti immagini del giudice in prima fila a un’accesa manifestazione dai connotati politici esortano un richiamo ai principi che sovrintendono il nostro Ordinamento», è il ragionamento del consigliere, che così anticipa il suo orientamento «colpevolista».
A far riflettere è l’escamotage di invocare il diritto alla privacy delle toghe dopo aver di strutto quella delle migliaia di innocenti messi alla gogna con intercettazioni irrilevanti (su cui finalmente arriverà una stretta), tralasciando le inchieste sui politici fatte dal buco della serratura che hanno indugiato sulla dimensione privata. La privacy è un alibi che oggi sembra, per la magistratura, la peggiore delle ne mesi possibili.
Mattia Feltri per “La Stampa” - Estratti il 3 ottobre 2023.
La decisione del tribunale di Catania di disapplicare i decreti anti immigrazione del governo era stata ampiamente pronosticata, ed è stata ora ampiamente condivisa da vari costituzionalisti, ma una seria ragione per lamentarsi Giorgia Meloni l’ha in pieno.
Il Giornale ha infatti svelato che il giudice in questione, Iolanda Apostolico, aveva condiviso sul suo profilo Facebook una petizione affinché Matteo Salvini (allora all’Interno) fosse sfiduciato, ed espresso battagliere posizioni pro migranti e contro la destra. Tutto legittimo, poiché viviamo in regime di libertà di opinione.
Ma, come aveva detto il ministro Crosetto a proposito del generale Vannacci, esistono alcune categorie - magistratura, forze armate, forze dell’ordine che, per l’enormità dell’uso esclusivo della forza, anche di togliere la libertà, di cui sono per legge dotate - alle quali è richiesto non soltanto di essere ma di apparire imparziali.
È uno scrupolo sottolineato non da Crosetto o da me, ma dalle Sezioni unite della Cassazione: “… impone al giudice non soltanto di essere esente da ogni parzialità, ma anche di essere al di sopra di ogni sospetto di parzialità”. Uno scrupolo che buona parte della magistratura ignora e da anni, e nonostante Piero Calamandrei - che piace tanto citare e altrettanto trascurare - fondasse l’indipendenza della magistratura nella sua imparzialità, e l’imparzialità, diceva, presuppone lontananza e solitudine.
(...) I magistrati hanno perso la fiducia dei cittadini perché il loro enorme potere è, o quantomeno appare, un abuso di potere.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per lastampa.it venerdì 6 ottobre 2023.
Il video nemmeno l’ha visto. «Non ho tempo da perdere. Avevo molto lavoro da sbrigare», ha risposto in serata a chi la fermava, uscendo dal tribunale. Si fa fatica a crederlo, ma è così: mentre tutta Italia parla di lei, per Iolanda Apostolico è stato un giorno come tutti gli altri. Del video ha saputo tra un processo e un altro, da colleghi e avvocati a cui ha consegnato l’assicurazione di essere «serena, sotto il profilo professionale. Continuo a lavorare, come sempre: che cosa altro dovrei fare, chiudermi in casa?».
Ma a chi la conosce, non è sfuggito il turbamento personale «per una polemica che non dipende da me. Io mi rifiuto di entrare in quest’arena, non è nelle mie aspirazioni. Né intendo contribuire a questo chiasso. […] Si sposta l’attenzione su cose che non hanno nulla a che vedere con un provvedimento giurisdizionale, che si può discutere e impugnare».
[…] Quanto alla manifestazione, «non ho nulla da nascondere, né spiegazioni da dare» ha detto ai colleghi. Rivendica una libertà propria di ogni cittadino, anche in toga, «a meno che non si voglia tornare a magistrati che si rinchiudono in una torre d’avorio». Piuttosto ha condiviso con alcuni colleghi il timore che sia in corso «un’operazione di dossieraggio», considerando che quel giorno, alla manifestazione, non era nemmeno stata indentificata dall’autorità di pubblica sicurezza.
Erano i giorni concitati della Diciotti, la nave della Guardia Costiera che all’alba del 16 agosto aveva soccorso 190 persone (di cui 37 minorenni) nelle acque internazionali al largo dell’isola di Malta. Il pattugliatore era approdato a Catania il 20 agosto, ma il ministro dell’Interno Matteo Salvini si rifiutava di autorizzare lo sbarco dei migranti, nelle more di un negoziato europeo per la redistribuzione.
La Procura di Agrigento aveva aperto un’inchiesta per sequestro di persona. Sul molo Levante del porto di Catania erano arrivati i mass media internazionali, manifestanti e parlamentari di ogni colore (dal berlusconiano Miccichè alla renziana Boschi) per chiedere «la liberazione di persone stremate e in precarie condizioni di salute». […] Ma Salvini teneva duro.
Alle 17 di sabato 25 agosto era convocato un presidio dal titolo «Facciamoli scendere». A promuoverlo una ventina di associazioni, laiche e cattoliche […]. Nel manifesto si leggeva: «Nessun obiettivo politico del governo può giustificare l’utilizzo di centinaia di vite umane come arma di ricatto, considerate carne da macello, non vite e speranze ma numeri da distribuire o respingere. Restiamo umani!». Seguiva la richiesta di dimissioni di Salvini. Lo sbarco dei migranti sarebbe stato autorizzato solo a mezzanotte. […]
Dunque tra le tremila persone convenute su quel molo c’era anche la giudice Apostolico. Che mai si è occupata di vicende processuali tipo Diciotti e peraltro all’epoca non lavorava nella sezione civile specializzata in immigrazione, ma come giudice collegiale nel settore penale, in fase cautelare.
La polizia aveva creato un cordone per impedire l’avvicinamento alla nave. I manifestanti più giovani avevano tentato di forzarlo. La polizia aveva caricato. Feriti tre manifestanti e un poliziotto. Una decina di giovani con salvagenti e tavolette si era lanciata in mare nel tentativo di raggiungere la Diciotti a nuoto, gridando «libertà, libertà».
La giudice non era stata coinvolta negli scontri, né tantomeno nei cori successivi («Animali!», «Assassini!») di cui c’è traccia nel video diffuso da Salvini e ripreso dalle spalle della polizia. Anzi. Assieme ad altri adulti, si era interposta presidiando il confine della «zona rossa». Obiettivo cercare di evitare «ulteriori scontri tra la polizia e i manifestanti». Un comportamento pacifico, «di garanzia», non assimilabile a quello di estremisti e facinorosi.
Le associazioni stanno cercando altri video, per documentare ciò che lo spezzone diffuso ieri non mostra. Lei no. Del video non vuole occuparsi. Preferisce «rimanere fuori» da una polemica che considera «collaterale e irrilevante, se non per distrarre l’attenzione». E continuare a «lavorare come sempre». […]
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per lastampa.it l'11 ottobre 2023.
Nello scontro tra il governo e i giudici della sezione immigrazione del tribunale di Catania, ora sono gli avvocati a intervenire pubblicamente. Non contro la giudice, ma in suo favore. Una triplice presa di posizione particolarmente significativa, perché sono le controparti processuali a rivendicare l’indipendenza del giudice e a denunciare il clima di «intimidazione» prodotto dagli attacchi personali ai danni dei magistrati per provvedimenti sgraditi al governo.
L’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) ha diffuso un appello intitolato «La Costituzione è la posta in gioco», che in poche ore ha raggiunto già oltre 500 adesioni, tra associazioni, giuristi e intellettuali, da Libera di don Luigi Ciotti all’Anpi. Denuncia i «feroci attacchi con dichiarazioni da parte di esponenti del governo in carica di sconcertante gravità, nel caso riguardante la giudice Apostolico addirittura accompagnate dalla riesumazione di video di anni fa che (non è chiaro per qual motivo) avrebbero dovuto comportare la sua astensione dal prendere una decisione giudiziaria e, dunque, le sue dimissioni […]» […]
A Catania sono 28 gli avvocati che hanno avviato una raccolta firme su un documento che «in relazione agli attacchi del governo a più giudici del tribunale di Catania e di altri fori accusati di scagliarsi contro i provvedimenti di “un esecutivo democraticamente eletto”, esprime forte preoccupazione in quanto tali attacchi lungi dall'esprimersi sul merito dei provvedimenti giurisdizionali si sostanziano in attacchi personali ai giudici e alle loro famiglie […]»
Gli avvocati paragonano quanto avvenuto nei confronti della giudice Iolanda Apostolico, «rea» di non aver convalidato quattro decreti di detenzione amministrativa di migranti tunisini, al caso del giudice milanese Raimondo Mesiano, che per aver condannato la berlusconiana Fininvest a un maxirisarcimento per il Lodo Mondadori, fu oggetto di una campagna culminata con un “reportage” di Mediaset che lo filmava al parco con i “calzini azzurri”.
«Nessuno scordi gli attacchi a un giudice, reo di portare i calzini azzurrini – scrivono gli avvocati catanesi -. Appaiono come atti intimidatori che vogliono condizionare la magistratura nelle sue decisioni. Oggi in tema di migranti, domani per decisioni, in qualsivoglia tema di diritti civili o sociali, non gradite a questa maggioranza[…] ».
Non meno incisivo il documento della Camera Penale milanese, che rileva da parte del governo «numerosi e convergenti segnali di compressione degli spazi di autonomia e indipendenza dei magistrati che assumono decisioni o iniziative in contrasto con le aspettative della politica».
Oltre al caso Apostolico, la nota fa riferimento a quello dell'imprenditore russo Artem Uss, «con un procedimento disciplinare per iniziativa ministeriale nei confronti dei magistrati che avevano avuto il torto di applicare, in luogo della custodia carceraria, una misura cautelare più attenuata».
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 9 ottobre 2023.
«Io non sarei andata a quella manifestazione, ma mi preoccupa la schedatura postuma della giudice Apostolico, dando l'idea di una magistratura deviata», dice Alessandra Maddalena, giudice napoletana e vicepresidente dell'Associazione nazionale magistrati.
Lei sarebbe andata alla manifestazione contro il governo, come la giudice Apostolico a Catania nel 2018?
«Io non sarei andata, perché così interpreto il dovere del magistrato non solo di essere, ma anche di sembrare imparziale».
Che cosa comporta?
«Anche limitazioni, in ossequio a un certo modo di intendere la nostra funzione».
Partecipare a una manifestazione tradisce un'impostazione ideologica?
«Io faccio parte di un gruppo centrista, Unicost, che per abito mentale considera essenziale il riserbo più assoluto sulle proprie opinioni politiche».
Apostolico è venuta meno al dovere di imparzialità?
«Non esprimo giudizi sulla collega. Eventuali valutazioni saranno fatte nelle sedi competenti. Però bisogna riconoscere che nella magistratura esistono diverse sensibilità culturali, che io rispetto».
Servono nuove regole?
«La regola migliore è il buonsenso».
Quindi ognuno decide come comportarsi?
«No. Credo che il tema dei limiti ai comportamenti del magistrato vada certamente affrontato, anche al nostro interno».
Sarebbe meglio che i giudici rinunciassero a social, manifestazioni, convegni?
«Non è che così semplice individuare il limite. Noi abbiamo idee politiche, come tutti. Né penso si possa impedire qualsiasi forma di manifestazione del pensiero, sarebbe antistorico. Ma io penso, e come me tanti colleghi, che serva riserbo, soprattutto quando si toccano tematiche politiche».
[…] Perché l'Anm magistrati difende la giudice Apostolico "senza se e senza ma"?
«Perché, pur senza eludere il problema dei comportamenti individuali dei magistrati, notiamo che si è allontanata la discussione dal vero tema: il contenuto del provvedimento giudiziario contestato e la conformità della normativa interna a quella europea».
La premier Meloni ha detto di essere rimasta «basita da motivazioni incredibili», ha parlato di giudice «che si scaglia contro un governo democraticamente eletto» e ha concluso che «un pezzo di Italia aiuta gli arrivi illegali».
«La critica al provvedimento è legittima. Ci saranno altri gradi di giudizio. Il resto mi preoccupa. Se si sostiene che una decisione giudiziaria rappresenta un attacco alla sicurezza pubblica, il tema si sposta. Si trasforma agli occhi dei cittadini la magistratura in un nemico della legalità e della sicurezza».
[…] Ma se la giudice non appare imparziale, come fa a esserlo il suo provvedimento?
«Giudicare un provvedimento giudiziario da chi l'ha scritto è rischioso. Si può tradurre in un'operazione di indebolimento della credibilità della giurisdizione nella sua interezza».
[…] «Leggo che ora si è andati a ripescare un'altra, vecchia sentenza penale della stessa giudice di Catania, peraltro confermata nei successivi gradi di giudizio. Scavare nel passato di un giudice è un'operazione preoccupante. Temo diventi un metodo […] […] La schedatura anche postuma, da utilizzare in caso di provvedimenti scomodi».
Con quali conseguenze?
«Ogni provvedimento che non corrisponde ai desideri della politica potrebbe essere indebolito da campagne di questo tipo […] E un pezzo di Stato sarà indebolito, la stessa democrazia sarà indebolita. Bisogna stare molto attenti». […]
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” venerdì 6 ottobre 2023.
Fa quasi ridere, in un Paese governato da chi non riconosce neppure la Costituzione e il Codice penale, ricordare a un giudice una questione di opportunità. Ma al posto della giudice Iolanda Apostolico, quando il marito attivista politico il 25 agosto 2018 scese in piazza a Catania contro Salvini che negava lo sbarco alla nave Diciotti carica di migranti, noi saremmo rimasti a casa.
Nessuna norma penale o deontologica le vietava di manifestare con tanti cittadini comuni, ma lei era ed è un giudice e la sua presenza accanto a chi insultava il ministro dell'Interno poteva far dubitare non della sua imparzialità e indipendenza (che sono fatti interiori), ma della sua immagine di giudice imparziale e indipendente.
[…] Ciò premesso, la sua partecipazione (peraltro silenziosa) a un vecchio corteo non inficia minimamente la sua ordinanza che nega il trattenimento di tre migranti mandando in bestia il governo.
Governo in cui siede, al ministero della Giustizia, un ex magistrato che, quando indossava la toga, andava a cena con Cesare Previti, imputato (e poi condannato) per corruzione di giudici in cambio di sentenze comprate: bell'esempio d'imparzialità e indipendenza.
[…] Ma ora un fatto gravissimo dovrebbe allarmare tutti e mettere il resto in secondo piano: l'angolatura di ripresa del video della giudice in piazza coincide […] con quella di un uomo armato di videocamera in mezzo alle forze di polizia (un agente in borghese?).
Il fatto che sia saltato fuori a tempo di record in mano al vicepremier e ministro Salvini, si spiega in soli due modi: o un poliziotto, con occhio di lince e memoria di ferro, si è ricordato di quel filmato di cinque anni fa e ha avvisato Salvini; oppure in qualche ufficio di polizia o di servizi si schedano i partecipanti illustrialle manifestazioni e, quando il politico di turno domanda "abbiamo niente contro la Apostolico?” c'è chi sa dove pescare in tempo reale.
Non sarebbe la prima volta: l’archivio segreto e illecito di Pio Pompa, analista del Sismi del gen. Pollari, trovato nel 2006 in un ufficio riservato di via Nazionale 230, raccoglieva schedature di magistrati, giornalisti e politici sgraditi a B. e alla sua banda. Pompa è morto ma, se Salvini non rivelerà subito chi gli ha passato quel video, saremo autorizzati a pensare che abbia già un degno successore. E ad avere paura.
Il video di Salvini contro la giudice, dubbi su chi l’ha girato: qualcuno tra le file della polizia. GIULIA MERLO E MARTA SILVESTRE su Il Domani il 05 ottobre 2023
Il vicepremier pubblica un video del 2018 in cui si vede la giudice dell’ordinanza che ha disapplicato il decreto del governo, a un corteo al porto di Catania. L’Anm: «No allo screening della vita privata»
Nessun armistizio tra governo e magistratura. Ieri mattia, vicepremier Matteo Salvini ha lanciato un nuovo attacco alla giudice del tribunale di sorveglianza di Catania, che con la sua ordinanza non aveva convalidato il trattenimento di un migrante nel cpr come previsto dal decreto delegato.
Dopo aver rilanciato i contenuti della pagina Facebook della giudice risalenti al 2018 in cui sosteneva la Open Arms e averla accusata di aver preso una decisione politicamente orientata, Salvini ha rincarato la dose pubblicando sui suoi social un video, in cui la toga viene inquadrata durante un corteo antirazzista organizzato al porto di Catania.
Uno zoom in avanti, un primissimo piano al volto di una donna che non partecipa ai cori dei manifestanti ma osserva in prima fila i poliziotti davanti a lei, poi i caschi della polizia che entrano nell'inquadratura. Il video, datato 25 agosto 2018 comincia così e a poca distanza dalle riprese c’è la nave Diciotti con 177 migranti a bordo trattenuti da giorni. «Mi sembra di vedere alcuni volti familiari….», è il messaggio di Salvini – che per il caso Diciotti non è finito a processo solo perché il Senato negò l’autorizzazione a procedere per lui –, con un riferimento chiaro alla giudice Iolanda Apostolico ma senza nominarla direttamente.
Sotto il video, il primo dei commentatori a fare il nome è Anastasio Carrà: carabiniere in pensione, luogotenente siculo di Salvini che, nell’aprile del 2019, fu il primo sindaco della Lega sull’isola e che oggi è deputato. Nel suo commento, Carrà invita la giudice Apostolico a smentire la propria presenza al porto di Catania e chiede un’informativa urgente del ministro della Giustizia Carlo Nordio. In seguito al video, poi, tutti i massimi dirigenti della Lega hanno ripreso le parole del Capitano, attaccando Apostolico e chiedendo chiarimenti.
Immediata è stata la risposta dell’Associazione nazionale magistrati. Il presidente Giuseppe Santalucia ha detto che «è su quello che un giudice ha scritto nel suo provvedimento che si misura la terzietà» e non con «lo screening sulla sua persona», «altrimenti la compressione dei diritti di un magistrato diventa impossibile da reggere».
Diversa la posizione del laico al Csm in quota Forza Italia, Enrico Aimi, che presiede la commissione che valuterà la richiesta di pratica a tutela della giudice, che definisce le immagini «eloquenti» e aggiunge che «l'autonomia e l'indipendenza non si limitino esclusivamente allo svolgimento delle funzioni, ma devono riguardare anche la proiezione esterna». Il togato indipendente Roberto Fontana, tra i promotori della pratica, ha invece detto che «spostare l'attenzione sulla vita del magistrato e le sue eventuali attività esterne è un tentativo di delegittimare l'attività giurisdizionale».
IL VIDEO
Il video, tuttavia, solleva qualche interrogativo. Le immagini condivise da Salvini sono inedite rispetto a quelle utilizzate nei giorni del 2018 e sono girate da un punto di vista privilegiato. L’inquadratura, infatti, è appena dietro il cordone della polizia in tenuta antisommossa, di fronte ai manifestanti. Da un altro video emerso nelle scorse ore si vede un uomo in borghese, appoggiato ad un agente, con in mano una telecamerina.
«Come fa il ministro Salvini ad avere un video del genere e a usarlo come arma politica?», è il messaggio di Luciano Cantone, parlamentare etneo del Movimento cinque stelle, «Non posso credere che Salvini utilizzi la polizia come propria milizia personale e che addirittura riceva imbeccate per affossare una giudice», ha scritto, annunciando che presenterà un’interrogazione parlamentare.
GIULIA MERLO E MARTA SILVESTRE Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it venerdì 6 ottobre 2023.
«Se fosse confermato che il video pubblicato da Salvini è materiale proveniente dagli uffici della polizia di Stato ci troveremmo di fronte a un caso di rilevante gravita». È uno dei passaggi dell’esposto presentato alla magistratura dai deputati Angelo Bonelli e Filiberto Zaratti, gruppo alleanza Verdi-Sinistra, che chiedono alla procura della repubblica di Roma di indagare e valutare l’eventuale violazione dell’articolo 326 che punisce la rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio.
I deputati nell’esposto, che Domani ha potuto leggere in anteprima, si chiedono se esista o meno una banca dati in grado di catalogare i cittadini, anche incensurati, che partecipano alle manifestazioni e chi ha accesso a questi dati. Ora i magistrati, guidati dal procuratore Franco Lo Voi, dovranno aprire un fascicolo oppure inviare gli atti ai colleghi catanesi.
A questo punto i pm potrebbero chiedere alla polizia di effettuare verifiche interne e sentire i testimoni coinvolti in questa vicenda a partire da Matteo Salvini e dal leghista catanese, l’ex carabiniere Anastasio Carrà.
[…] Non è certo semplice gestire la situazione innescata dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini con la pubblicazione di un video inedito della manifestazione a Catania dell’agosto 2018 contro lo stesso Salvini all’epoca ministro dell’Interno che bloccava le navi cariche di migranti lasciandole in mezzo al mare e vietando lo sbarco nei porti.
In quelle immagini compare il volto della giudice Iolanda Apostolico, ai tempi lavorava alla misure di prevenzione, oggi è la nemica numero uno del governo dopo aver bocciato i decreti immigrazione attraverso una serie di ordinanze che hanno liberato i migranti tunisini dai Centri di permanenza. Chi ha ripreso con lo zoom il volto della giudice e chi l’ha ritirato fuori a tempo debito quando serviva a colpire la firmataria delle sentenze che hanno messo in difficoltà l’esecutivo?
Ambienti leghisti, naturalmente, escludono provenga dalla polizia, alcuni sono certi che sia stato qualche leghista locale a farle. Di certo se così fosse sarebbe curioso perché è l’unico civile nel quadrante blindato dalle camionette inaccessibile persino alla stampa.
[…] Resta un mistero chi le ha girate, cioè la provenienza delle immagini finite sui social del leader leghista. Uno dei primi sospettati è stato un uomo calvo dietro i poliziotti in tenuta antisommossa e che è certamente un poliziotto perché in un frame di uno dei video di quella giornata, trasmessi da Gedi, sale addirittura sul paraurti della camionetta per riprendere le cariche in corso. Nessuno giornalista potrebbe farlo, verrebbe immediatamente fatto scendere. Ha uno zaino blue ed è quasi poggiato sulla spalla di uno degli agenti. Quindi ecco la prima certezza: lui è il poliziotto deputato a riprendere i momenti della protesta così da analizzarli in un secondo momento.
È l’unico a riprendere nella zona presidiata da tutti i lati dalle camionette, che avevano così formato una sorta di zona rossa. Tanto che l’emittente Local Team, sempre in prima linea durante i cortei, quella sera ha fatto riprese solo da lontano, quasi dall’alto che permettono comunque di individuare il tizio calvo incollato agli agenti con casco e manganelli. Non c’erano giornalisti, nessun’altra telecamera. Ma se anche non fosse lui l’autore, può essere stato solo qualcuno autorizzato a stare lì nell’area di sicurezza. Lo confermano anche altri giornalisti presenti quel giorno. A questo si aggiunge che il video è inedito, non c’è traccia sul web e sui social prima della diffusione sui social da parte di Salvini.
L’unico modo per risolvere il giallo è una verifica interna alla polizia. Quello che trapela da alcune fonti che Domani ha consultato è che non c’è certezza che le immagini siano state girate e diffuse da agenti in servizio e che comunque una verifica ufficiale non partirà se non per impulso della magistratura. In realtà se il ministero dell’Interno volesse potrebbe avviare una verifica a prescindere dalla procura e nel caso sanzionare la manina che ha trasmesso il video.
Tuttavia, sempre le stesse fonti qualificate, spiegano che «non si esclude che sia in corso una verifica informale […]. […]
Salvini come Delmastro, esposto ai pm sul video usato contro la giudice. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 06 ottobre 2023
La polizia: «Non è negli atti ufficiali». La denuncia ai pm di Bonelli apre alla possibilità degli accertamenti. La Russa e Meloni difendono il ministro: «Nessun dossieraggio»
«Se fosse confermato che il video pubblicato da Salvini è materiale proveniente dagli uffici della polizia di stato ci troveremmo di fronte a un caso di rilevante gravità». È uno dei passaggi dell’esposto presentato alla magistratura dai deputati Angelo Bonelli e Filiberto Zaratti, gruppo Alleanza verdi-sinistra, che chiedono alla procura della Repubblica di Roma di indagare e valutare l’eventuale violazione dell’articolo 326 che punisce la rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio. Lo stesso reato per il quale è finito sotto inchiesta il sottosegretario Andrea Delmastro dopo aver passato documenti sensibili sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito all’amico e collega di partito Giovanni Donzelli, il quale li ha usati in aula per colpire l’opposizione.
I deputati nell’esposto si chiedono se esista o meno una banca dati in grado di catalogare i cittadini, anche incensurati, che partecipano alle manifestazioni e chi ha accesso a questi dati. In pratica vogliono sapere se esiste una centrale di schedatura all’interno del Viminale. Ora i magistrati, guidati dal procuratore Franco Lo Voi, dovranno aprire un fascicolo oppure inviare gli atti ai colleghi catanesi. A questo punto i pm potrebbero chiedere alla polizia di effettuare verifiche interne e sentire i testimoni coinvolti in questa vicenda a partire da Matteo Salvini e dal leghista catanese, l’ex carabiniere Anastasio Carrà, il primo a fare il nome della magistrata Iolanda Apostolico commentando il video pubblicato dal suo leader. Non solo, più fonti qualificate, spiegano che con la denuncia e un’indagine aperta sarà possibile controllare gli accessi fatti negli archivi informatici della questura per verificare se e quando qualcuno ha estratto il video o materiale inerente la manifestazione del 25 agosto 2018.
LA VERSIONE DELLA POLIZIA
In tarda serata è arrivata la nota della polizia che comunica che «il video pubblicato non risulta tra gli atti d’Ufficio relativi all’evento in questione. Inoltre, negli atti redatti non risulta menzionata la presenza della dottoressa Iolanda Apostolico né del marito». Di certo non è semplice né per il questore di Catania né per i vertici del corpo gestire la situazione innescata dal ministro dei Trasporti.
Il video diffuso, finora inedito, è stato realizzato durante una manifestazione contro lo stesso Salvini, all’epoca ministro dell’Interno che bloccava i migranti a bordo delle navi impedendogli di sbarcare. Tra i presenti il giudice Iolanda Apostolico, ai tempi lavorava alla misure di prevenzione, oggi nemica numero uno del governo dopo aver bocciato i decreti immigrazione attraverso una serie di ordinanze che hanno liberato i migranti tunisini dai Centri di permanenza. Chi ha ripreso con lo zoom il volto del giudice? E chi ha ritirato fuori il video proprio quando serviva colpire la firmataria delle frasi che hanno messo in difficoltà l’esecutivo? La filiera potrà essere ricostruita con l’apertura dell’indagine a seguito dell’esposto, che potrebbe dare impulso a una verifica approfondita interna alla polizia.
L’EX CARABINIERE CARRÀ
Qui iniziano le difese d’ufficio. Ambienti leghisti, naturalmente, escludono provenga dalla polizia. Alcuni sono certi che sia stato qualche locale leghista a fare le riprese. Così fosse, sarebbe curioso perché si tratterebbe dell’unico civile nel quadrante blindato dalle camionette inaccessibili persino alla stampa. «Certo che sarebbe gravissimo se fosse uscito dagli archivi della polizia», ammette Carrà, deputato leghista, catanese ed ex carabiniere, che dunque conosce bene il mondo delle forze dell’ordine: «Ho fatto il carabiniere a Catania, ero luogotenente mica uno cos , ho prestato servizio puro in tribunale e perciò conosco il giudice Apostolico, per questo l’ho riconosciuta nel video pubblicato dal mio leader, Salvini».
Carrà è stato tra i primi a commentare il post del ministro e, soprattutto, è stato il primo a fare il nome di Apostolico. Salvini si era infatti limitato a scrivere a corredo del video che nelle immagini «riconosceva volti familiari». Carrà, dopo aver diffuso il nome in aula, ha chiesto un’informativa del ministro della Giustizia: «È Apostolico, il magistrato può smentire?» Tempismo perfetto, insomma. «Voi però vi state concentrando sulla fonte del video e non sul fatto grave che un giudice è a una manifestazione in cui gridano assassini alla polizia ea Salvini», torna sulla difensiva il deputato.
Resta il mistero della provenienza delle immagini e di chi le abbia girate. Uno dei primi indiziati è stato un uomo calvo, dietro i poliziotti in tenuta antisommossa, che è certamente un poliziotto perché in un frame di uno dei video di quella giornata, trasmessi da Gedi, si vede addirittura sul paraurti della camionetta per riprendere le cariche in corso. Nessun giornalista potrebbe farlo, verrebbe immediatamente fatto scendere. Quindi ecco la prima certezza: lui è il poliziotto deputato a riprendere i momenti della protesta così da analizzarli in un secondo momento.
È l’unico a riprendere nella zona presidiata da tutti i lati dalle camionette, che avevano così formato una sorta di zona rossa. Tanto che l’emittente Local Team, sempre in prima linea durante i cortei, quella sera ha fatto riprese solo da lontano, che permettono comunque di individuare il tizio calvo incollato agli agenti con casco e manganelli. Non c’erano giornalisti, nessun’altra telecamera. Ma se anche non fosse lui l’autore, ma un altro in borghese che si avvicina alla scena con il cellulare in mano, può essere stato solo qualcuno autorizzato a stare lì nell’area di sicurezza. Si torna dunque all’esposto presentato in procura a Roma: un atto che potrebbe portare all’apertura di un fascicolo di indagine e quindi autorizzare un controllo interno.
Salvini ha chiesto le dimissioni di Apostolico. Dallo staff del ministro preferiscono ironizzare e non rispondere nel merito alle domande di Domani. Ironia che in realtà maschera il nervosismo interno al partito, che non sa e non può dire altro di ufficiale.
Ma sono intervenuti anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, e la premier Giorgia Meloni. Per entrambi il problema non è come sia uscito il filmato, «nessun dossieraggio», è la difesa del premier, cui dà manforte La Russa: «Chi ha dato il filmato a Salvini? Il problema non è quello, ma valutare l’opportunità o meno di quel comportamento e quindi della partecipazione a quella manifestazione del giudice». Non è chiaro però perché la seconda carica dello stato si senta in dovere di intervenire su una questione, quella dell’origine del video, che potrebbe avere risvolti imbarazzanti per le istituzioni.
GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA. Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Nello Trocchia è inviato di Domani, ha realizzato lo scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere pubblicando i video e un libro sul Pestaggio di stato, Laterza editore. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
La destra che usa armi eversive contro i nemici. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 06 ottobre 2023
O Salvini chiude la querelle dimostrando che è in possesso delle immagini di Apostolico a buon diritto, o ci troviamo davanti a uno scandalo gemello a quello che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli
La vicenda del video che immortala la giudice di Catania Iolanda Apostolico, pubblicato sui social dal ministro Matteo Salvini come prova inconfutabile della parzialità della magistrata che ha smontato con una sentenza il decreto Cutro, si presta a due letture differenti. Entrambe interrogano su questioni rilevanti della vita pubblica del paese.
La destra evidenzia la gravità del comportamento di chi, presenziando a una manifestazione anti governativa del 2018, rischia di minare non solo la sua credibilità personale, ma il prestigio dell’istituzione giudiziaria. Chiedendone addirittura le dimissioni. Altri giuristi spiegano al contrario che la Costituzione prevede il diritto di ogni cittadino di partecipare a eventi pubblici o esprimere libere opinioni, senza per questo dover temere censure di sorta.
Ragionamento sacrosanto ma irrilevante per coloro che sono convinti che chi esercita il potere giudiziario debba non solo essere, ma anche apparire imparziale di fronte all’opinione pubblica: per non prestare il fianco a polemiche strumentali Apostolico avrebbe dunque fatto meglio a non scendere in piazza contro le decisioni – pur aberranti – dell’ex ministro dell’Interno che teneva ostaggio in mare i migranti rinchiusi nella nave Diciotti.
Detto questo, la polemica alimentata dalla destra è solo il “dito” della vicenda. Un de cuius rispetto alla “luna”, all’enormità che potrebbe palesarsi se i sospetti dovessero essere confermati da nuove evidenze. Il leader leghista non ha infatti chiarito come, e soprattutto da chi, ha ricevuto il materiale finora inedito da lui usato per aggredire un giudice che ha bocciato un provvedimento di un governo di cui fa parte.
Secondo le ricostruzioni di Domani, Repubblica, Il Fatto e altri media, le prime evidenze lasciano supporre che il filmato sia stato girato da un agente in borghese, posizionato dietro i colleghi che presidiavano la piazza in assetto antisommossa.
Intendiamoci. Le registrazioni (della Digos, dei carabinieri o di altri reparti) sono antica consuetudine delle forze dell’ordine: servono a identificare eventuali agitatori o soggetti pericolosi, operazioni conformi alla legge. Ma talvolta occorrono anche a schedare – azione assai più discutibile – chiunque partecipi a manifestazioni di protesta.
In nessun caso, però, è accettabile che materiale girato da servitori dello stato finisca a cinque anni di distanza nelle mani di un ministro della Repubblica che lo sfrutta per azioni di propaganda che puzzano di dossieraggio. Dunque, delle due l’una: o Salvini chiude la querelle dimostrando che è in possesso delle immagini di Apostolico a buon diritto, o ci troviamo davanti a uno scandalo gemello di quello che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli.
Qualche mese fa il vice del ministro dell’Interno Piantedosi aveva consegnato al collega di partito intercettazioni riservate dell’anarchico Alfredo Cospito carpite dalla polizia penitenziaria, in modo che il meloniano potesse declamarle in parlamento con il solo fine di attaccare le opposizioni. Informazioni sensibili ottenute dal potere esecutivo trasformate in frecce avvelenate contro gli avversari politici: al netto di cascami penali (Delmastro è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e rischia ora il rinvio a giudizio) l’azione sembra simile a quelle organizzate nelle democrature sudamericane.
Tireremmo tutti un sospiro di sollievo se il capo del Carroccio, ex numero uno del Viminale e dunque con ottime entrature negli apparati di polizia, rivelasse che stavolta ha trovato le immagini in rete, nel fascicolo dell’inchiesta che lo vede imputato sulla Diciotti, o grazie a un cronista che filmava la scena. In caso contrario, resterebbe l’odioso sospetto che rappresentanti dello stato abbiano consegnato filmati d’archivio a un ministro per attaccare un giudice considerato ostile all’esecutivo. Un atto che profuma di eversione.
EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è direttore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.
Il vescovo di Catania difende Apostolico: «Fiero della sentenza che difende i migranti». GIORGIO MANNINO su Il Domani il 07 ottobre 2023
Parla l’arcivescovo della città etnea: «Non conosco la giudice. Ma chi la attacca sbaglia: bisogna rispettare la separazione dei poteri». Critiche dure al governo: «Come si fa a scrivere decreti legge e capire solo dopo se i migranti posson o pagare o meno una cauzione?»
«Sono orgoglioso che la sentenza che ha disapplicato il decreto Cutro sia stata pronunciata dal tribunale di Catania». Monsignor Luigi Renna, arcivescovo della città etnea, non ha dubbi nel definire la sentenza del giudice Iolanda Apostolico «molto importante».
Monsignore come mai si definisce orgoglioso di quanto deciso dal tribunale che di fatto ha sconfessato il governo sulle politiche migratorie?
Premetto che non conosco il giudice ma la sentenza parla chiaro. Si legge di persone sfruttate per le loro caratteristiche fisiche o perseguitate dai parenti. Non sono motivazioni risibili. Non si scrivono sentenze per partito preso.
Eppure il governo con la premier Meloni e il suo vice Matteo Salvini ha innescato una dura offensiva nei confronti del giudice Apostolico.
Chi amministra un paese dovrebbe rispettare la distinzione dei poteri. In uno stato democratico questo attacco frontale alla magistratura non dovrebbe verificarsi. Bisogna mantenere i toni sereni. Forse qualcuno non ha letto bene la sentenza. Mi creda se chi ha avuto da ridire l'avesse realmente letta forse non l'avrebbe criticata così duramente.
Ma è proprio sui migranti che il governo gioca la sua partita politica soprattutto in termini di consenso.
L'opinione pubblica se non è informata rischia di pensare non con la propria testa ma con la pancia. In Italia la disinformazione regna sovrana e quando determinate idee vengono agitate dal punto di vista politico ho dubbi che si voglia avere la verità, ma si dà ragione delle proprie idee ad un elettorato disinformato.
Centri per il rimpatrio, indagini antropometriche per individuare l'età, il pagamento di 5 mila euro per evitare i Cpr. Secondo lei il governo come sta affrontando il tema dell'emergenza migranti?
Bisognerebbe prima rendersi conto se questi decreti vadano contro i diritti garantiti dalla nostra Costituzione e quelli sanciti a livello europeo. Il governo fa decreti legge e solo dopo si rende conto se sono applicabili o meno, se una cauzione può essere pagata o no? Credo non sia questa la strada da seguire.
Qual è la soluzione?
Penso ai corridoi umanitari. Questa è la via maestra. Avere un Piano Mattei per i paesi africani può essere un'iniziativa percorribile ma richiede troppo tempo e finora non abbiamo visto nulla di concreto. Non dobbiamo negare a queste persone la libertà di rimanere nel proprio paese oppure se ci sono motivi cogenti di poterlo lasciare. È un diritto umano fondamentale e inviolabile.
Gli accordi con la Tunisia, il memorandum con la Libia nel 2017 la convincono?
Credo sia importante capire quanto siano efficaci gli accordi con la Tunisia perché le maglie sono troppe larghe e le organizzazioni criminali hanno gioco facile. Serve un'analisi più attenta di quanto accade in Libia e in Tunisia, questo deve portare ad una legislazione che non permetta che queste persone vengano ricacciate nei luoghi dove li aspetta la morte. Poi ritengo sia urgente rivedere gli accordi con la Libia. L'inferno delle carceri libiche è sotto gli occhi di tutti. Ci troviamo difronte a paesi che hanno una loro complessità e criticità dal punto di vista democratico. Il problema non è di facile soluzione e non getto la croce su un solo governo ma non si può parlare di un Piano Mattei se prima non si cancella una prassi che si è rivelata fallimentare.
Perché, secondo lei, il governo ostacola l'impegno delle Ong?
Perché vanno oltre gli schemi con un unico nobile obiettivo: salvare le persone. Fanno il loro dovere di essere umani che hanno a cuore i diritti dell'umanità. Questo, oggi, può risultare scomodo.
È d'accordo con l'arcivescovo di Palermo, Monsignor Corrado Lorefice che, in occasione del ricordo della strage di Lampedusa, ha parlato di “Stato assente che preferisce occuparsi di un giudice che ha fatto il suo lavoro”?
Certamente. Non basta essere presenti nel celebrare, nel ricordare o nell'ispezionare certi luoghi. Bisogna impegnarsi perché certe condizioni non ci siano più. La verità è che le soluzioni sono inadeguate. Se rimaniamo fermi agli accordi con la Libia, lo Stato non sarà solo assente a Lampedusa ma su tutte le coste dove approdano queste persone. Ma mi faccia dire una cosa: il problema non è solo di questo governo, altri governi avrebbero dovuto mettere mano a certe leggi e non l'hanno fatto.
Anche l'Europa rimane a guardare. Che fine hanno fatto gli ideali che hanno animato il processo di nascita dell'Unione europea?
Le rispondo citando l'ultima enciclica di Papa Francesco che critica i governi tecnocratici. Molti paesi europei guardano a questo modello, al modello di un'elite, di un governo con al centro una persona forte che dovrebbe risolvere i problemi. L'Europa non può pensarsi come privilegiata. Il sogno di una grande Europa non è solo quello di un'Europa unita ma di un'Europa che torni a contare nel mondo e soprattutto a vivere democraticamente con i popoli. GIORGIO MANNINO
Il bell’esempio della Meloni: scatena la caccia alla magistrata. Additare il nemico, ossia il giudice e non la sua decisione, legittima ciascun cittadino a scagliarsi contro, a scandagliare le profondità melmose del web per scovare indizi di propensioni, orientamenti. Alberto Cisterna su L'Unità il 4 Ottobre 2023
Certo avrà avuto ragione Francis Edward Smedley. Davvero, «tutto è permesso in amore e in guerra» (da Frank Fairleigh o scene dalla vita di un alunno privato, 1870) e ogni comportamento e ogni parola sono consentiti per vincere. Ma trasformare il duro dibattito in corso nel paese sulle misure antimmigrazione in una battaglia campale e in una quotidiana caccia al nemico – una volta la Francia, un’altra la Germania, un’altra ancora tutte e due insieme, poi l’Europa, ora un giudice di Catania e, con lei, l’intera magistratura – non rende un buon servigio al governo e a quella parte maggioritaria dell’elettorato che gli ha concesso ampia fiducia.
A prescindere dalle pericolose ricadute di politica estera di un tale atteggiamento, il dito aspramente puntato da un paio di giorni contro le tre decisioni assunte da un magistrato della Repubblica in Catania segna una cifra di durezza del confronto che non può essere giustificata. Si sono tirati in ballo like su Facebook, private prese di posizione del giudice, pareri e opinioni personali per bollare come parziale e politicamente orientate ordinanze che pochi hanno letto e ancor meno hanno comunque voglia di leggere per formarsi un’opinione indipendente e scevra da tossicità sull’accaduto.
Additato il nemico, ossia il giudice e non la sua decisione, la scorciatoia è pericolosa, ambigua, tagliente. Rischia di legittimare ciascun cittadino, qualsiasi parte processuale a dolersi della sentenza che lo riguarda, a scandagliare le profondità melmose del Web per scovare indizi di parzialità, propensioni, orientamenti. Delegittimare il giudice e non criticare la sentenza che ha pronunciato – anzi contestare il primo come argomento principe contro la seconda – sembrava appartenesse a retaggi che si pensava potessero essere superati soprattutto grazie al provvidenziale pensionamento o l’epurazione di un ceto di toghe propenso al protagonismo e alla pubblicità mediatica e disponibili, quindi, allo scontro frontale e personale con la politica. La magistratura italiana, nella sua stragrande maggioranza e quasi totalità, ha dismesso queste posture da tempo, anche aiutata dalla legge sulla presunzione di innocenza che ha finalmente contenuto la bulimia accusatoria di più d’uno.
Ora è la politica al suo massimo livello a riprendere le fila dell’attacco diretto, del discredito personale, del “colore dei calzini” con cui si voleva far beffe del giudice di un caso controverso che riguardava un altro presidente del Consiglio. Il fatto è che nella vicenda siciliana è esattamente il governo, il ministero dell’Interno a essere direttamente, in proprio verrebbe da dire, una parte dei procedimenti che hanno riguardato i tre immigrati il cui trattenimento non è stato convalidato. Era stato il questore di Ragusa a disporlo e il rilascio dei tre cittadini stranieri è stato a lui ordinato. Insomma l’autorità governativa, questa volta, non è il distaccato censore delle decisioni del giudice di Catania, ma è la diretta parte del procedimento anzi è quella, come dire, che ha perso la causa.
Ora se ogni cittadino italiano che si vede dar torto – come per forza capita in milioni di cause civili – scatenasse la caccia al giudice e lo attaccasse personalmente, ovviamente il processo diverrebbe un luogo ingestibile, la vita sociale piomberebbe in un disordine incontrollabile. Solo nelle dittature sudamericane i giudici stavano in udienza incappucciati e irriconoscibili; una democrazia matura rende visibili e noti i propri giudici perché la massima trasparenza e la massima responsabilità presieda le decisioni. Nessuno sostiene che il processo civile come quello penale non risenta delle convinzioni personali, delle oscillazioni ideologiche del giudice chiamato a pronunciarsi. Non vivono le toghe in una campana di vetro o in una torre di cristallo. L’unico limite invalicabile che i chierici hanno è quello di dar conto in modo accurato della propria decisione, articolando gli argomenti e rendendo chiare le interpretazioni. Una sentenza immotivata, prima ancora che nulla è un semplice atto di forza da punire in modo esemplare.
Ma leggendo le ordinanze della toga catanese (per chi voglia) non si coglie questa impressione. Valuterà la Cassazione la correttezza delle scelte se il ministero dell’Interno, come pare, presenterà un ricorso, ma i provvedimenti appaiono obiettivamente articolati, puntuali, densi di richiami a norme e precedenti di giurisprudenza costituzionale ed europea. Spieghi il “soccombente” alla pubblica opinione perché ritiene che si tratti di provvedimenti abnormi, illegittimi, che non rispettano la volontà sovrana del Parlamento. Non è proprio una lezione di stile per chi ha perso, per ora, in un’aula di tribunale appellarsi al giudizio del popolo per vedersi riconosciuto il torto subito, ma insomma passi.
Una reazione ci sta. L’abbordaggio alle opinioni e agli orientamenti del giudice è, invece, un’operazione non consentita perché sconfina dalla critica della decisione alla critica del decidente che, però, non ha detto una parola, non ha reso un commento, non ha criticato le autorità politiche del paese, non ha difeso in alcun modo il proprio operato appellandosi solo ai propri atti. Lo ha detto chiaramente il presidente dell’Anm in un’intervista di ieri: «Ci mancherebbe il governo, come qualsiasi altro soggetto, ha tutto il diritto di criticare. E può accadere che un provvedimento non sia ritenuto in linea con le norme».
La critica del dottor Santalucia è in filigrana, ma riluce, poiché reca implicita, ma evidente, l’obiezione che il governo non è un «qualsiasi altro soggetto» e non può scegliere questo crinale per dolersi dell’esito di un giudizio in cui era parte a tutti gli effetti. Non è un gesto d’amore verso il proprio elettorato, né un atto di guerra contro i trafficanti di uomini, per cui non è tutto consentito. Alberto Cisterna 4 Ottobre 2023
Il decreto illegittimo. Rifiutare la sentenza di Catania equivale a rifiutare lo Stato di Diritto. Il governo, a cominciare da chi lo capeggia, non rimprovera a quella giudice di aver male applicato il diritto che le consente di disapplicare un decreto illegittimo: ben diversamente, le contesta lo stesso potere di farlo. Iuri Maria Prado su L'Unità il 4 Ottobre 2023
Oltre che dell’esercito di famigli addetto a organizzare la claque nelle loro conferenze stampa e la quotidiana produzione di selfie, Giorgia Meloni e Matteo Salvini dispongono senz’altro di ottimi consiglieri giuridici: i quali potrebbero spiegare ai propri committenti che un giudice italiano non solo può, ma deve, disapplicare una norma nazionale quando ritiene che essa sbatta contro il diritto comunitario. Questo ha fatto la giudice catanese quando, con un’ordinanza dell’altro giorno, ha considerato illegittime le norme adoperate per privare della libertà personale alcuni migranti.
Ha sbagliato? Può darsi benissimo. Il decreto “o la borsa o la prigione” approvato dal governo, cioè la norma che legittima il taglieggiamento dei migranti e li manda al gabbio se non versano cinquemila euro, è rispettoso del sistema costituzionale ed europeo? Ma per carità: un’altra volta può darsi benissimo. Il “trattenimento”, cioè in buona sostanza l’arresto, era in realtà ordinato nel rispetto delle superiori norme dell’Unione che disciplinano la materia? Ancora: può anche darsi. Solo che non sta al presidente del consiglio stabilirlo, né a questo o quel ministro.
Ma non basta. Perché la realtà è che il governo, a cominciare da chi lo capeggia, non rimprovera a quella giudice di aver male applicato il diritto che le consente di disapplicare un decreto illegittimo: ben diversamente, le contesta lo stesso potere di farlo, e cioè si rivolta eversivamente contro lo Stato di diritto che non solo permette ma, si ripete, impone al giudice di non fare applicazione di una norma che cozza contro preminenti principi costituzional-comunitari.
La sciocchezza più ricorrente di questi giorni, propalata dalle truppe dei liberali per le manette, è che il decreto anti-immigrati quater (ma forse siamo oltre, al decies, al terdecies) sarebbe costituzionalmente impeccabile siccome l’ha firmato Mattarella. Questa scempiaggine è toccato sentirla non si sa più quante volte nelle ultime ore, ma i consiglieri giuridici di cui sopra potrebbero preparare una brochure semplice semplice per i gruppi parlamentari e per le redazioni di riferimento, un piccolo memorandum in cui si spiega sottovoce, senza che si sappia troppo in giro, che no, la firma del presidente della Repubblica è necessaria ma il fatto che essa sia apposta non significa per nulla che la norma sia legittima.
Non si rendono conto (se lo facessero consapevolmente sarebbe meno preoccupante) che in questo modo, e cioè contestando al giudice l’uso di un potere che egli non solo può, ma deve esercitare, si rendono responsabili di una specie di golpe endogeno. Fanno, a parti invertite, quello che fece il cosiddetto Pool di Milano nel comizio togato che contestava la presunta piega salva-ladri dell’attività di governo: solo che qui è anche più grave perché dai lombi dell’esecutivo viene il bel principio secondo cui la giustizia, nel decidere se privare qualcuno della libertà personale, non deve rifarsi al quadro di diritto applicabile ma agli inquadramenti usciti dall’ultimo consiglio dei ministri (almeno il manipulitismo chiedeva leggi per arrestare, non il diritto di arrestare contro la legge).
Il fatto, poi, che questa giudice si fosse a suo tempo lasciata andare a comportamenti inappropriati per un magistrato, con manifestazioni di militanza politicamente orientata, appartiene a tutt’altro piano di ragionamento. E dispiace che non se ne siano accorti alcuni garantisti impeccabili, questa volta andati fuori segno. Qui il punto è che si è contestato al giudice non già di aver emesso una decisione illegittima perché contraria al diritto, ma di aver emesso una decisione illegittima perché “antigovernativa”. Qui il punto è che non si vuole rimuovere la toga rossa per avere un giudice imparziale, ma per sostituirla con la toga bruna. Iuri Maria Prado 4 Ottobre 2023
A Catania. Chi è Iolanda Apostolico, la giudice che ha definito “illegittimi” i decreti migranti del governo Meloni. Mai iscritta a correnti della magistratura. "Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale". Redazione Web su L'Unità il 2 Ottobre 2023
La premier Giorgia Meloni ha attaccato direttamente la sentenza: in un post sui social ha detto di essere rimasta “basita davanti alla sentenza del giudice di Catania” e ha parlato di “motivazioni incredibili”. Il caso è quello del ricorso accolto di quattro migranti che erano sbarcati a Lampedusa e che erano stati trasferiti al nuovo centro di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Il Tribunale aveva deciso la liberazione giudicando illegittimi sia il decreto Cutro che il decreto attuativo da poco approvato che introduceva la garanzia finanziaria di quasi 5mila euro per i migranti provenienti da Paesi “sicuri” mentre la loro domanda di protezione viene analizzata. “Non voglio entrare nella polemica, né nel merito della vicenda. Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo stare a difenderlo. Non rientra nei miei compiti. E poi non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale”, ha dichiarato all’Ansa.
Apostolico ha 59 anni, è originaria di Cassino, ha tre figli. Da vent’anni è a Catania, giudice civile del tribunale di Catania. Ha un’esperienza nel penale da giudice del Riesame delle misure di prevenzione. Non è mai stata iscritta alle correnti della magistratura. Da tempo lavora nel Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione della prima sezione civile del tribunale di Catania, presieduta da Massimo Maria Escher, con le colleghe Marisa Acagnino e Stefania Muratore.
Dopo la sentenza ha chiuso il suo profilo Facebook, alcuni quotidiani come Libero e Il Giornale sono riusciti a sbirciare sulla sua pagina social e hanno scritto di presunte simpatie politiche. Ancora aperto invece il profilo del compagno Massimo Mingrino, funzionario al Palazzo di Giustizia di Catania che ha scritto in alcune occasione contro le politiche di immigrazione sia dei governi di centrosinistra che di questo di centrodestra, contro il segretario della Lega e ministro Matteo Salvini contro alcune decisioni della Procura di Catania diretta da Carmelo Zuccaro. Post che avevano a che fare con il fermo non convalidato di Carola Rackete e contro la guerra alle ong.
La giudice, nella prima parte del provvedimento, ha ricostruito la vicenda di un migrante tunisino di 31 anni sbarcato senza documenti a Lampedusa e trasferito a Pozzallo per la procedura di rimpatrio rapito. Era già stato destinatario di un provvedimento di espulsione dall’Italia e aveva chiesto “protezione internazionale a Pozzallo perché perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli nello svolgimento della loro attività (particolari linee della mano ecc.)”.
Per Apostolico non tenevano i presupposti per privare M. H. della libertà in attesa dell’esito della domanda di asilo secondo la direttiva Ue 33 del 2013 che impedisce la privazione della libertà “per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità … in secondo luogo che tale trattenimento abbia luogo senza adozione di una decisione motivata”. La stessa direttiva nella parte in cui prevede restrizioni alla libertà personale “non si applica nelle ipotesi di soccorso in mare nelle quali il diritto di ingresso deriva da norme interne e internazionali”. Redazione Web il 2 Ottobre 2023
La sentenza di Catania. Il giudice Apostolico e i precedenti di Nordio e Gratteri: quando a destra le interferenze dei magistrati vanno bene. Perché un africano ventenne che chiede protezione per poter continuare a studiare e lavorare viene trattato in questo modo, nell’Italia che si protegge dall’invasione, viene trattato come un criminale da espellere. Iuri Maria Prado su L'Unità l'8 Ottobre 2023
Non sappiamo se esistano filmati che riprendono quest’altra giudice (siamo al tribunale di Bologna, questa volta) in posture di sedizione antigovernativa, o magari con le dita nel naso. È verosimile che si indagherà, come verosimilmente si sta indagando a proposito dei magistrati fiorentini (erano tre, accidenti: un lavoraccio) che l’altro giorno, come poi avrebbe fatto la giudice catanese presa in castagna da Salvini, esaminavano i provvedimenti butta-fuori assunti in omaggio alla normativa spazza-migranti approvata dal governo e li sospendevano per contrasto con la preminente disciplina europea.
Ma prima di dare conto di questa nuova decisione sull’argomento (in realtà è precedente, perché rimonta al 18 settembre), e nell’attesa che il giornalismo d’inchiesta faccia il suo lavoro sul conto dei giudici turbo-immigrazionisti, vediamo di intenderci sul ritornello del magistrato che deve essere e apparire imparziale, e dunque sul suo dovere di non prendere parte al dibattito pubblico intorno a questa o quell’urgenza politica. È verissimo. Non deve farlo, ed è una scemenza l’obiezione secondo cui il magistrato, come qualunque cittadino, avrebbe il diritto di dire la sua e di partecipare attivamente alla vicenda civile e politica del Paese.
Perché il magistrato non è un cittadino qualunque ma un uomo armato: è armato del potere di giudicare le persone e di arrestare la loro libertà. E come giudicheremmo inammissibile il comportamento di un colonnello che, su una legge che non gli piace, “dice la sua” manifestando per strada con la pistola alla cintola, così dovremmo considerare fuori dal mondo che un magistrato si ritenga libero di turbare l’ordine democratico sulla scorta di un potere che è anche più invasivo e temibile rispetto a quello del militare.
Quindi è verissimo che quella giudice catanese male ha fatto a partecipare a quella manifestazione, come è verissimo che faceva male un magistrato veneziano (si chiamava Carlo Nordio) quando si lasciava andare alle sue divagazioni sulla “petulanza” di quelli che mostravano dubbi circa l’appropriatezza dei propositi leghisti in materia di legittima difesa. Col dettaglio che quella volta, quando cioè un magistrato interveniva nel pubblico dibattito non per farla fare franca agli africani che chiedono fraudolentemente asilo anche se hanno le scarpe, ma per spiegare che bisogna smetterla con la Costituzione catto-marxista che incrimina chi si difende in casa propria, quella volta, dicevo, l’interferenza del magistrato andava benissimo alla destra che infatti l’avrebbe poi candidato e fatto ministro.
Esattamente come alla destra che denuncia le passate scompostezze di quella giudice siciliana va benissimo che il dottor Nicola Gratteri, quotidianamente e da anni, intervenga in materia di carcere per dire che non bisogna svuotarle ma costruirne di più, in materia di riforme per dire quali vanno bene e quali no, in materia di droga per dire che non bisogna legalizzare nulla, in materia di Covid facendo prefazioni a libri di autori secondo i quali i vaccini erano acqua di fogna confezionati dalle multinazionali in mano agli ebrei. Diciamo dunque che siamo d’accordo: i magistrati si astengano da certe interferenze. Sempre, però. E tutti. E i politici le condannino quando ci sono. Sempre, però. E non secondo l’orientamento dell’interferenza.
E ora veniamo alla decisione del tribunale di Bologna. Anche nel caso di cui si è occupato il giudice emiliano c’era di mezzo un tunisino, cioè uno proveniente da un Paese “sicuro” solo sulla carta, la cui richiesta di protezione internazionale era stata respinta perché ritenuta “manifestamente infondata”. In particolare, gli esaminatori avevano espresso dubbi sulla credibilità della versione fornita dall’immigrato: il quale aveva riferito di essere stato sottoposto, con la madre e con il fratello, a feroci maltrattamenti da parte del padre e dello zio, di temere di esserne ancora vittima se fosse stato rimpatriato e in ogni caso di non avere possibilità di sostentamento in Tunisia.
Tutte cose cui la competente Commissione territoriale non aveva creduto, non considerando inoltre che si trattava di un ventenne, qui in Italia da oltre un anno: un ragazzo che non solo risultava perfettamente integrato nella struttura di accoglienza che lo ospitava, ma che studiava e lavorava regolarmente. Il giudice bolognese, nell’urgenza, ha invece considerato queste circostanze, spiegando che “un eventuale
provvedimento di espulsione con rimpatrio forzato disperderebbe ogni sforzo di integrazione compiuto fino ad ora” da questo ragazzo.
Si noti che qui non si trattava neppure delle più recenti norme introdotte dal governo, ma della routinaria e indebita applicazione amministrativa di quelle anteriori: quelle cui il potere pubblico pretendeva di ispirarsi per ricacciare nel Paese di origine un ragazzo che lì subiva violenza, e che qui da noi era rispettoso delle regole di accoglienza, e studiava, e lavorava. E che, se non fosse stato per quest’altro giudice bolognese, sarebbe stato trattato alla stregua di un criminale: perché un africano ventenne che chiede protezione per poter continuare a studiare e lavorare viene trattato in questo modo, nell’Italia che si protegge dall’invasione. Viene trattato come un criminale da espellere. Iuri Maria Prado 8 Ottobre 2023
Apostolico, spunta un secondo video: la giudice discusse con gli agenti. Storia di Roberta d'Angelo su Avvenire sabato 7 ottobre 2023.
Svelato il mistero del video che ritrae la giudice Iolanda Apostolico a una manifestazione del 2018 al porto di Catania in favore dei migranti contro i provvedimenti dell’allora ministro dell'Interno Matteo Salvini.
È stato un carabiniere a girarlo con il proprio cellulare e «senza alcuna finalità» e lo stesso autore lo avrebbe riferito spontaneamente ai suoi superiori. E dopo giorni di rimpalli di responsabilità, spunta un secondo filmato - girato dall’agenzia LaPresse - con Apostolico che si rivolge agli agenti con una mano alzata.
Riguardo al primo video reso pubblico da giorni dal leader della Lega, dunque, sarebbe stato lo stesso militare che lo ha girato a farsi avanti, spiegando ai suoi superiori che si tratta di materiale privato, mai allegato ad atti interni o a informative all'autorità giudiziaria, ma che solo da pochi giorni l’autore avrebbe fatto circolare in una ristretta cerchia di persone. In questo modo sarebbe arrivato all’attenzione del vicepremier leghista, mentre i superiori del militare hanno già informato l'autorità giudiziaria di Catania. L’autore rischia di essere indagato per abuso d'ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio.
Il Carroccio, però, continua a puntare i riflettori sulla giudice e aumenta il pressing per le dimissioni di Apostolico. «Per qualcuno a sinistra il problema è “chi ha girato il video”, in pubblica piazza di un evento pubblico - recita una nota da via Bellerio -. Per la Lega e milioni di italiani il problema è cosa si vede in quel video, ovvero un giudice in mezzo a una manifestazione dove si insultano (“assassini… animali…”) poliziotte e poliziotti, e si inneggia alla clandestinità». E allora, conclude, «cosa chiediamo? Scuse e dimissioni».
Da Fdi , il capogruppo al Senato Donzelli considera la giudice «indifendibile». Stessa opinione del suo collega alla Camera Tommaso Foti, pure meno duro prima dell’arrivo del secondo video. Ma, dice, dopo il filmato di LaPresse «nel quale si vede chiaramente il magistrato inveire contro le forze dell'ordine- ci sono ben poche parole da spendere. Il giudice farebbe bene a chiedere scusa e la magistratura tutta a prendere le distanze da una condotta inopportuna sempre, tanto più quando posta in essere da un soggetto che dovrebbe rendere onore alla toga che porta al posto di infangarla». E, aggiunge, «l’opposizione, che fino ad ora ha vergognosamente parlato di dossieraggi - non perdendo l’occasione per fare di un fatto grave la solita strumentalizzazione politica - intervenga finalmente nel merito con dignità e verità, se ne è capace, censurando l'accaduto».
Si sfila invece dalla polemica il deputato leghista siciliano Antonio Carrà, indicato dal quotidiano di Catania La Sicilia come l’intermediario tra l’autore appartenente alle forze dell’ordine e il leader del Carroccio Salvini. «Quel video non sono stato io a procurarlo, né a darlo a Matteo». assicura.
Per il governatore siciliano Renato Schifani, però, il nodo della questione di Apostolico è soprattutto di merito. «Non credo debba dimettersi», ma, spiega, «ritengo che il giudice non abbia ottemperato a uno dei principi a cui deve attenersi per il suo ruolo». E questo sarebbe «più preoccupante del video». Continua, dunque, il coro di critiche della maggioranza (a cui si aggiungono anche voci di costituzionalisti e dal mondo della sinistra). Il ministro Raffaele Fitto parla di «fatto gigantesco», mentre il suo collega allo Sport Andrea Abodi nega «una guerra tra governo e magistratura», ma, continua, «mi lascia perplesso il fatto che si metta in discussione un'azione di governo».
Il leader di M5s Giuseppe Conte però, chiede a Salvini di chiarire come abbia avuto il video, in un primo tempo attribuito alla Polizia. Mentre Magistratura democratica ieri ha approvato un documento per «esprimere solidarietà e sostegno» ad Apostolico, «vittima di un uso spericolato di ingerenze nella sua vita privata».
Si “spacca” il Csm sulla giudice di Catania Iolanda Apostolico. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Ottobre 2023
Una parte dei togati prevalentemente di sinistra, chiede di aprire una pratica a tutela del magistrato al centro delle polemiche. Magistratura indipendente però non firma: "La militanza politica non ci appartiene". Quello che dovrebbe capire ed applicare quando indossa la toga la giudice Apostolico...
Il Consiglio Superiore della magistratura si divide sul “caso” del giudice di Catania Iolanda Apostolico. Al centro, la richiesta depositata oggi di aprire una pratica a tutela della giudice che non ha convalidato il trattenimento di quattro migranti a Pozzallo, disapplicando il decreto Cutro, ritenendolo illegittimo. Istanza firmata da 13 consiglieri delle correnti di Area, Md ed Unicost, e dagli indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda , ma non dai membri togati di “Magistratura indipendente“.
Dal testo finale sul quale era stata organizzata ieri una raccolta firme all’ultimo sono scomparsi i riferimenti diretti alle parole del premier Giorgia Meloni che si era dichiarata “basita” dalla decisione della giudice Apostolico mentre si parla “di dichiarazioni da parte di esponenti della maggioranza parlamentare e dell’Esecutivo che, per modi e contenuti, si traducono in autentici attacchi all’autonomia della magistratura” la solita lagna di quei magistrati-politicanti che si sentono degli “intoccabili” .
La “rimozione” delle parole del premier Meloni non è stato però sufficiente a convincere i consiglieri di Magistratura Indipendente la corrente notoriamente “moderata” dell’organo di autogoverno dei giudici. Si legge ancora nel documento un riferimento alla “grave delegittimazione professionale del giudice estensore dell’ordinanza” per la quale i magistrati firmatari hanno chiesto “con la massima urgenza” l’apertura di una pratica a tutela della Apostolico .
Molte delle accuse nei confronti della giudice di Catania sono conseguenti al suo dichiarato orientamento politico, che finché il suo profilo Facebook è stato visibile e, quindi, pubblico, era sotto gli occhi di tutti. C’era in bella mostra, come primo post della sua bacheca, una petizione del 2018 per chiedere ai parlamentari la sfiducia dell’allora ministro Matteo Salvini e c’erano diversi post in difesa di migranti e Ong. Chissà come mai… la giudice ha fatto scomparire il proprio profilo da Facebook ?!!!
Salvini infatti sembra essere particolarmente inviso a tutta la famiglia di Apostolico, come dimostra quel “like” che lo stesso giudice, il 16 agosto 2018, aveva messo su un post di suo marito Massimo Mingrino impiegato del tribunale etneo, anche lui simpatizzante della sinistra rossa, attivista di Rifondazione Comunista e Potere al Popolo, il quale a differenza di sua moglie ha lasciato aperto il suo profilo. sul quale negli ultimi anni ha pubblicato post assai critici contro la politica in tema di immigrazione degli ultimi governi, senza per altro risparmiare quelli di sinistra. “Minniti, Salvini, Lamorgese, una sequenza senza interruzione – scriveva Mingrino nel 2021 – istituzioni che lasciano crepare migliaia di persone in mare mentre imbarcazioni della Guardia costiera languono nei porti spesso e volentieri con i motori accesi. Potrebbero salvare centinaia di vite ogni giorno”.
Il marito della giudice Apostolico ha pubblicato anche una foto di una festa “multietnica“, che si tenne a Milena, in provincia di Caltanissetta, in quella che lui definisce “la nostra arretrata Sicilia”. All’interno della foto, compaiono alcuni ragazzi di colore che sembrano ballare e la didascalia di Mingrino è molto chiara: “Festa di piazza, si balla, si salta, tutti insieme… Allegria, energia, gioia… Fanculo Salvini“. Una didascalia colorita alla quale il giudice ha esternato il suo consenso. Una chiara manifestazione del suo orientamento politico, legittimo al di là di ogni contestazione, finché però non entra nelle aule di tribunale e si indossa la toga di giudice che dovrebbe essere in quella veste apolitico ed imparziale.
La giudice di Catania Iolanda Apostolico è evidentemente “schierata” in favore di quella sinistra radicale che appoggia con convinzione i movimenti no-borders e le Ong ed è per tale ragione che in molti considerano la sua una sentenza ideologica. Disapplicando il decreto Cutro ha di fatto rimesso in libertà quattro tunisini, dei quali due peraltro già con precedenti. Nessuno di loro ha il profilo del rifugiato, e quindi non si configura per loro la protezione internazionale. Una ragione in più a conferma del sospetto di una decisione “ideologica”, che però la Apolistico rigetta al mittente dichiarandosi convinta dell’inattaccabilità della sua decisione, che verrà opposta dal Governo, per voce del Ministro dell’ Interno, che ha già annunciato il ricorso in Cassazione, che verrà depositato nei prossimi giorni. Redazione CdG 1947
Csm, Anm e la richiesta di tutela per i “compagni” con la toga sulle spalle. Antonello de Gennaro il 6 Ottobre 2023 su Il Correre del Giorno.
La giudice Iolanda Apostolico ha preferito decidere, disapplicando una Legge, che secondo lei è da ritenersi anticostituzionale, contestando di fatto il principio che alla magistratura tocca esclusivamente applicare le Leggi e qualora ravvisi elementi in contrasto con la Carta Costituzionale su cui si fonda la Repubblica, e in un caso del genere sospendere il giudizio in attesa di una pronuncia della Consulta
di Antonello de Gennaro
Ha ragione il collega Alessandro Sallusti direttore del quotidiano IL GIORNALE a chiedersi nel suo editoriale di oggi come possa “un magistrato partecipare ad una manifestazione convintamente al fianco di estremisti che urlano “assassini” ed “animali” ai poliziotti e poi giudicare sul tema al centro di quella rissa ?”. Il riferimento è chiaramente a quanto ha fatto nel 2018 la giudice Iolanda Apostolico del Tribunale di Catania , come documenta un video, scesa in piazza assieme ai centri sociali per protestare contro le politiche migratorie dell’allora ministro dell’ Interno Matteo Salvini, la quale nei giorni scorsi ha deciso di non applicare le nuove leggi in materia, liberando quattro immigrati trattenuti legalmente in un centro di accoglienza.
Immediatamente è intervenuto il “soccorso rosso” dell’ Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Santalucia: “Non si entra nella vita privata dei colleghi, si deve stare nel merito delle loro sentenze“. Resta da capire cosa ci sia di “privato” su quanto è stato rivelato e documentato sul comportamento della Apostolico ! Fose qualcuno ha spiato nel buco della serratura della sua abitazione ? Il “soccorso rosso” dell’ ANM si guarda bene dal non commentare invece il comportamento di una loro collega che ha da tempo manifestato il suo odio ideologico contro Salvini e la sua politica anti-immigrazione.
Ha ragione il magistrato Simonetta Matone, ora senatore, allorquando afferma che “non è accettabile che un magistrato partecipi ad una manifestazione contro le Forze dell’ Ordine. Il CSM non dovrebbe aprire un procedimento per la protezione del giudice, bensì di quella di noi cittadini !”
“Soccorso rosso” non ha proferito però una sola parola sull’immediato auto-oscuramento della pagina Facebook personale della giudice Apostolico, che sembra un tentativo “last minute” di nascondere eventuali prove a suo carico.
Ha ragione il pubblico ministero anti-terrorismo Stefano D’Ambruoso, intervistato oggi dall’ amico e collega Francesco Specchia sul quotidiano LIBERO quando afferma che “Non è corretto far balenare anche minimamente il sospetto di essere schierati politicamente. Non sono d’accordo con l’ ANM. Serve un controllo nell’uso dei social network.” D’ Ambruoso, barese, classe 1962, è peraltro un magistrato stimatissimo, che si è affacciato alla politica venendo eletto parlamentare con “Scelta Civica“ creatura del prof. Mario Monti, diventando questore della Camera dei Deputati, per poi rientrare in magistratura come sostituto procuratore con una specializzazione in “dissenso interno”, cioè si occupa sopratutto di anarchici e terrorismo internazionale ed è fra i pochi magistrati capace di leggere la politica con un occhio giudiziario a 360°.
Mentre il quotidiano La Repubblica da sempre molto vicino alla “sinistra giudiziaria“, con attuali posizioni anti-governative, descrive la giudice Iolanda Apostolico come modello di indipendenza, D’ Ambruoso immediatamente prende posizione: “Io appartengo a quella stragrande maggioranza di magistrati che si impone di apparire terzo ancora prima di esserlo” aggiungendo “anche l’occhio sociale vuole la sua parte. Per me non è corretto anche minimamente fare balenare il sospetto che un magistrato possa essere schierato magari su posizioni politiche diverse da quelle di un comune cittadino che proprio da quel magistrato un giorno potrebbe essere giudicato“.
Forse è il caso al CSM ed all’ ANM qualcuno si domandi se si possa parlare di “uso legittimo dei social” per chi ha il dovere costituzionale ed istituzionale di apparire terzo. il pm anti-terrorismo D’ Ambruoso è tranchant: “E’ un tema che riguarda tutti coloro che svolgono una funzione istituzionale. Vale sicuramente per i magistrati, come per i prefetti, per le forze di polizia, per i comandanti dei carabinieri” aggiungendo ” Sono consapevole che l’uso dei social dev’essere controllato, e della possibilità delle diverse interpretazioni di un tweet o di un post. Quando uso Facebook mi sforzo di farlo per comunicazioni di iniziative culturali che mi vedono attivo“. Ed aggiunge “se posto su Instagram le foto delle feste di famiglia posso apparire un esibizionista; ma se metto un “like” ad una manifestazione di piazza salta la percezione del concetto di terzietà” concludendo “la terzietà di Falcone e Borsellino è il massimo esempio di terzietà che possa capitare di seguire“.
Quello che il “soccorso rosso” dell’ ANM e di parte del CSM non affermano è che il buonsenso dovrebbe servire a far capire che se si hanno opinioni personali in una materia in cui un giudice è chiamato ad occuparsi, l’onestà intellettuale, la deontologia professionale e l’etica dovrebbe suggerire di astenersi. Invece la giudice Iolanda Apostolico ha preferito decidere, disapplicando una Legge, che secondo lei è da ritenersi anticostituzionale, contestando di fatto il principio che alla magistratura tocca esclusivamente applicare le Leggi e qualora ravvisi elementi in contrasto con la Carta Costituzionale su cui si fonda la Repubblica, e in un caso del genere sospendere il giudizio in attesa di una pronuncia della Consulta.
Purtroppo spesso e volentieri si incontrano nelle aule di giustizia dei magistrati che si ergono a giudici delle stesse leggi. Una sorte di giustizia “creativa” che qualche tribunale trasforma in giustizia personale. Senza dimenticare nelle chat del processo Palamara sono emerse delle gravi affermazioni da parte dei magistrati coinvolti, si discuteva e pianificava come “incastrare” Matteo Salvini quando era ministro dell’ Interno.
E questa sarebbe l’autonomia ed indipendenza della Magistratura ? A noi sembra tanto una giustizia “spazzatura” !
Antonello de Gennaro. Giornalista professionista dal 1985 ha lavorato per importanti quotidiani e periodici, radio e televisioni nazionali in Italia ed all’estero. Pioniere dell’informazione sul web è ritenuto dei più grossi esperti di comunicazione su Internet.
Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” venerdì 6 ottobre 2023.
Spiace sostenere il senatore Matteo Salvini […]. Ma la dottoressa Iolanda Apostolico, Catania, non è un cittadino come gli altri, non gode degli stessi diritti di tutti, ha una toga sulle spalle, emette provvedimenti che vincolano e impegnano lo stato di diritto.
Da ragazzo, in un paese più povero ma non infelice, conoscevo un magistrato, il padre di un amico di scuola divenuto insigne storico, che la sera stava sempre e rigorosamente a casa, salvo eccezioni famigliari contenute, e ascoltava l’“Italiana” di Mendelssohn.
Sbirciò cinque minuti di Italia-Germania 4 a 3, ma non di più, mentre noi incasinavamo di urla la stanza della televisione nel suo appartamento. Lo ammiravo. Era una persona consapevole più che dei suoi diritti dei suoi doveri.
Una casta è una casta. Non è obbligata a portare il codino, ma se porta la toga il riserbo è essenziale, decisivo. L’imparzialità nella vita pubblica, anche di fronte a enormità come la crociata salviniana dei porti chiusi e delle “zecche comuniste”, gli consentirà di decidere in fatto di legge con autentica credibilità.
[…] Il linciaggio è comunque e sempre una vergogna, si parli della Apostolico di Davigo di Palamara o di Squillante, è uno sport barbaro dal quale è doveroso astenersi. Nota per Salvini: si può finire per avere torto anche quando si abbia ragione, e Twitter è lì per confermarlo.
Ma in questo caso la ragione ci dice incontrovertibile che un’ordinanza su un migrante e il suo trattenimento, quale ne sia la legittimità giuridica, non deve in nessun caso essere confusa e compromessa da un comportamento militante, Potere al popolo, e dalla manifestazione pubblica, magari anche sbracata, di un orientamento che appartiene o deve appartenere, nel caso dei togati, al foro interiore cosiddetto. Una casta è una casta legittima solo in questo caso.
[…] Ci sono limiti importanti per chi ha le mani in pasta con la libertà personale, sia nella direzione della carcerazione sia in quella della liberazione dal fermo di polizia. Sono cose così ovvie che non si vorrebbe fossero rappresentate dal solo senatore Salvini. Che ai miei occhi non togati, dunque liberi di stravedere, ha torto anche quando ha ragione, ma senza esagerare.
Migranti, i clandestini inventano scuse ridicole per non lasciare l'Italia. E i giudici stanno dalla loro parte. Il Tempo il 30 settembre 2023
Il tema dei migranti resta al centro del dibattito politico, all’indomani del vertice del Med9 a Malta in cui la premier italiana, Giorgia Meloni, ha trovato la sponda degli altri Paesi del Sud dell’Europa - in particolare del presidente francese Emmanuel Macron - sul delicato dossier in vista dei prossimi appuntamenti europei. Ma a tenere banco è la decisione dei giudici della Sezione Immigrazione del tribunale ordinario di Catania, che hanno accolto il ricorso di un migrante - un cittadino tunisino arrivato lo scorso 20 settembre a Lampedusa e poi trasferito nel nuovo centro di Pozzallo - non convalidando il provvedimento con il quale era stato disposto il suo trattenimento. Il tribunale ha quindi disposto il rilascio immediato. I giudici hanno rilevato alcune illegittimità nelle misure adottate, evidenziando che «il richiedente non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda» e che «il trattenimento deve considerarsi misura eccezionale e limitativa della libertà personale ex art. 13 della Costituzione». Inoltre, i giudici contestano che la cauzione di circa 5mila euro da pagare per non andare nel centro non sia «compatibile con gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33» in termini di legittimità.
Subito il ministero dell’Interno ha deciso di impugnare il provvedimento: la fondatezza dei richiami giuridici in esso contenuti sarà quindi sottoposta al vaglio di altro giudice. Ma è soprattutto a livello politico che la decisione di Catania causa un piccolo terremoto. Tra i primi a contestare la scelta il leader della Lega, Matteo Salvini: «Sbarcato da 10 giorni, e ricorso subito accolto dal tribunale. Ma aveva l’avvocato sul barcone? Riforma della Giustizia, presto e bene», scrive sui suoi social, mentre molti esponenti della Lega fanno notare la velocità della decisione sul migrante, mentre lo stesso Salvini è a processo da anni. Da Forza Italia, il capogruppo alla Camera, Paolo Barelli, tuona: «Ci sarà una parola fine da un giudice al termine di questo dibattito. È chiaro che il problema dell’immigrazione è un problema enorme. Non c’è nessuno, nemmeno chi critica e chi fa polemica, che ha la bacchetta magica per risolverlo. Ma il nostro Paese deve prendere dei provvedimenti perché non può essere il luogo di arrivo e di permanenza di centinaia di migliaia oggi, e domani, perché no, di milioni di cittadini che scappano ad esempio dall’Africa da guerre, colpi di Stato, alluvioni, terremoti».
Per il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, la notizia «muove più sdegno che sorpresa. Occorre rilevare che, trattandosi di normativa promanante da un decreto legge, al giudice compete di rispettare il dettato costituzionale, segnatamente l’articolo 101». Per l’opposizione però la decisione «è la dimostrazione che il decreto voluto dal governo è semplicemente illegittimo e inapplicabile», come si sottolinea dal Pd, mentre per i 5Stelle è «l’ennesimo fallimento del governo».
Migranti, “decreto illegittimo”. Il tribunale di Catania contro il governo, ecco il ricorso. Il Tempo il 30 settembre 2023
Il tribunale di Catania ha accolto il ricorso di un migrante, sbarcato a metà settembre a Lampedusa e poi portato nel nuovo centro di Pozzallo, giudicando il recente decreto del governo «illegittimo in più parti, alla luce del diritto comunitario e della Costituzione italiana». Nella Sezione Specializzata del Tribunale etneo, infatti, si sono tenute le prime udienze di convalida di richiedenti asilo trattenuti nel nuovo ’Centro per il Trattenimento dei Richiedenti Asilo’ di Pozzallo.
Subito il ministero dell’Interno ha deciso che impugnerà il provvedimento del Tribunale di Catania che ha negato la convalida del trattenimento di un migrante irregolare: la fondatezza dei richiami giuridici contenuti nel provvedimento sarà quindi sottoposta al vaglio di un altro giudice.
La procedura accelerata di frontiera, si osserva dal Viminale, è uno degli aspetti che, già contenuto nella direttiva europea 2013/33/Ue, trova oggi l’unanime consenso dei Paesi europei nell’ambito del costruendo nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo e che il Governo italiano ha disciplinato nel decreto Cutro. Peraltro relativamente a due dei provvedimenti di non convalida del trattenimento, si tratta di due cittadini tunisini destinatari di provvedimenti di espulsioni già eseguiti (ciò nonostante rientrati nel territorio italiano) che nel corso dell’udienza per la convalida hanno invocato in un caso la protezione per la necessità di «fuggire perché perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli delle loro attività (particolari linee della mano)», nell’altro «per dissidi con i familiari della sua ragazza i quali volevano ucciderlo ritenendolo responsabile del decesso di quest’ultima». Nuova battaglia giudiziaria in vista sui migranti
Iolanda Apostolico, la giudice sempre a sinistra: l'altra sentenza politica. Christian Campigli su Il Tempo il 05 ottobre 2023
Una diatriba lunga trenta, interminabili anni. Un arcigno confronto, quello tra politica e magistratura, divampato ai tempi di Tangentopoli, emerso in tutto il suo fragore durante i governi guidati da Silvio Berlusconi e tornato di strettissima attualità dopo il pronunciamento di Catania. Una sentenza, quella emessa dal giudice Iolanda Apostolico, che, di fatto, ha disapplicato il cosiddetto Decreto Cutro sull’immigrazione approvato lo scorso marzo ritenendo «illegittimo trattenere chi sta richiedendo asilo». Il togato ha stabilito che alcuni punti della norma fideiussione - provvedimento di trattenimento e procedure accelerate in frontiera – si porrebbero in contrasto con le leggi europee. Una scelta che ha sollevato un vespaio di polemiche. Basti pensare al premier, Giorgia Meloni, che si è definita «basita per una sentenza dalle motivazioni incredibili». In realtà, non è la prima volta nella quale Iolanda Apostolico si trova a doversi esprimere su vicende penali, condite da risvolti politici.
Basti pensare a quando, in veste di giudice a latere della Corte di Assise di Catania, l'11 dicembre del 2019, condannò a tredici anni di reclusione Guido Gianni. Una vicenda, quella dell'orefice siciliano, ancora oggi avvolta da numerosi interrogativi. Il 18 febbraio 2008, il gioielliere di Nicolosi, piccolo centro ad un passo dall'Etna, fu vittima di una rapina. Tre uomini assaltarono il suo negozio e aggredirono lui e la moglie. Gianni sparò e uccise due dei tre rapinatori. Secondo la tesi accusatoria, l'uomo avrebbe esploso i colpi alle spalle dei banditi e, per questo motivo, non gli venne riconosciuta la legittima difesa. Una decisione fortemente criticata dalla moglie del commerciante, che ha lanciato una petizione su Charge.org. «Ha difeso me, la sua vita, quella di un cliente e la nostra attività commerciale. Ed è per questo che ritengo che non possa pagare per la malvagità dei suoi assalitori». La Lega, sin dal primo momento, si è schierata dalla parte di Gianni. «Condannato, dopo una vita di lavoro, per aver reagito a una rapina a mano armata, difendendo la moglie dall'assalto dei rapinatori – ha sottolineato il leader del Carroccio, Matteo Salvini – Un'autentica follia. La difesa è sempre legittima».
Aspre critiche sono giunte anche dall'europarlamentare della Lega, Susanna Ceccardi. «Il giudice che ha rilasciato i migranti trattenuti a Pozzallo condivideva sui social le raccolte firme per sfiduciare Salvini e per comprare i biglietti aerei per i migranti irregolari in modo da farli venire direttamente in Italia. Lo stesso magistrato ha condannato l’orefice Guido Gianni per omicidio volontario, mentre la Lega conduceva una battaglia per la legittima difesa, molto osteggiata dalla sinistra. Ho incontrato Guido Gianni all’Ucciardone tempo fa ed è stato un momento di grande commozione. Abbiamo riflettuto sul fatto che al suo posto ci sarebbero potute essere molte altre persone perbene che avrebbero reagito alla stessa maniera, di fronte a una situazione così allucinante».
Sentenze da piangere e magistrati co***oni: Feltri nauseato dallo scontro. Cicisbeo su Il Tempo il 05 ottobre 2023
Nella sentenza con cui il tribunale di Catania ha giudicato illegittimo il decreto del governo sulle espulsioni accelerate di quattro migranti ci sono alcuni passaggi quantomeno anomali (e bizzarri) per giustificare un simile provvedimento: uno dice di essere perseguitato dai cercatori d’oro del suo Paese per alcune caratteristiche fisiche che ha, cioè le linee della mano... Un altro per dissidi con i familiari della sua ragazza, un altro ancora per la mancanza di adeguate cure ospedaliere in Tunisia, l’ultimo per le minacce che avrebbe subito dai creditori. La giudice Apostolico ha però assicurato di aver deciso della sorte dei quattro stranieri sulla base di motivazioni «esclusivamente giuridiche», e non avremmo alcuna esitazione a crederle se nel recente passato non si fosse, diciamo così, un po' esposta politicamente promuovendo sulla sua bacheca Facebook una raccolta di firme per le dimissioni di Salvini dal Viminale, invocando una «sinistra più a sinistra di Nichi Vendola» e invitando a partecipare ad alcune manifestazioni di Rifondazione comunista. La libertà di pensiero è sacra anche per i magistrati, ma è altrettanto sacro il nostro diritto al dubbio su una sentenza che odora di politica come l’incenso odora di sacrestia, e in questo senso il cognome Apostolico fa anche pendant. In questi giorni tanti, a sinistra, hanno preso le difese della giudice in nome della separazione dei poteri, anch’essa ovviamente sacra in questa Repubblica, scrivendo che la premier Meloni ha travisato il contenuto della sentenza, in quanto la frase sui cercatori d’oro è semplicemente riportata tra le premesse del provvedimento e non viene ripresa nelle motivazioni (una distinzione, se mi è consentito, un po’ da Azzeccagarbugli). Non solo: si è fatto notare che la giudice non dichiara affatto la Tunisia Paese non sicuro, ma sottolinea che alla luce della Costituzione e delle norme europee «deve escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale». Anche qui, ci si arrampica sugli specchi su una questione di lana caprina: se non è zuppa, è pan bagnato!
Su una cosa almeno la sinistra dovrebbe convenire: dichiarare un Paese non sicuro è compito che non spetta sicuramente alla magistratura. Invece il partito unificato delle procure mette in dubbio anche questo, e invito chi avesse ancora dubbi in proposito a leggere quello che ha scritto il tribunale di Firenze, che si è apertamente arrogato (carta canta) il diritto di dichiarare la Tunisia «Paese non sicuro». Lo ha fatto esaminando il caso di un altro migrante tunisino che pure, per giustificare la legittimità della sua richiesta di asilo, non si era dichiarato vittima di particolari persecuzioni, ma aveva posto attraverso i suoi legali una questione più complessiva: «La grave crisi socioeconomica, sanitaria, idrica e alimentare, nonché l’involuzione autoritaria e la crisi politica in atto sono tali da rendere obsoleta la valutazione di sicurezza compiuta a marzo dal governo italiano». Ma può un tribunale sindacare la valutazione di sicurezza di un Paese fatta dal governo? Avendo studiato un po’ di diritto costituzionale mi verrebbe di rispondere no, ma i giudici fiorentini non hanno questo scrupolo: scrivono infatti che non solo può, ma «deve». E che importa se l’Unione europea consente ai governi di stilare liste di Paesi sicuri autorizzando per tutti gli altri regole semplificate per il rimpatrio? «Il sacrificio dei diritti dei richiedenti asilo non esonera il giudice dal generale obbligo di verifica e motivazione in ordine ai profili di sicurezza del Paese». E qui arriva il paradosso: il tribunale di Firenze sostiene beffardamente che la «separazione dei poteri» resta fuori discussione, e che non ha alcuna velleità di invadere la sfera politica. Ma al giudice spetterebbe una «garanzia di legalità supplementare» in ossequio a norme internazionali e costituzionali «che prevalgono sui decreti del governo» (ma la Costituzione non limita forse il diritto d’asilo allo straniero a cui sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche?... forse ho letto male).
Quindi la magistratura, da Catania a Firenze, sta motu proprio costruendo una Costituzione materiale secondo cui sulla politica internazionale il parere dei giudici prevale sulle scelte del governo, in barba proprio alla separazione dei poteri di Montesquieu, sconfinando così nel campo dell’anarchia istituzionale, con un ordine dello Stato che si autoassegna il diritto non solo di non rispettare le leggi dello Stato, ma anche di imporre le sue scelte al governo. Ma non c’è da stupirsi, e sulla questione migratoria non possono che tornare alla mente le parole del procuratore capo di Viterbo Auriemma nella conversazione intercettata con l’allora presidente dell’Anm Palamara: «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando: illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga, e non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento. Sbaglio?». E la risposta di Palamara fu illuminante: «No, hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo». Un comandamento molto poco apostolico.
Iolanda Apostolico, la giudice sempre a sinistra: l'altra sentenza politica. Christian Campigli Il Tempo il 05 ottobre 2023
Una diatriba lunga trenta, interminabili anni. Un arcigno confronto, quello tra politica e magistratura, divampato ai tempi di Tangentopoli, emerso in tutto il suo fragore durante i governi guidati da Silvio Berlusconi e tornato di strettissima attualità dopo il pronunciamento di Catania. Una sentenza, quella emessa dal giudice Iolanda Apostolico, che, di fatto, ha disapplicato il cosiddetto Decreto Cutro sull’immigrazione approvato lo scorso marzo ritenendo «illegittimo trattenere chi sta richiedendo asilo». Il togato ha stabilito che alcuni punti della norma fideiussione - provvedimento di trattenimento e procedure accelerate in frontiera – si porrebbero in contrasto con le leggi europee. Una scelta che ha sollevato un vespaio di polemiche. Basti pensare al premier, Giorgia Meloni, che si è definita «basita per una sentenza dalle motivazioni incredibili». In realtà, non è la prima volta nella quale Iolanda Apostolico si trova a doversi esprimere su vicende penali, condite da risvolti politici.
Basti pensare a quando, in veste di giudice a latere della Corte di Assise di Catania, l'11 dicembre del 2019, condannò a tredici anni di reclusione Guido Gianni. Una vicenda, quella dell'orefice siciliano, ancora oggi avvolta da numerosi interrogativi. Il 18 febbraio 2008, il gioielliere di Nicolosi, piccolo centro ad un passo dall'Etna, fu vittima di una rapina. Tre uomini assaltarono il suo negozio e aggredirono lui e la moglie. Gianni sparò e uccise due dei tre rapinatori. Secondo la tesi accusatoria, l'uomo avrebbe esploso i colpi alle spalle dei banditi e, per questo motivo, non gli venne riconosciuta la legittima difesa. Una decisione fortemente criticata dalla moglie del commerciante, che ha lanciato una petizione su Charge.org. «Ha difeso me, la sua vita, quella di un cliente e la nostra attività commerciale. Ed è per questo che ritengo che non possa pagare per la malvagità dei suoi assalitori». La Lega, sin dal primo momento, si è schierata dalla parte di Gianni. «Condannato, dopo una vita di lavoro, per aver reagito a una rapina a mano armata, difendendo la moglie dall'assalto dei rapinatori – ha sottolineato il leader del Carroccio, Matteo Salvini – Un'autentica follia. La difesa è sempre legittima».
Aspre critiche sono giunte anche dall'europarlamentare della Lega, Susanna Ceccardi. «Il giudice che ha rilasciato i migranti trattenuti a Pozzallo condivideva sui social le raccolte firme per sfiduciare Salvini e per comprare i biglietti aerei per i migranti irregolari in modo da farli venire direttamente in Italia. Lo stesso magistrato ha condannato l’orefice Guido Gianni per omicidio volontario, mentre la Lega conduceva una battaglia per la legittima difesa, molto osteggiata dalla sinistra. Ho incontrato Guido Gianni all’Ucciardone tempo fa ed è stato un momento di grande commozione. Abbiamo riflettuto sul fatto che al suo posto ci sarebbero potute essere molte altre persone perbene che avrebbero reagito alla stessa maniera, di fronte a una situazione così allucinante».
I magistrati hanno perso il senso della misura. Davide Vecchi su Il Tempo il 06 ottobre 2023
Si può essere d’accordo o meno con il generale Vannacci sulle idee che ha espresso ma almeno lui ha avuto il coraggio di dire quello che pensa e di metterlo per iscritto. Non si è messo a nascondere o sbianchettare nottetempo i propri profili social per cercare di nascondere un recente passato improvvisamente divenuto decisamente imbarazzante. Tanto più che il generale Vannacci ha espresso le proprie idee su temi che non sono oggetto del proprio ambito lavorativo. Inoltre, Vannacci è incardinato in una rigida gerarchia militare e risponde a ordini superiori. Di fatto parla come un privato cittadino sebbene svolga un lavoro importante.
Un giudice invece «giudica», applica le leggi interpretandole in scienza e coscienza. E allora la domanda è: una persona che scende in piazza per manifestare con veemenza su un tema poi si può occupare di giudicarlo in tribunale? O sarà condizionata dalle proprie posizioni radicali fino a piegare le norme per farle coincidere con le proprie posizioni? Non si può certo entrare nel cuore e nella mente di un magistrato per sapere se ha fatto il suo lavoro con obiettività oppure facendosi condizionare dal pregiudizio. Per fortuna ci sono vari gradi di giudizio nel nostro sistema e ci sarà modo e tempo per valutare tutte le sentenze, in particolare quelle di cui si parla in questi giorni. Ma resta comunque la forte preoccupazione per come, anche tra i magistrati, si sia perso a volte il senso della misura, del contegno, del rispetto innanzitutto del proprio fondamentale ruolo nella società.
Giudice Apostolico, ci mancava il post del marito contro Israele: "Vergognatevi!". Il Tempo il 07 ottobre 2023
Il nuovo video che immortala le proteste della giudice Iolanda Apostolico contro la polizia. I vecchi post del compagno Massimo Mingrino, funzionario in tribunale, contro Israele. Si intrecciano cronaca e politica nelle novità emerse sul caso della magistrata di Catania che ha respinto il trattenimento di tre migranti tunisini bollando di fatto il decreto Cutro come illegittimo. Dopo le polemiche per i post e i like anti-Salvini, il caso della partecipazione alla manifestazione per i migranti della nave Diciotti a Catania, 5 anni fa. LaPresse oggi ha mostrato un nuovo video, che la vede protestare con decisione mentre altri manifestanti ne dicono di tutti i colori ai poliziotti. A rendere il tutto più surreale, sono alcuni post emersi dal profilo del compagno della giudice. Ora l'account è chiuso ma in precedenza Mingrino aveva il profilo Facebook pubblico, quindi i suoi post erano visibili a tutti. Come quello del maggio 2021, in cui il marito del giudice di Catania aveva condiviso senza commentarlo un post del partito di sinistra Potere al Popolo di chiaro stampo anti-israeliano.
"Vergognatevi! Questa è una immagine della manifestazione pro-Israele a Roma. Fa venire mal di pancia. Nell'ordine sono intervenuti Matteo Salvini, Enrico letta, e Antonio Tajani, Francesco Lollobrigida, Carlo Calenda, Maria Elena Boschi, Giovanni Toti, sciorinando la loro solidarietà a Israele, contro "il terrorismo". Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d'Italia, Azione, Italia Viva, tutti uniti quando si tratta di sostenere una potenza coloniale, Israele, che utilizza le stesse tecniche di apartheid del Sudafrica razzista contro i palestinesi", scriveva Potere al Popolo, "Capovolgono la realtà. Israele è l'aggressore. Israele colonizza, uccide, bombarda, opprime. Mentre scriviamo sono 56 i palestinesi uccisi. Noi stiamo con il popolo palestinese". Parole che emergono quando infuria la guerra in medio Oriente, con l'attacco dei miliziani di Hamas con migliaia di razzi su Israele.
Giudice Apostolico, spunta un nuovo video: cosa fa davanti alla polizia. Il Tempo il 07 ottobre 2023
Un altro video che ritrae la giudice Iolanda Apostolico durante la manifestazione al porto di Catania, nel 2028, a sostegno dei migranti della nave Diciotti getta nuova luce sulla vicenda. Si tratta di un filmato girato dal giornalista Stefano Bertolino per l'agenzia LaPresse, che lo ha pubblicato sabato 7 ottobre in esclusiva. Si vede la giudice, finita al centro delle polemiche dopo la decisione di non convalidare il trattenimento di tre migranti tunisini dichiarando di fatto illegittimo il decreto Cutro del governo, protestare attivamente contro le forze dell'ordine, mentre altri manifestanti insultano i poliziotti. Immagini che affossano i tentativi di minimizzare i fatti visti in questi giorni.
“L’esclusivo video di Lapresse è sconvolgente e spazza via le ridicole difese d’ufficio e i comici tentativi di spostare l’attenzione da un fatto evidente e gravissimo: un giudice in piazza contro le forze dell’ordine", si legge in una nota della Lega diramata dopo la pubblicazione del filmato. ".Nelle nuove immagini, la dottoressa Apostolico non difende donne e uomini in divisa insultati, alza la voce e il braccio, tace davanti a grida e parole irriferibili. Ci chiediamo cosa debba succedere ancora affinché tutte le istituzioni, unanimemente e rapidamente, intervengano di fronte a questa pagina oscena della nostra democrazia. Dimissioni, immediate”.
Iolanda Apostolico? Il Pd dimentica di quando mise alla gogna un magistrato. Il Tempo il 07 ottobre 2023
Per l’Anm è sbagliato chiedere conto di ciò che fanno i magistrati fuori dalle aule dei tribunali. Lo «screening» della loro vita privata, per usare le parole del presidente Giuseppe Santalucia, fa venire meno la necessaria «serenità», precondizione per l’autonomia della magistratura. Tradotto: la Lega non deve chiedere le dimissioni di Iolanda Apostolico, la giudice di Catania che non ha trattenuto tre migranti nel Centro per i rimpatri di Pozzallo, ritenendo le regole varate dal governo in contrasto con la normativa europea. Poco importa se nel 2018 partecipò ad una manifestazione in cui si gridava «poliziotti assassini» e in passato condivideva petizioni per sfiduciare l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Per la sinistra, Pd in testa, Apostolico non si deve dimettere. Deve restare al suo posto.
Eppure, cinque anni fa, il Partito democratico utilizzò tutt’altro metro di giudizio quando nella bufera finì un altro magistrato. Parliamo di Giuseppe Cioffi, travolto dalle polemiche a causa di un articolo de la Repubblica. L’accusa nei suoi confronti era quella di aver partecipato ad una convention di Forza Italia. Il Pd chiese in massa le sue dimissioni. L’allora ministro della Giustizia, il dem Andrea Orlando, fece scattare gli accertamenti, con tanto di pratica aperta dal Csm. A ricordare il caso di questo magistrato è la Lega, che evidenzia il solito doppiopesismo della sinistra italiana. Il partito di Salvini sottolinea come la terzietà di un giudice debba valere sempre, e non a seconda delle simpatie del momento. La storia di Cioffi è istruttiva. Tra l’altro, ricorda il Carroccio, «non aveva nemmeno condiviso insulti volgari contro i ministri, né era sceso in piazza mentre la folla grida "animali" e "assassini" alla polizia», come invece è accaduto nel caso che riguarda la giudice Apostolico. Nel 2018 Cioffi era presidente di collegio al Tribunale Napoli Nord. Insieme ai colleghi era chiamato a giudicare Aniello e Raffaele Cesaro, fratelli di Luigi, parlamentare di Forza Italia. Prima del processo, La Repubblica lo pizzicò insieme ad altre tre persone accanto alle locandine di una convention di Forza Italia ad Ischia. Tanto bastò per screditarlo senza appello. Lui, almeno inizialmente, provò a fare chiarezza: «Non ho mai preso parte alla convention di Forza Italia ad Ischia, mi sono solo trovato il giorno dopo a prendere un caffè con alcuni amici presso il bar dell’albergo dove si era tenuto il meeting, con le bandiere del partito che ancora non erano state rimosse». Cioffi era tranquillo. «Degli accertamenti avviati dal ministro Orlando non so nulla, ma di certo sto tranquillo dal punto di vista giuridico. Non ho mai conosciuto o frequentato i Cesaro, per cui non ho motivo di astenermi al processo che li riguarda».
Polemica finita? Assolutamente no. Le richieste di dimissioni da parte della sinistra si moltiplicarono. Fu accusato di non essere imparziale. Di aver contravvenuto al sacro principio di terzietà. A quel punto, preferì fare un passo indietro lasciando il processo. «Non voglio fare nessun braccio di ferro, la mia vita e la mia carriera sono case di vetro - disse con amarezza - Non ho fatto nulla per cui dovessi astenermi, ma a questo punto il clamore sollevato dalla vicenda mi fa preferire un passo indietro. La campagna mediatica nazionale su questo caso può creare turbamento nei giovani colleghi che sono con me nel collegio. E lo faccio anche per lo scompiglio che si è venuto a creare nella mia famiglia». Secondo la Lega, la morale di tutta questa storia è una sola: «I magistrati sono tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri».
La guerra dei giudici ai decreti sicurezza. "Sono illegittimi". E il Viminale protesta. "Faremo ricorso".
Massimo Malpica l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Un siluro giudiziario contro il decreto sulle espulsioni accelerate
Ascolta ora: "La guerra dei giudici ai decreti sicurezza. "Sono illegittimi". E il Viminale protesta. "Faremo ricorso""
Un siluro giudiziario contro il decreto sulle espulsioni accelerate. A lanciarlo è il giudice civile di Catania che venerdì nell'udienza di convalida dei fermi per i richiedenti asilo trattenuti nel Centro inaugurato a Pozzallo ha deciso di non convalidare il trattenimento di quattro cittadini tunisini: per il magistrato la misura è illegittima nonostante il nuovo decreto varato dal governo. «La normativa interna incompatibile con quella dell'Unione va disapplicata dal giudice nazionale», scrive il magistrato, aggiungendo che «il provvedimento del questore non è corredato da idonea motivazione perché difetta ogni valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive». Ed è ancora la giudice a spiegare che, alla luce dell'art. 10 comma 3 della Costituzione italiana che garantisce comunque il diritto d'ingresso del richiedente asilo, debba «escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il suddetto richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale». Illegittimo, infine, chiedere la garanzia economica come sola alternativa alla detenzione. Esulta l'Associazione studi giuridici sull'immigrazione, che nella decisione vede «confermata la mancata coerenza ai principi statuiti dalla nostra Costituzione e dalla Direttiva Ue 2013» del decreto varato dal governo. Ed esulta anche l'opposizione, con Fratoianni (Avs) che vede la decisione come una conferma che il decreto «non solo è ingiusto, irragionevole ed inutile, ma è anche contro la legge», e il segretario di +Europa Riccardo Magi secondo il quale viene sancita «l'illegittimità delle decisioni del governo su tutta la linea».
Sull'altro fronte, il ministero dell'Interno avrebbe deciso di impugnare i provvedimenti del tribunale di Catania. Il dicastero, convinto della validità della norma, vuole dunque sottoporre al vaglio di un altro giudice la fondatezza dei richiami giuridici contenuti nelle decisioni, spiegano fonti del Viminale. Chiarendo che la procedura accelerata di frontiera è «già contenuta nella direttiva europea 2013/33/Ue» e «trova oggi l'unanime consenso dei Paesi europei nell'ambito del costruendo nuovo Patto per le migrazioni e l'asilo e che il governo italiano ha disciplinato nel decreto Cutro». Dal ministero si sottolinea inoltre che due dei provvedimenti di trattenimento non convalidati riguardano «due cittadini tunisini destinatari di provvedimenti di espulsioni già eseguiti (ciò nonostante rientrati nel territorio italiano)». Caustico Matteo Salvini. «Sbarcato da 10 giorni, e ricorso subito accolto dal Tribunale. Ma aveva l'avvocato sul barcone??? Riforma della giustizia, presto e bene», scrive il vicepremier e leader del Carroccio su Facebook. E Sara Kelany, responsabile immigrazione di Fdi, critica la decisione del giudice siciliano bollandola come «politica e ideologica», auspicando che le ordinanze vengano «impugnate dall'avvocatura dello Stato».
E mentre cresce la polemica per la decisione arrivata da Catania, il gip di Siracusa aggiunge carne al fuoco, scegliendo di scarcerare due uomini originari del Bangladesh, fermati nei giorni scorsi come scafisti e accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: sarebbero stati, secondo le accuse, gli uomini al timone di una barca intercettata al largo della Sicilia con a bordo 28 stranieri, in gran parte loro connazionali. Ma i due si sono difesi spiegando al giudice di aver pagato per il viaggio e di essere stati costretti a fare gli scafisti dietro minacce di morte per i loro familiari, e hanno accusato il terzo arrestato, un egiziano, di essere il vero scafista. Una tesi che sembra ricalcare la storia di «Io capitano», il film di Matteo Garrone, e che ha convinto il gip che ha scarcerato entrambi lasciando in carcere il solo egiziano.
Le toghe rosse tornano alla "resistenza". Al congresso della corrente Area gli slogan dei pm di Tangentopoli agitati contro Meloni. Luca Fazzo l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Un bel profumo di tempi andati, la nostalgia dolente dell'epoca in cui la magistratura incarnava la linea del Piave contro l'armata vincente del centrodestra. Nel congresso (che termina oggi a Palermo) della corrente di Area Democratica per la Giustizia, nome un po' prolisso per la vecchia, imperitura corrente delle «toghe rosse», a lanciare tra ieri e l'altro ieri il revival del «resistere, resistere» è il segretario uscente Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma: che come spesso accade ai leader a fine mandato ci tiene a lasciare traccia di sé almeno nei ricordi e nelle emozioni. Così tuona dal palco e ancor prima tuona a mezzo stampa, con una intervista tellurica alla Stampa in cui per dire dell'Italia il peggio possibile accomuna il paese ad un elenco di presunte nazioni canaglia: l'Ungheria, la Polonia, l'America di Trump e (incredibilmente) Israele.
A sottilizzare, ci si potrebbe domandare se il rigore che il ministro della Difesa Guido Crosetto ha avuto nel far rientrare tra i ranghi il generale Vannacci, ricordandogli che un servitore dello Stato ha un diritto di parola limitato, verrà impiegato anche nei confronti di Albamonte. Che, anche nella forma, si permette inconsuete libertà di linguaggio: quando, per esempio, definisce Matteo Renzi «ubriaco di maggioritarismo». Ubriaco, testuale.
Il problema è che, davanti alla platea di Area, Albamonte è tutt'altro che solo. Le uscite finali del leader che attribuiscono al governo una deriva quasi golpista («norme insidiose per gli equilibri democratici definiti dalla Costituzione») vengono accolte dagli applausi. In attesa del successore di Albamonte - quasi sicuro Giovanni «Ciccio» Zaccaro, ex Csm - sarebbe da chiedersi se magistrati saggi ed esperti che fanno parte della storia di Area (dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo al suo pm Giovanni Ardituro) si riconoscano appieno nei furori di Albamonte. Ma lì, a Palermo, nel trecentesco palazzo di piazza Marina, la claque è tutta per il segretario uscente. Il palazzo, d'altronde, una volta era la sede del tribunale dell'Inquisizione.
Arriva Giuseppe Conte, arriva la Elly Schlein, entrambi affannati a proporsi alle «toghe rosse» come alfieri delle loro rivendicazioni. Ma, applausi di cortesia a parte, è chiaro che ad Area qualunque targa di partito sta stretta, l'ambizione è giocare in proprio, rivendicare un proprio ruolo autonomo e trainante nell'opposizione al governo. Un po' come i poteri forti dell'economia (ammesso che esistano davvero) si dice che auspichino un governo tecnico come alternativa credibile alla Meloni, così Area si candida a incarnare un immaginario paese della legalità contro un altrettanto immaginario governo dell'illegalità.
A ben vedere, però, l'attacco di Albamonte e dei suoi compagni alla deriva «maggioritarista» in corso nel paese è l'altra faccia della deriva «minoritarista» di Area: in minoranza tra colleghi sempre più disincantati, in minoranza dentro il Consiglio superiore della magistratura, la corrente oggi - per bocca del suo leader - si lamenta del fatto che nel Csm consiglieri moderati sia in toga che laici facciano blocco. Che è quanto accadeva un tempo sul versante opposto, quando le nomine volute da Magistratura democratica venivano approvate con i voti decisivi dei politici di nomina comunista e diessina. Ma allora andava tutto bene.
Oggi per Area sono nel mirino del governo la Costituzione, la Corte Costituzionale, persino il presidente della Repubblica. Nei piani del centrodestra, a partire dalla separazione delle carriere, per Albamonte c'è «una giustizia forte con i deboli e debole con i forti», asservita a un «governo che orienta le investigazioni verso stranieri, emarginati, avversari politici, e utilizza un metro più soft per i propri accoliti». Standing ovation, nel palazzo dell'Inquisizione.
Magistratura. La giudice pro migranti: applico la legge. Dal Csm firme anti premier. Felice Manti il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il sindacato delle toghe fa scudo alla Apostolico e alla sua decisione. La sottoscrizione avviata da dieci membri togati
Il Csm si schiera con la giudice del Tribunale di Catania che ha fatto a brandelli il decreto Cutro nel mirino del centrodestra. Iolanda Apostolico (nella foto) ha accolto il ricorso di un tunisino richiedente asilo, trattenuto nel centro di Ragusa, a suo dire in contrasto con la normativa comunitaria. Il magistrato è stato accusato di avere simpatie di sinistra per il tenore di alcune sue prese di posizione sui social. Una sensibilità, anzi una «faziosità ideologica» legata a movimenti come Potere al popolo che potrebbe averla condizionata. «Questione giuridica, non fatto personale», si difende lei. In serata arriva la raccolta firme sostenuta dalla maggioranza dei togati del Csm, che chiedono l'apertura di una pratica a tutela della giudice Apostolico, vittima di una «grave delegittimazione professionale» dopo gli «attacchi all'autonomia» venuti «persino» dalla premier Giorgia Meloni, che si era detta «basita» dalla sentenza.
Secondo il magistrato la normativa del 14 settembre che prevede una sorta di «garanzia finanziaria» di 5mila euro per evitare di essere trattenuti sarebbe «incompatibile con la normativa Ue sull'accoglienza» e «va disapplicata perché non prevede una valutazione su base individuale di chi chiede protezione internazionale», come stabilirebbero alcune recenti sentenze della Corte di giustizia Ue. Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha già fatto sapere che il Viminale presenterà ricorso per far valutare la fondatezza dei richiami giuridici: «Dalla lettura convinti ci siano ragioni da sostenere». Intanto il centro di trattenimento per richiedenti asilo, aperto appena sette giorni fa nell'area industriale Modica-Pozzallo, si è già svuotato.
Al netto dei distinguo giuridici, la vicenda si è subito trasformata nell'ennesimo braccio di ferro tra la magistratura e la politica, proprio nelle settimane in cui si discute di riforma della giustizia e a 10 anni esatti dalla tragedia di Lampedusa dove morirono 386 disperati. La stessa Apostolico si schernisce: «Il provvedimento? Non devo stare a difenderlo, non rientra nei miei compiti». A farlo ci ha pensato anche l'Anm, il sindacato delle toghe, con «una posizione ferma e rigorosa a tutela della collega, persona perbene che ha lavorato nel rispetto delle leggi. Il rapporto tra potere esecutivo e giudiziario andrebbe improntato a ben altre modalità». Una risposta ai rilievi della premier e del vicepremier Matteo Salvini, che ha commentato le «gravi ma non sorprendenti notizie sul suo orientamento», chiedendo lumi al Guardasigilli Carlo Nordio. «Toni scomposti al di là della loro conclamata infondatezza - ribadisce l'Anm di Catania - lontanissimi da quelli che dovrebbero sempre informare una corretta dialettica tra poteri dello Stato». «La magistrata di sinistra che non fa rispettare un decreto del governo è una pessima servitrice dello Stato», incalza l'azzurro Flavio Tosi. «Davvero a Palazzo Chigi pensano che trovando ogni giorno un nemico potranno essere assolti?», si chiede Osvaldo Napoli di Azione. Di «ignobile linciaggio» parla Nicola Fratoianni (Verdi-Sinistra). «Nulla di personale nelle sue scelte, molta politica, come si evince sui suoi social contro i decreti Sicurezza di Salvini nel primo governo di Giuseppe Conte», sottolinea il vicepresidente Fdi della Camera Fabio Rampelli. Scende in campo anche la corrente delle toghe rosse più pasdaran come Area con l'ex segretario Eugenio Albamonte: «Si scava nella sua vita privata per capire quali siano i suoi orientamenti personali, comportamenti non degni di una democrazia». «No, sono indegne le indagini senza rispetto per la privacy che hanno rovinato molte vite, non i post in rete», replica l'azzurro Giorgio Mulè. La sensazione è che lo scontro con le toghe sia solo all'inizio.
Caso Apostolico, l'ira dei colleghi. Una toga delle Marche accusa: "Io criticata per la condanna a Grillo, nessuno mi difese". Luca Fazzo il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Un procedimento disciplinare nella storia di Iolanda Apostolico, la giudice catanese divenuta nuova icona della sinistra dopo il suo provvedimento a favore dei migranti e contro il governo Meloni, c'è stato, e risale a vent'anni fa: ma la vedeva come vittima, per la cerimonia di iniziazione che le venne riservata appena arrivata in Sicilia dai colleghi, probabilmente non indifferenti alla sua avvenenza, che finirono denunciati e sanzionati.
Per il resto, nessuno ha mai trovato nulla da ridire nè nelle sue sentenze nè nelle esternazioni - tutte politicamente ben indirizzate - sui social network. Eppure più si scava, e più le figure della Apostolico e di suo marito Massimo Mingrino appaiono lontane dalla immagine di ieratica imparzialità politica che le venne cucita su misura all'indomani della liberazione dei quattro tunisini fermati in base alla nuova legge.
Questo spiega anche la reazione che in una parte della magistratura si sta registrando alla campagna in difesa della Apostolico scattata immediatamente da parte delle correnti di sinistra e di centro, con anche la richiesta di un intervento «a tutela» della giudice da parte del Csm. La pratica «a tutela» è uno strumento simbolico, privo di conseguenze concrete, ma che ha il pregio di fare sapere al mondo che il Consiglio superiore sta dalla parte di un collega. Ma ci sono casi in cui la «tutela» non scatta. A denunciarlo, commentando sulla mailing list dell'Associazione nazionale magistrati la richiesta a favore della Apostolico, è il giudice marchigiano Anna Maria Gregori, che nel 2016 condannò Beppe Grillo per diffamazione: «Sono stata attaccata personalmente per una sentenza di condanna a Grillo che mi ha attaccato pesantemente su tutti i giornali, nessuna pratica a tutela. I colleghi non erano d'accordo a tutelarmi? Se qualcuno ha una risposta la ascolto con piacere, in tanti anni non l'ho mai avuta. Devo dedurre che non si tratta di tutela dell'indipendenza che dovrebbe essere applicata a tutti i magistrati e per gli attacchi di tutti i partiti». Se invece è la sinistra a infangare un magistrato, per il Csm non c'è problema: lo ricorda, in un messaggio sulla stessa mailing list, il giudice Giuseppe Bianco, citando il caso di Valeria Sanzari, procuratore aggiunto a Padova che nel giugno scorso ordinò di cancellare decine di trascrizioni illegali di adozioni gay disposte dal sindaco, e che venne ricoperta per questo di insulti: contro di lei ci fu persino un appello, «era contro la collega Sanzari - scrive Bianco - che aveva adottato per obbligo di legge dei provvedimenti non alla moda». Anche in quel caso il Csm rimase immobile.
Per la Apostolico, invece, il Csm è chiamato a scendere in campo, e i consiglieri moderati di Magistratura Indipendente che non hanno firmato la richiesta a favore della collega vengono sommersi di contumelie sulle chat delle toghe organizzate, accusati di condividere le «scomposte reazioni del presidente del Consiglio» al provvedimento della collega.
Quello che non è chiarissimo è se le correnti di sinistra ritengano legittimo non solo il provvedimento della Apostolico ma anche le sue esternazioni politiche di estrema sinistra. La giudice ha rapidamente chiuso il suo profilo social, ma a fare capire che aria tiri in casa resta la figura di suo marito Massimo, già esponente di Rifondazione Comunista. A Catania c'è chi ricorda ancora di averlo visto in corteo nel 2001, il giorno dopo la morte a Genova di Carlo Giuliani, reggere uno striscione dietro il quale si lanciavano slogan contro i «carabinieri assassini». In tempi più recenti ai combattivi post su Facebook Migrino continua ad accompagnare vibranti interventi pubblici, come quando accusò il sindaco di Catania addirittura di «trovare molto più conveniente mantenere interi quartieri nel degrado e far perpetuare i fenomeni dell'abbandono scolastico e della proliferazione della criminalità minorile». Il sindaco, ovviamente, era di destra. E intanto spunta una sentenza in cui la Apostolico si dimostrò inflessibile con un gioielliere siciliano che nel 2008 uccise un rapinatore: 12 anni senza attenuanti.
La toga rossa che tifa per le Ong. Francesca Galici il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Dopo il caso Catania, il giudice Minniti (militante di Area) dà lezioni di diritto sulla Tunisia
La Tunisia non può essere considerata un Paese sicuro e la Farnesina deve rivedere il proprio giudizio. È così che il collegio di giudici di Firenze, presieduto da Luca Minniti, ha annullato l'espulsione di un migrante tunisino a cui il Viminale aveva negato lo status di rifugiato. Un caso simile a quello di Catania destinato a far discutere, perché se Iolanda Apostolico, per tentare di allontanare le polemiche, è stata definita dai media di sinistra un «cane sciolto, mai iscritta a correnti», Minniti è stato recentemente candidato (nel 2021) da Area, corrente di sinistra, al Csm.
Sempre nel 2021, Luca Minniti è stato uno dei relatori di «Un mare di vergogna - L'inabissarsi dei diritti fondamentali», convegno organizzato da Magistratura democratica in collaborazione con A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione) a Reggio Calabria. Anzi, come si legge nella specifica presente sul sito di Radio Radicale, che ha caricato per intero il convegno, il giudice di Firenze è stato il moderatore della quarta sessione dal titolo: «Politiche di esternalizzazione, respingimenti, riammissioni informali: si va verso la fine del diritto d'asilo?». A quello stesso convegno, ma nella sessione precedente alla sua dal titolo «Le Ong e il soccorso in mare: la voce dei protagonisti», intervennero: Marco Bertotto, responsabile Affari Umanitari della Ong Medici Senza Frontiere; Sandro Metz, operatore sociale, animatore e sostenitore della Ong Mediterranea; Cecilia Strada, responsabile della Comunicazione della Ong ResQ People Saving People.
Nel suo intervento in quell'occasione, il giudice Minniti ha parlato delle «potenzialità di tutela giudiziaria» e ringraziato chi «osservando la legge, nell'ambito dell'accoglienza, svolge attività di sostegno all'integrazione dei migranti nel nostro Paese» e anche chi «nel momento più drammatico di sofferenza, il passaggio del Mediterraneo, oppure il passaggio delle frontiere nella rotta balcanica va a raccogliere materialmente i corpi di persone in difficoltà secondo la legge». Il riferimento, come spiegato dallo stesso nel suo intervento, era proprio alle Ong che avevano parlato poco prima, che lui sottolinea intervenire «secondo la legge». Non una precisazione secondaria, visti gli scontri che nel 2019 si sono aperti tra le Ong e l'allora ministro degll'Interno, Matteo Salvini.
E ancora, durante quel convegno, il giudice di Firenze ci ha tenuto a sottolineare che viene riconosciuto «il diritto alla protezione internazionale umanitaria alla maggioranza dei migranti sopravvissuti che arrivano nel territorio italiano» a dispetto «della vulgata populistica». I decreti Sicurezza sono stati dal giudice definiti come un «vento restrittivo» nell'ambito del riconoscimento dei diritti, superati i quali, ha proseguito, «si è tornati a una situazione di equilibrio».
Luca Minniti era già salito agli onori delle cronache, anche se come personaggio secondario, nel 2019, quando il giudice Luciana Breggia accolse il ricorso di un somalo per l'iscrizione all'anagrafe di Scandicci nonostante il decreto sicurezza di Salvini. «Invito questo giudice a candidarsi alle prossime elezioni per cambiare leggi che non condivide», disse l'allora ministro dell'Interno. Nel collegio che emanò quella sentenza, presieduto da Breggia, compariva anche Minniti. Invece, nel collegio presieduto da Minniti per il recente caso del tunisino compare Barbara Fabbrini, che risulta essere stata vicecapo di Gabinetto del ministero della Giustizia ai tempi di Andrea Orlando.
Ma questi sono solo una parte dei giudici che con le loro interpretazioni sfidano la legge e i governi, perché l'elenco completo è piuttosto lungo e articolato. Ci sono, per esempio, Luigi Patronaggio e Alessandra Vella, decisori nel processo a Carola Rackete. Per il magistrato Vella, per esempio, il comandante della Sea-Watch non commise mai alcun reato durante le fasi di salvataggio, nemmeno quando speronò la motovedetta della Guardia di finanza per accostare alla banchina del porto di Lampedusa. Quel fatto, scrisse Vella, «deve essere notevolmente ridimensionato nella sua portata offensiva». Iolanda Apostolico da Catania e Luca Minniti da Firenze sono solo gli ultimi di una schiera di giudici le cui sentenze prestano il fianco alle polemiche. Avere le proprie idee è un diritto di ogni essere umano ma un giudice non deve essere solo terzo e imparziale: deve anche apparire come tale.
"La giudice di Catania nel video con i dimostranti che insultavano gli agenti". Prima le petizioni contro Salvini condivise sui social, poi i mi piace alle campagne di "Potere al Popolo" e delle ong. Paolo Bracalini il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Prima le petizioni contro Salvini condivise sui social, poi i mi piace alle campagne di «Potere al Popolo» e delle ong, quindi il like ad un post del marito che si concludeva con un sonoro «Fanculo Salvini». Ora la partecipazione ad un corteo dell'agosto 2018 (Salvini era al Viminale) a Catania con tanto di cori «animali» e «assassini» urlati in faccia ai poliziotti per chiedere lo sbarco dei migranti dalla nave Diciotti. Il video lo ha pubblicato il vicepremier Matteo Salvini sui social, però senza fare nomi, limitandosi ad un «mi sembra di vedere alcuni volti familiari». Ma subito è arrivata la conferma dell'identità di quel volto familiare tra gli urlatori: «Sono certo di riconoscere la magistrata di Catania Iolanda Apostolico, che in quel 25 agosto 2018 era sul molo del porto catanese durante la manifestazione dell'estrema sinistra. Mi può smentire?» scrive il deputato catanese della Lega Anastasio Carrà.
Apostolico rivela ai colleghi, secondo le ricostruzioni emerse nelle serata di ieri, che era presente in piazza per evitare contatti tra le forze dell'ordine e i manifestanti. Gli stessi che avrebbe definito per lo più cattolici. Quella donna è inequivocabilmente la giudice che il 29 settembre, con un suo provvedimento, ha sconfessato il decreto del governo non convalidando il trattenimento di tre tunisini nel centro di accoglienza di Pozzallo. Anzi, in quelle immagini si vede chiaramente anche il marito, Massimo Mingrino, funzionario del Tribunale di Catania ma soprattutto militante di Potere al Popolo e grande odiatore del centrodestra sul tema immigrazione. Il video è la conferma definitiva della partigianeria della giudice di Catania, e infatti anche a sinistra, dove pure si era provato a difendere la Apostolico, si alza bandiera bianca (a parte i Verdi che escogitano una improbabile accusa di «misoginia» per Salvini, e Conte che la butta in caciara sul governo che «non deve approfittare di singoli episodi per costruire nuovi nemici»).
Anche il leader di Iv Matteo Renzi trova «scandaloso» il video, «se vuoi fare politica, non fai il magistrato. I magistrati che partecipano a manifestazioni politiche, di parte fanno male innanzitutto ai propri colleghi» scrive l'ex premier. Critiche da Azione di Calenda: «La giudice di Catania è indifendibile». Salvini, che proprio oggi pomeriggio sarà nell'aula bunker dell'Ucciardone, a Palermo, per l'udienza del processo OpenArms (in caso di condanna, rischia fino a 15 anni) affida ad una nota della Lega il suo «sconcerto per quanto sta emergendo» sulla giudice catanese. La presenza del magistrato e del compagno, «a sua volta funzionario del Palazzo di Giustizia etneo, pubblicamente schierato contro la Lega e dalla parte dei manifestanti» è definita «circostanza che rafforza la sensazione di totale allineamento ideologico della coppia, perfino nel bel mezzo di una manifestazione con grida assassini e animali di fronte alla Polizia».
Tutto il centrodestra, dalla Lega ai moderati di Lupi, si mobilita per denunciare la faziosità della giudice e i rischi di una magistratura militante. Il tutto si traduce in un pressing sul ministro della Giustizia Carlo Nordio, per inviare gli ispettori a Catania. Alla Camera viene depositata una interrogazione firmata dai deputati Fdi Sara Kelany (responsabile immigrazione del partito), Francesco Filini e Tommaso Foti, dove si chiede a Nordio di «valutare la sussistenza dei presupposti per l'adozione di iniziative di carattere ispettivo» nei confronti di Iolanda Apostolico, le cui ordinanze «sembrano afflitte da un vizio di motivazione determinato da un'impostazione ideologica, che tradirebbe la violazione dei princìpi di terzietà e imparzialità».
Un'altra interrogazione, questa a firma della leghista Erika Stefani, chiama in causa ancora il Guardasigilli, chiedendo «quali misure intenda adottare» rispetto al giudice di Catania, poiché un magistrato «non solo deve essere imparziale, ma deve anche apparire imparziale». Il ministro della Giustizia nei giorni scorsi ha annunciato che il governo impugnerà i provvedimenti della Apostolico, in cui ha riscontrato «criticità» e «distonie di ordine tecnico che stiamo valutando assieme ai ministero degli Interni». Per ora non è previsto di riferire in Parlamento, come chiede la Lega, né l'invio degli ispettori a Catania. Sarebbe uno step successivo, che a questo punto, con anche la «prova video» della parzialità della giudice, politicamente può anche essere superfluo.
Urlavano "assassini" ai poliziotti. E nel video del 2018 spunta la toga pro migranti. Le petizioni per chiederne le dimissioni, il like al "vaffa" del marito e ora il video delle proteste durante il caso Diciotti. L'ossessione della giudice Apostolico per Salvini. Andrea Indini il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Non c'è "solo" il profilo Facebook infarcito di petizioni anti Salvini, post pro immigrati e campagne a sostegno delle Ong. E non c'è nemmeno "soltanto" quel violentissimo like al "fanculo Salvini" postato (sempre su Facebook) dal marito Massimo Mingrino. Adesso spunta anche un video, datato 25 agosto 2018, che ritrae al porto di Catania un manipolo di manifestanti in protesta contro il governo. Urlano "Assassini!" e poi "Animali!" in faccia alle forze dell'ordine. E, nelle immagini che il vice premier Matteo Salvini ha condiviso questa mattina sui social, ad un certo punto spunta anche un "volto noto". Non partecipa agli schiamazzi sguaiati, agli attacchi forsennati, alle proteste. Però è in prima fila, davanti ai poliziotti in tenuta anti sommossa. Il deputato catanese della Lega, Anastasio Carrà, punta il dito: "Sono certo di riconoscere la giudice di Catania, Iolanda Apostolico. Mi può smentire?".
Riavvolgiamo il nastro un momento e torniamo all'estate del 2018. È l'anno del patto gialloverde e del Conte I. Al Viminale siede Salvini. Ha appena iniziato la guerra agli scafisti e all'immigrazione cladestina. Il primo braccio di ferro si consuma sulla nave della Guardia Costiera Diciotti che ha recuperato 190 immigrati. Il leader leghista vuole che anche gli altri Stati europei se ne facciano carico, che il peso dell'operazione non gravi, come al solito, solo sulle spalle dell'Italia, che l'Unione europea faccia la sua parte. Ma oltre i confini tutto tace. Per cinque giorni la nave resta ferma davanti a Lampedusa. Vengono fatti sbarcare solo tredici persone in gravi condizioni di salute. Il 20 agosto l'allora ministro dei Trasporti Danilo Toninelli la fa spostare a Catania ma Salvini non molla il colpo. Le proteste aumentano, la sinistra scende in piazza e invoca i porti aperti. Le scene sono quelle riprese dal video rilanciato da Salvini in mattinata. L'odio è palpabile in quelle urla: "Assassini!" e "Animali!". E lei non fa una piega. "La presenza di un magistrato tra le fila di estremisti di sinistra è garanzia della terzietà che un giudice deve assicurare?", si chiede oggi Ingrid Brisa, capogruppo in commissione Giustizia. Ai colleghi, una volta scoppiata la polemica, avrebbe detto che si trovava lì, tra le forze dell'ordine e i manifestanti, per evitare contatti tra le due parti, dopo che c'era già stato un primo scontro, e che la protesta era alimentata soprattutto da persone del mondo cattolico e, in misura minore, da esponenti della sinistra. Le urla contro gli agenti, però, sembrano suggerire lo stesso odio.
Cinque anni dopo. Salvini e la Apostolico di nuovo sui lati opposti della barricata. Lui di nuovo al governo, lei a mettere in discussione una legge appena approvata, quella che introduce la stretta sui migranti appena sbarcati e li assicura nei Cpr anziché lasciarli a zonzo per il Paese. La giudice si oppone: libera i primi quattro portati a Pozzallo e scrive nero su bianco che il decreto del governo viola sia la Costituzione sia la normativa europea. A guardare il cv della Apostolico non può che sorgere un sospetto. Il sospetto di parzialità. "Il video postato da Salvini - commenta il deputato di Fratelli d'Italia, Sara Kelany - prova l'impegno pubblico contro le politiche migratorie del governo di allora". Un impegno che non è mai venuto meno. Lo abbiamo ampiamente visto nei post condivisi su Facebook dalla Apostolico. Tanto che Fratelli d'Italia ha già depositato un'interrogazione al Guardasigilli Carlo Nordio. "Usare il potere giudiziario per piegare il diritto alla propria visione ideologica - conclude la Kelany - è molto grave e lede pesantemente il decoro della magistratura".
Purtroppo la gravità della situazione non viene avvertita da tutti quanti. Non la avvertono sicuramente all'Anm. Il presidente Giuseppe Santalucia parla di "screening della persona" e accusa di andare a "vedere chi è il giudice anziché guardare quello che ha scritto". Cosa per nulla vera visto che la linea politica espressa sui social riflette anche sulle sentenze prese nell'aula del tribunale. Nemmeno il consigliere del Csm, Roberto Fontana, tra i promotori della pratica a tutela della Apostolico, sembra capire la gravità delle posizioni della giudice di Catania. Tanto da arrivare ad accusare Salvini di "usare il video per delegittimare" e "confondere i piani". Un doppio tuffo carpiato degno di una magistratura che non ammette mai errori.
Scatta subito la difesa della magistratura. Anm invoca la privacy su un fatto pubblico. Il presidente del sindacato, Santalucia: "No agli screening al passato e alla vita privata". Ma c'è chi dissente. Aimi (Csm): "La giustizia deve anche apparire imparziale". Felice Manti il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Ci mancava solo l'alibi della privacy a tormentare i rapporti tra magistratura e politica. Di fronte al video diffuso dal ministro Matteo Salvini in cui si vede il magistrato Iolanda Apostolico manifestare nel 2018 contro la polizia e i decreti sicurezza del primo governo di Giuseppe Conte, confermando così una critica ideologica già resa pubblica sui social con diversi like (poi cancellati), Anm e Csm anziché fare ammenda gridano allo scandalo.
Per il togato indipendente del Csm Roberto Fontana, uno dei consiglieri che ha raccolto le firme per la richiesta di una pratica a tutela della Apostolico, è tutto normale, anzi serve a confondere i piani: «Criticare una sentenza si può, scandagliare la vita delle persone e spostare l'attenzione sulla vita del magistrato delegittima tutti», scrive Fontana.
Per l'Anm non è lecito dubitare sulla indipendenza di giudizio della giudice, che con una sentenza ha svuotato il Cpr di Ragusa, definendo illegittimo il decreto del governo nella parte in cui obbliga un richiedente asilo pagare una «garanzia sanitaria» di 5mila euro per evitare di essere trattenuto nel Centro. Un provvedimento che peraltro ha già creato un «orientamento legislativo» contro il decreto del governo (vedi la sentenza dell'altro giorno della Procura di Firenze sulla Tunisia «Paese insicuro»), come conferma lo stesso Fontana, che si augura un pronunciamento della Corte di Cassazione «a confermarlo o smentirlo» quando verrà chiamata a farlo. «La compressione dei diritti di manifestazione del pensiero dei magistrati diventa impossibile da reggere, si valuti la terzietà sulla base dei provvedimenti, sennò non se ne esce», blatera il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia (nella foto) a SkyTg24, invitando «non fare screening al passato, alla vita privata o pubblica». «Non è un preoccupante screening, siamo di fronte a una manifestazione pubblica al porto di Catania e a post pubblici di insulti contro il ministro Salvini», è la controdeduzione di alcune fonti del Carroccio. È plausibile pensare che il sindacato delle toghe e una parte del Csm difenda il magistrato dai soliti «gravissimi e inaccettabili attacchi» che nascondono l'accusa di essere «prevenuta». «Ogni magistrato ha un orientamento politico che non si riflette sulla sua imparzialità», è il solito ragionamento del togato Csm Fontana, anche se la sua sentenza demolisce un decreto su presupposti giuridici fallaci, secondo il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio (tirato per la giacchetta dalla Lega con un'interrogazione sulla «impostazione ideologica» della Apostolico), proprio perché il decreto sarebbe stato scritto in osservanza con le stesse normative nazionali e comunitarie che secondo la Apostolico invece sarebbero state violate. Da qui le critiche nel merito di Viminale e Guardasigilli.
Peraltro, dentro il Csm ci sono anche sensibilità diverse, come fa capire il laico di Forza Italia Enrico Aimi, presidente della Prima commissione del Csm, proprio quella che si dovrà pronunciare sulla pratica a tutela della magistrata di Catania chiesta da 13 consiglieri togati di sinistra: «La giustizia non deve essere solo terza e imparziale, ma deve anche apparire tale. Le eloquenti immagini del giudice in prima fila a un'accesa manifestazione dai connotati politici esortano un richiamo ai principi che sovrintendono il nostro Ordinamento», è il ragionamento del consigliere, che così anticipa il suo orientamento «colpevolista».
A far riflettere è l'escamotage di invocare il diritto alla privacy delle toghe dopo aver distrutto quella delle migliaia di innocenti messi alla gogna con intercettazioni irrilevanti (su cui finalmente arriverà una stretta), tralasciando le inchieste sui politici fatte dal buco della serratura che hanno indugiato sulla dimensione privata. La privacy è un alibi che oggi sembra, per la magistratura, la peggiore delle nemesi possibili.
"Dossieraggio". L'assurda difesa della toga pro migranti. La giudice di Catania accusa il governo di centrodestra: "È in corso un'operazione di dossieraggio contro di me". Il Fatto Quotidiano rincara: "Puzza di dossier". William Zanellato il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Imparziale, estranea alla politica e, soprattutto, lontana dalle cosiddette “toghe rosse”. Il curriculum di Iolanda Apostolico, prontamente descritto dai giornali “progressisti”, si scontra con il muro della realtà, o meglio, dei social. Post anti-Salvini, provocazioni pro-migranti e infine un video, datato 25 agosto 2018, che ritrae la giudice di Catania insieme ad un gruppuscolo di manifestanti intenti a protestare selvaggiamente, sempre in chiave anti-governativa, sul caso della Guardia Costiera Diciotti. La difesa del magistrato nel mirino delle polemiche è un attacco, nemmeno velato, al governo di centrodestra. “È in corso un’operazione di dossieraggio”, spiega il giudice in un colloquio con la Stampa.
La giudice "imparziale"
L’accusa, senza tanti giri di parole, è rivolta al numero uno del Carroccio, Matteo Salvini. Lo scontro a distanza tra i due entra nel vivo solo nella mattinata di ieri. Il video pubblicato dal vicepremier Salvini è il casus belli perfetto.“25 agosto 2018, Catania, io ero vicepremier e ministro dell’Interno. L’estrema sinistra manifesta per chiedere lo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti: la folla urla “assassini” e “animali” in faccia alla polizia. Mi sembra di vedere alcuni volti familiari".
Urlavano "assassini" ai poliziotti. E nel video del 2018 spunta la toga pro migranti
Il volto familiare è quello di Iolanda Apostolico, la magistrata di Catania che, come si vede perfettamente nel video, quel 25 agosto 2018 era sul molo del porto catanese. Il motivo? Protestare contro la politica anti-immigrazionista di Salvini, allora titolare del Viminale, e dell’intero governo giallo-verde. I cori dei manifestanti, tanto per usare un eufemismo, non erano dei più gentili. Prima gli insulti, “animali” e “assassini”, urlati in faccia ai poliziotti e poi le proteste per chiedere lo sbarco dei migranti della nave Diciotti.
L'accusa di dossieraggio
La giudice di Catania, la stessa che si oppone al decreto Cutro, è presente al corteo. Nessun movimento scomposto, nessuna protesta azzardata. In una parola: impassibile. Il curriculum creato ad hoc dalla sinistra della giudice imparziale, nel frattempo, è diventato cartastraccia. E l’auto difesa della giudice è una pezza peggiore del buco. Sulla manifestazione, spiega Apostolico su La Stampa, “non ho nulla da nascondere, né spiegazioni da dare”.
"La giudice di Catania nel video con i dimostranti che insultavano gli agenti"
“A meno che – lancia la provocazione – non si voglia tornare a magistrati che si rinchiudono nella torre d’avorio”. Il dado è tratto: il timore della giudice pro-migranti è che sia in corso “un’operazione di dossieraggio” contro di lei. Lo stesso refrain usato, questa mattina, da Il Fatto Quotidiano. “Chi ha passato a Salvini il video contro la giudice?”, recita il titolo di prima pagina del giornale diretto da Marco Travaglio. E ancora:“Puzza di dossier: il ministro sventola i frame su apostolico – afferma il sommario – ci sono schedature o è tutto casuale?”. Per riprendere e adattare la famosa frase di un noto film si potrebbe dire: “Sono i social, bellezza!”. William Zanellato
"Barbarie", "Delitto", "Lapidazione". Quando la sinistra contestava le sentenze dei giudici. Da Nichi Vendola a Marco Cappato, passando per Michele Emiliano, Mimmo Lucano e importanti leader di partito: in caso di condanne o di verdetti avversi, le reazioni sono sempre state furibonde contro i rispettivi magistrati. Lorenzo Grossi il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Hanno accusato il governo di avere criticato troppo aspramente la sentenza del Tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento per quattro migranti tunisini nel centro di Pozzallo e la giudice che ha scritto quel responso, Iolanda Apostolico, che in tempi recenti aveva espresso sui propri profili social delle chiare antipatie per esponenti dell'attuale governo Meloni e aveva sponsorizzato battaglie politiche a favore dei migranti. Ma, come spesso capita, gli esponenti di sinistra di dimenticano di guardare dentro il loro movimento politico in direzione di quei "compagni" che, in un recente passato, avevano più volte attaccato i giudici che avevano sentenziato contro loro stessi o comunque contro alcune battaglie ideologiche vicine al loro mondo di riferimento. Gli esempi sono molteplici e i toni utilizzati potrebbero tranquillamente fare impallidire le dichiarazioni rilasciate nelle scorse ore dal presidente del Consiglio e altri membri della maggioranza.
Nichi Vendola
Partiamo da una figura che per tanti anni è stata considerata la grande speranza della sinistra da parte degli elettori di quell'area: Nichi Vendola. Per dieci anni presidente della Regione Puglia e leader di Sinistra Ecologia Libertà, l'ex parlamentare di Rifondazione Comunista è stato condannato in primo grado a tre anni e mezzo in primo grado per concussione aggravata nel processo "Ambiente Svenduto" sull'ex Ilva di Taranto. Siamo nel giugno del 2021 e, intervistato da vari giornali, Vendola commentò in maniera durissima la sentenza: "deriva giustizialista", "ecomostro giudiziario", "barbarie". Per poi specificare: "Sono finito in una tagliola giudiziaria. Aspettavo con ansia la fine di un incubo che dura da troppi anni. Invece subisco una condanna assurda, che avalla un'accusa grottesca". Si tratta di una sentenza che "calpesta la verità per me e per chi ha lavorato con me", "un grave delitto contro la verità". Inoltre: "Ho sempre pensato che ci si difende in tribunale: e questo oggi capisco che è un errore". Perché "la gogna è il tifo colpevolista, è la lapidazione costruita in un continuo gioco di carambola tra alcuni pubblici ministeri e parti del giornalismo".
Mimmo Lucano
Pochi mesi più tardi rispetto a Nichi Vendola, arriverà anche la sentenza giudiziaria per Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, considerato il grande simbolo dell'accoglienza dei migranti a tutti i costi: il Tribunale di Locri lo condanna in primo grado alla pena di 13 anni e 2 mesi di reclusione per i reati di truffa, peculato, falso e abuso d'ufficio, appesantiti dall'aver "costituito un'associazione per delinquere che aveva lo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti contro la Pubblica Amministrazione" in concorso con la compagna Tesfahun Lemlem e con vari prestanome. Da considerare giustamente innocente fino a una sentenza definitiva (come Vendola), Lucano si sfogò: "Quando parlano di associazione a delinquere dovevano mettere insieme a me anche il ministero degli Interni e la Prefettura di Reggio Calabria, perché allora mi chiamavano San Lucano in Prefettura, perché gli risolvevo i problemi degli sbarchi". L'ex primo cittadino ne è convinto: "Questa storia è piena di contraddizioni". Si tratta di una "vicenda inaudita" all'interno della quale "ci sono tante ombre e cose gravi contro di me": "Per la prima volta, si è tentato, quasi scientificamente, di delegittimare, anche a livello mediatico, il cosiddetto modello Riace".
Michele Emiliano
Restando ancora nel Sud Italia, c'è un attuale presidente di Regione che si era messo alla testa del sedicente "popolo degli ulivi" che si batteva contro le eradicazioni delle piante colpite dal virus della Xylella. Nel 2016 la Corte di Giustizia europea confermò la validità dell'obbligo di procedere alla rimozione immediata delle piante ospiti indipendentemente dal loro stato di salute in un raggio di 100 metri attorno alle piante infette. Per Michele Emiliano "la Corte ha ritenuto di confermare misure drastiche che rischiano di produrre conseguenze inimmaginabili per il nostro paesaggio e anche per la nostra economia". Ma poco tempo dopo il governatore pugliese fu decisamente molto meno tenero riguardo a questa tematica: "Tagliare e distruggere gli ulivi monumentali proprio ora, con i progressi che sta facendo la ricerca per trovare la cura, sarebbe un po' come quando le guardie dei campi di concentramento nazisti uccidevano i prigionieri poco prima dell’arrivo delle truppe alleate". Un paragone leggermente azzardato, per usare un eufemismo.
Marco Cappato
Non solo tribunati e Corti europee. Anche la Consulta venne messe pesantemente nel mirino da un esponente di sinistra. Capitò appena un anno fa quando Marco Cappato si scagliò contro la Corte Costituzionale, presieduta da Giuliano Amato nel febbraio 2022, che bocciò le proposte di referendum dei radicali su cannabis e fine vita. "Brutta notizia per la democrazia", "quella dei giudici è stata una valutazione politica" ed è stato sferrato un "attacco al comitato promotore". Anzi, "c'è stata una manipolazione della realtà", che ha comportato una "violazione grave del diritto" dei cittadini di esprimersi. Il tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni andò si rivolse direttamente al presidente Amato, che avrebbe solo pronunciato delle "fake news" in conferenza stampa: "O c'è un errore materiale nel giudizio dei due quesiti, o c’è un attacco in malafede a noi promotori. Scelga il presidente della Corte quale delle due possibilità".
Coppie omosessuali
Nel 2015 una sentenza del Consiglio di Stato annullò la trascrizione da parte dei Comuni delle nozze contratte all'estero da cittadini omosessuali. Subito furono tante le reazioni dei tanti delusi che a sinistra gridarono allo scandalo per la presunta non imparzalità esercitata dall'estensore della sentenza, il giurista, Carlo Deodato, considerato troppo vicino alle istanze della famiglia tradizionale: "Chi l'ha scelto avrebbe dovuto porsi un problema di opportunità. Lui stesso, forse, avrebbe potuto astenersi", commentò Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia alla Camera per il Partito Democratico. Quest'ultima commentò l'intera vicenda con delle parole per niente dissimili a quelle utilizzate recentemente dal centrodestra: "Il problema che ci si pone è la nuova frontiera dei social. Io non so se questo giudice ha rilasciato i suoi tweet fino all'ultimo, o l'ha fatto prima che gli venisse assegnata la causa, ma mi pare evidente che dovremo presto adeguare le norme sulle astensioni. Non per caso - sottolineò Ferranti - nel codice etico dell'associazione nazionale magistrati, leggiamo che: fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione. Mi sembra scritto ottimamente. Specie nei social ci vuole equilibrio e misura".
Il G8 di Genova
Dopo la condanna dei black block per i fatti del G8 di Genova (2009), il comitato "Piazza Giuliani" e Rifondazione Comunista commentarono in coro il responso in maniera molto negativa: "Questa non è una sentenza è una vendetta, una mostruosità giuridica in cui versa il diritto e la politica nel nostro Paese. Queste sono sanzioni inflitte dagli stati autoritari contro i dissidenti". "I processi genovesi sono processi politici", riteneva Vittorio Agnoletto. Nonché "una sentenza difficile da digerire, difficilmente comprensibile perché per compensare che alcuni imputati hanno dovuto essere assolti per prescrizione, i giudici hanno elevato le pene per altri a livelli direi incompatibili".
I leader contro i magistrati
Matteo Renzi, Beppe Grillo, Massimo D'Alema. Ci sono stati anche storici leader di partito o ex presidente del Consiglio di centrosinistra ad accusare magistrati che stavano indagando su di loro. Il più impetuoso è stato l'ex sindaco di Firenze contro i magistrati della sua città che lo indagarono per il caso Open: "Io credo che i magistrati fiorentini non siano credibili. Ritengo eversivo il comportamento di Luca Turco che non rispetta nemmeno le sentenze della Cassazione. Ritengo scandaloso l'operato di Nastasi, il PM che prima di occuparsi di me ha seguito la tragica vicenda David Rossi a Siena. Io ho detto in faccia a quei PM che non mi fido di loro". Il fondatore del Movimento Cinque Stelle denigrò i magistrati che lo misero sotto inchiesta per traffico di influenze illecite, pubblicando una foto di uno scatolone e un cartello coi prezzi. Il titolo del messaggio recitava "Traffico di influenze". Sotto c'era il tariffario: "Legge tramvia in centro 2 mila euro"; "Legge pulizia strade 1000 euro"; "Solo tombini 500 euro". Infine D'Alema, indagato per corruzione internazionale aggravata per la vendita di armi per 4 miliardi di dollari alla Colombia, ammise che sui giudici Silvio Berlusconi non aveva tutti i torti, sottolineando "uno squilibrio nei rapporti tra poteri dello Stato". Lorenzo Grossi
Ai giudici licenza di apparire militanti politici, oltre che esserlo. Csm e Anm teorizzano un diritto alla militanza politica. Parafrasando Mattarella, non esiste e non può esistere un contropotere politico della magistratura. di Federico Punzi su Nicolaporro.it il 6 Ottobre 2023.
Per la serie il mondo al contrario, nel nostro Paese abbiamo membri del Csm e un’Associazione nazionale magistrati che teorizzano il diritto dei giudici non solo ad essere, ma persino ad apparire parziali e politicizzati.
Il caso lo conoscete, è quello del giudice Iolanda Apostolico del Tribunale di Catania, che pochi giorni fa non ha convalidato il fermo di quattro migranti illegali (che ci auguriamo non compiano reati violenti), disapplicando un decreto del governo ritenuto in conflitto con la normativa Ue.
Giudice attivista
Peccato che il giudice Apostolico abbia espresso sui social le sue posizioni politiche comuniste e immigrazioniste, e firmato anche appelli e petizioni contro l’allora ministro dell’interno Matteo Salvini. Un magistrato militante vicino a forze politiche di estrema sinistra.
Come se non bastasse, ieri un deputato della Lega ha diffuso un video nel quale si vede la Apostolico partecipare ad una manifestazione del 2018 nel porto di Catania contro l’operato di Salvini nel caso della nave Diciotto. Il suo volto appare proprio davanti ai poliziotti mentre una piccola folla di esagitati, tra cui il marito (sic!), intona insulti all’indirizzo degli agenti e del governo (“assassini” e “animali”).
Protesta ovviamente legittima, ma discutibile la presenza del magistrato. Un video che obiettivamente cambia la sostanza, perché un conto è che un giudice esprima una posizione politica, e già non dovrebbe accadere, ma ancor più grave che si trasformi in attivista.
“Trovo scandaloso che un magistrato vada in piazza, per di più in mezzo a persone che urlano slogan vergognosi contro le forze dell’ordine. Se vuoi fare politica, non fai il magistrato“, ha postato Matteo Renzi su X.
Il paragone con Vannacci
Subito da sinistra hanno tirato in ballo il caso Vannacci: ma come, la destra ha difeso la libertà d’espressione del generale e si lamenta delle posizioni politiche del giudice Apostolico? Discorso che si potrebbe ribaltare: la sinistra voleva censurare Vannacci, buttarlo fuori dalle forze armate, e invece va tutto bene se un giudice scende in piazza contro un governo?
Pari e patta, dunque? Nemmeno per idea. Primo, come ha fatto notare Andrea Venanzoni, “quando nell’ordinamento militare saranno inserite le motivazioni sottese all’istituto della ricusazione, dettate dal venire meno del fondamentale requisito della terzietà (incidente direttamente su quell’atto tremendo che è il giudizio), questo potrà apparire un paragone anche solo vagamente sensato”.
Secondo, il giudice decide in piena autonomia e ha nelle sue mani la libertà dei cittadini, può sconvolgere in modo drammatico le loro vite, distruggerle in modo irreparabile. Peraltro, nel nostro Paese è anche “irresponsabile”, una distorsione del sistema per cui di fatto non viene mai chiamato a rispondere del suo operato.
Un generale in tempo di pace ha un potere nemmeno lontanamente paragonabile – e solo sui suoi sottoposti – e risponde sempre ad una rigorosa catena di comando. Tant’è che Vannacci è stato immediatamente rimosso dal suo incarico, nonostante non sia ancora emersa a suo carico alcuna violazione per la pubblicazione del suo libro, mentre il giudice Apostolico è al suo posto e anzi il Csm si è subito mosso a sua tutela.
Diritto alla militanza politica
Subito, manco a dirlo, è scattata la difesa a spada tratta della corporazione, con argomenti però lunari. Non solo tredici togati del Csm hanno depositato una richiesta di pratica a tutela del giudice catanese. Il consigliere Roberto Fontana, uno dei firmatari, sostiene che con il video si vogliono “confondere i piani”.
La giurisdizione si esprime attraverso i provvedimenti, che ovviamente possono essere criticati e impugnati sulla base di ragioni tecnico-giuridiche. Spostare l’attenzione sulla vita del magistrato e le sue eventuali attività esterne a quella giudiziaria, è un modo per eludere il confronto sul merito del provvedimento e un tentativo di delegittimare l’attività giurisdizionale.
Ancora più esplicito il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia:
Inviterei a valutare la terzietà dei giudici sulla base dei provvedimenti che vengono assunti e delle motivazione poste alla base, e a non fare invece lo screening al passato, alla vita privata di un magistrato. Altrimenti la compressione dei diritti di un magistrato diventa impossibile da reggere.
Qui Fontana e Santalucia arrivano addirittura a rivendicare il diritto del magistrato a esibire la sua parzialità, la sua militanza politica. Un’arroganza che rivela la sensazione di intoccabilità della categoria.
Eh no! I magistrati devono non solo essere ma anche apparire terzi e imparziali, altrimenti non esisterebbe l’istituto della ricusazione. Ed esternare le proprie posizioni politiche sui social, firmare appelli e petizioni, partecipare a manifestazioni, è vita pubblica, non privata, che nel caso di un giudice può e anzi deve essere sottoposta a screening.
L’imparzialità della decisione va tutelata anche attraverso l’irreprensibilità e la riservatezza dei comportamenti individuali, così da evitare il pericolo di apparire condizionabili o di parte. È un aspetto importante per ogni istituzione della Repubblica, particolarmente in questa stagione nella quale la preziosa moltiplicazione dei canali informativi presenta anche il rischio di trasmettere l’apparenza di realtà virtuali.
Di chi sono queste parole? Sono del presidente della Repubblica Sergio Mattarella non molti mesi fa, il 15 giugno scorso, parlando ai magistrati tirocinanti. Non scommetterei un centesimo di euro che il presidente Mattarella trovi il coraggio di ribadire questo concetto in queste ore, ma se ci credesse davvero, avrebbe pienamente senso farlo ora.
Parafrasando Mattarella in altra occasione, non esiste e non può esistere un contropotere politico della magistratura.
Il caso Guido Gianni
Che poi, la decisione più grave presa dal giudice Apostolico non è nemmeno la disapplicazione del decreto sui migranti, ma la condanna (che a questo punto ci sono molti elementi per ritenere ideologicamente motivata) del gioielliere Guido Gianni a 13 anni di carcere per legittima difesa, per aver difeso se stesso e la moglie da una banda di tre ladri che li minacciavano. Se n’è occupato Giuseppe Di Lorenzo su NicolaPorro.it: Guido Gianni libero subito!
La giudice che cerca fondi per le Ong. Dopo i casi di Catania e Firenze, le campagne "balcaniche" della Albano, militante Md. Fausto Biloslavo il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Il caso della giudice Iolanda Apostolico, che grazia gli illegali tunisini e partecipa a rabbiose manifestazioni pro migranti dell'estrema sinistra è la punta di un iceberg. Sul versante della rotta balcanica c'è un'altra giudice, Silvia Albano, specializzata nella protezione internazionale al Tribunale di Roma, che ha fatto calare la scure sulle riammissioni dei migranti illegali in Slovenia. L'ordinanza scaturisce dall'esposto di un pachistano che si è rivelato una gigantesca bufala. La giudice fa parte dell'esecutivo nazionale di Magistratura democratica e del comitato direttivo dell'Anm, l'Associazione nazionale dei togati. E non è un caso che sia vicina all'Asgi, un'associazione legale finanziata da George Soros, che fa di tutto per aprire le porte all'immigrazione. Albano, sulla sua pagina Facebook, appoggia le Ong del mare, anche le più estremiste come la tedesca Sea watch, pubblicizzando raccolte fondi a loro favore e postando articoli. Il 7 febbraio 2020 fa una donazione, lanciata da Alessandro Metz, a favore di nave Mare Jonio. Oggi per Metz assieme a Luca Casarini la procura di Ragusa ha chiesto il rinvio a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina. E ovviamente negli ultimi giorni Albano difende a spada tratta la collega Apostolico nell'occhio del ciclone.
La mazzata sulle riammissioni in Slovenia, pratica comune da parte dei francesi a Ventimiglia, arriva il 18 gennaio 2021 quando Albano accoglie in pieno il ricorso contro il ministero dell'Interno di Mahmood Zeeshan presentato dagli avvocati Caterina Bove e Anna Brambilla legati all'Asgi. In sintesi il pachistano sostiene di essere arrivato a Trieste, capolinea della rotta balcanica, dove la polizia l'ha malmenato e rimandato in Slovenia. E poi è stato rimbalzato in Croazia e alla fine in Bosnia.
La giudice si spinge più in là nell'ordinanza bollando come «illegittime» le «riammissioni informali» in Slovenia, vero obiettivo dell'Asgi, che canta vittoria. L'allora ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, blocca le riammissioni, che si basano su un discusso accordo con Lubiana del 1996. «Al di là dei numeri è grave il messaggio sbagliato arrivato ai trafficanti: nessuno verrà rimandato indietro - spiega Pierpaolo Roberti assessore leghista del Friuli- Venezia Giulia su sicurezza e immigrazione - Per di più si è scoperto con il ricorso del Viminale che la denuncia del pachistano era inventata». Il 27 aprile 2021 il tribunale di Roma, ma con altri giudici, smaschera la presunta vittima della polizia italiana in stile Pinochet. E la condanna pure al pagamento alle spese processuali, ma non si pronuncia sull' «eventuale illegittimità» dell'accordo italo-sloveno sulle riammissioni. In pratica rimane in vigore il blocco e torniamo a rimandare indietro gli illegali solo di recente con il ministro Matteo Piantedosi. «Ma a rilento - ammette Roberti - Il danno provocato dall'ordinanza nel contrasto all'immigrazione illegale è irreversibile». Il motivo aggiuntivo è che in Slovenia il nuovo governo di sinistra non vuole saperne di riammissioni crollate a meno di 100. A parte le ripetute interviste sul Manifesto, che criticano il governo su Ong e sbarchi, Albano è l'unico magistrato a partecipare il 14 ottobre 2020 al convegno «Europa: migranti e richiedenti asilo Per una svolta di civiltà» organizzato da Cgil, Cisl, Uil, Md e Asgi. La mattina interviene Gianfranco Schiavone, allora numero due dell'associazione. A Trieste è presidente della onlus Consorzio Italiano di Solidarietà, che accoglie i migranti in arrivo dalla rotta balcanica facendosi pagare dallo Stato. Non solo preannuncia il caso (farlocco) del pachistano ma dichiara: «Prima o dopo ci sarà un giudice a Berlino». Nel pomeriggio prende la parola Albano che attacca i decreti sicurezza di quando Salvini era ministro dell'Interno. Solo tre mesi dopo gli avvocati dell'Asgi trovano «il giudice a Berlino» evocato da Schiavone con l'ordinanza di Silvia Albano che affossa le riammissioni in Slovenia.
La giudice resta. Ma è lite sui dossier. La sinistra insinua trame. Meloni: "Accusa strumentale, era a una manifestazione pubblica". Pier Francesco Borgia il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.
«Dimissioni» è la parola più frequente nel dibattito scatenato dalla diffusione del video in cui il magistrato Iolanda Apostolico partecipa a una manifestazione, nel 2018 a Catania, per chiedere lo sbarco dalla Diciotto degli immigrati bloccati a bordo. Eppure non ci saranno passi indietro. La conferma, seppur indiretta, arriva da una sua collega. «Non chiederà mai di essere trasferita, ma continuerà a fare il suo lavoro con serietà - spiega Marisa Acagnino, giudice del Tribunale di Catania -, anche perché sarebbe come darla vinta a chi sta riversando montagne di fango su di lei».
Per difendere la giudice del tribunale di Catania che, il 29 settembre, ha deciso di non convalidare i trattenimenti nel Cpr di Pozzallo di quattro migranti tunisini (bocciando, perché «incostituzionale e contrario alle norme Ue», il cosiddetto decreto Cutro), sono intervenuti non soltanto i suoi colleghi ma molti esponenti del mondo politico e dell'informazione. Una difesa che si concretizza in un'accusa di dossieraggio. Ci si chiede infatti: «da dove esce quel video?», «chi lo ha dato a Salvini?», «perché è emerso soltanto ora»? Una bomba a orologeria, secondo l'opposizione, che ha un «effetto intimidatorio» - parole dell'ex presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini - nei confronti della giudice Apostolico.
In merito al tanto discusso video diffuso da Salvini sui social, il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, ha presentato un esposto alla Procura di Roma. Secondo il parlamentare potrebbe essere stato violato l'articolo 326 del Codice penale che persegue la diffusione di notizie che devono rimanere segrete da parte di pubblico ufficiale. La Questura catanese però ribatte che il video pubblicato «non risulta tra gli atti d'Ufficio relativi all'evento in questione». I Cinquestelle chiamano in causa direttamente il ministro dell'Interno al quale chiede di spiegare come abbia fatto Salvini a entrare in possesso proprio ora di quel video. E Sandro Ruotolo (Pd) tuona: «Siamo tornati al dossieraggio per delegittimare avversari e coloro che si ritengono avversari». E si chiede: «Non è il caso che dica la sua la presidente Meloni? Non è il caso che della vicenda se ne occupi anche il Copasir?»
La Meloni risponde dal Granada definendo «strumentale» la polemica sul presunto dossieraggio: «Era una manifestazione pubblica e la giudice era lì, non c'è niente di occulto». Per poi aggiungere: «È legittimo chiedersi se qualcuno che partecipa a manifestazioni su quel tema, nel momento in cui decide, lo faccia con un pregiudizio o meno».
Ed è proprio ipotizzando un «pregiudizio» che molti esponenti della Lega sono tornati anche ieri a chiedere il trasferimento della Apostolico.
Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, invita il Csm a farsi arbitro di questa querelle. Mentre il senatore azzurro Maurizio Gasparri chiede al ministro della Giustizia, Nordio, di disporre un'ispezione a Catania dopo le eclatanti vicende che hanno riguardato la sostituta procuratrice Iolanda Apostolico. «Che altro deve accadere - dice Gasparri - per porre fine all'uso politico della Giustizia?» Sulla questione del presunto «dossieraggio» viene anche ricordato che all'epoca della protesta di piazza contro Salvini il capo della Polizia era Franco Gabrielli. Lo stesso che diciotto mesi dopo (febbraio del 2020), nel corso di un convegno a porte chiuse dei rappresentanti sindacali della Polizia ha usato parole a dir poco irriverenti verso il leader leghista: «Usa lo sfintere di un altro», salvo poi accorgersi della gravità dell'espressione scusandosi. Gabrielli «complice» di Salvini? Poco probabile. Pier Francesco Borgia
La politica di parte nascosta dietro i codici. Un solo obiettivo: delegittimare il governo. Altro che interpretazione corretta delle leggi, l'esecutivo è considerato un nemico. Augusto Minzolini il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.
A volte i giudici, o meglio, la magistratura in generale, assumono posizioni surreali, impongono una logica politica coprendola con motivazioni da azzeccagarbugli. La decisione delle toghe di Catania e poi di quelle di Firenze di respingere l'ipotesi di un rimpatrio di alcuni immigrati illegali in Tunisia perché «il Paese non è sicuro», significa nei fatti che non si può riportare a casa o nei paesi di provenienza nessun clandestino. Se quello è il metro non c'è nazione africana o medio-orientale che riconosca ai suoi cittadini i nostri stessi diritti costituzionali: non è che l'Egitto (caso Regeni), la Libia divisa in fazioni, oppure il Marocco retto da una monarchia autoritaria, la Turchia di Erdogan oppure la Siria di Assad siano paesi democratici che hanno uno stato di diritto compatibile con gli standard europei. Si tratta di un dato chiaro, incontrovertibile, al netto di ogni ipocrisia.
Se poi prendiamo come riferimento le posizioni di Amnesty International anche alcune delle più antiche democrazie hanno delle ombre, addirittura peccati, su cui l'organizzazione umanitaria storce la bocca: in alcuni Stati Usa c'è la pena di morte, mentre in Inghilterra tengono i clandestini fuori dai confini a bordo dei traghetti. E pure l'Italia per alcuni episodi è stata fatta passare per un Paese dove c'è la tortura, per non parlare del capitolo sull'immigrazione per il quale le anime belle ci trattano alla stregua di incivili. Con il paradosso che pur non essendo secondo loro un modello, gli immigrati dobbiamo tenerceli lo stesso.
Inoltre se la motivazione del no al rimpatrio dei clandestini deciso dal giudice di Catania e da quelli di Firenze è quella che la Tunisia non è un Paese sicuro, allora, se tanto mi dà tanto, tutte le volte che le autorità italiane ne hanno rimandato a casa qualcuno hanno commesso un reato. Con Minniti, Salvini o Piantedosi. E altra questione: da quando la Tunisia non è uno stato sicuro? Chi lo decide il nostro governo che ha lì un'ambasciata o un magistrato interpretando gli astri o leggendo i tarocchi?
La verità è che quando la politica di parte nascosta dietro una toga inquina l'interpretazione di una legge, provoca come conseguenza una serie di contraddizioni a cascata. Un guazzabuglio da cui non se ne esce e che di fatto punta solo a delegittimare un provvedimento del governo con il solito immancabile corollario .
In realtà non è così perché determinate ordinanze o sentenze hanno soprattutto una valenza politica: uno può scriverle come vuole ma se la critica parte dall'assunto che secondo gli standard europei «la Tunisia non è un Paese sicuro» tu le leggi le puoi scrivere in italiano, in latino o in ostrogoto, ma non raggiungeranno mai l'obiettivo di accelerare i rimpatri. Quindi, il tentativo è quello di ostacolare l'azione di un governo considerato estraneo o, addirittura, avversario. Decisioni, quindi, che - mi sbaglierò - non aspirano ad un'interpretazione corretta del diritto ma vanno nel solco dello slogan lanciato una settimana fa da Eugenio Albamonte, il segretario di Area, la corrente che raccoglie le toghe di sinistra: «Bisogna resistere alla restaurazione».
Solo che a questo punto, invadendo il campo del potere esecutivo, questa parte della magistratura deve assumersi la responsabilità delle sue scelte, deve avere l'ardire di spiegarne all'opinione pubblica la natura politica: i clandestini non si rimpatriano, ma ce li teniamo punto e basta, siano mille, diecimila, centomila. Come pure la sinistra che plaude alle ordinanze di Catania e di Firenze deve avere il coraggio di sposare la politica dell'accoglienza indiscriminata, senza rinfacciare al governo l'aumento degli sbarchi. Tutto si può fare meno che due parti in commedia.
Altra clip contro il giudice: è lei che guida la protesta. Spunta secondo video: la Apostolico urla agli agenti, altro che "mediatrice". Fdi: adesso chieda scusa. Paolo Bracalini l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Ecco un secondo video della manifestazione contro la polizia a sostegno dei migranti bloccati sulla nave Diciotti (decisione dell'allora ministro Matteo Salvini, nella foto) a Catania, nell'agosto 2018, in cui ha partecipato la giudice Iolanda Apostolico. In queste nuove immagini girate da un videomaker dell'agenzia La Presse si vede meglio il ruolo attivo della Apostolico, che non si limita a presenziare al corteo ma affronta in prima persona il cordone di agenti, urlando e puntando la mano in direzione dei poliziotti, a fianco agli altri manifestanti che insultano gli agenti, «avete fatto un atto infame!», «zitto merda!». Insieme alla giudice, anche qui, il marito funzionario del Tribunale di Catania, Massimo Mingrino, militante di «Potere al Popolo» e diffamatore seriale di Salvini sui social. Immagini che smentiscono la versione fatta filtrare della stessa Apostolico, secondo cui fosse lì «nel tentativo di evitare contatti tra le due parti». Dal video emerge all'opposto che la giudice partecipa direttamente alle contestazioni, fomentandole, altro che ruolo da paciere.
Se questo video è stato girato da La Presse, sull'origine del primo - su cui la sinistra aveva parlato di «dossieraggio» e convocato Piantedosi a dare spiegazioni alla Camera - si viene a sapere da «fonti qualificate» che l'autore sarebbe un carabiniere. Nessun agente segreto infiltrato per conto di Salvini, quindi. Il militare - come ha riferito ai suoi superiori - ha ripreso la scena con il cellulare «senza alcuna finalità», e infatti il video non è stato allegato ad alcun atto interno né a informative all'autorità giudiziaria. Il video, ha raccontato il carabiniere, sarebbe stato condiviso con una ristretta cerchia di persone, quindi è girato di telefono in telefono e da lì a qualcuno che poi lo ha fatto avere a Salvini. I superiori del militare hanno già informato l'autorità giudiziaria di Catania.
La questione vera, quindi, resta il comportamento della giudice, che nessuno al Tribunale di Catania sembra intenzionato a spostare dal «Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione». Un comportamento compatibile con la sua funzione di magistrato? Secondo le toghe rosse di Magistratura democratica sì, eccome. Il Consiglio nazionale di Md, riunito ieri, ha approvato infatti un documento nel quale «sente di dover esprimere solidarietà e sostegno a Iolanda Apostolico, vittima di un uso spericolato di ingerenze nella sua vita privata». Quanto alla sua militanza testimoniata dalle immagini, la corrente di sinistra delle toghe scrive che «l'appassionata partecipazione alla conoscenza e alla critica del mondo, l'impegno civile nella vita del Paese non rendono il magistrato meno imparziale: semmai, lo rendono meno misero». Nessun problema, anzi una medaglia al valor civile.
La Lega invece torna all'attacco a chiedere le dimissioni: «Il video è sconvolgente e spazza via le ridicole difese d'ufficio e i comici tentativi di spostare l'attenzione da un fatto evidente e gravissimo: un giudice in piazza contro le forze dell'ordine. Nelle nuove immagini, la dottoressa Apostolico non difende donne e uomini in divisa insultati, alza la voce e il braccio, tace davanti a grida e parole irriferibili. Ci chiediamo cosa debba succedere ancora affinché tutte le istituzioni, unanimemente e rapidamente, intervengano di fronte a questa pagina oscena della nostra democrazia. Dimissioni, immediate» si legge in una nota della Lega. Per Fdi la giudice è ormai «indifendibile». «Il video fuga ogni dubbio, chi ha parlato di dossieraggio abbia la dignità di prendere le distanze. Il giudice farebbe bene a chiedere scusa e la magistratura tutta a prendere le distanze» scrive il capogruppo Fdi alla Camera, Tommaso Foti. Il fatto «è gigantesco» dice il ministro Raffaele Fitto, mentre per il vicepremier Antonio Tajani (Fi) «non è etico che un magistrato partecipi ad una manifestazione dove si inveisce alle forze dell'ordine e poi decida su argomenti che sono attinenti a quella manifestazione».
"Massacrato per una foto. E dai colleghi nessun sostegno". Il giudice finito nella bufera perché ritratto con esponenti di Fi: «La manifestazione politica il magistrato non la deve vedere». Manuela Messina l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Giuseppe Cioffi è il giudice finito al centro di una bufera politica e mediatica nel 2018, quando - soprattutto dal Pd - arrivarono feroci critiche per via di una foto che lo ritraeva insieme ad alcuni militanti di Forza Italia, il giorno dopo una convention azzurra a Ischia. L'operato di Cioffi, chiamato due mesi dopo quel raduno a giudicare all'interno di un collegio - un processo in cui erano imputati alcuni familiari di un esponente del partito fondato da Silvio Berlusconi, è stato oggetto di verifiche da parte del presidente del Tribunale di Napoli Nord. Verifiche da cui non è emerso nulla che abbia messo in dubbio la sua imparzialità e che abbiano richiesto interessamento da parte del ministero o del Csm.
Giudice Cioffi, il suo caso è stato paragonato a quello della collega Iolanda Apostolico, che 5 anni fa ha partecipato a una manifestazione di protesta a Catania in relazione allo sbarco della nave Diciotti. Che cosa ne pensa?
«Io sono stato massacrato sui giornali dopo la vicenda di quella foto a Ischia. Si è trattato di una sorta di onta che ha segnato la mia carriera. Io non sono abituato a fare la vittima, non mi metto mai nel ruolo di chi si lamenta, ma sicuramente ho sofferto di questa situazione. Però contano i fatti. Non solo le verifiche del tribunale hanno avuto esito negativo, e il mio comportamento nei processi è stato giudicato ineccepibile, ma io sono sempre rimasto al mio posto. Sa poi una cosa? Mi sono stati assegnati altri processi nei confronti di personaggi della stessa area politica, proprio perché la mia condotta è stata sempre all'insegna della trasparenza e del rispetto della regola. Processi che non ho trattato solo per questioni di incompetenza territoriale».
Cosa successe cinque anni fa?
«Mi sono trovato a Ischia e ho incontrato alcuni conoscenti che avevano partecipato a una manifestazione politica. Hanno detto che stavo prendendo un caffè con loro nell'hotel dove il giorno prima si era svolta la convention. È vero, ora che non vengo aggredito quando parlo, lo posso spiegare: questo mio amico mi ha tenuto letteralmente due ore sotto al sole per parlarmi di un fatto personale che riguardava lui e la moglie. Mi ha fatto una testa così. Poi è spuntata la foto su Facebook, che non ho postato io visto che io non metto mai le mie immagini sui social».
Due mesi dopo, lei è diventato membro del collegio giudicante in un processo su alcuni familiari di un senatore azzurro. Lei avrebbe condiviso la perplessità?
«Il processo mi è stato assegnato a dicembre con un meccanismo automatico. Dopo il clamore, secondo me esagerato e inspiegabile, ho fatto richiesta di astensione al presidente del tribunale».
In questi giorni 13 consiglieri togati del Csm hanno presentato una richiesta per aprire una pratica a tutela di Apostolico. Che cosa ne pensa?
«Io penso che se uno fa il magistrato, la manifestazione politica non la deve proprio vedere. Non ci si deve mai sbilanciare, in termini di favori per una bandiera o idea politica. Al Csm lo sanno benissimo tutti che l'unica mia passione è il Napoli. Anche io mi sarei aspettato un'azione dei miei colleghi contro l'aggressione della stampa, anche dopo eventualmente verifiche sulla regolarità della mia condotta sul lavoro e sulla vita privata. Azione non è mai avvenuta».
La toga con il record di "asili". A Firenze Breggia, anti-Salvini, ammise: "Noi giudici decidiamo anche con il cuore..." Domenico Ferrara l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Se ci fosse ancora bisogno di prove sulla fallibilità del sistema giudiziario in tema di immigrazione e accoglienza potrebbe venire in aiuto rammentare il caso della giudice Luciana Breggia. Oggi magistrato in pensione, ha aderito all'appello, pubblicato sul sito dell'Anm, contro la separazione delle carriere e la riforma della giustizia voluta dal governo Meloni, ma è stata dal 2013 al 2020 presidente di sezione del tribunale di Firenze. In particolare, dall'agosto 2017 ha presieduto la sezione specializzata per l'immigrazione e la protezione internazionale. Solo nel secondo semestre di quell'anno, la percentuale di accoglimento delle domande era stata dell'85%.
D'altronde, nei convegni a cui partecipava, la Breggia non ha mai nascosto di decidere basandosi non soltanto sulle leggi. «Un giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato. Avere un pensiero ed esprimerlo lo rende più trasparente», ha dichiarato in occasione di un convegno del 2019 promosso dalla corrente della magistratura Area Democratica e da Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione). Nello stesso anno, la Breggia ha rigettato il ricorso del Viminale, all'epoca guidato da Salvini, contro l'iscrizione all'anagrafe di un richiedente asilo. Sempre nello stesso anno, a Viterbo, un pachistano è stato arrestato per violenza sessuale ai danni di due ragazzine di nemmeno 14 anni. La commissione territoriale aveva respinto la sua richiesta di asilo ma l'immigrato aveva fatto ricorso sostenendo di essere omosessuale e ottenendo così la protezione speciale dal tribunale di Firenze. Un'altra prova della stortura del sistema di accoglienza dove senza alcune prove tangibili e verificabili a volte viene concesso asilo a chi millanta o racconta falsità.
La Breggia nel corso della sua carriera ha partecipato a dibattiti con le Ong, con Arci e Anpi, ha presentato un libro contro i respingimenti e i porti chiusi e ha sostenuto che «nessuno è clandestino sulla terra». Ma il magistrato è stato anche coordinatrice e anima della Onlus «Rete per l'ospitalità nel mondo», che aveva come obiettivo, tra le altre cose, quello di trovare alloggi per le minoranze. Non per nulla, la casa alla famiglia rom resa famosa dall'allora governatore della Toscana Enrico Rossi con una celebre foto finita su tutti i giornali gliela trovò proprio l'associazione della Breggia. Che nel dicembre 2014 dichiarava: «Abbiamo incontrato questa famiglia rom alle 6 del mattino, era stata appena sgomberata da un campo all'Olmatex, fabbrica abbandonata di Sesto Fiorentino, era molto freddo (...) Gli abbiamo trovato una casa in affitto, pagando di tasca nostra, è una casa di proprietà della società Montedomini alla quale noi paghiamo un affitto pieno, la Rete da quando si è costituita, nel dicembre 2010, vive con l'autofinanziamento dei volontari e con finanziamenti privati, non abbiamo fondi pubblici. Ci occupiamo non solo dei rom, ma anche di altre minoranze e persone in difficoltà». Tutto lecito, per carità, così come è lecito nutrire il dubbio sull'imparzialità del giudice nei confronti delle minoranze che si sarà trovato a giudicare.
D'altronde, è la stessa Cassazione a definire il principio dell'imparzialità nella sentenza del 14 maggio 1998 n. 8906 in cui le Sezioni Unite hanno precisato che «l'esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di essere imparziale, ma anche di apparire tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni parzialità, ma anche di essere al di sopra di ogni sospetto di parzialità. Mentre l'essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l'apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l'esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l'essere magistrato implica una immagine pubblica di imparzialità». Parole vane al vento.
Il figlio della Apostolico aggredì i poliziotti a un corteo, la madre lo difese in aula: assolto. Ne 2019 il figlio della toga pro migranti partecipò a un corteo di antagonisti durante il quale si registrarono scontri con la polizia. La madre testimoniò in aula in suo favore. Francesca Galici il 15 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Continuano a emergere nuovi dettagli pubblici su Iolanda Apostolico, la toga pro migranti che si è messa in testa di combattere il governo Meloni a suo di sentenze e liberando tutti i clandestini che dovrebbero andare nei Cpr. L'ultima tessera di questo puzzle la mette sul tavolo il quotidiano il Messaggero riportando un fatto avvenuto nel 2019 a Padova, che non vede il magistrato di Catania coinvolto personalmente ma in quanto testimone. In quella che si potrebbe chiamare una vicenda di "vizi di famiglia", la Apostolico è madre di un giovane che quattro anni fa si trovò a partecipare a una contromanifestazione organizzata dai centri sociali nel capoluogo euganeo, durante la quale si registrarono alcuni scontri con la polizia. Quella per i centri sociali, per altro, sembra una simpatia condivisa con la madre, considerando i like di apprezzamento alle pagine social.
Altra clip contro il giudice: è lei che guida la protesta
In quell'occasione, gli antagonisti decisero di contro-manifestare al corteo che scese in piazza per esprimere contrarietà all'aborto e che era guidato da alcuni esponenti di Forza Nuova. Come spesso accade, anche in questo caso i centri sociali cercarono l'infiltrazione e il contatto ma vennero fermati dalle forze dell'ordine. Ne seguirono alcuni scontri che videro il ferimento di diversi agenti. Il figlio del giudice è risultato essere tra gli indagati per quei fatti per resistenza e violenza a pubblico ufficiale perché, come riferisce il quotidiano romano, è accusato di aver "colpito con un pugno gli scudi del personale di pubblica sicurezza".
Il giovane viene successivamente assolto insieme alla maggior parte delle persone che vennero indagate per quei fatti ma l'elemento clou di questo episodio è che a testimoniare per il figlio si presentò in aula proprio il giudice di Catania. Era ottobre 2022, quasi un anno fa esatto, e Apostolico spiegò ai suoi colleghi del tribunale euganeo che quel giorno il figlio la chiamò riferendole che "la polizia aveva usato violenza contro i partecipanti". Ma non solo, perché il giudice aggiunge di aver ricevuto dal giovane anche alcuni video. In uno di questi veniva ripreso un ematoma, che sarebbe stato conseguente a uno scontro con gli agenti, e in un altro il pantalone sporco di sangue di una sua amica, che sarebbe stata colpita da una manganellata.
Queste sono le sue parole riportate nella sentenza di assoluzione numero 505 del 2 febbraio 2023. Risulta, quindi, essere una passione familiare quella di partecipare alle manifestazioni in cui si sviluppano problemi con le forze dell'ordine. Va, infatti, ricordato che sia Iolanda Apostolico che il marito erano presenti al molo di Catania nel 2018 durante la manifestazione pro-migranti e contro Salvini, durante la quale alcuni partecipanti urlarono insulti contro gli agenti. E mentre dovrebbe essere la presenza di un giudice a destare scalpore, la sinistra tenta l'estrema difesa cercando di addossare responsabilità a chi ha fornito la clip di quell'evento al ministro Salvini. Francesca Galici
Apostolico scagionò il figlio che aggredì un poliziotto. Altre rivelazioni sulla giudice pro migranti: come testimone fece assolvere il giovane a processo per violenza. "Ora lasci". Felice Manti il 16 Ottobre 2023 su Il Giornale.
Anche i giudici tengono famiglia. E la giudice «svuota Cpr» Iolanda Apostolico non è da meno. Per il magistrato di Catania, che per prima ha demolito il decreto Cutro del governo in materia di trattenimenti ed espulsioni degli immigrati entrati clandestinamente nel nostro territorio, sono ore difficili. Già sulla graticola per la sua partecipazione nel 2018 a una manifestazione condita da insulti alla polizia e alle forze dell'ordine contro i decreti sicurezza firmati da Matteo Salvini e organizzate dall'estrema sinistra (immortalata in un video, sui cui veri autori è ancora mistero) la Apostolico «paga» il fatto di avere come marito un dipendente del tribunale che è anche un dirigente di Potere al popolo: una vicinanza che potrebbe aver condizionato ideologicamente il suo verdetto.
Ieri il quotidiano Il Gazzettino ha ricordato una storiaccia che coinvolge anche il figlio, Francesco Moffa, indagato assieme ad altri antagonisti per aver dato un pugno allo scudo di una poliziotta durante una manifestazione dei centri sociali in risposta a un corteo antiabortista di Forza Nuova, il 29 marzo 2019 a Padova, con alcuni feriti tra le fila delle forze dell'ordine. Indagato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale, il ragazzo fu assolto il 2 febbraio. Come riferisce il quotidiano veneto, a intervenire in sua difesa fu proprio la madre, che il 25 ottobre dell'anno scorso fu ascoltata come teste dal giudice monocratico del tribunale di Padova. Il magistrato dichiarò che il giorno della manifestazione, il figlio la chiamò per riferirle che, nel corso della protesta, «la polizia aveva usato violenza contro i partecipanti»
La teste disse che il figlio le aveva mostrato in video «un ematoma comparso sulla gamba a seguito di un colpo subito» e «i jeans imbrattati del sangue di una sua amica che era rimasta ferita a causa di una manganellata», come si legge nella sentenza 505 che ha visto assolti 13 dei 14 imputati.
Il centrodestra invoca le dimissioni della toga. «Fatti gravi, imbarazzanti e documentati in modo incontestabile, comprese le testimonianze che avrebbe reso, rendono indifferibile una cessazione della sua attività. La Apostolico andrebbe allontanata rapidamente perché la sua convinta militanza è palesemente incompatibile con la funzione che svolge in maniera più che criticabile. Buon lavoro ministro Carlo Nordio. Buon lavoro Csm», scrive Maurizio Gasparri (Forza Italia). Stesso invito a farsi da parte arriva dai leghisti Simonetta Matone, Igor Iezzi, Erika Stefani, Ingrid Bisia e Stefania Pucciarelli, che si chiedono: «Come mai è così solerte a difendere il figlio e non si è accorta degli insulti a Salvini e alle forze dell'ordine mentre manifestava con l'estrema sinistra? Il suo essere schierata ormai è cosa certa».
Di tutt'altro avviso Nicola Fratoianni (Verdi-Sinistra): «Salvini dica finalmente agli italiani e al Parlamento chi gli ha dato il video con cui infanga la magistratura». Felice Manti
La Apostolico testimone ma solo per sentito dire. Nel processo a carico del figlio che colpì gli agenti ammise in aula di avere seguito i fatti al telefono. Felice Manti il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.
«Siamo al linciaggio mediatico, ora basta». L'Anm difende a spada tratta Iolanda Apostolico, la giudice del tribunale di Catania che con la sua sentenza «svuota Cpr» ha demolito il decreto Cutro e vanificato gli sforzi del governo in materia di contrasto all'immigrazione clandestina. Sulla Apostolico ogni giorno si addensano nuove nubi. Non bastava la sua partecipazione - ripresa da un video, sui cui autori è ancora giallo - a una manifestazione contro i decreti sicurezza anti clandestini del primo governo di Giuseppe Conte nel 2018, nel corso della quale sono volati insulti contro le forze dell'ordine. Né la sua possibile vicinanza ideologica con Potere al popolo, per alcuni like su Facebook ai post rilanciati anche dal marito, dipendente dello stesso tribunale e dirigente del movimento di sinistra.
L'altro giorno si è scoperto che il 25 aprile dell'anno scorso il giudice è volata da Catania a Padova per testimoniare a favore del figlio 26enne Francesco Moffa, imputato (e poi assolto) insieme ad altri 13 no global per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. La sua testimonianza de relato realizzata «in diretta telefonica» sarebbe stata decisiva per scagionare il figlio dall'accusa di aver dato un pugno allo scudo di una poliziotta durante una manifestazione dei centri sociali in risposta a un corteo antiabortista di Forza Nuova, il 29 marzo 2019 a Padova.
Ascoltata come teste dal giudice monocratico del tribunale di Padova, secondo i verbali diffusi ieri da Gazzettino, la Apostolico avrebbe detto di aver parlato con il figlio al telefono e che il ragazzo sarebbe estraneo alle accuse perché «non era in prima fila, lui era dietro, non so se in seconda o in terza», ma che anzi sarebbe lui stesso vittima delle manganellate, come dimostrerebbe un ematoma sulla gamba del ragazzo («poteva essere una manganellata sferrata dal basso oppure un calcio») e della carica violenta degli agenti, tanto che sui jeans macchiati del figlio c'era il sangue di un'amica «colpita dalla polizia».
Frasi che hanno scatenato le reazioni del mondo politico, ma non solo. «Alcuni agenti sono finiti all'ospedale, uno con la rottura dello scafoide e prognosi di 55 giorni», dicono i sindacati di polizia, che accusano il magistrato siciliano: «Così la piena convinzione della terzietà di un giudice legittimamente vacilla». Da giorni il centrodestra invoca vanamente le sue dimissioni e tira per la giacchetta il Guardasigilli Carlo Nordio e il Csm perché prendano provvedimenti, come ancora ieri pretende l'azzurro Maurizio Gasparri: «In che ruolo e per quali ragioni è andata a testimoniare? Farebbe bene a dimettersi». Sul video che la inchioda a una inopportuna partecipazione a una manifestazione dal sapore politico, la sinistra insiste: «Inaccettabile e arrogante il silenzio di Matteo Salvini sugli autori», dice il senatore Pd Filippo Sensi. «Il problema del video è quello che c'è, non da dove arrivi», insiste il vicepremier. «Chi chiede le dimissioni di un giudice a prescindere da qualsivoglia azione disciplinare è come quei magistrati che vogliono fare politica per via giudiziaria», ragiona su X Enrico Costa, deputato di Azione. Il rischio è che la Apostolico diventi un'eroina suo malgrado. «Molti magistrati moderati per reazione a questa affannosa ricerca di presunti scheletri nell'armadio (in questo caso sinceramente risibili) si avvicinano alla sinistra giudiziaria. Così si radicalizza lo scontro», osserva al Giornale un magistrato non certo di sinistra, che in parte condivide le critiche al provvedimento, non certo questo linciaggio mediatico di cui parla la stessa Anm catanese: «Il dibattito su una legislazione complessa è lecito, gli attacchi alla persona sono sconsiderati e indecorosi», dice il sindacato delle toghe, che sabato metterà il caso all'ordine del giorno del direttivo Anm. Ma a finire a manganellate è la residua credibilità delle toghe.
Iolanda Apostolico, la difesa del giudice: "Il tempo dell'Olocausto". A.V. su Libero Quotidiano l'8 dicembre 2023
«Sono un magistrato che viene da una regione remota, il Piemonte», è l’esordio (discutibile) di Giulia Marzia Locati, giudice del tribunale di Torino iscritta a Magistratura democratica, la corrente rossa della toghe. Locati lo scorso 26 novembre ha parlato all’assemblea nazionale dell’Associazione nazionale magistrati manifestando «due preoccupazioni». La prima nasce dal caso di Iolanda Apostolico, la giudice di Catania nell’occhio del ciclone per avere manifestato nel 2018 al molo insieme ai centri sociali contro l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. E riguarda, in pratica, i rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario. La seconda concerne il criterio di «opportunità» sulla condotta «non responsabile» della collega.
Ma tralasciando l’affermazione per la quale il Piemonte sarebbe «una regione remota», mentre è “soltanto” la seconda regione italiana per superficie, la quarta per esportazioni e la quinta in quanto al Pil, ad attirare la nostra attenzione è stato il passaggio in cui cita il contrasto tra politica e magistrati e il nostro governo che non è eletto dal popolo perché il popolo elegge solo il Parlamento. E qui la magistrata scomoda i tempi bui del fascismo, cavallo di battaglia di Md per attaccare l’attuale esecutivo.
Scrive infatti la Locati: «Quando il giudice ravvisa contrasto tra una decisione di rango governativo, o anche parlamentare, e una fonte superiore (Costituzione, Cedu, Fonti Europee) non può, ma deve, risolvere il contrasto a favore delle fonti superiori». Ebbene, insiste la toga nella sua difesa della collega Apostolico, «c’è stato un tempo in cui i giudici erano obbligati ad applicare solo la legge, anche quando in contrasto con i diritti e i principi fondamentali: è stato il tempo delle leggi razziali e dell’Olocausto, tempo in cui non vorremmo tornare». Ecco, se il timore della toga torinese è di tornare al Ventennio perché si è osato criticare la Apostolico, ci sentiamo di tranquillizzarla. Quel tempo è finito per tutti.
Silvia Albano, la toga "a caccia di soldi" per le Ong: l'ombra di Soros sulla magistratura. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023
Continua a tenere banco il caso di Iolanda Apostolico, che ha dichiarato illegittimo il decreto immigrazione del governo e rimesso in libertà dei tunisini che non dovrebbero essere in Italia, essendo stati già espulsi in passato. Nelle ultime ore si è aggiunto un nuovo elemento che mette in dubbio la terzietà della giudice di Catania: è saltato fuori un video del 2018 in cui la Apostolico è tra la folla di una manifestazione di sinistra pro-immigrazione e contro il governo di allora e le forze dell’ordine. In difesa della collega è accorsa Silvia Albano, giudice presso il tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione.
Inoltre fa parte dell’esecutivo nazionale di Magistratura democratica e del comitato direttivo dell’Anm. La cosa curiosa è che anche questa giudice è stata protagonista di una decisione controversa, quella sulle riammissioni dei migranti illegali in Slovenia. “Non è un caso - scrive Il Giornale - che sia vicina all'Asgi, un'associazione legale finanziata da George Soros, che fa di tutto per aprire le porte all'immigrazione. Albano, sulla sua pagina Facebook, appoggia le Ong del mare, anche le più estremiste come la tedesca Sea watch, pubblicizzando raccolte fondi a loro favore e postando articoli. Il 7 febbraio 2020 fa una donazione, lanciata da Alessandro Metz, a favore di nave Mare Jonio”.
Con questo background non sorprende che la Albano abbia preso le difese della Apostolico: “Per fortuna - ha dichiarato in un’intervista a Il Dubbio - esiste la libertà di pensiero e ritengo sia vergognoso appigliarsi ai presunti orientamenti politici o di voto per screditare una giudice. Non sono solo i giudici con orientamenti culturali o di voto a sinistra ad applicare e a dover applicare le norme costituzionali e sovranazionali, dovrebbe essere il compito della giurisdizione. È chiaro che c’è uno spazio discrezionale interpretativo, ma il provvedimento, sul piano giuridico, mi sembra molto fondato”.
Iolanda Apostolico, toga e Rifondazione: chi è il giudice che libera i migranti. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2023
«Schiva, equilibrata, non ha mai espresso posizioni che abbiano condizionato il suo lavoro in un tribunale particolarmente garantista sui diritti umani», ha scritto ieri Repubblica a proposito di Iolanda Apostolico, la giudice della sezione protezione internazionale del tribunale di Catania che la scorsa settimana non ha convalidato il trattenimento dei migranti nel centro richiedenti asilo di Pozzallo. Una decisione che rischia di mettere seriamente in discussione, stando ai rilievi della giudice, i recenti provvedimenti del governo sul contrasto all’immigrazione clandestina e lo stesso decreto Cutro.
Il quotidiano del Gruppo Gedi, che ovviamente non ha nascosto la propria soddisfazione per l’accaduto, ha anche pubblicato una foto in bianco e nero della magistrata, fino a ieri mattina visibile sul suo profilo Fb. «Di certo non è una toga rossa desiderosa di riaccendere lo scontro tra magistratura e politica», prosegue l’articolo di Repubblica, facendo finta di ignorare che l’ordinanza della giudice, arrivata appena cinque giorni dopo l’inaugurazione della struttura a Pozzallo, una parte della quale – circa ottanta posti – destinata proprio ad ospitare le persone sottoposte alla procedura di frontiera accelerata, è una bomba lanciata sotto la sedia di Giorgia Meloni che si sta giocando molto della sua credibilità sul tema dei migranti.
CAMPAGNE ELETTORALI
Tornando invece alla magistrata, in servizio a Catania dal 2001, prima che il suo profilo Fb fosse oscurato ieri pomeriggio, vi si potevano leggere post molto lontani dallo stile “low profile” citato da Repubblica. Vi erano, infatti, condivisioni delle campagne elettorali di Potere al popolo, post contro politici del centrodestra, ed altri a favore di esponenti del Pd come l’allora senatore e sindaco dem della Capitale Ignazio Marino. La magistrata, sempre secondo Repubblica, non è iscritta ad alcuna corrente. Una fonte, però, ha riferito che in passato sarebbe stata vicina a Magistratura democratica, la corrente più politicizzata in assoluto e da sempre costola del Pci-Pds-Ds-Pd.
Apostolico, poi, sarebbe anche legata a un funzionario del ministero della Giustizia che in passato è stato dirigente di Rifondazione comunista e che, fra l’altro, aveva espresso tutta la sua soddisfazione in una nota di partito quando venne nominato Giovanni Salvi, uno dei capi di Md, procuratore di Catania. Ovviamente siamo in democrazia e ci mancherebbe che qualcuno sindacasse le idee della magistrata e del suo compagno. Il tema su cui riflettere riguarda allora la composizione di queste sezioni che si occupano di protezione internazionale. Per una strana circostanza, la maggior parte di questi uffici sono diretti da magistrati di sinistra.
CORRENTE DI SINISTRA
Sicuramente una coincidenza, ma è molto curioso che Magistratura democratica e le altre correnti della sinistra giudiziaria, che non fanno mistero di essere a favore dell’immigrazionismo più spinto, abbiamo monopolizzato tali sezioni specializzate. Il caso più eclatante è la sezione protezione internazionale del tribunale di Roma dove quasi tutti i giudici presenti sono vicini alla sinistra giudiziaria, anche con elementi di primo piano dell’associazionismo togato progressista a livello nazionale. Questa concentrazione di toghe rosse rischia dunque di spalancare le porte ad interpretazioni orientate verso una asserita tutela dei diritti senza se e senza ma degli immigrati con provvedimenti “pilota” che puntualmente balzano alle cronache proprio perché azzerano le norme del governo. Si tratta di sentenze sempre a favore del richiedente asilo che puntualmente l’Avvocatura dello Stato impugna per non vanificare l’operato delle Forze di polizia impegnate nel contrasto all’immigrazione clandestina. Il magistrato, recita la Costituzione, deve essere (ed apparire) terzo ed imparziale: destinare da parte del Consiglio superiore della magistratura toghe che contestano apertamente la politica del governo sull’immigrazione non può dunque non suscitare perplessità.
"Tutela per Iolanda Apostolico". Atto formale: 13 toghe dichiarano guerra al governo. "Sui social le sue opinioni sul governo?": giudice di Catania, Violante ammutolisce la sinistra. Claudio Brigliadori su Libero Quotidiano il 04 ottobre 2023
Grida alla gogna mediatica, David Parenzo, poi però è il primo, a L’aria che tira su La7, a mandare in onda ripetutamente il volto “in borghese” di Iolanda Apostolico, il chiacchieratissimo giudice di Catania che la scorsa settimana ha deciso di “smontare” il decreto del governo liberando alcuni migranti irregolari che sarebbero dovuti finire nel centro di Pozzallo.
Una sentenza che ha «lasciato basita» Giorgia Meloni e che a fatto dire a Matteo Salvini che «i tribunali sono luoghi sacri, non della sinistra». La prima mattinata di lunedì è stata caldissima, con le dichiarazioni dei due leader e decine di reazioni “indignate” a sinistra.
Parenzo casca a fagiuolo e batte il ferro finché è caldo, tanto da far venire un sospetto: prendendo nettamente le difese della toga, e accusando il centrodestra di delegittimare la magistratura, ottiene esattamente l’effetto opposto dando ai telespettatori l’idea di un grosso “complottone”.
Dal suo punto di vista, un clamoroso autogol. Tra studio e collegamento si alternano voci assai schierate. Il rossissimo professor Luciano Canfora paragona Salvini a Mussolini e la giudice di Catania a Carola Rackete, e arriva a proporre il Premio Nobel per la Apostolico perché «in un regime autoritario c’è bisogno di un nemico».
La giornalista Claudia Fusani se la prende ovviamente sempre con Salvini: «Gravissimo che un leader politico prenda un magistrato e lo metta nel mirino». La più moderata è proprio una collega di partito di Meloni, la deputata di Fratelli d’Italia Ylenja Lucaselli: «Non è il magistrato a essere nel mirino, ma c’è una magistratura politicizzata e non lo scopriamo oggi. C’è da fare una riflessione». Intanto Parenzo continua a incitare la regia di La7: «Mostriamo la faccia della giudice». Inspiegabile, o forse no.
Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2023.
[…] «Non voglio entrare nella polemica, né nel merito della vicenda. Il mio provvedimento è impugnabile con ricorso per Cassazione, non devo essere io a difenderlo». È netta Iolanda Apostolico, giudice civile al tribunale di Catania, travolta dalle critiche del centrodestra, premier Meloni e ministro Salvini in testa, per non aver convalidato, di fatto così sconfessando il cosiddetto decreto Cutro, il trattenimento nel cpr di Ragusa di 4 tunisini richiedenti asilo.
«Non si deve trasformare una questione giuridica in una vicenda personale», risponde, riferendosi alle critiche che le rivolgono Libero e Il Giornale , riusciti a leggere, prima della decisione di chiudere la pagina Facebook, suoi post che tradirebbero una simpatia per alcune campagne di Potere al Popolo, come una mozione di sfiducia contro il leader leghista Matteo Salvini.
Non ha smesso di usare il suo profilo social, invece, il compagno Massimo Mingrino, catanese, funzionario al palazzo di giustizia di Catania, che non risparmia critiche alla politica sull’immigrazione degli ultimi anni e che, dopo la mancata convalida del fermo di Carola Rackete, comandante della Sea Watch arrestata dopo aver forzato i blocco della guardia di finanza a Lampedusa, scriveva: «Bye bye Salvini, il giudice ha studiato le carte, ha verificato i fatti ed ha accertato che la legge non è stata violata. Se tu studiassi (si, vabbè...) ti risparmieresti questi fervorini mediatici».
Tre figli, originaria di Cassino, ma da 20 anni a Catania, […] Apostolico è un giudice schivo, serio, molto apprezzato in tribunale. Da tempo lavora nel «Gruppo specializzato per i diritti della persona e della immigrazione» della prima sezione civile del tribunale di Catania […].
«La mia non è affatto una decisione politica, io ho preso le mie determinazioni sono sulla base del diritto», ha detto ai colleghi più stretti dopo le accuse di «sentenza ideologica» lanciate dal centrodestra.
In sua difesa, si schierano l’Anm catanese, che giudica «irriguardosi» gli attacchi contro Apostolico, l’ex segretario di Area Eugenio Albamonte, secondo il quale «c’è una involuzione molto forte del governo attuale nel rispettare il ruolo della magistratura» e dieci togati del Csm che parlano di «attacchi all’autonomia dei giudici» e raccolgono le firme per l’apertura di una pratica a tutela. […]
Iolanda Apostolico, nella folla che insulta i poliziotti spunta anche il marito. Libero Quotidiano il 05 ottobre 2023
C'è anche suo marito nel video in cui appare Iolanda Apostolico in mezzo alla folla anti-Salvini durante la manifestazione del 25 agosto 2018? A vedere questa immagine pare che sia lui. Quel giorno, la giudice che non ha applicato il decreto Cutro impedendo così il trattenimento di tre migranti al Centro di Pozzallo, era tra i manifestanti che sul molo di Catania protestavano contro Matteo Salvini che all'epoca, da ministro dell'Interno, impediva lo sbarco della nave Diciotti. Il filmato è stato pubblicato dal vicepremier leghista sul suo profilo Twitter. E a stretto giro è arrivata la conferma del deputato catanese della Lega Anastasio Carrà, che in una nota sostiene che si tratta proprio della giudice di Catania: "Ha ragione il vicepremier e ministro Matteo Salvini: nel video che ha pubblicato questa mattina (5 ottobre, ndr) sui social ci sono volti noti. Sono certo di riconoscere la magistrata di Catania Iolanda Apostolico, che in quel 25 agosto 2018 era su uno molo del porto catanese durante la manifestazione dell’estrema sinistra". Carrà ricorda che "la folla gridava assassini e animali in faccia alla polizia per chiedere lo sbarco degli immigrati dalla nave Diciotti. Mi rivolgo pubblicamente alla dottoressa: mi può smentire?".
Ora in un’altra immagine sembra spuntare anche il marito della giudice, Massimo Mingrino, funzionario amministrativo anche con funzioni di tutor del ministero della Giustizia, anche lui presente evidentemente alla manifestazione contro Salvini. Del resto basta scorrere il suo profilo Facebook per rendersi conto che non ha in simpatia il vicepremier leghista. Ecco infatti nella sua bacheca una copertina di Charlie Hebdo, il giornale satirico francese, con il ritratto di Marine Le Pen e di Salvini, chiamato affettuosamente le "tète de penis".
Di più. In un post di agosto 2018, Mingrino, condivide una foto che ritrae alcune persone di colore che ballano, accompagnata da queste parole: "Festa di piazza, si balla, si salta, tutti insieme. Allegria, energia, gioia. Fanc*** Salvini". Frase alla quale Iolanda Apostolico mette un "cuoricino". Evidentemente l'antipatia per Salvini è un "vizio di famiglia".
Immigrazione e toghe, "Italia assuefatta ai pm politicizzati". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2023
Goccia dopo goccia di veleno, ormai ci siamo abituati alle toghe politicizzate. L'analisi del direttore editoriale di Libero Daniele Capezzone è impietosa, e arriva nel giorno in cui sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini si scagliano con estrema durezza contro la giudice di Catania Iolanda Apostolico, che nei giorni scorsi ha stoppato il decreto del governo liberando dei migranti. sbarcati (illegalmente) a Lampedusa e che sarebbero dovuti finire nel centro di Pozzallo.
"Basita da quella sentenza e dalle sue motivazioni", ha scritto sui social la premier. Il suo vice, nonché leader della Lega, pochi minuti dopo ha aggiunto: "I tribunali sono sacri, non devono essere della sinistra".
Sia Meloni sia Salvini fanno riferimento a quella parte d'Italia che sembra voler favorire l'immigrazione irregolare, andando di fatto contro le politiche del governo, una parte che coinvolge politica, Ong e, appunto, anche toghe politicizzate. Di contro, dalla sinistra, c'è chi come Arturo Scotto (del Pd, ex Articolo 1) arriva a definire per questo la premier come "eversiva".
Iolanda Apostolico? "Non si trovava lì per caso": affondo contro la giudice. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2023
Iolanda Apostolico è diventata un caso nazionale. La giudice di Catania che ha dichiarato illegittimo il decreto immigrazione del governo non sembra essere propriamente imparziale. Il marito è praticamente un militante di sinistra e nelle scorse ore è emerso un video, diffuso da Matteo Salvini, in cui si vede la magistrato a una manifestazione del 2018 in cui si chiedeva lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti e si insultavano le forze dell’ordine. LaPresse ha intervistato Matteo Iannitti, presidente dell’Arci di Catania che nel 2018 fu tra i promotori di quella manifestazione.
“Io che faccio militanza a Catania nel movimento antirazzista e nella sinistra dal 2002 - ha esordito - non avevo idea di chi fosse la dottoressa Apostolico. È vero che la giudice è compagna di vita di un militante di sinistra assolutamente riconoscibile e, anche se lei non ha mai avuto nessun tipo di ruolo nell'attivismo, l'idea che sia una persona assolutamente slegata, tutta 'casa e tribunale', che non ha mai subito influenze di nessun tipo, non può assolutamente essere realistica. È però ipocrita fingere che non fosse una manifestazione contro il governo. Fa danno millantare l'indipendenza di una persona che invece convive con chi è impegnato politicamente. Quella manifestazione tra le parole d'ordine che aveva c'era la richiesta di dimissioni di Salvini da ministro. C'erano toni sprezzanti contro il governo che teneva in ostaggio quelle persone. C'era un clima di scontro profondo con il governo”.
Insomma, Iannitti è sicuro di una cosa: “La giudice non poteva trovarsi lì per sbaglio. Quella è stata una chiara scelta di partecipare ad una cosa che non era la manifestazione dei centri sociali contro la polizia, o una manifestazione ecumenica, ma era chiaramente organizzata contro il governo. Era una manifestazione pacifica. Poi un gruppo di manifestanti si staccò, tentando di aggirare il blocco di polizia e salendo sul molo di levante, dove c'era la Diciotti. Fu un tentativo più estetico che reale, visto lo spiegamento di forze messo in campo. La polizia reagì con una piccola carica scenografica che preoccupò le persone un po' più adulte che si misero in mezzo per placare gli animi”. Infine Iannitti ha avvalorato la tesi della giudice, che sostiene di aver cercato di tenere la situazione sotto controllo e non di aver partecipato alla manifestazione: “La giudice si trovò lì perché era in piazza, e come persona adulta volle placare gli animi. A prescindere dal ruolo di paciere che può aver avuto Apostolico, il fatto che la giudice fosse a quella manifestazione fu comunque una chiara affermazione della sua posizione politica”.
Migranti, altra sfida della giudice Apostolico al governo: nuovo no al trattenimento. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2023
Ancora un no. La giudice catanese Iolanda Apostolico non ha convalidato il provvedimento di trattenimento di quattro tunisini sbarcati a Lampedusa, disposto dal questore di Ragusa nel centro richiedenti asilo di Modica-Pozzallo. La giudice ha dunque ribadito la illegittimità del decreto del governo come nella sua prima ordinanza. Ieri si era riservata la decisione giunta oggi in linea con la precedente. Tre giorni fa anche il suo collega Rosario Cupri aveva annullato il trattenimento di sei migranti. La magistrata aveva già respinto la scorsa settimana altri sei trattenimenti sempre per cittadini tunisini arrivati sulle coste siciliane ed è stata duramente attaccata dal leader della Lega Matteo Salvini e dal resto del governo per la sua decisione, soprattutto alla luce di alcuni post e like su Facebook sul vicepremier e della partecipazione ad una manifestazione al porto di Catania.
Non si è fatta attendere la reazione della Lega. “Giustizia o politica? Prima in una piazza dove si insultano le Forze dell’Ordine e si difendono gli sbarchi, poi in tribunale per rimettere in circolazione altri clandestini. Un intervento è necessario, come consentito dalla Costituzione, per rispetto della legge, del buonsenso e del popolo italiano”, la nota ufficiale del Carroccio dopo la nuova decisione di Apostolico.
Sarina Biraghi per “La Verità" venerdì 6 ottobre 2023.
Più vicino alle posizioni del governo, forse per i suoi frequenti rapporti con i tribunali, il leader di Italia viva, Matteo Renzi: «Le mie posizioni sull’immigrazione sono diametralmente distanti da quelle di Salvini. Trovo però scandaloso che un magistrato vada in piazza, per di più in mezzo a persone che urlano slogan vergognosi contro le forze dell’ordine. Se vuoi fare politica, non fai il magistrato. Quella giudice ha sbagliato e ha danneggiato la credibilità dell’intera magistratura». […]
Basta con i magistrati «di parte», e con chi li difende ma poi critica Vannacci. Federico Novella su Panorama il 03 Ottobre 2023
Basta con i magistrati «di parte», e con chi li difende ma poi critica Vannacci Il caso di Catania dimostra come diverse toghe schierate politicamente possano giudicare politici ed i loro atti. Con buona pace del concetto di «super partes» Nel corso dell’ultima puntata di “Quarta Repubblica”, su Rete4, lo storico Angelo D’Orsi, riferendosi al giudice del tribunale di Catania che non ha convalidato il fermo dei migranti a Pozzallo, ha ripetuto con grande nonchalance un concetto che ormai in Italia viene dato per scontato: “Essere di sinistra non è una colpa”. Anche per una toga. Il fatto che un magistrato esprima liberamente opinioni politiche, anche schierandosi apertamente con toni tutt’altro che velati, è una tradizione tutta italiana che da Tangentopoli in poi è divenuta consuetudine. Il quotidiano “La Repubblica” parlava di tale magistrato come una toga “senza macchia né colore”, quando sui social network risulta che nel 2018 abbia condiviso una petizione per sfiduciare il ministro dell’interno Salvini
E abbia condiviso una petizione per sfiduciare il ministro dell’interno Salvini. E nel 2011 lo stesso magistrato scriveva: “Ricordiamoci che c’è qualcosa anche a sinistra di Vendola”. La libertà di pensiero è sacra, ma può un magistrato schierarsi politicamente su questioni nelle quali esercita il suo servizio? E’ lecito che nel nostro Paese esista una corrente storicamente progressista, Magistratura Democratica, che si è sempre ritenuta alla stregua di un partito politico in toga? Qua si scontrano due filosofie. Quella liberale del magistrato silente, che come la moglie di Cesare indossa la toga come divisa di servizio, che applica le leggi e non le contesta. E poi c’è la concezione “democratica” della magistratura, quella nata negli anni Sessanta ben riassunta dall’ex segretario di Md Livio Pepino: cioè quella secondo cui la Costituzione, “prima ancora che la fedeltà alla legge, comanda” per le toghe “la disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici”. Questa idea della magistratura combattente che raddrizza i torti del mondo a colpi di sentenze, è una concezione pericolosa insinuatasi a tal punto nel vivere civile, che chi la contesta passa quasi per matto. E’ per questo che tolleriamo come niente fosse il moltiplicarsi delle “correnti” delle toghe, e le sottocorrenti in guerra tra loro, davanti e dietro i riflettori. Per non parlare dell’Anm, equiparato ormai a una Fiom tribunalizia. E la cosa curiosa è che nello stesso tempo, mentre a un magistrato viene garantita piena libertà di partigianeria, accade che la stessa libertà non venga accordata a un militare (leggasi Vannacci), o addirittura venga negata a un Ministro della Repubblica (leggasi Roccella), zittito a un pubblico dibattito poiché simbolo della difesa della famiglia tradizionale. Certe cose non si possono dire in quanto politicamente scorrette, ma contemporaneamente i magistrati, se vogliono, possono schierarsi apertamente nell’agone politico, esprimere giudizi su questo o quel ministro, e nessuno può permettersi di alzare il dito e dissentire. C’è qualcosa di storto che va raddrizzato, e non si tratta di censurare nessuno: ma perlomeno domandiamoci se in un Paese civile il comizio e la veste giurisdizionale possano accavallarsi così sfacciatamente. Fino al punto, e anche a questo ormai siamo abituati, che le toghe possano entrare e uscire dal parlamento per ritornare nelle aule di giustizia come niente fosse.
Il pm anti-governo alla manifestazione pro-migranti? Salvini posta video e domanda. Serve una risposta. Andrea Soglio su Panorama il 05 Ottobre 2023
Salvini accusa il giudice di Catania che ha liberato i 4 tunisini dichiarando illegittimo il decreto legge migranti di aver preso parte ad una manifestazione del 2018 contro di lui e pro migranti. Fosse vero sarebbe gravissimo «Assassini, Assassini». Fa davvero impressione guardare il video della manifestazione avvenuta a Catania a favore dei migranti e contro l’allora Ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Fa impressione vedere dei ragazzi insultare dei poliziotti, uomini dello Stato, va sempre ricordato. Ragazzi esagitati, invasati, davanti ai quali c’è una donna che è lì con loro. Non dice nulla, non urla ma nemmeno difende gli agenti in tenuta anti sommossa. Secondo il leader della lega che ha postato sui social quello che è rapidamente diventato «il video del giorno» quella donna sarebbe Iolanda
Apostolico, la giudice del Tribunale di Catania che ha rimesso in liberà pochi giorni fa 4 tunisini (due dei quali pregiudicati) dichiarando «illegittimo» l’ultimo decreto migranti approvato dal Consiglio dei Ministri. Salvini ha invitato il giudice a dirci se fosse effettivamente lei quella donna; al momento nessuna risposta, solo il silenzio. A guardare cosa condivideva, approvava e sosteneva sui suoi social (prontamente chiusi quando è scoppiata la polemica per la sua decisione ma che qualcuno è riuscito a sbirciare) verrebbe da confermare la tesi del leader leghista ma la conferma ufficiale solo la dottoressa Apostolico la può dare.
Non si può però evitare di considerare per buona la teoria e soprattutto analizzare la questione, di fondo: può un giudice partecipare ad una manifestazione di piazza su un tema ben preciso e poi occuparsi proprio di quel tema? Nel mondo dello sport, a qualsiasi livello, qualsiasi sport, qualsiasi latitudine, l’arbitro, il giudice dev’essere per prima cosa imparziale. Senza quello non potrebbe nemmeno definirsi tale. Ovvio che, essendo persone umane, abbiano delle idee personali, ci mancherebbe. Siamo certi che molti arbitri di Serie A di calcio abbiano anche loro una squadra del cuore. E nessuno può e deve impedirlo: tutti devono avere il diritto di opinione, di idee, del tifo. Quello che l’arbitro non può fare però è scendere in piazza con gli ultras di una squadra, in prima fila, ad urlare slogan contro la formazione rivale o la tifoseria avversaria. Verrebbe radiato immediatamente o quantomeno gli verrebbe impedito di occuparsi di partite della sua squadra del cuore o della rivale. Non sono regole complicate o pesanti, è semplice buon senso. A salvaguardia per primo dello sport e della credibilità degli arbitri. Ecco, se quella donna fosse proprio Iolanda Apostolico bene, dovrebbe essere sospesa ed in futuro tenuta lontana da emettere giudizi su questioni politiche o legate ai migranti. Questo per tutelare lei, le persone delle quali andrebbe ad occuparsi e la credibilità della giustizia, uno dei tre poteri su cui si sostiene il nostro paese. Non si può poi nemmeno tacere sulla reazione della Anm, Associazione Nazionale Magistrati: «No allo screening della vita privata» hanno detto le toghe. Saremmo anche d’accordo sul concetto in se, non fosse che proprio le toghe sono state nel passato più volte i primi a mettere il naso nella vita privata di decine e decine di persone, con dettagli irrilevanti dal punto di vista processuale ma sicuramente utili per rovinare reputazioni e vite. Potremmo fare mille esempi, ne scegliamo uno per rimanere in tema «salviniano». L’assistente e guru dei social, Luca Morisi, finì al centro di un’inchiesta legata alla droga. Quando la notizia uscì ci vennero forniti i dettagli della vita privata del giovane che nulla avevano a che fare con l’ipotetico spaccio: gusti sessuali e persino le posizioni preferite. La madre di tutti gli «screening» della vita privata.
Ben venga quindi una giustizia più umana e corretta, ma per farlo devono essere proprio certi giudici a cominciare.
Il fumo negli occhi della sinistra sulla Apostolico. Conta più da chi arriva il video che il video stesso. Andrea Soglio su Panorama il 6 Ottobre 2023
Il fumo negli occhi della sinistra sulla Apostolico. Conta più da chi arriva il video che il video stesso La sinistra attacca sull'origine del filmato che mostra la giudice di Catania mentre manifesta contro la Polizia e Salvini. Il punto resta però un altro: può giudicare un giudice di parte e militante? La strategia è chiara e soprattutto vecchia come il mondo: quando sei in difficoltà la cosa migliore da fare è distrarre, cercare un altro argomento di polemica per sviare l’attenzione. E’ quello che una certa parte della magistratura ed una certa parte della sinistra stanno cercando di fare oggi, da quando è stato diffuso il video che riprende Iolanda Apostolico, il giudice del Tribunale di Catania, in prima fila ad una manifestazione con chi contestava con violenza verbale la Polizia, l’allora Ministro dell’Interno, Salvini e si schierava pro migranti.
Sul fatto che la presenza del giudice sia non solo “poco opportuna” ma in qualche maniera non regolare lo dice l’articolo 1 del codice etico dei magistrati in cui è presente nelle tre righe del testo complessivo una parola che dice tutto: imparzialità. Nessuno vieta a nessuno di partecipare ad una manifestazione ma se un giudice scende in piazza, in bella vista, in prima fila, allora è chiaro che l’imparzialità richiesta e pretesa viene meno. E sono anche previste sospensioni o pene di vario genere per chi non rispetta queste norme. Aspettiamo con fiducia di vedere le decisioni dei superiori della Apostolico ma non ci facciamo grosse illusioni, visto il passato. La Lega ne ha chiesto le dimissioni; dargli torto su questo è davvero difficile. Ma a farci sorridere solo le dichiarazioni dell’Anm e ad esempio del leader dei Verdi italiani, Bonelli, che si sono concentrate su un altro punto: chi ha dato il video a Salvini? In realtà dietro a questa domanda che oggi è anche titolo di un quotidiano c’è un sospetto ben preciso. Il video sarebbe stato realizzato da agenti della Digos, che fanno riprese ormai da anni ad ogni manifestazione per motivi di ordine pubblico, e da questi, da uno di questi, girato alla Lega. La “manina” quindi sarebbe dello Stato… con la teoria dello screening sociale, del complotto, del regime fascista etc etc etc. La manifestazione a Catania pro migranti in cui il coro più gettonato era “Assassini” rivolto agli agenti di Polizia era pubblico; quella scena potrebbe essere stata ripresa da un passante, un turista, un portuale, un sostenitore delle Ong, da chiunque e poi messo in rete, condiviso, da chiunque. Scoprire quindi chi lo abbia fatto arrivare al leader della Lega è semplicemente impossibile. E poi, soprattutto, non conta, non c’entra nulla con il nocciolo della questione che era ed è un altro: può un giudice di parte giudicare in maniera imparziale? Se una persona sceglie di scendere in piazza e davanti a tutti all’aria aperta decide di metterci la faccia per questa o quella battaglia se ne deve assumere tutte le responsabilità ben sapendo ormai che nel mondo digitale ognuno di noi ogni telefonino è una telecamera è memoria storica digitale ognuno di noi, ogni telefonino è una telecamera, è memoria storica, incancellabile, inarrestabile. Fa ridere vedere la sinistra difendere la “privacy” dei manifestanti. La stessa sinistra che tanto per fare un esempio fece circolare tempo fa il video del saluto romano fatto ad un funerale dal Romano La Russa, fratello del Presidente del Senato. Un video che scatenò polemiche (ci fu pure un’inchiesta della Procura sulla punibilità del gesto, manco fosse la Var del calcio) e nessuno allora chiese la provenienza delle immagini, nessuno parlo di screening di piazza. Ciascuno può fare la sua parte scatenando nuovi tormentoni o alzando polveroni di ogni tipo. Ma dal punto non ci spostiamo e la domanda resterà sempre la stessa finché non avrà risposta: può un giudice dichiaratamente e pubblicamente di parte continuare a giudicare?
Il testo del ricorso del Governo contro la decisione del Tribunale di Catania sui migranti. Andrea Soglio su Panorama il 26 Ottobre 2023
Il testo del ricorso del Governo contro la decisione del Tribunale di Catania sui migranti Questi i punti del ricorso presentato dall'avvocatura dello Stato contro la liberazione dei migranti decisi dal giudice Iolanda Apostolico L’Avvocatura Generale dello Stato ha proposto oggi distinti ricorsi per Cassazione contro i provvedimenti con i quali la giudice Iolanda Apostolico del Tribunale di Catania ha negato la convalida del trattenimento di migranti irregolarmente arrivati sul territorio nazionale. I ricorsi sottopongono alla Suprema Corte l’opportunità di decidere a Sezioni Unite, per la novità e il rilievo della materia, e affrontano i punti critici della motivazione delle ordinanze impugnate, con particolare riferimento alla violazione della direttiva 2013/33/UE, perché:
- a differenza di quanto sostenuto nelle ordinanze, la direttiva prevede procedure specifiche alla frontiera o in zone di transito, per decidere sulla ammissibilità della domanda di protezione internazionale, se il richiedente non ha documenti e proviene da un Paese sicuro;
- la stessa stabilisce alternativamente il trattenimento o il pagamento di una cauzione, e quindi non vi è ragione per disapplicare i decreti del questore che fissano l’uno o l’altro;
- la direttiva contempla, ancora, la possibilità che il richiedente sia spostato in zona differente da quella di ingresso, se gli arrivi coinvolgono una quantità significativa di migranti che presentano la richiesta;
- in caso di provenienza del migrante da un Paese qualificato “sicuro” deve essere il richiedente a dimostrare che, nella specifica situazione, il Paese invece non sia sicuro, senza improprie presunzioni da parte del giudice.
L'excursus. La sinistra e la tradizione ormai persa dei veri avvocati del popolo. Il “fare giustizia” diventò una parola d’ordine – e un percorso di carriera – per molti ragazzi imbevuti di ideologia, animati dalla sincera voglia di cambiare. Oggi invece, chi grida “resistenza” mira a tutelare i suoi eterni privilegi corporativi e di casta. Claudio Velardi su Il Riformista il 3 Ottobre 2023
Agli albori, in materia di giustizia, la sinistra tifava per l’avvocatura, la più nobile delle professioni liberali. Molto spesso erano avvocati i primi e più importanti dirigenti del movimento dei lavoratori, a partire da Filippo Turati. Da allora, anche in epoche meno lontane, si trattasse di sostenere operai che occupavano fabbriche o studenti che facevano manifestazioni, c’era sempre un avvocato (dal latino ad-vocatus, chiamato in aiuto) pronto a combattere contro i soprusi del potere, per ergersi a protagonista acclamato di vibranti arringhe nelle aule di giustizia, in difesa dei diritti di ogni singolo individuo. Mentre la magistratura era per definizione un potere odioso e lontano, che presidiava in maniera occhiuta – a volte ottusa – le leggi vigenti, l’impianto istituzionale dato, la tutela dell’ordine costituito.
Accadde qualcosa di imprevisto, ma di sostanziale, a seguito del cambio epocale della fine degli anni ’60. Avendo preso rapidamente atto che la rivoluzione per via politica era una strada impraticabile e illusoria, nelle nuove generazioni si cominciò a pensare che bisognava penetrare nei gangli cruciali del sistema, per scardinarlo da dentro. E il “fare giustizia” (non parlo ovviamente delle orribili minoranze combattenti) diventò una parola d’ordine – e un percorso di carriera – per molti ragazzi imbevuti di ideologia, animati dalla sincera voglia di cambiare, meno consapevoli di quei principi sacri della separazione dei poteri che sono a fondamento dello Stato di diritto, e lo tengono da alcuni secoli in equilibrio.
Fu questo il corto circuito che portò alla “rivoluzione dei giudici” dei primi anni ‘90, alla conseguente alterazione strutturale dei rapporti tra i poteri e all’uso da allora permanente della giustizia come un grimaldello, non per “amministrare la legge”, ma per brandirla, per piegarla alle proprie convinzioni. Fino all’approdo ultimo, esibito con candore nella Carta dei valori dell’Area democratica per la Giustizia (che non è una componente del Pd, ma l’ormai nota corrente di sinistra dei magistrati italiani), che intende battersi per “l’interpretazione… come strumento essenziale… di promozione sostanziale dell’eguaglianza tra le persone”. Un programma che più eminentemente politico non si potrebbe, a quanto pare condiviso dalla premiata coppia Schlein e Conte.
Ed è così che la sinistra del terzo millennio archivia definitivamente il suo glorioso percorso, iniziato con veri “avvocati del popolo” che difendevano braccianti sfruttati, e si chiude con una grottesca genuflessione nei confronti dei nuovi potenti, quelli che invocano ogni giorno “resistenza” solo per tutelare i loro eterni privilegi corporativi e di casta. Chissà cosa ne penserebbe il povero Filippo Turati. Claudio Velardi
Le due sinistre. La sinistra che ispira Schlein è stata l’anticamera di giustizialismo e populismo, oggi è sottomessa alle Procure. La sinistra che stava con gli avvocati, che era degli avvocati, per la giustizia sociale e non politica, da Turati a Matteotti, sino a Vassalli, passando per mio nonno, era socialista. Stefania Craxi su Il Riformista il 5 Ottobre 2023
Velardi ha ragione quando dice che agli albori la sinistra era quella degli avvocati che difendevano gli indifesi al cospetto dello Stato dei giudici. Per la giustizia sociale, per poi diventare la sinistra dei giudici per la giustizia politica. Che in quanto politica non è più giustizia.
Ha ragione quando partendo da Turati descrive la trasformazione verso l’abisso di Conte e Schlein.
Ha ragione, ma ha anche torto.
Perché è apprezzabile quello che scrive, ma non scrive, non dice, tutto.
La sinistra, dice Velardi, di una volta, ma quale sinistra, di quale sinistra parla?
Avrei apprezzato ancor di più se avesse detto il non detto. Che invece va detto. Tutto.
La sinistra che stava con gli avvocati, che era degli avvocati, per la giustizia sociale e non politica, da Turati a Matteotti, sino a Vassalli, passando per mio nonno, era socialista.
Non era tutta la sinistra. Bisogna distinguere, sarebbe onesto distinguere. Era la sinistra alla quale un’altra sinistra, quella che è stata di Velardi, dichiarò guerra, sino a vincerla con le armi della giustizia politica. Della via giudiziaria al potere, alla quale pochi comunisti si opposero, Gerardo Chiaromonte ad esempio, perdendo.
Quando le diciamo queste cose, caro Velardi?
E la sinistra di Turati, di Matteotti, veniva accusata di social fascismo, dalla sinistra alla quale si ispira Elly, Ella, Schlein, da Gramsci in giù. Gramsci che definiva Turati uno “straccio mestruato”, o un “putrido riformista”, come lo definiva Togliatti. O social fascista come era definito Matteotti, martire del fascismo.
Il riformista avvocato del Polesine Matteotti che la sinistra alla quale si ispira la Schlein considerava quasi di destra, di una ideologia minore, il riformismo “putrido”, appunto, perché si occupava, da avvocato e politico, di difendere i braccianti, di cercare soluzioni concrete, piccole anche, ma ora, società di mutuo soccorso, diritti per chi non ne aveva alcuno, con gradualità, in continuazione, giustizia sociale. Anche con compromessi con il Governo esistente.
E invece c’era un’altra sinistra, che Velardi conosce meglio per averla frequentata, che predicando la rivoluzione è arrivata alla sottomissione al potere costituito delle Procure.
Passando dalla diversità morale, la superiorità morale, di Berlinguer e del vecchio capo di Velardi, che in Italia è stata l’anticamera del giustizialismo che poi è diventato populismo.
Il principio di superiorità che ha alimentato il diritto morale della giustizia politica. Della via giudiziaria al potere.
Caro Velardi, apprezzo. Ma se la dicessi tutta, la verità, sarebbe ancora più apprezzabile.
Stefania Craxi
Video giudice Apostolico, non c’è nessun elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità. Luana Zanella (Deputata Alleanza Verdi-sinistra) su Il Riformista il 6 Ottobre 2023
Nel Si&No del Riformista spazio alla vicenda relativa al video della giudice Iolanda Apostolico: ha sbagliato? Favorevole il deputato leghista Igor Iezzi secondo cui “parte della magistratura confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra“. Contraria Luana Zanella, Deputata Alleanza Verdi-sinistra, che sottolinea: “Non c’è nessun elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità”.
Qui il commento di Luana Zanella:
La decisione autonoma di una giudice di Catania di disapplicare il decreto Cutro sull’immigrazione (non convalidando il trattenimento nel centro di Pozzallo di quattro – e dico ben 4! – richiedenti asilo di nazionalità tunisina) ha scatenato reazioni alluvionali nel centro destra. Iolanda Apostolico, giudice del Tribunale etneo, è stata subito oggetto di reazioni compulsive, come se l’azione della magistratura esistesse solo in quanto cassa di risonanza di quella politica: la divisione dei poteri, valore costituzionale e solido principio di una democrazia moderna, non funziona il quel modo. I giudici applicano le leggi e, nel farlo, non hanno altro vincolo che quello della legge, fondamento unico del principio di legalità.
Ora pare che la stessa Apostolico, già additata come magistrata politicamente orientata visto che ha contestato un atto del Governo Meloni, sia stata scovata dai ‘cacciatori di giudici’ del leader leghista Matteo Salvini (immaginiamo che a cercare nel web si siano messi altri e non lui in persona, preso com’è a progettare il ponte di Messina) mentre si trovava al porto di Catania, nel lontano 2018 durante una manifestazione che chiedeva lo sbarco dei migranti dalla nave Diciotti della Guardia costiera, bloccato dall’allora vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ammettiamo anche che sia lei: davvero si vuole contestare il suo atto di oggi per la libera scelta di allora? Non è questo il modo di valutare la terziarità di una giudice: l’atto che fa fede è quello delle motivazioni al suo provvedimento e un comportamento sobrio che non implica l’astensione dalla vita civile.
La contestazione al blocco dei migranti è un fatto politico-culturale di enorme significato e portata: richiama ciascuno e ciascuna, qualsiasi professione si svolga, a dare il proprio contributo di coscienza. Se davvero in quella immagine c’è Iolanda Apostolico non colgo nulla di penalmente rilevante né un elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità a cui la Costituzione stessa vincola i magistrati. Sempre nel caso sia davvero Iolanda Apostolico, sta assistendo ad uno dei tanti eventi dimostrativi che hanno agitato le nostre società: quella piazza non è una bega di partito, un ring politico. Anche esprimendo una valutazione tecnica in un convegno il/la magistrato/a può dare un orientamento di tipo politico, inteso come valutazione rispetto ad un atto del Parlamento o del Governo: dunque dovrebbe sempre e solo tacere? A me pare, infine, che la vicenda abbia fatto scattare la molla dell’assalto alla donna-giudice: sotto sotto si sente odore di misoginia, sento voci che sussurrano: guarda quella come si permette di essere così libera di fare quel che ritiene! Perché le donne libere fanno ancora tanta paura.
Luana Zanella (Deputata Alleanza Verdi-sinistra)
Video giudice Apostolico, parte della magistratura confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra. Igor Iezzi (Deputato Lega) su Il Riformista il 6 Ottobre 2023
Nel Si&No del Riformista spazio alla vicenda relativa al video della giudice Iolanda Apostolico: ha sbagliato? Favorevole il deputato leghista Igor Iezzi secondo cui “parte della magistratura confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra“. Contraria Luana Zanella, Deputata Alleanza Verdi-sinistra, che sottolinea: “Non c’è nessun elemento che indichi pregiudizio per l’imparzialità”.
Qui il commento di Igor Iezzi:
“Salvini ha ragione ma bisogna fermarlo”: siamo ancora qui. Dopo la famosa chat tra Luca Palamara e Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, contenuta nelle carte dell’inchiesta che scosse alle fondamenta il CSM, non sembra essere cambiato molto e l’assurda e sconcertante vicenda che vede come protagonista il tribunale di Catania e il magistrato Iolanda Apostolico dimostrerebbe come una parte della magistratura (non tutta per fortuna) non riesca a scrollarsi di dosso la cappa dell’ideologia. Che siano toghe rosse o meno, sembra che il nostro Paese sia condannato ad avere una parte della magistratura che confonde l’indipendenza con la militanza a sinistra. Se davvero quella donna che capeggia una manifestazione di protesta al Governo fosse la magistrata di Catania, che è ormai passata alla storia per aver “bocciato” il decreto del governo sull’immigrazione e aver lasciato uscire da una struttura governativa tre tunisini in attesa di identificazione, sarebbe solo una triste conferma. Che però non va sottovalutata. Perché vedere un magistrato in mezzo ad un manipolo di manifestanti che urlano minacciosi contro la polizia “assassini” e “animali” lascia basiti chi ha a cuore veramente l’indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri.
“La moglie di Cesare deve non solo essere onesta, ma sembrare onesta”. Qui il dubbio è che siamo di fronte ad un magistrato che non solo non è imparziale, ma non fa nulla per sembrarlo. Il video del 2018 in cui sembrerebbe essere presente la toga di Catania durante una manifestazione contro il ministro dell’Interno di allora Matteo Salvini, è solo l’ultima puntata di una serie di episodi che dovrebbero fare riflettere tutti. Come possiamo essere certi che una magistrata così esposta politicamente, nel suo lavoro non sia guidata solo dal rispetto della legge ma anche dalle proprie convinzioni politiche? Come è possibile non associare la sua decisione di qualche giorno fa sul decreto immigrazione dell’esecutivo ai post che ha scritto o condiviso su Fb (spesso di suo marito, militante antigovernativo in servizio permanente)? Come possiamo non considerare ideologica la condanna a 13 anni emessa sempre da lei contro Guido Gianni, commerciante di Nicolosi con cui aveva solidarizzato Salvini, in carcere per essersi difeso da tre malviventi entrati nel suo negozio?
Dobbiamo riformare la giustizia e farlo subito. Con il principale obiettivo di salvaguardare quei tanti magistrati che lavorano bene, avendo come unico faro la Costituzione e le leggi, capaci di essere imparziali e lontani dalla battaglia politica. Purtroppo qui siamo in un caso opposto, una decisione politica che ha il preciso scopo di limitare l’azione del governo. Un film già visto. Oggi, grazie alla giudice militante, alcuni tunisini, già entrati in passato illegalmente nel nostro paese, sottoposti a provvedimento di espulsione e macchiatisi anche di reati a danno dei nostri concittadini, sono fuori dal centro governativo. Questo stride se pensiamo che Matteo Salvini invece è a processo per aver difeso i nostri confini. Stupisce che ancora ci siano politici che non prendano nettamente le distanze, che continuino a difendere la politicizzazione di alcune toghe, forse nostalgici dei tempi in cui decidevano i capi delle procure insieme ai vertici dell’associazione delle toghe. E proprio per questo oggi dall’Associazione Nazionale Magistrati e dal CSM dovrebbero arrivare dure parole di condanna nel vedere una toga che manifesta con chi urla “assassini” alla polizia. Magari rivedendo anche le decisioni, le condanne e le assoluzioni che Iolanda Apostolico ha preso in passato nella sua carriera e verificando se possa proseguire a svolgere un ruolo così delicato. Il Governo andrà avanti, presto la Camera dei Deputati esaminerà il nuovo decreto sicurezza contenente norme sull’immigrazione. La politica continuerà a fare il proprio mestiere. Speriamo che anche certe toghe inizino a fare bene il loro. Igor Iezzi (Deputato Lega)
Esiste l’istituto dell’astensione. La giudice Apostolico, la presidente Meloni basita e la moglie di Cesare. Si parla e si straparla senza la minima conoscenza delle questioni, ragionando solo sulla ricaduta mediatica e social delle proprie reazioni, e sui dividendi politici che si immagina di poterne lucrare. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 6 Ottobre 2023
Ho letto con impegno il decreto della Giudice di Catania, oggetto delle furiose polemiche di questi giorni. Francamente, trattandosi di materia molto ostica e complessa, della quale non mi sono mai occupato prima come avvocato, avrei bisogno di ben altro approfondimento per formulare un giudizio decentemente serio sulla qualità e la fondatezza del provvedimento. Non capisco dunque come la Presidente Meloni abbia potuto con cognizione di causa dichiararsene “basita”, definendo quelle motivazioni “incredibili”, né come sia saltato in mente ad un noto parlamentare di maggioranza di prevedere, in caso di accoglimento dell’appello, nientedimeno che la radiazione della magistrata. Siamo di fronte, tanto per cambiare, all’ennesimo scontro tra tifoserie, che in materia di diritti e di giustizia è ormai la regola. Si parla e si straparla senza la minima conoscenza delle questioni, ragionando solo sulla ricaduta mediatica e social delle proprie reazioni, e sui dividendi politici che si immagina di poterne lucrare, senza la benché minima considerazione dei ruoli e delle responsabilità istituzionali coinvolte in queste desolanti polemiche.
Ma anche la tifoseria opposta si è lanciata senza freni in una polemica furibonda in difesa -immancabilmente- della indipendenza della magistratura, senza sentire minimamente il dovere di interrogarsi su alcune altre questioni che la vicenda invece prepotentemente chiama in causa. Sappiamo infatti ora che la Giudice ha avuto modo di esprimere sui social- e addirittura in una manifestazione pubblica- idee molto precise e schierate in tema di immigrazione, in aperta polemica con la politica dell’attuale Governo e di suoi esponenti apicali; e così pure avrebbero fatto suoi stretti congiunti.
Padronissima la giudice di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma ad una elementare condizione: che di tutto potrà poi occuparsi professionalmente, fuorché di quei temi. A me è capitata la spiacevolissima avventura di difendere in un noto processo ambientale, di fronte a giudici che avevano pubblicamente manifestato proprio contro quel presunto disastro ambientale, e coniugati con esponenti di primo piano del movimento ambientalista cittadino, promotori di un combattivo Sito dedicato al tema del processo.
Sono condizioni inconcepibili ed inaccettabili in un Paese civile, radicalmente incompatibili con elementari regole di uno Stato di Diritto; ed è proprio così che si semina vento e si raccoglie tempesta. Esiste l’istituto dell’astensione, la categoria della opportunità, il dovere del Giudice non solo di essere -come dice la stessa Corte di Cassazione- ma ancor prima di apparire imparziale. Un sistema sano innanzitutto previene simili situazioni, ed eventualmente chiede conto della infrazione di queste basilari regole di civiltà giuridica. A meno che il famoso idiomatismo sulla moglie di Cesare valga per tutti, ma non per i magistrati e le loro mogli. Gian Domenico Caiazza
I giudici e le manifestazioni: il precedente del caso Ilva a Taranto. Fu chiesta la sostituzione del presidente della Corte d’assise. Ma la Cassazione disse no. FRANCESCO CASULA su la Gazzetta del Mezziogiorno l'8 Ottobre 2023
Salgono da Catania fino a Taranto le accuse contro i magistrati ritenuti schierati su temi come immigrazione e ambiente. Dopo la bufera sul gip di Catania Iolanda Apostolico - colpevole di aver disapplicato una norma del Governo in tema di migranti dopo essere stata nel 2018 sul molo del porto etneo a manifestare per la liberazione dei profughi bloccati a bordo per le norme varate dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini - nuovi venti di tempesta sono stati indirizzati sul processo Ilva e sui magistrati togati che hanno fatto parte della Corte d’Assise che a maggio 2021 ha emesso diverse condanne nei confronti dei vertici dell’ex Ilva per il disastro ambientale e sanitario nel territorio ionico.
Ad accendere il nuovo focolaio di polemiche è stato l’avvocato Giandomenico Caiazza, fino a pochi giorni fa presidente dell’Unione Camere Penali Italiane e difensore, nel maxi processo “ambiente svenduto”, di Girolamo Archinà, l’ex responsabile delle relazione istituzionali del siderurgico durante la gestione Riva condannato a oltre 20 anni di carcere...
Violante: "La giudice di Catania ha sbagliato a manifestare. Così non è più imparziale". L’ex presidente della Camera: “Un magistrato deve sempre essere figura terza. Schierarsi con chi è parte di un conflitto lede la funzione costituzionale. La difesa dei diritti dei più deboli si fa con le sentenze, non con i cortei". RAFFAELE MARMO su quotidiano.net il 7 ottobre 2023
“Un magistrato non può partecipare a manifestazioni conflittuali e pensare di essere ritenuto imparziale. La contraddizione, in termini di etica professionale, è palese". Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera, una vita a sinistra, è netto.
Dunque, il caso Apostolico è di agevole definizione?
"Sgombriamo il campo da questioni che non c’entrano niente, come quella delle opinioni politiche del marito, che sono un fatto privato. O come quella relativa alla sentenza, della quale si occuperà la Cassazione. Arriviamo al punto. E il punto è quello che riguarda il comportamento dei magistrati e la loro partecipazione a manifestazioni di parte".
Perché non devono essere possibili?
"Una premessa. Fino ai primi del Novecento le leggi erano poche e chiare: il magistrato traeva la sua legittimazione dalla applicazione della legge. Era, si diceva, la bocca della legge. Dalla metà del secolo scorso tutti i sistemi ordinamentali si sono fortemente inflazionati, hanno perso coerenza, si sono articolati in diversi livelli intrecciati tra loro: livelli internazionali, europei, nazionali, regionali, sentenze delle Corti costituzionali. Parallelamente alle magistrature sono stati attribuiti grandi poteri discrezionali e grandi poteri di intervento nella vita e nella reputazione dei cittadini. Tutto questo ha reso spesso difficilmente definibile a priori la regola da applicare al caso concreto. E a questo punto la legittimazione del magistrato non sta più nell’essere la bocca della legge, ma nell’essere un soggetto che interpreta la legge in modo credibile. Dunque, io magistrato posso fare le migliori sentenze in assoluto, ma se mi schiero con chi è parte di un conflitto non sono più credibile e ledo la mia funzione costituzionale".
C’è chi sostiene che schierarsi con i più deboli, però, sia consono a un giudice.
"Ho letto anche questa posizione di una persona che stimo molto, come Armando Spataro, secondo cui si deve stare dalla parte dei più deboli. Si deve stare dalla parte dei diritti dei più deboli, come impone l’articolo 3 della Costituzione, con le sentenze, non con le manifestazioni. Non si può rivendicare indipendenza, e poi tenere comportamenti che la mettono in discussione".
La giudice di Catania ha obiettato che era lì per fare da mediatrice.
"Non mi pare fosse il suo compito".
I vertici dell’Anm, dal canto loro, parlano di screening sui giudici, mentre il Pd punta l’indice su come il video sia finito a Matteo Salvini.
"Può darsi che qualcuno abbia violato un segreto di ufficio rendendo inconsapevolmente ricettatore chi ha usato il video. Ma questa è una polemica deviante. Le società fortemente polarizzate, come la nostra, hanno bisogno di figure terze, che possano risolvere in modo credibile i conflitti. È una responsabilità ulteriore che grava sulle spalle della magistratura".
L’etica pubblica, dunque, impone obblighi specifici ai magistrati?
"Sì. C’è un punto di etica professionale che va chiarito: un magistrato, per il suo specifico ruolo costituzionale, ha doveri più stringenti di un qualsiasi altro funzionario pubblico. Da qui il dovere di non partecipare a manifestazioni conflittuali che possano mettere in discussione la sua credibilità come soggetto imparziale. Si possono manifestare in modo corretto, non conflittuale, le proprie opinioni".
Come?
"Con studi, articoli, interventi in sedi proprie; evitando sempre di essere e di apparire parte di un conflitto sociale o politico".
Quando un magistrato vuole fare politica, insomma, deve lasciare la toga. Ma può tornare a fare ugualmente il giudice, chiusa l’attività politica?
"Ho visto ottimi magistrati diventare ottimi dirigenti politici. Alfredo Mantovano è stato un ottimo magistrato, è stato un ottimo sottosegretario all’Interno, è tornato a fare il magistrato in modo eccellente e oggi sta a Palazzo Chigi. Quelli di Salvatore Senese e di Pier Luigi Onorato, di altra parte politica, sono altri casi esemplari".
Il problema di fondo è che i rapporti complessivi tra politica e magistratura restano controversi e conflittuali.
"Ho letto che quel magistrato, con quella sentenza, sarebbe colpevole di essersi mosso contro gli eletti dal popolo. Ma tutta la storia delle libertà nelle democrazie, dalla rivoluzione americana in poi, si fonda sui limiti che la giurisdizione pone al potere politico e sulla rivolta del potere politico che non vuole limiti. Anche oggi in Paesi vicini a noi, si tenta di condizionare il funzionamento delle Corti Costituzionali. Questa strada porta al caos o alla riduzione delle libertà. Serve un atteggiamento responsabile, persuadente e non conflittuale. Le istituzioni si devono rispettare reciprocamente perché i cittadini possano rispettarle. Questo è lo sforzo da fare da parte di tutti".
L’IdentitaLa sinistra salvinista. Tommaso Cerno su L'Identità il 6 Ottobre 2023
Inutile stare qui a girarci intorno, se già la sentenza di Catania era “insana” non tanto per quel che scriveva dentro i fogli, che sarà sottoposto a altri giudici e potrà essere rovesciato con estrema facilità giuridica, ma perché subito è stata impugnata dalla politica e sguainata come una spada per farne uso diverso dal proprio, cioè uso parlamentare.
Poi è uscito il video della giudice Apostolico, in prima fila durante una manifestazione, di natura politica, contro lo stop agli sbarchi, dove si vede plasticamente che la sentenza che oggi sta fra le carte di un tribunale corrisponde in pieno alle idee personali del giudice, espresse invece in sede extragiudiziale, di lotta vera e propria contro un governo della Repubblica. Ora questo significa non solo che la sentenza puzza, ma che se anche fosse perfetta sul piano giuridico diventa attaccabile in virtù di questo contorno a dir poco imbarazzante per un membro della magistratura che si esprime su temi così delicati e connessi alla vita politica.
Ma significa soprattutto che la sinistra finisce per attaccare a parole il Matteo Salvini ministro delle Infrastrutture, che a differenza di un magistrato giudicante ha il sacrosanto diritto di fare politica e di esprimere un pensiero politico, saranno poi gli elettori a giudicare quanto questo sia opportuno o meno alle elezioni, ma finisce per fare proprio il gioco del Matteo Salvini leader della Lega, che alla fine ha stanato Pd e Si rovesciando l’esito del match.
Perché se attaccare una sentenza è sbagliato, a maggior ragione lo è difenderla di fronte a quanto avvenuto. Non c’è differenza, se non di prospettiva politica, fra i due atteggiamenti, il metodo è lo stesso. Si tratta di usare la giustizia per fare altro.
E questo non cambia se chi lo fa giudica bene o male quel magistrato, perché sempre di un giudizio politico si tratta. Lo stesso errore la sinistra l’ha fatto sulla tragedia di Mestre. E sempre facendo il gioco di quel ministro Matteo Salvini che nelle intenzioni vorrebbe criticare o mettere all’angolo. Perché quando il titolare delle Infrastrutture ha sfoggiato dubbi sulla sicurezza dei motori elettrici, sicuramente in modo precoce e non informato, la reazione è stata – come nel caso del giudice Apostolico – di segno uguale e contrario. E cioè un trionfo di citazioni scientifiche e numeri che dovrebbero, di fatto, dissipare ogni ombra sulla vicenda, che ancora non è nemmeno al vaglio dei tecnici, e asserire che la verità si trova nel campo progressista.
Peccato che questo metodo sia il metodo di Harry Potter. Poco importa che tu sia un Serpeverde o un Grifondoro, se la magia e quindi la sapienza che ne deriva, è di fatto affermata come una verità assoluta. La differenza vera fra i sistemi populisti e le democrature rispetto alla nostra, benché ammaccata democrazia liberale occidentale, è il metodo scientifico opposto al sapere rivelato. E il metodo scientifico non afferma alcuna verità assoluta, tanto meno prima di avere svolto le verifiche, ma si fonda sulla verità putativa, dimostrabile e documentabile in quel momento, grazie alle conoscenze e agli studi.
Pronto per essere rimesso in discussione di fronte a nuove prove, nuove scoperte. Ed è questa mutazione di sé che la sinistra dovrebbe realizzare per diventare alternativa al populismo di Salvini, perché facendo in questo modo altro non è che una sinistra salvinista. Che finirà per passare per quella che dice una cosa non perché essa ha un valore reale ma perché è il contrario di ciò che ha detto il Salvini di turno.
Il Bestiario, il Giornaligno. Il Giornaligno è un animale leggendario che davanti all’evidenza dell’emergenza, racconta che i migranti organizzano concerti. Giovanni Zola il 22 Settembre 2023 su Il Giornale.
Il Giornaligno è un animale leggendario che davanti all’evidenza dell’emergenza, racconta che i migranti organizzano concerti.
Il Giornaligno è un essere mitologico che di fronte alla situazione drammatica e troppo spesso tragica dei migranti, tra cui molti bambini, stipati in centri in sovrannumero dove si litiga per il cibo e l’acqua e non si smaltisce la spazzatura, stravolge la notizia sfidando l’intelligenza della gente comune. Così il Giornaligno scrive su pagine importanti una versione dei fatti tanto fantastica quanto ridicola: “Niente turisti in fuga, né manifestazioni indignate. Dopo aver aperto le braccia e le case ai naufraghi che a Lampedusa sciamavano dall’hotspot in cerca di cibo e acqua, l’isola ci si è anche divertita insieme. E la paventata ‘invasione’ è solo quella di una pista da ballo. Sul corso principale del paese, cuore della movida, ragazzi arrivati dopo la traversata, turisti, residenti, mediatori e operatori ong si sono ritrovati insieme a ballare sulle note di tormentoni estivi più o meno attuali. (…) Nessuno si è infastidito, nessuno si è allontanato. Fino a tarda ora, il corso è stato pieno di gente che senza troppi patemi ha condiviso spazi e risate”.
Insomma ci siamo sbagliati, non si tratta di migrazione, ma di un tour estivo di grande successo che richiama i fan che giungono con barchini addirittura dall’Africa. Il Giornaligno ha il potere di manipolare la realtà trasformandola in favola ideologica. I fatti non esistono, esiste la notizia. La figura del giornalista è stata sostituita dal Giornaligno, una sorta di autore di fiction che testimonia eventi che non esistono o che se esistono sono narrati fuori contesto per confondere le menti. Il Giornaligno, a seconda di come più gli conviene, accresce la paura o sdrammatizzare situazioni emergenziali a seconda del proprio torna conto ideologico. Una sorta di bambinello capriccioso che cambia le regole della partitella perché il pallone è il suo.
Il Giornaligno, in questo caso specifico, ha un motivo per inventarsi storielle felici a riguardo dell’invasione dei disperati. Parlare di “emergenza migrazione”, come i fatti attestano, vuol dire che il governo, come presto farà, ricorrerà a drastiche decisioni per fermare la tragedia umanitaria, e questo spaventa coloro che inneggiano all’immigrazione senza preoccuparsi del futuro di queste persone. D’altra parte l’ideologia è ancora più profonda e neanche tanto celata: l’invasione incontrollata vuol dire annacquare le origini culturali di un Paese ancora (per poco) cristiano con tutto quello che ne consegue, cioè l’ultimo argine alla follia del pensiero dominante. L’ideale del Giornaligno è che tutti possano essere ciò che desiderano a patto che pensino tutti allo stesso modo.
Il Giornaligno ci costringe a una reazione faticosa. Se la notizia è declinata sulla propaganda occorre moltiplicare la capacità della nostra intelligenza, già provata gravemente dal vuoto culturale dilagante, per discernere il vero dal falso e il bene dal male. Siamo costretti a non essere mai tranquilli se vogliamo continuare ad essere uomini veramente liberi. Giovanni Zola
Il Papa "negazionista": "Non c'è un'invasione e neppure un'emergenza". Suona come una brutta tirata d'orecchie ad alcuni Paesi europei, proprio nelle settimane in cui le coste siciliane sono meta di continui sbarchi. Fabio Marchese Ragona su Il Giornale il 24 settembre 2023
Respingere i migranti non è la soluzione. Suona come una brutta tirata d'orecchie ad alcuni Paesi europei, proprio nelle settimane in cui le coste siciliane sono meta di continui sbarchi. L'ennesimo monito di Papa Francesco arriva da Marsiglia, nel suo secondo e ultimo giorno di visita nella città francese: il Pontefice chiede che sulla questione dei flussi migratori i Paesi del sud del continente non siano lasciati da soli ma ci sia un impegno comune, di tutta l'Europa, per favorire un'accoglienza equa d'accordo con i Paesi d'origine. A pochi giorni dalla decisione di Francia e Germania di chiudere le porte a uomini, donne e bambini sbarcati a Lampedusa, il Pontefice argentino, figlio di migranti italiani, usa parole forti per chiedere ai responsabili dell'Unione Europea di non voltarsi dall'altro lato. Il presidente francese Emmanuel Macron lo ascolta in silenzio dalla platea dell'auditorium del Palais du Pharo dove si son tenuti gli incontri del Mediterraneo, un evento che ha radunato centinaia di giovani e di vescovi provenienti da Paesi che si affacciano sul «Mare Nostrum». Francesco legge il discorso in italiano e tuona: «Il futuro non sarà nella chiusura, che è un ritorno al passato, un'inversione di marcia nel cammino della storia. Contro la terribile piaga dello sfruttamento di esseri umani, la soluzione non sono è respingere, ma assicurare, secondo le possibilità di ciascuno, un ampio numero di ingressi legali e regolari, sostenibili grazie a un'accoglienza equa da parte del continente europeo, nel contesto di una collaborazione con i Paesi d'origine. Dire «basta, invece, è chiudere gli occhi».
Parole sull'indifferenza dei politici europei che hanno colpito nel segno, tanto che a distanza di qualche ora dal discorso del Papa è arrivata una reazione dall'Eliseo: «La Francia non deve vergognarsi, è un Paese di accoglienza e di integrazione». Il tema dei migranti (così come quello del fine vita) è stato anche al centro del colloquio privato che ieri mattina, al termine del discorso del Papa, si è tenuto sempre al Palazzo del Faro tra il Pontefice e il Presidente della Repubblica Francese; Macron si è fatto attendere per alcuni minuti da Bergoglio, rimasto inizialmente da solo nella saletta dove si è tenuto il bilaterale. Poi Francesco «ha accolto» il capo dell'Eliseo alzandosi in piedi, con un sorriso e una stretta di mano per smorzare l'imbarazzo del padrone di casa. «Tentare» ora di «salvare se stessi», ha detto ancora il Pontefice nel suo discorso, «si tramuterà in tragedia domani, quando le future generazioni ci ringrazieranno se avremo saputo creare le condizioni per un'imprescindibile integrazione, mentre ci incolperanno se avremo favorito soltanto sterili assimilazioni. L'integrazione, anche dei migranti, è faticosa, ma lungimirante: prepara il futuro che, volenti o nolenti, sarà insieme o non sarà; l'assimilazione, che non tiene conto delle differenze e resta rigida nei propri paradigmi, fa invece prevalere l'idea sulla realtà e compromette l'avvenire». Il Papa, sottolineando che vari porti del Mediterraneo sono stati chiusi in faccia a chi cercava un futuro nel nostro Continente, ha anche puntato il dito contro chi fa propaganda politica sulla pelle dei migranti e che parla di invasione in arrivo dall'Africa: «Due parole sono risuonate, alimentando le paure della gente: invasione ed emergenza. Ma chi rischia la vita in mare non invade», ha tuonato il Pontefice, «cerca soltanto accoglienza, cerca la vita. Quanto all'emergenza, il fenomeno migratorio non è tanto un'urgenza momentanea, sempre buona per far divampare propagande allarmiste, ma un dato di fatto dei nostri tempi, un processo che coinvolge attorno al Mediterraneo tre continenti e che va governato con sapiente lungimiranza: con una responsabilità che sia europea».
"Soldi e cittadinanza ai migranti": la fake news degli scafisti che alimenta gli sbarchi. I trafficanti impegnati a fabbricare false notizie per attrarre migranti nella loro trappola: ecco come si alimentano i flussi migratori. Mauro Indelicato il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.
Una fake news per attrarre migranti verso l'Italia. È emersa nei mesi scorsi in un giornale locale egiziano, relegata a una notizia di seconda fascia ma comunque potenzialmente leggibile da decine di persone. A raccontarla su IlGiornale è un collega egiziano che ha seguito da vicino la vicenda. La notizia, palesemente falsa, riguarda la scelta di alcuni comuni italiani di offrire soldi e cittadinanza ai migranti per fermare lo spopolamento. Nulla di tutto ciò corrisponde a verità. Se da un lato è vero che nel sud Italia molte amministrazioni pensano a incentivi per attrarre nuovi abitanti, è ovviamente falsa l'offerta della cittadinanza ai migranti.
I più in Egitto avranno guardato a questa notizia con semplice curiosità, ma altri invece potrebbero aver pensato di mettere sul piatto i propri risparmi e provare ad arrivare in Italia. “Simili fake news – racconta il giornalista egiziano, il quale ha voluto mantenere l'anonimato – ce ne sono parecchie e non solo in Egitto. Questa ha destato curiosità ed è balzata agli onori delle cronache, ma basta fare un giro per i social per capire che esiste un vero e proprio esercito di persone che fabbrica notizie false per i migranti”.
La "fabbrica" di fake news
Che si tratti di un articolo di giornale oppure di un post su Facebook, la sostanza cambia poco: i trafficanti di esseri umani provano a reclutare sempre più potenziali immigrati tramite notizie fabbricate di sana pianta. Come quella, per l'appunto, scovata tra i meandri di un organo di informazione locale egiziano. L'obiettivo cardine è quello di presentare l'Europa come meta in grado di offrire opportunità non rintracciabili nei Paesi di origine.
“Lo spiegano anche molti sociologi – sottolinea il giornalista – il vero problema non è tanto la povertà quanto la mancanza di una prospettiva. Per cui chi ha i soldi è attratto dal partire verso l'Italia o verso l'Europa, se legge fake news non ci pensa certo due volte nel rintracciare un trafficante, non è difficile farlo”.
Il caso egiziano non è l'unico, ma è senza dubbio emblematico. L'Egitto non è in guerra e rispetto ai Paesi vicini presenta una maggiore stabilità politica. Ma sta subendo al suo interno gli effetti di una grave crisi economica, acuita sia dalle misure anti Covid che dalla lunga scia della guerra in Ucraina. Il Cairo importa infatti enormi quantità di grano dalle campagne ucraine, oggi i prezzi dei generi di prima necessità sono lievitati e molte famiglie faticano ad avere stabilmente qualcosa da mangiare.
Manca quindi una certa prospettiva futura, specie tra i più giovani. “I trafficanti questo lo sanno – aggiunge il collega egiziano – e fanno affari grazie a questo. Vendono fumo e vengono pagati fior di soldi”. Dall'Egitto alla Tunisia, dal Sahel fino a Paesi quali Costa d'Avorio, Nigeria e Guinea. Qui l'attività dei trafficanti è finalizzata a intercettare quante più vittime. Spiegare loro che basta pagare per andare in Europa e iniziare una nuova vita, magari ottenendo anche la cittadinanza e avere tanti soldi quanto basta per mantenere la propria famiglia nel Paese di origine.
Il ruolo dei social
Su Facebook sono diverse le pagine che lavoro quasi come vere e proprie agenzie di viaggio. Negli anni scorsi ha destato clamore la pagina HaRaGaDz, gestita da scafisti algerini che quotidianamente postavano i video di chi dall'Algeria giungeva quasi indisturbato in Sardegna. Le immagini inserite davano quasi un senso di normalità, di un viaggio come altri, al massimo di un'avventura al termine della quale poteva iniziare una nuova fase umana e lavorativa.
Migranti sbarcano in Sardegna e postano i selfie su facebook
Oggi pagine del genere ne esistono a migliaia e in tutti i Paesi coinvolti dal traffico di esseri umani. Un'inflazione di fake news che dona un contributo importante all'aumento delle partenze verso l'Europa. Pochi migranti conoscono i rischi, pochi pensano al pericolo di non tornare più e pochi sanno dell'esistenza dei terribili centri di detenzione libici gestiti dai criminali. Si parte, attratti dalle false promesse dei trafficanti, per finire avvolti dalla nebbia del processo migratorio.
"Donna single cerca arabo". Quelle foto fake per attirare i migranti nell'Europa del sesso. Francesca Galici il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.
Via internet le chat di propaganda che promuovono un Occidente "bengodi"
«In Europa ci sono belle donne e c'è carenza di uomini». Questo è il messaggio che sempre più spesso viene veicolato dai canali della propaganda pro-migranti dall'altro lato del Mediterraneo per convincere i giovani a lasciare i loro Paesi, alimentando il già ricco mercato illegale di esseri umani. Il sottotesto è piuttosto intuitivo: ovunque in Europa trovi donne disponibili a soddisfare i tuoi bisogni sessuali. Per trasmettere questo messaggio si solleticano gli appetiti dei giovani futuri migranti con foto di donne di carnagione chiara, spesso in abiti succinti, e foto provocatorie accompagnate da espliciti messaggi in arabo. Facile intuire come queste immagini stuzzichino facilmente l'ormone dei migranti e diventino un elemento rafforzativo del processo decisionale.
«Ciao, vengo dalla Germania, sono single da molto tempo e devo trovare un nuovo amico o una nuova anima gemella. Non mi interessa la tua età o il tuo Paese, devi essere leale e gentile con me», si legge in uno di questi, accompagnato dallo scatto di una ragazza rubato dal web. La malcapitata, che non è a conoscenza dell'utilizzo delle sue immagini, viene utilizzata come esca alla quale abboccano numerosi uomini di varia provenienza pronti a trasferirsi, allettati dall'avvenenza della ragazza mostrata.
E ancora: «Sono una donna ricca e single, ho bisogno di un ragazzo e non importa quanti anni abbia. Posso aiutarti. Contattami ora perché posso farti sorridere per sempre. Ti aspetto». Il messaggio è accompagnato da un'altra immagine di donna, stavolta in abiti succinti. Anche in questo caso i pesci all'amo non mancano, in quello che a tutti gli effetti è un mercimonio: «Ho 24 anni, sto cercando moglie», «Sono un giovane single», «Dove abita?», «Voglio il suo numero di telefono». E così via. Purtroppo, si trovano anche immagini di giovani donne con bimbi piccoli, sedicenti vedove europee, che «cercano un marito arabo. Non conta l'età».
Di esempi come questi ce ne sono tanti, messaggi che di volta in volta utilizzano fotografie di donne sempre diverse con look tipicamente occidentali che attirano l'attenzione e l'interesse di uomini pronti a tutto. Questo elemento non è secondario nell'analisi dei flussi migratori verso l'Italia e l'Europa, perché fa emergere una motivazione diversa rispetto ai movimenti. I tifosi no-border sostengono incondizionatamente che i migranti che lasciano l'Africa per l'Europa stiano scappando dalle guerre.
Ma questi messaggi mettono in evidenza un altro aspetto che emerge in modo chiaro dalle cronache quotidiane. Prendendo come riferimento esclusivamente il nostro Paese, si rileva che in Italia gli stranieri hanno una propensione ai reati sessuali circa 7 volte maggiore rispetto agli italiani. I migranti che arrivano irregolarmente nel nostro Paese sono soprattutto giovani e giovanissimi, nati e cresciuti il più delle volte in società a prevalenza musulmana in cui alla donna viene imposto di non mostrare il proprio corpo, considerato peccaminoso. Spinti da messaggi di questo tenore, che li invitano al viaggio illegale in Europa per accoppiarsi con donne occidentali, i migranti percepiscono come un loro diritto quello di considerare ogni donna che incontrano come un oggetto sessuale di cui possono liberamente disporre. Le reazioni sovraeccitate sotto questi messaggi-esca lo dimostrano. Francesca Galici
Quelle menzogne dei "talebani dell'accoglienza" per favorire l'invasione. Gian Micalessin il 22 Giugno 2023 su Il Giornale.
"Non abbiamo più carburante". "Siamo a corto di acqua e viveri". "Il meteo sta cambiando, rischiamo il naufragio". "Abbiamo donne e bambini in pericolo immediato di vita"
«Non abbiamo più carburante». «Siamo a corto di acqua e viveri». «Il meteo sta cambiando, rischiamo il naufragio». «Abbiamo donne e bambini in pericolo immediato di vita». La litania di lamentele e piagnistei sfoderata via radio da ogni nave delle Ong con a bordo un carico di migranti da scaricare sulle nostre coste è ormai una sorta di noiosa liturgia della menzogna. I primi a sapere di mentire sono i responsabili delle organizzazioni di soccorso e il personale di bordo incaricato di diffondere quelle bugie. Soprattutto quando il soccorso viene effettuato con navi come la Geo Barents, un imbarcazione di 77 metri progettata proprio per il soccorso in mare e capace di resistere alle condizioni meteo più estreme. Non a caso la Geo Barents viene spesso usata per diverse e ripetute operazioni di soccorso capaci di prolungarsi per più settimane senza che da bordo parta alcuna richiesta di aiuto. Un silenzio destinato a durare fino a quando non arriva il momento di farsi affidare dalle autorità italiane un porto di sbarco vicino. Una condizione irrinunciabile non per salvare le vite dei naufragi, ma piuttosto per risparmiare sui costi di carburante e su quelli di noleggio.
Ma è chiaro che le litanie delle Ong avrebbero ben poco effetto se non potessero contare sulla cassa di risonanza di tanti media amici. O meglio sulle voci, sulla penne e sulle telecamere dei tanti colleghi solidali con l'ideologia secondo cui non vi devono esser limiti all'accoglienza ed ogni migrante deve essere libero di sbarcare sul nostro territorio. Litanie e tesi che fanno spesso a pugni con la realtà visto che dalle navi delle Ong, reduci da poco perigliose traversate, vediamo sbarcare giovani muscolosi, donne in sovrappeso o addirittura signore con cani al guinzaglio. Tutto ciò dovrebbe spingere i più assidui sostenitori delle buone ragioni di migranti e Ong operanti nel Mediterraneo a valutare le evidenti diversità tra chi fugge da vere guerre e autentici inferni sulla terra e quelle di chi viene ripescato dalle flotte delle Ong operanti davanti a Libia e Tunisia.
Consideriamo ad esempio gli sfollati in arrivo dall'Ucraina. Tra loro troviamo in gran parte donne, bambini e uomini di 60 anni e passa. Dove si combattono guerre vere gli uomini tra i 18 e i 65 anni sono infatti impegnati al fronte. Invece le navi delle Ong sono affollate di aitanti giovani che molto spesso hanno esattamente l'età in cui in guerra si diventa combattenti. Un bel mistero mai chiarito da chi sostiene di salvare le vite di disgraziati in fuga da guerre e disgrazie.
Quanto a disgrazie basterebbe, valutare le condizioni degli afghani in arrivo a Trieste dopo quell'odissea chiamata rotta balcanica. Un'odissea che parte da Iran o Pakistan per poi scendere in Turchia e superare i confini sud orientali dell'Europa. Una rotta infernale il cui attraversamento deve sfidare i manganelli delle polizie di Bosnia, Serbia Croazia e Slovenia. Una rotta al termine della quale i giovani afghani in fuga dalla persecuzione talebana arrivano stremati, ricoperti di cicatrici e con i piedi piagati.
Insomma tra chi fugge da guerre e persecuzioni vere e buona parte dei migranti traghettati da Libia e Tunisia c'è una differenza sostanziale. Una differenza annacquata e fatta scordare grazie alla raffica di bugie con cui le Ong coprono il proprio operato. Bugie insostenibili, ma indispensabili per garantirsi i versamenti di chi le finanzia accettando la loro narrazione ideologica e chiudendo gli occhi su fatti e sulla realtà.
Così Boldrini & Co. legittimano le violazioni delle Ong. Francesco Curridori il 29 Agosto 2023 su Il Giornale.
Il Pd ha presentato un’interrogazione parlamentare per difendere l'operato della Open Arms, la nave Ong fermata dalla Guardia Costiera per non aver rispettato la norma che proibisce i salvataggi multipli
Il Pd scende in campo a difesa delle Ong con un’interrogazione parlamentare che vede in prima fila Elly Schlein e Laura Boldrini. L’intento dei democratici è protestare contro il governo, fautore di un fantomatico "reato di solidarietà".
La "destra disumana", secondo il Pd, avrebbe compiuto il grave errore di aver fatto applicare una legge, voluta proprio dal governo Meloni, ossia quella che proibisce i cosiddetti salvataggi multipli e obbliga le navi Ong a dirigersi verso il porto assegnato dalle autorità. Al momento, come ricorda il quotidiano Il Tempo, sono quattro le imbarcazioni sanzionate. Quello della Open Arms, che è stata visitata da una delegazione del Pd, attualmente ferma nel porto di Marina di Carrara, è il caso preso in esame per presentare l'interrogazione parlamentare. Poi c’è la Sea Watch, che è sbarcata a Lampedusa anche se le era assegnato il porto di Trapani. La Sea Eye 4, è invece stata fermata a Salerno per presunti illeciti nelle condotte dei componenti dell’equipaggio, mentre la Mare Jonio della Ong Mediterranea non può lasciare Trapani perché priva del certificato di idoneità. Tutta una serie di violazioni delle regole sancite per legge che la sinistra vuole legittimare con un'interrogazione sottoscritta da vari esponenti del Pd come il capogruppo alla Camera, Chiara Braga e deputati come Marco Simiani, Simona Bonafè, Emiliano Fossi, Matteo Mauri, Gianni Cuperlo, Federico Fornaro, Marco Furfaro, Federico Gianassi, Arturo Scotto e Christian Di Sanzo. Tra i firmatari non poteva mancare. Matteo Orfini che, quattro anni fa, insieme ad altri colleghi, salì sulla Sea Watch al largo di Siracusa.
"Questa destra continua a dimostrarsi feroce contro i migranti", si legge nell'interrogazione parlamentare in cui si chiede al governo di avere "almeno un sussulto di coerenza e dignità evitando che le navi umanitarie che collaborano con le autorità italiane vengano sanzionate". Per i dem "è inammissibile che una imbarcazione Ong come Open Arms venga punita dopo aver risposto per giorni alle richiesta di aiuto della Guardia Costiera, salvando centinaia di vite». I piddini, con la loro azione parlamentare, vorrebbero che le Ong fossero in qualche modo legittimate a far salire a bordo i migranti in arrivo sui barconi. "Appare evidente - spiegano - come l’intervento delle navi umanitarie sia sempre più necessario, a causa dell’incapacità del governo di gestire una emergenza che cresce giorno dopo giorno. Limitare, rallentare e bloccare le navi umanitarie non ha quindi come conseguenza la riduzione degli sbarchi ma soltanto l’aumento esponenziale di morti in mare, spesso bambini".
Il Pd ci ricasca: selfie e propaganda a bordo della Ong sanzionata. Dopo la Sea Watch nel 2019, il Pd torna a fare le passerelle su una Ong, stavolta a Massa Carrara sulla Open Arms sanzionata. Francesca Galici il 26 Agosto 2023 su Il Giornale.
Il Pd perde i pezzi ma non il vizio e così ecco che ad anni di distanza dal primo tentativo, torna a far parlare di sé per una foto a bordo di una Ong. Era il 2019 quando i prodi dem abbordarono la Sea Watch, in quel momento bloccata al largo di Siracusa, e si fecero fotografare in mezzo ai migranti. Era l'anno della poderosa stretta di Matteo Salvini, che dal ministero dell'Interno aveva ordinato una strategia di no entry. Il Pd, che in fondo da anni non trova un'idea, pensò bene di fare la solita propaganda pro-immigrazionista a favore delle Ong, organizzazioni notoriamente di sinistra e anche supportate dagli stessi politici in diversi Stati d'Europa.
Salvini adesso querela deputati che erano sulla barca di Carola
Passano gli anni, cambiano i segretari, ma il Pd resta lo stesso partito ideologicamente strepitante, incapace di trovare soluzioni o, almeno, di proporre uno straccio di idea, ma senz'altro capace di fare rumore con ideologie utopiche che non solo sono fini a se stesse ma, in molti casi, sono deleterie. E così ecco che dopo la Sea Watch, il palcoscenico propagandistico del Pd è diventato la Open Arms. Stavolta è stato più facile salire a bordo, visto che la nave non è al largo ma è ormeggiata al porto di Massa Carrara, bloccata per i prossimi 20 giorni per la violazione del decreto Piantedosi sulle Ong. "Abbiamo visto che per gli oltre 200 naufraghi che si recuperano ogni volta in mare è disponibile uno spazio angusto. Per questo abbiamo capito quanto siano disumane le scelte del Governo Meloni di indirizzare i migranti in porti lontani dal luogo di salvataggio, quanto sia disumano il decreto Cutro che vieta i salvataggi plurimi", scrive Ylenia Zambito, salita sulla nave insieme a Stefania Lio, vicesegretario del Pd in Toscana.
Sono talmente accecati dall'ideologia che non si rendono nemmeno conto che nelle loro parole ci sono contraddizioni intrinseche che vanno a spiegare indirettamente il decreto Piantedosi. Zambito, infatti, parla di "spazio angusto" sulla nave di Open Arms, ma poi dice che il divieto interventi multipli è disumano. Se a bordo di una nave non esistono gli spazi vitali necessari per garantire una navigazione comoda ma, soprattutto, sicura, come dice la stessa senatrice, il divieto di interventi multipli dev'essere visto come una forma di tutela proprio per i migranti. E i porti lontani dal luogo del salvataggio, se il Pd non se ne è reso conto, sono anche necessari per evitare di gravare ulteriormente su strutture di accoglienza al collasso in Sicilia a causa dei troppi sbarchi autonomi, e garantire pertanto migliori condizioni di assistenza.
Ma il Pd va per inerzia e ripete la litania della bassa percentuale di migranti portati in Italia dalle Ong, che in linea teoria e basandosi sui numeri di massima è anche vera. Ma quel che non viene detto dal Pd e dai sostenitori di questa teoria è che finché hanno operato sulla rotta Tripolitania, la percentuale riferita a quella rotta era molto più alta. E non è un caso che ora si siano spostati tra Tunisia e Lampedusa, dove hanno la certezza di fare un maggior numero di interventi, recuperando anche barchini non in imminente pericolo, come indicano le leggi internazionali. Ma al Pd non interessano i numeri ma solo avere un argomento sul quale ribattere al governo Meloni, anche se non si hanno gli strumenti per farlo. Perché con un'opposizione ideologica e senza proposte, non si fa il servizio del Paese.
Quello schiaffo contro il mito dell'accoglienza senza limiti. Gian Micalessin il 26 Agosto 2023 su Il Giornale.
Il capo dello Stato striglia l'Europa troppo "assente" e auspica un nuovo approccio sull'immigrazione. Poi critica sinistra e Paesi che si affidano alle Ong, ostacolo alla lotta contro il traffico di esseri umani
Un monito all'Europa perennemente assente sul fronte dei migranti e un richiamo alla necessità di governare gli arrivi attraverso flussi regolari indispensabili per evitare le stragi in mare. Ma anche la sollecitazione a non farsi ammaliare dal mito di un'accoglienza illimitata tanto insostenibile quanto pericolosa perché capace di portare lo scontro etnico e sociale nel cuore di città e periferie. Sono i punti cardine dedicati al tema dell'immigrazione dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel corso del suo discorso al popolo ciellino del Meeting di Rimini. Punti in cui s'intravvede una divaricazione abbastanza netta rispetto alle posizioni di quanti - dal Pd di Elly Schlein fino alla galassia di sinistra radicale e Ong - continuano ad auspicare un accoglienza senza limiti. Per capirlo bastano i passaggi in cui Mattarella ricorda la necessità di «perseguire un inserimento lavorativo ordinato rimuovendo la presenza nascosta, incontrollabile, di chi vaga senza casa, senza lavoro e senza speranza. O di chi vive ammassato in centri di raccolta, sovente mal tollerati dalle comunità locali».
Al mito di un'Italia o di un'Europa senza più confini e controlli il presidente preferisce contrapporre il modello di una nazione e di un continente capaci di regolare l'arrivo dei migranti in base alle esigenze del mercato del lavoro. «Soltanto ingressi regolari sostenibili, ma in numero adeguatamente ampio - sottolinea Mattarella - sono lo strumento per stroncare il crudele traffico di esseri umani. La prospettiva e la speranza di venire, senza costi e sofferenze disumane, indurrebbe ad attendere turni di autorizzazione legale».
La ricetta degli arrivi controllati e programmati è anche quella proposta dal governo Meloni all'indomani della strage di Cutro. Nelle parole del presidente si legge, però, l'invito a muoversi più in fretta privilegiando l'attuazione dei flussi rispetto al tentativo di bloccare le partenze. Ma gli auspici presidenziali - per quanto corretti e autorevoli - non possono prescindere dalla realtà. La realtà di un continente africano segnato non solo dal caos libico, dalla crisi tunisina e dalla guerra civile sudanese, ma anche dalla tragedia di un Sahel dove sullo sfondo dei colpi di stato di Mali, Burkina Faso e Niger continua inarrestabile l'avanzata jihadista. In quel contesto realizzare il modello dei flussi controllati non è certo facile. Anche perché per trasformarlo in ricetta funzionale è indispensabile la collaborazione di governi stabili capaci di sottrarre i migranti al controllo dei trafficanti di uomini. Solo così si permetterà ai consolati italiani ed europei d'inserirli in liste di partenze stilate in base a capacità ed esperienze lavorative.
Per farlo, e qui assume forza e rilievo l'altro monito presidenziale, occorrono «un impegno, finalmente concreto e costante, dell'Unione Europea» e «sostegno ai Paesi di origine dei flussi migratori». Solo la coesione dei 27 paesi Ue può infatti garantire quella stabilizzazione dei paesi africani indispensabile per realizzare i flussi controllati. Ma la coesione e la solidarietà, fin qui assenti, dei 27 sono indispensabili anche per bloccare le stragi in mare. Per evidenziarlo Mattarella evoca l'immagine di un bimbo annegato con centinaia di altre persone nel Mediterraneo. «Recuperato il suo corpo - ha raccontato il Presidente - si è visto che nella fodera della giacca aveva cucita la sua pagella, come fosse il suo passaporto. La dimostrazione, che voleva venire in Europa per studiare». Un'immagine tragica in cui è difficile non intravvedere l'egoismo di quei Paesi che - pur di non accogliere i migranti nei propri territori - hanno sempre rifiutato missioni di soccorso comuni europee. O, peggio, hanno lasciato mano libera alle navi delle Ong difendendo la loro pretesa di scaricare i migranti esclusivamente nei porti italiani.
Uomini (extracomunitari) che uccidono le donne. Rita Galimberti su Panorama il 7 Agosto 2023
Sessantasei omicidi, 25 classificati come femminicidi. Con una componente di reati, commessi per mano di stranieri, che preoccupa e fa sempre più paura
L'ultimo caso, raccapricciante, è quello di Rovereto. Una donna di 61 anni stava rincasando quando, attraversando il parco cittadino, è stata aggredita da un uomo. Giù i pantaloni, calati con forza, e buttata a terra. Il tentativo, vano, di resistere. Calci, pugni, ancora calci e sempre più pugni. Spunta un sasso. Le grida e la scena richiamano l'attenzione dei residenti della zona che chiamano le forze dell'ordine e le ambulanze. Per la 61enne non ci sarà nulla da fare, morirà poco dopo essere arrivata in ospedale. L'uomo, invece, viene fermato. Bloccato con un taser, Nweke Chukwuk nigeriano senzatetto di anni 37, vagava nel quartiere Santa Maria. Indisturbato. L'uomo, se così possiamo definirlo, doveva essere espulso ma si trovava in Italia perché provvisto di "obbligo di dimora". Uno strumento in pieno contrasto con la sentenza di espulsione e che, addirittura, la annulla. Il caso di Rovereto è solo l'ultimo di una lunga lista di omicidi ai danni di donne che hanno bagnato di sangue l'Italia in questa prima metà del 2023. I dati riportati su femminicidi.it, riportano un numero che inorridisce: 66. Da gennaio a oggi, sessantasei donne hanno perso la vita. Di questi casi, 25 vengono classificati come femminicidi. L'ultimo nella lista è quello di Sofia Castelli, 20 anni, brutalmente uccisa a Cologno Monzese dall'ex compagno, Zakaria Atqaoui, 23 anni. Ma continuiamo. 28 giugno. Maria Michelle Causo, 17 anni, detta "Misci". Uccisa a Primavalle, quartiere di Roma, coetaneo della vittima, originario dello Sri Lanka, ma naturalizzato italiano. L'avrebbe uccisa per un debito di poche decine di euro. Morta per mano di stranieri e dell'ex marito, è anche la 72enne di Conegliano, Margherita Ceschin. Il 7 maggio perde la vita a Torremaggiore in provincia di Foggia Jessica Malaj, 16 anni. A compiere l'omicidio (in cui è stato ucciso anche il compagno della ragazza) è stato il padre della giovane, Taulant Malaj, albanese di 45 anni, di professione panettiere che, non pago di aver già strappato al mondo due vite, avrebbe tentato di uccidere anche la moglie Tefta. E ancora, 6 maggio. Danjela Neza, 28 anni, viene uccisa nel corso della notte a Savona. A compiere l'omicidio, l'ex compagno, Safayou Sow, 27 anni, originario della Guinea. Arezzo, 13 aprile. Brunetta Ridolfi, 76 anni, e la figlia Sara Ruschi, 35 anni vengono uccise da Jawad Hicham, 38 anni, di origini magrebine ma da tempo residente in Italia. Marzo. Zenepe Uruci, 56 anni, viene uccisa il 30 del mese nell'abitazione in cui risiedeva a Terni. A compiere il delitto è stato il marito convivente Xhafer Uruci, albanese. È il 7 di marzo quando invece Iulia Astafieya, 35 anni, originaria dell'Ucraina, viene uccisa a Rosarno, un comune della provincia di Reggio Calabria, dal compagno Denis Molchanov. Arriviamo a febbraio. Yana Malyako, 23 anni e residente a Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova viene uccisa da Dumitru Stratan, 34 anni, originario della Moldavia. Quelli che abbiamo riportato sono solo alcuni dei casi di femminicidio avvenuti in Italia nel 2023 per mano di stranieri. A dipingere un quadro ancor più raccapricciante è il Primato Nazionale che riporta come "dal 2018 al 2021, in Italia, i femminicidi sono stati 657, dei quali 27 sono ancora senza un colpevole. Dei 630 femminicidi dei quali sono stati arrestati gli autori, 142 erano immigrati, ben il 23 per cento". Di un certo impatto anche i dati di Eurispes secondo cui l'aumento costante dei reati predatori, principalmente commessi da individui stranieri, è un fenomeno rilevante. Nel corso del 2022, la popolazione straniera residente sul suolo nazionale ha rappresentato circa l'8,5% dell'intero totale. Analizzando le informazioni relative alle azioni di contrasto intraprese dalle Forze di polizia a livello nazionale, emerge che nel corso del 2022 sono state registrate 271.026 segnalazioni riguardanti cittadini stranieri ritenuti responsabili di attività illegali. Questo valore costituisce il 34,1% del totale delle persone denunciate e arrestate. Tale dato presenta un lieve aumento sia in termini assoluti che in termini di incidenza rispetto all'anno precedente. Nel 2021, le segnalazioni erano state 264.864, rappresentando il 31,9% del totale complessivo. La maggioranza delle vittime coinvolte è di genere femminile, con una percentuale compresa tra il 74% e il 76% per quanto riguarda gli atti persecutori. Nei casi di maltrattamenti all'interno del contesto familiare e conviviale, la prevalenza femminile varia tra l'81% e l'83%, mentre per le violenze sessuali, tale predominanza raggiunge percentuali che oscillano tra il 91% e il 93%. Non vi è dettaglio riguardo alle nazionalità dei perpetratori, ma dati del ministero dell'Interno del 2019 indicavano che oltre il 41% di tali reati era imputabile a individui stranieri.
I numeri della violenza: ecco tutti i reati degli immigrati. Francesca Galici il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.
Tra gli italiani, la percentuale di detenuti è dello 0.07% mentre tra gli stranieri in Italia è dello 0.36%: numeri che evidenziano un problema da non sottovalutare
L'omicidio, quasi annunciato, di Rovereto ha riacceso i fari sulla difficile situazione italiana legata all'immigrazione. Nel nostro Paese si registra ogni anno un numero sempre maggiore di crimini legato agli stranieri, regolari e non, che risiedono o permangono sul territorio. Nweke Chukwuda, l'assassino della 61enne, è un 37enne nigeriano formalmente regolare in Italia che per una serie di cavilli normativi non è stato possibile espellere prima. Già un anno fa si era reso protagonista di una violenta aggressione ai danni di alcuni automobilisti, di un ciclista e di una pattuglia dei carabinieri intervenuta per fermarlo. Il suo non è purtroppo un caso isolato e lo dimostrano i numeri dei detenuti nel nostro Paese, dove la fetta di stranieri è molto numerosa a fronte di un aumento dei reati, soprattutto violenti, compiuti dagli immigrati, regolari e non.
Nigeriano, i precedenti, l'auto: cosa sappiamo sul killer di Rovereto
Al 30 giugno 2023, così come riportato sul sito ufficiale del ministero della Giustizia, nelle patrie galere risiedevano 42.511 detenuti, di cui quasi 18mila stranieri, per la precisione 17.987, pari al 31.27% e totale. Considerando che la fetta di stranieri regolari in Italia all'1 gennaio 2023 era di 5 milioni e 50mila unità, pari all'8.5% del totale dei residenti, e che nel nostro Paese è lecito considerare un'ampia fetta di irregolari non censiti, l'incidenza di soggetti stranieri colpevoli di reato risulta essere 5 volte più elevata rispetto a quella degli italiani.
Entrando nello specifico, sempre il ministero della Giustizia fornisce una tabella dettagliata dei reati compiuti nel nostro Paese fino al 31 dicembre 2021. Prendendo in considerazione i reati contro la famiglia, risulta che a fronte di 4324 reati commessi in totale, 1136 sono stati compiuti da stranieri, ossia il 26.3% complessivo. Sono stati, invece, 23.611 i reati contro la persona e di questi ben 7285 sono stati commessi da stranieri, il che equivale al 30.9% del totale. Se si prendono, invece, in considerazione i reati relativi alla droga, su 18942 rilevanze sono 5958 quelle commesse dagli stranieri, con una percentuale del 31.6% sul totale. Se si considerano, inoltre, i reati legati alla fede e alla moralità pubblica risulta che nel nostro Paese sono stati arrestati 4452 soggetti nel 2021 e di questi ben 1453 sono stranieri, ossia il 32,6%. Ma se ci si concentra esclusivamente sui reati inerenti la moralità pubblica si trovano 73 arresti complessivi, di cui 31 contro stranieri, il che significa il 42.5% del totale.
L'ideologia buonista che frena la sicurezza. La stessa ideologia che ha spinto il Pd a difendere l'accoglienza senza limiti lo induce a chiudere gli occhi sulla dilagante insicurezza. Gian Micalessin il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.
Neppure quattro mesi fa la segretaria del Pd Elly Schlein denunciava l'attitudine della destra «a trattare il fenomeno dell'immigrazione in maniera emergenziale» e lanciava una crociata contro quel raddoppio dei Cpr (Centri Permanenza e Rimpatrio) considerato indispensabile dal governo per rimandare a casa gli immigrati irregolari macchiatisi di ripetuti reati.
Il brutale assassinio della 61enne Iris Setti in un parco di Rovereto - ennesimo episodio della serie di gravi violenze messe a segno da immigrati fuori controllo - dimostra, una volta di più, come le politiche della sinistra siano inficiate da una cieca e pericolosa ideologia. La stessa ideologia che ha spinto il Pd a difendere l'accoglienza senza limiti lo induce a chiudere gli occhi sulla dilagante insicurezza generata dalla mancata integrazione delle migliaia di migranti parcheggiati dai suoi governi nelle zone grigie delle nostre città. Zone dove stupri, violenze e rapine si susseguono alla luce del sole in un clima di conclamata impunità. Prendiamo il delitto di Rovereto. I precedenti dell'assassino fanno ben capire come solo il ricorso a quelle misure emergenziali promesse ieri dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi - ma invise all'opposizione dem - possa restituire sicurezza alle nostre città. Il 21 agosto di un anno fa l'omicida, già conosciuto alle Forze dell'ordine, aveva seminato il panico nel centro cittadino aggredendo i passanti e danneggiando oltre alle auto parcheggiate, anche quella dei carabinieri intervenuti per arrestarlo. Tutto ciò non era bastato a garantirgli una prolungata detenzione.
In breve era tornato a mescolarsi a una nebulosa criminale ormai così ampia da impedire l'azione repressiva delle forze di sicurezza. Proprio per questo il ministro dell'Interno Piantedosi ritiene indispensabile un decreto sicurezza contenente misure in grado di «rafforzare tutti gli strumenti a disposizione delle Forze dell'ordine per contrastare i più ricorrenti fenomeni criminali e di insicurezza». Oltre all'indispensabile moltiplicazione delle forze di polizia le misure dovranno prevedere norme capaci di impedire il veloce ritorno in libertà di chi delinque e provvedimenti in grado di moltiplicare gli spazi detentivi. Ma l'emergenza anti-criminalità deve necessariamente essere accompagnata da quel raddoppio dei Cpr indispensabili a garantire un rapido ritorno ai Paesi d'origine dei migranti abituatisi a delinquere. Altrimenti forze di sicurezza, tribunali e carceri continueranno a rivelarsi inadeguati a contenere il clima d'insicurezza generato da quella percentuale di migranti che ha fatto del crimine un modello di vita.
Estratto dell’articolo di Floriana Rullo per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2023.
Una firma in caserma per rispettare la misura cautelare che gli aveva permesso, dal 12 gennaio, di abbandonare i domiciliari. Poi l’omicidio ai giardini Nikolajewka di Rovereto. Vittima, Iris Setti, 61 anni. Una morte che «si poteva evitare», per Anthonia e Linda, le due sorelle (con cittadinanza italiana) del 37enne Chukwuka Nweke, il killer.
«Lo avevamo detto ai carabinieri l’ultima volta che ci aveva aggredito: se va avanti così prima o poi ucciderà qualcuno — raccontano —. Avevamo chiesto gli venisse fatto un Tso. Ci hanno risposto che, finché non avesse davvero ammazzato una persona, loro non potevano farci niente. Ora è successo».
[…] Sabato sera l’ultimo episodio violento, quello culminato nell’omicidio. Sono le 22.30 e la funzionaria di banca in pensione sta passeggiando sulla passerella che sovrasta il parco, appena sotto l’ospedale. La vede e, senza pensarci un attimo, la blocca mettendosi a cavalcioni su di lei e la massacra di botte. Iris morirà qualche ora dopo in ospedale a Trento. Lui invece, fermato dai carabinieri con il taser, viene portato in carcere dove è in attesa della convalida, che dovrebbe arrivare già nelle prossime ore. Resta da chiarire il movente. Potrebbe essere stato un tentativo di rapina (in tasca gli viene trovato un anello d’oro della vittima) o di violenza sessuale.
[…] «Era un violento», ribadiscono le sorelle. Appena 15 giorni prima, raccontano, si era presentato a casa loro «come una furia. Ha distrutto vetri, perfino l’ascensore. Ci ha riempite di lividi. Abbiamo insistito per farlo ricoverare al centro di salute mentale, ci hanno detto che l’unica possibilità era un Tso. E noi lo abbiamo chiesto. Nostro fratello è malato, abbiamo chiesto in tutti i modi di farlo ricoverare. Minacciava di uccidersi, di fare del male a tutti. Perché nessuno ci ha aiutato? Non riesco a non pensare a ciò che ha fatto a quella povera donna».
[…] L’anno passato il 37enne aveva aggredito in strada un ciclista e, dopo, le forze dell’ordine. Era il 23 agosto. Portato in carcere ci era rimasto fino al 4 ottobre poi, aveva ottenuto i domiciliari a casa di una sorella. Il 12 gennaio, vista la buona condotta, gli era stato concesso l’obbligo di firma che aveva mancato solo una volta, a metà luglio.
Mancanza che gli era costata una segnalazione in Procura da parte dei carabinieri. Non poteva essere espulso, almeno fino a novembre, data della prima udienza in tribunale. Senza contare la presenza della famiglia, moglie e tre figli in Vallagarina, che gli ha permesso di chiedere al questore il rinnovo del permesso di soggiorno scaduto nel 2013 dopo cinque anni di lavoro nel Veronese. A maggio il Questore si era riservato di valutare quella richiesta, essendo a conoscenza anche dei mancati rapporti dell’uomo con i figli.
In caso di non rinnovo, però, il procedimento sarebbe stato impugnato come prevede l’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione. «Avevano provato a rimpatriarlo nel 2019 a Torino — sottolinea il sostituto procuratore Viviana del Tedesco —. Ma era stata riconosciuta la sua regolarità sul territorio nazionale. Abbiamo fatto tutto ciò che la legge permette». […]
Resta un altro punto da chiarire: a Rovereto tutti conoscevano i problemi psicologici del nigeriano che, senza fissa dimora, girava per i vari centri di accoglienza. «Cercherò di capire perché non si è proceduto con il Tso, a me nessuno lo ha segnalato», ripete il sindaco […], Francesco Valduga. Nessuno lo aveva richiesto così come non erano state chieste perizia psichiatrica e cure al Centro di Igiene mentale. Ora tutti si chiedono perché. […]
I «complici» dell'extracomunitario che ha ucciso la donna di Rovereto. Andrea Soglio su Panorama il 07 Agosto 2023
Quanto accaduto ci impone delle riflessioni sui concetti di «accoglienza» e «sicurezza». Senza ulteriori rinvii. Ce lo chiede la vittima
L’aggressione con tentato stupro ed infine trasformatasi in terribile omicidio a colpi di calci e pugni di una donna a Rovereto da parte di un extracomunitario, clandestino, con precedenti per altre violenze ai danni dei passanti (qui il video della sue azioni sempre in strada, un anno fa) non ha magari dei mandanti ma di sicuro ha dei «complici». Il primo è quel concetto di accoglienza per cui dobbiamo portarci in casa chiunque lasci l’Africa (che ci sia guerra o no, poco conta). È il concetto degli amici dell’hashtag #restiamoumani, primi a farsi trovare nei porti italiani con i loro cartelli, i fiori, gli abbracci e l’esultanza ad ogni barcone, barchino o nave Ong carica di disperati. Gente il cui concetto di accoglienza è molto particolare dato che si esaurisce nell’esatto momento in cui queste persone, il 90% delle quali senza alcun diritto di entrare nel nostro paese, mette piede sul suolo italiano. Quello che succede da quel momento in poi non interessa, non importa. Quello che conta è stato abbracciarli, salutarli, lasciarli entrare a casa nostra. Peccato che però una volta in giro per le nostre strade queste persone vivono, anzi, sopravvivono, senza un lavoro, un documento, un progetto di vita. Li vediamo all’esterno dalle nostre stazioni a spacciare, rubare, dormire per strada, ubriachi, a volte drogati, decine e decine di volte fuori controllo. Il resto è cronaca: stupri, omicidi, violenze di ogni tipo; il tassametro di tutto questo sale giorno dopo giorno e la colpa, almeno la prima in ordine cronologico, è stato il lasciarli sbarcare.
Rovereto, l'assassino della donna un anno fa mentre aggrediva i passanti in strada, l'assassino della donna un anno fa mentre aggrediva i passanti in strada
L'extracomunitario clandestino già un anno fa, come si vede in questo video, era stato autore di un'aggressione in strada C’è poi la seconda colpa da dividere tra giustizia e politica; in un paese minimamente serio, non un regime, parliamo di una democrazia che sappia solo farsi rispettare, chi per strada, a torso nudo, prende a calci le persone che passano in macchina, in bicicletta e a piedi (riguardatevi il video qui sopra) su quella strada, da uomo libero, non ci torna, almeno per qualche annetto. Se poi il soggetto è clandestino, senza fissa dimora, lavoro, documenti con obbligo di firma allora lo si mette su una nave o su un aereo e lo si rispedisce a casa sua. E non perché siamo razzisti o cattivi ma perché è un pericolo per la società, come abbiamo visto oggi. Beh, potrete dire, si tratta di eccezioni; la maggior parte non uccide, non aggredisce. Sarà anche vero ma andatelo a dire ai parenti della donna uccisa che siete disposti accettare un omicidio qui, uno stupro là in nome degli altri, onesti. Perché la donna di Rovereto di oggi potrebbe essere vostra moglie domani che fa jogging al parco o vostra figlia che sta andando a prendere un treno per l’università o vostra mamma che sta rientrando dalla spesa. Nell’incertezza preferiamo non correre il rischio. C’è poi una terza colpa, culturale. Per decenni, per troppo tempo, chi in questo paese ha parlato di sicurezza è stato tacciato di essere un fascista, uno di «destra», un violento mascherato da politico o poliziotto, al minimo un fanatico. Ultimo esempio: «Ventimiglia dominata da regime fascista», parola di Michela Murgia che ha commentato così due giorni fa la decisione del comune al confine con la Francia di aver messo a presidio del cimitero, dove i migranti clandestini bivaccano da anni, alcune guardie giurate. Sicurezza è stata e forse è ancora una cosa di cui non si può parlare se si vuole essere «politically correct». Eppure se ne parla; se ne parla in famiglia, la spieghiamo i nostri figli ed alle nostre figlie dando indicazioni su cosa fare, chiedendo di essere informati su spostamenti, orari, compagnie; se ne parla a tavola con gli amici, tra vicini di casa. La sicurezza è un valore fondamentale, se non il primo sicuramente tra i primi. Al punto che dobbiamo porci una domanda: esiste libertà senza sicurezza? E la risposta è una sola: no.
Cronaca nera. "Obbligo di firma inutile". È polemica sul killer di Iris. Il senzatetto nigeriano da un anno in caserma ogni giorno. Fugatti attacca: "Qualcosa non funziona". Maria Sorbi l' 8 Agosto 2023 su Il Giornale.
Era appena stato in caserma per l'obbligo di firma Nweke Chukwuka, il 37enne nigeriano che ha ucciso Iris Setti (nella foto), 61 anni, ai giardini di Rovereto. Un obbligo che onorava con regolarità da circa un anno, quando era stato arrestato per aver aggredito una ciclista per strada.
Non avendo una casa, il senzatetto era agli arresti domiciliari dalla sorella e non era stato espulso per varie ragioni: innanzitutto perché era in attesa della prima udienza, fissata a novembre. E poi perché gli era stato rinnovato il permesso di soggiorno, avendo moglie e figli in Vallagarina e mamma e sorella italiane.
Tutti sapevano dei problemi psicologici del 37enne, che frequentava i centri di accoglienza per i senzatetto di Rovereto e che era già conosciuto dalle forze dell'ordine. Ma mai nessuno, nemmeno in carcere, lo aveva sottoposto a una perizia psichiatrica. Anzi, la sua buona condotta in cella gli aveva fatto ottenere l'idoneità agli arresti domiciliari.
Non è chiaro il motivo dell'aggressione di sabato sera. Forse un tentativo di rapina degenerata in una violenza incontenibile: quando i carabinieri hanno perquisito Chukwuda, gli hanno trovato addosso un anello appartenuto alla vittima.
La donna, funzionaria di banca in pensione dal 2021, stava tornando a casa dopo aver fatto visita alla madre anziana. All'altezza del parco è stata aggredita, scaraventata a terra e colpita ripetutamente al volto. Le sua urla hanno richiamato l'attenzione dei residenti dei condomini vicini, che hanno allertato le forze dell'ordine e i soccorsi. La donna è morta all'ospedale di Trento per le ferite riportate. Il suo aggressore è stato fermato poco lontano dal luogo del delitto dai carabinieri grazie all'impiego del taser. Il fatto che Iris Sette avesse i pantaloni abbassati quando è stata soccorsa non fa tuttavia pensare a un tentativo di stupro, quanto piuttosto a una conseguenza della colluttazione.
Dopo l'intervento del ministro dell'interno, Matteo Piantedosi, che ha chiesto «una dettagliata ricostruzione della vicenda», è intervenuto anche il presidente della Provincia di Trento, Maurizio Fugatti, rilevando l'urgenza di «un immediato confronto fra i diversi livelli istituzionali». Fugatti si è messo in contatto anche con il commissario del Governo per la Provincia di Trento, Filippo Santarelli, per la convocazione del Comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica del Trentino. «Occorre capire se qualcosa non ha funzionato e dove si deve intervenire con determinazione e tempestività» ha detto Fugatti. Mentre si moltiplicano i messaggi di cordoglio per la vittima da parte della politica locale - le verrà anche dedicata una fiaccolata - in molti chiedono anche spiegazioni in merito alla libertà di cui godeva l'uomo nonostante i precedenti.
Estratto dell’articolo di Simona Pletto per “Libero quotidiano” lunedì 7 agosto 2023.
Ha tentato di stuprarla, lei si è difesa ed è stata ammazzata a pugni da un nigeriano fuori di testa. L’agghiacciante aggressione si è consumata di sera, in un angolo buio, tra gli alberi del parco Nikolajewka a Rovereto, in Trentino. Iris Setti, 61 anni, pensionata da due anni dopo una vita di lavoro in banca, sabato attorno alle dieci ha salutato l’anziana madre con la quale viveva, ed è uscita di casa per la sua solita passeggiata nel parco pubblico che si trova a pochi metri dalla sua abitazione.
All’improvviso è stata aggredita dal violento nigeriano, già noto alle forze dell’ordine, ancora una volta in preda a una furia brutale. Sì perché l’uomo, un 40enne senza fissa dimora su cui pendeva già un ordine di custodia con obbligo di firma, aveva già seminato il panico nella stessa città. Un anno prima, nell’agosto 2022, il clandestino oggi ospite in una casa di accoglienza della zona, ubriaco, aveva aggredito un ciclista, chiunque gli fosse passato a tiro e persino i carabinieri, contro i quali si è scagliato, fino a saltare sul tetto della loro auto di servizio. Per questo episodio era in attesa di processo e comunque libero di circolare, aggredire e danneggiare. Nel suo passato, infatti, vi sono altri episodi simili di violenza.
Stando a quanto fin qui ricostruito, [….] l’omicida, che aveva già dato segni di squilibrio, non fosse seguito dai servizi psichiatrici. Sabato sera si è scagliato con ferocia contro la donna. Le è balzato sopra, si è chinato sopra di lei, le ha abbassato i pantaloni e poi ha iniziato a colpirla con pugni, forse anche con una pietra. Tutto questo tra le grida della povera pensionata, che cercava di chiedere aiuto mentre lui tentava di stuprarla. L’hanno sentita, sono arrivati a soccorrerla, ma era già tardi. Ha continuato a colpirla anche quando l’ex funzionaria non sembrava più cosciente, infierendo su di lei.
A dare l’allarme sono stati alcuni inquilini di un vicino condominio che hanno sentito le sue urla e, dalle finestre, hanno visto la vittima a terra con i pantaloni abbassati e l’aggressore sopra di lei che la colpiva in faccia. Hanno descritto una scena agghiacciante per come l’aveva massacrata. Prima di lasciarla esamine a terra, il nigeriano le ha sfilato un anello d’oro e ha lasciato a terra la sua borsa. L’uomo è poi fuggito, ma è stato fermato poco dopo dai carabinieri nella vicina via Maioliche. […] Per bloccarlo […] hanno dovuto usare la pistola elettrica, il taser. È stato arrestato per omicidio e portato in carcere.
[…] Nel passato dell’extracomunitario c’è infatti un altro precedente: nel 2022, in un luogo poco lontano dal parco della morte, il senza fissa dimora aveva minacciato alcune persone con una bottiglia rotta. Iris è morta poche ore dopo in ospedale a Trento, dove è stata trasportata dal personale sanitario accorso sul posto assieme ai carabinieri, a causa dei traumi e delle ferite riportate.
Estratto dell’articolo di Domenico Di Sanzo per “il Giornale” lunedì 7 agosto 2023.
L’omicidio di Rovereto indigna e divide la politica. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi annuncia un nuovo pacchetto di norme per la sicurezza a settembre. Mentre l’opposizione attacca il governo nazionale. Il Viminale si muove immediatamente. «Il barbaro omicidio della donna a Rovereto è un fatto gravissimo», commenta a caldo Piantedosi. Poi le prime mosse concrete. «Ho chiesto al capo della Polizia di disporre ogni necessario approfondimento e una dettagliata ricostruzione della vicenda, anche per capire se c’è stato qualcosa che non ha funzionato», continua il ministro dell’Interno. Accertamenti «necessari anche per capire cosa dobbiamo mettere ulteriormente in campo», dichiara ancora il titolare del Viminale.
Reagisce Matteo Salvini, vicepremier, leader della Lega e ministro delle Infrastrutture: «Questo assassino era già stato fermato in passato per azioni violente, chiederemo di andare fino in fondo, come ha già giustamente annunciato il ministro Piantedosi, per capire come mai un delinquente del genere fosse ancora a piede libero», sottolinea Salvini.
Intanto il Viminale studia nuove misure per rafforzare la sicurezza dei cittadini. La stretta è attesa per il prossimo mese. «Siamo già al lavoro per presentare a settembre un pacchetto di norme per rafforzare ancora tutti gli strumenti a disposizione delle forze dell’ordine», annuncia Piantedosi. Nuove norme, come il rafforzamento dei presidi di polizia all’interno delle stazioni e la riforma delle polizie locali. E poi l’aumento della videosorveglianza, con l’introduzione del riconoscimento facciale nei luoghi pubblici. […]
I balli sulle panchine, le molestie, poi l'omicidio: il giudice lasciò libero il senzatetto nigeriano. Alessandro Ferro il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.
Il 37 enne nigeriano che ha tolto la vita, sabato scorso, a Iris Setti all'interno di un parco cittadino di Rovereto era già noto alle forze dell'ordine per quanto commesso in passato: ecco gli episodi di violenza e perché non è stato espulso in tempo
La vicenda choc di Rovereto dove un uomo di 37 anni di origini nigeriane, Nweke Chukwuka, ha ucciso sabato sera la 61enne Iris Setti all'interno di un parco doveva e poteva essere evitata espellendo l'uomo dal nostro Paese già quando si aggirava molesto per le vie del Comune di quasi 40mila abitanti in Trentino-Alto Adige. Come abbiamo visto sul Giornale.it, in città era già conosciuto per numerosi precedenti che lo avevano visto protagonista di molestie ai danni degli abitanti oltre a tutte le volte in cui è stato sorpreso ubriaco a ballare e urlare sulle panchine cittadine.
Quali sono i precedenti
Il senzatetto e uomo violento si era già reso protagonista di numerosi episodi, il più grave di tutti avvenuto praticamente un anno fa: lo scorso 21 agosto, infatti, aveva aggrettito numerosi passanti e danneggiato molte auto parcheggiate in via Benacense, un'arteria centrale di Rovereto. Come ricostruisce il Corriere, come se non bastasse nello stesso giorno aveva fatto irruzione in un locale minacciando la clientela presente con pezzi di vetro di una bottiglia rotta. Ma non è ancora finita qui: perché tra i suoi atti di vandalismo ha anche provocato danni a un'auto dei carabinieri per poi concludere la sua follia aggredendo un ciclista che, malaugaratamente, stava passando nella stessa strada dove si trovava l'uomo.
Aveva lasciato il lavoro per curare l'anziana madre: chi era Iris, la 61enne massacrata dal nigeriano a Rovereto
I filmati hanno certificato che l'uomo era sempre più pericoloso tant'é che dopo aver provato a offendere con calci e pugni le forze dell'ordine è stato arrestato con le accuse di resistenza e violenza a pubblico ufficiale oltre a danneggiamento aggravato. Sposato, l'uomo ha messo piede nel nostro Paese nel 2006: ha tre figli che risiedono a Rovereto. Dopo il carcere, era obbligato alla firma quotidiana presso i Carabinieri di Rovereto dove si era sempre recato fino agli eventi tragici di sabato scorso. Oltre al danno, però, ecco la beffa: il nigeriano voleva un altro permesso di soggiorno che gli era stato prontamente negato ma, purtroppo, non si è riusciti a espellerlo dal nostro Paese prima che togliesse la vita a una donna.
"Perché era libero?"
"L'omicidio di Iris Setti in un parco pubblico di Rovereto ad opera del senza dimora fissa Chukwuka Nweke merita delle risposte. Nweke si era già reso protagonista di violente aggressioni e di resistenza alla forza pubblica, perché poteva circolare liberamente?": la domanda è stata posta dal senatore e capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin, che su questo caso di cronaca nera ha depositato un'interrogazione al ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi. "Il semplice obbligo di firma a cui, stando alle cronache giornalistiche, era sottoposto Nweke è una misura decisamente inadeguata a tutelare la sicurezza dei cittadini a fronte della pericolosità del soggetto. È perciò indispensabile capire perchè nei suoi confronti non siano stati disposti l'espulsione e il trattenimento in un Centro di permanenza per i rimpatri. Chiediamo al ministro Piantedosi di fare chiarezza sulla vicenda", ha concluso.
Iris Setti, un omicidio «annunciato» che si poteva evitare, a termini di legge. Linda Di Benedetto su Panorama il 10 Agosto 2023
Daniele Bocciolli, noto penalista, ci spiega quali norme e leggerezze hanno consentito all'assassino, un nigeriano con precedenti per aggressione, di poter circolare come uomo libero
«Quello di Iris Setti massacrata e uccisa da Chukwuka Nweke è stato un omicidio annunciato»Inizia così l’analisi dell’Avvocato penalista Daniele Bocciolini sulla brutale aggressione che ha tolto la vita a Iris Setti, uccisa sabato sera a Rovereto, per mano di Chukwuka Nweke nigeriano di 37 anni. Una morte che sono in molti a chiedersi se poteva essere evitata visto il profilo di Nweke. Un caso limite ma non isolato di un soggetto che molto spesso sotto l'effetto di alcol e droga infastidiva urlando i residenti del quartiere Santa Mariache più volte si erano lamentati con le forze dell'ordine degli atteggiamenti del 37enne. Arrivato nel 2006 in Italia, ha collezionato reati per danneggiamenti e aggressioni alle forze dell'ordine, mentre la sua compagna con la quale aveva tre figli, aveva chiesto aiuto ed era stata inserita in un alloggio protetto. Una personalità potenzialmente molto pericolosa che non era seguita né dai servizi sociali né da un centro per le tossico dipendenze nonostante un anno fa, il 21 agosto 2022, in un forte stato di alterazione imputata all’abuso di alcol, aveva danneggiato delle auto in sosta e aggredito dei passanti tra cui un ciclista e i carabinieri. Da quell’episodio erano scattati i domiciliari, tramutati poi in obbligo di firma che non gli hanno impedito di massacrare Iris Setti uccisa a pugni sul volto mentre tentava di stuprarla. Cosa prevede il nostro ordinamento giuridico, per soggetti con questi precedenti? «In casi come questo si parla di tragedie ampiamente annunciate, proprio perché possono e devono essere evitate. Questo soggetto si era già reso protagonista di violente aggressioni e di resistenza alla forza pubblica, e, in sostanza era libero di circolare sul nostro territorio. Nonostante i precedenti, e a fronte di una personalità che avrebbe meritato ulteriori approfondimenti, gli era stata applicata una misura cautelare molto lieve quale l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (cd. “obbligo di firma”) che prevede che l’indagato si presenti una o due volte al giorno al commissariato di competenza. La misura cautelare più adatta viene anche decisa, oltre che in relazione alla capacità a delinquere , anche in base alla gravità del reato. Nel caso di specie, i precedenti non erano stati ritenuti così gravi. Troppo spesso però l’obbligo di firma si rivela una misura inidonea a contenere il pericolo. In questo caso, se ne parla perché si è arrivati al gesto estremo. Altri casi passano sotto silenzio. Non ci si può affidare al caso, ma bisogna giocare d’anticipo. L’Italia è sempre il paese del giorno dopo. Da penalista devo però precisare che molto spesso non è così semplice perché sono diversi i fattori che possono impedire un intervento efficace. Spesso il “garantismo” è eccessivo, ma occorre rimettere al centro del sistema anche la vittima». L’uomo aveva già dimostrato una pericolosità sociale ma non era in carico nell’Asl ne al Serd e la compagna ed i figli erano in un centro protetto. Cosa ne pensa? «È necessario effettuare immediatamente una valutazione della personalità del soggetto al fine di verificare la presenza di eventuali disturbi di interesse psichiatrico e, successivamente, analizzare la pericolosità sociale. Occorre stabilire, anzitutto se si tratta di un soggetto capace di intendere e di volere e in quale forma. Successivamente, bisogna valutare il rischio: ovvero se si tratta di un soggetto pronto a commettere altri reati. In questo caso, va applicata subito una misura cautelare adeguata che possa contenere il rischio che il soggetto torni a commettere altri reati della stessa specie e, soprattutto, che non faccia del male a sè stesso e agli altri. Solitamente, nei casi in cui si è di fronte a una personalità violenta, le misure più adeguate sono gli arresti domiciliari (spesso inapplicabile ai senza fissa dimora per ovvie ragioni di indisponibilità ad accoglierli) e la custodia cautelare in carcere. Successivamente, se emerge un disturbo della personalità, l’ambiente carcerario potrebbe rivelarsi incompatibile con lo stato di salute e si richiede il ricovero in strutture più adatte, idonee a prestare le dovute cure. Ora ci sono le cd. “R.E.M.S.” che hanno costituito i manicomi giudiziari. Tali misure sono applicate quali misure di sicurezza nei casi in cui il soggetto non è imputabile e non può scontare la pena in carcere». Ci sono delle misure che possono essere attivate per questo genere di casi, per monitorare che non rappresentino un pericolo? «In questi casi è fondamentale la comunicazione e l’immediatezza. Deve scattare una rete in grado di proteggere l’incolumità personale e quella pubblica. Spesso mancano l’intuito, ovvero la capacità di prevedere il rischio, e la sensibilità che permette di comprendere immediatamente la gravità della situazione. Nel caso di specie, come capita spesso, la denuncia è stata fatta direttamente dai famigliari dell’uomo ovvero dalle sorelle che avevano intuito dai comportamenti sempre più aggressivi posti in essere ai loro danni, che avrebbero potuto sfociare in qualcosa di più grave. Più volte avevano chiesto l’applicazione di un t.s.o». Come mai nessuno aveva preso in considerazione queste richieste? «Prima che si entri nel circuito penale (in questi casi la competenza spetta al magistrato), quando si tratta di soggetti vulnerabili che hanno già manifestato aggressività e segni di alterazione mentale , la segnalazione può essere fatta da chiunque abbia avuto contatto con il soggetto, anche dal medico di famiglia. A volte sono i servizi sociali ad affidare le persone con questo tipo di problemi a progetti elaborati insieme al Servizio di Salute Mentale. Successivamente il soggetto può essere affidato alle cure di uno psichiatra o inserito in una struttura. Il trattamento sanitario obbligatorio invece non è così automatico: si applica nei casi in cui le alterazioni sono così gravi da richiedere un intervento psichiatrico urgente, viene imposto solo quando si configura il pericolo reale per sé o per altri. Per farlo occorre sempre e comunque una attenta valutazione». Le sono mai capitati casi del genere? «Mi capitano molto frequentemente. Troppo spesso c’è una sottovalutazione del rischio e una incapacità di trattare soggetti con eventuali problematiche legate alle dipendenze e alle patologie psichiatriche. Quando si tratta di persone senza fissa dimora, diventa tutto ancora più complicato perché alle carenze del servizio sanitario, subentrano problematiche enormi a livello burocratico. Sembra si sia costretti a far finta che si tratti di soggetti invisibili. Ma in uno Stato di diritto questo è intollerabile. Occorre aiutare questi soggetti e, soprattuto, i familiari a volte completamente abbandonati e inascoltati. Non le dico quanto sia difficile trovare un posto in una R.E.M.S. Al momento in Italia abbiamo centinaia persone in lista di attesa. Nel frattempo la maggior parte di questi soggetti sono a piede libero con il rischio di commettere altri reati anche molto gravi. C’è stato sicuramente un corto circuito e le eventuali responsabilità sono diffuse. Ad esempio, nessuno considera che dopo la pandemia i disturbi mentali sono aumentati esponenzialmente. Per consentire una corretta gestione del problema che rappresenta una emergenza nazionale occorre anzitutto consapevolezza. Ma occorrono anche risorse e personale qualificato in ogni ambito. Che questo caso sia un’occasione per iniziare a inquadrare correttamente queste problematiche figlie deldisagio e , soprattutto, a smettere di girarsi dall’altra parte. Tutti noi possiamo apportare un contributo».
Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” giovedì 10 agosto 2023.
Il senzatetto nigeriano Chukwuka Nweke, l’uomo accusato di aver ucciso la sessantenne Iris Setti, la sera di sabato scorso non doveva essere a piede libero. E non perché il 23 agosto 2022 avesse aggredito un ciclista e altri passanti e una pattuglia dei carabinieri (era stato ripreso mentre dava di matto sopra il tetto di una gazzella dell’Arma) e per questo fosse stato arrestato con l’accusa di danneggiamento, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, finendo il 4 ottobre ai domiciliari, sostituiti con l’obbligo di firma il 13 gennaio, vista la buona condotta. Infatti il «bravo» Nweke aveva numerosi altri precedenti.
Il suo cursus honorum criminale inizia nel luglio del 2011, presumibilmente in coincidenza con il suo arrivo in Italia, quando viene denunciato in provincia di Verona per resistenza, violazione di domicilio e rifiuto di dare le proprie generalità. Nel 2013 è nuovamente indagato per resistenza, in quanto spintona il capotreno che dopo averlo trovato sprovvisto del biglietto lo aveva invitato a scendere dal vagone.
Nel settembre del 2018 è accusato di atti osceni in luogo pubblico «perché si masturbava nella pubblica piazza di Ala». A questo punto subisce la prima detenzione carceraria, tra il 23 novembre 2018 e il 27 luglio 2019, dopo che gli vengono revocati i domiciliari disposti dall’ufficio di sorveglianza di Verona.
Finisce in prigione per espiare una pena di 8 mesi e 18 giorni, frutto di un cumulo per i reati di violenza privata e resistenza a pubblici ufficiale (sentenze dei tribunali di Rovereto e Verona). Il 9 gennaio 2021 è di nuovo in manette per spaccio di stupefacenti e, ancora, per resistenza a pubblico ufficiale, nell’ambito di un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Trento. Pure in questo caso gli vengono concessi i domiciliari.
Il 17 marzo, però, si allontana dall’abitazione senza la prevista autorizzazione per recarsi al supermercato e per questo è deferito all’autorità giudiziaria per evasione, senza, però, finire in carcere. Non pago, come detto, il 23 agosto del 2022, aggredisce passanti e carabinieri. Per tale reato, l’1 settembre, gli vengono concessi i domiciliari con il braccialetto elettronico. Il 25 ottobre, mentre sconta la pena detentiva nell’abitazione della sorella, viene denunciato per violazione di domicilio e danneggiamento su segnalazione di un privato cittadino. […]
A ciò deve aggiungersi il decreto di espulsione adottato dal questore di Trento nel 2019 e il conseguente trasferimento del Nweke al Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino per l’esecuzione del provvedimento che, però, veniva annullato dal giudice di pace di Torino il 28 ottobre 2019. Il questore, tuttavia, per gli ulteriori arresti riprendeva in mano la pratica per adottare un nuovo provvedimento di espulsione che veniva, però, sospeso per la pendenza della misura cautelare relativa all’arresto in flagranza per spaccio di stupefacenti del 9 gennaio 2021.
[…] Di fronte a un quadro del genere viene da chiedersi come sia stato possibile che Nweke sia stato rimesso in libertà, visto che giudici e pm avranno certamente avuto a disposizione i precedenti di polizia. A meno di clamorose negligenze. Quindi chi gli ha dato la possibilità di lasciare la dimora della sorella, cittadina italiana, non poteva non sapere che l’uomo avesse almeno una decina di precedenti di polizia anche per reati di violenza contro la persona e tre arresti sulle spalle e che fosse sotto inchiesta per spaccio di droga, nonostante il segreto istruttorio che blindava il fascicolo.
Un procedimento particolarmente delicato questo. Infatti il nigeriano è accusato dalla squadra mobile della questura di Trento di far parte di una capillare organizzazione dedita allo spaccio della droga. Come abbiamo raccontato, il 9 gennaio 2021, gli agenti lo avevano pizzicato mentre vendeva stupefacenti. Durante la perquisizione i poliziotti gli trovano addosso 56 dosi di eroina per un peso complessivo di 10,26 grammi e due confezioni di hashish (3,99 grammi). […]
Nell’ambito dell’inchiesta per droga vennero individuati altri 17 «muli» che, secondo gli investigatori, erano al servizio di una famiglia nigeriana. Tutti questi arresti, apparentemente frutto di controlli su strada casuali, in gergo vengono chiamati pick up (o campionamenti) e servono a corroborare l’ipotesi investigativa di una rete di spaccio, dimostrata anche attraverso le intercettazioni.
[…] L’indagine era partita nel 2020 con un normale fascicolo penale e con uno della Dda per i reati di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga, come previsto dal Testo unico sugli stupefacenti. Nel luglio del 2022 gli investigatori, alla fine di una serie di interlocuzioni con il centro, riferiscono al ministero di aver «depositato una comunicazione di reato» nei confronti di 17 nigeriani e un ghanese, tutti nati tra il 1983 e il 1999.
Del gruppo facevano parte anche due donne di 27 e 30 anni.
Gli investigatori, alla fine di questo tipo di annotazioni, si rimettono alle «determinazioni che vorrà prendere» l’autorità giudiziaria. Una formula di rito utilizzata anche in questo caso e che, sebbene non esplicitato, sottintende, soprattutto nelle indagini per droga, l’auspicio che nel giro di tre-quattro mesi venga emessa un’ordinanza di custodia cautelare per i soggetti elencati nell’informativa.
Ovviamente anche l’annotazione dell’8 luglio era propedeutica a una richiesta di arresto, con tanto di lista degli indagati, dei reati contestati e delle prove a carico di ognuno. Un’ipotesi tutt’altro che peregrina quella della custodia cautelare se si considera che l’inchiesta era una costola dell’operazione contro la mafia nigeriana denominata Sommo poeta. Nel dicembre del 2019 sono infatti state arrestate 35 persone in una retata condotta dalla polizia di Trento, con perquisizioni ed esecuzioni di ordini di detenzione in carcere anche in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Puglia e perfino in Germania.
[…] La comunicazione inviata a Roma della notizia del deposito dell’informativa ci offre informazioni interessanti sullo stato dell’arte in quel momento. I poliziotti spiegano che durante le indagini «è stato individuato un sodalizio di nazionalità nigeriana strutturato e organizzato per la cessione sulla piazza di Trento e Rovereto di cocaina, eroina e marijuana».
Il documento riferisce che le indagini «hanno permesso di individuare una pletora più ampia di spacciatori nigeriani, non strettamente legata e affiliata al sodalizio organizzato (mafioso, ndr), che hanno instaurato una capillare rete di vendita».
Al vertice proprio il trentottenne nigeriano Enina Agho, detto Papa T. Per gli investigatori si era «trovato di fatto a gestire gli affari della famiglia, assieme ai connazionali Kelvin Ajayi e Kelly Idemudia».
Dall’ascolto delle intercettazioni si è compreso che il gruppo si approvvigionava da connazionali attivi nelle zone intorno a Verona, Vicenza e L’Aquila. I promotori, a questo punto, si erano affidati a due gruppi di spaccio, uno più operativo su Trento e un altro su Rovereto. Di quest’ultimo faceva parte il presunto omicida Nweke.
[…] Ricapitolando: nel 2018 Nweke viene arrestato per reati vari, nel 2020 finisce in una delicata inchiesta su una rete di spaccio legata alla mafia nigeriana, nel 2021 viene riarrestato per il suo ruolo di pusher, nel 2022 la polizia termina le indagini sull’associazione criminale e invia le proprie conclusioni alla Procura di Trento; nel frattempo, l’uomo finisce di nuovo in prigione e dopo pochi mesi viene liberato, mentre il fascicolo per droga che lo riguarda langue in Procura e le auspicate ordinanze di custodia cautelare sono ferme ai box. Risultato? Il 5 agosto con ogni probabilità uccide di botte una sessantenne senza colpe. […]
Estratto dell’articolo di open.online venerdì 11 agosto 2023.
Il Consiglio Superiore della Magistratura aprirà un’indagine sulla procuratrice di Rovereto Viviana Del Tedesco. Il Corriere della Sera fa sapere che l’avvocata trentina e membro laico del Csm Claudia Eccher ed Isabella Bertolini hanno chiesto di aprire una pratica.
[…] Sotto la lente c’è proprio la conduzione delle indagini da parte della procuratrice. Ma anche quanto detto ai giornali: Del Tedesco ha detto che non c’erano motivi per espellere Chukwuka Nweke, 37enne senza fissa dimora che ha ucciso Iris Setti. Ma anche altro: «È un uomo che è fisicamente spettacolare. Quello lì doveva andare alle Olimpiadi», ha sostenuto Del Tedesco nell’intervista di ieri a La Verità.
Del Tedesco ha anche sostenuto che dell’uomo avrebbero dovuto prendersi cura le sorelle. Ovvero coloro che l’hanno denunciato in più occasioni. Del Tedesco ha anche sostenuto che in occasione della violazione dell’obbligo di firma Nweke era andato a fare la spesa. E che «aveva una puntualità nel firmare che se gli studenti di oggi fossero così puntuali a scuola saremmo a cavallo».
[…] Nweke aveva a suo carico un arresto per droga. E aveva aggredito un ciclista e due carabinieri ad agosto 2022. Del Tedesco nell’intervista aveva anche detto: «A me non risultano tutti questi reati». E ancora: «Il più grave, che poi è l’unico, è la resistenza a pubblico ufficiale».
Sotto la lente non c’è soltanto il caso Setti. Anche riguardo a Mara Fait, uccisa dal vicino a colpi d’accetta, c’è una contestazione. Alla donna era stato infatti negato il “codice rosso” nonostante avesse segnalato l’uomo in più occasioni. La richiesta, scrive il quotidiano, sarebbe stata archiviata in sette giorni con questa motivazione: «Che le persone non vadano d’accordo è un discorso, che poi si arrivi a un omicidio è un altro».
«Gli strumenti che ha il Csm sono quelli di aprire le pratiche per valutare eventuali profili di incompatibilità», spiega ancora Eccher al quotidiano. «Ma anche la professionalità e la correttezza dei magistrati. Vogliamo capire se ci siano state delle responsabilità o delle negligenze da parte dei magistrati». E sulle dichiarazioni alla stampa: «Mi sembrano inopportune. Ne parleremo con il Consiglio».
Ieri Matteo Salvini aveva definito «scioccanti e imbarazzanti» le parole della procuratrice. Mentre il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri aveva richiesto l’intervento del Csm. «Questa persona, che rilascia queste dichiarazioni contro la verità, la logica e la legge, va cacciata oggi stesso dalla Magistratura. Ho presentato una interrogazione urgente al ministro Nordio perché nell’ambito delle sue competenze agisca con urgenza».
Le indagini sull'ambiente, poi il trasferimento: ecco chi è Viviana Del Tedesco, il pm di Rovereto. Per tanti anni, Viviana Del Tedesco ha lavorato presso la procura di Udine per poi chiedere il trasferimento presso quella di Rovereto, dove tutt'ora opera. Francesca Galici il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.
Con l'intervista, a tratti scomposta, resa al quotidiano La Verità, il pm Viviana Del Tedesco è salita alla ribalta, probabilmente in un modo in cui non avrebbe gradito. Nata a Pordenone nell'ottobre 1965, ha lavorato come sostituito procuratore presso il tribunale di Udine e dal 2010 è magistrato ordinario. Dal 2020, dopo aver chiesto e ottenuto il trasferimento da Udine, lavora presso la procura di Rovereto.
"Una persona corretta". Ed è bufera sulla Pm che "difende" la belva che ha massacrato l’anziana a Rovereto
Il 15 giugno 2011, Viviana Del Tedesco è stata ascoltata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti in merito all'indagine relativa al traffico illecito di rifiuti ospedalieri di Latisana (provincia di Udine) e su eventuali altre indagini nella materia oggetto dell'inchiesta da lei seguita. Un'altra indagine, stavolta sui lavori di bonifica nella laguna di Grado, l'ha portata per due volte a essere sentita in commissione, la seconda il 6 settembre del 2012. In quel periodo, infatti, come da lei stessa dichiarato, la dott.ssa Del Tedesco era "parte del gruppo che si occupa di ambiente". Sono diverse le indagini che il pm ha seguito in questo ambito quando lavorava alla procura di Udine, ricevendo diversi attestati di stima.
Passata alla procura di Rovereto, nonostante l'interesse dimostrato in passato per le tematiche ambientali, non sembra aver proseguito su questo filone di indagini, concentrandosi prevalentemente sui delitti. Ed è in questo ambito che ha operato nei due casi di cronaca che ora sono finiti sotto la lente di ingrandimento. Quello di Mara Fait, uccisa a 63 anni da Ilir Ziba Shehi, reo confesso dell'omicidio della donna avvenuto lo scorso 28 luglio a Noriglio, in Trentino, e quello di Iris Setti, uccisa a 61 anni da Nweke Chukwuka, 37 anni, che nella serata di sabato scorso a Rovereto ha aggredito e ferito a morte la donna.
Nel caso di Fait, gli avvocati contestano la mancata attivazione del codice rosso richiesto dalla donna come strumento di protezione contro Ziba Shehi. La donna aveva presentato l'ennesima denuncia lo scorso marzo ma, riferiscono i suoi legali, la denuncia era stata archiviata dopo 7 giorni, con la motivazione che "è compromessa l’attendibilità complessiva della Fait in quanto la vicenda viene ricondotta in un più ampio teatro di contrasto di vicinato condominiale". Sul caso di Iris Setti, invece, pesano le dichiarazioni rilasciare al quotidiano La Verità, contestate anche dall'associazione, D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza, con una lettera aperta. "Non comprendiamo cosa c'entri con la ricostruzione dei fatti che l'assassino avesse 'un fisico spettacolare' o, peggio, che 'doveva fare i mondiali di pugilato'. Una frase che ci ha lasciate senza fiato, perché quel fisico che lei considera 'spettacolare' e la forza di quei pugni, hanno devastato il volto di Iris Setti fino a sfigurarla e a causarne la morte", sottolinea l'associazione.
Estratto dell’articolo di Lorenzo Pastuglia per “il Corriere della Sera” sabato 12 agosto 2023.
«In relazione al comunicato di Giunta di Anm Trentino Alto Adige e degli articoli di stampa relativi alla vicenda del 9 agosto 2023, sono stata contattata sul telefono personale da un giornalista de La Verità al quale ho immediatamente detto che non rilasciavo alcuna dichiarazione.
A fronte di un suo commento sulla pericolosità dell’indagato, ho ritenuto opportuno mantenere la conversazione su un rapporto di cortesia, con l’intento di spiegare concetti di carattere giuridico inerenti i criteri di oggettività ed equità che sottendo il giudizio di pericolosità sociale del soggetto. Il tutto in maniera colloquiale e informale, ricorrendo a esempi rappresentativi utili a far comprendere ciò che volevo esprimere».
È la nota che la pm di Rovereto, Viviana Del Tedesco, ha inviato ieri, 11 agosto, all’avvocato generale alla Corte d’appello di Trento, Markus Mayr. L’intento è quello di placare la bufera esplosa giovedì, quando alcune sue dichiarazioni riguardo all’omicidio di Iris Setti e a proposito dell’uomo arrestato per il delitto sono state pubblicate sulle pagine de La Verità.
Ora le indagini condotte da Del Tedesco potrebbero essere passate sotto la lente del Consiglio superiore della magistratura, che potrebbe quindi decidere di prendere in esame anche le parole della procuratrice, che nella nota parla di non essersi mai immaginata «che la conversazione fosse registrata, anche perché — scrive ancora — c’era un’interlocuzione basata su riflessioni reciproche dove non c’erano né domande né risposte.
Ribadisco che non ho lasciato alcuna intervista a questo giornalista e che si tratta di parole rubate da lui, che non aveva alcuna autorizzazione alla pubblicazione». Del Tedesco si ritiene infine «dispiaciuta che le parole di un colloquio ritenuto amichevole e riservato siano state pubblicate per estratto sulla stampa cui non era in nessun modo destinato».
Tra i motivi della polemica, sulla quale si è espresso anche il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, alcune dichiarazioni che Del Tedesco avrebbe rilasciato sull’aspetto fisico di Nweke («È spettacolare. Quello lì doveva fare le Olimpiadi»). […]
Insomma, secondo Del Tedesco l’uomo, mostrandosi in perfetta forma fisica, non avrebbe corrisposto all’immagine stereotipata del senzatetto o dello sbandato. Un altro punto contestato è quello che riguarda gli obblighi di firma: a La Verità la pm avrebbe spiegato come la violazione avvenuta in una specifica occasione non fosse grave («Era uscito a fare la spesa») e proprio per spiegarsi aveva posto l’accento sulla puntualità di Nweke («Era sempre puntuale, se gli studenti di oggi lo fossero a scuola saremmo a cavallo»);
Del Tedesco, qui, avrebbe voluto sottolineare come sottoporsi regolarmente ai controlli sia indubbiamente un elemento a favore di un soggetto su cui pendono misure cautelari o obblighi del tribunale, la puntualità è poi una caratteristica premiata fin dai banchi del liceo.
Per quanto riguarda l’evasione, la pm ha poi tentato di spiegare come in quella definizione ricadano sia le fughe dal carcere o dai domiciliari — e quelle sì, vengono punite con un immediato inasprimento della pena — sia i semplici ritardi dovuti a imprevisti, come quello per fare la spesa, appunto; per questi ultimi la valutazione è meno immediata, più elastica, e tiene conto dell’atteggiamento generale, che per l’appunto in questo caso era contraddistinto dalla puntualità. […]
Infine, nell’articolo de La Verità si legge anche un commento relativo ai familiari di Nweke («È vero, nel 2022 ha avuto un eccesso d’ira quando è andato a trovare la moglie a casa per vedere i suoi figli, ora le sue azioni risultano agli atti. Ma la famiglia dov’era? Era una persona che i figli non li vedeva. Probabilmente era un disperato»).
In questo caso, la pm avrebbe ribadito di non voler giudicare le sorelle, che non avevano detto nulla alla Procura fino all’episodio di questo luglio. Secondo Del Tedesco, sul suo tavolo non è arrivata più alcuna richiesta di aiuto. E nessuna delle sorelle sarebbe andata dalle forze dell’ordine a spiegare quanto successo. […]
L’Anm trentina contro Del Tedesco: «Dalla procuratrice parole inopportune». La magistrata in un’intervista a La Verità, avrebbe dichiarato, tra le altre cose, di apprezzare la prestanza fisica di Chukwuka Nweke, «un uomo che fisicamente è spettacolare». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 agosto 2023
Durissimo comunicato della Giunta dell’Anm del Trentino Alto Adige nei confronti di Viviana Del Tedesco, procuratrice reggente della rocura di Rovereto, che ha reso nei giorni scorsi diverse dichiarazioni in merito all'' omicidio di Iris Setti, la 61enne uccisa da un nigeriano di 37 anni, Chukwuka Nweke, in un parco di Rovereto. La magistrata in un’intervista a La Verità, avrebbe dichiarato, tra le altre cose, di apprezzare la prestanza fisica di Chukwuka Nweke, «un uomo che fisicamente è spettacolare». In merito alla misura dell’obbligo di firma avrebbe sottolineato che il nigeriano «aveva una puntualità nel firmare che se gli studenti di oggi fossero così puntuali a scuola saremmo a cavallo», considerando non grave la violazione avvenuta in un’occasione («Era uscito a fare la spesa»).
«Questa Giunta - riporta una nota diffusa dalla presidente del Tribunale di Bolzano, Francesca Bortolotti - interviene per esprimere, in maniera pacata ma ferma, la propria presa di distanze dalle dichiarazioni rese dalla dottoressa Del Tedesco, che trova discutibili e inopportune sia nel contenuto sia nel tenore delle espressioni adoperate». Sarà forse la prima volta che l'Anm non si chiude in un corporativismo difensivo ma anzi stigmatizza profondamente l'operato della collega. «Ci auguriamo prosegue - che al più presto arrivi una smentita da parte della collega, sebbene la pluralità di dichiarazioni che gli organi di stampa le attribuiscono nelle interviste renda difficile pensare che esse siano state amplificate o, peggio, travisate». «Non sembra che, nelle dichiarazioni che le sono attribuite, la dottoressa Del Tedesco abbia fatto un uso accorto del potere di conferire con gli organi di stampa, se è vero
che sono state riportate espressioni che palesemente esondano dagli argini che la pendenza di un procedimento penale, per giunta ancora in fase di indagini preliminari, imponeva di rispettare», conclude la giunta distrettuale, rilevando come «esprimere, con profluvio di affermazioni discutibili nel contenuto e stravaganti nello stile, la propria opinione sulla persona dell'indagato e sul contesto nel quale è maturato il delitto rischia di compromettere la serietà del lavoro degli inquirenti e dello stesso ufficio di procura, oltre che fornire una rappresentazione della magistratura assolutamente non aderente alla realtà».
Per l’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati, «a prescindere dal caso specifico, se un magistrato accetta di entrare nel campo rischiosissimo della conversazione informale con un giornalista deve prevedere che il tutto venga registrato e poi pubblicato. A sua volta è dovere di correttezza per il giornalista avvertire se vi sia una registrazione. In generale un magistrato dovrebbe esprimersi sempre in maniera misurata e moderata, come insegniamo alla Scuola superiore della magistratura la quale ha messo in campo una iniziativa innovativa in materia che si concluderà a fine anno con la pubblicazione di una Guida sui profili di principio della comunicazione insieme a consigli pratici, come già fatto dalla Scuola della magistratura francese».
Sbarchi, ius soli e ideologia. Neanche l'Italia è al sicuro. I fatti francesi anticipano ciò che può accadere nel nostro Paese: i nodi di immigrazione e accoglienza. Gian Micalessin il 4 Luglio 2023 su Il Giornale.
Noi italiani, governo compreso, faremmo meglio a non guardare con compiaciuta soddisfazione ai disordini delle periferie francesi. Quanto accade nelle «banlieue» di Macron rischia, infatti di rivelarsi solo l’anticipazione, o il presagio, di un male pronto a contagiare anche noi entro pochi anni. All’origine dell’incendio francese vi è lo stesso innesco ideologico disseminato, al di qua e al di là delle Alpi, da una cultura di sinistra, cara al Pd di Elly Schlein, in cui il neo-marxismo si mescola con globalismo e pensiero, politicamente corretto, di Ong e organizzazioni umanitarie. Un contesto ideologico in cui l’accoglienza senza limiti è un dogma che non prevede né l’integrazione dei migranti, né la distinzione tra chi ha diritto ad esser aiutato e chi viene solo a cercare fortuna. O, peggio, a delinquere.
Ma in Francia, come Italia, si è anche fatta strada la complicità contro-natura tra la sinistra dei diritti e un islamismo radicale deciso a negare i diritti delle donne e a recintare i fedeli in comunità separate, impermeabili alle leggi Stato e alle forze di sicurezza. Di seguito è arrivato il tentativo, riuscito in Francia, bloccato qui da noi, d’imporre quello «ius soli» che trasforma in cittadini a pieno titolo i figli dei migranti nati nella Repubblica. Una legge diventata la filiera dei cosiddetti «francesi sulla carta» ovvero quei ragazzini delle «banlieue» privi, nonostante la cittadinanza, di qualsiasi identità nazionale, ma carichi di risentimento verso lo Stato e i suoi simboli. Fin qui, fortunatamente per noi, questi capisaldi del pensiero «liberal» si sono innescati su contesti sociali diversi. In Francia la massiccia migrazione dalle ex-colonie ha creato, fin dagli anni 90, un contesto multiculturale di difficile gestione nelle periferie urbane diventate enclavi dell’Islam radicale. In questo magma persino le mosse più decise, come le leggi varate dopo il 2004 per vietare l’hijab nelle scuole hanno finito, con il fare il gioco dell’Islam radicale favorendo - con l’avallo della sinistra - la nascita di comunità separate diventate oggi i «territori perduti della Repubblica».
Territori dove, permissivismo ed egemonia delle gang islamiste hanno impedito la presenza delle forze dell’ordine e sviluppato sottoboschi criminali alimentati dai traffici di droga. A far da detonatore finale s’è aggiunto quello ius soli che ha regalato, dopo il 1998, la cittadinanza a milioni di giovani nati in quartieri ghetto dove lo Stato è sostituito dai predicatori delle moschee, dalle scuole illegali islamiste e dalle bande criminali.
Quartieri dove la «legge della strada» è preminente rispetto all’insegnamento familiare e dove gli insegnanti delle scuole pubbliche sono più preoccupati di evitare lo scontro con genitori e «rais» locali che non trasmettere gli ideali repubblicani. In questo sinistro contesto crescono le generazioni dei «territori perduti». Generazioni per cui la morte del coetaneo Nahel, ucciso da un poliziotto mentre guidava senza patente, è solo il pretesto per scagliarsi contro i simboli dello Stato e darsi al saccheggio. Ma in Italia faremmo meglio a non considerarci alieni da tutto questo. Gran parte dei flussi migratori del Mediterraneo puntano verso le nostre coste. Solo nei primi sei mesi di quest’anno 65mila migranti si sono uniti ai 600mila irregolari presenti nel nostro paese. Il tutto mentre alcune tragedie come quella di Saman Abbas, la ragazza pakistana uccisa dalla famiglia, o quella di Michelle Causo assassinata da un coetaneo originario dello Sri Lanka a Primavalle fanno emergere il drammatico problema delle comunità separate e del degrado delle periferie in mano alla criminalità. Problemi ben conosciuti alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che rivolgendosi al Parlamento ha messo sbarchi e regolamentazione dell’accoglienza tra le questioni più urgenti. Questioni capaci, se continueremo ad ascoltare la sinistra, di ricreare anche da noi le dinamiche che sconvolgono la Francia. Riportando d’attualità il pensiero di un Lenin pronto a «vendere ai capitalisti la corda con cui li impiccheremo».
"Chi deve pulire i bagni?". Dall'hotspot le lamentele degli immigrati. L'ennesima, enorme, ondata di sbarchi ha messo in ginocchio l'hotspot di Lampedusa ma i migranti si lamentano delle condizioni che trovano all'arrivo. Francesca Galici il 13 Aprile 2023 su Il Giornale.
Lo tsunami di sbarchi che ha colpito l'isola di Lampedusa nel weekend di Pasqua ha messo in ginocchio, per l'ennesima volta, l'hotspot di Lampedusa, dove si sono sfiorate le 2mila presenze contemporanee. Numeri enormi, se si considera che la struttura di prima accoglienza ha una capacità massima di 350 persone. Nonostante l'impegno profuso da tutti gli operatori impegnati in questo lavoro, i disagi sono stati tanti e pare che gli stessi migranti abbiano anche avuto di che lamentarsi, inviando dall'altra parte del Mediterraneo le immagini dei disagi all'interno dell'hotpsot.
Allacci abusivi all'hotspot di Lampedusa: così i migranti ricaricano i cellulari
Dalle solite pagine dei migranti si è cercato di montare la polemica contro l'Italia e contro il nostro sistema di accoglienza, mostrando le fotografie dei servizi di quello che dovrebbe essere l'hotspot di Lampedusa: "Chi si deve occupare dei bagni nei campi in Italia? Italiani o migranti? La salute prima di tutto!". Oltre alle foto dei servizi, che non sembrano godere di una pulizia adeguata in quel frangente, sono state inviate anche altre immagini che riprendono un ambiente con diverse brande per il riposo e gi spazi esterni della struttura.
Fortunatamente, la provocazione non ha avuto presa e nei commenti che arrivano dall'altra parte del Mediterraneo si evidenzia come la responsabilità della pulizia debba ricadere non sugli "italiani" ma sui "migranti". "Chi ci dorme. Veramente non c'è niente da dire: sono i migranti", si legge in uno dei commenti. E ancora: "Fanno tutto per noi! Ooh vuoi che vengano anche a lavare la doccia?". Una presa di responsabilità importante, per lo meno da parte di chi commenta, che purtroppo sembra non accompagnarsi a quella di chi si è lamentato dell'hotspot.
Anche perché, come è emerso dalla visita all'hotspot di Cristiano Caponi, direttore dell'Istituto nazionale della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà, i migranti sono responsabili di danni strutturali importanti, visto che sradicano le prese della corrente elettrica, ma anche i condizionatori e creano degli allacci, naturalmente abusivi, per mettere sotto carica i telefoni cellulari. Quindi appare quanto meno fuori luogo che vengano mosse accuse contro l'Italia, soprattutto davanti a un'emergenza di queste dimensioni, che nei giorni di Pasqua ha visto arrivare quotidianamente oltre 1000 persone a Lampedusa, dove l'unico punto di accoglienza è quella struttura. Dover ricevere anche questi appunti, nonostante gli sforzi, è un'evidente dimostrazione di mancanza di gratitudine e riconoscenza nei confronti del Paese che si prodiga per l'accoglienza. Anche se per fortuna non tutti la pensano in questo modo.
"Invasione studiata. Senza un intervento ne arrivano 250mila". Fausto Biloslavo l’11 Aprile 2023 su Il Giornale.
L'ammiraglio Nicola De Felice: "Servono accordi con chi comanda in Libia. E centri gestiti dall'Onu"
Nicola De Felice, ammiraglio in riserva della Marina militare, non ha mai avuto peli sulla lingua sull'emergenza migranti. Sul tema ha dato alle stampe il libro Fermare l'invasione e risponde alle domande del Giornale sull'ultima ondata.
«Bomba» di Pasqua con circa 3200 migranti già sbarcati o in arrivo. Cosa sta succedendo?
«Quello che ci si aspettava, purtroppo. Alla prima finestra anche temporanea di bel tempo riprendono le attività dei trafficanti di esseri umani. Mare permettendo aspettiamoci dai 5mila agli 8mila arrivi nel giro di 7-10 giorni. È un' «invasione programmata. Da una parte ci sono forze che spingono per mettere in difficoltà il governo e dall'altra nuove e accentuate instabilità, oltre che in Libia, anche in Tunisia».
Da venerdì sono arrivati 2000 con i barchini soprattutto dalla Tunisia. La Guardia costiera locale, che ne ha già fermati oltre 14mila dall'inizio dell'anno, fa abbastanza?
«Mi risulta che facciano molto e che in questi ultimi giorni ci siano stati ben 22 intercettazioni di barche in partenza dalla zona di Sfax. I tunisini fanno il possibile, ma hanno bisogno di aiuto».
Non si può far qualcosa di più per fermare l'ondata?
«Certo, ma bisognerebbe effettuare un pattugliamento congiunto fra le forze navali italiane e la Guardia costiera tunisina nelle loro acque territoriali. Mi risulta che a Tunisi potrebbero essere d'accordo. Prima di tutto, però, è necessario sbloccare i finanziamenti che chiedono a livello internazionale. E ci vorrebbe un patto di cooperazione con la Tunisia stretto dell'Europa».
Dalla Tunisia arrivano soprattutto sub sahariani. Se vengono riportati a terra cosa bisogna fare?
«Creare dei centri di accoglienza gestiti da forze europee, ma sotto il cappello dell'Onu, anche finanziario, per decidere chi ha diritto alla protezione internazionale o all'asilo politico in Europa, non solo in Italia. Per chi non ha diritto vanno attivati con l'Iom (l'Organizzazione delle migrazioni legata all'Onu nda) i rimpatri volontari o forzati nei paesi di provenienza. Con queste nazioni bisogna usare una sorta di moral suasion esercitando pressioni, se necessario. Per esempio rimettere i dazi o ridurre i visti d'ingresso ed i finanziamenti per la cooperazione e sviluppo compresa quella militare con chi non collabora nel riprendersi i propri cittadini».
Stanno arrivando anche quattro pescherecci partiti da Tobruk con circa 1600 persone a bordo. Oramai la Cirenaica è il nuovo hub di partenza dalla Libia?
«È un ulteriore hub che si somma agli imbarchi dalla Tripolitania. Dall'Egitto è relativamente facile arrivare passando il confine terrestre. E ci sono compagnie aeree private che volano dalla Siria, dal Bangladesh e dal Pakistan atterrando all'aeroporto di Bengasi finanziato dall'Unione europea. Non a caso sono paesi delle stesse nazionalità di chi si imbarca sui pescherecci diretti in Italia».
Nessuna possibilità di accordo con il generale Khalifa Haftar, che controlla la Cirenaica?
«Bisogna assolutamente trovare accordi con chi comanda in Libia, al di là se è riconosciuto o meno dal'Onu. In nome del pragmatismo, senza tante remore, se vogliamo difendere l'interesse nazionale evitando ondate di migranti».
Le Ong del mare continuano a fare quello che vogliono?
«Purtroppo l'ho sempre sostenuto. Il nuovo governo sembrava partito bene con il decreto riguardante le Ong. Il problema è che non vengono responsabilizzati seriamente gli stati di bandiera. Quasi tutte le navi delle Ong battono bandiere straniere e fanno orecchie da mercante. Bisognerebbe convincere gli stati a togliergli la bandiera. Oppure che portino i migranti negli stati di bandiera come Spagna, Germania e Norvegia».
Se va avanti così quali sono le stime degli arrivi nel 2023?
«Se continueremo a giocare sulla difensiva arriveranno in 200-250mila».
Quegli "influencer" dei barconi che fanno il tifo contro il governo. Nella loro visione del mondo, non c’è spazio per il «diritto a non migrare». Francesco Boezi il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.
Nella loro visione del mondo, non c’è spazio per il «diritto a non migrare». Che poi sarebbe il diritto di restare nella propria patria, almeno quando si può. Sono gli influencer degli sbarchi ad alto rischio. Il tutto in nome dell’internazionalismo dei flussi. E dell’impossibilità di garantirne una gestione equilibrata, controllata, condivisa. L’accostamento tra personaggi dell’arte o dello spettacolo e navi Ong ricorre ormai con regolarità. L’ultimo caso è quello della Louise Michel, imbarcazione di un’Ong finanziata da Banksy, bloccata nel porto di Lampedusa per aver violato il decreto Piantedosi. Il fermo, per la Guardia Costiera, è servito pure a scongiurare «che la stessa prendesse a bordo un numero di persone tale da pregiudicare sia la sua sicurezza che quella delle imbarcazioni di migranti a cui avrebbe prestato soccorso».
Da che parte risiede la tanto sbandierata umanità? E la vera ideologia è quella di chi ferma queste pratiche o quella di chi vorrebbe continuare a soccorrere ad ogni costo? Tornando agli influencer, chiamati cosi per interpretazione estensiva, l’elenco è lungo. Dalla boutade, per ora solo quella, di Fedez, al finanziamento di Ghali alla Mediterranea Saving Humans, passando per i toni scandalizzati di Richard Ghere sul caso Open Arms. «Ma come? Pensai - dichiarò l’attore al Guardian - .
L’Italia, un Paese cristiano, che criminalizza coloro che cercano di aiutare persone in difficoltà?». L’Italia, un Paese cristiano, che vorrebbe evitare di essere l’unico a occuparsi di un fenomeno globale. L’Italia, almeno quella di questo governo, che sa che il «prossimo» non è né un like né un capriccio ideologico.
"Arrivano in Italia per partorire". La rivelazione sulle clandestine. Il medico di Lampedusa Francesco D’Arca lancia l’allarme per la carenza di medici e fa luce sul numero di donne incinte sbarcate nell’ultimo periodo: “Tante, tantissime, troppe. Quasi tutte al terzo o quarto mese”. Massimo Balsamo il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.
L’emergenza migranti è tornata al primo posto dell’agenda dell’Unione europea grazie al premier Giorgia Meloni, ma la situazione a Lampedusa è rovente. Oltre due mila persone sbarcate in meno di 24 ore, l’hotspot è al collasso (quasi 2.500 ospiti) e i medici sono in estrema difficoltà. Uno degli allarmi più vivi è quello legato alle clandestine incinte, spesso arrivate in Italia in procinto di partorire. Un fenomeno che sta crescendo in maniera esponenziale e che desta più di qualche preoccupazione.
La rivelazione sulle migranti incinte
Interpellato dal Corriere della Sera, il direttore del poliambulatorio di Lampedusa Francesco D'Arca ha fatto il punto della situazione sui migranti salvati nel Mediterraneo arrivati nell’isola e non mancano gli spunti degni di nota. Uno dei passaggi più interessanti è legato appunto alle donne sbarcate in Italia in stato interessante:“[…] Avviare le donne incinte verso il nostro servizio specialistico di ginecologia partito sabato con il servizio di pediatria. Donne incinte in quantità . Tante, tantissime, troppe. Quasi tutte al terzo o quarto mese. Molte arrivano in procinto di partorire e allora via con l'elisoccorso a Palermo”.
Il medico di Lampedusa è netto, perentorio: in Italia stanno sbarcando sempre più donne incinte. Non è un caso: fanno parte delle strategie senza scrupoli dei trafficanti di esseri umani. Una tendenza confermata dagli annunci degli scafisti scovati in rete: “Viaggi gratis per bambini e donne in gravidanza”. Un modo per incentivare alla partenza i soggetti più fragili e che rischiano di più, riprova della spregiudicatezza dei criminali che lucrano sulle tragedie.
"Gratis per bambini e donne incinte". Così i trafficanti ricattano l'Italia
La presenza a bordo dei gommoni di bambini e donne incinte è fondamentale per gli sfruttatori di migranti: le loro condizioni potrebbero peggiorare repentinamente e dunque risulta necessario accelerare i soccorsi da parte del Paese europeo di turno, quasi sempre l’Italia. Senza dimenticare la componente emozionale, destinata a fare breccia nel cuore dell’opinione pubblica: molte operazioni sono sollecitate per la presenza di soggetti molto deboli. Le storie sono tante, non si contano neanche più: parti avvenuti sulle navi o poco dopo lo sbarco, magari su un elisoccorso e tra mille difficoltà. Nessuno scopo umanitario, ma solo l’ambizione dei trafficanti di mettere in ginocchio i governi nazionali e poter continuare a macinare denaro in maniera illegale e soprattutto pericolosa per la salute delle donne, affamate e stremate da questi viaggi della speranza.
"Gratis per bambini e donne incinte". Così i trafficanti ricattano l'Italia. Francesca Galici il 23 Marzo 2023 su Il Giornale.
Bambini e donne in gravidanza salgono gratis sui barconi: l'ultima scoperta sui trafficanti che conferma le strategie di chi organizza i viaggi nel Mediterraneo
Esclusiva
Nelle ultime settimane abbiamo letto annunci di ogni tipo provenire dai trafficanti di esseri umani in Tunisia. Vengono utilizzati escamotage di ogni tipo per cercare di eludere i controlli, come linguaggio in codice e poche info pubbliche. La maggior parte dei dettagli vengono forniti in privato, su Whatsapp o nella chat di Messenger, dove gli organizzatori forniscono date, prezzi del viaggio e luogo di partenza. “Da Sfax all’Italia, contattate i leader su Whatsapp. Serve un gruppo di 25 persone, la cifra è economica”. Questo è uno dei tanti messaggi che hanno ripreso a comparire nelle bacheche dei migranti. Il giorno della partenza sembra essere per tutti lo stesso: oggi, probabilmente a partire dalla notte appena trascorsa. “Movimento per giovedì, ho bisogno di 5 persone per completare”, si legge in un altro. “Sono 2mila per persone serie”.
E di comunicati come questi ce ne sono decine. Se tutti i “lanci” venissero confermati, considerando anche quelli che non abbiamo intercettato, si prospetta un altro weekend di sbarchi per Lampedusa. Tra i tanti annunci trovati, uno in particolare ha attirato la nostra attenzione. “Il prezzo è di 2500 dinari, pari a 850 euro”, scrive l’organizzatore che l’ha pubblicato, specificando anche il cambio in valuta europea. Ma, soprattutto, fornisce un dettaglio chiave: “Gratis per bambini e donne in gravidanza”. È uno dei pochi veramente completo, con informazioni precise ma, soprattutto, inquietanti, che forniscono indizi sulla spregiudicatezza di queste organizzazioni. In questo caso, se la foto usata per promuovere la partenza rispondesse al vero, non si tratterebbe di uno dei barchini in metallo fai-da-te che sempre più spesso vediamo arrivare in Italia. Il convoglio viene organizzato con una da pesca in legno, che se sovraccaricata può arrivare a trasportare fino a 50 persone.
La partenza di questo convoglio è stata riprogrammata per assenza di un numero adeguato di persone ma pare che il trafficante si stia riorganizzando per i prossimi giorni. Partirà da Mahdia e non da Sfax, città poco più a nord che, in linea d'aria, è davanti alle coste di Lampedusa. L'annuncio ci colpisce proprio perché è diverso dal solito. Nessun facilitatore ha mai fornito nei messaggi pubblici che abbiamo avuto modo di leggere un elemento così specifico sull’organizzazione. Chi scrive non vuole nemmeno brutte sorprese: “Non accetto chi non risponde al telefono”. Offrire trasferimenti gratuiti a bambini e donne in stato interessante significa incentivare alla partenza i soggetti più fragili che, in caso di problemi in alto mare, rischiano di più. Una strategia pericolosa, criminale, che dimostra la spregiudicatezza dei trafficanti ma, soprattutto, conferma uno dei tanti sospetti su queste traversate della morte.
Riuscire a portare a bordo donne prossime al parto e bambini piccoli assicura a chi organizza il convoglio l’attivazione ancora più rapida della macchina dei soccorsi. E, quindi, una garanzia ulteriore per chi parte, perché con soggetti fragili a bordo la valutazione dell’eventuale situazione di pericolo è diversa. Donne e bambini vengono usati dai facilitatori come strumento di leva nei confronti della macchina dei soccorsi del nostro Paese, con la consapevolezza che mai l’Italia rifiuta un intervento ma se a bordo ci sono soggetti fragili, il salvataggio è ancora più sicuro. Un vero ricatto morale verso l’Italia, nonostante ci sia ancora chi crede che i “convogli” che raggiungono le coste del nostro Paese non siano gestiti da scafati professionisti del traffico di esseri umani.
"Così organizzo i viaggi verso l'Italia...". L'intervista al trafficante di clandestini in Tunisia. Francesca Galici il 25 Marzo 2023 su Il Giornale.
Dai diversi livelli dell'organizzazione al monito per noi italiani: "Non credete a tutto...". L'intervista al trafficante che organizza le partenze dal Nord Africa
Esclusiva
“No, non sono io a organizzare”. Questa è la risposta standard che abbiamo ricevuto in queste settimane da chi, su Whatsapp e sui social, proponeva i convogli nel Mediterraneo in direzione dell’Italia. Gli stessi che fornivano indicazioni sul numero di persone da caricare a bordo, che indicavano il costo e il luogo di partenza, quando facevamo la domanda chiave si ritiravano o mentivano. “Siamo tutti viaggiatori, non c’è nessuno che organizza. Grazie per la vostra comprensione”, ci siamo sentiti rispondere da chi ci aveva proposto poco prima il viaggio a 2000 dinari. “Chiedete ai tunisini”, ci risponde un altro, lasciando intendere che, invece, l’organizzazione esiste, come già sapevamo.
Dopo alcuni tentativi, appuntamenti mancati e varie bugie, finalmente troviamo un organizzatore che sembra disponibile. “Non mi è consentito divulgare troppe informazioni, perché potrebbero danneggiarci e farci perdere il nostro piccolo guadagno. Cosa ci guadagno?", ci dice mentre cerchiamo di convincerlo. Gli spieghiamo che non possiamo dargli soldi ma che ha la nostra garanzia di anonimato: “Lo so, sarei in pericolo se anche provassi a chiederli”. Decide di fidarsi.
“Ti dico subito una cosa da ricordare. Questo lavoro, come dici tu, è una sorta di aiuto per noi africani che veniamo da te in cerca di una vita migliore. Come sai, a casa non stiamo bene e la nostra famiglia conta molto su di noi, quindi non abbiamo altra scelta che prendere il Mediterraneo con tutti rischi”, ci spiega prima di iniziare l’intervista, mettendo le mani avanti e quasi giustificandosi. Decidiamo di essere più diretti possibile con lui.
Come funziona l’organizzazione?
Qui in Tunisia abbiamo due livelli nell’organizzazione: prima lavorano i “koxeur”, che sono le persone che si occupano di portare da noi i viaggiatori. Loro cercano le persone che vogliono partire e formano i gruppi. Poi ci sono i “camorasseur”, che si occupano di organizzare materialmente il loro viaggio nel Mediterraneo: trovare la barca, il porto di partenza e tutto il necessario per il “lancio”. Io sono un “camorasseur”. Lavoriamo in collaborazione con i tunisini, loro ci aiutano davvero molto.
Chi sono i tunisini?
Ragazzi come me. Io non sono tunisino, sono nero perché sono subsahariano. Noi (subsahariani, ndr) lavoriamo con loro e in cambio gli diamo ingenti somme di denaro.
Quindi sono i tunisini i veri “boss” di queste organizzazioni?
Se vogliamo vederla così, sì.
Che percentuale prendono loro, più o meno?
Credimi, ottengono più soldi di quanto tu possa immaginare. Ma non ci lamentiamo, visto che siamo soddisfatti del risultato alla fine. Anche se è vero che stiamo perdendo parecchi fratelli. Questa è la cosa più triste per me.
E a te quanti soldi entrano in tasca?
Io personalmente guadagno poco. Vivo qui a spese dei miei fratelli subsahariani, che mi danno 10 dinari a persona per orientarli a un buon porto.
Spiegami meglio. Il tuo lavoro consiste nel trovare il miglior punto di partenza per evitare controlli e simili?
Sì, esatto.
Hai una grossa responsabilità addosso, non ti pesa?
Questo lavoro è sicuramente rischioso ma non ho scelta.
Tu stesso hai detto che state perdendo molti fratelli, no?
Ci sono altri organizzatori che ne abusano davvero troppo.
Cosa intendi?
Partono con i sovraccarichi che portano a costanti naufragi. Senza gli abusi, se tutti rispettassero le condizioni, questi viaggi non avrebbero problemi.
E tu non fai i sovraccarichi?
Questa è la mia più grande preoccupazione. Dopotutto stiamo parlando di esseri umani, io devo prendermi cura di loro.
Vediamo arrivare in Italia anche barche di metallo, che è un miracolo che galleggino, con 30/40 persone. Capisci che è pericoloso?
Certo, a volte ne fanno salire anche di più. Ti spiego meglio: il viaggio ha un prezzo unico per tutti ma può variare.
Dimmi di più.
Noi fissiamo un prezzo per far partire il convoglio ma se non arriviamo alla cifra che avevamo stabilito per dare la percentuale ai tunisini, siamo obbligati a cambiare il prezzo per non fare i sovraccarichi.
Ci sono organizzatori che promettono i viaggi gratis a donne e bambini, probabilmente per avere maggiori garanzie di salvataggio. Cosa ne pensi?
Da me tutti pagano il viaggio, altrimenti non si parte. L'eccezione è solo per i bambini tra 0 e 8 anni. I tunisini ci chiedono una cifra precisa che noi dobbiamo rispettare per forza. Posso dirti una cosa?
Dimmi.
Non prendete sempre per vero tutto quello che vi fanno credere le persone che arrivano da voi. Alcuni di loro non hanno nessuna credibilità.
Mi stai dicendo che hanno qualcosa da nascondere?
Ooohhh… Tu non ne hai nemmeno idea… Ma come si suol dire a casa mia... Non possiamo cagare nel piatto che ci dà da mangiare.
Che tu sappia, i tunisini hanno contatti con i loro connazionali già in Italia, che li aiutano?
…
A questo punto il nostro contatto saluta con gentilezza e sparisce, senza più rispondere alle domande, per poi ricomparire qualche giorno dopo: "La polizia tunisina ha chiuso tutte le nostre vie di accesso al Mediterraneo e ha affondato due dei nostri convogli. È un grande danno per noi, ma non ci arrendiamo, io sono molto triste".
Caccia al tesoro. Giovanni Vasso su L’Identità il 7 Marzo 2023
Senza migranti, l’agricoltura e l’allevamento italiano si fermerebbero. All’istante. Secondo le stime di Coldiretti, infatti, un prodotto agricolo su quattro è raccolto da stranieri e più del trenta per cento dell’intero ammontare delle giornate lavorative nel settore primario sono fornite da braccianti e operai che arrivano in Italia da ben 164 Paesi diversi. I campi e le stalle italiane sono, sempre, alla ricerca di lavoratori. Ma non si può pensare che l’agricoltura italiana sia alla ricerca di personale poco formato, tutt’altro. Non si trovano addetti perché, troppo spesso, mancano le competenze. Il tema, dunque, ha ora un nome e un cognome: decreto flussi. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, intervenuto a Roma a Tgcom24Tour, ha spiegato che il governo ha intenzione di “favorire l’immigrazione regolare con viaggi che non siano a rischio”. Dunque ha sottolineato che per l’esecutivo è necessario “far venire in Italia persone che hanno già un’occupazione certa nel campo dell’agricoltura o dell’industria, formati a casa loro. Possiamo portarne decine di migliaia perché le nostre aziende hanno bisogno di manodopera”. Lavoratori, dunque, che abbiano già un’occupazione certa. Ciò sottintende una certa formazione e la volontà di eliminare le sacche di disperazione e di sfruttamento.
Non solo agricoltura, però. L’apporto dei migranti all’economia italiano è centrale. Da un lato offrono manodopera a buon mercato, dall’altra alimentano il commercio tant’è vero che cresce il numero sempre più alto di titolari stranieri di negozi e attività nei centri cittadini. Persino i luoghi della socialità, a cominciare dai bar, sono in mano a negozianti esteri. In Emilia Romagna e in Lombardia, per esempio, il 20% è intestato a persone di nazionalità non italiane. Crescono, inoltre, i negozi etnici, spesso e volentieri rivolti ai connazionali, con lo stabilizzarsi e il crescere delle comunità straniere nelle città. Un tesoro, vero e proprio, per il governo. E, specialmente, per il Mef. Grazie al protagonismo delle comunità migranti, il ministro Giancarlo Giorgetti spera di raggranellare introiti, in tema di tasse, che possano rimpinguare le casse, sempre esauste, dello Stato. Inoltre, non è da trascurare l’apporto che la forza lavoro straniera garantisce all’industria italiana. Che, insieme all’agricoltura,
Nelle scorse settimane, il governo ha approntato un nuovo decreto flussi che prevede l’ingresso in Italia di 82.705 persone. Si tratta di 13.005 “posti” in più rispetto all’anno passato, quando furono previsti 69.700 nuovi ingressi. Coldiretti riferisce che, di questi, 44mila sono attesi dal lavoro nelle campagne (nel 2022 furono 42mila). Tra loro, inoltre, 1.500 potranno richiedere il nullaosta stagionale pluriennale che consentirà alle aziende, come riferisce l’associazione datoriale agricola, di “non essere vincolate ai termini di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Dpcm per avere accesso all’autorizzazione”.
Coldiretti ha inoltre tracciato l’identikit del lavoratore straniero nel settore primario: “Sono per la maggior parte provenienti da Romania, Marocco, India e Albania, ma ci sono rappresentanti di un po’ tutte le nazionalità. Si tratta soprattutto di lavoratori dipendenti a tempo determinato che arrivano dall’estero e che ogni anno attraversano il confine per un lavoro stagionale per poi tornare nel proprio Paese spesso stabilendo delle durature relazioni professionali con gli imprenditori agricoli”. Relazioni che presuppongono un rapporto che si evolve. Anche perché, secondo quanto ha riferito a Repubblica Lodovico Giustiniani, presidente di Confagricoltura Veneto, non vale l’equazione migrante uguale bracciante. “La manodopera in agricoltura è un’emergenza drammatica, ma non si risolve scaricando navi di migranti nelle campagne italiane. Servono trattoristi, o manovratori di mietitrebbia, macchine vendemmiatrici e mungitrici: ma per questo occorre formazione, una patente, corsi sulla sicurezza”. E quindi ha aggiunto: “Un polacco a fine stagione torna a casa. Un siriano quando termina la vendemmia dove va e di cosa vive? Prima di dare i numeri di accoglienza e lavoro è necessario parlare di formazione, alloggi e welfare. Chi viene da lontano non può fare il pendolare e ha diritto di portare con sé la famiglia”.
Ma il governo ha giurato che nessuno ha intenzione di creare un bacino di disperati a cui attingere alla bisogna. E, anzi, la lotta al caporalato è una delle priorità che l’esecutivo si è imposta di seguire. Lo ha promesso il ministro all’agricoltura, Francesco Lollobrigida, che a un’iniziativa proprio di Coldiretti ha dichiarato: “Non sono dell’idea che con il decreto flussi si importano degli schiavi, ritengo un abominio un’idea del genere, significa invece che a quelle persone che sto facendo venire gli sto offrendo lavori dignitosi e se sono dignitosi per loro perché non sono dignitosi per una persona abile al lavoro e si rifiuta di farli ? Non lo vuoi fare e non lo fai ma non puoi pensare di gravare sulle spalle di chi accetta di farlo, lavora, fatica, paga le tasse per tenerti sul divano o lavorare in nero, questo non si può fare”. E si è impegnata il ministro del Lavoro, Marina Calderone, che a dicembre scorso, ha adottato il piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso. Uno degli obiettivi del Pnrr ma, soprattutto, una strategia per combattere contro chi specula sulla povertà e sulla disperazione. A febbraio scorso, in occasione della presentazione delle attività per il 2023 dell’Inl e il consuntivo per il 2022, Calderone aveva incoraggiato l’Ispettorato del Lavoro a proseguire i controlli, sempre più serrati e a rafforzare il dialogo con il Ministero. “Tre morti al giorno sul lavoro è un numero che il nostro Paese non può permettersi: occorre far crescere il numero degli ispettori tecnici operativi. È importante che questa Commissione si riunisca più volte durante l’anno, perché rappresenta un momento di incontro e di interlocuzione per soluzioni concertate e un monitoraggio continuo”.
L’Italia senza migranti non ha un futuro. E i numeri ce lo dicono chiaramente. Pagano in tasse più di quanto ricevano in assistenza e il loro contributo pesa 9 punti di Pil. In un Paese che invecchia sono una risorsa. E il fatto che stiano diminuendo dovrebbe farci preoccupare, non gioire. Simone Alliva su L’Espresso il 18 Gennaio 2023.
Questo non è un tema da affrontare con argomenti sentimentali o retorici. Non c’entrano la solidarietà, la compassione, la giustizia. Anche, certo. Ma prima ancora c’entra la ragione. L’inserimento dei cittadini stranieri nella comunità italiana è interesse di tutti. Sono il motore di questo Paese. Inceppato per anni, da discussioni su porti chiusi, blocchi navali, possibilità di dare ai loro figli la cittadinanza.
L’Italia multietnica e il suo valore non è teoria di sinistra ma un dato di fatto censito persino dal rapporto Ocse 2021 che ha evidenziato come «i migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione». Siamo un Paese di immigrazione, con oltre cinque milioni di stranieri residenti (Istat, 2020), in valore assoluto dopo la Germania (che ne ha oltre 10 milioni), il Regno Unito (con oltre 6 milioni) e con un numero di presenze analoghe a quelle francesi e spagnole. Per l’Italia il loro contributo all’economia vale quasi 144 miliardi, il 9 per cento del Pil che è tornato a crescere e così l’occupazione straniera. Il tasso di occupazione degli stranieri è oggi al 57,8 per cento, ancora leggermente inferiore rispetto a quello degli italiani (58,3 per cento). La maggior parte di questa “ricchezza” si concentra nel settore dei servizi, ovvero il comparto che registra il maggior numero di occupati stranieri. Se, invece, osserviamo l’incidenza per settore, i valori più alti si registrano in agricoltura (17,9 per cento), ristorazione (16,9) ed edilizia (16,3).
A calcolare l’impatto del lavoro degli stranieri sull’economia italiana è la Fondazione Leone Moressa, nel Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Dalla salute alla scuola, dai servizi sociali all’assistenza, il rapporto calcola i “costi medi” della presenza straniera ovvero l’incidenza sulla spesa pubblica, e la confronta con il gettito fiscale e contributivo generato dagli immigrati. Dati che aiutano «a sfatare il luogo comune secondo cui la presenza immigrata in Italia sia principalmente un costo per lo Stato», spiega il ricercatore della Fondazione, Enrico Di Pasquale.
Il nostro è un Paese che sta morendo di vecchiaia. I piccoli centri sono sempre più spopolati, senza lavoro, le scuole chiudono. Gli stranieri in Italia, per la prima volta in vent’anni, sono in calo. Nessuno si ferma abbastanza per restare: hanno accesso limitato alle risorse del welfare e al riconoscimento sociale e politico. Per la propaganda rappresentano il centro di ogni problema. Ma il futuro dell’Italia non è immaginabile senza di loro. I dati si sviluppano come una fotografia in negativo sul saldo che riguarda cittadini giovani e anziani, che negli ultimi vent’anni si è ridotto di 4,6 milioni (da 23,8 a 19,2). Cioè sono sempre meno le persone tra i 20 e i 50 anni, quelle nella cosiddetta età per il mercato del lavoro. Un deficit che la presenza di stranieri ha compensato solo in parte, passando nello stesso periodo da 900 mila a 3 milioni.
Se apriamo lo sguardo non solo ai migranti in arrivo via mare e successivamente collocati nei centri di accoglienza in Italia (80 mila presenze a fine 2020), ma a tutti i residenti regolari con cittadinanza straniera (5,2 milioni di persone, di cui oltre 2,2 milioni di occupati) possiamo capire l’importanza della loro presenza vitale.
Gli stranieri non sono «un costo», come ripetuto durante la campagna elettorale. Alla sanità sono costati 6,1 miliardi di euro su 130 miliardi di spesa complessiva. Un’incidenza bassa che ha precise ragioni demografiche. Secondo il ministero della Salute la metà dei ricoveri in ospedale riguarda la popolazione con più di 65 anni, dove appena l’1,8 per cento è straniero. E così anche i ricoveri degli immigrati sono più brevi, riguardano i reparti di pronto soccorso e maternità.
I figli di stranieri nati nel nostro Paese oggi sono quasi un milione. Nati e cresciuti in Italia ma con il Ghana, la Nigeria e la Somalia nei volti. Sono ragazzi che parlano con l’accento della città che abitano da sempre, che vanno a scuola - quando sono messi in condizione di andarci - coi nostri figli. Nelle classi superano ormai il 10 per cento (877mila nell’anno 2019-2020). Un beneficio per la sostenibilità di un sistema scolastico che altrimenti risentirebbe del calo demografico nazionale, il rapporto Moressa attribuisce alla presenza straniera 6 miliardi di euro di spesa sul totale di 58 miliardi. Inoltre nell’anno scolastico 2019/20 per la prima volta gli alunni stranieri iscritti al liceo superano quelli iscritti agli istituti professionali.
Aumentano anche gli imprenditori immigrati, pari al 10 per cento del totale. In dieci anni (2011-21), gli immigrati sono cresciuti (+31,6 per cento) mentre gli italiani sono diminuiti (-8,6 per cento). Incidenza più alta al Centro-Nord e nei settori di costruzioni, commercio e ristorazione.
L’immigrazione resta ai fatti una questione di risorse: l’Italia ha incassato dagli stranieri residenti 3,7 miliardi di Irpef, comprese addizionali comunali e regionali, su un volume di redditi dichiarato pari a 27,1 miliardi. Sulla base delle rilevazioni sui consumi che indicano per gli immigrati una spesa prevalentemente di sussistenza, il rapporto calcola 3,2 miliardi di Iva, pari al 3 per cento di tutta quella riscossa in Italia. Altri 3,3 miliardi arrivano dalle altre imposte sui beni di consumo, dai tabacchi ai rifiuti, dall’auto al canone tv. Considerando poi che solo il 14 per cento degli stranieri ha una casa di proprietà, Imu, Tasi, Tari e imposte su luce e gas ammontano a 1,9 miliardi di gettito. Tra rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno (2,3 milioni) e acquisizioni di cittadinanza (131 mila nel 2020) gli immigrati pagano tasse per 200 milioni di euro. Sono una risorsa anche i contributi previdenziali e sociali versati dagli stranieri, che secondo il rapporto Inps 2022 valgono 15,9 miliardi. Tutto sommato, le entrate così calcolate ammontano a 28,2 miliardi, che a fronte di uscite per 26,8 miliardi di euro restituiscono un saldo positivo di 1,4 miliardi.
«Per tornare ai livelli occupazionali pre-Covid, l’Italia avrebbe bisogno di circa 534 mila lavoratori – scrive la Fondazione Moressa nel suo rapporto -. Considerando l’attuale presenza straniera per settore, il fabbisogno di manodopera straniera sarebbe di circa 80 mila unità. La restante quota di lavoratori potrebbe arrivare valorizzando donne e giovani».
È comune l’equazione stranieri e assistenza familiare – le cosiddette badanti – ma è nella sanità che potrebbero giocare un ruolo fondamentale. Per capirlo basterebbe pensare all’anno conclusosi con l’arrivo a Cosenza dei primi 50 medici cubani che dovranno contribuire a sostenere il deficitario sistema sanitario della Calabria. È una storia che retroillumina l’esercito invisibile di medici e infermieri presente nel nostro Paese, professionisti, già formati, nati e cresciuti in Italia, ma senza cittadinanza. E, dunque, impossibilitati a partecipare ai bandi pubblici degli ospedali. Secondo le stime di Amsi (Associazione medici stranieri in Italia) sono circa 77 mila, tra questi 38 mila sono infermieri e 22 mila medici. In particolare, secondo Amsi, negli ultimi anni un numero alto di professionisti sono arrivati dall’Est Europa ma non avendo ancora la cittadinanza italiana sono costretti a lavorare nel settore privato.
Dire no all’Italia multietnica è come opporsi al passare del tempo. I numeri che non conoscono eufemismi e mezzi toni ci dicono che il Paese crollerebbe precipitosamente, chiuderebbero le fabbriche, si bloccherebbero i cantieri edili. Certo, sono criteri di convenienza. I migranti non sono semplicemente forza lavoro. Prima, però, chi governa dovrebbe avere in mente dove stiamo andando e come possiamo salvarci. Mettendo ordine nel lavoro precario con salari adeguati, agevolando il riconoscimento dei cittadini che sono già italiani. Non è politica, è affrontare la realtà. Fare un muro per non vedere la direzione della storia non serve a nulla.
Altro che accoglienti con gli immigrati, ora i dem pestano i piedi. Talebani dell'accoglienza quando gli fa comodo: ora i sindaci dem polemizzano col Viminale e fanno fatica ad aprire i porti. Il sottosegretario Ferro: "Predicano accoglienza purché lontano dal loro giardino". Andrea Indini il 9 Gennaio 2023 su Il Giornale
Talebani dell'accoglienza ma non nella propria città. Eccoli i moralisti radical chic, sindaci sinistrorsi di casa nel Partito democratico: trecentosessantaquattro giorni a professare i porti aperti, a difendere ciecamente le ong, ad attaccare i bruti razzisti del governo Meloni e poi, nel trecentosessantacinquesimo giorno, quello in cui toccherebbe a loro farsi carico degli immigrati, si scoprono addirittura più sovranisti di Matteo Salvini. Ed eccoli lì a berciare contro il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi accusandolo di "indirizzare le navi delle ong solo sui porti delle città guidate dal Pd". I soliti furbetti, insomma. Tali e quali agli Stati del Nord Europa: accoglienti quando tocca all'Italia fare entrare i barconi, barricaderi quando gli stranieri vanno ricollocati.
"Ma davvero i sindaci di sinistra delle città con porti casualmente lontani qualche centinaio di chilometri dal Canale di Sicilia si lamentano se Piantedosi gli manda qualche nave con i loro amati migranti?", si è chiesto ieri il leghista Claudio Borghi. Domanda che probabilmente si sono posti molti italiani nel sentire il governatore dem Stefano Bonaccini lamentarsi col Viminale perché le navi non vengono più destinate nei porti del Sud Italia. "È un governo abbastanza curioso - ha infatti detto - perché sta mandando le navi con i migranti in porti lontani rispetto a dove potrebbero attraccare". Poi, quando Borghi l'ha messo in difficoltà, è pure andato su tutte le furie. "È un provocatore di professione", ha sbottato su Twitter.
Ovviamente, all'interno del Pd, Bonaccini non è l'unico a lamentarsi. Oggi la panna è montata. "È rischioso portare questi migranti lontano", ha detto a Radio Cusano Campus Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e coordinatore nazionale dei primi cittadini dem. "Ogni logica di salvataggio dovrebbe portare a salvare queste persone nel porto più vicino - ha, quindi, incalzato - il fatto che comincino ad arrivare le navi al Nord è strano dal punto di vista umanitario e del soccorso". La richiesta avanzata al Viminale è che "l'accoglienza sia ben distribuita". Al Nazareno è quindi cambiata l'aria. Niente più accoglienza senza se e senza ma. I "ma", adesso, sono proprio loro a sollevarli. Il sindaco di Livorno Luca Salvetti, per esempio, pur ammettendo che "la maggior parte degli scali marittimi fuori da Sicilia e Calabria si trovano in Comuni amministrati dal centrosinistra", su Repubblica ha chiesto a Piantedosi che "vengano coinvolti pure i porti di Civitavecchia, Genova e Venezia".
I distinguo dei dem non sono solo sbagliati nel merito (il Viminale sta assegnando porti più lontani per ostacolare le ong e per "liberare" la Sicilia e la Calabria), ma svelano una volta per tutte il vero volto dei talebani dell'accoglienza. La sinistra, infatti, come ha fatto notare il sottosegretario all'Interno Wanda Ferro, è affetta dalla classica soffre sindrome nimby: "Predica accoglienza purché lontano dal suo giardino". In Europa - lo sappiamo da tempo - ne sono affetti in tantissimi, soprattutto nei Paesi d'Oltralpe. In Italia - ne abbiamo la riprova oggi - questo malanno si è propagato in tutto il Partito democratico.
Il bianco e il nero. "Specchio per le allodole". "Pregiudizio ideologico". Le Ong dividono i sindaci. Ecco le opinioni del sindaco di Pesaro, Matteo Ricci (Pd) e del primo cittadino di Cagliari, Paolo Truzzu (FdI) sul tema dell'immigrazione. Francesco Curridori il 10 Gennaio 2023 su Il Giornale
Il tema dell'immigrazione torna a dividere il mondo politico. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo raccolto le opinioni di due vicepresidenti dell'Anci, il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci (Pd) e il primo cittadino di Cagliari, Paolo Truzzu (FdI).
È favorevole al nuovo codice per le Ong?
Ricci: "Sulle ONG il governo ha un pregiudizio ideologico. Credo che le modifiche siano contestabile dal punto di vista umano e del rispetto del diritto internazionale, perché la ragione dell’aiuto umanitario è ancora difesa da codici internazionali che nessuna legge nazionale può cancellare".
Truzzu: "Sì, perché dobbiamo fare in modo che vengano evitate le partenze indiscriminate dalle coste del nord Africa: le Ong sono ormai diventate una sorta di specchietto per le allodole. Soprattutto nessuno dei Paesi a cui appartengono le navi Ong si fa carico dell’accoglienza, con il risultato che i problemi restano sempre a carico dell’Italia".
Cosa pensa della polemica innescata dai sindaci del centrosinistra per quanto riguarda le destinazioni delle navi Ong?
Ricci: "La cosa importante è che l’accoglienza sia diffusa e non concentrata in pochi comuni. È curioso che si facciano fare tanti chilometri a delle navi con a bordo persone in condizioni di salute, spesso, molto precarie. È rischioso trasportare questi migranti lontano, ogni logica di salvataggio dovrebbe portare a salvare queste persone nel porto più vicino. Inoltre è fondamentale che non ci siano meccanismi discriminatori nei confronti delle Ong, se ci sono persone da salvare non vanno fatte distinzioni tra i soggetti che lo fanno"
Truzzu: "È una polemica senza senso. Ogni città, nel corso di questi anni, ha accolto centinaia e centinaia di migranti che poi si sono persi nel nulla. È cosa nota".
Voi sindaci siete attrezzati ad accogliere nuovi migranti?
Ricci: "Su quelle navi ci sono tante persone disperate, disposte a tutto per cercare un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie, anche a rischiare la vita. Noi non ci tireremo indietro, come sempre, e faremo sicuramente la nostra parte per accoglierli, ma i sindaci e i comuni non possono sostituirsi allo Stato: ricordiamo che l’accoglienza è a carico del Ministero dell’Interno. Deve essere garantito il criterio dell’accoglienza diffusa: qualche anno fa avevamo stabilito il criterio del 3per1000 (tre migranti ogni mille abitanti ndr), per rendere l’accoglienza meno complicata e favorire l’integrazione".
Truzzu: "Noi facciamo il possibile e talvolta anche l'impossibile ma siamo già al limite. Detto questo, sarebbe interessante capire chi ha effettivamente diritto di arrivare qui e chi no. E capire se in questi anni abbiamo fatto realmente accoglienza, cioè offerto opportunità, oppure messo solo pezze. Per me è più la seconda".
Oggi la Meloni incontra la Von Der Leyen. Se lei fosse al posto del premier italiano, cosa chiederebbe al presidente della commissione europea?
Ricci: "Sull’immigrazione chiederei la cosa più ovvia, cioè che non sia un problema esclusivamente nostro. Il “sovranismo” di alcuni Paesi europei è un grande problema per l’Italia. dei Più in generale affronterei la questione del PNRR: dall’agenda politica sono scomparse le riforme per ottenere le altre trance dei fondi e non possiamo rischiare di perderli".
Truzzu: "Mi piacerebbe esistesse maggiore coesione tra tutti gli stati membri su materie come energia, immigrazione clandestina, temi economici. Ma con Giorgia Meloni siamo in ottime mani, per cui sono molto tranquillo".
Trattato di Dublino e legge Bossi-Fini. Cosa cambiare e come?
Ricci: "Nel nostro Paese è difficile entrare in maniera legale, perché c'è una norma come la Bossi-Fini che non permette una gestione di flussi regolari e su questo tema si può fare molta propaganda. In questo momento non abbiamo nessuna emergenza, è un fenomeno fisiologico e dobbiamo gestirlo cercando di stabilire dei criteri che consentano a tutti di gestire l'accoglienza. La Bossi-Fini andrebbe abolita, nei fatti incentiva l’ingresso in clandestinità. Se la sinistra non avesse avuto paura della paura si sarebbe già fatto. Ora con la destra che invece fa leva sulla paura stessa, diventa impossibile. Ovviamente bisogna rafforzare il sistema di accoglienza e integrazione. Avremmo bisogno di un'immigrazione regolare e formazione professionale anche per mettere a terra gli investimenti del Pnrr, visto che abbiamo bisogno di manodopera".
Truzzu: "Sono questioni complesse, tuttavia bisogna rivedere i criteri complessivi dell’accoglienza perché non tutti sono profughi anzi, si parla solo del 10%. Ci vuole un accordo politico tra tutti gli stati membri almeno per la redistribuzione. Senza, la modifica del trattato non risolve di un millimetro i problemi sul campo. Ma la questione vera è stringere un patto con i paesi del nord Africa per evitare partenze indiscriminate verso l’Italia, a partire dalla Libia, e per offrire opportunità di crescita e sviluppo in quelle terre. Una volta che i migranti giungono sul suolo italiano cominciano i problemi. E abbiamo visto come sia difficile gestirli. E non abbiamo certo risolto i problemi sulla sponda sud, perchè chi non può permettersi un viaggio della speranza è condannato per sempre. Chi non lo ammette vuole nascondere la testa sotto la sabbia".
Bruxelles invasa da migliaia di migranti. Ma il governo belga fa finta di nulla. Marco Valle l’8 gennaio 2023 su Inside Over.
Paradossi natalizi. Il centro di Bruxelles, capitale del Belgio e sede dell’Unione Europea, assomiglia sempre più ad un accampamento di poveracci. Ogni sera le scintillanti gallerie commerciali, i mercatini di Natale, gli ingressi delle stazioni ferroviarie, le fermate della metropolitana e degli autobus si trasformano in un penoso bivacco di disperati. Afghani, siriani, eritrei, arabi d’ogni nazionalità montano le loro povere tende o si coprono con cartoni nella speranza di superare alla meno peggio la fredda notte nordica. Domani, poi, si vedrà. Uno spettacolo del tutto inusuale per il pingue Belgio.
Resta il fatto che il governo di coalizione guidato dal liberale Alexander De Croo si è ritrovato assolutamente impreparato di fronte alla nuova, imprevista ondata di richiedenti asilo — una massa di 6-7000 persone — e fatica a trovare una risposta, una soluzione. Dei ricoveri e degli aiuti.
Perché? Dopo l’arrivo nel 2015 dei tantissimi profughi siriani e la concessione quest’anno a sessantamila ucraini di una “protezione temporanea”, non vi sono più strutture disponibili e manca anche il personale adeguato a gestire l’ennesima emergenza. Persino la molto accogliente sindaca socialista di Molenbeek, uno dei comuni più poveri e multietnici della regione di Bruxelles, ha gettato la spugna rifiutando di trasformare un centro d’accoglienza provvisoria municipale in uno spazio permanente.
Va aggiunto, ed è un dato da non sottovalutare, che l’opinione pubblica belga, soprattutto quella di lingua fiamminga, questa volta è rimasta quasi del tutto indifferente agli appelli delle organizzazioni umanitarie e della Corte europea per i diritti sia alle proteste del molto sinistroso partito ecologista Ecolo-Groen. Persino i socialisti, parte integrante della coalizione governativa, hanno preferito glissare sulla questione scaricando colpe e responsabilità sugli alleati cristiano-democratici fiamminghi — in primis su Nicole de Moor, segretaria di Stato sull’immigrazione e figura di punta del partito — e sui liberali francofoni del Mouvement Réformateur. Al tempo stesso il leader socialista Paul Magnette continua a ribadire che la tenuta del governo non è in discussione e si va avanti sino alle elezioni del 2024.
Un atteggiamento pilatesco che ha più ragioni. Attualmente il regno è attraversato da forti tensioni economiche e sociali — aumento dei prezzi energetici, riforme fiscali, potere d’acquisto —, il malcontento cresce e nessuno dei governisti ha fretta di aprire una crisi e d’andare alle urne.
In più la pressione dei “sans-papiers” è divenuta sempre più insostenibile per larga parte della popolazione che, soprattutto, nelle ricche ma conservatrici Fiandre guarda con sempre più simpatia al Vlaams Belang (Interesse fiammingo), il partito nazionalista e indipendentista alleato della Lega e dei lepenisti francesi al Parlamento Europeo.
Nonostante il “cordone sanitario” — nessun dibattito, nessun confronto pubblico, nessuna convergenza — che i partiti tradizionali hanno serrato attorno al movimento di Tom Van Grieken, il Vlaams Belang è ormai il primo partito nel settentrione del Belgio anche grazie (o soprattutto) alle sue politiche anti migratorie e identitarie. Da qui la prudenza di De Croo e la riluttanza dei Cristiano-Democratici fiamminghi, ormai in caduta libera, a porre in primo piano la questione dei clandestini e il rifiuto della signora de Moor di coinvolgere l’Agenzia federale per le domande d’asilo (Fedasil) e, così, spalmare su novanta comuni del regno i clandestini requisendo stabili e investendo altre risorse. Meglio per tutti (o quasi) confinare il problema nella capitale dove i migranti continuano ad affluire attendendo, a torto o ragione, una sistemazione e un riparo.
Piccoli calcoli elettorali che non risolvono di certo una situazione ormai incancrenita che vede intere zone del Paese trasformate in un “Belgistan” pericolosamente fuori controllo. A farne le spese sono i disgraziati di oggi, abbandonati nelle strade di Bruxelles, ma tra un anno il conto potrebbero pagarlo proprio gli attuali partiti di governo. E sarà molto salato.
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Valentina Raffa per “il Giornale” il 4 gennaio 2023.
Il 2023 inizia col botto di migranti: più di 800 soltanto nelle ultime ventiquattro ore. Gli ultimi sono 546 che erano a bordo di un peschereccio individuato dalla guardia costiera e dalle Fiamme gialle a circa 26 miglia a sud-est dalle coste di Siracusa. Sono stati fatti sbarcare ieri in 198 a Catania dalla nave Dattilo della Guardia costiera che li aveva presi a bordo, in 196 al molo Norimberga del porto di Messina, e i restanti 152 a Roccella Jonica.
Sono di varie nazionalità (pakistani, egiziani, siriani, bengalesi, afgani e iraniani) e tra loro ci sono parecchi nuclei familiari, alcune donne incinte e con bambini a seguito e minori non accompagnati. Dopo circa due ore dal loro arrivo, a Roccella Jonica si è registrato un altro sbarco a seguito di un intervento in mare della Guardia di finanza che ha recuperato 78 migranti, iraniani e afgani.
In questo gruppo ci sono una quindicina di donne, tra cui due incinte e una ventina di bambini piccoli. In attesa della destinazione definitiva, tutti gli approdati nello scalo calabrese sono stati sistemati nella tensostruttura all'interno del porto. Con questi due sbarchi sono già in 320 i migranti giunti a Roccella Jonica fino a ieri. Le strutture di accoglienza sono sotto pressione per l'alto numero di ospiti e le prefetture sono al lavoro per redigere i piani di trasferimento.
Da Lampedusa, ad esempio, ieri sono partiti in due distinti viaggi in 200 per Porto Empedocle, da dove poi raggiungeranno la destinazione definitiva nei vari centri sparsi per lo Stivale. Ieri nell'hotspot dell'isola gli ospiti erano 1.208 a fronte di una capienza di 350 posti. Qui gli arrivi non hanno conosciuto sosta. Basti pensare che in 24 ore sono arrivati 500 migranti che viaggiavano su diversi barconi tutti partiti da Sfax, in Tunisia. A questi sbarchi si aggiungono quelli dalle navi Ong.
Proprio stamattina è previsto l'arrivo a Taranto della Geo Barents di Medici senza frontiere. A bordo ci sono 85 migranti dei quali 41 sono stati raccolti in mare dalla nave Ong in un'operazione difficile visto che il barchino si è ribaltato durante l'intervento, mentre 44 sono stati trasbordati da un mercantile.
Operazioni eseguite su richiesta dell'Imrcc, tiene a precisare la Ong, anche alla luce delle nuove regole sugli interventi delle Ong stabilite dal governo.«Un ragazzo ci ha raccontato di aver visto con i propri occhi persone essere uccise davanti a lui perché non avevano abbastanza soldi per pagare il viaggio», ha raccontato Fulvia Conte, responsabile dei soccorsi sulla Geo Barents.
L'anno, dunque, con 1.651 approdi in tre giorni, secondo i dati ufficiali del Viminale, è iniziato all'insegna della continuità con il 2022 che ha registrato lo sbarco di poco più di 104mila migranti sulle nostre coste a fronte dei circa 67mila dell'anno precedente, un dato in contrasto con quello spagnolo, che ha visto la diminuzione degli ingressi irregolari nel 2022 del 25,6%, passando da 41.945 arrivi del 2021 ai 31.219 del 2022.
Cambia anche la rotta dei migranti, come spiega il sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna, che ospita nell'hotspot della sua città circa 250 migranti. «Rispetto alle partenze a cui eravamo abituati, ovvero dalla Libia - dice - la parte orientale della Sicilia è interessata da migranti che percorrono una rotta 'orientale'.
Dunque ospitiamo bengalesi, pakistani, siriani, egiziani, ecc. mentre chi proviene dal Corno d'Africa e dalla zona sub-sahariana parte dalla Tripolitania e dalla Tunisia per approdare a Lampedusa», ha fatto sapere il primo cittadino. «È finita l'Italia che fa finta di non vedere chi viola sistematicamente le regole».
Nel giorno in cui il decreto sicurezza che limita l'azione delle Ong viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale ed entra quindi ufficialmente in vigore, Giorgia Meloni pubblica sui social alcune considerazioni in cui spiega la strategia del governo per limitare l'immigrazione irregolare e cercare di regolare l'azione delle organizzazioni non governative attive nel Mar Mediterraneo.
Lo fa proprio nelle ore in cui si verifica una nuova recrudescenza degli sbarchi. Una offensiva, quella dell'esecutivo che si svilupperà anche sul piano amministrativo, attraverso sanzioni pecuniarie fino a 50mila euro, il fermo della nave e, in caso di reiterazione della condotta vietata, la confisca della stessa, preceduta dal sequestro cautelare. «Immigrazione illegale e tratta di esseri umani: è finita l'Italia che si accanisce con chi rispetta le regole e fa finta di non vedere chi le viola sistematicamente» promette Giorgia Meloni.
«Il diritto internazionale non prevede che ci sia qualcuno che può fare il traghetto nel Mediterraneo o in qualsiasi altro mare, e fare la spola per trasferire gente da una nazione all'altra. Le norme vogliono circoscrivere il salvataggio dei migranti a quello che è previsto dal diritto internazionale, con alcune regole abbastanza semplici: se tu ti imbatti in un'imbarcazione e salvi delle persone le devi portare al sicuro, quindi non le tieni a bordo continuando a fare altri salvataggi multipli, finché la nave non è piena». Altrimenti in questo caso «non è salvataggio fortuito di naufraghi».
La presidente del Consiglio sottolinea anche la necessità che sia chiara l'identità e la funzione delle navi che operano nel Mediterraneo e vengano rispettati principi di assoluta trasparenza. «Ci dev' essere coerenza tra le attività che alcune navi svolgono nel Mediterraneo e quello per cui sono registrate: navi commerciali che si mettono a fare la spola per il salvataggio dei migranti è una cosa che stride abbastanza. Poi servono screening di chi è a bordo, informazioni chiare sui meccanismi di salvataggio, regole per impedire che nel raccogliere queste persone a bordo non si metta a repentaglio la sicurezza dell'imbarcazione cui ci si avvicina».
Infine, conclude: «Se tali regole non vengono rispettate, non c'è autorizzazione a entrare in acque internazionali e se si viola quell'autorizzazione, si procede con fermo amministrativo dell'imbarcazione la prima volta per due mesi, la seconda con sequestro ai fini della confisca. Lo facciamo anche per rispettare i migranti, perché qualcuno se sta rischiando la vita ha diritto ad essere salvato, ma cosa diversa è farsi utilizzare dalla tratta degli esseri umani del terzo millennio e continuare a far fare miliardi a scafisti senza scrupoli». La linea dettata dall'esecutivo viene condivisa dal vicepresidente del Senato ed esponente di Forza Italia, Maurizio Gasparri.
«Condivido assolutamente la stretta sulle Ong. Da tempo sono impegnato su questo versante e avevo contribuito in passato alla discussione che portò al regolamento sulle Ong stilato dai precedenti governi. Questi centri sociali del mare, così li ho sempre definiti, svolgono una funzione nefasta, di sostegno ai trafficanti di persone e di danno per l'Italia. Il decreto deve essere applicato in maniera decisa fin da queste ore per porre fine a queste attività assolutamente al di fuori delle norme internazionali, attività che devono essere volte al salvataggio dei naufraghi, non a una spola nelle acque del Mediterraneo per favorire i viaggi della speranza».
I dati aggiornati del Viminale. da cinque anni non si superava il muro dei centomila. All'epoca intervenne Minniti. Il Tempo il 21 dicembre 2022
L'emergenza immigrazione tocca una nuova vetta. Sono oltre 100 mila (nel dettaglio, 100.354) i migranti sbarcati sulle coste italiane dall’1 gennaio ad oggi, il 56,6% in più rispetto ai 64.055 dello stesso periodo dell’anno passato; nel 2020, nell’anno della pandemia, erano stati 33.687. È quanto emerge dal «cruscotto statistico immigrazione» del Viminale, aggiornato alle 8 di stamane (con l’avvertenza che «i dati sono suscettibili di successivo consolidamento»).
Con riferimento alla nazionalità dichiarata al momento dello sbarco, i migranti sbarcati nel nostro Paese provengono, nell’ordine, da Egitto (20%), Tunisia (18%), Bangladesh (14%), Siria (9%), Afghanistan (7%), Costa d’Avorio (6%), Guinea (4%), Pakistan (3%), Iran (2%) ed Eritrea (25). I minori stranieri non accompagnati sbarcati quest’anno (dato aggiornato al 19 dicembre) sono 12.505, contro i 10.053 dell’intero 2021 e i 4.687 dell’intero 2020.
Era dal 2017 che non si superava il muro dei centomila arrivi sulle coste italiane. In quell'annoi migranti arrivati via mare furono poco meno di 12omila. Nello stesso periodo l'allora ministro degli Interni Marco Minniti avviò un memorandum con la Libia che l'anno successivo avrebbe fatto crollare sotto trentamila il numero degli sbarchi.
MIGRANTI L’HOTSPOT FANTASMA. Domenico Pecile su L’Identità il 20 Dicembre 2022
Nel dicembre del 2021 i medici di Asugi, che effettuano i rilievi medici, avevano visitato a Fernetti 160 migranti. Quest’anno, 162 migranti sono stati sottoposti a visite mediche soltanto nei primi due giorni di questo mese di dicembre. Ecco la riprova che lungo la rotta balcanica si sta registrando un’impennata impressionante di arrivi: +167% secondo i dati di Frontex. E il terminale italiano di questa incessante processione di disperati è Fernetti, il primo confine italiano a una manciata di chilometri da Trieste: una caserma, quattro container, altrettanti bagni chimici, niente acqua calda e quella da bere la si attinge da una gomma da giardino. Nella caserma lavorano a turno 14 poliziotti. In trincea da mesi e mesi. Setacciano i confini alla ricerca di migranti (“ci sentiamo degli aspirapolvere”, commentano) e li conducono nei container. Due sono adibiti al primo ricovero, hanno 35 posti a sedere in tutto ma sono riusciti a contenere anche un centinaio di persone, il terzo per le visite mediche e l’ultimo è l’ufficio dei poliziotti per le partiche amministrative di riconoscimento e quant’altro. “Un vero e proprio hot spot – dichiara il segretario regionale del Siap del Fvg, Pier Paolo Zanussi – anche se non è mai stato riconosciuto come tale al pari di Lampedusa, Pozzallo, Messina a e Taranto”. Eppure, Fernetti adempie agli stessi compiti, ma in condizioni nettamente peggiori. A Lampedusa, ad esempio, operano esperti delle Agenzie come Frontex, Europol, Eurojust. “Quando a Lampedusa è in arrivo una nave – aggiunge Zanussi – hanno tutto il tempo per organizzarsi e quando i nostri colleghi devono effettuare l’iter di registrazione, queste persone sono già state visitate, rifocillate, vestite. Qui arrivano alla spicciolata, giorno dopo giorno, li rintracciamo a tutte le ore e a noi sono accollati compiti che non solo non ci spettano ma non abbiamo il tempo necessario per adempierli nonostante l’aiuto di sanitari, Caritas e volontari. Questo è un vero e proprio hot spot, ma nessuno lo vuole ammettere perché la nostra è considerata frontiere interna”. Trieste e Gorizia, tramite i questori e i prefetti oltre un mese fa hanno chiesto la realizzazione di un hot spot, ma di quelli veri e riconosciuti da Roma, per alleviare una situazione che si sta facendo via via più difficile. Il Governo aveva detto di sì, la Regione aveva cantato vittoria, ma non si è visto ancora nulla. La polizia di frontiera non ha dubbi. “Hanno già questo di hot spot anche se lo tengono sotto traccia” E dopo l’iniziale entusiasmo tutto tace. Anzi, non tutto. Perché un primo no all’hot spot è arrivato dal sindaco di Trieste, Roberto Di Piazza. In un video su Fb ha detto che “Tutti mi chiedono di fare qualcosa per gli extracomunitari visto che in città so9no ovunque, ma dove li abbiamo messi hanno distrutto tutto, come al campo scout di Prosecco. Allora perché dobbiamo spendere i soldi dei cittadini italiani, perché dobbiamo fornire assistenza se poi si comportano in questo modo, perché devo andare a cercare altri posti per sistemarli se poi distruggono tutto, servizi igienici compresi? A questo punto allora io non faccio nulla per loro”. Ma neppure il primo cittadino i Gorizia, Rodolfo Ziberna, è favorevole all’hot spot. “Mi dicono – sostiene – che i prefetti avevano trovato uno o più citi, ma a me non risulta. Di certo, il territorio di Gorizia non se lo potrebbe permettere. Abbiamo il Cara di Gradisca d’Isonzo strapieno (600 immigrati anziché 250 come previsto, ndr) , mentre nella stessa Gorizia gli accampamenti di fortuna non si contano più. Un problema serissimo quello dei minori, che abbisognano di spazi diversi e che hanno costi diversi. Pochi giorni fa per collocarne due ci siamo rivolti a Salerno perché i Centri per minori non accompagnati del Nord Italia erano tutti saturi. Che fare? Uniformare il trattamento: minori e adulti devono essere gestiti dalle prefetture, mentre adesso i minori se li accollano i Comuni”. E così, grazie all’hot spot fantasma di Fernetti, il Governo ha cambiato tiro. E ha deciso di puntare in maniera perentoria sui respingimenti e le riammissioni. Ma anche questa strada è punteggiata da ostacoli. Il Governo si è precipitato a dettare la linea dura, riattivando quelle che in gergo tecnici sono definite “riammissioni informali”. Nella sua nota, il Ministero degli Interni ha chiesto di adottare “ogni 8n8ziativa volta a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza lungo la fascia confinaria”. Tuttavia, la polizia di frontiera di Fernetti fa notare due cose. Prima: i respingimenti necessitano di ulteriori compiti burocratici a discapito di quelli di sorveglianza dei confini. Seconda: i primi respingimenti (una tragica catena tra Italia, Slovenia e Croazia) sono andati quasi tutti a vuoto. “In questi giorni su una cinquantina di riammissioni tentate – dice ancora Zanussi – ne sono andate a buon fine forse due o tre. E questo soprattutto perché neppure gli sloveni sanno dove sistemare gli immigrati”. E una dura condanna alla politica dei respingimenti è arrivata da Dasi (Diritti, accoglienza, solidarietà), secondo cui si tratta di “una misura illegittima come da sentenza del Tribunale di Roma. I respingimenti informali sono impossibili da attuare e infatti il Governo non fornisce dati, ma sappiamo che rappresentano un numero irrisorio. E gli immigrati non vengono riaccompagnati fino in Bosnia e fuori dall’Europa perché Slovenia e Croazia non adottano più quel provvedimento”.
Quelli che…porti chiusi.
L’Invasione.
Agenzia di viaggi illegale.
La Pirateria.
Lo Sfruttamento.
Le Torture.
Le Nuove norme.
Le Disgrazie.
Le Barriere.
La richiesta di asilo.
La Nazionalità.
La Grecia.
Ventimiglia.
La Stretta sulle ONG.
Processo Open Arms.
Estratto dell’articolo di Ilvo Diamanti per “la Repubblica” venerdì 1 dicembre 2023.
Lo straniero fa di nuovo paura. È quanto emerge dal recente sondaggio di Demos-Fondazione Unipolis per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza. Dopo alcuni anni di “quiete”, durante i quali la percezione degli immigrati si era “sdrammatizzata”, nell’ultimo anno il clima d’opinione è nuovamente cambiato.
E nel 2023 la quota di persone che, in Italia, ritiene gli immigrati “un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” è risalita in misura rilevante. Raggiungendo il 46%. Si tratta del dato più alto dal 2007. Quando aveva toccato il 51%. Per scendere, o meglio: cadere, al 26% nel 2012-2013. In seguito, il grado di preoccupazione è risalito al 43%, tra il 2017 e il 2018. Per calare vistosamente in seguito […]
Livelli abbastanza elevati (35%) si osservano anche quando gli immigrati vengono valutati come “un pericolo per la nostra cultura, identità e religione”. Mentre la preoccupazione appare molto più limitata in rapporto “all’occupazione”. Questa differenza riflette un atteggiamento “consapevole”. In quanto è, ormai, evidente che nelle aziende il “lavoro manuale” è svolto, in molti casi, da “stranieri”. Spesso, immigrati.
Fra le ragioni che spiegano le variazioni degli ultimi vent’anni appare importante il peso che questo tema ha avuto nelle campagne elettorali. Il 2008 e il 2018, infatti, coincidono con le elezioni politiche e legislative. Quando, nelle Regioni del Nord, nel 2008, la Lega ottiene fra il 18% e il 22% Mentre nel 2018 sale sensibilmente, e si avvicina al 30%. […]
Utilizzando come “principale”, anche se non unico, argomento nelle campagne elettorali, la presenza degli stranieri. Gli immigrati, sempre più numerosi, che mettono in pericolo la nostra sicurezza. La nostra identità. In seguito, però, questo sentimento si alleggerisce.
Anzitutto, perché diventa chiaro come gli immigrati siano utili, talora essenziali, per il nostro sistema produttivo. In secondo luogo, perché altri motivi compongono il profilo delle nostre paure. Come è stato dimostrato, nel corso degli anni, dalle ricerche condotte da Demos con Unipolis. Le crisi economiche, il virus, le guerre, infatti, hanno lasciato sullo sfondo l’immigrazione, ridimensionata anche dai media. Nell’ultimo anno, però, gli immigrati sono tornati sulla scena delle nostre paure.
Di certo non ci troviamo di fronte a un’invasione. Peraltro, i principali flussi migratori non provengono dall’Africa. Ma dall’Est Europa, spinti dalle guerre. E da una domanda crescente di figure professionali, che in Italia non trova risposta adeguata. In particolare, l’assistenza alle famiglie e agli anziani.
[…]
L’attenzione dei media, in tal senso, è comunque cresciuta, come attesta il Rapporto annuale dell’Associazione Carta di Roma, che verrà pubblicato nelle prossime settimane. Per effetto di eventi tragici, come il naufragio avvenuto a Cutro, lo scorso febbraio, nel quale morirono circa 100 persone. E per le iniziative, conseguenti, avviate dal governo, anzitutto dal ministro Matteo Piantedosi.
Tuttavia, fra i diversi motivi che generano le nostre paure, tracciati dal recente Rapporto dell’Osservatorio Europeo sulla sicurezza di Demos-Unipolis (che verrà presentato il prossimo 6 dicembre, anche sul sito di Repubblica ), l’immigrazione conta in modo — relativamente — limitato. Infatti, solo il 6% degli italiani lo considera il primo problema che incombe. Metà rispetto a quanti indicano come prioritario il tema della qualità dei servizi. E oltre 6 volte in meno dei “problemi economici”, che preoccupano il 39% del campione.
Inoltre, il grado di inquietudine non è “trasversale”, ma coinvolge soprattutto le fasce di popolazione più esposte, sul piano professionale. Come i disoccupati e gli operai. E le persone con minor grado di istruzione. Mentre preoccupa molto meno i più giovani e gli studenti.
Le differenze più significative, com’era prevedibile, emergono quando si osserva l’orientamento politico degli intervistati. Rispetto ai temi dell’ordine pubblico e dell’identità, infatti, il grado di preoccupazione cresce soprattutto fra gli elettori di Centro Destra. E raggiunge i valori massimi nella base della Lega. Parallelamente, scende, in misura rilevante, fra chi vota per i partiti di Centro Sinistra e del M5s. […]
Gli stranieri, dunque, fanno ancora paura. Ma, in questi tempi, le paure cambiano spesso. Così siamo in attesa della prossima paura. Nei prossimi giorni...
Video dai barconi, like e seguaci: la trappola social dei trafficanti "influencer". Marco Leardi il 22 Settembre 2023 su Il Giornale.
Trafficanti e intermediari dell'immigrazione illegale utilizzano i social per attirare "clienti". Tra video emozionali, condivisioni e inviti a partire, i loschi faccendieri usano le tecniche degli influencer
Tabella dei contenuti
Trafficanti influencer, così agiscono sui social
I post per attirare "clienti"
La propaganda virtuale sui viaggi a Lampedusa
I video su richiesta e gli interessi criminali
La trappola social
L'immigrazione a portata di like
"Vi offriamo i migliori viaggi, il miglior trattamento e i migliori prezzi". Sui social network reclamizzano i loro "servizi" come fanno gli influencer. Pubblicizzano sé stessi con immagini d'impatto, pensate proprio per la massima diffusione. Per ottenere condivisioni, like e commenti. Ormai i trafficanti di esseri umani e gli intermediari dell'immigrazione clandestina non agiscono più nell'anonimato, nascosti da un cono d'ombra dal quale uscire solo all'occorrenza. Ora, piuttosto, si muovono indisturbati sul web, utilizzando le più comuni piattaforme per alimentare il loro business criminale.
Trafficanti influencer, così agiscono sui social
Basta fare un giro su Facebook per scovare una quantità preoccupante di profili in cui si offrono viaggi illegali a bordo di gommoni e barchini pronti a sfidare il mare per raggiungere l'Italia. E a colpire è soprattutto la disinvoltura con cui i gestori di queste pagine normalizzano il fenomeno delle partenze, avanzando illusorie promesse di un viaggio "sicuro" e di un futuro più florido. In alcuni casi gli organizzatori delle traversate illecite ricorrono persino a strategie di marketing digitale come la cosiddetta call to action. Ovvero, l'invito all'azione. "Stiamo preparando un viaggio. Chi è pronto mi chiami", si legge sul profilo di uno di questi soggetti - tale Haj Suleiman - con tanto di contatti WhatsApp per finalizzare la partenza in tempi rapidi. E con una raccomandazione perentoria: "Non giochiamo e questa parola è solo per persone serie". Il post è del 6 agosto scorso ma ce ne sono anche altri molto più recenti, dei giorni e delle scorse ore. Il business sulla pelle dei migranti non conosce soste e prosegue imperterrito, come raccontano anche le cronache d'attualità.
I post per attirare "clienti"
"Mandatemi un messaggio privato per qualsiasi richiesta", scrive invece Hajj Mohammed, il quale promette ai suoi quasi 3mila amici social viaggi a bordo di gommoni accessoriati (omettendo però tutti i rischi del mare aperto). "C'è un viaggio la prossima settimana che partirà da una barca in fibra 9 metri, due motori Yamaha 75, dotati di tutto, salvagente, Gps", scrive l'organizzatore di trasferte illecite nel nostro Paese, spiegando che il "viaggio privato" sarà "garantito con 25 persone". Seguono condivisioni e commenti compiaciuti; qualcuno invoca Allah per chiedere la buona riuscita dell'impresa. E c'è anche una precisazione logistica: "La barca è già pronta e si trova in Libia". Come si evince anche dalle geolocalizzazioni social, molte delle partenze avvengono proprio da quel Paese, in particolare dalla città di Zuara o dalla capitale Tripoli.
La propaganda virtuale sui viaggi a Lampedusa
"Quest'anno sarete tutti in Italia e con nuovi prezzi adatti a tutti", promette un altro procacciatore di viaggi verso Lampedusa, che nella biografia social riporta anche il proprio "impiego" con beffarda schiettezza. "الهجرة". Tradotto: immigrazione. Come veri e propri influencer (sì, ma dell'illegalità), anche questi faccendieri di piccolo e medio cabotaggio promuovono i loro contenuti taggando amici o seguaci. Ma anche "spammando" i loro contenuti in alcuni gruppi social frequentati proprio da chi offre o chiede passaggi fuorilegge verso il nostro Paese. Nello storytelling virtuale e ingannevole dei trafficanti, l'Italia diventa così una sorta di immaginario El Dorado, una terra promessa spalancata sull'Europa. E chi arriva sano e salvo (spesso grazie ai salvataggi in mare) diventa a sua volte uno strumento di propaganda social, in una sorta di circolo vizioso in cui le migrazioni andate a buon fine suscitano altre partenze.
I video su richiesta e gli interessi criminali
"Allah è il più grande, Allah è il più grande! Sia lodato Dio: tutti i giovani sono arrivati sul suolo italiano", leggiamo su uno dei profili visionati. E su un altro ritroviamo gli stessi toni enfatici: "Gioia e felicità vengono sempre dopo la stanchezza e la miseria". "Il viaggio è arrivato sano e salvo. Grazie a Dio per la sicurezza dei giovani, in attesa dei video", scrive Hajj Jalal Abdullah ai suoi quasi 5mila amici social. Sì, perché sugli account degli "influencer" delle migrazioni compaiono anche video inviati dagli stessi profughi, con scene di felicità nei momenti dei salvataggi in mare o durante le giornate trascorse negli hotspot. I giovani approdati sulle nostre coste fanno il segno della vittoria e ringraziano chi ha concesso loro di arrivare nel nostro Paese. Si tratta di contenuti probabilmente richiesti a uso e consumo di una narrazione che serve a rappresentare quei loschi faccendieri come i migliori sulla piazza.
La trappola social
Le dinamiche utilizzate sono esattamente quelle di chi frequenta i social per trarre popolarità e profitti; ma in questo caso a essere reclamizzati non sono vestiti o creme di bellezza, bensì viaggi pericolosi e traffici gestiti da organizzazioni criminali senza scrupoli. Proprio come accade agli influencer tradizionali, il passaparola genera poi attenzione e rende certi contenuti virali. Ovviamente, sugli account in questione non viene mai raccontato il vero volto dell'immigrazione illegale, fatto di traversate ad alto rischio, di violenze, di truffe ai danni di qualche povero disperato. E talvolta, purtroppo, di drammatici naufragi. Né vengono menzionati gli interessi malavitosi dei trafficanti, che utilizzano gli esseri umani come carne da barcone: più ce ne sono, più loro guadagnano. Così, quei contenuti social diventano una vera e propria trappola.
L'immigrazione a portata di like
Nei post di chi offre viaggi verso l'Italia raramente si parla di soldi nei dettagli; piuttosto, ci si limita a promettere "prezzi favorevoli" e "risultati garantiti". Le tariffe e le modalità di pagamento si contrattano infatti in privato ma su alcune pagine c'è anche chi chiede apertamente consigli al riguardo. "Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, ho un viaggio via mare dalla Libia all'Italia e mi chiedono 15mila dinari (circa 3mila euro, ndr). È buona o troppa questa cifra? Ho la consapevolezza che non ho nessuno a cui chiedere lì: accettereste o no? Non voglio fare un passo e pentirmene dopo, qualcuni mi aiuti...", si legge ad esempio su un gruppo di aspiranti migranti. Setacciando i social emergono così i contorni di un fenomeno articolato, pericoloso e purtroppo radicatissimo, al punto da mostrarsi senza timori, secondo logiche che mai avremmo pensato di ritrovare quando si parla di vite e di illusioni appese alle condotte criminali. Immigrazione illegale a portata di like.
I social dei trafficanti ora si inventano anche una città fantasma. Francesca Galici il 15 Agosto 2023 su il Giornale.
L'inesistente "Brizzichi" accoglie i migranti con soldi e case gratis. Ma è solo pubblicità
Come funziona la propaganda pro-migrazioni? Si muove su diversi livelli, più o meno efficaci. Il «fattore donna» sembra essere tra i più gettonati, come dimostra una pagina web etichettata come «editori di notizie e media» che abbiamo rintracciato setacciando i canali social e di comunicazione di questo universo sommerso.
L'incipit dell'articolo non lascia spazio a interpretazioni: «Susanna dall'Italia. Ti piace mia figlia? Come molte aspira a sposarsi. Non è strano che i governi diano una somma di denaro a chi sposa una delle nostre ragazze». A corredo dell'articolo, lo scatto di due donne, che dovrebbero essere madre e figlia: una foto che inevitabilmente ha attratto l'interesse dei migranti. «Mi chiamo Noureddine. Voglio unirmi in quel matrimonio, ho 30 anni. Per chi vuole sposarsi con me, questo è il numero Whatsapp». E ancora: «Mi prenoto, vi ho mandato una mail», «Sono Tarek dall'Egitto, voglio sposarla». Non è il primo caso di propaganda che utilizza le donne per convincere i migranti a partire in direzione dell'Europa e, in particolare, dell'Italia. Questo apre diversi scenari in merito ai reati di molestie e violenze che vengono compiuti dagli immigrati ai danni delle donne, trattate come oggetti da conquistare, con le buone o con le cattive.
Nell'articolo viene annunciato che l'Italia è pronta a versare «30mila euro» a chi si trasferirà a «Brizzichi», paese in realtà inesistente del nostro Paese, «nel tentativo di aumentare la popolazione e attrarre più investimenti». «Brizzichi» viene definito nell'articolo come un centro di 5mila anime, che «si distingue per la sua posizione vicino al mare e ai laghi turchesi», abitata fin dal medioevo e nota anche come «città dell'oro verde». Potrebbe essere un centro della Puglia per come viene descritto, ma più verosimilmente della Sicilia, regione che in Nord Africa è più familiare a fronte dei flussi migratori continui nella sua direzione.
Nell'articolo, che assume più che altro contorni pubblicitari per la grande industria delle migrazioni irregolari, non solo ai migranti che sposeranno un'italiana viene promesso l'assegno da 30mila euro ma anche «una casa con una superficie di almeno 50 metri quadri» e la stabilità professionale. Il tutto sarebbe frutto di una strategia di ripopolamento del governo italiano, che «ha fornito agevolazioni agli investitori per l'insediamento in città di attività commerciali». Nemmeno gli italiani hanno diritto a godere di simili privilegi e, infatti, è solo propaganda. Ma quanti fruitori di siti come questo hanno capacità di discernimento per rendersene conto? Quanti, al contrario, sono convinti di arrivare in Italia e di trovare il paese di Bengodi, dove tutto è dovuto e tutto è concesso?
Il sito ha una media di oltre 18mila visualizzazioni al mese, è scritto in lingua araba e crea traffico principalmente dall'Egitto. Si presenta come un riferimento web per i migranti che cercano di raggiungere l'Europa ma anche gli Emirati Arabi e l'America del Nord, informando su fantomatici finanziamenti, come per l'Italia, o agevolazioni per i permessi di soggiorno come, per esempio, per il Canada. Il suo traffico si origina principalmente sui social, dove i singoli articoli vengono condivisi e rimbalzano sulle pagine di chi è pronto a imbarcarsi in direzione del nostro Paese, convincendosi che l'Italia non aspetti altro che loro e trovando all'arrivo una realtà molto diversa. Francesca Galici
La multinazionale dei trafficanti: ecco la rete che spinge i migranti verso l’Italia. Il caso del Bangladesh. Mauro Indelicato su Inside Over il 5 luglio 2023.
Lo scorso anno in Italia dal Bangladesh sono arrivati 14.982 migranti. Si tratta della terza nazionalità più presente nell’elenco delle persone approdate irregolarmente. In questa speciale classifica il Paese asiatico è alle spalle soltanto di Egitto e Tunisia, due nazioni del Mediterraneo da cui ci si può aspettare una fuga di massa verso le coste italiane. Qual è quindi l’origine dell’immigrazione da un Paese così lontano? Come mai dal Bangladesh arrivano più persone che da molte zone dell’Africa o del medio oriente a noi più vicine?
Un Paese dalle tante contraddizioni
C’è un episodio emblematico della storia recente del Bangladesh. Il 24 aprile 2013 nella capitale Dacca un edificio è improvvisamente collassato nell’area di Savar. Il Rana Plaza, questo il nome della struttura, al suo interno conteneva di tutto: appartamenti, uffici, negozi ma soprattutto decine di laboratori tessili. In quel momento nei locali adibiti a officine tessili erano tutti a lavoro. E in pochi si sono salvati: dopo ore di ricerche, il Paese ha pianto 1.134 vittime. Una strage che ha messo in luce le tante contraddizioni del Bangladesh. Qui negli anni sono spuntate un po’ ovunque aziende tessili, molte delle quali collegate anche a tanti marchi famosi in occidente. Segno di una grande potenzialità del Paese, ma anche della sua atavica povertà. Chi è morto all’interno del Rana Plaza lavorava per stipendi molto bassi, in grado di garantire al massimo la sussistenza. In tanti però ancora oggi fuggono dalle campagne e si rifugiano nelle grandi aree urbane, in cerca di lavori di fortuna.
La sola capitale oggi conta più di venti milioni di abitanti. La pressione sulle metropoli bengalesi è un’altra grave piaga. In un territorio grande circa la metà dell’Italia, vivono più di 170 milioni di persone. La densità abitativa è di 1.265 abitanti per chilometro quadrato. Considerando l’arretratezza delle campagne, le condizioni di vita difficili nelle aree più periferiche del Paese, c’è quindi una grande massa di persone in movimento verso Dacca, Chittagong e altre metropoli.
Qualcosa però sta cambiando. In parte anche grazie alla spinta della strage del 2013. Così come segnalato in un approfondimento di Stefano Vecchia su Avvenire, le aree dormitorio di Savar e le altre caratterizzate dalla presenza di improvvisate aziende tessili stanno cambiando volto. Ci sono più servizi, le aziende operano in strutture più adeguate, scuole e trasporti stanno migliorando la qualità della vita degli abitanti. I governi nel corso dell’ultimo decennio hanno aumentato il salario minimo, nel tessile come in altri settori. Lentamente ma costantemente il Bangladesh sta cercando di affrontare i suoi spettri peggiori. Da diverso tempo sta scendendo la quota di analfabeti, gli investimenti nell’istruzione stanno garantendo la scolarizzazione di sempre più cittadini.
La strada è però ancora lunga. Da un lato il Paese è tra i più stabili della regione e tra quelli dalle più alte potenzialità di sviluppo. Dall’altro, la povertà e le disuguaglianze sono ancora ben presenti. E non ci sono opportunità per tutti. In tanti così sono costretti ad andare fuori. Il movimento di migranti non è solo interno: dalle campagne ci si sposta verso le città, dalle città poi si prova a emigrare all’estero.
Le reti di trafficanti che operano dal Bangladesh
L’emigrazione dal Bangladesh è un fenomeno lungo almeno due decenni. Già nel 2001 l’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale segnalava la vulnerabilità delle donne e dei bambini bengalesi, caduti nelle grinfie dei trafficanti di esseri umani. Reti di criminali che promettevano, e promettono ancora oggi, un futuro migliore. Ma al prezzo di molti soldi e di viaggi in cui spesso si mette a rischio la vita.
La rotta bengalese riguardava, all’inizio di questo secolo, soprattutto l’India ma anche il sud est asiatico. E quindi Birmania, Malesia, Thailandia. Le organizzazioni malavitose hanno intessuto una rete internazionale volta a mettere in tasca sempre più profitti nelle tasche dei migranti. Una rete difficile da combattere e da estirpare e che, da qualche anno a questa parte, ha iniziato a tessere rapporti anche con i criminali presenti nell’area nordafricana.
Quei voli low cost verso il Medio Oriente
Ma l’emigrazione dei bengalesi verso l’Europa ha origine da altri canali, spesso regolari. Migliaia di lavoratori a inizio anni 2000 si sono spostati dai sobborghi di Dacca verso il Medio Oriente. Si tratta di cittadini attratti dalle possibilità lavorative offerte nei vari emirati del Golfo. In tanti hanno iniziato a lavorare per la costruzione dei moderni grattacieli di Dubai, di Abu Dhabi, di Doha, di Riad e di Gedda, giusto per citare qualche esempio. Il governo di Dacca ha quanto meno lasciato fare: le rimesse dei migranti presenti in medio oriente possono infatti garantire il sostentamento di centinaia di famiglie in patria. Così sono stati aperti sempre più canali diretti con le aree mediorientali. Canali foraggiati non solo dalla presenza di voli low cost verso le grandi città dell’area, ma anche da politiche volte a facilitare il rilascio dei visti ai bengalesi.
Il fenomeno ha riguardato anche la Libia di Gheddafi. Il rais ha avuto bisogno di manodopera per i suoi progetti finanziati soprattutto dopo la fine dell’era delle sanzioni. E in migliaia sono partiti dal Bangladesh in direzione Tripoli e Bengasi. Lo ha raccontato anche un migrante intervistato lo scorso aprile su AsiaNews da Sumon Corraya. “Sono andato in Libia – si legge nella testimonianza pubblicata anche su Repubblica – nel 2000. Ho lavorato per una ditta coreana che costruiva condutture per l’acqua”. La paga era bassa e così nel 2007 ha deciso di tentare la fortuna in Italia. Lui, così come altre migliaia di bengalesi, dal Nord Africa a un certo punto hanno iniziato a premere per andare in Europa. Paghe minime, condizioni di vita poco soddisfacenti e condizioni di lavoro ai limiti dello sfruttamento hanno contribuito ad aprire il canale migratorio verso il Vecchio Continente.
Un canale oggi sempre più importante, alimentato sia dai trafficanti bengalesi che dalla facilità di raggiungere il medio oriente da Dacca. Secondo l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), nel 2022 erano presenti in Libia oltre 21mila bengalesi. Alcuni sono qui dall’era del rais, altri invece sono arrivati negli ultimi anni. Tra chi è entrato da poco in territorio libico, sempre secondo l’Oim il 93% è partito da Dacca regolarmente in aereo. C’è chi è atterrato a Dubai (il 38%), chi a Istanbul (il 36%) e chi a Il Cairo (il 13%). Una volta atterrati in un grande aeroporto mediorientale, l’obiettivo è raggiungere il labile confine tra Egitto e Libia. Ed è qui che entra in scena la rete internazionale di criminali che mette in collegamento i trafficanti bengalesi con quelli operanti nel Magreb. Sono questi ultimi poi a far salire a bordo di precarie imbarcazioni i migranti diretti in Italia.
La lotta contro i trafficanti
Nei giorni scorsi un cittadino bengalese è stato arrestato a Tripoli con l’accusa di essere uno dei principali trafficanti di esseri umani. Le autorità locali hanno sottolineato la pericolosità dell’uomo, legato a doppio filo alle organizzazioni criminali della Tripolitania. Era lui a contattare connazionali, a farli arrivare senza grossi problemi in Libia. Ma una volta giunti nel Paese nordafricano, per loro iniziava l’inferno. Torture, pestaggi, violenze di ogni tipo fino a quando le famiglie dal Bangladesh non sborsavano soldi per “liberare” i familiari. Dopo altre ingenti somme intascate, i migranti venivano indirizzati verso i barconi. L’arresto ha dimostrato la pericolosità delle organizzazioni transnazionali criminali.
Anche in Algeria nelle scorse settimane sono stati eseguiti arresti contro gruppi che portavano migranti dall’Egitto verso la Libia e verso lo stesso territorio algerino. Più si scava nei contatti tra trafficanti bengalesi e nordafricani e più si intuisce la vastità e la gravità del fenomeno. Anche nello stesso Bangladesh non sono mancate negli ultimi anni operazioni di polizia. Nel 2019 le case dei sospetti trafficanti sono state a un certo punto marchiate con delle scritte sui muri, pur di rendere riconoscibili gli autori dei criminali viaggi della speranza.
Il problema, come sottolineato anche sull’agenzia Fides lo scorso anno, è che da sola la repressione non basta. In alcuni casi i trafficanti bengalesi hanno attratto e convinto i migranti a partire tramite post su TikTok. Molte delle vittime non sono consapevoli di quale tipo di viaggio li attende. C’è quindi anche un problema legato alla comunicazione, il quale si va ad aggiungere poi alle dinamiche economiche e sociali interne al Paese asiatico. Conoscere le dinamiche della rotta bengalese, la più pericolosa tra quelle che portano in Europa, è quindi di vitale importanza per comprendere cosa c’è dietro i flussi irregolari finanziati e organizzati da criminali senza scrupoli.
MAURO INDELICATO
Estratto dell'articolo di Luca Pulejo per “il Messaggero” il 29 giugno 2023.
Davano sonniferi ai bambini per non farli piangere durante la notte e picchiavano gli adulti che chiedevano di fermarsi dopo ore di cammino. È quanto accertato dalla Dda e dalla Polizia di Trieste nel corso di un'inchiesta che ha portato allo smantellamento di un'organizzazione impegnata nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. I passeur […] raggiungevano a piedi per i boschi il confine tra Slovenia e Croazia. Da lì recuperavano gruppi di migranti da portare, sempre a piedi, fino a Pomjan, in Slovenia.
L'INDAGINE
L'indagine riguarda un'organizzazione composta da almeno 13 persone (di origine kosovara-albanese) […] Inoltre, sempre al termine dell'indagine sono stati eseguiti anche sette arresti in flagranza di reato verso altri esponenti dellassociazione. […] Ai […]migranti venivano poi date grandi quantità di bevande energetiche (evidentemente per aumentarne la resistenza fisica) con effetti collaterali sulla loro psiche: per esempio, uno di loro, dopo aver ricevuto degli schiaffi, rideva. […]
LE DICHIARAZIONI
Per il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, l'operazione condotta «testimonia ancora una volta come il traffico di esseri umani sia gestito da organizzazioni criminali senza scrupoli […]». […] Dettagli ulteriori sono emersi dalle parole del sottosegretario all'Interno, l'esponente di Fratelli d'Italia Wanda Ferro, secondo cui l'organizzazione «si faceva pagare il trasporto anche 250 euro a tratta».
I NUMERI
Cifre rilevanti se si tiene conto che, secondo l'agenzia europea Frontex, sono entrati nell'Unione Europea per i Balcani occidentali quasi la metà dei migranti irregolari del 2022. Un totale di 145.600 attraversamenti per la frontiera. Di questi, il 47% erano di nazionalità siriana, afgana o tunisina. Non a caso, l'Unione Europea sta negoziando accordi rafforzati con Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Serbia per consentire a Frontex di gestire insieme a questi paesi i flussi migratori[…]
Estratto dell’articolo di Leonardo Martinelli per “la Repubblica” il 19 Giugno 2023.
In questo bar affollato di Sfax, aperto su una strada polverosa, piena di vita e d’incertezze, risuona in sottofondo la canzone di Balti, il rapper tunisino. Qui tutti conoscono “Allo”, canto dolente di un ragazzo emigrato in Italia, sospeso tra nostalgia e rimorsi. […] Un pick-up si ferma davanti.
Al volante c’è Hassan. Lo chiameremo così ma il suo vero nome è un altro, M.B.. È uno dei «passeur» più importanti di Sfax, al vertice di una delle organizzazioni (sostanzialmente mafiose), che gestiscono i passaggi illegali attraverso il Mediterraneo. […]
Hassan ha 29 anni. Ha la barba nera curata e gli occhiali da vista metallici leggeri, una faccia da bravo ragazzo. È domenica. Maglietta e shorts giusti, sembra il direttore finanziario di un’azienda milanese in pausa week-end. Ha appena visto la fidanzata.
La sua attività? È “un’agenzia di viaggi illegale”. Parlerà spesso di «clienti» e di «domanda e offerta», preciso è educato. Siamo anni luce dall’immagine tipica e ruspante di uno scafista, quelli che conducono le barche dei migranti. No, lui è il big boss. «Sono originario delle isole Kerkennah», dice.
S’intravedono all’orizzonte, in fondo a una distesa piatta di mare: tradizionalmente terre di pescatori e di passeur. «Ho iniziato dal basso, cinque anni fa. Partecipavo all’organizzazione dei viaggi, ma non sono stato mai scafista. I clienti erano contenti, mi sono fatto un nome e poi un gruzzolo. Ho iniziato a investire nelle trasferte». […]
Lui è in cima a una piramide. Sotto ci sono i «coordinatori» a diversi livelli: chi raccoglie i «clienti» in tutto il Paese o chi si procura la barca e i motori. Giù, fino allo scafista. «Fra di loro non si conoscono. Solo io conosco tutti». Li dirige come marionette dal suo cellulare. Hassan non si vede mai, non ci mette la faccia. Dice che non lavora con i nuovi barchini metallici, troppo pericolosi, ma solo con quelli di legno. E soprattutto con il pubblico tunisino, che paga di più.
«Viaggiano donne con neonati o famiglie intere. Non voglio macchiarmi le mani del loro sangue. E poi un naufragio è un grosso rischio anche per me». Recentemente hanno beccato un passeur di Sfax, già condannato a un totale di 79 anni, proprio perché una delle sue imbarcazioni era affondata, venti i morti.
[…] Precisa che «anche chi viaggia si deve assumere i suoi rischi e le sue responsabilità». In ogni caso, se nessuno dei clienti morirà, ma lo cattureranno comunque, «con tutti i soldi che ho fatto, pagherò qualcuno e uscirò presto dal carcere». Hassan è sicuro, calmo. «Ma ho paura. Anche ora, perché sto parlando con te».
[…] Neanche sugli accordi che Giorgia Meloni e l’Ue negoziano con la Tunisia: soldi in cambio di un blocco dei migranti nel Mediterraneo. «Neppure il profeta in persona potrebbe bloccare l’harka». Così si chiama l’emigrazione clandestina.
E lui, Hassan, il passeur, è l’harak. «Non finirà, perché in Tunisia la gente è come strozzata: impedirgli di partire significherebbe ucciderli subito. Ormai qui siamo a un punto di non ritorno». Ha consultato esperti di meteorologia: pure in luglio il clima sarà bizzoso. «Ma ad agosto ho già trenta viaggi completi e pronti a partire. La Meloni si deve rassegnare».
A proposito, facciamo un po’ di conti. «Il prezzo richiesto ai clienti — aggiunge Hassan — dipende sempre dal servizio fornito. Sono 2500-3000 dinari (740-880 euro) su una barca di legno con più di cinquanta persone a bordo. Chi, invece, ne pagherà 7000-8000 andrà nella stessa imbarcazione, ma solo con una trentina di migranti e due motori invece di uno, nel caso il primo faccia cilecca». C’è perfino chi non paga.
«Se qualcuno non ha i soldi, può partire gratis ma deve procurarci almeno cinque clienti. E poi, se in navigazione ci saranno problemi, dovrà essere il primo a saltare in mare».
Non può pretendere: «Il cliente è il re». Spesso Hassan organizza una barca con un centinaio di persone.
In questo caso, dice, l’organizzazione deve investire 240.000 dinari, compreso l’acquisto della barca. Ne incasserà 450.000. La differenza è pari a 210.000. «Io ne trattengo il 20% ( ndr, oltre 12mila euro). Il resto lo divido tra i coordinatori, in genere sono cinque quelli coinvolti».
Il 20% per i colletti bianchi Visto il ritmo di partenze, se Hassan non ha tutti soldi da investire, fa appello a «uomini d’affari e liberi professionisti» locali: sono i colletti bianchi che investono nella tratta. «Ad esempio, mi prestano 100.000 dinari. E io dopo un mese, una volta effettuata la traversata, ne rendo 120.000. Mi sembra un buon investimento». Uno dei problemi maggiori oggi è procurarsi l’imbarcazione.
[…] Lui, intanto, è in contatto con altri passeur. «Non c’è concorrenza tra di noi — spiega — . Nel nostro campo la domanda è fortissima: tutti abbiamo anche troppo lavoro. Io devo respingere molte richieste». Anzi, tra passeur si aiutano. Sono come cosche diverse, separate ma amiche. «Ci scambiamo informazioni, soprattutto sulla polizia. E ogni volta ce le paghiamo a vicenda». […]
«Dobbiamo individuare, tra i nuovi, chi possiamo corrompere e chi no. Ce ne sono di incorruttibili, ma anche quelli che accettano di essere pagati per chiudere un occhio sui controlli in mare e su terra. Cerchiamo di ottenere informazioni su questi personaggi. Spesso contatto i passeur delle località dove erano in servizio». […]
Pirati a caccia di migranti, orrore nel Mediterraneo. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano l'01 agosto 2023
Sfrontati e spietati. Violenti e assetati di guadagni facili. Rapidi e cattivi. Solcano il Mediterraneo a caccia di barchini carichi di profughi (o presunti tali) sud-sahariani e asiatici: facili prede da ripulire da cima a fondo. Pirati travestiti da pescatori, che partono dalle coste della Tunisia e setacciano il Canale di Sicilia con un solo obiettivo: derubare, lame in pugno, i disperati che vogliono raggiungere le coste italiane. E dunque l’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Agrigento e portata a termine da Polizia, Guardia di Finanza e Guardia Costiera di Lampedusa - che ha visto l’arresto, convalidato dal gip, del comandante e dei tre membri dell’equipaggio di un motopesca tunisino, l’Assyl Salah, poi sequestrato - apre un nuovo fronte sulle traversate dei migranti. Oltre agli scafisti c’è un pericolo in più: per la prima volta la rotta migratoria del Mediterraneo centrale si trova a dover fare i conti con la pirateria. Un reato previsto sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare che dal Codice della Navigazione italiano. Le pene? Fino a vent’anni di carcere.
DIVERSI EPISODI
Era il 23 luglio quando una carretta del mare con a bordo una quarantina di persone naufragò in acque maltesi: cinque furono i dispersi, tra cui un bambino, e 37, oltre al cadavere di una 35enne ivoriana, i migranti originari di Costa d’Avorio, Gambia, Guinea e Camerun portati a Lampedusa. Sedici di loro finirono dritti nel poliambulatorio dell’isola per ustioni e ipotermia.
Raccontarono di essere partiti da Sfax (Tunisia) la sera prima, per poi finire in acqua dopo essere stati speronati da un equipaggio di un’altra imbarcazione che aveva tentato di rubargli il motore. Altro che pescherecci... Diversi tunisini hanno svestito i panni dei cacciatori di tonni e merluzzi per indossare quelli di predoni di profughi.
Un’attività ben più remunerativa, considerato che ogni migrante in fuga consegna migliaia di euro agli scafisti per farsi portare in Europa. E i furti di motori, poi rivenduti agli stessi scafisti, sono un guadagno assicurato. È una catena ben collaudata. I barchini- fatta eccezione per quelli che trasportano connazionali - vengono agganciati dai pirati tunisini e spediti alla deriva. Ad aprile, giusto per farsi un’idea, una bambina di quattro anni annegò dopo che l’imbarcazione sulla quale viaggiava fu abbordata da un peschereccio che aveva tentato di strapparle il motore. E anche il mese prima, a marzo, andò in scena lo stesso modus operandi: una barca lunga sette metri carica di 42 persone finì in malora perché spogliata del suo propulsore. Così, vista la gravità della situazione, in campo ci sono già nuovi protocolli investigativi. La Procura di Agrigento, infatti, ha subito avviato un tavolo tecnico insieme al Comando Generale delle Capitanerie di Porto (Guardia Costiera), al Comparto Aeronavale della Guardia di Finanza e al mondo dell’Accademia universitaria. Le informazioni acquisite vengono condivise con gli altri Paesi coinvolti attraverso i canali Interpol. Il dossier sulla pirateria marittima è in cima anche alle priorità del Ministero dell’Interno guidato da Matteo Piantedosi.
CONFERME
«L’arresto di un comandante di un motopesca tunisino e i tre componenti dell’equipaggio accusati di pirateria ai danni di alcuni gruppi di migranti in difficoltà è la conferma di quanto sia fondamentale contrastare l’immigrazione irregolare anche a tutela degli stessi migranti che finiscono nelle mani di criminali senza scrupoli che ne mettono gravemente a rischio la vita», ha spiegato il ministro Piantedosi. Suona forte l’allarme ma il governo di Centrodestra non sta certo a guardare: «Il gravissimo episodio che emerge dalle indagini testimonia la pericolosità della rotta del Mediterraneo centrale e l’importanza dell’azione intrapresa da questo governo per contrastare i criminali che cercano di arricchirsi in ogni modo, anche garantendo un adeguato supporto operativo ai Paesi di partenza dei barchini», ha sottolineato Piantedosi. Con un appello ai partner internazionali: «Il dovere di tutti gli Stati di agire insieme per sconfiggere questa piaga mondiale che riguarda i Paesi di origine, transito e destinazione delle vittime, per la maggior parte donne e bambini».
Migranti sequestrano nave turca, il battaglione San Marco di Brindisi la libera. 15 clandestini bloccati dalle forze speciali all’altezza di Ischia. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 9 giugno 2023.
Il tentativo di sequestro da parte di assalitori armati nella plancia di una nave cargo turca e l’sos lanciato dai marinai turchi. E poco dopo gli uomini della Brigata Marina San Marco che si calano dagli elicotteri per neutralizzare il gruppo di migranti irregolari che aveva tentato di dirottare la nave. L’operazione speciale nel mar Tirreno, al largo della costa napoletana, è riuscita a scongiurare l’attacco di una quindicina di migranti, probabilmente provenienti dalla rotta medio orientale, diventati pirati in pochi attimi. Un’operazione che, sebbene il cargo sia stato poi scortato in rada nel porto di Napoli dove era schierato un dispositivo di forze di polizia, è proseguita con la bonifica della nave.
Il mercantile trasportava autocarri ed era partito dal porto di Topcular in Turchia il 7 giugno diretto in Francia allo scalo portuale di Seté dove doveva approdare il 10 giugno ma all’altezza dell’isola di Ischia il viaggio si è interrotto: dopo essere stati scoperti i migranti irregolari, nascosti forse in uno dei camion a bordo, hanno cercato di prendere il possesso del mercantile Galata Seaways mettendo in scacco le ventidue persone dell’equipaggio.
I marinai sono riusciti a lanciare l’Sos alla Guardia costiera francese che ha avvisato quella italiana, rimasta sempre in contatto con il comando della nave: poi il blitz della Marina, di stanza a Brindisi. Due elicotteri sono intervenuti: gli uomini della Brigata San Marco, la Fanteria del mare, si sono calati sul cargo mentre quelli del Comsubin sono rimasti sull'elicottero per monitorare la situazione.
Scattato l’intervento, con il ministro della Difesa Guido Crosetto costantemente informato, i militari italiani hanno subito bloccato una parte del gruppo di assalitori che aveva ancora le armi in pugno: quattro o cinque migranti, con dei coltelli, avevano tentato di prendere possesso della plancia di comando, asserragliandosi all’interno e tentando anche il sequestro dei marinai turchi. Gli altri aggressori invece si sono dileguati nascondendosi tra i mezzi. A fornire l'aggiornamento delle operazioni è stato lo stesso Crosetto, che stava partecipando al Forum Masseria a Manduria: «speriamo che finisca nel più breve tempo possibile senza conseguenze per nessuno», ha detto.
Con la nave al sicuro e i violenti neutralizzati, il cargo è stato portato al porto di Napoli, per proseguire la bonifica dell’imbarcazione. A garantire la sicurezza all’operazione, scortando l’imbarcazione, c'era la nave Gregoretti della capitaneria di porto, un elicottero e un aereo della Guardia costiera oltre a un pattugliatore della Guardia d Finanza.
Una volta in rada a Napoli, dove il cargo resterà, sulla Galata Seaways sono saliti a bordo gli uomini della Squadra Mobile di Napoli, i finanzieri di Gico e Roan la Capitaneria di Porto per proseguire la ricerca di altri assalitori e per cercare di ricostruire l’accaduto.
Sul tentato dirottamento del cargo turco la procura di Napoli
ha disposto le indagini coordinate dal pm Enrica Parascandalo: l'attività istruttoria punterà anche ad accertare l’area di mare esatta in cui si è consumato il tentativo di sequestro e dirottamento anche per determinare la competenza territoriale degli inquirenti.
L’attacco con i coltelli. Nave sequestrata da 15 migranti a Sud di Napoli, tentavano il dirottamento: liberata dal Battaglione San Marco. Redazione Web su L'Unità il 9 Giugno 2023
Si sono imbarcati di nascosto sulla nave mercantile turca Galata Seaways, partita dal porto di Topcular in Turchia lo scorso 7 giugno e diretta in Francia al porto di Sete, dove era attesa per domani 10 giugno. Quindici migranti avrebbero cercato di dirottare la nave prendendone il controllo, alcuni di loro avrebbero minacciato il personale con un coltello. E’ successo nel mar Tirreno, a Sud di Napoli, in prossimità di Sorrento. Il Battaglione San Marco è intervenuto riuscendo a riprendere il controllo della nave. Alcuni dei migranti sono stati arrestati altri sono ancora ricercati sulla nave.
Tutto è successo in tarda mattinata quando la nave ha improvvisamente e bruscamente cambiato rotta. Il gruppo di quindici migranti, usciti allo scoperto, avrebbero minacciato il comandante nella plancia della nave prendendo di fatto il comando e puntato su Napoli. Il comandante è riuscito ad allertare il centro di ricerca e soccorso di Ankara con una urgente richiesta di assistenza. Così sono partite le operazioni di salvataggio. La nave adesso si trova a poche miglia sotto Sorrento, isolata dalle forze speciali della Marina italiana. Tutto l’equipaggio della Galata Seaways è al sicuro in plancia. Secondo quanto si apprende l’operazione di bonifica della nave da parte della Brigata San Marco è ancora in corso per cercare altri clandestini a bordo.
A dare notizia di quanto stava accadendo sulla nave turca è stato il Ministro della Difesa, Guido Crosetto: “Sui dirottatori si sa che sono dei clandestini saliti a bordo di una nave turca e usando armi, tipo pugnali ma non siamo ancora riusciti a catturarli per cui non ne siamo certi, si sono impossessati della nave. E’ dovuto intervenire il battaglione San Marco. La nave adesso è stata recuperata ma non ancora messa in sicurezza perché quelli che l’avevano occupata sono chiusi dentro”. Così il ministro della Difesa, Guido Crosetto, parlando della nave turca sequestrata, a margine del ‘Forum in masseria’ in corso a Manduria. E sull’operazione ha aggiunto: “Speriamo che finisca nel più breve tempo possibile senza conseguenze per nessuno”.
Sul posto, chiamati ad intervenire, un boarding team del San Marco, decollato da Brindisi e due navi della Guardia costiera, la Gregoretti, e la Montecimone della Guardia di finanza. Le forze speciali, arrivate con due elicotteri, hanno neutralizzato i 15 immigrati che si erano nascosti sulla nave, riprendendo il controllo dell’imbarcazione. “L’operazione è ancora in corso, le nostre forze speciali, che sono gli uomini del battaglione San Marco di stanza a Brindisi, stanno ancora bonificando”, le ultime informazioni fornite dal ministro Crosetto.
Intorno alle 20.45 l’ultimo aggiornamento: La Nave turca che alcuni migranti hanno tentato di dirottare è stata condotta in rada a Napoli e uomini della Squadra Mobile della Questura, insieme alla Guardia di Finanza (Gico e Roan) e alla Capitaneria di Porto stanno per salire a bordo. Lo apprende l’ANSA da fonti qualificate. Alla questura e alla Guardia di Finanza sarà delegata l’indagine. La Nave non attraccherà in porto a Napoli, secondo quanto si è appreso, ma si fermerà in rada. Non è chiaro, invece, se saranno subito sbarcati a terra i responsabili. In questa fase, compito delle forze dell’ordine che stanno salendo a bordo è, su delega della procura di Napoli, quello di ricostruire l’accaduto. Nella zona del porto di Napoli è schierato un dispositivo di forze di polizia. La situazione è tenuta sotto controllo dalla prefettura, per gli aspetti di sua competenza.
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per repubblica.it il 10 giugno 2023
Tredici uomini, due donne. Tutti siriani, afghani, iracheni. Migranti che avevano deciso di provare a raggiungere l'Europa nascosti dentro uno degli autocarri imbarcati su una nave cargo in rotta dalla Turchia alla Francia.
[…] il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato solennemente la "cattura" dopo un'operazione in grande stile che ha visto impegnati per diverse ore gli incursori dei corpi speciali del battaglione San Marco della Marina militare, gli equipaggi di mezzi della Guardia costiera e della Guardia di finanza e, a sera, anche una cinquantina di uomini della squadra mobile di Napoli e della Gdf […] "Volevano tentare la fuga dalla nave via mare di notte", la bizzarra ipotesi del ministro Crosetto.
Non si sa ancora chi siamo questi migranti trasformatisi improvvisamente in dirottatori che, due coltelli e un taglierino alla mano, hanno improvvisamente tenuto sotto scacco parte dell'equipaggio tentando anche di entrare nell'area blindata del ponte di comando da dove, però, il comandante della nave è subito riuscito a dare l'allarme chiedendo l'intervento urgente delle forze di polizia.
Assai improbabile che ci sia qualche legame con organizzazioni terroristiche. Più probabilmente i migranti imbarcatisi clandestinamente sono stati scoperti durante la traversata e qualcuno di loro ha reagito tirando fuori i coltelli e con un tentativo di aggressione che ha subito fatto scattare l'intervento della Marina italiana.
Adesso, in prima battuta, sarà la Procura di Napoli a cercare di accertare cosa sia veramente successo. I 15 migranti sono stati tutti arrestati, i 22 membri dell'equipaggio e alcuni passeggeri sono tutti illesi e dovranno ricostruire i fatti.
[…] Alcuni dei migranti, quelli armati, sono stati subito bloccati, gli altri hanno tentato di nascondersi e sono stati poi tutti individuati a sera quando il mercantile è stato condotto a Napoli. A dare la notizia dell'operazione, mentre era impegnato al Forum della Masseria di Bruno Vespa, è stato lo stesso ministro della Difesa Crosetto.
Estratto da tg24.sky.it il 10 giugno 2023
Le forze speciali italiane, di stanza a Brindisi hanno liberato una nave turca con 22 persone di equipaggio sequestrata da 15 migranti che erano a bordo dell'imbarcazione al largo di Napoli. […]gli uomini della Brigata San Marco sono intervenuti sulla nave Galata Seaways, calandosi da due elicotteri della Marina, per riprendere il controllo dopo che i 15 clandestini, una volta scoperti, hanno creato disordini.
L'operazione, scattata quando il traghetto era all'altezza di Ischia, si è conclusa con la ripresa del controllo. Il gruppo di migranti ha tentato il sequestro di alcune persone dell'equipaggio all'interno della plancia di comando: dopo l'intervento della Marina, con i militari della Brigata San Marco, "i dirottatori della nave sono stati catturati. Tutto è finito bene”, ha scritto su Twitter il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Tutto l'equipaggio della Galata Seaways è al sicuro in plancia. Secondo quanto si apprende l'operazione di bonifica della nave da parte della Brigata San Marco è durata alcune ore per cercare altri clandestini a bordo. Intanto la nave è stata condotta in rada a Napoli e uomini della Squadra Mobile della Questura, insieme alla Guardia di Finanza (Gico e Roan) e alla Capitaneria di Porto sono saliti a bordo. […]
Estratto dell’articolo di Lorenzo Vita per ilgiornale.it il 10 giugno 2023
Il sequestro della nave turca ad opera di un gruppo di migranti irregolari si è concluso con l'intervento delle forze speciali italiane e la liberazione dei membri dell'equipaggio.[…] i militari della Brigata Marina San Marco, che si sono calati dagli elicotteri a bordo della nave per fermare il sequestro e mettere in sicurezza le persone che lavoravano a bordo del cargo.
La storia di questa Brigata risale già al Regno di Sardegna, agli albori del XVIII secolo. Con l'unità d'Italia, […]il San Marco è entrato sempre più a far parte dell'élite delle forze armate italiane. Una brigata coinvolta non solo nelle più "tipiche" operazioni in mare, ma anche a terra. Grazie a un addestramento particolarmente duro e complesso, i "fucilieri di Marina" sono sostanzialmente in grado di svolgere quasi tutti i compiti richiesti dallo Stato Maggiore. […] dai Balcani, al Libano alla Libia - anche per compiti che apparentemente sembrano molto distanti dal "focus" per cui sono creati.
Ad oggi, grazie alla configurazione come brigata avvenuta nel 2013, il San Marco si divide in diversi comandi, con tre reggimenti operativi e un Gruppo Mezzi da Sbarco. Il primo reggimento San Marco è il tenutario della Bandiera di Guerra del Battaglione San Marco e della Bandiera Colonnella ed è l'unità della Brigata che ancora oggi compie tutte le operazioni anfibie per cui sono nati i fucilieri di Marina.
Il secondo reggimento è invece quello impiegato nell'interdizione marittima, nel controllo del traffico di navi mercantili e nel Interdizione Marittima, in supporto al controllo del traffico mercantile e nel "boarding", ovvero le operazioni di abbordaggio. A questo proposito, ieri, come ha ricordato il sottosegretario alla Difesa Matteo Perego di Cremnago in una nota, a operare a bordo della nave turca sono stati appunto gli uomini del secondo reggimento San Marco.
Il terzo reggimento si occupa della difesa delle basi della Marina e di alta rappresentanza. Il Gruppo Mezzi da Sbarco, invece, supporta in mare i reggimenti operativi. Da ultimo, ma non per importanza, il Battaglione "Caorle": la "Fucina leonis" che si occupa della formazione di questi copri d'élite della Marina Militare. […]
«Avrebbe potuto fare la shampista». I giudici e le frasi choc sulla prostituta. Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera venerdì 1 settembre 2023.
Prostituta per scelta. Così i giudici della Corte d’assise di Palermo definiscono Precious, una ragazza nigeriana di 27 anni che ha denunciato il suo protettore dopo mesi di violenze. La vittima, secondo i magistrati, avrebbe volontariamente scelto di fare sesso a pagamento, ritenendo la prostituzione un mestiere più redditizio di altri.
La donna, che ha raccontato di essere scappata dal suo Paese per sfuggire alla vendetta di un clan mafioso locale e di essere arrivata in Italia nel 2016 sognando una nuova vita, viene definita dal collegio una «prostituta volontaria». Un soggetto, insomma, «da inquadrare, più correttamente, nella nota diffusa categoria delle cosiddette sex-workers, ossia nella categoria di quelle donne che preferiscono dedicarsi alla prostituzione, piuttosto che lavorare o svolgere lavori poco remunerativi, come potrebbero esser quello della “shampista” o di far capelli o di far treccine o di lavorare presso qualcuno come domestico (etc etc)».
Il giudizio è contenuto nelle motivazioni della sentenza con la quale il collegio ha comunque condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento della prostituzione, il protettore denunciato dalla ragazza, Silver Egos Enogieru. La Procura contestava all’imputato anche il reato di tratta di esseri umani e per questo ne aveva chiesto la condanna a 16 anni e sei mesi. «Questa “classificazione” della prostituta, naturalmente — spiega poi la Corte per motivare il verdetto di colpevolezza — non contrasta con la presenza di uno sfruttatore e favoreggiatore, che a sua volta si giovi delle prestazioni della lavoratrice e le agevoli, per rimpinguare anche le proprie casse».
Alla conclusione, che contrasta decisamente con quanto ricostruito dalla Procura di Palermo, la Corte giunge analizzando le dichiarazioni della vittima, ritenuta dai magistrati poco credibile quando racconta perché abbia deciso di trasferirsi in Italia. Precious ha detto di essere fuggita per paura di ritorsioni da parte della spietata mafia nigeriana, la black axe, e di aver vissuto l’odissea di tanti profughi: la tappa in Libia, la prigionia nei lager, la tortura e poi il viaggio in mare su un barcone con altri 150 disperati. In Italia alcuni connazionali l’avrebbero messa in contatto con Silver che l’avrebbe, poi, avviata alla prostituzione, chiedendole 1500 euro al mese.
Il nigeriano, sempre nel racconto di Precious, — almeno in questo i giudici hanno creduto alla ragazza —, l’avrebbe picchiata sistematicamente per ottenere da lei più soldi. Ma nella versione della 27enne, per la Corte d’assise, ci sarebbero molte lacune e le cose potrebbero essere andate diversamente. «È ben possibile — si legge nella sentenza — che a concordare l’operazione di trasferimento della ragazza sia stato l’intervento di una madame… e che solo dopo Silver abbia svolto un ruolo attivo durante l’attività di meretricio». Una ipotesi che «assolve» il nigeriano dalla accusa di aver costretto la vittima a vendersi, ma certo non autorizza la conclusione che una giovane, fuggita dal suo Paese, abbia avuto la possibilità di scegliere cosa fare per sopravvivere e, anzi, abbia preferito la strada a un negozio di parrucchiere.
La Corte europea accoglie il ricorso di una minorenne del Ghana e condanna l’Italia: lasciata sola nonostante le violenze. Storia di Paolo Foschini su Il Corriere della Sera venerdì 1 settembre 2023.
La brutta notizia per l’Italia è che il nostro Paese è stato condannato dalla Corte europea dei diritti umani per non avere accolto adeguatamente una ragazza del Ghana, minorenne, già vittima di accertate violenze in Libia, lasciandola per mesi in centri di accoglienza tra persone adulte, senza alcuna protezione, in violazione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, complice anche una «prolungata inerzia delle autorità nazionali riguardo alla sua situazione e ai suoi bisogni di minore». La buona notizia, se non altro, è appunto quella per cui la Corte ha riconosciuto da una parte i fatti dall’altra il diritto della ragazza a ottenere un risarcimento: come è stato segnalato dalla Associazione studi giuridici italiani (Asgi) e dall’organizzazione umanitaria Intersos, che hanno supportato il ricorso della ragazza.
La giovane, M.A., era giunta sulle coste italiane nell’ottobre 2016. Pur essendo stata fin da subito identificata come minore straniera non accompagnata, venne ospitata inizialmente presso il Centro «Capitaneria» a Reggio Calabria priva della necessaria assistenza e tutela e in condizioni materiali degradate, in una struttura definita dalla Procura come un luogo non idoneo al suo sviluppo psicofisico, per il sovraffollamento e le pessime condizioni sanitarie. In questo centro di accoglienza i minori ospitati non beneficiavano di alcun servizio, non percepivano alcun tipo di aiuto né economico né materiale ed erano lasciati privi di tutore. Trasferita successivamente presso un altro centro per minori, ma visto il permanere della sua condizione di incertezza sia suol fronte giuridico sia su tutto il resto, la ragazza se ne anò e raggiunse il Nord. Giunta a Como, fu accolta per otto mesi nel centro di accoglienza prefettizio di Via Teodolinda vivendo in un container in una situazione di promiscuità con persone adulte di nazionalità diversa senza nessuna effettiva presenza di educatori né operatori durante la notte.
Fin da subito la ragazza dichiarò di essere stata vittima di violenze sessuali. Una psicologa di Medici senza Frontiere certificò che la ragazza «era stata esposta a molteplici esperienze traumatiche nel corso della sua vita quali abusi, molestie e violenze sessuali» e che «la permanenza nel Centro, dove i minori non accompagnati venivano accolti insieme agli adulti e dove non esistevano servizi adeguati ai bisogni delle vittime di violenza sessuale, rischiava di aggravare la sua fragile condizione psicologica». Tanto la procedura di protezione internazionale quanto la richiesta di collocamento in strutture idonee alle vulnerabilità subirono numerosi ritardi a causa della sostanziale inazione dei tutori nominati dai giudici su richiesta di Asgi e Intersos. Per tre volte Asgi sollecitò anche in seguito un trasferimento in una struttura più idonea. Senza risultato. A quel punto, supportata dalle due organizzazioni, M.A. si rivolgeva alla Corte europea. Ventiquattr’ore dopo il ricevimento dell’istanza la Corte stessa ordinò il trasferimento immediato della ragazza.
Ora è ancora Asgi a ricordare che «nel periodo 2016-2017 la situazione a Como si caratterizzava per un’alta presenza di migranti che tentavano di attraversare il confine italo-svizzero subendo molteplici riammissioni e, per un breve periodo, trasferimenti all’hotspot di Taranto», aggiungendo che «dal settembre 2016 al dicembre 2018 i migranti vennero ospitati presso il centro di istituzione prefettizia di Via Teodolinda», dove «minori, donne e persone vulnerabili convivevano, in condizioni di promiscuità, in uno spazio caratterizzato dall’inadeguatezza dei servizi, in condizioni di disagio alleviate dall’intervento delle organizzazioni umanitarie».
La sentenza ora pubblicata dalla Corte europea conclude: «La permanenza della ricorrente nel centro Osvaldo Cappelletti, che apparentemente non era attrezzato per fornirle un’adeguata assistenza psicologica, insieme alla prolungata inerzia delle autorità nazionali riguardo alla sua situazione e ai suoi bisogni di minore particolarmente vulnerabile, ha costituito una violazione del suo diritto a non essere sottoposta a trattamenti inumani, come tutelato dall’articolo 3 della Convenzione». I giudici di Strasburgo hanno così condannato l’Italia a un risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla giovane in violazione dell’art. 3 della Corte europea (divieto di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti).
«Questa sentenza che riguarda un caso del 2017 – sottolinea Asgi in una nota - evidenzia come la situazione dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati presenti da tempo serie criticità che impediscono di affrontare adeguatamente la tutela di chi arriva in Italia già vittima di abusi e sofferenze causate anche da pericolosi percorsi migratori dove sono stati costretti a vivere in situazioni di vulnerabilità per la mancanza di vie legali. Risulta inaccettabile che minori e persone vulnerabili debbano subire ulteriori sofferenze in un sistema di accoglienza che non mette al centro la protezione della dignità umana e il superiore interesse dei minori, nonostante vi siano delle normative che da tempo l’Italia ha adottato ed è tenuta ad applicare».
I Paesi Bassi vietano il rimpatrio dei migranti in Italia: “non garantisce i diritti umani”. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 29 aprile 2023.
Il regolamento di Dublino regola a livello europeo, con non poche perplessità, la materia migratoria. Tra le altre cose, l’intesa raggiunta nel 2013 stabilisce che le richieste di asilo vadano esaminate nel primo Paese di ingresso dell’Unione europea. Facendo appello alla norma, il sottosegretario olandese per la Giustizia e la Sicurezza, Eric van der Burg, si è rifiutato di prendere in considerazione le richieste di asilo di due persone entrate in Europa attraverso l’Italia, ribadendo l’intenzione di «rimandarli entrambi indietro», dunque nel nostro Paese. L’ipotesi lanciata da van der Burg è stata prontamente rigettata dal Consiglio di Stato dei Paesi Bassi, poiché in Italia c’è il «rischio reale» che i due migranti finiscano a vivere per strada e che «non siano in grado di soddisfare i loro bisogni primari più importanti, come riparo, cibo e acqua corrente» e questo «è contro i diritti umani».
La denuncia dei Paesi Bassi getta luce sulla gestione dei migranti da parte dell’Italia. «Le autorità locali non offrono l’accoglienza adeguata ai cosiddetti ricorrenti di Dublino a causa della mancanza di strutture idonee», ha scritto il Consiglio di Stato nelle sue motivazioni. La decisione è in linea con quanto chiesto dallo stesso governo Meloni a dicembre 2022: la sospensione del trasferimento dei richiedenti asilo, ai sensi del regolamento di Dublino, a causa della mancanza di strutture di accoglienza nel Paese. «Al momento non è possibile stabilire quando questi problemi saranno risolti e il trasferimento in Italia sarà nuovamente possibile», ha dichiarato la più alta corte dei Paesi Bassi, che in passato ha stabilito il divieto di rimpatrio in Croazia, Grecia e Malta per ragioni simili. La sentenza del tribunale olandese segue, di poche settimane, la condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che si è espressa in merito al ricorso presentato da quattro tunisini espulsi da Lampedusa nel 2017. Secondo i giudici, l’Italia, all’epoca guidata dal governo Gentiloni, ha detenuto i migranti senza un procedimento ufficiale e in condizioni degradanti.
Nel 2021, sono sbarcati sulle coste italiane circa 67 mila migranti. Più di un terzo (25 mila) sono stati interessati da un provvedimento di espulsione, tuttavia si sono registrati soltanto 3.420 rimpatri forzati e 346 rimpatri volontari assistiti. È lecito interrogarsi sul destino che ha atteso gli oltre 21 mila migranti irregolari rimasti sul territorio italiano e presumibilmente europeo. Stando alle ultime stime, sono in tutto 650mila gli “invisibili” del nostro Paese: c’è chi vaga negli “insediamenti informali” da sud a nord della penisola nella speranza di superare le frontiere settentrionali e congiungersi con le proprie famiglie, chi si è reinventato colf o badante, chi è finito preda del caporalato e della criminalità organizzata. Anche i rifugiati, titolari della protezione internazionale offerta dall’ONU, spesso finiscono in questa rete. Numerosi blitz delle autorità hanno rivelato storie di maltrattamento e sfruttamento, soprattutto legate al settore dell’agroalimentare.
È evidente che la gestione dei migranti non funziona, sia a livello nazionale sia a livello comunitario. Evidentemente interessi superiori non rendono possibile una tutela sostanziale della vita umana, che punti su investimenti a strutture di accoglienza, politiche di inclusione e una maggiore cooperazione tra gli Stati. Temi che abbiamo trattato all’interno del Monthly Report n.17, intitolato: L’eterna emergenza: numeri, verità e analisi sulla questione migranti. [di Salvatore Toscano]
Estratto dell’articolo di Loredana Lipperini per “la Stampa” il 30 marzo 2023.
[…] Dietro le sbarre, e sempre dietro le sbarre intravediamo persone. Dall'altra parte, liberi, due uomini, uno immobile, l'altro smanetta sul telefonino, esce. Le fiamme si alzano. C'è una figura prigioniera che si avvicina. Fumo. Non altro. Dietro le sbarre, muoiono bruciati in 39.
Siamo al centro di detenzione per migranti di Ciudad Juárez. I 39 sono arsi vivi perché, a quanto pare, era stato loro detto che sarebbero stati rimpatriati e avevano dato vita a una protesta finita malissimo. Ma gli agenti se ne sono andati, semplicemente. Non sappiamo perché. Quello che sappiamo è che persone che cercavano una vita migliore sono morte, come ne muoiono continuamente. […]
Davanti all'indifferenza, all'insipienza, al vuoto cosmico che alberga evidentemente in tantissime anime di questo mondo. E per un perverso disegno è avvenuto a Ciudad Juárez. La città dei femminicidi. La città delle cinquemila (pare) ragazze che lavoravano nelle fabbriche e che vennero uccise negli anni Novanta da non si sa chi.
La città dannata di cui parlò Roberto Bolaño in 2666, ne "La parte dei delitti". La città dove arrivò un giornalista, Sergio Gonzalez, per scrivere la cronaca di quelle morti. Ne nacque un reportage, Ossa nel deserto, a cui 2666 si ispirò. […]
Noi guardiamo, dagli schermi dei nostri computer e dei nostri telefoni, sapendo che, sì, è la nostra maledizione e il nostro specchio che stiamo guardando. Non sentiamo le urla, perché nel video che facciamo ripassare non c'è l'audio. […]
Ci chiediamo perché, ci chiediamo, sgomenti, come sia possibile. Ci diciamo che tutte le vite sono uguali e sappiamo, perché a questo punto dovremmo aver capito, che per molti non è così, che ci sono vite che valgono poco, vite davanti alle quali si può esitare. Non restare a guardare e basta, magari ridendo, quello no, quello è troppo. Ma già quell'esitazione è troppo, perché fa capire che in certi casi, casi di persone che sono considerate di minor valore, esitare va bene, esitare, addirittura, assolve. […]
Tortura, repressione e migranti: l’Italia nel mirino di Amnesty International. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 29 Marzo 2023
Amnesty International ha pubblicato il Rapporto 2022-2023 sulla situazione dei diritti umani nel mondo. L’organizzazione non governativa ha denunciato un aumento dell’impunità e dell’instabilità, “come nel caso dell’assordante silenzio sulla situazione dei diritti umani in Arabia Saudita, della mancanza d’azione rispetto a quella dell’Egitto e del rifiuto di contrastare il sistema di apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi”. Relativamente all’Italia, Amnesty ha espresso preoccupazione “riguardo alla tortura” e “all’uso eccessivo della forza contro i manifestanti” da parte della polizia. Allo stesso modo, destano allarme le misure adottate dal governo quali il decreto Rave, che ha “rischiato di indebolire la libertà di riunione”, e le regole per limitare le operazioni di salvataggio delle ONG in mare. Amnesty denuncia poi che in diverse zone del Paese non è garantito il diritto all’aborto, mentre è aumentato il livello di povertà, soprattutto ai danni di minori e stranieri. Il Parlamento – segnala infine il rapporto – ha deciso di non estendere la protezione contro i crimini d’odio ai danni delle persone LGBTI, delle donne e dei disabili.
Il rapporto di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani in Italia si apre con una certa preoccupazione nei confronti della tortura, uno dei temi affrontato da L’Indipendente nel Monthly Report di gennaio. Il divieto di trattamenti degradanti è stato recepito dal nostro Paese sia mediante la ratifica di accordi internazionali, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), sia attraverso la legge n. 110 del 2017. Ciononostante, la pratica non è stata debellata. “A novembre, 105 agenti penitenziari e altri funzionari sono stati processati con l’accusa di molteplici reati, tra cui la tortura, per la repressione violenta di una protesta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nell’aprile 2020″, scrive Amnesty, citando anche il caso di Hasib Omerovic precipitato giù dalla finestra della sua casa in circostanze ancora non chiare, durante un’ispezione di polizia non autorizzata. L’organizzazione non governativa ha poi espresso preoccupazione nei confronti dell’uso eccessivo della forza contro i manifestanti. “A gennaio, a Torino, la polizia in tenuta antisommossa ha picchiato con i manganelli gli studenti che protestavano per la morte sul lavoro di un ragazzo di 18 anni. Circa 20 persone sono rimaste ferite, di cui una in modo grave”.
Spazio poi alle critiche sulla gestione dei migranti da parte dell’Italia, che ha rinnovato il Memorandum con la Libia e ha approvato una legge per limitare le attività di salvataggio in mare delle ONG. “A dicembre, il tribunale di Roma ha giudicato un ufficiale della marina militare italiana e uno della guardia costiera colpevoli di aver rifiutato di autorizzare un salvataggio, contribuendo alla morte di circa 268 persone, tra cui decine di bambini, quando un’imbarcazione di rifugiati era naufragata nell’ottobre 2013. Tuttavia, gli ufficiali non hanno potuto essere condannati a causa della prescrizione”, scrive Amnesty nel proprio rapporto. Denunciate anche le condizioni di sfruttamento lavorativo a cui spesso vanno incontro i migranti in Italia, in particolare nel settore dell’agricoltura, dove le persone finiscono per essere sottopagate e costrette a vivere in alloggi pericolosi e scadenti.
Amnesty ha inoltre espresso preoccupazione per l’accesso all’aborto, a causa dell’elevato numero di medici e altri operatori sanitari obiettori di coscienza. “In alcune regioni, il loro numero raggiungeva il 100 per cento del personale medico competente”, sottolinea l’organizzazione, rilanciando anche la denuncia del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali (CESCR) che a ottobre ha constatato in Italia un aumento dei livelli di povertà, compresa la povertà infantile. [di Salvatore Toscano]
Cosa prevede l'accordo in Europa sui migranti. Linda Di Benedetto su Panorama il 09 Giugno 2023
Novità per rimpatri, ricollocamenti, domande d'asilo etc etc etc
L'Europa ha raggiunto un accordo sul nuovo Patto sulla migrazione, dopo 12 ore di negoziato e 2 tentativi di voto. I ministri degli Interni dell'Unione europea, riuniti a Lussemburgo in Consiglio Affari interni con un ampio sostegno hanno dato il via ad una riforma sulla gestione dei migranti che dovrà trovare l’approvazione definitiva in Parlamento Europeo. Contrari solo Ungheria e Polonia mentre si sono astenute Malta, Slovacchia, Lituania e Bulgaria. In pratica è stato deciso che la domanda di richiesta di asilo dovrà essere evasa in 12 settimane e che i ricollocamenti che avranno un tetto massimo, dovranno essere ripartiti tra i 27 paesi dell’Unione Europea. Sarà poi la Commissione a stabilire se un Paese ha bisogno della solidarietà in caso di crisi e in quel caso sarà esentato dalla procedura di frontiera Ue e potrà accedere al bacino di 30 mila ricollocamenti. La decisione nel dettaglio ruota soprattutto intorno ai due regolamenti, che riguardano le procedure d’asilo Apr (asylum procedure regulation A) e la gestione dell’asilo e dell’immigrazione Ammr (asylum and migration management regulation) quest’ultima dovrebbe sostituire, una volta approvato, l'attuale regolamento di Dublino. L'Apr prevede l'istituzione di un percorso rapido con regole condivise europee per trattare le domande di asilo che provengono da quei Paesi con un basso grado di accettazione ossia al di sotto del 20% e la creazione di una certa quota, attraverso una formula, secondo la quale ognuno dei 27 paesi Ue è obbligato ad applicare la procedura accelerata. Cosi ora l'Ue si doterà di una capacità di gestione fissata a 30mila posti con un coefficiente di moltiplicazione progressivo di 2, 3 e 4 nell'arco di tre anni. A contare non sarà quindi il migrante singolo ma il 'posto' e che la domanda di richiesta asilo dovrà essere evasa entro 12 settimane. In questo modo si calcola che il primo anno il tetto sarà di 60mila persone, poi 90mila e infine 120mila. Il tutto ripartito tra i 27 sulla base di Pil e popolazione. Sarà poi la Commissione a stabilire se un Paese ha bisogno della solidarietà in caso di crisi (boom di arrivi) come sempre più spesso accade in Italia. In quel caso sarà esentato dalla procedura di frontiera Ue e potrà accedere al bacino di 30mila ricollocamenti, da ottenere in forma pratica oppure con un finanziamento da 20mila euro per ogni migrante non trasferito. L'AMMR contiene invece anche misure volte a prevenire gli abusi da parte del richiedente asilo e a evitare i movimenti secondari (quando un migrante si sposta dal Paese in cui è arrivato per cercare protezione o reinsediamento permanente altrove). Il regolamento stabilisce, ad esempio, l'obbligo per i richiedenti asilo di presentare domanda negli Stati membri di primo ingresso o di soggiorno legale. Il regolamento scoraggia i movimenti secondari limitando le possibilità di cessazione o trasferimento della responsabilità tra gli Stati membri, riducendo così le possibilità per il richiedente di scegliere lo Stato membro in cui presentare la domanda.La novità sta nel fatto che l'Italia ha ottenuto che questi denari confluiscano in un fondo gestito da Bruxelles per "attuare progetti concreti per la cosiddetta dimensione esterna". Una riforma che risponde alla richiesta dell’Italia sempre più in affanno e che non voleva far divenire i Paesi del sud il "centro di raccolta degli immigrati per conto dell'Europa" ha detto il Ministro dell'Interno, Piantedosi. Ma la solidarietà si trova anche in altri passaggi. Come la responsabilità ridotta a 12 mesi invece di 24, per le persone salvate in mare con operazioni SAR che poi presentano e ottengono la protezione internazionale. Poi c'è un'intesa sulle misure di sostegno finanziario per la realizzazione operativa, che comprende anche le infrastrutture delle procedure di frontiera. Il passaggio più controverso però, che ha rischiato di far saltare tutto, è stata la possibilità di stilare accordi con Paesi terzi, diversi da quelli di origine, dove inviare i migranti una volta negata la protezione. Alcuni Stati membri, come la Germania, volevano un'interpretazione molto stretta. Un particolare non da poco perché permetterebbe di liberare molto più velocemente gli hot-spot e dunque snellire il sistema.
Meloni a Cutro: «Decreto contro gli scafisti. Entrare in Italia illegalmente non conviene». Andrea Soglio su Panorama il 09 Marzo 2023
Al termine del cdm tenutosi sul luogo della strage di migranti del 26 fe scorso il premier ha presentato il decreto ad hoc on pene fino a 30 per trafficanti di uomini, difeso l'operato del governo e soprattutto del Min dell'Interno
«Noi siamo determinati a sconfiggere la tratta di essere umani responsabili questa tragedia. La nostra risposta a questa tragedia è una politica di maggiore fermezza sul tema. Se qualcuno pensa che i fatti accaduti il 26 febbraio ci abbiano indotto a cambiare la nostra linea sul tema immigrazione si sbaglia grosso. Quanto accaduto a Cutro dimostra che non c’è politica più responsabili che quella di rompere la tratta degli scafisti». Giorgia Meloni ed il governo al completo, nel Consiglio dei Ministri tenuto Cutro (con qualche contestazione in piazza di organizzazioni umanitarie alcuni parenti delle vittime) all’indomani della tragedia costata la vita a p 60 persone, ha ribadito quella che è oltre alla salvaguardia delle vite umane persone in difficoltà, la priorità dell'esecutivo e cioè la lotta ai trafficanti d esseri umani, coloro che, ha ribadito il premier, sono stati anche nell’episodio del 26 febbraio gli unici responsabili della strage. E, contro chi in questi g ha più volte ribadito come il Governo non avesse fatto tutto il possibile e c anzi, ci sia una linea precisa dell’esecutivo in questo senso il Presidente d Consiglio ha spiegato come «in questo momento ci sono 25 operazioni di soccorso in atto. Davvero qualcuno di voi pensa che non sia fatto in quel c non si faccia ogni giorno tutto il possibile per salvare vite umane?»
Lotta quindi agli scafisti che si materializza in un decreto legge ad hoc approvato all’unanimità La norma principale riguarda le pene; introduzione di un nuovo reato relativo alla morte o lesione gravi in conseguenza di traffico di clandestini, con un pena fino a 30 anni di reclusione. Il reato verrà perseguito dall’Italia anche commesso fuori dai confini nazionali. Per noi è un reato universale, significa colpire non solo quelli che si trovano sulle navi ma anche quelli che si trova dietro in queste organizzazioni criminali - semplificazione procedure espulsione - norme per intervenire nei casi di gestione opaca dei centri per i migranti - ristretta la protezione speciale con l’obiettivo di abolirla sostituendola c una norma di buon senso legata a quella europea - ripristino il decreto flussi, che consentono l’ingresso per lavori con proiezione triennale. Corsie preferenziali per gli stranieri che in patri hanno fatto corsi di formazione riconosciuti dal Governo Italiano per avere manodopera qualificata e per dare a queste persone una vita dignitosa. Maggiori possibilità verso i paesi che collaboreranno con l’Italia nella lotta trafficanti di esseri umani - Campagne nei paesi di origine di queste persone per spiegare come la re sia diversa da quella raccontata dai trafficanti - incremento dei centri di accoglienza per il rimpatrio velocizzando i tempi di permanenza spesso ampliati per la scarsa collaborazione dei migranti stessi.
E' saltata invece la norma comparsa nelle prime bozze del decreto migranti che puntava a rafforzare la sorveglianza marittima, con un ruolo di primo piano della marina militare. La misura era stata proposta e discussa durante il preconsiglio ma il Cdm ha deciso di non introdurla vista anche l’esperienza negativa di Mare Nostrum. Il passaggio centrale, dal punto di vista politico legato allo stato della maggioranza, però è stata la dichiarazione del premier sul Ministro dell’Interno, finito in queste settimane al centro delle polemiche per alcune sue frasi di commento all’accaduto e per la ricostruzione dei fatti presente alla Camera. Tensioni che secondo alcuni organi di stampa sarebbero sfocia in tensioni con Palazzo Chigi al punto da ipotizzare addirittura la sostituzione del Ministro. Nulla di più lontano dalla realtà. ha spiegato la Meloni. «Ringrazio il Ministro Piantedosi ha ampiamente dimostrato come il Governo non potesse fare nulla di più e nulla di diverso da quello che ha fatto per salvare le vite di queste persone, cosa che non ha mancato di fare in ogni occasione simile» Tornando alla guerra agli scafisti il governo ha aggiunto come sia importa anche “informare” le persone che stanno pensando di arrivare in Italia. «Vogliamo dare il messaggio che in Italia non conviene entrare illegalmente non conviene pagare gli scafisti, non conviene rischiare di morire perché sono minori possibilità di entrare per chi paga gli scafisti rispetto a chi no fa. Credo che la vera solidarietà sia dare alle persone che entrano nel nostro paese le stesse possibilità di un cittadino italiano». Immancabile anche il riferimento alla collaborazione con l’Europa per la gestione del tema della migrazione.
«Cutro è un punto di passaggio. Il tema migratorio è profondamente complesso. È una materia che va affrontata anche a livello internazionale tema europeo diventa quindi ancora più centrale. Ho chiesto azioni concrete immediate; in questo serve la cooperazione di tutti in tema di azioni e riso Abbiamo bisogno di risposte europee a 360°. L’Italia non può affrontare t questo da sola
Pene più alte per gli scafisti e quote regolari: le novità del dl immigrazione. Luca Sablone il 9 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri si muove su un doppio binario: contrastare le partenze irregolari e favorire i flussi legali
Tabella dei contenuti
Le pene per trafficanti e scafisti
I flussi di ingresso
Il contrasto alle agromafie
La gestione dei centri per migranti
Ingresso e soggiorno al di fuori delle quote
Pene più alte per i trafficanti di esseri umani, programmazione dei flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri, contrasto alle agromafie e gestione dei centri per migranti. Il decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri si muove su un doppio binario: contrastare le partenze irregolari e favorire ingressi legali in Italia. Dalla bozza del testo emergono molte novità sul fronte dell'immigrazione: ecco cosa cambia in seguito alla mossa del governo guidato da Giorgia Meloni.
Le pene per trafficanti e scafisti
Nel mirino del dl sono finiti tutti coloro che promuovono, dirigono, organizzano, finanziano o effettuano il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato - per consentirne l'ingresso illegale - con condizioni che mettono in pericolo la vita delle persone e che non rispettano un trattamento umano: si prevede la reclusione da 20 a 30 anni se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persone. Invece se dal fatto deriva la morte di una sola persona la reclusione va dai 15 ai 24 anni.
I flussi di ingresso
Per il triennio 2023-2025 le quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato, anche per esigenze di carattere stagionale e per lavoro autonomo, sono definite con decreto del presidente del Consiglio. Si assegnano in via preferenziale delle quote riservate ai lavoratori di Stati che, anche in collaborazione con il nostro Paese, "promuovono per i propri cittadini campagne mediatiche aventi ad oggetto i rischi per l'incolumità personale derivanti dall'inserimento in traffici migratori irregolari".
Il contrasto alle agromafie
Un'importante novità arriva anche per quanto riguarda l'ingresso dei lavoratori del settore agricolo e il contrasto alle agromafie. L'articolo 5 del decreto legge fa riferimento ai datori di lavoro che hanno presentato la domanda per l'assegnazione di lavoratori agricoli e che non sono risultati assegnatari di tutta o di parte della manodopera oggetto della domanda: a loro è riconosciuta la possibilità di ottenere "l'assegnazione dei lavoratori richiesti con priorità rispetto ai nuovi richiedenti, nei limiti della quota assegnata al settore agricolo".
La gestione dei centri per migranti
Tra le altre cose si interviene sulle misure straordinarie in materia di gestione dei centri per migranti. Cosa accade se ricorre un "grave inadempimento" degli obblighi previsti dallo schema di capitolato di gara e l'immediata cessazione dell'esecuzione del contratto possa "compromettere la continuità dei servizi indifferibili per la tutela dei diritti fondamentali" e la salvaguardia dei livelli occupazionali? A quel punto il prefetto nomina uno o più commissari "per la straordinaria e temporanea gestione dell'impresa, limitatamente all'esecuzione del contratto di appalto".
Ingresso e soggiorno al di fuori delle quote
L'ingresso e il soggiorno per lavoro subordinato è consentito allo straniero che risiede all'estero che ha provveduto a completare un corso di formazione professionale e civico-linguistica "organizzato sulla base dei fabbisogni manifestati al Ministero del lavoro e delle politiche sociali" dalle associazioni di categoria del settore produttivo interessato. La domanda di visto di ingresso è presentata entro 6 mesi dalla conclusione del corso ed è corredata dalla conferma della disponibilità ad assumere da parte del datore di lavoro. Luca Sablone
I Numeri.
In Grecia.
A Lampedusa.
A Cutro.
Ai migranti ci pensa la Tunisia: paghiamo 900 milioni per non vedere l’orrore. Il memorandum firmato dalla Ue con Tunisi ha un solo scopo: bloccare gli africani lontano dai confini europei. Mentre le ong denunciano le violazioni dei diritti. Sabato Angieri su L'Espresso il 03 agosto 2023
Un sorriso, lo sguardo attento a cogliere i movimenti della mano che firmava e poi un applauso liberatorio. La postura della premier italiana Giorgia Meloni durante la firma del “Memorandum d’intesa” tra l’Unione Europea e la Tunisia dice molto su quanto quell’accordo fosse voluto dall’attuale governo di Roma. Soprattutto perché il Memorandum è un punto fermo dell’approccio della destra italiana ed europea alla questione migratoria.
Esternalizzare le frontiere sembra la soluzione sulla quale tutti stanno convergendo e il Nordafrica in tal senso assume un ruolo strategico di primo piano. Con buona pace di chi cerca di ricordare il disastro prodotto da decisioni simili in Libia, i rapporti tra i governanti europei e i capi di stato nordafricani continuano a essere viziati dall’interesse.
Il caso giudiziario di Patrick Zaki e delle relazioni economiche tra l’Italia e l’Egitto ne è un’altra prova. Il “piano Mattei” per l’energia con gli accordi dell’Eni sul gas, le commesse di Leonardo e Fincantieri non sono state toccate dalla trattativa per la liberazione dello studente che dopo essere stato condannato a ulteriori 14 mesi di prigionia per aver criticato il suo governo, ha ritrovato la libertà mediante la grazia concessa dal presidente Al-Sisi. Un gesto di munificenza quasi regale, che ricorda più l’operato dei signori del passato che una vittoria del diritto sull’oppressione dei regimi autoritari.
Anche per questo le dichiarazioni entusiaste di Giorgia Meloni sul nuovo accordo con Tunisi non convincono. «Il Memorandum è un importante passo per creare una vera partnership tra l’Ue e la Tunisia», ha dichiarato la presidente del consiglio al termine della cerimonia ufficiale, il 16 luglio, auspicando che l’accordo diventi un «modello per le relazioni dell’Europa con gli altri Paesi del Nord Africa».
Il motivo è semplice: oltre ad aver fatto della lotta ai migranti un baluardo della propria campagna elettorale, il governo italiano dall’inizio della legislatura sta cercando di creare un asse europeo intorno al quale far convergere i partiti ai quali Meloni si sente più vicina, ovvero Diritto e Giustizia del premier polacco Mateusz Morawiecki e Fidesz dell’ungherese Viktor Orbán per orientare le decisioni dell’Europarlamento.
Nonostante lo scorso 29 giugno, mentre si discuteva il “Patto sulla migrazione”, Budapest e Varsavia avessero provato a bloccare i lavori del Consiglio europeo, la leader italiana aveva sminuito dichiarando «non sono insoddisfatta da chi difende i propri confini». Anche perché, il paragrafo del memorandum con la Tunisia era stato comunque inserito nel capitolo sulle relazioni esterne e per questo, a Consiglio concluso, Meloni aveva affermato che «la svolta totale è sulla dimensione esterna, non interna, del problema migratorio».
Pochi giorni dopo, il 5 luglio, Meloni atterra a Varsavia per dimostrare che l’unità di intenti tra Italia e Polonia è tutt’altro che incrinata: «non c’è divisione perché lavoriamo su come fermare la migrazione illegale, non su come gestirla», aveva spiegato la premier.
Dunque le parole d’ordine sono chiare: la migrazione è prima di tutto un «problema», non va «gestita» ma bloccata e per farlo bisogna organizzarsi «fuori dai confini europei». Ecco perché il Memorandum d’intesa con la Tunisia è così importante. Dei “cinque pilastri” che sono alla base del trattato, ovvero assistenza macrofinanziaria dell’Ue, rafforzamento dei legami economici, cooperazione sull’energia verde e promozione degli scambi culturali, migrazione e lotta al traffico di migranti, l’ultimo è senz’altro il più dirimente.
Bruxelles si è impegnata a fornire a Tunisi un finanziamento di 900 milioni di euro, condizionati a determinate clausole, e di ulteriori 150 milioni per il sostegno economico e 105 milioni (queste due ultime tranche subito) per il rafforzamento della gestione delle frontiere, le operazioni di ricerca e soccorso in mare e le misure di contrasto al «traffico di esseri umani», incluso l’acquisto di nuovi mezzi per la guardia costiera locale.
Secondo il ministero dell’Interno italiano gli sbarchi dalle coste tunisine verso il nostro Paese fino a inizio luglio sono stati 43.484, aumentati di 6 volte rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e molto più consistenti di quelli provenienti dalla Libia (fermi a 28.825). Intanto, in Tunisia il presidente Kais Saied ha iniziato a parlare di «sostituzione etnica» a proposito dei migranti neri che arrivano dalle zone centrali del continente.
Lo scorso 3 luglio centinaia di migranti provenienti dalle zone subsahariane hanno protestato nella città tunisina di Sfax, e da qui sono stati deportati, secondo Human Rights Watch, «in zone inospitali vicino alla Libia e all’Ovest dell’Algeria, senza cibo, acqua e riparo a temperature oltre i 40 gradi». Le Ong tunisine parlano di «situazione catastrofica» per queste persone e, in occasione della firma del Memorandum diverse associazioni, tra cui Forum Tunisien pour les Droits Économiques et Sociaux, Un ponte per, Action Aid e molte altre hanno denunciato che l’accordo ostacolerà «qualsiasi forma di mobilità dalla Tunisia verso l’Europa» e metterà in pericolo la vita di migliaia di persone che in questo momento si trovano in territorio tunisino. Il Memorandum non considera, inoltre «le gravi violazioni dei diritti umani subite dai migranti e richiedenti asilo di origine sub-sahariana e il generale deterioramento della situazione democratica nel Paese».
In un momento in cui il Nordafrica è interessato da un impoverimento crescente della classe media e da una pericolosa svolta xenofoba, il nuovo corso della politica estera dell’Ue sui migranti, dunque, pone degli interrogativi di natura etica e pratica non trascurabili, al di là degli annunci dei vari uffici politici europei.
L’Europa finanzia i regimi per bloccare le partenze dei migranti, ma il Mediterraneo è ormai un cimitero
I naufragi nel Mare Nostrum si susseguono. Mentre i superstiti che sbarcano in Italia vengono rinchiusi negli hotspot, come quello di Lampedusa. Il governo, in linea con l’Ue, tratta con la Tunisia e con la Cirenaica di Haftar, promettendo soldi in cambio di confini blindati. Bianca Senatore da Lampedusa su L'Espresso il 09 agosto 2023
«Quest’inverno ero sul peschereccio con mio zio e per quante reti tiravamo su tante parti di corpi trovavamo in mezzo ai pesci. All’inizio, per l’orrore, ributtavamo a mare ogni cosa ma succedeva così spesso che avremmo fatto fallire l’attività. E così abbiamo cominciato a fare la cernita». Cristian parla sulla strada per il vecchio camposanto di Lampedusa, dove sono sepolti alcuni dei migranti morti nel naufragio del 3 ottobre 2013: 368 morti e chissà quanti dispersi. Tra le tombe dei locali, ci sono quelle anonime di uomini e donne annegati tra le onde mentre cercavano di raggiungere la salvezza. «Ma il vero cimitero è nel mare», dice Cristian. E ora lì ci sono anche i corpi di chi è morto nell’ultima strage al largo del Peloponneso.
Mentre le autorità continuano a rimpallarsi le responsabilità, all’appello mancano ancora centinaia di corpi, che probabilmente non riemergeranno mai più dagli abissi. «Molti dei migranti morti al largo della Grecia erano su un barcone che, lo scorso 23 maggio, era stato respinto in Libia in acque Sar maltesi. Ci hanno riprovato e sono affogati», ha raccontato l’attivista Nawal Soufi. Il numero reale delle vittime in mare è approssimativo, più di millequattrocento in questi sei mesi del 2023 ma quanti sono i dispersi, i morti di cui nessuno ha tenuto traccia? E poi ci sono coloro che, fortunatamente, riescono ad arrivare.
Da trent’anni ormai, Lampedusa è il primo approdo per migliaia di migranti e anche in questi giorni gli sbarchi sono continui. Ma gli isolani non li vedono più. «All’inizio tutti noi portavamo acqua e coperte», racconta don Carmelo, parroco di Lampedusa. «La chiesa era aperta giorno e notte e i ragazzi trovavano conforto in un sorriso, in una mano tesa. Poi all’improvviso ci hanno vietato di avere rapporti e i ragazzi sono spariti alla vista». È così. A mano a mano che le politiche securitarie dei governi si sono infittite, uomini, donne e bambini sono diventati sempre più ombre: sagome indistinte portate via in fretta, a pochi metri dalla spiaggia della Guitgia e dai ristoranti pieni di turisti, e velocemente rinchiuse nell’hotspot
Le condizioni del centro di contrada Imbriacola, peraltro, erano diventate disastrose negli ultimi anni. Da inizio giugno, però, la Croce Rossa ne ha preso la gestione e ha assicurato alti standard di accoglienza, ripristinando bagni, fognature, una mensa. Un primissimo e minimo luogo dove sentirsi al sicuro, giusto il tempo di una dormita prima di rimettersi in movimento. Valerio Valenti, commissario delegato per lo stato di emergenza, infatti, ha stabilito trasferimenti quotidiani da Lampedusa verso la terra ferma. Almeno 400 al giorno, dal 10 giugno, con navi appositamente noleggiate dal governo.
L’obiettivo è rendere i migranti invisibili e attivare politiche sempre più rigide; eppure, molto meno sicure e rispettose della dignità umana. In questi ultimi 20 anni, da un lato le politiche nazionali hanno progressivamente indebolito il sistema di accoglienza, fino quasi a smantellarlo ora, con il decreto Cutro. Dall’altro, l’Italia, in linea con l’Europa, ha lavorato per esternalizzare i confini delegandone la protezione ai Paesi del Nord Africa. Ne è un esempio l’accordo dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti con la cosiddetta guardia costiera libica, che con soldi e mezzi italiani respinge i migranti e li riporta nei lager di Tripoli, Misurata, Bengasi.
Anche il governo Meloni sta andando in questa direzione. Di recente, la presidente del Consiglio è stata due volte in pochi giorni in Tunisia per provare a convincere il presidente Kais Saied a bloccare le partenze dalle coste di Sfax. Assieme alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e al primo ministro dei Paesi Bassi Mark Rutte ha messo sul piatto quasi un miliardo di euro, per sbloccare la crisi economica interna, in cambio di uno stop alle partenze.
Ma pare sia stato un flop. «No ai migranti in cambio di soldi», ha detto Saied, perché in effetti il tentativo era fin troppo evidente e mal celato dal desiderio europeo di aiutare economicamente la Tunisia. Non ci credeva nessuno e il governo di Tunisi, infatti, per ora ha ribadito che il Paese non si trasformerà in guardia di frontiera delle coste europee. D’altro canto, anche ventisei associazioni e Ong hanno sottoscritto un comunicato in cui chiedono alla Tunisia di garantire i diritti umani dei migranti e di interrompere le campagne razziste nei confronti dei sub-sahariani. L’obiettivo dell’Europa è di trasformare la Tunisia in una nuova Libia, con centri di detenzione per migranti e una guardia costiera pagata per respingere i barconi.
Se Saied rifiutasse l’offerta, potrebbe avanzarne una nuova di zecca il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Il barcone con 650 persone a bordo naufragato davanti alle coste greche era partito proprio da Tobruk, da dove stanno partendo più persone negli ultimi mesi. Il governo Meloni potrebbe chiudere a breve un nuovo memorandum libico, questa volta con il capo della Cirenaica. Non a caso a inizio maggio Kalifa Haftar è arrivato a Roma proprio per discutere con la premier della questione migratoria. Penserebbe lui a fermare le partenze in cambio di un contributo economico. Da inizio giugno le truppe dell’esercito nazionale libico (Lna) stanno mostrando una insolita attività di rastrellamento e arresto di migranti, per dimostrare all’Ue di meritare il sostanzioso bonus economico.
Peccato, però, che siano proprio i figli del generale Haftar a fare affari con i clan che manovrano i fili del traffico di esseri umani. Secondo fonti locali, riceverebbero dai contrabbandieri parte dei soldi estorti con sangue e violenza a chi cerca di trovare la strada per una vita migliore. Ma la propaganda del governo contro gli scafisti, gli accordi milionari con Paesi terzi e gli occhi chiusi di fronte alle migliaia di morti non possono essere la soluzione al problema delle migrazioni. Se non la ricetta per ulteriori lutti e altrettanti fallimenti.
Il dramma dei migranti. Mamma e bimba muoiono di caldo e sete, il dramma dei migranti intrappolati nel deserto tra Tunisia e Libia. Redazione Web su L'Unità il 21 Luglio 2023
Stese sulla sabbia, riarse dal sole. I corpi di mamma e figlia sono stati trovati così in mezzo al deserto accanto a un piccolissimo cespuglio. La mamma cercava di abbracciare la figlia come se volesse proteggerla per l’ultima volta, l’ultimo disperato tentativo prima di morire entrambe di sete e caldo. E’ questa la foto che cristallizza l’ultimo dramma dei migranti: arrivano da tutta l’Africa cercando di raggiungere il mar mediterraneo e da li trovare la fuga. Ma prima di riuscirci devono superare il deserto tra Libia e Tunisia. Ed è lì che si trovano intrappolati dopo essere stati respinti dalle autorità tunisine. Senza cibo, acqua o alcun tipo di aiuto. Ed è lì che muoiono, sotto il sole di questa torrida estate. Un dramma che si aggiunge al dramma.
La foto di mamma e figlia morte nel deserto in poche ore sta facendo il giro del web. Ed è un colpo al cuore. Non sappiamo nulla di loro: né i loro nomi, da dove vengano, né qual è la loro storia, dove si trovassero precisamente in quel momento o dove sognassero di arrivare. Sappiamo solo che sono morte. Secondo quanto riporta5to dal Corriere della Sera, il tenente colonnello Khalifa al Senussi, della guardia di frontiera libica ad Al Jazeera ha confermato però l’accaduto. A segnalare la presenza dei due corpi senza vita alla polizia sarebbe stato un altro migrante fermato durante un controllo nel deserto.
Una tragedia umanitaria che da settimane sta andando avanti nel deserto africano. La polizia locale tunisina sta respingendo i migranti provenienti da Paesi della fascia sub sahariana che cercano di entrare nel paese dalla Libia. E così si trovano come intrappolate nel deserto senza sapere dove andare e soprattutto prive di qualsiasi sostentamento. La polizia libica ha pubblicato tre giorni fa un video in cui alcune sue pattuglie, in pieno deserto, prestano soccorso a 90 persone sfinite dal caldo e dalla sete. Il presidente tunisino Kais Saied, con cui il Governo italiano ha appena stretto accordi, sta cercando di blindare i suoi confini per evitare l’arrivo massiccio di migranti. Saied ha inoltre dichiarato che accetterà i rimpatri dall’Europa solo di migranti tunisini, on di altre nazionalità.
E dal deserto arrivano gli appelli disperati dei migranti: “Stiamo morendo uno alla volta, aiutateci”. Un piccolo video postato sui social in cui si vede una migrante che dice di essere lì’ì da 11 giorni. Non si capisce bene dove si trovi: alle sue spalle c’è il deserto. Da una parte si vedono schierati i militari libici e dall’altro quelli tunisini. In mezzo c’è il gruppo di migranti che porta cons e anche dei bambini. “Ogni volta che tentiamo di rientrare in Tunisia, loro ci bloccano. Ci dicono che fin quando dal governo non arrivano indicazioni, non sono autorizzati a farci passare”, spiega Joy. “Hanno cercato di spingerci verso la frontiera libica, ma le milizie non lo permettono”, racconta Joy. “Abbiamo bisogno di aiuto immediato. Non abbiamo né cibo, né acqua. Neonati e bambini stanno morendo qui, donne incinte, tutti”, recita un altro messaggio audio arrivato ad associazioni e ong che operano in Tunisia. Redazione Web 21 Luglio 2023
Mamma e figlia morte di caldo e sete nel deserto, la storia di Fati e Marie e degli altri genitori migranti morti sperando una vita migliore. Rossella Grasso su L'Unità il 26 Luglio 2023
Non ci sono parole adatte per descrivere la tragedia umana che si sta verificando nel mar Mediterraneo e purtroppo anche nel deserto. Genitori che fuggono dai paesi subsahariani, tenendo per mano i loro bambini, cercando la via verso la speranza, la salvezza. E in questi viaggi invece trovano la morte. Attraversano il deserto cercando di arrivare al mare. Da una parte sono respinti dalle guardie libiche, dall’altra da quelle tunisine. Restano in mezzo, riarsi dal sole, senza viveri, acqua e nemmeno il sollievo di un’ombra. Muoiono così, con solo la speranza nel cuore.
Pochi giorni fa sui social era rimbalzata la foto di due corpi, mamma e figlia di non più di 6 anni distese a terra, morte: la mamma aveva tentato un ultimo protettivo abbraccio alla sua piccola prima di morire. Oggi le due donne hanno un nome e un volto: si chiamavano Fati Dosso e sua figlia Marie. L’associazione Refugees In Libya ha diffuso un video girato nel deserto che arriva allo stomaco come un pugno: corpi di genitori, padri, morti nel deserto tenendo per mano i loro bambini, cercando la fuga e una vita migliore. “Difficile distogliere lo sguardo da queste scene di genitori che muoiono insieme ai loro figli – scrive Refugees in Libya – Qualche giorno fa erano Fati Dosso e Marie, oggi è ancora un padre senza volto, suo figlio e altri due compagni a cui è stata ingiustamente rubata la vita. Questo video è stato rilasciato ieri dalle guardie di frontiera libiche della 19a unità insieme al servizio medico di emergenza libico”.
E la stessa associazione ha ricostruito l’identità e la storia di Fati e Marie che ha raccontato su Twitter: “Fati Dosso 30 è nata nell’ovest della Costa d’Avorio in un villaggio. Si dice che i suoi genitori siano morti molto tempo fa e poi si è trasferita in Libia dove ha vissuto per 5 anni. Suo marito anche lui di 30 anni, Mbengue Nyimbilo Crepin, soprannominato Pato viene dal Camerun e non è chiaro se Fati Dosso e Pato si siano conosciuti in Libia dove hanno messo su famiglia e dato alla luce la piccola Marie morta pochi giorni fa all’età di 6 anni”. Non è chiaro cosa sia successo e se Pato sia ancora vivo.
“Dopo diversi tentativi di attraversare il Mar Mediterraneo dalla Libia negli ultimi anni, si sono arresi e si sono diretti in Tunisia dove avevano in programma di crescere la loro figlia – continua la storia – Pato era insieme alla moglie e alla piccola Marie quando sono stati cacciati al confine tra Tunisia e Libia e si può solo supporre che sia andato a cercare l’acqua prima di perderne le tracce. Pato è ancora disperso o forse potrebbe essere stato soccorso dalle guardie di frontiera libiche. Stiamo facendo tutto il possibile per parlare con uno dei suoi parenti in Costa d’Avorio e con la famiglia di suo marito i cui telefoni non ricevono risposta. La Tunisia deve assumersi la responsabilità di questo omicidio”. Sono queste storie che raccontano il dramma umanitario e quello che sta succedendo al confine tra Tunisia e Libia dove dal25 febbraio, il presidente Kais Saied ha bollato tutti i subsahariani come “persone non grate” perché “strumento di un piano di sostituzione etnica per cambiare l’identità araba del Paese”. E così sono iniziate le violenze e le morti assurde nel deserto: trovati vengono presi e scaricati nel deserto, in terra di nessuno.
Rossella Grasso 26 Luglio 2023
Quanti profughi sono morti e quanti scomparsi negli ultimi 10 anni, le statistiche dell’IOM. Varrebbe la pena di prenderne nota: bisogna moltiplicare per due i numeri che suscitano le nostre deplorazioni. Iuri Maria Prado su L'Unità il 21 Luglio 2023
Continuiamo a indugiare sul numero dei migranti, crescente ogni mese, morti nel tentativo di fuggire dai Paesi di provenienza. Decine di migliaia, ormai, solo negli ultimi dieci anni. Ma si tratta di statistiche indulgenti. Studi dell’International Organization for Migration (IOM) calcolano infatti che i morti recuperati rappresentano soltanto una quota rispetto a un totale ben più corposo: trentamila contro quasi il doppio, cinquantottomila.
La qualifica: “missing”, scomparsi. Varrebbe la pena di prenderne nota: bisogna moltiplicare per due i numeri che suscitano le nostre deplorazioni. Quelli come stracci intorno ai gusci ribaltati dei carnai galleggianti; quelli maciullati come polpi contro i nostri scogli; quelli in catasta sui barconi trainati verso il porto dai militari, lentamente, perché in quel carico non ci sono residui superstiti; quelli che infiliamo nei sacchi di plastica implotonati sulle nostre spiagge; tutti quelli che insomma recuperiamo morti, dopo non averli salvati, non sono neppure la metà di coloro che partono senza arrivare.
Ma la contabilità effettiva è arricchita di dati anche più interessanti. Uno è talmente noto che passa per scontato: circa metà di quei quasi sessantamila è concentrata qui, nel mediterraneo. Ripugnante è poi il profilo dettagliatamente macabro di quelle rilevazioni. Settecento sono morti per causa “accidentale”. Novemila per combinazione di fattori o causa sconosciuta. Cinquemila per incidente stradale o per l’uso di mezzi di trasporto “azzardati”. Tremilacinquecento per “violenza” (aggressione, assassinio, ecc.).
Tremilatrecento per avversità metereologiche o per mancanza di rifugio, cibo o acqua. Millecinquecento per mancanza di assistenza medica. Infine, il numero prominente: trentacinquemila affogati. Pressoché tutta roba nostra, quest’ultima, gente cioè affogata nel pozzo mediterraneo tra le nostre coste e quelle dirimpettaie di partenza. Chissà a quale gruppo apparteneva il ragazzo preso dal terrore, che scavalcando i cadaveri dei compagni sul ponte della nave si buttava in acqua e scompariva. Affogato per impazzimento. Chissà in quale casella statistica è finita la bambina siriana ridotta a una cosa disidratata nelle braccia della madre, mentre la piccola sorella si abbeverava di mare credendo in quel modo di salvarsi. Categoria: “mancanza d’acqua”, ma l’immagine concreta è meno protocollare. Chissà in quale posta di quel bilancio è finito il bambino di un paio d’anni che un’altra madre ha composto prima di affidarlo alla corrente.
Morto di freddo: ma la classificazione “lack of shelter”, mancanza di riparo, rischia la vaghezza. E l’uso di mezzi di trasporto azzardati: non un’automobile sovraccarica finita in un fosso, ma il carrello di un aereo che stritola il ragazzino che vi si era nascosto, o la stiva che ne restituisce un altro surgelato a quarantacinque gradi sotto zero. Rendono meglio l’idea, questi fatterelli. Intanto il mare porta verso il Regno Unito l’ultima invenzione per risolvere il problema: un enorme carcere galleggiante per i migranti, cinquecento posti-carcere nell’attesa del disbrigo delle pratiche di deportazione. Iuri Maria Prado 21 Luglio 2023
Migranti, morti 289 bambini in sei mesi. Sbarchi mai così alti dal 2017. Il numero di rilevamenti è salito a quasi 65.600, il più alto su questa rotta per questo periodo dal 2017 e quasi il 140% in più rispetto a un anno fa. Il Dubbio il 15 luglio 2023
Almeno 289 bambini sono morti o scomparsi quest'anno cercando di attraversare la pericolosa rotta migratoria del Mediterraneo centrale dal Nord Africa all'Europa. Vale a dire circa 11 bambini morti o scomparsi ogni settimana in cerca di sicurezza, pace e migliori opportunità. A rilevarlo è l’Unicef, secondo cui dal 2018 si stima che circa 1.500 bambini sono morti o dispersi mentre cercavano di attraversare il Mediterraneo centrale. Questo numero corrisponde a 1 su 5 delle 8.274 persone morte o disperse lungo la rotta, secondo i dati del Progetto Migranti Scomparsi dell'Oim. Finora, nel 2023, si stima che circa 11.600 bambini (428 a settimana) abbiano compiuto la pericolosa traversata. Nei primi tre mesi del 2023, 3.300 bambini, il 71% di tutti i bambini arrivati in Europa tramite questa rotta - sono stati registrati come non accompagnati o separati.
"Nel tentativo di trovare sicurezza, ricongiungersi con la famiglia e cercare un futuro più speranzoso, troppi bambini si imbarcano sulle coste del Mediterraneo, perdendo poi la vita o risultando dispersi durante il viaggio", dice il direttore generale dell'Unicef Catherine Russell. "Questo è un chiaro segnale che bisogna fare di più per creare percorsi sicuri e legali per l'accesso dei bambini al diritto d'asilo, rafforzando al contempo le azioni per salvare vite in mare. In definitiva, bisogna fare molto di più per affrontare le cause alla radice che portano in primo luogo i bambini a rischiare la vita", aggiunge.
L'Unicef stima che 11.600 bambini - una media di 428 bambini a settimana - sono arrivati sulle coste dell'Italia dal Nord Africa da gennaio 2023. Questo dato rappresenta un aumento di due volte rispetto allo stesso periodo nel 2022, nonostante i gravi rischi che corrono i bambini. La maggior parte dei bambini parte dalla Libia e dalla Tunisia, dopo aver gia' affrontato viaggi pericolosi da paesi dell'Africa e del Medio Oriente.
Ma è proprio il numero di arrivi di migranti dalla rotta del Mediterraneo centrale ad aver raggiunto nei primi sei mesi dell’anno il numero massimo dal 2017. Lo riferisce una nota dell’agenzia di gestione delle frontiere Ue, Frontex. «Nei primi sei mesi di quest’anno, il numero di rilevamenti di attraversamenti irregolari alle frontiere esterne dell’Ue ha raggiunto 132.370, il totale più alto per la prima metà dell’anno dal 2016 e il 10% in più rispetto a un anno fa. Il Mediterraneo centrale rimane la principale rotta migratoria verso l’Ue, rappresentando quasi la metà di tutti i rilevamenti alle frontiere dell’Ue nel periodo gennaio-giugno. Il numero di rilevamenti è salito a quasi 65.600, il numero più alto su questa rotta per questo periodo dal 2017 e quasi il 140% in più rispetto a un anno fa“.
“PRESSIONE DA LIBIA E TUNISIA RESTERÀ NEI PROSSIMI MESI”
Per quanto riguarda le previsioni, “l’aumento della pressione migratoria sulla rotta del Mediterraneo centrale potrebbe persistere nei prossimi mesi con i contrabbandieri che offrono prezzi più bassi per i migranti in partenza dalla Libia e dalla Tunisia in mezzo a una feroce concorrenza tra i gruppi criminali“, scrive ancora Frontex. “Il Mediterraneo centrale rimane la rotta più attiva verso l’Ue quest’anno, con quasi 66.000 rilevamenti segnalati dalle autorità nazionali nei primi sei mesi del 2023. Questa rotta rappresenta uno ogni due ingressi irregolari nell’Ue in quest’anno – precisa – Gli arrivi su tutte le altre rotte migratorie hanno registrato cali rispetto a un anno fa, che vanno dal 6% sul Mediterraneo occidentale fino al 34% sulla rotta del Mediterraneo orientale”.
“TRAVERSATE RIMANGONO ESTREMAMENTE PERICOLOSE”
“Dopo una diminuzione a maggio causata da lunghi periodi di cattive condizioni meteorologiche, i contrabbandieri hanno intensificato le loro attività, determinando un aumento dell’85% degli arrivi nel Mediterraneo centrale a giugno – si legge ancora nella nota – Purtroppo, le traversate marittime rimangono estremamente pericolose. Secondo i dati dell’Oim nel solo mese di giugno sono scomparse nel Mediterraneo quasi 1.900 persone, la maggior parte lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Nel periodo gennaio-giugno, la rotta dei Balcani occidentali, la seconda rotta più attiva con quasi 40.000 rilevamenti, ha registrato un calo del 29%, in gran parte dovuto alle politiche in materia di visti più rigorose”.
Da agi.it il 15 Giugno 2023.
Almeno 79 migranti partiti dalla Libia e diretti in Italia sono morti in un naufragio al largo del Peloponneso. Il timore però è che il bilancio delle vittime sia molto più pesante. Il peschereccio su cui viaggiavano 600 persone si è capovolto in acque internazionali nel Mar Ionio, forse a causa dei forti venti, ha detto la guardia costiera greca che ha salvato circa 100 naufraghi.
Si teme che le acque, che in quel tratto sono profonde anche 4.000 metri, abbiano inghiottito decine di donne e bambini. Un superstite ha parlato di un centinaio di bambini nella stiva del peschereccio e il fatto che la maggior parte dei sopravvissuti siano uomini è insolito per un gruppo di migranti di queste dimensioni.
"Il peschereccio era lungo 25-30 metri. Il suo ponte era pieno di gente e presumiamo che l'interno fosse altrettanto pieno", ha detto il portavoce della guardia costiera greca Nikolaos Alexiou "Non sappiamo cosa ci fosse nella stiva... ma sappiamo che diversi contrabbandieri rinchiudono le persone per mantenere il controllo", ha aggiunto il portavoce del governo Ilias Siakantaris.
Siakantaris ha detto che in base alle testimonianze, che al momento non possono essere confermate, a bordo dell'imbarcazione si trovavano fino a 750 persone. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni ha dichiarato in un tweet che a bordo c'erano fino a 400 persone.
Le operazioni di ricerca e salvataggio sono andate avanti per tutta la notte con bengala sparati da un aereo da trasporto militare C-130 per illuminare la superfice del mare. Il motore della barca si è spento poco prima della mezzanotte ora italiana di martedì e il peschereccio si è capovolto ed è affondato in circa 10-15 minuti. I sopravvissuti provengono principalmente da Siria, Pakistan ed Egitto, ha detto Alexiou.
Il presidente greco Katerina Sakellaropoulou ha visitato il porto di Kalamata per informarsi sulle operazioni di salvataggio e sulla sistemazione data ai superstiti. La Grecia è sotto un governo ad interim fino alle elezioni del 25 giugno. L'ufficio del primo ministro ad interim Ioannis Sarmas ha dichiarato tre giorni di lutto, aggiungendo che i pensieri della nazione sono "con tutte le vittime di trafficanti spietati che approfittano della sfortuna umana".
Il capo della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è detta "profondamente rattristata dalla notizia del naufragio al largo delle coste greche e dai numerosi decessi segnalati" e "molto preoccupata per il numero di persone scomparse". "Dobbiamo continuare a lavorare insieme, con gli Stati membri e i paesi terzi, per prevenire tali tragedie", ha affermato. I migranti hanno "rifiutato l'aiuto"
I media greci hanno riferito che quasi 30 persone sono state portate all'ospedale del porto. La guardia costiera ha detto che quattro persone in condizioni più gravi sono state trasferite in ospedale in elicottero e che un aereo di sorveglianza dell'agenzia europea Frontex aveva avvistato la barca martedì pomeriggio, ma i passeggeri hanno "rifiutato qualsiasi aiuto". Nessuno a bordo indossava giubbotti di salvataggio.
“Cento bambini nella stiva”: il naufragio dei migranti in Grecia. Redazione CdG 1947 su Corriere del Giorno il 16 giugno 2023.
Gli unici sopravvissuti al naufragio del peschereccio che s’è ribaltato a 80 chilometri dalla costa greca nella notte tra martedì e mercoledì, sono tutti uomini. Secondo le testimonianze raccolte dalla Polizia, avrebbero pagato tra i 4 e i 7 mila dollari per il viaggio, e sarebbero partiti il 10 giugno dalla Libia orientale, zona di Tobruk, Cirenaica .
Dei 104 naufraghi messi in salvo, una trentina sono in ospedale, circa una dozzina hanno trascorso l’intero pomeriggio sotto interrogatorio negli uffici della guardia costiera: nove, in serata, finiscono in arresto, accusati di far parte dell’equipaggio al comando del peschereccio affondato. Le autorità greche ritengono che siano almeno 500 i morti. Al momento I corpi dei morti tutti egiziani recuperati in mare al momento sono 78. Il comandante del natante sarebbe riuscito a scappare nel pomeriggio prima del naufragio, anche se al momento non ci sono conferme della testimonianza raccolta dagli attivisti di Alarm Phone, una linea rossa per i migranti in mare in difficoltà.
Gli altri naufraghi innocenti salvati sono rimasti in un silos d’acciaio nel porto di Kalamata, Peloponneso sud-occidentale, prima di venire trasportati fra la serata di ieri ed oggi in una struttura di accoglienza a Malakasa, non lontano da Atene.
La Guardia costiera greca nega evidenti responsabilità e racconta una storia che, viene smentita con il passare delle ore, dalle testimonianze dei superstiti. “Non volevano essere soccorsi – è la tesi fornita dal primo momento dalla Guardia costiera greca -. Ci hanno detto che volevano proseguire verso l’Italia“. Ma la realtà dice ben altro e la ricostruzione più attendibile che sta emergendo attribuisce alla Grecia ben altre responsabilità. Innanzitutto quella di essere intervenuti in soccorso in ritardo.
Il capitano della Guardia costiera Nikos Alexiou così ha giustificato la decisione“: Se avessimo provato a soccorrerli con la forza avremmo potuto causare il naufragio del peschereccio. Avremmo potuto essere noi la causa dell’affondamento. Non è affatto vero che siamo stati lì a guardare senza soccorrerli“. Ed aggiunge: “Non esistono semplici osservatori che salvano 104 esseri umani . Abbiamo provato a convincerli di farsi aiutare. Non si rendevano conto del pericolo che stavano correndo“. RIvelando un particolare: “Dieci minuti prima che il barcone affondasse, ha perso il motore. Potrebbe essere stata questa la causa delle forti oscillazioni che hanno causato il naufragio“.
L’ attivista Nawal Soufi aveva segnalato su Twitter la mattina del 13 giugno, alle 9,35, dopo aver avvertito le autorità marittime greche, maltesi e italiane, che una grande imbarcazione, a bordo della quale c’erano 750 persone, era in pericolo. L’allerta è stata diramata: il peschereccio sovraccarico di persone sembrava essersi perso nelle acque internazionali, a circa 50 miglia dalla città costiera greca di Pylos, e a 250 miglia dall’area Sar italiana. Era compito quindi della Grecia intervenire, ma le ore trascorrevano senza alcun intervento di soccorso.
Incredibilmente è passato un intero giorno, durante il quale, un aereo di Frontex, dopo aver sorvolato la zona, inviava le immagini del barcone riempito fino all’inverosimile, dalle quali si vedono i passeggeri con le mani rivolte verso l’ alto, come per chiedere aiuto. Il Coordinamento marittimo italiano conferma di aver ricevuto una e-mail con la segnalazione, ma per raggiungere quel tratto di mare ci sarebbero voluti due giorni.
Grazie al numero di telefono satellitare inviato, la Guardia costiera di Roma individuava il tratto di mare dove il peschereccio si trovava e quindi lo segnalava alle autorità marittime greche. A distanza di ore, la ricostruzione che si va delineando appare molto diversa da quella prospettata dai greci. A partire dalla direzione del peschereccio, la cui rotta non sarebbe stata verso l’Italia, ma in realtà verso le coste greche del Peloponneso.
Una deviazione rispetto alla iniziale rotta per raggiungere la costa calabrese, che sarebbe stata necessaria perché c’era in atto una emergenza. Dai racconti dei sopravvissuti viene fuori che la tensione a bordo era molto alta già poche ore dopo la partenza da Tobruk, in Cirenaica. Il motore del peschereccio aveva cominciato a non funzionare sei ore dopo aver lasciato le coste della Libia, al punto che alcuni dei migranti avrebbero anche richiesto di poter tornare indietro. Ma il capitano del peschereccio Adriana e gli scafisti – secondo il racconto dei migranti – avrebbero proseguito usando le maniere forti arrivando a picchiare chi si lamentava o protestava.
Gli unici sopravvissuti al naufragio del peschereccio che s’è ribaltato a 80 chilometri dalla costa greca nella notte tra martedì e mercoledi, sono tutti uomini. Secondo le testimonianze raccolte dalla Polizia, avrebbero pagato tra i 4 e i 7 mila dollari per il viaggio, e sarebbero partiti il 10 giugno dalla Libia orientale, zona di Tobruk, Cirenaica .
L’acqua a bordo martedì mattina era finita, come anche il cibo. C’è chi dopo quattro giorni di navigazione, passati in molto nella stiva, ha perso i sensi totalmente disidratato. Nelle ore successive si scoprono sei cadaveri, due dei quali sono bambini. Scoppia il panico, i migranti capiscono che le loro richieste di aiuto sono cadute nel vuoto. Qualcuno prova a ribellarsi, e sarebbe stato a quel punto che il capitano, dopo aver girato la prua verso le coste greche, avrebbe abbandonato la nave calando una scialuppa.
I tracciati della navigazione evidenziano e comprovano che, il peschereccio da quel momento, comincia a sbandare. La situazione precipita quando due mercantili, che avevano ricevuto ordine dalla Guardia costiera greca di avvicinarsi per aiutarli, comincia a tirare a bordo bottiglie di acqua e viveri. Per prenderi i migranti si sarebbero accatastati tutti verso un lato del barcone, così provocando forti oscillazioni che li ha hanno fatti desistere dal continuare. Trascorrono altre ore e il motore si spegne definitivamente, rendendo ormai l’imbarcazione ingovernabile. È a quel punto che lo spostamento di peso dei 750, schiacciati l’uno sull’altro, avrebbe causato il rovesciamento. In meno di 10-15 minuti, dopodichè, l’affondamento e la strage in mare. Redazione CdG 1947
Strage di migranti in Grecia, a picco il peschereccio diretto in Italia: «Nella stiva c'erano cento bambini». Michele Farina su Il Corriere della Sera il 15 Giugno 2023
Il barcone partito dalla Libia è affondato al largo della Grecia: 79 corpi recuperati, almeno 500 dispersi Abisso Calipso La tragedia è avvenuta nell’area dove il Mar Mediterraneo è più profondo. I media greci citano la testimonianza di alcuni sopravvissuti secondo cui nella stiva c'erano «almeno cento bambini»
Abisso Calipso: un vecchio peschereccio di metallo con centinaia di persone a bordo si è ribaltato ed è affondato verso il Mar Ionio quando ancora era buio, nella notte tra martedì e mercoledì, vicino al punto dove il Mediterraneo si fa più profondo e porta il nome della ninfa che amò e nascose Ulisse, in acque internazionali ovvero di tutti e di nessuno (ma il Paese più vicino è la Grecia), a una settantina di chilometri a sud ovest della mitica Pylos dove nell’Odissea il figlio Telemaco andò a cercare notizie del naufrago forse più famoso della storia. Per tutta la giornata di ieri è andata crescendo la conta dei naufraghi senza nome e senza vita recuperati dalle navi di soccorso greche. Al mattino sembravano solo trenta, poi il bilancio è salito: cinquanta, poi settantanove. Mentre la conta dei salvati si è paurosamente inchiodata a una cifra che a sera inoltrata sembrava definitiva: 104 persone ce l’hanno fatta, tutti uomini, in prevalenza giovani ventenni, fra cui 30 egiziani, 10 pachistani, 35 siriani, 2 palestinesi.
Le polemiche sui soccorsi: «Fermi un giorno»
Nella stiva «almeno 100 bambini»
È dai primi racconti dei sopravvissuti, condotti a terra nel porto di Kalamata nel Sud del Peloponneso (35 ricoverati per ipotermia), che sono arrivate le notizie di prima mano, di primo dolore, sull’ultima tragedia dei migranti nel Mare Nostrum: il peschereccio era partito da Tobruk, nella Libia orientale controllata dalle forze del generale Kalifa Haftar, ed era diretto in Italia, probabilmente verso le coste della Calabria. A bordo c’erano dalle 500 alle 700 persone. Nella stiva donne e bambini. Questi ultimi, dicono i media greci, sarebbero stati tantissimi, forse anche un centinaio. La tv greca Ert, in particolare, cita la testimonianza di un superstite rilasciata al medico che lo stava assistendo, secondo cui nella stiva ci sarebbero stati «almeno cento bambini».
«Continueremo ad operare per tutta la notte con l’assistenza dei C-130 dell’Aeronautica Militare», diceva ieri sera Nikolaos Alexiou, portavoce della Guardia costiera greca, nella tardiva speranza di poter individuare qualche naufrago ancora in vita, o comunque i corpi dei morti da restituire alla terra se non alle famiglie. Ma se centinaia erano sul barcone, allora vuole dire che la maggior parte di loro non sarà recuperata: inghiottiti dal mare intorno al cosiddetto Abisso Calipso, quella fossa circolare di 50 km di diametro a oltre 5.100 metri sotto il livello del mare. Laggiù, dove arrivano solo rare spedizioni di scienziati o di ricchi esploratori, si deve essere posato da qualche parte il relitto dei migranti.
Proprio Alexiou, inoltre, ha svelato un dettaglio sconcertante alla tv ellenica Skai : «Non abbiamo effettuato un salvataggio forzato del peschereccio per timore che questi potesse ribaltarsi». Evento che poche ore dopo si è però verificato. Secondo i medici dell’ospedale di Kalamata è possibile che il bilancio della tragedia sia di 600 morti.
Anche le autorità italiane erano al corrente della navigazione del peschereccio. La mattina di martedì 13 giugno il centro di coordinamento di Roma aveva ricevuto una mail che riferiva la presenza di un barcone in difficoltà con a bordo 750 migranti. Nella segnalazione non veniva fornita alcuna posizione, ma veniva riportato esclusivamente il numero di un telefono satellitare presente a bordo. La Centrale operativa della Guardia Costiera di Roma, ricevuta la comunicazione, ha contattato il numero indicato, avviando nel contempo le procedure di localizzazione del telefono satellitare. Accertato che l’imbarcazione si trovava all’interno dell’area di responsabilità per la ricerca e soccorso in mare greca, la Centrale Operativa - come previsto - nell’immediatezza contattava la Guardia costiera greca, fornendo a questa tutte le informazioni utili per le operazioni di soccorso. Da quel momento, il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo italiano ha continuato ad aggiornare la localizzazione del satellitare presente a bordo, condividendo nelle ore successive con le competenti autorità SAR greche la posizione del barcone nell’area d’interesse, dove intanto dirigevano alcune unità mercantili.
La polizia greca, nel frattempo ha arrestato 8 cittadini egiziani che i superstiti hanno indicato come gli scafisti della barca. Ogni passeggero aveva dovuto versare una somma tra i 4.000 e i 6.000 dollari.
Non un vascello fantasma: il barcone era stato segnalato da un aereo dell’agenzia europea Frontex martedì sera. Il primo appello nel pomeriggio da Alarm Phone, ombrello di ong che fornisce una sorta di numero verde a naviganti in difficoltà. Dal barcone arrivano voci sempre più allarmate. Secondo la ricostruzione della Guardia costiera di Atene, due mercantili presenti nella zona forniscono cibo e acqua ai migranti in difficoltà. Ma il peschereccio sovraccarico prosegue la sua rotta. Sempre secondo la versione di Atene, un mezzo della guardia greca lo raggiunge in serata, confermando tanti migranti sul ponte «e il rifiuto a ogni offerta di aiuto». Fino a che, nelle prime ore dell’alba, il barcone affonda con il suo carico di vite.
A quel punto è allarme generale: Atene fa arrivare sul posto sei navi, una fregata, un elicottero, un aereo da trasporto, mentre un drone dell’agenzia Frontex sorvola l’area. Centoquattro persone salvate. Comincia la conta delle salme, e la stima dei dispersi per quello che si annuncia come il peggior naufragio dal 2015 (un altro peschereccio a picco al largo della Libia, 1.100 persone a bordo e solo 28 in salvo). Comincia anche la corsa dell’indignazione e dell’«ora basta» (dal segretario dell’Onu Guterres alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen), come accadde già a febbraio per la strage di Cutro. Anche allora il barcone fu inutilmente individuato prima della tragedia. Questa volta nessuna fila di corpi sotto lenzuoli bianchi: il mare li avvolgerà per sempre nell’abisso di Calipso.
I superstiti e la notte del naufragio di migranti in Grecia: «La Guardia costiera ci lanciò una cima». Storia di Gianni Santucci Corriere della Sera il 16 giugno 2023.
I superstiti e la notte del naufragio di migranti in Grecia: «La Guardia costiera ci lanciò una cima»© Fornito da Corriere della Sera
Kalamata Per dovere. O per necessità organizzativa. «Questa è la lista». L’impiegata si ferma sulla soglia degli uffici della guardia costiera a Kalamata, quattro mura celestine e una bandiera. Tiene in mano una dozzina di fogli. Scandisce in un inglese rallentato: «Ve lo ripeto. Qui ci sono 104 nomi. I sopravvissuti sono questi. Per chi non è su questa lista, non c’è più speranza». Significa oltre 600 siriani, egiziani e pakistani che erano sul peschereccio affondato nella notte tra martedì e mercoledì, a 45 miglia nautiche dalla costa del Peloponneso: dispersi che passano a decessi.
Campioni di Dna
Una ventina di parenti di queste vittime ascoltano l’impiegata: «C’è una sola speranza, e cioè che nel caos e con i problemi di lingua, il nome sia stato scritto sbagliato». Possibilità minima, vicina al nulla. Al terzo giorno le autorità smettono di pattugliare il mare. Ultima precisazione: «Le famiglie possono mandare i campioni di Dna attraverso le ambasciate. Verranno confrontati con i 78 cadaveri. Se c’è un riscontro, le famiglie saranno informate. Ci sono 40 giorni di tempo». Ogni disastro umanitario apre un’odissea burocratica.
Davanti all’ufficio della Guardia costiera c’è anche Ahmed, egiziano che parla con accento milanese. Ha 23 anni e vive a Corsico, ai confini del capoluogo lombardo. Sulla barca affondata c’era suo cugino, 19 anni, partito da El Gharbia. Il racconto di Ahmed contiene il dramma umano e una ricostruzione che potrebbe rivelarsi decisiva per comprendere cosa abbia causato la seconda più grave ecatombe nella storia delle migrazioni nel Mediterraneo: «Mio cugino è partito con tre amici da Tobruk. La rotta prevede una linea fino a una piattaforma petrolifera, poi piega verso Ovest. Nessuno si spiega come la barca sia finita vicino alla Grecia. Giovedì sera qui tra i superstiti ho parlato con i tre amici che viaggiavano con mio cugino, mi hanno detto che avevano a lungo scherzato, tranquilli. Poi c’è stata l’avaria del motore. Hanno raccontato che la Guardia costiera ha lanciato una corda, che è stata legata al peschereccio, poi sono partiti, ma è come se la vedetta abbia dato uno strappo troppo forte: il peschereccio ha iniziato a ballare e s’è rovesciato. Erano tutti vicini, ma una volta caduti in mare non hanno capito più nulla, forse mio cugino non è riuscito a stare a galla».
Tre ore di osservazione
Il tema chiave è quello della corda. La testimonianza raccolta dal Corriere coincide con altri tre racconti di superstiti diffusi da parlamentari greci e da un addetto della Croce rossa. La Guardia costiera prima ha negato la presenza di qualsiasi cima, poi ha rivelato al quotidiano Kathimerini che «poco prima delle 23 l’equipaggio ha puntato i fari sul peschereccio . I guardacoste hanno anche usato una corda per agganciare il peschereccio e controllare le condizioni al suo interno». Una versione poi ripetuta dal portavoce del governo, Ilias Siakantaris, con la precisazione che «l’episodio si sarebbe verificato alle 23», mentre l’imbarcazione è affondata intorno alle 2. Da bordo avrebbero detto «vogliamo andare in Italia». Comunque: «Non c’è stato alcun tentativo di traino».
Sulla manovra di rimorchio per ora non si hanno altre conferme, ma è rilevante anche ciò che accade prima. Stando ai pochi documenti ufficiali, la ricostruzione della guardia costiera sostiene che una motovedetta partita da Creta ha agganciato il peschereccio alle 22.40 di martedì, e lo ha seguito a distanza fino all’1.40, «non riscontrando alcun problema nella navigazione». Vuole dire tre ore di osservazione. Che tradotto, secondo più fonti interpellate dal Corriere, e al netto delle segnalazioni sulla barca in difficoltà già dal mattino, vuole dire una cosa sola: «Stavano scortando il peschereccio sperando che riuscisse a entrare in acque di competenza italiana». Situazione non nuova. E che si verifica anche perché migranti e Guardia costiera fino a un certo punto hanno interessi convergenti: la Grecia vuole evitare un’emergenza umanitaria, i migranti temono di restare intrappolati .
Punto chiave: capire quando un’imbarcazione sia in pericolo. Una valutazione che, influenzata da indicazioni politiche, può determinare la vita o la morte di centinaia di persone. Di certo, sempre considerando la ricostruzione greca, quando il peschereccio è affondato non c’era uno schieramento di intervento adeguato. Per uno scenario di questo genere, il 7 luglio 2022 la Grecia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. I fatti risalgono a gennaio 2014, una barca con 27 migranti afghani affonda vicino all’isola di Farmakonisi, di fronte alla Turchia. Undici vittime. Quel giorno una sola vedetta della guardia costiera era in soccorso (come nel naufragio di tre giorni fa) e la barca di migranti si rovesciò in un tentativo di rimorchio con una corda (come raccontano i superstiti di martedì notte).
Retorica e silenzi. La stampa tace la tragedia, farabutti: complici dei poteri violenti. Dalla seconda guerra mondiale non c’era mai stata una tragedia così grande nel Mediterraneo. E la stampa tace. Mette la sordina. Piero Sansonetti su L'Unità il 16 Giugno 2023
Il 9 settembre del 1943, a largo della Sardegna, l’aeronautica tedesca attaccò una flotta italiana che navigava verso Taranto per consegnarsi agli americani. Fu colpita e affondato “il Roma”, la nave ammiraglia, una corazzata con 1500 persone a bordo. Ne morirono quasi mille. (Conosco bene questa storia perché tra i morti c’era uno dei fratelli di mio padre, e l’ altro fratello era tra i 500 naufraghi che si salvarono). “Il Roma” era una nave lunga 250 metri e larga 30.
L’altro ieri, al largo del Peloponneso, è affondata una barca di migranti. Non conosco il nome. Era lunga 30 metri e larga 6. Aveva a bordo 750 persone. Una quantità inaudita per una barca di quelle dimensioni. Ne sono morte circa seicento. È stata la più grande e spaventosa tragedia in mare del dopoguerra. Addirittura, per dimensioni, è paragonabile all’affondamento del “Roma2″, che avvenne nel momento più drammatico della più violenta e travolgente guerra della storia umana. Vi rendete conto? Senza stare a indugiare sui dettagli, restiamo alle cifre: cinquecento morti o seicento morti! Siamo in guerra.
Però questa non è guerra tra le nazioni (nazioni, come piace dire alla presidente del Consiglio) ma è una guerra delle nazioni europee contro i naufraghi. È la guerra dei vigliacchi. La guerra più infame e vile e codarda che mai sia stata combattuta. E quelli che la guidano ( ad Atene, a Roma, a Parigi, a Madrid a La Valletta) sono delle persone prive di coraggio e di umanità. Non mi riferisco solo ai governanti di oggi. Anche a quelli di ieri e dell’altro ieri. E mi riferisco soprattutto agli intellettuali, ai burocrati, dell’intellighenzia, ai giornalisti. Si, a noi: noi giornalisti che da anni facciamo la truppa d’assalto di questa guerra contro i poveri e gli indifesi.
La retorica contro i migranti è terribile, a volte patetica. Penso a come i giornali, quasi tutti i giornali, nei giorni scorsi hanno dato la notizia dell’intervento pronto e spavaldo di un reparto scelto dell’esercito italiano contro quindici africani affamati, che si erano rincantucciati nella stiva di una nave e che, con un taglierino, avevano squarciato una tela per permettere all’aria di entrare nel loro miserabile rifugio e non morire soffocati. Vi ricordate come ne parlò l’informazione di quella azione? “Fermati i dirottatori”. “Interviene la San Marco”. “Azione veloce ed esemplare”.… Pazzesco. N
on era l’azione di Nazario Sauro contro la marina asburgica. Era una maramalderia contro dei poveretti, tra i quali una pericolosa donna incinta. Non avevano le armi, le pistole, i kalashnikov, i dirottatori, avevano un taglierino e non hanno minacciato nessuno. Volevano andare in Francia e avevano trovato quello stratagemma per superare le barriere infernali poste dai paesi occidentali. Li hanno catturati ci mitragliatori spianati…
L’altro ieri, quando si trattava di una impresa più semplice e umana, quella di salvare 750 vite, nessuno ha trovato un battaglione attrezzato per intervenire. Eppure ci voleva poco. C’erano tutti i mezzi per farlo. E, come spiega Luca Casarini nel suo articolo, sarebbe forse persino bastato gettare dei salvagenti dagli elicotteri. Invece niente. Hanno aspettato che la nave andasse a fondo, e che il carico di uomini e donne e bambini che aveva a bordo, finisse nel fondo del fondo del mare. Li hanno assassinati. Hanno ucciso circa cento bambini.
Credo che sia la più grande strage di bambini, realizzata in poche ore, che sia mai stata realizzata nell’età moderna. È una vergogna eterna.
E di fronte a questa immane tragedia, la stampa come si è comportata? C’è un sito, sul web, che si chiama “Giornalone”. Facile da raggiungere. Pubblica tutti i giorni tutte le prime pagine di tutti i giornali nazionali. Sono trenta prime pagine. Solo Repubblica, Avvenire e Manifesto (oltre all’Unità) hanno dato con evidenza notizia della tragedia. Gli altri 27 giornali o l’hanno ignorata o l’hanno pubblicata in dei piccoli trafiletti. Vi sembra una cosa normale? Ragionevole. Che segno è?
È il segno che in Italia esiste una stampa in larga maggioranza sottomessa ai poteri che oggi trascinano una politica folle di aggressione ai migranti. Una politica di violenza. Questi poteri, che sono responsabili di immani stragi, non potrebbero comportarsi come si comportano, se non avessero l’appoggio succube e incondizionato della stampa.
Una stampa libera impedisce queste sopraffazioni. Si può considerare libera una stampa che ignora la più grande strage di migranti mai avvenuta? Edith Bruck su queste pagine, parla di Shoah. Ne parla lei, proprio lei che i campi di sterminio nazisti li ha conosciuti. Leggètela l’intervista alla Bruck. Leggetela e rileggetela. Dico a voi: giornalisti, politici, intellettuali. Leggetela e poi andate a dormire sereni. Piero Sansonetti 16 Giugno 2023
In Grecia esplodono le proteste per la strage di migranti. Stefano Baudino su L'Indipendente il 17 Giugno 2023
In questi giorni, in Grecia, sono andate in scena grandi proteste contro le politiche del governo nella gestione degli arrivi dei richiedenti asilo, con importanti scontri tra manifestanti e polizia, da cui sono sfociati una ventina di arresti. Decine di migliaia i dimostranti, tra Atene e Salonicco. Il tutto è avvenuto pochi giorni dopo il naufragio dei migranti al largo della costa di Pylos, destinato a essere ricordato come una delle peggiori tragedie mai avvenute nel Mediterraneo: se i decessi accertati sono per ora 78 e circa 100 persone sono state tratte in salvo, centinaia di migranti non sono stati (e, probabilmente, non saranno mai) ritrovati. Il bilancio rischia di registrare fino a 600 morti.
Il corteo dei manifestanti, guidato da sindacati e organizzazioni di sinistra antirazziste, ha sfilato di fronte al Parlamento, fermandosi poi davanti agli uffici dell’Ue, dove è stata anche bruciata una bandiera europea. Durante le proteste sono stati poi srotolati striscioni ed esplose bombe carta. In onore dei morti, i manifestanti hanno innalzato decine di lanterne. Ventuno persone sono state arrestate. Secondo la polizia , alcuni manifestanti si sarebbero infatti staccati dalla marcia e avrebbero attaccato gli agenti con molotov, pietre e bottiglie di vetro. Secondo quanto riportato da Il manifesto, dovranno ora rispondere di possesso di materiale incendiario, disturbo della quiete pubblica, scontri fisici e violazione della legislazione su armi e razzi.
Le autorità greche sono state accusate dai dimostranti di non aver agito per salvare centinaia di persone affondate al largo di Pylos nella notte tra il 13 e il 14 giugno, tra cui, secondo i racconti resi dai superstiti ai medici e ai volontari che si stanno prendendo cura di loro, ci sarebbero stati “almeno 100 bambini chiusi nella stiva”. Gli slogan hanno denunciato le politiche “criminali” della Grecia e dell’Unione Europea, all’insegna delle “frontiere chiuse” che, negli ultimi anni, avrebbero portato alla morte di decine di migliaia di persone che tentavano di raggiungere via mare i Paesi Ue.
Parlando dell’accaduto, la Guardia Costiera greca ha dichiarato che i migranti avrebbero rifiutato il soccorso perché decisi a proseguire verso le coste italiane. Difficile ipotizzare che ciò sia avvenuto, dal momento che i passeggeri della barca, sovraccarica e senza ormai cibo né acqua, avevano già lanciato l’SOS. L’ONG Alarm Phone ha pubblicato invece una precisa timeline di tutti i contatti avuti con sopravvissuti e autorità. Dai documenti si evince che la Guardia Costiera greca, quella italiana e quella maltese sono state informate della presenza della barca in difficoltà già dalla mattina del 13 giugno.
Il procuratore della Corte Suprema greca Isidoros Dogiakos ha nominato un sostituto procuratore della Corte Penale Suprema per dirigere un’indagine sull’accaduto. Per la tragedia sono intanto state arrestate 9 persone, presunti scafisti, tutti egiziani. Il peschereccio sarebbe partito vuoto dall’Egitto e giunto in Libia, precisamente a Tobruk, dove i migranti sarebbero stati caricati. Le autorità stimano che il peschereccio possa aver trasportato fino a 750 passeggeri, ognuno dei quali avrebbe pagato migliaia di dollari per il passaggio sulla nave. «Si pensa che si tratti di funzionari minori, non dei beneficiari finali dei 3 milioni di dollari che questo viaggio potrebbe aver fruttato», ha detto il presidente greco Psaropoulos riferendosi ai soggetti agli arresti.
Proprio in questo aspetto risiede il fulcro del problema. Secondo la legge greca, infatti, chi prende il timone diventa automaticamente trafficante. Ecco dunque emergere una lunga serie di processi basati su un’unica testimonianza della guardia costiera, in cui migranti che affermano di essere stati costretti a prendere il controllo dell’imbarcazione con il rischio di cadere in acqua vengono accusati di aver agito come trafficanti di esseri umani e condannati a centinaia di anni di carcere.
In seguito alla tragedia di Cutro, il governo italiano ha voluto imitare il modello greco inasprendo le pene nei confronti dei trafficanti di esseri umani. E contribuendo, paradossalmente, all’effetto collaterale di rendere ancora più insicura la traversata. Da anni, infatti, i trafficanti evitano di salire sulle barche che traversano il mare Egeo per arrivare in Grecia, così come in quelle che dalla Libia e dalla Tunisia arrivano in Italia, affidando il timone a persone che, dal “grande viaggio”, non guadagnano nulla. E che, da vittime, vengono trasformate in carnefici, mentre i trafficanti rimangono ignoti.[di Stefano Baudino]
Strage di migranti in Grecia, spunta il video del peschereccio: “Uno scafista ha confessato”. Gli altri otto arrestati negano di far parte di una rete di trafficanti. Continuano le ricerche. Un video girato dal marinaio di una nave commerciale riprende il peschereccio poche ore prima dell'ecatombe. Antonio Lamorte su L'Unità il 17 Giugno 2023
Continuano le ricerche, dopo più di 72 ore, nelle acque internazionali a 47 miglia nautiche a sud-ovest di Pylos, per individuare altri dispersi del terribile naufragio del peschereccio di migranti che si è consumato al largo del Peloponneso nella notte tra martedì 13 giugno e mercoledì 14 giugno. A bordo dell’imbarcazione c’erano centinaia di persone, pare tra 400 e 750 secondo le testimonianze. Al momento il bilancio di 78 morti comprende soltanto i corpi che sono stati recuperati. È spuntato un video dello scafo, poco prima della tragedia, e uno degli scafisti avrebbe confessato.
Avrebbe confessato, secondo i media greci, di far parte di una rete di trafficanti. È uno dei nove arrestati per il naufragio, egiziano, ha detto di essere stato pagato per portare la barca dalla costa libica all’Italia. Avrebbe raccontato che la barca ha lasciato l’Egitto vuota e che ha poi raccolto centinaia di migranti a Tobruk, in Libia. Gli altri imputati negano invece di essere membri della rete di trafficanti e insistono sul fatto che non hanno alcun coinvolgimento nel caso. Il sito defenceline.gr intanto ha pubblicato un video ripreso da un marinaio della prima nave commerciale che si era avvicinata al peschereccio dei migranti. Le immagini sono girate al tramonto, il mare è calmo e l’imbarcazione era ferma. L’inabbissamento è avvenuto intorno alle 2:00 di notte.
Alarm Phone aveva segnalato il peschereccio in difficoltà, “in distress”. Stando a quanto ricostruito, a causare la tragedia sarebbe stata la rottura del sistema di propulsione, non è chiaro a che ora si sarebbe verificata l’avaria. Le testimonianze divergono nel momento in cui, intorno alle 23:00, poche ore prima del naufragio, la Guardia Costiera greca dice di essere intervenuta. Secondo i sopravvissuti la Guardia Costiera avrebbe lanciato una corda per trainare il peschereccio verso la terraferma. Un’azione che secondo queste versioni avrebbe strattonato lo scafo, che si è inclinato e dopo un po’ rovesciato. La Guardia Costiera prima ha negato il lancio di una corda, poi ha confermato aggiungendo che i migranti l’hanno slegata perché non volevano essere portati in Grecia ma continuare verso l’Italia.
Per la ricostruzione dei greci l’aereo di Frontex è stato il primo ad avvistare il peschereccio alle 9:37 di martedì, avvertendo i centri di coordinamento vicini, tra cui quello italiano: la nave, però, si trovava nella zona Sar di competenza greca, da cui venivano mandati due mercantili come primo soccorso. Il tema è diventato oggetto di dibattito politico mentre la Grecia si appresta ad andare a elezioni il prossimo 25 giugno. Giovedì sera sono scoppiate delle proteste ad Atene, sono state arrestate 21 persone.
Il leader dell’opposizione di sinistra Alexis Tsipras ha fatto visita ai sopravvissuti e ha detto che la guardia costiera avrebbe dovuto rimorchiare la nave in sicurezza mentre si avvicinava alle acque greche, un parere condiviso dalle organizzazioni per i diritti umani. “Non sapevano come tendere la corda e la barca ha cominciato a inclinarsi a destra e a sinistra. La Guardia costiera stava andando troppo veloce, ma la barca era già molto inclinata verso sinistra, e poi è affondata”, gli ha raccontato uno dei superstiti.
La magistratura ha aperto un’indagine. Non è da escludere che sulla strage abbiano influito le notizie dei respingimenti, peraltro illegali, che la Grecia compie nei confronti dei migranti, frutto delle politiche molto dure contro l’immigrazione del governo del Presidente Kyriakos Mitsotakis. Soltanto un mese fa aveva fatto il giro del mondo un video sconvolgente nel quale si vedevano la Guardia Costiera greca che prendeva in consegna un gruppo di 11 profughi, tra i quali donne e bambini, caricati di forza su un autobus nell’isola di Lesbo, fatti salire su una barca della Guardia Costiera greca e, trasbordati su un gommone, mandati alla deriva nell’Egeo. Alle ricerche stanno partecipando una fregata della Marina, tre navi costiere e un elicottero della Guardia Costiera.
Antonio Lamorte 17 Giugno 2023
I testimoni: "Persone morte di sete a bordo, capitano abbandonato nave". Naufragio migranti Grecia, i sopravvissuti: “Cento bambini bloccati nella stiva”, si temono quasi 500 morti. Redazione su Il Riformista il 15 Giugno 2023
Si temono centinaia di morti (c’è chi azzarda anche 500) dopo l’ultimo naufragio avvenuto nelle prime ore del 14 giugno al largo di Pylos, nel sud del Peloponneso, in Grecia. Una strage che ha già fatto registrare oltre 80 vittime. Raccapriccianti le testimonianze dei 104 superstiti, salvati in mare dalla guardia costiera dopo ore di richieste cadute nel vuoto. Molti di loro non sanno più nulla di amici e familiari che si trovavano sull’imbarcazione di trenta metri salpata nei giorni scorsi da Tobruk, in Libia orientale, e diretta verso le coste italiane.
Migranti che provenivano da Siria, Pakistan, Egitto. I superstiti, trasferiti in un centro a Kalamata, hanno raccontato a sanitari e volontari l’orrore vissuto a bordo del barcone. Un medico racconta che alcuni di loro gli hanno chiesto il numero di telefono per contattare le loro famiglie. “Mi hanno detto che a bordo c’erano 750 persone“, ha spiegato, aggiungendo che in tanti hanno confermato la presenza di donne, e soprattutto, bambini nelle stive. “Alcuni hanno detto 100, altri 20, altri 30. Ovviamente non avevano idea di cosa stesse succedendo nelle stive”. Per le autorità greche, che hanno proclamato tre giorni di lutto nazionale, non è chiaro quante persone fossero a bordo. Per l’Onu c’erano circa 400 persone. Fonti governative greche hanno inoltre dichiarato che le possibilità di recuperare la nave affondata sono remote a causa della profondità delle acque.
I sopravvissuti: “Già persone morte di sete a bordo”
Secondo quanto riscostruisce Repubblica, già martedì mattina (13 giugno) la situazione sarebbe degenerata con la fine dell’acqua da bere a bordo. Una situazione drammatica che dopo poche ore avrebbe portato al decesso di sei persone in stiva, tra cui due bambini. E’ scaturita una protesta da parte dei migranti con il capitano che, dopo aver girato la prua verso le coste greche, avrebbe abbandonato la nave calando una scialuppa. A dimostrarlo sarebbero i tracciati, il peschereccio da quel momento i avrebbe cominciato a zigzagare.
Le operazioni di ricerca e soccorso sono andate avanti per tutta la notte ma non sono stati trovati altri sopravvissuti, né altri corpi oltre ai cadaveri già recuperati. Il rischio, sempre più concreto con il passare delle ore, è che tutte le persone che si trovavano nella stiva siano andate a fondo con la nave, senza possibilità di salvarsi. L’Unicef si è detta oggi “profondamente addolorata e scossa” dalle molteplici segnalazioni secondo cui fino a cento bambini sarebbero rimasti intrappolati nella stiva di un’imbarcazione che si è rovesciata e affondata al largo della costa della Grecia ieri, in una delle più grandi tragedie in mare nel Mediterraneo degli ultimi anni.
“Possiamo supporre che molti di questi bambini abbiano perso la vita, al momento le notizie sui sopravvissuti sono limitate. Le nostre più sentite condoglianze vanno alle famiglie dei bambini e a tutti coloro che sono stati colpiti da questo orribile evento”, dice ancora il comunicato dell’agenzia dell’Onu. “Si tratta di bambini migranti e richiedenti asilo che sono fuggiti da conflitti, violenze e povertà. Sono minorenni che probabilmente hanno subito sfruttamento e abusi in ogni fase del loro viaggio. La maggior parte di loro avrà cercato di attraversare il mare in condizioni pericolose, affidandosi a trafficanti”, continua il comunicato. “Un bambino è un bambino, e i Paesi dovrebbero lavorare insieme per garantire che la vita di tutte le bambine e i bambini sia protetta, indipendentemente dal loro status migratorio” si legge ancora.
Secondo i rapporti, il peschereccio che si chiamava Adriana, partito dal porto libico di Tobruk, si è rovesciato e affondato mercoledì mattina, intorno alle 2.30, in acque profonde a circa 80 km dalla città costiera meridionale di Pylos. Per le autorità greche, anche prima che la nave cominciasse ad affondare nella tarda serata di martedì, le persone che si trovavano sull’affollato ponte esterno hanno ripetutamente rifiutato i tentativi di assistenza da parte di un’imbarcazione della Guardia Costiera greca che la stava sorvegliando, dicendo di voler raggiungere l’Italia.
“Quando ci si trova di fronte a una situazione del genere… bisogna essere molto cauti nelle proprie azioni”, ha dichiarato il portavoce della Guardia Costiera Nikos Alexiou all’emittente statale ERT. “Non si può effettuare un dirottamento violento su un’imbarcazione del genere con così tante persone a bordo… senza alcun tipo di cooperazione”.
“Il naufragio al largo di Pylos segna una delle più grandi tragedie marine del Mediterraneo a memoria d’uomo”, ha dichiarato a Reuters Maria Clara, rappresentante dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in Grecia, aggiungendo che l’UNHCR ha esortato gli Stati del Mediterraneo a stabilire un regime di ricerca e salvataggio rapido e prevedibile e ad aumentare le rotte sicure.
“Affondata perché si muovevano”
Secondo la versione della guardia costiera greca il naufragio sarebbe stato causato dai movimenti delle persone a bordo. “La parte esterna – ha detto a ertnews.gr il portavoce della Guardia Costiera greca Nikolaos Alexiou – era piena di persone, e presumiamo lo stesso per l’interno. Ciò che i miei colleghi hanno visto quando sono andati sul posto, è che la nave era sovraccarica. A causa di uno spostamento delle persone che erano all’interno della nave, questa è affondata”.
Naufragio Grecia, Alarm Phone: “Abbattere confini Europa”
Alarm phone spiega che “ieri siamo stati allertati da una barca in difficoltà nella zona Sar greca. A bordo ci hanno detto che erano in 750, partiti dalla Libia. Il contatto è stato perso poco dopo la mezzanotte. Ora sentiamo notizie di un naufragio e temiamo che siano vere”. Poi aggiunge: “Smettetela di incolpare le persone in movimento per aver cercato di sfuggire alla vostra violenza. Smettetela di incolpare le persone in movimento per la propria morte! Stop ai respingimenti, porre fine alla morte in mare, abbattere i confini dell’Europa”.
In sei morti di sete. Strage dei migranti in Grecia, il drammatico racconto dei superstiti: “Nella stiva c’erano cento bambini”. Rossella Grasso su L'Unità il 15 Giugno 2023
Il naufragio del peschereccio Adriana a 50 miglia dalle coste del Peloponneso è probabilmente uno dei più terribili della storia. Se non il peggiore in assoluto. Il barcone partito da Tobruk con 750 persone a bordo è calato giù a picco sul fondale marino tra martedì e mercoledì. Dai racconti dei 108 sopravvissuti ripescati dall’Ionio emerge l’entità della tragedia: nella stiva c’erano più di 100 bambini con le loro madri. Di loro e degli altri almeno 500 passeggeri a bordo non si sa più nulla. Si sa solo che la barca dove erano giace ora infondo al mare. Per ora sono 83 i corpi senza vita recuperati in mare. Le autorità greche hanno ammesso che i dispersi potrebbero essere centinaia. Un dramma impossibile da definire in parole.
Secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, mentre donne e bambini erano nella stiva, sui ponti della nave c’erano gli uomini. Sono tutti partiti da Siria, Pakistan, Egitto per il loro viaggio della speranza a bordo del barcone partito da Tobruk. Già dal giorno precedente il drammatico naufragio chiedevano aiuto: qualcosa non andava a bordo. Ma nessuno ha ascoltato il loro appello. Una prima ricostruzione fatta dalla Guardia Costiera Greca ha giustificato il mancato intervento con il “desiderio dei migranti di proseguire il viaggio verso l’Italia”. In realtà dalle prime testimonianze sembrerebbe che il peschereccio all’inizio puntasse le coste calabre, poi avrebbe deviato verso il Peloponneso. Una foto scattata da un aereo di Frontex riprende il barcone stracarico di migranti con le braccia tese chiedendo aiuto.
Il racconto dei migranti ricostruisce che la tensione a bordo era salita poco dopo la partenza. Già sei ore dopo la ‘partenza il motore dava segni di cedimento tanto che qualcuno dei migranti aveva chiesto di tornare indietro. Il capitano avrebbe tirato dritto picchiando chi si lamentava. Poi maredì mattina sarebbe finita l’acqua potabile a bordo e molte persone disidratate iniziavano a perdere i sensi. Poi in tarda mattinata la drammatica scoperta che in stiva c’erano 6 morti di cui due bambini. Così erano iniziate le proteste e poco dopo il capitano ha calato in mare una scialuppa e si è dato alla fuga. Il barcone è rimasto in balia delle onde procedendo a zigzag. In serata due mercantili avevano ricevuto l’ordine della Guardia Costiera di avvicinarsi al peschereccio. Hanno iniziato a tirare a bordo bottiglie di acqua e cibo. Forse le persone a bordo, per afferrare i viveri, hanno fatto oscillare la barca incautamente. Poche ore dopo il motore si è spento e il barcone si è rovesciato nel mare. Le speranze di trovare qualcuno ancora vivo sono pochissime.
Rossella Grasso 15 Giugno 2023
"Hanno rifiutato l'assistenza, volevano raggiungere l'Italia". La verità dietro il naufragio. Francesca Galici il 15 Giugno 2023 su Il Giornale.
Le Ong attaccano la Grecia per il naufragio a sud del Peloponneso ma il governo ellenico si difende: "Le continue telefonate per fornire assistenza hanno ricevuto risposta negativa"
A quattro mesi dalla tragedia di Cutro, un altro naufragio si è verificato nel Mediterraneo centrale. Un'altra imbarcazione sovraffollata, stavolta partita dalla Libia ma sempre diretta in Italia, è naufragata al largo della Grecia. Era stata avvistata dall'aereo di Frontex martedì pomeriggio ma, stando a quanto riferito dalla Guardia costiera greca che si è recata sul posto, i migranti non avrebbero voluto usufruire dell'aiuto offerto dal Paese ellenico perché volevano raggiungere l'Italia. La tragedia è di dimensioni enormi, 100 persone sono state salvate ma ci sono oltre 80 vittime accertate e centinaia di dispersi e il comunicato stampa diffuso dalle autorità greche apre a numerosi interrogativi, al di là delle solite strumentalizzazioni dei buonisti pro-immigrazionisti.
"Il peschereccio è stato avvistato a mezzogiorno di ieri (martedì, ndr) da un veicolo aereo di Frontex e successivamente da due motovedette, senza richiedere assistenza", si legge nella nota della Guardia costiera greca diramata dopo il naufragio. Nel comunicato si afferma che un elicottero e delle imbarcazioni della Guardia costiera greca si sono recate ieri sul luogo di navigazione del peschereccio, ma i "migranti hanno rifiutato qualsiasi assistenza e hanno dichiarato di voler proseguire il viaggio verso l'Italia". Inoltre, il Paese ellenico fa sapere che "le continue telefonate della sala operativa della Guardia costiera greca al peschereccio per fornire assistenza hanno ricevuto risposta negativa".
È logico supporre che esistano tracce di queste telefonate, che quindi potranno dimostrare che l'imbarcazione ha rifiutato un intervento di salvataggio da parte della Grecia. Le Ong attaccano la Grecia perché non avrebbe risposto a un loro Sos ma queste organizzazioni non hanno alcuna autorità in materia di ricerca e soccorso e i greci, in contatto con la nave, hanno registrato il rifiuto degli occupanti di ottenere il sostegno ellenico. Le operazioni Sar partono quando una nave chiede un Sos o quando l'imbarcazione è in evidente e imminente pericolo. La Grecia non ha fatto partire un'operazione di polizia come ha fatto l'Italia con Cutro ma le Ong non possono pretendere che un Paese intervenga su loro richiesta, se le navi hanno già comunicato il loro rifiuto al soccorso.
"Tre superstiti ci hanno raccontato che l'incidente è avvenuto quando la Guardia Costiera greca ha agganciato il peschereccio con una corda e stava provando a trainarlo. Allora, senza un apparente motivo, il peschereccio si è ribaltato", ha detto all'Ansa Kriton Arseni, rappresentante di Mera25, il movimento politico fondato da Yanis Varoufakis, dopo avere incontrato alcuni superstiti del naufragio.
Ovviamente, l'intervento del Paese ellenico prevede il trasporto dei migranti nei suoi porti, che sono comunque europei e sicuri. Eppure, nonostante le immagini riprese dall'aereo di Frontex mettano in evidenza un sovraccarico straordinario del mezzo navale, gli occupanti avrebbero preferito continuare la navigazione e rischiare la vita pur di raggiungere il nostro Paese. La domanda che ci si pone è ovviamente perché mettere in pericolo la vita di centinaia di bambini. Ovviamente le indagini sono ancora in corso e si stanno effettuando tutte le verifiche del caso ma se il quadro finale dovesse essere quello esposto dalla Grecia fin dalle prime ore, allora è evidente che la narrazione sui migranti va rivista e devono essere registrate delle anomalie molto importanti.
Naufragio in Grecia, ma Repubblica dà la colpa all'Italia: il titolo choc. Libero Quotidiano il 15 giugno 2023
Ora la colpa del tragico naufragio in Grecia è dell'Italia. Tutto vero. Repubblica arriva a titolare sullo "scaricabarile" tra Frontex, Atene e Roma. Il motivo sta in quanto dichiarato dalla ong Alarm Phone. L'organizzazione riferisce di essere stata contattata intorno alle 14 di martedì dai migranti che chiedevano aiuto e sostiene di aver subito allertato non solo le autorità greche e l'agenzia europea Frontex, ma anche quelle di Malta e Italia. Di più, perché un quotidiano greco ha intervistato l'ammiraglio della Guardia costiera in pensione, Nikos Spanos.
Per lui, rifiuto o no, la Guardia costiera sarebbe dovuta intervenire per soccorrere perché "quel peschereccio era un cimitero galleggiante, molto vecchio e senza certificati. Il ministero dei Trasporti- ha aggiunto- è stato informato da Frontex. L'Italia ci ha affidato il coordinamento dell'incidente poiché è avvenuto nella nostra zona. La barca era in pericolo. Quindi lo Stato greco sarebbe dovuto intervenire immediatamente", portando "le motovedette sul posto in modo da strasbordare rapidamente le persone".
Proprio così il naufragio è avvenuto in zona greca e non in quella italiana. Basta pensare che la tragedia di Cutro ha visto finire nel mirino solo il governo italiano e non quello degli altri paesi. Eppure al quotidiano di Maurizio Molinari poco importa. Anche l'ultimo dramma permette di cavalcare l'onda e attaccare l'esecutivo Meloni. Il tutto mentre il bilancio provvisorio è da brividi. Al momento si contano 104 superstiti e 78 corpi senza vita al largo delle coste della Grecia, nei pressi del Peloponneso, dove un peschereccio con centinaia di migranti a bordo si è ribaltato.
Estratto dell'articolo di G. San. per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2023.
Lo spazio di mare a 45 miglia dalla costa del Peloponneso restituisce due cadaveri e ancora nessuna certezza su come sia affondato il peschereccio che trasportava 747 migranti. Due corpi trovati ieri, oltre ai 78 già recuperati la notte del naufragio (fra il 13 e il 14 giugno): se la farraginosa macchina del riconoscimento internazionale attraverso il Dna arriverà a un risultato, altre due famiglie potranno dare una sepoltura a figli e fratelli.
A sei giorni dal naufragio, con 104 sopravvissuti e 80 cadaveri tirati su dal mare sulle 643 vittime stimate, continua l’inchiesta giudiziaria greca. Che ora comprende un altro video. Registrato da un mercantile che s’è avvicinato al peschereccio in difficoltà intorno alle 18 del 13 giugno. La barca dei migranti è ferma, ondeggiante sul mare completamente piatto, dal motore escono dense nuvole di fumo. Poi sembra ricominciare a muoversi. Lentissima.
Per la guardia costiera greca sarebbe una conferma che il peschereccio continuava a navigare. Per le organizzazioni internazionali e molti esperti di diritto marittimo le immagini dicono invece il contrario: una barca stracarica di persone, fuori rotta rispetto alla sua meta (l’Italia) e con evidenti problemi al motore, andava comunque soccorsa.
L’analisi della seconda più grave ecatombe nella storia delle migrazioni nel Mediterraneo ruota intorno a due temi chiave. La barca navigava o no? E, al momento dell’affondamento, i guardiacoste greci stavano provando a trainarla, con l’effetto di aver dato uno strappo che ha provocato il capovolgimento, come continuano a ripetere molti superstiti?
Tre indagini indipendenti di media internazionali, tra cui la Bbc inglese, convergono su un punto. Dall’analisi dei tracciati dei mercantili arrivati in soccorso tra le 18 e le 2, ora dell’affondamento, si dimostrerebbe che il peschereccio è rimasto fermo quasi sempre nello stesso punto.
La guardia costiera greca invece ieri pubblica un secondo resoconto ufficiale sostenendo che nell’arco della giornata il peschereccio si sia spostato di 30 miglia. E nelle ultime tre ore, quelle cruciali, avrebbe percorso 6 miglia (poco più di dieci chilometri): in ogni caso, una distanza minima.
[...] le autorità fanno di tutto non solo per lasciar passare, ma anche per (a seconda dei casi) accompagnare, assecondare, fino a spingere le imbarcazioni in difficoltà fino alle acque di responsabilità italiana.
La questione, come emerge dopo una settimana di inchiesta e testimonianze, è che in questo caso specifico quel peschereccio non era in condizioni di arrivare in Italia. [...]
(ANSA mercoledì 9 agosto 2023) - Quarantuno migranti sono morti dopo che un barchino, salpato da Sfax in Tunisia, si è ribaltato ed è affondato durante la navigazione nel canale di Sicilia. A raccontare quella che è stata l'ennesima tragedia sono i quattro sopravvissuti, tre uomini e una donna, che sono stati salvati dalla motonave Rimona che, stamattina, li ha trasbordati sulla motovedetta Cp327 della Guardia costiera. I 4 naufraghi, originari di Costa d'Avorio e Guinea Konakry, sono sbarcati a Lampedusa.
I quattro naufraghi hanno raccontato ai militari della Guardia costiera di essere partiti da Sfax in 45, fra cui 3 bambini, alle ore 10 di giovedì. Dopo circa 6 ore di navigazione, il barchino in metallo di 7 metri, si è capovolto a causa di una grande onda. Tutti i migranti - stando a quanto riferito dai superstiti - sono finiti in mare. Solo in 15 avevano un salvagente, ma sono annegati lo stesso. I morti, stando alle testimonianze dei tre uomini e della donna che sono sotto choc, sono 41, fra cui 3 bambini. Né la nave, battente bandiera maltese, bulk carrier "Rimona" che li ha salvati, né le motovedette della Guardia costiera hanno avvistato cadaveri. E questo perché i quattro sono stati soccorsi ieri, dopo più giorni dal naufragio e a distanza da dove si è consumata la tragedia.
Naufragio Lampedusa: 41 morti. Il racconto dei sopravvissuti. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 9 Agosto 2023
Ancora una tragedia nel Mediterraneo. Quarantuno migranti sono morti dopo che un barchino, salpato da Sfax in Tunisia lo scorso giovedì, si è ribaltato ed è affondato durante la navigazione nel canale di Sicilia.
A raccontare quella che è stata l’ennesima tragedia sono i quattro sopravvissuti, tre uomini e una donna, che sono stati salvati dalla nave Rimona che, stamattina, li ha trasbordati sulla motovedetta Cp327 della Guardia costiera fino a Lampedusa.
Secondo il racconto dei quattro, i migranti sono partiti da Sfax in 45, fra cui 3 bambini, alle ore 10 di giovedì. Dopo circa 6 ore di navigazione, il barchino in metallo di 7 metri, si è capovolto a causa di una grande onda. Tutti i migranti – stando a quanto riferito dai superstiti – sono finiti in mare. Solo in 15 avevano un salvagente, ma sono annegati lo stesso. I morti, stando alle testimonianze dei tre uomini e della donna che sono sotto choc, sono 41, fra cui 3 bambini. Né la nave portarinfuse battente bandiera maltese “Rimona” che li ha salvati, né le motovedette della Guardia costiera hanno avvistato cadaveri. E questo perché i quattro sono stati soccorsi ieri, dopo più giorni dal naufragio e a distanza da dove si è consumata la tragedia.
Libia non intervenuta. Strage al largo di Lampedusa, 41 migranti morti in un naufragio: lasciati per giorni senza soccorsi e alla deriva. Carmine Di Niro su L'Unità il 9 Agosto 2023
L’ennesima strage al largo delle coste italiane, racconta da chi ce l’ha fatta. Quarantuno migranti, tra cui tre bambini, sono morti dopo che un barchino salpato da Sfax, porto chiave della Tunisia per le partenze, si è ribaltato affondando durante la navigazione nel canale di Sicilia.
A raccontare la tragedia sono stati quattro sopravvissuti, tre ragazzini e un maggiorenne, che sono stati salvati dalla nave “Rimona” che, stamattina, li ha trasbordati sulla motovedetta Cp327 della Guardia costiera. Le quattro persone tratte in salvo, originariedi Costa d’Avorio e Guinea, sono state portate a Lampedusa.
La piccola imbarcazione, lunga non più di sette metri, si è capovolta in mare a causa di una onda anomala dopo circa sei ore di navigazione dalla partenza da Sfax, avvenuta giovedì scorso, 3 agosto. Secondo quanto riferito dai superstiti tutti i migranti a bordo sono finiti in mare: solo 15 erano però in possesso di un salvagente, ma sono comunque morti annegati.
I cadaveri dei 41 migranti non sono stati avvistati né dalla Guardia costiera italiana né dalla nave “Rimona”, un bulk carrier (navi usate per trasportare carichi non-liquidi e non unitarizzati in container o pallet) battente bandiera maltese : questo perché quando i quattro superstiti sono stati soccorsi erano già trascorsi numerosi giorni dal naufragio, in una zona distante dal luogo in cui si era consumata la tragedia.
Secondo quanto appreso dall’agenzia LaPresse, che cita fonti informate, la costiera libica non è intervenuta a soccorrere il barchino di migranti nonostante fosse stata avvisata dalle autorità italiane: la piccola imbarcazione partita da Sfax aveva probabilmente perso la rotta ma era stata individuata ieri da un velivolo dell’Agenzia europea di sorveglianza delle frontiere Frontex.
Sull’ennesima strage al largo delle coste italiane il procuratore capo facente funzioni di Agrigento, Salvatore Vella, ha aperto a carico di ignoti un fascicolo d’inchiesta con ipotesi di reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte quale conseguenza di altro reato.
Secondo quanto emerge dall’inchiesta, ancora alle primissime fasi, il barchino affondato era senza motore: tra le ipotesi vi è anche quella di un attacco da parte di “pirati“, dei predoni, finti pescatori tunisini, che avrebbero assaltato l’imbarcazione per rubare soldi, cellulari e motori da rivendere.
I quattro superstiti al naufragio si sarebbero “salvati con delle camere d’aria e poi raggiungendo un’altra imbarcazione in mare”, riferisce la Croce Rossa, che gestisce l’hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa dove sono ora ospitati i quattro migranti. “Al momento le condizioni generali di salute sono buone e vengono assistiti e supportati dagli operatori della Croce Rossa. Verranno poi trasferiti dall’hotspot in altri centri a breve”, conclude la nota della Croce Rossa Italiana. Carmine Di Niro 9 Agosto 2023
Lampedusa, perché in 10 anni nulla è cambiato. Storia di Daniela Fassini su Avvenire mercoledì 4 ottobre 2023.
In seguito al naufragio di Lampedusa, il governo italiano, guidato dall’allora presidente del consiglio Enrico Letta, decise di rafforzare il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l'Operazione Mare nostrum, una missione militare ed umanitaria la cui finalità è di prestare soccorso alle persone prima che possano ripetersi altri tragici eventi nel Mediterraneo. «Nella notte di dieci anni fa di fronte a Lampedusa la prima grande tragedia dell'immigrazione nel Mediterraneo. Furono morte dolore disperazione. Con la missione #MareNostrum, l'Italia fece la sua parte e dimostrò cosa vuol dire essere il più grande paese del Mediterraneo #2ottobre" scrive su Twitter Enrico Letta.
L’operazione Mare Nostrum dura però solo un anno, L’allora ex ministro degli Interni, Angelino Alfano incassa quello che è a suo dire un successo: l’operazione Mare Nostrum cessa di vivere, per lasciare posto a un’operazione europea, Frontex plus a partire da Novembre 2014. Col passare degli anni, però e il cambio al vertice dei governi che affacciano sul Mediterraneo, l’attività di ricerca e soccorso si traduce principalmente in controllo delle frontiere esterne. Non esiste cioè un sistema (alla pari delle navi Ong che operano nel Mediterraneo) uno strumento comune per salvare vite umane. Spetta alla buona volontà della Guardia costiera di turno. E intanto le attività delle navi in capo alle organizzazioni non governative vengono criminalizzate e di volta in volta stoppate. L'Italia e l'Europa tornano a costruire "il grande muro" nel Mediterraneo per respingere i migranti, fino al naufragio di Steccato di Cutro. Dopo dieci anni, il 15 aprile 2023, la seconda altra grande tragedia di Cutro con quasi 100 persone morte.
Padre Camillo Ripamonti (Centro Astalli): le politiche vanno in direzione preoccupante
"A 10 anni dal tragico naufragio di Lampedusa in cui persero la vita 368 persone, il Centro Astalli in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione si ritrova nel "Giardino della Memoria e dell'Accoglienza", istituito nel 2018 a Piazza Gian Lorenzo Bernini, nel Rione San Saba, a Roma, per continuare a fare memoria", si legge in una nota dell'associazione. "La giornata del 3 ottobre, istituita dalla legge 45/2016, ha lo scopo di ricordare e commemorare tutte le vittime dell'immigrazione e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà". A Roma l'appuntamento è presso il giardino di Piazza Gian Lorenzo Bernini alle ore 11:30. Per l'occasione, che vedrà la partecipazione di scuole del quartiere e cittadinanza, alcuni rifugiati accolti al Centro Astalli si racconteranno attraverso il metodo dei 'libri viventi' per l'iniziativa 'Ti racconto una storia, ti racconto di me'.
Padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, spiega le ragioni dell'iniziativa: "In questa giornata facciamo memoria di uomini, donne e bambini costretti alla fuga da guerre, persecuzioni e crisi umanitarie, da carestie, cause ambientali e ingiustizie sociali. Facciamo memoria di chi non ce l'ha fatta a compiere il proprio viaggio che si è interrotto tragicamente, in assenza di vie legali". E ancora: "Ricordiamo anche chi si impegna ogni giorno a metterli in salvo, chi li accoglie e chi li aiuta in un'azione di solidarietà che mai va criminalizzata. Molte delle politiche messe in atto da quel tragico 3 ottobre ad oggi vanno in una direzione estremamente preoccupante e non di rado in aperta violazione dei diritti umani e delle principali convenzioni in materia di asilo. Ricordare le vittime vuole dire prima di tutto rispettare la dignità e i diritti dei vivi".
Il ricordo di Sant'Egidio
Sono passati dieci anni da quel terribile 3 ottobre 2013, quando 368 persone, per lo più donne e bambini eritrei, persero la vita in un naufragio al largo di Lampedusa. Una tragedia continuata in questi anni, con migliaia di morti e dispersi, che la Comunità di Sant'Egidio, insieme a tanti migranti e rifugiati, ricorderà con una veglia di preghiera nella basilica di Santa Maria in Trastevere domani, martedì 3 ottobre, alle 20. «In questa Giornata della Memoria e dell'Accoglienza, rilanciamo l'appello all'Europa - sottolinea Sant'Egidio - di sostenere l'Italia nelle operazioni di salvataggio in mare, unico modo per evitare altre tragedie dell'immigrazione, e ricordiamo che esistono alternative ai trafficanti di esseri umani. Sono i corridoi umanitari, realizzati da Sant'Egidio insieme ad altre associazioni in collaborazione dei ministeri dell'Interno e degli Esteri, ma anche in Francia e Belgio: finora hanno permesso l'arrivo in Europa in sicurezza, per chi arriva e per chi accoglie, a più di 6.500 persone. Seguendo questo modello, che favorisce l'integrazione, è urgente sviluppare altre vie legali di ingresso per motivi di lavoro, che risponderebbero alla ormai cronica carenza di lavoratori in diversi settori, a causa del calo demografico».
Sono passati 10 anni dalle stragi di Lampedusa. E ha vinto l’indifferenza. Il 3 ottobre 2013 morirono 368 migranti al largo dell’Isola. Altri 268 una settimana dopo. Sull’onda della reazione emotiva prese avvio l’operazione Mare Nostrum. Poi è stata sospesa e oggi proteggere i confini è diventato più importante della salvaguardia della vita umana. Cronaca di un fallimento politico, umano e culturale che va avanti da un decennio. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 2 Ottobre 2023
L’acqua si alza, il motore si spegne, le persone a bordo sono strette. Troppe per lo spazio a disposizione. Molti sono minori, alcuni sono feriti. Non servono a niente le sei telefonate che un medico siriano fa, dall’imbarcazione, al centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano-Imrcc descrivendo nel dettaglio la situazione.
Nonostante la presenza di diverse navi militari italiane nelle vicinanze, in particolare della nave Libra a 20miglia di distanza, le autorità si rifiutano di coordinare il soccorso. Ma non solo: omettono di fornire informazioni complete alle autorità maltesi, responsabili per l’area Sar (search and rescue) in cui si trovava il barcone. E ordinano alle proprie navi di allontanarsi visto che l’imbarcazione in pericolo si trovava fuori dalla zona di competenza italiana.
Così, venerdì 11 ottobre 2013, alle 17.05 il peschereccio partito dalla costa di Zaura in Libia si è capovolto. Ed è affondato a 60 miglia a Sud di Lampedusa. 268 siriani sono morti, tra questi una sessantina di bambini. 212 i superstiti. «La strage sarebbe la drammatica conseguenza di un'operazione di contrasto all'emigrazione verso l'Europa da parte di una motovedetta della polizia o della guardia costiera libica. Alcuni sopravvissuti riferiscono infatti che poco dopo la partenza il barcone è stato intercettato da una motovedetta dalla quale sono state sparate raffiche di mitra. Prima in aria, poi ad altezza d'uomo, tanto che alcuni passeggeri sarebbero stati uccisi. Quindi i militari hanno mirato allo scafo. Le pallottole hanno forato le fiancate di legno e da quel momento, raccontano sempre i superstiti, il vecchio peschereccio ha cominciato a imbarcare acqua», scriveva Fabrizio Gatti su L’Espresso il 14 ottobre del 2013.
Per “la strage dei bambini” - così è tristemente nota - il comitato Onu per i diritti umani nel 2021 ha condannato l’Italia. Per non aver protetto il diritto alla vita di ogni persona, anche se il naufragio è avvenuto in acque internazionali e nella zona Sar di un altro Stato. A dicembre 2022 anche il tribunale di Roma si è pronunciato: ha dichiarato la prescrizione dei reati. Ma ha al contempo accertato le responsabilità di Leopoldo Manna, comandante responsabile della sala operativa della Guardia Costiera, e Luca Licciardi, capo della sala operativa della squadra navale della Marina Militare, imputati per i reati di rifiuto di atti di ufficio e omicidio colposo.
A Lampedusa è in corso la prova di un fallimento annunciato. Bianca Senatore da Lampedusa su L'Espresso il 28-09-2023
«Queste pronunce appaiono fondamentali per contrastare la narrazione e soprattutto le pratiche dei governi italiani, e in particolare di quello attuale, che vanno in effetti nella direzione sanzionata: quella di evitare ad ogni costo l’intervento delle amministrazioni italiane, mettendo a rischio la vita di chi si trova in pericolo nel Mediterraneo, grazie ad una interpretazione formalistica delle norme sulla distribuzione di compiti e responsabilità in materia di soccorso in acque internazionali, attraverso un utilizzo strumentale delle regioni Sar e la sovversione dei principi del diritto internazionale del mare e dei diritti umani», spiegano gli avvocati di Asgi- associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
Il naufragio del peschereccio pieno di siriani che scappavano dalla guerra, del 11 ottobre 2013, è avvenuto mentre ancora nelle acque di Lampedusa si cercavano i corpi di un altro naufragio, avvenuto la settimana prima, il 3 ottobre 2013, quando un peschereccio, salpato dal porto libico di Misurata, si è rovesciato a circa mezzo miglio dalla costa. A bordo c’erano almeno 500 migranti, per la maggior parte di origine eritrea, 368 sono morti: una delle più gravi catastrofi nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo.
Quindici giorni dopo il naufragio di Lampedusa, sette da quello dell’11 ottobre, anche come reazione alle tragedie che portarono alla morte di oltre 600 persone in una settimana, con lo scopo di «fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria in corso nello Stretto di Sicilia», è iniziata l’operazione Mare Nostrum per la salvaguardia della vita in mare e per assicurare alla giustizia i trafficanti di esseri umani. Un'operazione che ha salvato la vita a oltre 160 mila migranti provenienti dall’Africa, grazie alle navi della Marina militare autorizzate a intervenire a ridosso delle coste libiche.
Con Mare nostrum, la “porta d’Europa”, Lampedusa, aveva smesso di essere l’approdo principale dei migranti che venivano, invece, salvati in mare. Ma alla fine del 2014 l’operazione venne sospesa e sostituta con l’europea Triton che ha ristretto lo spazio di soccorso e puntato sulla protezione dei confini. Nel 2015, a settembre, l’immagine di Alan Kurdi, il bambino siriano ritrovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, ha riaperto gli occhi e il cuore dell’Europa sulla crisi dei migranti e portato alcuni Stati, come la Germania, a sospendere il regolamento di Dublino per farsi direttamente carico delle richieste d'asilo dei profughi siriani arrivati lungo i confini Ue. La strategia di contrasto all’immigrazione illegale, però, volta più a favorire la sicurezza delle frontiere che delle persone, ha continuato a caratterizzare anche le operazioni in mare successive a Triton, come Themis, Sophia e Irini e definisce le politiche europee ed italiane ancora oggi: nuove forze di pattugliamento, supporto ai centri di detenzione, protezione in loco dei rifugiati, rimpatri, a cui si aggiungono i finanziamenti e i patti stretti con i paesi africani che accettano di cooperare per gestione dei migranti. In modo che non arrivino fino ai confini europei.
Secondo The big wall, un’inchiesta di ActionAid del 2021 sulla spesa per il contrasto all’immigrazione irregolare, dal 2015 l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro di fondi propri o comunitari per fermare gli sbarchi nel Mediterraneo. Ma solo una piccolissima parte di questi, poco più di 7 milioni, è stata dedicata al supporto della migrazione legale, una modalità quasi impossibile per accedere all’Europa.
Così, a dieci anni dai naufragi a largo di Lampedusa, visto che non esiste una missione attiva, italiana o europea, di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, e l’operato delle Ong è lento e complesso a causa dall’assegnazione di porti ogni volta diversi e lontani, in mare si continua a morire: almeno 28mila i migranti morti o dispersi dal 2014 nel Mediterraneo, secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E Lampedusa è tornata a essere la meta degli arrivi di tante imbarcazioni che partono soprattutto da Libia e Tunisia.
«In un’epoca in cui l’indifferenza e la disinformazione possono rapidamente diluire l’impatto emotivo di una tragedia servono richiami potenti alla nostra responsabilità collettiva. Affinché la memoria non sia solo un atto di ricordo, ma anche uno strumento per l’azione e il cambiamento», spiega Giulia Tornari, presidente dell'associazione culturale Zona, a proposito della mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo”. Costruita attraverso le immagini del fotografo italomarocchino Karim El Maktafi e allestita al Memoriale della Shoah di Milano: «Oggi quella scritta indifferenza voluta all’ingresso del Memoriale da Liliana Segre deve spingerci a una riflessione profonda sul nostro presente, su come vogliamo vivere l’essere comunità umana, sull’indifferenza che dobbiamo noi per primi superare - ricorda Marco Vigevani, presidente Comitato Eventi della Fondazione Memoriale - Abbiamo una responsabilità: chiedere, informarci, sensibilizzare, stimolare momenti di riflessione».
L'anniversario della strage. Lampedusa 2013, Mediterraneo tomba di migranti senza nome e sepoltura. Francesca Sabella su Il Riformista il 3 Ottobre 2023
È nero tutto intorno, scuro il mare che si dimena e inghiotte arrabbiato il peschereccio partito dalle coste della Libia che naviga faticosamente nelle acque di Lampedusa. È nero il cielo sopra quel barcone. Sono neri gli occhi delle quattrocento persone a bordo. Migranti, li chiamano. Migranti senza nome e senza sepoltura, li chiameremo poi.
È la notte più buia del Mediterraneo, è la notte del 3 ottobre 2013, quella notte si è divorata il mare e ha trascinato sul fondo chi tentava di salvarsi da morte certa perché nato nella parte sfortunata del mondo. Poi l’hanno trovata, la morte, le autorità riferiscono di 368 morti accertati e circa 20 dispersi presunti, numeri che la pongono come una delle più gravi catastrofi marittime nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo. La barca, lunga venti metri, era giunta a circa mezzo miglio dalle coste lampedusane quando i motori si bloccarono, poco lontano dall’Isola dei Conigli, poi il naufragio e solo alle prime luci dell’aba, intorno alle 7,00 i primi soccorsi. Quando ormai era troppo tardi.
Altre notti e altre acque, sempre del nostro mare, racconteranno ancora numeri, storie, volti di chi è annegato su quelle imbarcazioni in balìa delle onde, delle leggi. Dopo la strage di Lampedusa, nel 2015, un barcone affonda nel canale di Sicilia: a bordo c’erano 850 persone, i sopravvissuti furono solo 28. Otto giorni dopo si consuma la strage dei bambini, perdono la vita 60 minori.
L’elenco è così tristemente lungo che per avere un’idea di cosa accade nel nostro mare, bisogna leggere i numeri, e comunque un’idea non l’avremo mai. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni il Mar Mediterraneo è stata la tomba di 26mila migranti in dieci anni. Il mare raramente restituisce corpi, identità, passato e consente una sepoltura e una preghiera, è spietato il mare. Ma nel naufragio dell’umanità c’è chi quei corpi vuole riportarli a galla per potergli restituire nome e cognome, per poter permettere alle famiglie di piangere i loro cari. È la dottoressa Cristina Cattaneo, direttrice del Labanof, il Laboratorio di Antropologia e odontologia forense dell’Università degli Studi di Milano, che cerca di rimettere insieme i dati, gli oggetti personali, quel che resta dei corpi per poter finalmente restituire nome e dignità a chi ha perso la vita in mare. Un lavoro terribile che restituisce, solo in parte, l’orrore vissuto dai naufraghi. Le violenze, la fame, la sete, la paura e le morti violente, in mare, soli, di notte.
Quella della dottoressa Cattaneo è un’impresa titanica, coraggiosa ma più di ogni altra cosa è una battaglia di civiltà. Da oltre vent’anni cerca di incrociare i dati dei cadaveri sconosciuti con i profili delle persone scomparse, di rimettere insieme i pezzi di un puzzle complicatissimo sperando che tutti gli indizi combacino e portino a un nome e cognome. Non solo corpi, non solo numeri, ma volti, storie, identità. È paradossale come il suo lavoro parli di morte ma ci insegni a restare vivi, umani, a conservare quel sentimento antico, la pietas verso i morti. Per i greci era fondamentale che il corpo dell’uomo non fosse lasciato in pasto a cani e uccelli rapaci, altrimenti la sua psyché – la parte invisibile che lo accompagnava durante la vita e che usciva dalla sua bocca nel momento in cui esalava l’ultimo respiro – non avrebbe potuto raggiungere l’Ade, il regno delle ombre; sarebbe stata allora costretta a vagare senza posa e a diventare uno spettro malefico e terribile per gli uomini. La mancata sepoltura era dunque una delle pene peggiori che si potevano infliggere a un uomo.
Si tratta di restituire dignità, rispetto, pace, anche se troppo tardi.
Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Una Repubblica fondata sulla retorica da un'onda di cattiva retorica. Giorgio Ieranò su Panorama il 03 Ottobre 2023
Come Eravamo Da Panorama del 23 ottobre 2013 Ce li ricorderemo i morti di Lampedusa. E non solo per la tragedia immane, ma anche per il diluvio di retorica politica e giornalistica che ha scandito i giorni successivi alla strage. Ultimo tocco: i funerali di Stato che il primo ministro Enrico Letta ha decretato per gli annegati. Già: se fossero sbarcati, ai sensi della legge Bossi-Fini, li avremmo indagati per il reato di immigrazione clandestina, com’è successo ai 155 sopravvissuti. Ma, avendo avuto la fortuna di morire, invece di un avviso di garanzia si sono guadagnati una bella commemorazione ufficiale. Allora cambiamo la Bossi-Fini? «Certo, siam già pronti, è cosa fatta».
Come al solito, questioni che attendono da anni di essere ripensate con rigore e serietà luccicano per un attimo nella commozione in diretta a favore delle telecamere. Poi tutto finisce con un post di Beppe Grillo, si spengono le luci e buonasera. La retorica era piovuta a catinelle già su un’altra tragedia del mare, quando l’operazione di recupero della Costa Concordia è stata trasformata in evento epocale, in impresa mirabile e poetica. Con Roberto Saviano in prima fila, a straparlare di «un impronunciabile sogno da subcosciente: se si raddrizza la nave, simbolo di un Paese alla deriva che lentamente affonda, c’è speranza magari che si raddrizzi l’Italia e che torni a galleggiare». E come no? Infatti la Costa l’hanno raddrizzata per mandarla alla rottamazione. Non si sa che cosa significhi, in savianese, «impronunciabile sogno da subcosciente». Ma anche il caso della Costa Concordia dimostra come gli italiani siano sempre più soggetti a ubriacature di cattiva retorica (quella buona, ormai, non la sa praticare più nessuno). Siamo un Paese con molte pezze al sedere ma continuiamo a rappresentarci, con il piglio giulivo di un Candido volterriano, come il migliore dei mondi possibili. Per pigrizia, per opportunismo, per habitus mentale ormai consolidato. Il governo Monti fa riforme a casaccio, esibendo alcuni tra i ministri più pasticcioni della storia della Repubblica, ma i quotidiani sviolinano per mesi sulla mirabile stagione dei tecnici, sui bocconiani in loden che riscattano l’onore del Paese.
Finito questo concertino, è iniziato l’elogio di Enrico Letta: un governo nato per tirare a campare è diventato emblema di stabilità, pacificazione nazionale e tante altre belle parole. Facciamo quello che ordinano Angela Merkel e i banchieri tedeschi, ma diciamo che «ce lo chiede l’Europa», come se esistesse davvero questa mamma Europa a cui portiamo devotamente i nostri doni affettuosi («È l’Europa che ce lo chiede!». Falso! è anche il titolo di un manuale di critica della retorica europeista, scritto da Luciano Canfora per la Laterza, che bisognerebbe adottare nelle scuole). Non siamo capaci di aggiustare il museo di Reggio Calabria e di rimettere in piedi i Bronzi di Riace (forse a inizio 2014, promette ora il ministro Massimo Bray: vedremo). Però suoniamo ogni giorno i pifferi sulla cultura e sulla bellezza come valori supremi. Ci sdilinquiamo per la nomina a senatori a vita di Claudio Abbado e di Carlo Rubbia e poi mandiamo i nostri dottori di ricerca a fare i camerieri. Teniamo gli immigrati clandestini segregati in centri d’accoglienza fatiscenti e sovraffollati ma facciamo sciccosissimi défilé antirazzismo con tutti i divi dello sport, i paparazzi al seguito e il ministro Cécile Kyenge in prima fila. L’Ansa, qualche giorno fa, lanciando la notizia su un senegalese picchiato da alcuni sciagurati al grido di «sporco negro», ha censurato la parola negro scrivendo «neg...», con i puntini di sospensione. Un senegalese illustre, il poeta Leopold Senghor, cantore appassionato della negritudine, sarebbe rimasto sbalordito nel vedere negro trattato alla stregua di una parolaccia. Ma questo è il Paese in cui puoi consegnare i senegalesi in mano alla ’ndrangheta (vedi Rosarno) ma non puoi scrivere negro sul giornale. C’è una scissione tra forma e sostanza. Ma, spesso, più si è parolai più si offre l’illusione di essere pragmatici, attenti ai fatti, esibendo magari un linguaggio colloquiale e giovanilistico. È ormai lo stile comunicativo di molti politici (oggi, per esempio, di Matteo Renzi) che ti fa venire una nostalgia irrefrenabile per le «convergenze parallele» di Aldo Moro. E che dire della nuova retorica femminilista? Nei giorni di Ferragosto i giornali titolavano più o meno così: «Allarme femminicidio. Secondo i dati del Viminale, un terzo delle vittime di omicidio è donna». Ma questo non significherà allora che, al netto dei transessuali, gli altri due terzi sono maschi? Se poi uno va a leggere il rapporto Eures-Ansa 2013 sulla criminalità, vi trova che, rispetto al 2011, sono calati del 10,3 per cento gli omicidi in famiglia, mentre sono aumentati del 25,8 per cento quelli legati alla criminalità organizzata. Vi pare che qualche giornale abbia titolato: «Allarme criminalità organizzata»? No, ovviamente. La mafia non fa notizia, a meno che non la racconti Roberto Saviano in forma di fogliettone. E così Laura Boldrini ci racconta che l’emergenza è il femminicidio. E dice pure che quando Beppe Grillo la chiama «oggetto di arredamento del potere» sta «offendendo tutte le donne». Ma perché? Qualcuno ha mai definito Nilde Iotti un arredo? E, viceversa, Iotti ha mai denunciato complotti antifemminili, quando il giornalista Roberto Farina, con ineleganza, la bollava come «la Claretta Petacci di Togliatti»? «Ei dice cose e voi dite parole» scriveva nelle sue Rime Francesco Berni, difendendo lo stile asciutto e severo delle poesie di Michelangelo. Non sarebbe male, prima o poi, tornare anche noi a dire cose.
Estratto dell’articolo di Alessandra Ghisleri per la Stampa il 5 marzo 2023.
È stata una settimana difficile e importante per l'Italia e per la politica. La tragedia dei migranti, annegati nelle acque di Cutro nel tentativo di raggiungere le nostre coste, ha scosso l'opinione pubblica. Un italiano su due (il 47,9% del totale) ha seguito la vicenda, ha sentito il dolore nelle parole dei pescatori che hanno descritto il loro intervento sulla spiaggia che ancora non ha restituito tutti i corpi.
Le persone sono rimaste «molto colpite» dall'accaduto (29,7%), anche se il 35, 9%, pur molto scosso dall'avvenimento, ha dichiarato che tra qualche giorno probabilmente lo avrà rimosso e messo da parte, seguendo le problematiche che ogni famiglia deve affrontare quotidianamente. Non si deve pensare che questo atteggiamento rappresenti uno sfregio al dolore per le persone che hanno perso la vita affrontando il viaggio alla ricerca di un nuovo mondo più giusto per vivere, come segnala l'indifferenza del 12,5% degli intervistati. Più banalmente questo sembra solo un modo per sopravvivere alle difficoltà della vita di ogni giorno: nella scelta solitaria ci si può trovare impantanati, facendo più facilmente prevalere gli interessi del proprio giardino. E mentre sui media si cerca di arrivare a capo della matassa per scoprire le diverse responsabilità nella vicenda, gli italiani stilano quella che appare a tutti gli effetti come una classifica dei responsabili.
Sono «gli scafisti» secondo il 26,2% dei cittadini, i governi da cui partono i barconi dei migranti per il 20,5%, l'Europa per il 19,8%. Seguono gli errori attribuiti ai governi degli ultimi 20 anni (9,1%), al governo Meloni (7,5%) e a tutti "noi" (8,2%). Sulle prime tre risposte si concentrano le indicazioni del popolo di centrodestra e di Azione con Italia Viva. Per gli elettori del Partito Democratico, invece, non esiste un fronte compatto, si dimostrano più frammentati nelle loro indicazioni, dividendosi più o meno in ugual misura in prima battuta tra coloro che accusano in maggioranza gli scafisti (18,6%), chi l'Europa (17%) e chi il governo Meloni (18,6%). A poca distanza gli elettori dem indicano anche i Paesi di provenienza dei barconi (15,3%) e "tutti noi" e (17,8%).
L'esistenza di un effetto bandwagon, o effetto carrozzone («tutti sul carro del vincitore») si misura infatti nei sondaggi rilevati da una settimana a questa parte, sia per quanto riguarda il Partito Democratico sia per la nuova "inquilina" della segreteria. Nel giro di qualche giorno il partito riesce a guadagnare il 2,1% dei voti (passando dal 17,5% al 19,6%), mentre la giovane leader, passando dal 21,6% al 28,4%, cresce di quasi 7 punti percentuali in una settimana nel suo indice di fiducia personale. Molti sono ritornati a votare per il Pd.
(..) Del resto Giuseppe Conte se ne sta già accorgendo, visto che, anche se il suo indice di fiducia rimane più meno stabile intorno al 24%, nell'arco di una settimana il M5S è passato dal 16,9% al 15,6% (-1,3%). Anche l'Alleanza Verdi e Sinistra perde un punto percentuale in favore del suo vicino di campo, oggi più influente. Il tutto farebbe pensare all'aprirsi di un'area nuova, ancora più ampia in quello spazio del famoso "centro" che in molti vorrebbero occupare. La folla è nutrita e tanti sono gli aspiranti federatori per quest'area, tuttavia diversi sono i cantieri aperti. Una sfida interessante che porterà a nuovi possibili movimenti nello scenario politico. Insomma, anche nel centro è partita la campagna acquisti, ma con il rischio di vari ed eterogenei affollamenti di liste e listine.
«Le ong non attirano i migranti, lo dicono i numeri: tutta la narrazione della Destra è un’illusione». Simone Alliva su L’Espresso il 2 Marzo 2023
L’attività delle organizzazioni umanitarie si è ridotta per la guerra del Governo, ma gli sbarchi rispetto a un anno fa sono raddoppiati. Parla Matteo Villa dell’Ispi
«Un’illusione collettiva». Così a L’Espresso Matteo Villa, ricercatore senior e co-leader del DataLab dell’ISPI smentisce, numeri alla mano, la propaganda di governo su immigrazione e sbarchi.
Un’ondata di cinismo (Piantedosi che, con i cadaveri ancora caldi, aveva attaccato i migranti per essere partiti dalle coste di Smirne), di slogan e dati che si infrange contro le analisi e i dati dell’analista specializzato in trend geopolitici e geoeconomici, negli ultimi anni ha seguito le tendenze migratorie
Il governo cita con insistenza un paragrafo del rapporto annuale dei servizi segreti italiani dove si legge «l’aumento del soccorso in mare effettuato dalle navi ong». Ma lei insiste dicendo l’accusa dei servizi segreti alle Ong di fare da "pull factor" non è suffragata da alcun dato. Può spiegarci perché ?
«Forse la cosa più interessante è che siamo stati vittime di un’illusione collettiva: in nessun punto della relazione dei servizi segreti si sostiene che le Ong sarebbero un “pull factor”. Le poche frasi contenute nella relazione sono state strumentalizzate da alcuni giornali di destra. E d’altronde i servizi non potrebbero permettersi di fare un’affermazione del genere: tutti i dati giornalieri che ho raccolto dal primo gennaio 2018 dimostrano che, quando le Ong arrivano in area SAR libica, non aumentano le partenze».
Il ministro Piantedosi insiste non “devono partire”. Può essere una soluzione?
«Può essere una soluzione per portare a zero il numero delle morti in mare, ma a quel punto porteremmo quasi a zero anche il numero delle persone protette in Italia. E ne condanneremmo molte altre a una vita infernale, per esempio nei centri di detenzione libici. Non ci sono significativi canali legali per entrare in Italia che siano rivolti alle persone che intraprendono rotte irregolari. Anche perché, vista la pericolosità di molte di queste rotte, se ci fossero è evidente che queste persone tenterebbero quella strada, e non questa».
A proposito di soluzioni possibili: i corridoi umanitari sono un’alternativa ai viaggi in mare?
«Per chi, una volta arrivato in Italia, avrebbe grandi probabilità di qualificarsi come rifugiato, i corridoi umanitari sono un’alternativa validissima. Siriani, afghani, iraniani, iracheni, eritrei: tutte queste nazionalità hanno tassi di protezione in Italia vicini o superiori al 90 per cento. Il problema è che i corridoi vengono spesso utilizzati più per pulirsi la coscienza che come valida alternativa. Tra il 2015 e oggi, con i corridoi sono entrate poco più di 5.000 persone. Nello stesso lasso di tempo sono sbarcate 700.000 persone, di cui circa la metà (350.000) ha ottenuto una protezione in Italia. Di cosa stiamo parlando?».
Un’altra narrazione cara alla maggioranza: degli sbarchi in Italia dal Mediterraneo orientale (Turchia in testa) sono dovuti al terremoto
«No, per adesso non c’è alcuna indicazione per dirlo. La rotta che collega direttamente la Turchia all’Italia ha iniziato ad aprirsi dal 2020, e negli ultimi due anni gli arrivi sono più che triplicati, da 5.000 a 16.000 persone l’anno. Come si vede era una tendenza apparente da ben prima del terremoto, e che ha probabilmente più a che fare con il fatto che la rotta che porta in Grecia e, da lì, nei Balcani occidentali prima di raggiungere l’Europa occidentale, è diventata sempre più ostile e rischiosa per i migranti. Che dunque preferiscono pagare molto di più per un viaggio verso l’Italia, per poi da lì tentare di varcare le Alpi e proseguire verso nord».
Tiriamo le somme: con il governo Meloni sono aumentati gli sbarchi o diminuiti?
«Dal 22 ottobre 2022 a fine febbraio 2023 gli sbarchi in Italia sono stati quasi 43.000, mentre nello stesso periodo dell’anno scorso ci eravamo fermati sotto quota 22.000. Praticamente un raddoppio, e oltretutto un trend che ancora non “vede” il raggiungimento di un naturale plateau, figurarsi una diminuzione. Tutto questo accade pur di fronte a un crollo dell’attività delle Ong, passata dal 20 al 7,5 per cento di salvataggi rispetto al totale degli sbarchi in Italia. A dimostrazione che non è l’attività delle navi Ong in mare a influire sul numero dei migranti che partono».
Fabio Amendolara e François de Tonquédec per “la Verità” Il 6 marzo 2023.
Un documento inedito, realizzato dalla società israeliana Wip accelerate intelligence (che collabora con Mossad e Shin bet) per monitorare e dimostrare l’esistenza di alcuni flussi migratori anomali e pericolosi ormai penetrati in Italia, permette di raccontare per la prima volta il mercato dei viaggi della disperazione.
Un mercato che viaggia in rete, con tanto di annunci pubblicitari. L’incipit del documento, che La Verità ha potuto visionare, permette già di farsi un’idea chiara: «Gli immigrati clandestini sono tradizionalmente introdotti clandestinamente in Europa via mare, attraverso il Mediterraneo.
Tuttavia, i recenti sviluppi della situazione geopolitica in alcuni Paesi, tra cui Siria, Iraq, Pakistan e Afghanistan, hanno portato alla nascita di un nuovo corridoio per l’immigrazione via terra, noto come la Rotta balcanica. In questo nuovo scenario, i trafficanti di esseri umani stanno indirizzando i migranti da questi Paesi asiatici verso i Paesi dell’Europa centrale e settentrionale.
Questo sta avendo un impatto particolare sulle regioni di confine come il Friuli-Venezia Giulia che, per la loro posizione geografica, sono punti naturali di accesso all’Europa centrale e settentrionale».
La relazione annuale del Dis al Parlamento sull’attività dei nostri servizi di intelligence aveva già evidenziato le criticità di una rotta finora passata quasi sotto silenzio, quella balcanica, usata dai clandestini per entrare nel nostro Paese.
Grazie al report israeliano è possibile entrare nel vivo delle nuove modalità di organizzazione dei viaggi degli scafisti: «I social network e le applicazioni mobili hanno portato a un cambiamento nella gestione della tratta e nelle modalità pubblicitarie dei trafficanti di migranti, contribuendo forse anche all’aumento del numero di immigrati clandestini che arrivano in Friuli-Venezia Giulia. […]
I testi degli annunci sembrano quelli del catalogo di un tour operator: «Un percorso dalla Bosnia all’Italia, una camminata di 6 ore per attraversare il confine dalla Croazia, poi in auto fino al confine sloveno, poi ancora a piedi meno di un’ora e ancora in auto fino a Trieste, Italia», si legge ad esempio in un annuncio pubblicato su un canale Telegram, corredato da un numero di telefono con prefisso del Lussemburgo.
L’utenza telefonica dell’annuncio viaggia veloce sui social. Un monitoraggio di Facebook con un software di ultima generazione permette ai tecnici di ricostruirne i flussi e di individuare almeno una decina di scambi.
Ma ci sono anche le recensioni, che permettono ai trafficanti di uomini di guadagnare credibilità sul mercato nero […] Gli esperti israeliani hanno identificato anche una serie di gruppi Whatsapp, tra cui quello «dal titolo “Il nostro sogno è l’Italia”», creato attraverso un numero di cellulare francese e composto da 125 iscritti. Per gli autori del documento, si tratterebbe di «un gruppo di immigrati che aspirava ad arrivare in Italia». […]
Il post non ha nessuna restrizione di visualizzazione e la traduzione del testo non lascia spazio a interpretazioni: «Fratelli espatriati nei paesi europei. Vi presentiamo: Documenti europei per tutte le nazionalità (carta d’identità o residenza), patente di guida europea per tutti i Paesi, per il passaporto europeo per tutte le cittadinanze europee». A completare il tutto, oltre all’immancabile numero da contattare via Whatsapp, una serie di foto di passaporti e permessi di soggiorno falsi.
[…] Le conclusioni sulla ricerca svolta sono allarmanti: «I migranti che cercano di arrivare in Friuli-Venezia Giulia parlano di specifiche modalità di trasporto sui social network […]
F. Ame. F. Det. Per “la Verità” Il 6 marzo 2023.
Abdurrahman, ingegnere meccanico di Casablanca che ha studiato all'Università di Udine e che vive in provincia di Treviso, viene indicato come un «predicatore». Sul suo profilo Facebook pubblica video con la sua personale esegesi del Corano e veste con abiti tradizionali.
Barba lunga, kufi, il cappello da preghiera, e smartphone alla mano per rispondere ai messaggi whatsapp dei fedeli collegati in diretta, sermoneggia con una certa costanza. Soprattutto sui «pilastri della fede» e sulla «fede nell’ultimo giorno».
Ma, soprattutto, è segnalato nel report stilato dalla società israeliana Wip accelerate intelligence, che collabora con Mossad e Shin bet, e che ha ricostruito le relazioni social di presunti estremisti sfruttando l’intelligenza umana artificiale (Humint) in combinazione con moduli Hiwire deep analytics, «su Facebook ha legami con diversi simpatizzanti del jihad». […]
Ma il pericolo d’infiltrazione nella comunità islamica in Italia di aspiranti martiri o combattenti non viaggia solo su Facebook. «Alla fine del 2019», si legge nel documento, «i simpatizzanti dello Stato islamico su Telegram hanno pubblicato un’immagine raffigurante una bandiera del Califfato che sventola sul campanile di San Marco a Venezia».
Sul fotomontaggio c’è anche uno slogan: «Le promesse verranno mantenute nel nome di Allah, Roma e Costantinopoli cadranno». Il riferimento è a un hadith (breve narrazione relativa a detti o fatti del Profeta) in cui Maometto diceva che i musulmani avrebbero conquistato le due città. Una minaccia precisa. […]
I canali Telegram monitorati, è spiegato nel report, «forniscono regolarmente traduzioni in italiano e l'organizzazione ha membri italiani». Non solo: «L’attento e costante monitoraggio di Telegram ha permesso di individuare alcuni canali legati al fondamentalismo islamico made in Italy. Tra le decine di chat e gruppi di sostenitori della causa jihadista, due sono quelli che meritano più attenzione: Ghulibati Ar-Rum (la Conquista di Roma, ndr) e Ansar al Khilafah fi Italia (seguaci del Califfato in Italia, ndr)». […]
«Il costante monitoraggio sui social network e sulle applicazioni mobili di chat», è spiegato nel report, «può permettere di individuare in anticipo l’evoluzione della minaccia e i nuovi sostenitori dello Stato islamico in Italia». In particolare, sono stati tracciati dei diagrammi di flusso relazionale (sempre social) tra musulmani residenti a Trieste e a Udine e presunti estremisti. Per la raccolta dei dati, spiegano gli israeliani, «abbiamo identificato profili potenzialmente jihadisti cercando parole chiave come kuffar (infedeli) e link a noti gruppi Telegram o a messaggi dello Stato islamico». […]
Al centro della rete viene individuata una «figura chiave»: il suo nome è Issa, sul profilo Facebook si presenta con una bandiera nera e foto del Corano. Partendo da quel profilo l’analisi dei contatti con caratteristiche da guerriglieri portano fino in Svizzera e in Francia. E ne è venuta fuori una lista con 40 profili leader dalla quale si diramano 600 collegamenti definiti «strettamente correlati» e oltre 4.000 contatti «legati all’Islam radicale». Tutti da analizzare se si vogliono anticipare le mosse del pericolo jihadista in Italia.
I numeri in meno di 10 anni. Cimitero Mediterraneo: 25 mila morti senza nome in 10 anni. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 19 Febbraio 2023
Siamo abituati a onorare con cippi esemplari e gravi costruzioni monumentali la memoria delle umanità di cui fa strage il cataclisma, la guerra, la persecuzione razzista. E ci dedichiamo giustamente a guarnire quei manufatti con i nomi delle vittime, gli elenchi lunghi e terribili che recuperano e fissano l’identità di quelle vite annientate.
Ma un altro massacro sfugge a quella contabilità commemorativa: ed è quello dei migranti uccisi dalla fame, dalla sete e dal mare che li affoga mentre provano a raggiungere una costa mediterranea più promettente rispetto a quella che si lasciano alle spalle. Se pure ci provassimo, se pure decidessimo di dedicare a quest’altro massacro un segno di ricordo riferito a esistenze che avevano un nome, non potremmo. Dei venticinquemila morti – venticinquemila ! – che in meno di un decennio si sono accumulati in faccia alla nostra distrazione, e che abbiamo attribuito alla responsabilità dell’inevitabile, dell’imponderabile, del caso fortuitamente sfortunato, noi perlopiù non conosciamo nemmeno il nome.
Sappiamo tutt’al più, e nemmeno sempre, da quale spiaggia africana o mediorientale hanno preso il mare, ma ignoriamo perfino quale fosse il loro Paese d’origine: e se pure lo sapessimo cambierebbe poco, perché molto spesso si tratta di posti in cui quegli esseri umani sono cose anonime da sgozzare, da torturare, da violentare, da schiavizzare, cose prive di un nome cui intestare un qualsiasi diritto. E come cose finiscono sulle nostre spiagge, contro i nostri scogli, o come stracci sparsi intorno a una tinozza rovesciata.
Sono morti senza nome perché erano vite senza nome, venticinquemila che non ritrovi in un registro scolastico, in un catalogo di vaccinati, in un indice elettorale: perché non ci sono scuole, né ospedali, né libertà democratiche nella maggior parte dei villaggi di fango e lamiera da cui provengono. Venticinquemila immemorabili.
Iuri Maria Prado
Estratto dell’articolo di Alessia Candito per repubblica.it il 3 Febbraio 2023.
Prima di spegnersi, vinta anche lei da freddo, fame, stenti ha preso il corpo del suo bambino, un neonato di quattro mesi, e lo ha gettato in mare. Disperazione, follia, le alterazioni provocate dalla benzina che viene fuori da taniche e vecchi motori?
Non si sa, non si saprà mai. [...] Sono tutte morte di freddo, fame, stenti in attesa di soccorsi al largo delle coste di Lampedusa.
L'allarme era arrivato già ieri mattina, quando un peschereccio tunisino ha avvistato il barchino. A bordo, di un'imbarcazione in evidente difficoltà - hanno comunicato via radio sul canale 16, quello deputato alle emergenze - c’erano decine di persone, forse anche un cadavere.
La zona, a quarantadue miglia dalla costa di Lampedusa, ricade nell'area di ricerca e soccorso maltese, ma La Valletta ha come sempre ignorato le richieste di aiuto. Solo nel pomeriggio, dopo la formalizzazione della richiesta di intervento, Roma ha autorizzato le motovedette a raggiungere il barchino.
Ma quando gli uomini di Capitaneria e Finanza lo hanno raggiunto, erano otto le persone che si erano spente in attesa di qualcuno che li salvasse dal gelo del Mediterraneo. Si tratta di cinque uomini e tre donne, di cui una incinta, consumati dalla fame, dalla sete, dal freddo, così disperati da tentare di placare la sete bevendo acqua di mare. […]
Le tante stragi che non hanno insegnato niente alla sinistra. Mauro Indelicato il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.
Dalla strage del Venerdì Santo del 1997 alla tragedia in Calabria di domenica scorsa: molti lutti che hanno segnato anche a livello politico il nostro Paese e i governi da Prodi a Letta non sono stati in grado di capire
Quella di Cutro non è stata la prima strage dell'immigrazione nel nostro Paese. Il fenomeno migratorio verso l'Italia è molto recente, ma ha provocato in un lasso di tempo relativamente breve già diverse tragedie in grado di destare scalpore e commozione nell'opinione pubblica. E a cui, quasi sempre, hanno fatto seguito promesse di risoluzione del problema. In realtà però le promesse non sono mai state mantenute: dalle sponde opposte del Mediterraneo si è continuato a partire, mentre lungo le nostre sponde si è continuato a morire.
Dalla strage del blocco navale del 1997 alle prime tragedie nel Mediterraneo Centrale
La prima tragedia divenuta di pubblico dominio risale all'epoca della grande crisi albanese del 1997. Gli sconvolgimenti politici ed economici avvenuti in Albania nei primi mesi di quell'anno, hanno provocato un grande flusso migratorio verso l'Italia. Epicentro di questa crisi migratoria era la Puglia, ma è in tutta la penisola che ben presto il sistema di accoglienza è andato sotto pressione.
Al governo c'era la coalizione di centrosinistra dell'Ulivo, con Romano Prodi come presidente del Consiglio. La reazione dell'esecutivo a quell'ondata di sbarchi è stata molto dura. Il 19 marzo 1997 è stato varato un decreto che ha regolarizzato i respingimenti, pochi giorni dopo è stato stretto un accordo con il governo di Tirana per il pattugliamento delle acque dinnanzi le coste pugliesi. Un termine, quello di pattugliamento, usato per evitare polemiche internazionali visto che in realtà si trattava di un vero e proprio blocco navale. La mossa è stata voluta soprattutto da tre membri di quel governo: Giorgio Napolitano, Lamberto Dini e Bruno Andreatta, rispettivamente ministro dell'Interno, degli Esteri e della Difesa.
È in questo contesto che il 28 marzo 1997, durante un'azione di pattugliamento, la corvetta Sibilia ha accidentalmente urtato la nave Katër i Radës con a bordo più di cento migranti. Il bilancio di quello scontro è stato pesantissimo. Dopo giorni di ricerche, è stata accertata la morte di almeno 108 persone (anche se 27 naufraghi non sono mai stati trovati e dichiarati ufficialmente dispersi).
Mancavano due giorni alla Pasqua e per questo quella tragedia è rimasta negli annali come “strage del Venerdì Santo”. Il governo di allora sul blocco navale ha tirato dritto. Poche ore dopo, Roma è riuscita a farsi autorizzare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l'avvio di una missione da portare avanti in Albania per ridare stabilità al Paese. L'intento principale era però fare in modo di fermare i flussi migratori.
Il ritorno alla normalità in Albania ha progressivamente azzerato gli sbarchi in Puglia. Le attenzioni si sono quindi spostate negli anni successivi sul Canale di Sicilia. Qui i primi sbarchi sono stati registrati nel 1991, ma è alla fine degli anni '90 che il fenomeno ha iniziato a destare allarme. Ed è del 2002 la prima grave tragedia registrata in Sicilia. Il 15 settembre un barcone con diversi migranti a bordo si è rovesciato a circa mezzo miglio da Capo Rossello, in provincia di Agrigento. I morti in quell'occasione sono stati 37. La notizia è stata sulle prime pagine per alcuni giorni, ma l'immigrazione non era il tema dominante in quel momento e i riflettori sia politici che mediatici si sono poi spenti.
Le stragi del 2013 e del 2015
Già nel 2002 era però risaputo che il Mediterraneo stava diventando teatro di numerosi naufragi. Episodi spesso accaduti in alto mare e quindi entrati subito nel dimenticatoio. Diversa è stata invece la situazione quando le tragedie si sono verificate sotto i nostri occhi. È il caso della strage del 3 ottobre 2013, avvenuta a pochi passi da Lampedusa.
Il ribaltamento di un barcone che conteneva un numero importante di migranti, ha causato nelle prime ore del mattino la morte di 388 persone. Il fatto ha suscitato immediatamente forte emozione e non ha mancato di avere anche conseguenze politiche. Al governo c'era la coalizione retta dal Pd e dal nuovo partito dell'allora vice presidente del consiglio Angelino Alfano, mentre il presidente del consiglio era Enrico Letta.
A Lampedusa si commemora il naufragio del 3 ottobre 2013
Le prime reazioni sono state nel segno di una condanna alle leggi sull'immigrazione allora vigenti, con riferimento soprattutto alla legge Bossi-Fini del 2002. Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, lo stesso che era ministro dell'Interno all'epoca della strage del 1997, ha chiesto nuovi interventi legislativi.
Ma la conseguenza politica più importante ha riguardato l'avvio della missione Mare Nostrum per il pattugliamento del Canale di Sicilia. Missione poi supportata l'anno successivo dall'Unione Europea e da Frontex. Gli interventi però non hanno provocato né un ridimensionamento del fenomeno migratorio e né la fine delle tragedie. Nell'aprile del 2015 infatti, si è avuta forse la più grave strage nel Mediterraneo. Almeno tra quelle registrate e conosciute dalle autorità. Il 18 aprile infatti l'affondamento di un barcone a 100 km dalle coste libiche e a 200 da quelle di Lampedusa, ha comportato la morte di almeno 700 persone. I soli 28 sopravvissuti hanno parlato di un numero di dispersi ancora più ampio.
Al governo c'era sempre una coalizione di centrosinistra, ma retta questa volta da Matteo Renzi. La reazione è stata la stessa di un anno e mezzo prima. Ossia garantire un maggiore pattugliamento del Canale di Sicilia. Italia e Ue hanno esteso il raggio d'azione dell'operazione avviata nel 2014, inaugurando la missione Eu Navfor Med. Un'operazione su cui ancora oggi si dibatte parecchio. Secondo il governo di allora ha contribuito a salvare molte vite umane. Ma c'è anche chi ha sottolineato come la presenza di navi militari in mare abbia portato a maggiori partenze dal nord Africa e, di conseguenza, a maggiori rischi per gli stessi migranti.
È per questo oggi che, alla luce della strage in Calabria, si chiedono più interventi volti a frenare le partenze. Un orientamento del resto già emerso nel corso del Consiglio europeo del 10 febbraio scorso e nella lettera scritta dall'attuale presidente del consiglio, Giorgia Meloni, all'indomani della tragedia calabrese.
Viaggio nel Mediterraneo, la rotta più pericolosa per i migranti, dove ogni giorno muoiono sei persone. A Zarzis, dove non c’è verità per i morti in mare. Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023
Un corpo riaffiorato dall’acqua ha sollevato il dubbio: i dispersi dei naufragi in Tunisia sono davvero dispersi?
ZARZIS (Tunisia) – «Qu’est-ce que vous cherchez, monsieur?». Sono candide lapidi senza nome. Il muro calcinato di fresco. Le panchine di maiolica arabescata. Le calligrafie del Corano. La scritta «Jardin d’Afrique, Jardin du Paradis». C’è pace fra gli ulivi e non è difficile trovarlo, il cimitero dei misteri. Prendete la strada per Ben Guerdane, dove qualche anno fa i tunisini sparavano sui jihadisti che sconfinavano dalla Libia. Superate i murales che celebrano la coppa 2005 dell’Esperance de Zarzis, l’angolo dove si vendono agnelli scuoiati e bombole di gas. Poi girate al distributore Agil e attraversate lo sterrato: il cimitero dei migranti, quello ufficiale e con le insegne dell’Unhcr e del Tunisian Refugee Council, ce l’avete davanti. Chiuso. Sbarrato. Inaccessibile.
Il cimitero Jardin d’Afrique voluto per dare sepoltura agli sconosciuti morti in mare (Foto Francesco Battistini/Corriere della Sera)
«Che cosa cerca, signore?». Cerchiamo le prove. S’è scoperto che nel Jardin d’Afrique nascondevano i desaparecidos del mare, i dispersi dei barconi che muoiono sulla rotta per Lampedusa. E s’è saputo che nella tomba d’una bambina han trovato perfino tre corpi buttati di fretta, tutt’insieme e senza identificarli, migranti ignoti che nessuno sa bene come siano finiti lì. E s’è capito che a Zarzis, check-in dei viaggi clandestini per l’Europa, ci sono decine di cimiteri segreti: centinaia di poveri cadaveri sepolti qua e là, tutt’intorno tra le discariche di rifiuti o sotto le dune, fosse comuni senza nome e senza lacrime più introvabili del sepolcro d’Annibale il Cartaginese, segnalate solo da qualche pilone di cemento spezzato e messo di traverso. Morti nascosti alle famiglie, alla pietà e ai cani randagi.
«Che cosa cerca, signore?»: proviamo a scavalcare il muro di cinta del Jardin per vedere qualcosa, ma bastano pochi minuti e dal deserto sbuca rapido un pick-up Ford bianco, quattro poliziotti in borghese della Brigade Générale. Esigono i documenti. Vietano foto alla loro targa 55/260103. E vogliono controllare i telefonini: «Cancelli le immagini del cimitero, signore…». Motivo? «C’è un’inchiesta aperta, signore». I quattro sbirri li han mandati apposta dalla capitale, sei ore di strada, perché qui nessuno si fida più di nessuno: governatore o sindaco, guardacoste o Mezzaluna rossa, qualcuno ha mentito, molti han taciuto. E i morti di Zarzis, i cimiteri dei misteri, sono diventati il segreto meglio custodito della Tunisia.
È più di vent’anni che le lampare di Zarzis tirano su sardine e cadaveri. Una pesca di maleficenza. Di solito, il segnale è il puzzo spinto dalla brezza. «Da vomitare», descrive Chamseddine Bourassine, 49 anni, storico pescatore d’anime morte: «Si sente il gracidio dei gabbiani, una nuvola bianca in mezzo al mare». Solo dopo, l’occhio punta laggiù e li vede: gonfiori sbiancati e sformati che galleggiano, vestiti di stracci. Non va sempre così: il 21 settembre dell’anno scorso, per esempio, nessuno vide e trovò nulla. Diciotto tunisini, anche donne e un bimbo di 18 mesi, che affondarono e sparirono nel Mediterraneo. Inghiottiti nel buio. Come tanti, del resto: nel 2022 sono scomparse almeno 1.377 persone e chi si stupiva, dunque, se per quei diciotto disgraziati erano rimaste solo le lacrime rassegnate chi li aveva cercati al cellulare, senza risposta? Un’altra strage, niente di nuovo.La tenda dei familiari delle vittime annegate: è montata nella piazza di Zarzis, fra il governatorato e il municipio
Quasi un mese dopo, però, ecco l’imprevisto: su una spiaggia di Zarzis viene trovato il corpo d’uno di quei dispersi, Ayman Mcherek. Non puzza. La sua camicia è quasi intonsa. Non è stato mangiato dai pesci, niente alghe ad avvolgerlo, il volto riconoscibile. Chi se ne intende, dice che è lo stato tipico d’un cadavere conservato in una cella frigorifera. Ma che ci fa lì? Chi ce l’ha portato? E perché? Gendarmeria, procuratore, ospedali, cimiteri: nessuno sa, nessuno parla, nessuno spiega. Ed è questo silenzio che piano piano tramuta il dubbio in malcontento; le voci, in rabbia popolare. La gente di Zarzis dice basta. Scende in strada. Si fa qualche barricata, volano accuse e pietre, la polizia risponde con manette e manganelli. Giorni di guerriglia urbana. I pescatori e i sindacati, un comitato di familiari e qualche ong sono uniti nel protestare. Chiedono chiarezza. Perché tutti a Zarzis hanno un parente o un amico desaparecido in mare. E tutti, da sempre, mormorano un sospetto mai provato: che non sempre i dispersi sono davvero dispersi.
Da cinque mesi, davanti ai palazzi del sindaco e del governatore c’è una tenda coi ritratti degli scomparsi. Uno striscione che denuncia il «delitto di Stato». E padri stanchi, mogli disperate, figli angosciati che presidiano giorno e notte, turni di dodici ore «per sapere tutta la verità». Qualcosa s’è mosso. All’inizio è finito in carcere il pesce più piccolo, il custode del Jardin d’Afrique, un cimitero che nel 2018 era sorto proprio per dare un nome e una dignità ai martiri dei barconi. Poi la magistratura ha ordinato di scoperchiare altre tombe, una trentina, per trovare fosse comuni. Qualche giorno fa è sceso in visita ufficiale il presidente tunisino in persona, Kais Saied, a rimuovere il direttore della Guardia di frontiera con alcuni capi della sicurezza. «Troppo poco», sibila lo zio d’un desaparecido: «Noi vogliamo che siano ispezionati tutti i cimiteri degli sconosciuti disseminati nel deserto e siano fatti i test del Dna. Sottoterra, ci sono minimo fra i 500 e i mille corpi di nostri parenti, nostri amici mai identificati. Nel 2015, in una fossa comune a Ben Guerdane, furono dissepolte 42 salme. Ad Aghir, nel 2019, ne spuntarono sedici e il cimitero fu chiuso. Lo stesso a Mahdia, a Sfax: cambiano i posti, ma la pratica è sempre la stessa. Vogliamo capire perché li han messi là sotto, in tutti questi anni, senza dir nulla ai familiari».
I misteri di Zarzis durano dai tempi della dittatura di Ben Ali. A 60 km dal confine con la Libia, una quarantina da Djerba, il porto è un deposito di barconi sequestrati, i numeri segnati a vernice spray sulla chiglia, per indicare l’anno del disarmo. Gli skafi salpano la notte dalla zona delle villette moresche di Ogla, dalle spiagge di Oamarit e d’Hessi Jerbi: ci si vende una ventina d’ulivi o la macchina, per pagare il passaggio, e c’è la coda per scappare da un Paese dove due su tre non lavorano e fare la spesa, nell’ultimo anno, è costato il 25 per cento in più. Ogni governo tunisino si vergogna dei gommoni, da sempre. E raccomanda ai pescatori di non soccorrerli. E appena può, ripesca e nasconde i morti senza identificarli, senza rispettare la legge che imporrebbe d’inventariare i dettagli per il riconoscimento e d’applicare un braccialetto col codice a barre e d’assegnare un numero progressivo a ogni lapide, ma semplicemente seppellendo dove e come capita.Ristorante a Zarzis, la città da cui partono molti barconi per Lampedusa
Perché? Un po’ per evitare che i funerali diventino l’occasione di proteste contro unapolitica che non fa nulla per i suoi quattro milioni di poveri: l’estate scorsa, indignò l’annegamento di un’insegnante disoccupata e del suo bambino di quattro anni. Un po’ perché è in vigore il «Sistema di sorveglianza integrata», la famosa esternalizzazione delle frontiere, e la Tunisia riceve addestramento, radar, motovedette, pattugliatori e soprattutto denaro dall’Europa (in particolare dall’Italia: 47 milioni) per impedire le partenze. Due terzi dei barconi sono intercettati, ma i pescatori raccontano che i metodi dei guardacoste sono quelli, spicci, adottati dai libici.
Lo confermano dal Forum tunisino per i diritti, Ftdes: i guardacoste sono sempre più coinvolti in «manovre violente e pericolose» documentate da decine di video che mostrano percosse, bastonate, spari in aria e al motore, tentativi d’affondamento, tangenti in cambio di soccorso. Nel 2022, le barche bloccate sono aumentate del 38 per cento rispetto all’anno precedente e del 600 per cento in confronto al 2018. L’11 novembre scorso, alcuni sopravvissuti hanno parlato d’un barcone inseguito e speronato dalla Guardia nazionale tunisina al largo di Chebba, tre bambini annegati. Lo stesso misterioso naufragio del 21 settembre, ha stabilito il ministero dell’Interno, è stato «provocato da un foro» (di proiettile?) sul barcone. «Noi non crediamo più a una sola parola delle autorità!», urla sulla piazza di Zarzis il papà di Ryan al-Audi, un ragazzino di 15 anni affondato e mai trovato: «Abbiamo la prova che quel che ci dicevano era falso! Che nascondono i morti nella terra per nascondere la verità su quel che accade in mare! E voi europei finanziate questa vergogna?». Dice un proverbio magrebino che ciascuno va da solo nella tomba. A Zarzis ci si finisce a mucchi. Di notte. Nell’oblio. Ed è la solitudine peggiore.
Estratto dell’articolo di Franz Baraggino per ilfattoquotidiano.it il 2 marzo 2023.
Tenete a mente due numeri, quello dei rifugiati siriani presenti in Turchia, 3,5 milioni, e quello delle ammissioni umanitarie concesse loro dai Paesi europei: 39 mila. I dati sono quelli del ministero dell’Interno turco. Fotografano ciò che l’Europa ha fatto negli ultimi nove anni e dopo l’accordo che ha trasformato la Turchia nella prima nazione al mondo per numero di rifugiati, oggi più di 4 milioni.
Troppi per un paese a basso reddito, sulla soglia di una profonda crisi economica e colpito, lo scorso 6 febbraio, da un terremoto che ha causato 44 mila morti. […] Impegnato nell’emergenza post sisma, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha fatto capire all’Europa che “nella risposta al terremoto il tempo sta per scadere e rischia una nuova ondata di rifugiati“.
L’illusione che i miliardi dell’Unione potessero tenere per sempre milioni di persone in Turchia si è infranta il 26 febbraio sulle coste calabresi. I migranti naufragati al largo di Crotone erano partiti dalle coste turche. Tante le donne e i bambini, non a caso. Dopo aver pagato Ankara per tenersi i migranti, l’Europa sta aumentando gli investimenti nel controllo delle frontiere esterne.
Così l’ingresso in Grecia attraverso l’Egeo è sempre più pattugliato mentre la rotta balcanica è diventata un calvario dove tocca attraversare a piedi intere nazioni col rischio di essere respinti, spogliati di tutto o peggio. Chi non può prendersi quei rischi prende il mare in direzione dell’Italia.
18 mila gli sbarchi nel 2022, che la crisi turca promette di aumentare. Secondo Ankara circa 20mila persone hanno già fatto ritorno in Siria, l’altro paese colpito dal sisma, anche grazie alla possibilità offerta dal governo di allontanarsi per alcuni mesi senza perdere il diritto d’asilo. […]
Ma facciamo un passo indietro. Dopo che un milione di persone aveva varcato i confini europei nel 2015, il 18 marzo 2016 venne siglato il cosiddetto accordo Ue-Turchia. Sei miliardi di euro al governo di Recep Taypp Erdogan per bloccare i flussi verso l’Europa. Sulla carta l’Unione si prese un’impegno: “Una volta terminati o per lo meno drasticamente ridotti gli attraversamenti irregolari fra la Turchia e l’Ue, verrà attivato un programma volontario di ammissione umanitaria“.
Inoltre, “per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all’Ue”. Un progetto di redistribuzione che avrebbe dovuto rendere più sostenibile la presenza dei rifugiati siriani, riducendo il rischio di una nuova emergenza migratoria. Un’occasione anche per la disastrata situazione demografica europea, visto che nel frattempo 800 mila bambini siriani sono nati in Turchia e 1,6 milioni di siriani hanno meno di 18 anni.
Ma l’Unione non ha saputo cogliere occasioni né mantenere promesse. Dal 2014 al 2022 il programma “un reinsediamento per ogni rimpatrio” ha portato in Europa appena 36.763 siriani. Non sono dati facilmente recuperabili sui siti dell’Unione europea. A pubblicarli in modo chiaro e accessibile è invece il ministero dell’Interno turco. Tra i 20 Paesi Ue coinvolti, la Germania ha concesso 15.042 ammissioni umanitarie. Seguono Francia e Paesi Bassi con 5,5 mila ammissioni, la Svezia con 3,1 mila, la Finlandia con 2,7 mila e il Belgio con 1,7 mila. L’Italia è al nono posto con 396 siriani ammessi.
Ancora peggio è stato fatto sul fronte delle ammissioni umanitarie su base volontaria […]
[…] L’accordo con Ankara è l’esempio più eclatante dell’esternalizzazione delle frontiere messo in atto dall’Unione, forse l’unica, vera politica europea sull’immigrazione, coerente negli anni. Ma non altrettanto lungimirante: qualunque cosa voglia dire “fermare le partenze“, quanto sta accadendo in Turchia dimostra che muri e miliardi potrebbero non bastare.
Anzi, rischiano di costarci caro. Tenete a mente un altro numero: se dal 2014 ognuno dei 27 Paesi membri avesse accolto 4 mila siriani l’anno, oggi in Turchia ce ne sarebbe un milione in meno e forse non dovremmo interrogarci sulle ragioni che spingono tanti rifugiati a rischiare la vita in mare.
Estratto dell’articolo di Franz Baraggino per ilfattoquotidiano.it il 2 marzo 2023.
[…] L’illusione che i miliardi dell’Unione potessero tenere per sempre milioni di persone in Turchia si è infranta il 26 febbraio sulle coste calabresi. I migranti naufragati al largo di Crotone erano partiti dalle coste turche. Tante le donne e i bambini, non a caso. Dopo aver pagato Ankara per tenersi i migranti, l’Europa sta aumentando gli investimenti nel controllo delle frontiere esterne.
Così l’ingresso in Grecia attraverso l’Egeo è sempre più pattugliato mentre la rotta balcanica è diventata un calvario dove tocca attraversare a piedi intere nazioni col rischio di essere respinti, spogliati di tutto o peggio. Chi non può prendersi quei rischi prende il mare in direzione dell’Italia. […]
Estratto dell’articolo di Simona Buscaglia per “la Stampa” il 2 marzo 2023.
Egiziana, tunisina, bangladese, siriana e afghana. Sono queste le principali nazionalità di coloro che hanno raggiunto le coste italiane nel 2022, un anno in cui gli sbarchi sono aumentati di più della metà rispetto al 2021 (+55,8%), con 105 mila arrivi.
A cambiare però è soprattutto la composizione per cittadinanza: «Prima la maggior parte delle persone che arrivavano via mare proveniva dall'Africa subsahariana – spiega Livia Ortensi, responsabile del settore statistica della Fondazione Ismu, che ieri ha pubblicato il 28° Rapporto sulle migrazioni –. Il motivo del calo potrebbe essere riconducibile agli accordi stretti tra l'Unione europea e il Niger, che sta facendo da barriera tramite delle leggi che hanno cercato di contrastare il traffico di esseri umani».
Sono invece molto aumentati gli arrivi di cittadini nordafricani: «Egiziani e tunisini sono ora il maggior numero. Entrambi i Paesi stanno vivendo una profonda crisi economica e anche i loro immigrati hanno ripreso la via del mare. Molti ivoriani che arrivano qui prima vivevano in Tunisia, dove oggi esistono tensioni xenofobe nei confronti degli stranieri che li spingono a scappare da situazioni socialmente difficili».
Il tremendo naufragio sulle coste della Calabria si collega alla ripresa dei flussi dalla Turchia: le persone sbarcate in Italia che provengono da questa rotta (principalmente afghane, iraniane ed egiziane) erano quasi 13 mila nel 2021 e sono diventate oltre 16 mila nel 2022, anche se rimangono comunque un 15% del totale degli sbarchi via mare: «È una rotta costosissima, molto più delle altre: un viaggio dalla Turchia all'Italia puoi arrivare a pagarlo anche diecimila dollari – aggiunge Ortensi -. […]
Se poi gli stranieri presenti nel nostro Paese sono poco più di 6 milioni (88 mila in più rispetto al 2021), chi studia i fenomeni migratori pone l'accento sulle loro condizioni economiche, sempre più fragili, nonostante il tasso di attività sia aumentato, passando dal 65,6% al 67,6% nel 2021: nello stesso anno la povertà assoluta interessa infatti il 30,6% delle famiglie di soli stranieri, con un'alta incidenza di famiglie immigrate in difficoltà anche tra gli occupati, sintomo di quel «lavoro povero» che non crea integrazione. […]
Strage in mare a Crotone, onde di 4 metri, barcone a picco. Almeno 59 morti, tanti bambini. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.
Prima dell’alba il peschereccio si è schiantato contro una secca a 100 metri dalle coste di Cutro, in Calabria. Fra le vittime 14 minori, 81 i migranti salvati, tanti dispersi
«Ho visto tre-quattro bambini senza più vita arrivare con le onde... Li ho visti mentre li infilavano nelle sacche, nudi, perché il mare li aveva spogliati. Non scorderò mai più la fine del mondo che c’era su quella spiaggia». Antonio Ceraso ha bisogno di una pausa per ricacciare indietro le lacrime. «Vede», riprende il filo dei suoi pensieri, «noi calabresi siamo stati migranti come loro; facevamo anche noi i viaggi della speranza cercando fortuna via mare. Ma loro, oggi, fanno i viaggi della disperazione. Che speranze può avere chi parte con questo mare, con queste barche, in queste condizioni?». Antonio Ceraso è il sindaco di Cutro e da ieri il nome di Cutro sarà legato per sempre a una strage di migranti . Un’altra.
La dinamica
Un peschereccio senza chiglia partito da Smirne, in Turchia, è «scivolato» sulle onde proibitive del mare forza 4-5 ed è arrivato, non si sa come, davanti alla costa calabrese, nel punto esatto in cui il fiume Tacina si butta in mare, località Steccato di Cutro, provincia di Crotone. La salvezza era lì, a portata di mano, nel buio delle quattro del mattino. A bordo c’era un numero ancora adesso imprecisato di persone: qualcuno parla di 180, altri di 250. Uomini, donne e tanti bambini. I più afghani, pachistani, siriani, ma anche iraniani, somali e palestinesi. Ancora cento metri e quel vecchio guscio di noce, che i trafficanti hanno spacciato per motopeschereccio sicuro, sarebbe approdato a riva. Ma c’erano onde alte tre-quattro metri, correnti troppo forti. E non ha importanza, adesso, sapere se quella carretta si sia schiantata contro una secca o se sia stata un’onda a spezzarla a metà. Contano i fatti: la barca smembrata, quella povera gente in balia del mare. Chi sapeva farlo e ha avuto la forza di nuotare fino a riva ce l’ha fatta. Per tutti gli altri nessuno scampo.
Le vittime
Così, quando cala di nuovo il buio, nel tardo pomeriggio di ieri, il numero che si impone è quello dei morti recuperati: 59 — 30 uomini e 29 donne, tra loro 14 fra bambini e ragazzini — che potrebbero andare ben oltre i 100 secondo una prima stima fatta dopo aver parlato con gli stessi migranti. E poi ci sono i sopravvissuti: 81, secondo il bilancio della serata (59 ospitati nel Centro per richiedenti asilo di Isola Capo Rizzuto e 22 in osservazione nell’ospedale di Crotone). Numeri, certo. Ma prima che numeri, esseri umani. I bambini spogliati dal mare, come dice il sindaco di Cutro, o gli uomini e le donne che ieri mattina tremavano intirizziti dal freddo e dal vento, avvolti in coperte variopinte ad aspettare l’autobus che li avrebbe portati via. Un carico di umanità dolente in fuga da una vita di guerra, di miseria o di diritti negati. Chissà quanti sacrifici ci sono voluti per mettere assieme i soldi per gli scafisti. Chissà se lo sapevano, salendo a bordo, che quello era un biglietto di sola andata verso un Paese che non li vuole.
I trafficanti
Lo sapevano certamente i trafficati delle loro vite. È stato individuato fra i sopravvissuti uno dei presunti scafisti ed è stato recuperato il documento di un secondo uomo che però non si trova, forse fuggito o forse disperso. La procura di Crotone indaga per omicidio colposo, immigrazione clandestina e disastro colposo. Nella ricostruzione del naufragio si terrà conto anche dell’avvistamento del peschereccio, sabato sera, a 40 miglia dalle coste calabresi. L’ha intercettato un velivolo Frontex che ha passato la segnalazione a una vedetta della Sezione operativa navale della guardia di finanza di Crotone e a un pattugliatore del Gruppo aereonavale della finanza di Taranto. Sono partite entrambe per cercare di raggiungere la barca in difficoltà, ma le condizioni del mare erano pessime e non potendo proseguire in sicurezza, sia la vedetta sia il pattugliatore sono rientrati alla base.
«Dispositivo di ricerca a terra»
In casi del genere, quando non si può fare altro, si attiva il «dispositivo di ricerca a terra», che in sostanza significa aspettare l’arrivo dell’imbarcazione sulla costa, lungo le direttrici probabili dello sbarco. Così è stato. E la barca è arrivata, sì. A pezzi. Le correnti hanno trascinato qualche corpo anche decine di chilometri più in là rispetto al punto del naufragio. Roberto Fasano è il comandante dei vigili del fuoco di Crotone. Con i suoi uomini ha ripescato la gran parte dei morti, «tanti erano bambini», dice. «Una giornata orribile».
Frontex, gli allarmi e la Guardia di finanza. Adesso la Procura indaga sui mancati soccorsi. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023
Crotone, ai carabinieri la ricostruzione delle fasi, dall’avvistamento al naufragio
La decisione è stata presa ieri mattina. Sul naufragio di domenica davanti alle coste calabresi di Steccato di Cutro non è più aperta la sola inchiesta che riguarda l’attività degli scafisti e lo schianto sulla secca. C’è un secondo fascicolo. La conferma arriva a metà giornata, subito dopo la visita del presidente Sergio Mattarella ai sopravvissuti in ospedale e davanti alle bare in fila nel Palasport. La procura vuole capire se e quali reati siano stati commessi nell’organizzare l’intervento in mare dopo l’avvistamento del barcone. O meglio: vuole sapere se sono stati commessi reati non avviando nessuna operazione di soccorso, se non quando ormai era troppo tardi. E per accertare tutto questo il procuratore Giuseppe Capoccia ha delegato i carabinieri della Compagnia di Crotone.
Saranno loro a mettere assieme il carteggio delle centrali operative di Guardia Costiera e Guardia di Finanza, ad acquisire le registrazioni audio, le informazioni ricevute e date via radio, il resoconto delle telefonate partite dalla barca e dai pescatori a riva... Saranno parte del nuovo fascicolo anche l’attività e i dispacci del velivolo Frontex che sabato sera ha sorvolato il mar Jonio scorgendo per primo la barca dei migranti in arrivo dalla Turchia e segnalandola al punto di contatto nazionale (sostanzialmente alla Guardia di finanza) e — per conoscenza — anche alla Guardia costiera.
Saranno valutate ad una ad una le regole del Piano Sar, cioè del soccorso in mare. E alla fine sarà la procura a stabilire se e chi ha sbagliato. Di reati al momento non ne sono ipotizzati proprio perché il nuovo fascicolo è conoscitivo, anche se i più probabili (nel caso che si arrivasse responsabilità penali) sono omissione di soccorso e disastro colposo. Sia la Guardia Costiera sia la Guardia di Finanza hanno già pronte le loro relazioni per la procura. La partita si gioca sulla situazione di pericolo per le persone a bordo della barca. Nessuno — né Frontex, né la Guardia di finanza né la Guardia costiera - hanno percepito o dichiarato nelle comunicazioni fra loro che i migranti su quel barcone stessero rischiando la vita.
Al di là del fatto che i suoi strumenti termici avessero rilevato la presenza di tante persone a bordo e l’utilizzo del telefono turco di un probabile scafista, Frontex (Agenzia europea per la guardia costiera e di frontiera) ha mandato il suo dispaccio parlando di «unità che naviga regolarmente, a 6 nodi, in buone condizioni di galleggiabilità, con una sola persona visibile in coperta». Chiamata a dare spiegazioni, poi, l’Agenzia ha fatto sapere che, in sostanza, lei segnala ma poi tocca alle «autorità italiane competenti» fare i passi successivi. Basterà per tenersi fuori da eventuali responsabilità?
Ma se il ruolo di Frontex è secondario, certo non si può dire lo stesso della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza. La procura ha chiesto ai carabinieri di ripercorrere ogni passaggio della loro attività fra le 23.03, quando Frontex avvista la barca, alle 4-4.10,quando quella carretta del mare e il suo carico umano finiscono contro la secca, davanti a Steccato di Cutro. Anche se mai evocata formalmente dalle parti in causa o dalla politica, era ormai chiaro che una seconda inchiesta sui mancati soccorsi sarebbe stata necessaria. Gli scontri sulla catena degli interventi/non interventi in mare di quella notte non potevano non arrivare in procura. E lo stesso procuratore — che all’inizio sembrava escludere un’inchiesta sull’argomento — alla fine non ha potuto ignorare l’ondata di emozioni e di polemiche post-naufragio. Ma soprattutto, non ha potuto ignorare il sospetto che Guardia Costiera e Guardia di Finanza possano avere responsabilità nel mancato allarme e, quindi, nel mancato soccorso.
Quando avranno messo assieme tutta la documentazione, i carabinieri della Compagnia di Crotone scriveranno una relazione e consegneranno il fascicolo alla procura. La delega per la nuova indagine dovrebbe riguardare la sola acquisizione di documenti. Fra i documenti ci sono le ricostruzioni, messe nero su bianco, di Finanza e Guardia Costiera. Più dettagliata, al momento, quella della Guardia Costiera, che parte dalle 23.03 di sabato 25, con la nota di Frontex che arriva all’International coordination centre, e scandisce ogni comunicazione della centrale operativa fino alle 8.26 di domenica, quando la luce del giorno illuminava il dramma dei migranti morti e coperti da teli bianchi, sulla spiaggia di Cutro.
La Guardia di finanza ricostruisce i fatti dalle 22.26 di sabato, il minuto esatto in cui Frontex avvista la barca, fino alle 5.30, quando «giunti in loco e constatato il naufragio, i militari provvedevano a trarre in salvo i superstiti e recuperare i cadaveri».
Naufragio di Crotone, le parole e i fatti. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023
Gli egoismi nazionali non possono continuare a prevalere perché chi decide di mettere a rischio la propria vita, così come quella dei figli, lo fa nella maggior parte dei casi spinto dalla povertà e dalla disperazione
Prima l’appello all’Unione Europea affinché «non lasci sola l’Italia», poi la visita privata ai parenti delle vittime. A segnare la strada giusta da percorrere dopo il naufragio di Crotone è stato il presidente Sergio Mattarella. I morti sono finora 68, tra loro tanti bambini, decine i dispersi. Ma di fronte a una simile tragedia la politica non ha ritenuto di doversi fermare, anzi la propaganda è stata più forte e feroce che mai. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è lasciato andare a dichiarazioni scomposte e offensive mentre quello alle Infrastrutture Matteo Salvini si è fatto scudo dietro la Guardia costiera senza spiegare che cosa sia davvero accaduto. Adesso bisogna invece fare chiarezza.
Verità, è questa la parola giusta. Si deve sapere che cosa è successo dopo l’allarme lanciato da Frontex, chi è intervenuto, chi non è intervenuto. Si deve scoprire se sia stata sottovalutata la portata dell’evento o se invece ci sia stato il timore di uscire in mare — con uomini e soprattutto mezzi adeguati a prestare soccorso in maniera efficace — per non incorrere nell’accusa da parte di alcuni politici di aver portato i migranti a terra, come già è accaduto in passato.
Le immagini dei cadaveri abbandonati sulla spiaggia di Cutro, dei bimbi disperati, delle famiglie distrutte che proprio a Mattarella si sono appellate, impegnano tutti a ricostruire la catena degli errori e delle omissioni. E a cercare soluzioni per evitare altri morti. E non basta dire «vi verremo a prendere» per fermare l’esodo dal Nordafrica, dall’Afghanistan, dal Bangladesh. Nessuno può pensare che il dramma dei migranti in fuga da guerre e carestie si possa liquidare con un decreto flussi che concede un po’ di tregua agli stagionali ma lascia senza assistenza tutti gli altri. La prova di umanità dell’Italia nei confronti degli ucraini dopo l’invasione russa è un modello che va replicato, sia pur con forme e regole diverse. Servono soluzioni strutturali che passano certamente per l’apertura di corridoi umanitari, ma non solo. Con l’arrivo della bella stagione e le condizioni di mare calmo gli sbarchi aumenteranno come è sempre accaduto e non sarà la minaccia di sequestrare le navi delle Ong a fermare l’esodo. Anche perché il numero dei profughi che arrivano a bordo di queste imbarcazioni è esiguo rispetto al totale, la maggior parte si avventura su gommoni e pescherecci troppo spesso inadatti alla traversata.
Nella lettera trasmessa alla commissione Europea la premier Giorgia Meloni ha scritto: «Non si tratta di trovare gli strumenti per annullare la migrazione verso l’Europa, ma di stroncare la tratta illegale di esseri umani, e fare in modo che il fenomeno migratorio sia gestito nel rispetto delle regole e della sicurezza (anzitutto nell’interesse degli stessi migranti), e con numeri tali da consentire l’effettiva integrazione di chi viene in Europa con la legittima aspirazione a una vita migliore». Per raggiungere l’obiettivo serve un investimento politico della Ue, servono risorse economiche. Tutti a Bruxelles devono collaborare con l’Italia e con gli altri Stati di primo ingresso, quelli dove i migranti approdano ma dove spesso non hanno intenzione di rimanere. L’azione deve essere comune, le promesse della Ue — puntuali dopo ogni tragedia — devono trasformarsi in fatti, provvedimenti. Gli egoismi nazionali non possono continuare a prevalere perché chi intraprende viaggi che possono durare giorni o addirittura mesi, chi decide di mettere a rischio la propria vita, così come quella dei figli, lo fa nella maggior parte dei casi spinto dalla povertà e dalla disperazione.
La polemica politica di queste ore scatenata dalle parole del ministro Piantedosi rischia di vanificare quanto è stato fatto negli ultimi anni dal nostro Paese sullo scenario internazionale. Per pretendere aiuto dai partner europei bisogna dimostrare di essere all’altezza della situazione. E non comportarsi come se fossimo sempre in campagna elettorale soprattutto in una materia così delicata come la gestione dei flussi migratori.
Naufragio di Crotone, l’ufficiale della Guardia costiera: «La nostra missione è salvare vite. Chi ci accusa non sa di cosa parla». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023
«Davanti a un allarme saremmo partiti subito». «Adesso entra in campo la Procura quindi tutto quello che diciamo fin dal primo giorno lo valuterà l’autorità giudiziaria. Noi siamo tranquilli»
«Sa quante vite abbiamo salvato noi l’anno scorso lungo le nostre coste». La risposta è no. «Glielo dico io: 50 mila persone. Lo scriva, se vuole. Quella del salvataggio in mare è la nostra missione principale, da sempre».
L’ufficiale della Guardia Costiera al telefono accetta di parlare a patto che non si scriva il suo nome, tanto più adesso che sul dramma di Cutro c’è una nuova inchiesta per i mancati soccorsi. Giura che fra gli uomini che portano la sua stessa divisa non c’è nessuna amarezza in questi giorni di polemiche e sospetti, con l’intero Corpo delle capitanerie di porto finito sott’accusa dopo il naufragio di domenica davanti alle coste di Cutro.
Chi punta il dito contro di loro per non aver lanciato una operazione di salvataggio dopo l’avvistamento del barcone segnalato dal velivolo Frontex intorno alle 23 di sabato, «non sa di cosa sta parlando», dice. E per chiarire: «Per noi i fatti sono limpidi, hanno una linearità logica e temporale coerente con quel che è successo. Adesso entra in campo la Procura quindi tutto quello che diciamo fin dal primo giorno lo valuterà l’autorità giudiziaria. Noi siamo tranquilli».
Mentre le sue motovedette stanno ancora recuperando cadaveri in mare al largo delle coste calabresi (finora i corpi recuperati sono 68), la Guardia costiera, al netto della tranquillità ostentata, non può non sentire addosso il peso delle accuse che passano dalla politica e arrivano dritte sulle sue spalle.
L'evento Sar
Dovevano aprire un «evento Sar», cioè di soccorso in mare, appena ricevuto il dispaccio di Frontex: è la contestazione più ricorrente fin dalle prime ore dopo la strage. «Ma il Piano Sar nazionale parla di avviare le operazioni di soccorso “quando si presume che sussista una reale situazione di pericolo per le persone”», è la replica. «E nelle informazioni di Frontex questa situazione non era assolutamente rappresentata». Frontex diceva in sostanza: la barca viaggia tranquilla, a 6 nodi, a 40 miglia dalla costa. La Guardia di Finanza è uscita con due motovedette avvisando la capitaneria di Reggio Calabria: «Attività di polizia gestiamo tutto noi». Quindi nessuna operazione di salvataggio. Solo operazione di polizia della Finanza. Salvo tornare indietro alle 3.48 del mattino per le brutte condizioni del mare e, anche a quel punto (erano le 3.48 e mancavano pochi minuti al naufragio), non viene lanciato nessun allarme. Perché nell’«ultima posizione nota» la barca «non appariva sovraccarica o sbandata».
Il tracciamento
La verità è che ha ragione il comandante della Guardia costiera di Crotone, Vittorio Aloi, quando dice che «ci sarebbe bisogno di specificare molte cose su come funziona il dispositivo per il tracciamento dei migranti, da che arrivano nelle acque territoriali a che poi debbano essere scortati o accolti». Un sistema «complesso», come dice lui. Che assegna compiti a tutti e obblighi precisi a nessuno. Con il risultato che se non è estremamente palese, tutto è interpretabile.
L'amarezza
Lui, il comandante di Crotone, a differenza del suo collega ufficiale si dice dispiaciuto e amareggiato del fatto che la Guardia costiera sia finita nell’occhio del ciclone: «Ne puoi salvare 100 mila ma poi è quell’unico ragazzino, bambino o famiglia che non riesci a salvare fa sembrare inutile il tuo lavoro. Invece crediamo di aver operato anche in questo caso secondo le nostre regole di ingaggio».
Chiunque si sia trovato davanti a persone in difficoltà in mare sa bene quale vanto e quale onore rappresenti il poter dire «io l’ho salvato». Per l’intero Corpo delle Capitanerie di porto salvare una vita vuol dire aver partecipato tutti a quell’impresa. Con l’abnegazione della vita quotidiana in mare, con l’orgoglio di esserci comunque, anche in condizioni meteo proibitive. Lo sanno bene da sempre, gli uomini di mare. Come lo sa l’ex ammiraglio in pensione che oggi parla del «rischio che non si veda più l’esigenza del soccorso» e che invece «sia in primo piano l’esigenza di polizia».
Estratto dell’articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2023.
Frontex, Guardia costiera e Guardia di finanza, tutti contro tutti. Una «guerra» fatta di relazioni di servizio, dichiarazioni, comunicati, dispacci. Note riservate che alimentano il mistero, anziché dissipare i dubbi. E svelano la catena di errori, omissioni e sottovalutazioni, ma anche di versioni contrastanti, che ha preceduto il naufragio davanti alle coste calabresi di Crotone. Una tragedia che con un intervento tempestivo si sarebbe potuta evitare.
Frontex e l’Italia
Fra gli scaricabarili di ieri uno riguarda la ormai famosa segnalazione di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. La sera prima del naufragio, alle 23.03, il velivolo Frontex Eagle 1 aveva segnalato la barca dei migranti: a 38 miglia a sud est di Capo Rizzuto, «con una persona visibile in coperta», che «procedeva a una velocità di 6 nodi» e che «non evidenziava elementi che facessero pensare a una unità in distress», come scrive la Guardia costiera nella sua ricostruzione ufficiale dei fatti destinata alla Procura. Frontex, come sappiamo, non lancia nessuna richiesta di soccorso.
E ieri, a polemica scoppiata, fa sapere che «come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato dell’avvistamento il Centro di coordinamento internazionale e le altre autorità italiane competenti, fornendo la posizione dell’imbarcazione, la rotta e la velocità». «Competenti», cioè toccava a loro eventualmente intervenire.
La Guardia di finanza
Ma c’è un punto che più degli altri è destinato a sollevare dubbi e domande. Dopo il dispaccio Frontex, fra le 2.20 e le 2.30 partono per intercettare il barcone due mezzi della Guardia di finanza. […] la stessa Finanza scrive: «Alle ore 03:40 circa la Sala Operativa del Comando Provinciale GdF di Vibo Valentia comunicava all’Autorità Marittima di Reggio Calabria che le due unità navali della Guardia di finanza sono state costrette ad interrompere la navigazione per avverse condizioni meteo marine. Gli operatori di sala richiedevano alla medesima Autorità l’intervento di proprie unità navali per raggiungere il target, senza ricevere riscontro».
Quindi la Finanza dice, in pratica, che tornando indietro chiede inutilmente alla Guardia costiera l’intervento di sue «unità navali». Nel rapporto della Guardia costiera però c’è scritto altro.
La Guardia costiera
«Alle ore 3.48», dice la relazione della Guardia costiera, «la Guardia di finanza di Vibo Valentia informa i nostri di Reggio Calabria che i mezzi stanno tornando indietro per le condizioni avverse del tempo. Ci hanno chiesto se avevamo unità operative nella zona, noi abbiamo risposto che al momento non ne avevamo in attività operativa ma che le avremmo impiegate se ci avessero chiesto soccorso».
Un racconto molto differente dall’«abbiamo chiesto l’intervento di unità navali senza avere riscontro». Dice ancora la relazione della Guardia costiera che, parlando con la Finanza di Vibo in quel contatto delle 3.48, «concordavano sulla mancanza di elementi di criticità» rifacendosi, in sostanza, agli elementi dati dall’avvistamento Frontex. Una sorta di «peccato originale», le parole iniziali di Frontex. Il «target» acquisito Scrive ancora la Guardia di finanza: «Alle ore 03:50 la Sala Operativa del Provinciale Gdf di Vibo Valentia, mediante la postazione della rete radar costiera, acquisiva un target verosimilmente riconducibile alla segnalazione Frontex».
Come mai in quel contatto fra la capitaneria di Reggio e la Finanza di Vibo l’individuazione del target era stata allora esclusa? «Va precisato che in quel momento (alle 3.48, appunto) le imbarcazioni della Gdf non battevano nulla al radar», scrive la Guardia costiera. Perciò la domanda è: in quei minuti la rete radar della Finanza aveva o non aveva acquisito «il target»? Sappiamo adesso che a quell’ora era ormai troppo tardi per tentare qualsiasi operazione di salvataggio, perché mancavano pochi minuti allo schianto.
Ma ovviamente in quel momento nessuno poteva saperlo, anzi «il target» che la Finanza rivela di aver acquisito non risulta mai segnalato alla Guardia costiera. La quale riceve la prima segnalazione di un «possibile target battuto al radar» alle 4.25. O meglio: a quell’ora viene a sapere che uno dei mezzi della Finanza, tornando indietro, aveva individuato, appunto, un possibile target «a 7 miglia, in zona Steccato di Cutro». Tra l’altro l’informazione è priva di coordinate: «Solo la distanza di un target con l’indicazione geografica della località».
L’allarme 23 ore prima
C’è un altro punto oscuro, nelle ore precedenti il disastro: 23 ore prima che la barca dei migranti si schianti sulla secca, il Coordinamento Sar (ricerca e soccorso in mare) dirama una nota per un Mayday ricevuto via radio. L’Imrcc Roma (Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo) lo invia a tutte le unità navali in transito nel Mar Ionio alle 5.57 (ora italiana) di sabato 25 febbraio. Il dispaccio segnala la possibile presenza di una imbarcazione in «distress», cioè una situazione di grande difficoltà, nel Mar Ionio. La comunicazione è però generica, senza coordinate né la certezza che quella imbarcazione esista davvero.
Il coordinamento Sar aveva semplicemente chiesto a tutti di «fare attenzione». Era il barcone che poi si è disintegrato sulla secca? I calcoli della rotta e dei tempi lo escludono ma allora resta il giallo: chi ha lanciato quel Mayday?
Polizia e soccorso
Del Mayday di sabato mattina ieri Vittorio Aloi, il comandante della Guardia costiera di Crotone ha detto: «A me non risulta nessuna comunicazione per imbarcazione in distress». E sulla gestione dell’intervento di domenica mattina ha aggiunto: «Le operazioni le conduce la Guardia di finanza finché non diventano operazioni di Sar». La differenza è tutta lì: operazione di polizia oppure di soccorso. Nel suo rapporto la Guardia costiera scrive che dopo l’avvistamento di Frontex, la Finanza di Vibo Valentia chiama i suoi a Reggio Calabria, alle 23,37: «Ci hanno chiesto se sapevamo della segnalazione precisando che si trattava di una attività di polizia marittima che per il momento l’attività la stavano gestendo loro».
Strage di migranti, l’afghano sopravvissuto: «Ho perso moglie e tre figli, è tutta colpa mia». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023
Javed: «Non avrei dovuto portarli». L’ultima telefonata di una donna siriana: «Amore, vedo la costa». La solidarietà del bambino ucraino che porta la sua bambola
«È colpa mia... È tutta colpa mia...». Non sa darsi pace, Javed, un afghano di 43 anni che nel naufragio a 150 metri dalla spiaggia di Cutro, con quei cavalloni forza 6 che hanno «aperto come un sandwich» il motopeschereccio salpato quattro giorni prima da Smirne, in Turchia, ha perso la moglie e tre figli: un undicenne, il secondo di 9 anni e il più piccolo di 5. Della famiglia restano questo genitore distrutto e il primogenito, un ragazzo quattordicenne.
Sergio Di Dato, il capomissione della ong Medici Senza Frontiere che sta fornendo l’assistenza ai circa 60 sopravvissuti ospiti al Cara di Capo Rizzuto , ha parlato a lungo con l’uomo, anche ieri mattina. «Ha lasciato il suo Paese perché era in una situazione di pericolo con i talebani e per questo — spiega il coordinatore Msf — ha deciso di trasferire la famiglia in Europa». Ma ora accusa se stesso: «Non avrei dovuto... per salvarmi ho perduto tutto» ha ripetuto Javed che ieri è stato al palazzetto dello Sport di Crotone per riconoscere le salme dei familiari. «C’è un filo comune in questi dolorosi racconti — riflette Di Dato — ed è quello di avere incontrato la morte cercando una vita migliore. Una tragedia del genere, con così tante vittime, non l’ho mai vista...».
La moglie scomparsa
Le storie che escono dalla struttura che raccoglie le bare sono una più straziante dell’altra. Nel pomeriggio era qui, per identificare la moglie, anche un siriano giunto dalla Germania. Alle quattro dell’altra notte, poco prima della sciagura, la donna gli ha telefonato. «Amore vedo le coste — queste le sue parole —, stiamo quasi arrivando. Ti amo». Ma poi è caduta la linea. Ignaro di tutto, guardando la tv al mattino ha saputo del disastro. E si è precipitato in Calabria. Per prepararlo al lutto una psicologa gli ha detto inizialmente che la moglie era tra i dispersi. Poi è toccato al direttore del Cara Ignazio Mangione dirgli che la donna era morta: «Gli ho chiesto come si chiamasse la compagna, purtroppo quel nome risultava nell’elenco delle vittime che avevo ricevuto dall’ospedale».
Dal San Giovanni di Dio giungono altri drammatici racconti. Quando il malmesso barcone — probabilmente toccando con la chiglia un banco di sabbia — si è inabissato squarciandosi «chi ha potuto è rimasto aggrappato ai pezzi di legno del battello — racconta Loredana Parisi, direttrice della Migrantes diocesana di Crotone — sino a che ha resistito». Sebbene in tanti fossero a una manciata di metri dalla linea della battigia, in quel tratto di costa il fondale era alto, la risacca era fortissima e molti allo stremo delle forze non sono riusciti a raggiungere la riva.
Il grosso delle ferite riscontrate dai medici comprende fratture, profondi tagli, grossi lividi. «Il segno che nella calca i corpi hanno sbattuto qui e là contro ciò che restava del barcone — prosegue ancora la suora, inesauribile nel prestare assistenza tra i reparti —. I più non sapevano nuotare e quelli che invece erano in grado di stare a galla si sono prodigati per aiutare agli altri». Fuori dal palazzetto dello sport, intanto, la gente passa per lasciare mazzi di fiori, disegni, lettere, pensieri. Arriva una mamma ucraina con il figlio di sei anni che tiene in mano un pacchetto avvolto da nastro. Cosa c’è dentro? «È una bambola di pezza — risponde il piccolo — spero che qualcuno dia questo regalo ai bimbi sopravvissuti». «L’idea è stata di mio figlio — spiega orgogliosa la donna — ha insistito per venire qui. Anche noi siamo migranti...».
Gli scafisti del naufragio di Cutro hanno provato a scappare: «Così i superstiti li hanno bloccati». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023
L’inchiesta: tre persone in carcere per omicidio e naufragio colposo, indagato un quarto uomo. I racconti di chi è sopravvissuto alla strage di migranti vicino a Crotone e le indagini delle autorità italiane
«Siamo partiti il 23 da Izmir, in Turchia. Quei tizi li chiamavamo “i capitani”. Quando ci hanno detto che era arrivato il momento di partire siamo andati verso la barca, che si chiamava Summer Love. Ci hanno messo nella stiva, a ciascuno di noi hanno dato un ticket con un numero stampato e per tutto il viaggio ci hanno dato soltanto acqua. Le condizioni del mare erano pessime. Loro si alternavano al timone. Secondo i loro piani saremmo dovuti arrivare di domenica perché di domenica, dicevano, lungo le coste ci sono meno controlli. A un certo punto la barca ha avuto un problema al motore ma uno dei capitani si è dato da fare e lo ha riparato».
Ci sono queste e mille altre informazioni nei racconti dei sopravvissuti del naufragio di Cutro. Ci sono le storie drammatiche di ciascuno di loro e ci sono quei minuti passati ad annaspare nelle onde gelide davanti alla foce del fiume Tacina, a sud ovest di Crotone. Un tempo sospeso fra la vita e la morte, che adesso è descritto anche nel lungo provvedimento di fermo per i tre presunti scafisti da ieri in carcere. Un quarto uomo è soltanto indagato. Per tutti gli stessi reati: omicidio e naufragio colposi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Il fermo, dicevamo. Una quarantina di pagine piene di «indizi gravi e concordanti» sulle responsabilità di un turco cinquantenne e due pachistani, un venticinquenne e un ragazzo che dice di avere 17 anni. Sul loro conto le testimonianze dei naufraghi coincidono e gli indizi raccolti sono sufficienti per il carcere.
Non è così invece per il quarto accusato, sul quale sono ancora in corso accertamenti. Nelle prime pagine del provvedimento si racconta di una sorta di rivolta. A naufragio avvenuto, in quei primi minuti sulla battigia, i migranti che avevano ancora la forza di stare in piedi, dopo la lotta impari con il mare grosso, hanno cercato di aggredire gli scafisti. Uno in particolare, il cinquantenne. Che è riuscito a scappare e nascondersi dietro un cespuglio poco prima che sul posto arrivassero i carabinieri. Sono stati gli stessi migranti a indicarlo e farlo catturare mentre gli altri due si mescolavano ai superstiti.
Più tardi, a verbale, la loro versione racconterà più o meno la stessa storia dei «trasportati», come li chiama il fermo. Tranne che per un dettaglio ripetuto da ciascuno dei quattro: «Non sono uno scafista, sono un migrante in fuga come tutti gli altri». Negano. Non sanno niente della proprietà del barcone con quel nome — Summer Love — che sembra uno scherzo della cattiva sorte. Men che meno sanno, giurano, dei soldi versati da quella povera gente per la traversata, dai 7500 ai 9500 dollari.
Per ricostruire la parte più tragica di questa storia — lo schianto della barca a tutta velocità contro la secca — sono stati sentiti anche tre pescatori della zona che alle quattro e mezzo di domenica mattina erano già in mare, al lavoro. Nel buio, hanno sentito il rumore della barca andare in frantumi e i fasci di luce delle loro imbarcazioni hanno illuminato i margini di quella scena così devastante. Dalle storie personali riportate nel fermo emergono destini alla deriva ben prima di vedere il mare.
Come quelli degli afghani che raccontano la loro fuga disperata dal regime talebano. Storie pazzesche di diritti e umanità negati. E di speranze malriposte. Non c’è nessuno che su quella barca non abbia perso un fratello, un figlio, una madre... Tutti dicono che nell’ultimo tratto, a un passo dalla salvezza, gli scafisti hanno accelerato pensando semplicemente di far prima. E questo ha fatto la differenza nello schianto contro la secca: i pezzi di legno della barca, spezzandosi a quella velocità, sono diventati lame di coltello che colpivano a caso, nel buio.
Dopo le polemiche sui presunti soccorsi negati, il procuratore di Crotone, Giuseppe Capoccia, precisa che l’indagine è «sul naufragio, non sulla catena dei soccorsi». E aggiunge che comunque, proprio per ripercorrere i fatti, «stiamo ricostruendo tutti i passaggi», a partire dal primo avvistamento del barcone. Una pattuglia Frontex in volo lo aveva visto e segnalato a due mezzi navali della guardia di finanza, che però non hanno potuto raggiungerlo perché, conferma il procuratore, «le condizioni del mare erano terribili».
I bambini rimasti senza famiglia dopo il naufragio di Crotone: «Dov’è la mamma?» Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023
Uno continua a ripetere: «So che papà verrà a prendermi dalla Svezia», invece è disperso mentre sono morti la madre, tre fratelli e i cugini
«Papà è in Svezia, io lo so. Verrà a prendermi presto». Il bimbo che ripete in continuazione queste parole è nel reparto di pediatria dell’ospedale San Giovanni di Dio di Crotone. Le sue condizioni sono buone, ma in quell’inferno nella gelida notte tra sabato e domenica ha perduto tutta la famiglia: la madre, quattro fratelli, dei cugini. Del padre non ci sono notizie, sarebbe uno dei dispersi.
Come abbia fatto a sopravvivere questo piccolino — un evento che pare avere del miracoloso — non è chiaro. Qualcuno sostiene che sia stato soccorso da uno di quei pochi naufraghi che sapeva nuotare. Una specie di eroe — chissà chi è — che avrebbe recuperato due o tre persone sfidando più volte i cavalloni. Ma quella frase insistita, «mio papà è in Svezia»? «Sembra un modo per proteggersi: è sotto choc, sconvolto, ha vissuto un incubo» confida una delle psicologhe che fanno parte del gruppo di specialisti messi a disposizione dal comune di Crotone.
Ciò che è accaduto a bambini e ragazzi a bordo del barcone è uno degli aspetti più strazianti di questa sciagura. I morti con meno di 18 anni sarebbero almeno 15. Di una bambina di nove anni conosciamo solo la sigla con cui sinora viene indicata: Kr14f9. Chi si è salvato ha comunque perduto uno o più parenti tra padri, madri, fratelli, sorelle. Ecco un racconto devastante che arriva da Sergio Di Dato, coordinatore di Msf: un giovane di 22 anni è riuscito ad «adagiare su un relitto della barca il fratellino di sei. Ma lo ha visto spegnersi piano piano per l’ipotermia».
Secondo l’assessora ai Servizi sociali Filly Pollinzi sono «8 i bimbi che si trovano in ospedale. Le loro condizioni sono buone e questi ricoveri sono solo per cautela». Fatto sta che «non parlano. Tanti piangono, un modo per liberarsi del dramma vissuto». Poi quelle urla «di una donna, molto provata e ferita — stavolta è la testimonianza di una volontaria ospedaliera — che incessantemente chiama la figlia morta che non ha potuto salvare... Dal reparto di pediatria le grida sono di una bimba che piange e si dispera perché cerca una mamma che non può più rispondere».
Per dare un conforto, è andato al San Giovanni di Dio anche monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano e vicepresidente Cei. Riflette a voce bassa, pensando «ad alcuni bambini che chiedono dove siano i genitori. È un dramma nel dramma, mettiamoci nei panni di quei genitori che hanno perso i figli e vivono quasi un senso di colpa perché sono partiti». Ma quelle mamme e quei papà che dall’Afghanistan hanno visto i loro figli andarsene? Ai suoi genitori non è riuscito a raccontare la verità quel sedicenne che nel naufragio ha perso la sorella ventottenne, trovata morta in spiaggia. «Quando ieri ha chiamato il padre — è ancora il racconto che viene da Msf — ha detto che è ancora viva, in ospedale». Assistito dagli psicologi del comune di Crotone, il ragazzo adesso si trova nel Cosentino, ospite di una struttura per minori.
Quanto al dodicenne orfano che spera che il papà venga a prenderlo dalla Svezia, con ogni probabilità sarà dato in affido temporaneo presso una famiglia italiana. Nel frattempo scatterà una sorta di «protezione internazionale» finalizzata alla ricerca di parenti, forse in Europa. Qualora venissero rintracciati, il piccolo andrebbe da loro. Altrimenti rimarrà in Italia.
Piantedosi: «Ma quale disumano, voglio evitare queste stragi. La tragedia non c’entra con le nuove regole». Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023
Il ministro dell’Interno Piantedosi, dopo la frase sul naufragio vicino a Crotone che lo ha fatto finire al centro delle polemiche: «Io subito tra i superstiti, combatteremo gli scafisti»
Prima la reazione durissima contro chi accusava i soccorritori di essere intervenuti in ritardo causando la morte di decine di adulti e bambini, ieri la frase che lo ha fatto finire al centro delle polemiche: «La disperazione non giustifica viaggi che mettono in pericolo i figli».
Ministro Piantedosi, ma lei davvero pensa questo?
«Io penso che il messaggio debba essere chiaro: chi scappa da una guerra non deve affidarsi a scafisti senza scrupoli, devono essere politiche responsabili e solidali degli Stati ad offrire la via di uscita al loro dramma».
Ma si tratta di persone che non hanno nulla oppure che hanno perso tutto.
«Sono andato subito sul luogo della tragedia per testimoniare il cordoglio per le vittime e la vicinanza ai superstiti a nome mio e di tutto il governo. E per questo dico che per occuparci concretamente della disperazione delle persone, e non a chiacchiere, così anche da evitare simili naufragi, ci siamo mossi sin dal nostro insediamento intensificando i corridoi umanitari con numeri (617 persone) che mai si erano registrati in un così breve lasso di tempo. In soli due mesi abbiamo anche approvato il decreto flussi che consentirà l’ingresso regolare di 83.000 persone».
Le opposizioni la accusano di disumanità. Crede realmente di bloccare chi parte?
«I nostri sono fatti, e non dichiarazioni ipocrite, con cui intendiamo fare il possibile per fermare le partenze ed evitare altre tragedie».
Lo ripeterà anche in Parlamento dove chiedono che riferisca?
«Rispondere in Parlamento sarà l’occasione per illustrare ancora una volta una linea politica chiara che intende contrastare i flussi incontrollati e la rete dei trafficanti. Il resto sono vuote strumentalizzazioni di chi non è riuscito finora ad offrire reali alternative ad illusori viaggi della speranza che mettono in pericolo vite umane».
A Cutro c’è stato ritardo nei soccorsi?
«Non c’è stato alcun ritardo. Ho presieduto la riunione a Crotone e so che sono stati fatti tutti gli sforzi possibili in condizioni del mare assolutamente proibitive. Per questo voglio ringraziare il personale che, mettendo a rischio la propria vita, interviene quotidianamente per salvare i migranti in difficoltà su barchini alla deriva e che navigano in condizioni di grave pericolo. È estremamente offensivo anche solo adombrare che abbiano derogato agli obblighi e alla innata vocazione».
Il presidente Mattarella, la presidente Meloni e lei avete rivolto un appello all’Europa. Sinceramente crede che l’Ue possa trovare un accordo?
«Esiste sempre di più la consapevolezza che la cooperazione internazionale deve essere di comune interesse di tutti i Paesi membri e non solo di quelli di primo ingresso. Anche grazie alle pressioni che stiamo facendo si può intravvedere un primo segnale di cambiamento di linguaggio e prospettiva. Il giudizio definitivo lo daranno i fatti, ma io mi auguro possano essere tangibili al più presto».
E intanto?
«Confidiamo di ottenere al più presto risultati positivi dalle molteplici iniziative bilaterali che abbiamo avviato con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, di origine e transito dei flussi. E poi stiamo considerando un riallineamento normativo ad altre legislazioni europee su settori importanti come quello dell’asilo e dei rimpatri».
Quest’anno gli sbarchi sono raddoppiati, ma pochissimi migranti sono arrivati grazie alle Ong. Si può dire che il Codice non serve, anzi contribuisce ad aumentare il numero delle vittime?
«Tutt’altro. Nessuno ha mai pensato né affermato che l’applicazione di un quadro durevole di regole sui comportamenti in mare di navi private esaurisca la portata delle iniziative per mettere sotto controllo i flussi nel Mediterraneo. Il Codice serve eccome perché, proprio in un quadro di numeri crescenti, la percentuale degli sbarchi sulle nostre coste determinati da assetti navali di ong si è sensibilmente abbassata. Non c’è alcun legame tra le nuove regole e il possibile aumento di morti in mare. Nella rotta presidiata dalle ong non si è verificato alcun evento che non sia stato adeguatamente fronteggiato da Capitaneria e Guardia di finanza».
E il naufragio di Cutro?
«Chi mette questa tragedia in connessione con le nuove regole dice il falso, per ignoranza o malafede. È una rotta dove le Ong non ci sono mai state. In ogni caso la nuova legge non prevede alcun divieto di presenza sugli scenari o di interventi di recupero, li abbiamo semplicemente assoggettati a un quadro normativo anche di rilievo internazionale».
Lei si trova in Francia. Pace fatta tra Roma e Parigi?
«Non c’è stata mai nessuna guerra e quindi nessuna necessità di fare pace. La Francia è un partner naturale al quale ci accomunano la storia e i valori. Per il rafforzamento di alcune iniziative in cui crediamo fortemente la comunione di intendimenti con Parigi è assolutamente fondamentale. L’incontro di oggi con il ministro Darmanin me lo ha fortemente confermato».
Quanto è concreta la minaccia degli anarcoinsurrezionalisti?
«La vicenda Cospito ha ridato visibilità e portato alla grande attenzione mediatica una minaccia che da sempre si alimenta della contrapposizione a ogni forma di affermazione della sovranità dello Stato, in una logica antisistema».
Naufragio Crotone, quell’ordine di salvataggio mai partito «La navigazione è regolare». Giusi Fasano, inviata a Crotone su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023.
Frontex non segnala criticità alla Guardia costiera Nessuno dalla barca chiede aiuto. Così escono i mezzi della Finanza ma non le motovedette del salvataggio
Sessantasei bare nel Palasport di Crotone. Sessantasei vite perdute in un mare d’acqua e burocrazia, e regolamenti, e segnalazioni... Ci sono state oppure no delle lacune nella gestione dei soccorsi per quella povera gente in balia delle onde? A guardarla dalle versioni dei principali protagonisti — Frontex, Guardia costiera e Guardia di finanza — questa storia si riduce a un elenco di azioni per provare a salvare la barca e il suo carico umano. Ma sappiamo com’è andata a finire, quindi è quantomeno probabile che qualcosa non abbia funzionato nella catena dei soccorsi. Non fosse altro per la sottovalutazione dei rischi che quella bagnarola correva mentre navigava ancora al largo delle coste calabresi. Oppure, come sta emergendo, il punto debole è forse stato tentare di raggiungerla come se si trattasse di una operazione di polizia piuttosto che di soccorso. Più un controllo per traffico di migranti che una corsa per aiutarli a raggiungere la riva.
Le tappe
Come ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, nella sua audizione in commissione Affari costituzionali al Senato, «c’è un’indagine in corso alla quale nessuno si sottrae» e quell’indagine riguarda il naufragio — certo — e anche tutte le fasi precedenti. Il barcone con i disperati è partito alle tre del mattino del 22 febbraio dal distretto di Cesme (Smirne), in Turchia. Il 21 quella gente era a Istanbul, gli scafisti hanno imbarcato tutti su due grandi camion ed è cominciato il viaggio. Direzione Smirne, appunto. Poi un tratto a piedi lungo la costa del distretto e alla fine la barca tanto sognata. «Era bianca, si chiamava Luxury 2», raccontano le persone sentite a verbale. La Luxury parte, ma dopo tre ore di navigazione il motore è in panne. Uno scafista chiede aiuto e arriva una seconda imbarcazione, stavolta di legno, più grande e malconcia. Nome: Summer Love. I migranti passano sulla nuova imbarcazione e ripartono verso la terra promessa, l’Italia.
Il «caicco», come lo descrivono i migranti nei verbali, sta navigando ormai da tre giorni quando un velivolo Frontex — alle 22.30 di sabato 25 febbraio — lo intercetta 40 miglia al largo della costa calabrese. Frontex è l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Le sue rilevazioni termiche confermano che a bordo ci sono tante persone, i suoi strumenti di indagine dicono che sul barcone è attivo un telefono cellulare turco. È praticamente certo che si tratti di traffico di migranti. E infatti è con questa ipotesi che dal velivolo parte una segnalazione. Gli operatori Frontex la mandano all’Icc, l’International coordination centre, cioè le autorità che si occupano della cosiddetta law enforcement, in pratica le operazioni di polizia (contrabbandieri, traffico di migranti, ecc), di cui fa parte anche la Guardia di finanza. Per conoscenza Frontex gira la segnalazione anche alle Centrale operativa della Guardia costiera di Roma. Il punto è che quella segnalazione, secondo la ricostruzione della Guardia costiera, parla di una «unità che naviga regolarmente, a 6 nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con una persona sola visibile sulla coperta».
La Guardia costiera (che non è nell’Icc) si tiene fuori dall’intervento. Anche perché la Finanza le comunica di aver inviato i suoi mezzi. Per di più dalla barca nessuno chiede aiuto. Quindi niente allarmi. Non viene attivato il «Sar», il soccorso in mare che avrebbe fatto partire le Classi 300 della Guardia costiera, motovedette specializzate proprio nel recupero di persone in difficoltà e capaci di affrontare mare forza 7-8. Le Classi 300 a Crotone sono e a Crotone restano. Sabato sera, dunque, il destino dei 180 (o forse più) migranti sulla Summer Love è nelle parole della segnalazione Frontex: «Naviga regolarmente, in buone condizioni di galleggiabilità». Partendo da quelle parole si muove la macchina della law enforcement . La Guardia di finanza «dispone l’intercetto» — per dirla con la sua stessa espressione — della barca. Salpa con la Vedetta V5006 da Crotone e con il Pattugliatore veloce PV6 Barbarisi da Taranto. Si va a intercettare, appunto, non a soccorrere, «l’imbarcazione presumibilmente coinvolta nel traffico di migranti». I due mezzi partono, a quel punto, «nonostante le proibitive condizioni del mare» ma quelle condizioni non fanno scattare il «Sar». Il pattugliatore e la vedetta non riescono a raggiungere «il target», come dicono, e tornano indietro attivando «il dispositivo di ricerca a terra, lungo le direttrici di probabile sbarco». A metà notte sono tutti in attesa, diciamo così, che il barcone si spiaggi da qualche parte.
Alle quattro di domenica mattina alla foce del Tacina ci sono due uomini che pescano con le canne i pesci che il mare ormai in tempesta porta verso la battigia. A un certo punto sentono il rumore di uno schianto. È la fine del sogno per 180 disperati in cerca di un futuro migliore. Il Summer Love si disintegra assieme alle vite di 66 persone. Parte il grande allarme. La Guardia costiera dispone il Sar, ma è ormai troppo tardi. E ci tiene a precisare nel suo comunicato che questa — e soltanto questa — è «la prima informazione di emergenza ricevuta». Come a dire che tutto ciò che è successo prima non riguarda loro.
Naufragio Crotone, il racconto dei superstiti: «Ci tenevano in stiva. Alle madri dicevano di non far piangere i bimbi». Giusi Fasano, inviata a Crotone su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.
Il racconto dei superstiti: «Alcuni di noi erano zuppi di gasolio. La barca ha urtato contro qualcosa e ha iniziato a imbarcare acqua»
«Fra i corpi c’era quello di un bambino, abbiamo provato a fargli un massaggio cardiaco di emergenza ma era ormai privo di vita». I carabinieri di Cutro avevano gli occhi lucidi mentre scrivevano la relazione di servizio. Un servizio che non scorderanno mai più. Persone «al buio, bagnate, alcune ferite», un uomo «annaspante e in evidente sofferenza respiratoria» e poi quel bambino... ... il primo dei piccoli recuperati. Un’immagine che toglieva il fiato.
Nei verbali allegati al fermo del turco e dei due pachistani presunti scafisti, c’è tutta l’umanità dolente che su quella barca ha perduto la vita o ha perduto qualcuno; ma c’è anche il dispiacere profondo di chi si è ritrovato davanti alle scene delle onde che si prendevano e restituivano corpi straziati dalle punte acuminate della secca e dai pezzi di legno taglienti della barca disintegrata.
I verbali
Ogni migrante racconta la sua odissea personale. Anni di viaggi da luoghi alla fine del mondo e dei diritti umani, giorni e giorni di attesa in una qualche baracca fra centinaia di altri disperati, il viaggio per arrivare fino alla costa accanto a Smirne, in Turchia. E poi finalmente i piedi sulla barca. Racconta uno dei sopravvissuti: «Gli scafisti disponevano di telefono satellitare e un apparecchio tipo Jammer (per disinibire il segnale dei cellulari, ndr). Ci facevano salire di sopra solo per esigenze fisiologiche o per prendere pochi minuti di aria prima di farci ritornare nella stiva».
Tutti rivelano che poco prima del naufragio, date le condizioni pessime del mare, avevano insistito per chiamare i soccorsi. Inutilmente. Avvicinandosi alla costa gli scafisti hanno visto dei fasci di luce. «Pensando che segnalassero la presenza di poliziotti, hanno fermato la navigazione cercando di cambiare rotta e modificare il punto di approdo», dice uno dei superstiti. «Quella manovra — prosegue la testimonianza — suscitò i malumori di noi migranti, ormai stremati. Dopo il repentino cambio di rotta le onde alte hanno cominciato a far muovere e piegare la barca fino a quando improvvisamente ha urtato contro qualcosa e ha iniziato a imbarcare acqua e inclinarsi su un fianco ...».
Altro verbale: «Ho sempre avuto paura... le donne e i bambini hanno sempre pianto e gridato aiuto perché temevano che la barca potesse affondare (...) Quando il barcone si è fermato noi eravamo impauriti dalle condizioni del mare, per tranquillizzarci ci hanno mostrato l’iPad con la rotta e la distanza fra la nostra posizione e la terraferma, dicendoci che volevano far passare quelle ore per farci sbarcare nel cuore della notte e non incappare nei controlli di polizia».
Il naufragio
Quando la barca «si è spezzata», molti hanno visto che alcuni dei membri dell’equipaggio «hanno buttato a mare un tender e ci sono saliti allontanandosi». Tutti parlano del «capo» turco degli scafisti: «Con un tatuaggio a forma di due gocce di lacrime sullo zigomo destro e con un altro tatuaggio a forma di cuore, rosso, sul dorso della mano destra». La situazione nella stiva era drammatica: «C’era una perdita di gasolio e alcuni si erano inzuppati i vestiti».
Ogni tanto uno degli scafisti scendeva a portare acqua ai bambini e, forse infastidito dalle urla che arrivavano in coperta, si raccomandava: «Non fateli piangere». Al provvedimento di fermo sono allegate delle foto che mostrano uno dei presunti trafficanti sorridente sulla prua della prima barca. È il ragazzo che si è dichiarato pachistano e minorenne, lo difende l’avvocato Salvatore Perri, legale anche dell’altro presunto scafista pachistano fermato. Stamattina per loro è prevista l’udienza di convalida e il legale chiede equilibrio: di non saltare alle conclusioni dandoli già per sicuri colpevoli. L’altro uomo fermato, quello di nazionalità turca, è invece difeso dall’avvocato Pasquale Sarpi e per lui non ci sarà udienza: ha il Covid.
(ANSA il 28 febbraio 2023) - "Nelle tarde ore di sabato, un aereo di Frontex che sorvegliava l'area italiana di ricerca e soccorso nell'ambito dell'operazione Themis ha avvistato un'imbarcazione pesantemente sovraffollata che si dirigeva verso le coste italiane: come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato tutte le autorità italiane dell'avvistamento". Lo riporta un portavoce di Frontex all'ANSA. "Il nostro aereo ha continuato a monitorare la zona fino a quando non è dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante", aggiunge.
Estratti corriere.it il 28 febbraio 2023.
Aumenta il numero delle vittime del naufragio di migranti avvenuto domenica scorsa a Steccato di Cutro, nel crotonese. All’alba di oggi i soccorritori hanno rinvenuto il corpo di un uomo sulla spiaggia di Steccato. Si tratta della vittima numero 64 della strage (di questi solo 23 sono stati identificati). Le ricerche andate avanti per tutta la notte procedono anche nella giornata di oggi.
(...)
Un turco e due pakistani
Intanto dai verbali emergono le testimonianze fatte dai superstiti agli investigatori che hanno permesso di individuare i tre presunti scafisti accusati di aver condotto dalla Turchia all’Italia, nonostante le condizioni proibitive del mare, il barcone carico di migranti. Si tratta di un cittadino turco e due pachistani, sospettati di aver chiesto a ciascun migrante, per il viaggio di morte, circa ottomila euro.
«L’avaria dopo poche ore»
Ecco come inizia il racconto di un uomo siriano raccolto dai carabinieri: «Ho lasciato la Siria nel 2015 per raggiungere la Turchia dove ho vissuto per otto anni. Tramite Facebook ho contattato tale Abo Naser, palestinese conosciuto tramite un amico il quale ha organizzato questo viaggio». Continua il siriano: «Iniziato il viaggio, dopo alcune ore la barca ha avuto una avaria ed il personale e l’equipaggio ha fatto arrivare una seconda imbarcazione sulla quale siamo risaliti» (ma su questo particolare non c’è certezza ancora, ndr).
L’uomo fa anche una descrizione di uno degli scafisti arrestati e tradotti ieri in carcere. «La seconda imbarcazione è arrivata con quattro persone a bordo ed era guidata da un turco e da un siriano. Ricordo che il siriano era di corporatura robusta ed era anche un meccanico. Poi c’era anche un altro turco che aveva un tatuaggio sullo zigomo destra che non guidava ma dava ordini a tutta l’imbarcazione. Mi è sembrato una sorta di capo perché dava gli ordini agli altri. Poi c’erano due pakistani, uno che era quello che ha gestito lo spostamento da Izmir alla prima barca».
Un’altra testimonianza mette a fuoco gli ultimi concitati momenti prima della tragedia. «Circa quattro ore prima dell’urto della barca è sceso nella stiva uno dei due pakistani e ci ha detto che dopo tre ore saremmo arrivati a destinazione. Lui si è ripresentato un’ora prima dello schianto dicendoci di prendere i bagagli e prepararci a scendere che eravamo quasi arrivati. All’improvviso il motore ha iniziato a fare fumo, c’era tanto fumo e puzza di olio bruciato. La gente nella stiva iniziava a soffocare e a salire su. Ho fatto in tempo ad afferrare mio nipote e a salire in coperta dopo di che la barca si è spezzata e l’acqua ha iniziato a entrare. Quando sono salito senza più riscendere sotto c’erano circa 120 persone tra donne e bambini». A quel punto, gli investigatori gli chiedono cosa hanno fatto gli scafisti. Ecco la risposta: «Ho visto che il siriano e due turchi hanno gonfiato un gommone e sono scappati. Non ho visto cosa ha fatto il turco con il tatuaggio sullo zigomo perché ho pensato di mettere in salvo mio nipote».
(...)
(AGI il 28 febbraio 2023) - Aumenta il numero delle vittime del naufragio di migranti avvenuto domenica scorsa a Steccato di Cutro, nel crotonese. All'alba di oggi i soccorritori hanno rinvenuto il corpo di un uomo sulla spiaggia di Steccato. Si tratta della vittima numero 64 della strage. Le ricerche andate avanti per tutta la notte procedono anche nella giornata di oggi.
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per repubblica.it l’1 marzo 2023.
Ci sono volute 36 ore ma, alla fine, la Guardia costiera ha deciso di parlare e spiegare come e perché il barcone naufragato all'alba di domenica sulla spiaggia di Cutro non è stato soccorso.
Una spiegazione tardiva che conferma la ricostruzione di Repubblica secondo la quale l'operazione di ricerca del barcone individuato la sera precedente da un velivolo di Frontex è stata trattata come un'operazione di polizia, (law enforcement in gergo) e non di soccorso in mare. Per questa incredibile valutazione, con profili oggettivi di responsabilità che adesso la Procura di Crotone dovrà valutare, il barcone individuato non è stato monitorato, raggiunto, soccorso.
E per questo motivo ad intervenire è stata la Guardia di finanza, non dotata di mezzi adatti ad affrontare il mare forza 3-4, e non la Guardia costiera, le cui motovedette inaffondabili sono uscite dal porto di Reggio Calabria solo a naufragio avvenuto.
Frontex: "Italia avvertita"
[…] Frontex rimanda al mittente le accuse: "Nelle tarde ore di sabato, un aereo di Frontex che sorvegliava l'area italiana di ricerca e soccorso nell'ambito dell'operazione Themis ha avvistato un'imbarcazione pesantemente sovraffollata che si dirigeva verso le coste italiane: come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato tutte le autorità italiane dell'avvistamento". Lo riporta un portavoce di Frontex all'ANSA. "Il nostro aereo ha continuato a monitorare la zona fino a quando non è dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante", aggiunge.
La ricostruzione della Guardia Costiera
Ma ecco la ricostruzione ufficiale della Guardia costiera che spiega la mancanza di soccorso con la segnalazione di Frontex secondo cui il barcone "navigava regolarmente, con una sola persona visibile sulla coperta della nave".
Segnalazione in parte contraddetta da un portavoce di Frontex che invece ammette la presenza a bordo di quella barca di circa 200 persone: "L'imbarcazione, che trasportava circa 200 persone, stava navigando da sola e non c'erano segni di pericolo. Le autorità italiane hanno inviato due motovedette per intercettare l'imbarcazione, ma le condizioni meteorologiche avverse le hanno costrette a rientrare in porto. L'operazione di salvataggio è stata dichiarata nelle prime ore di domenica, dopo che il naufragio è stato localizzato al largo di Crotone. L'operazione, coordinata dalle autorità italiane, è stata condotta via terra, via mare e via aerea con il supporto di una nave e di un aereo di Frontex. L'operazione è in corso". Lo riporta un portavoce di Frontex all'ANSA.
Estratto dell’articolo di Leonard Berberi per corriere.it l’1 marzo 2023.
Sono le 22.26 di sabato 25 febbraio. Un Beechcraft 200 Super King Air, un velivolo biturboelica, è in perlustrazione sopra il Mar Ionio da ormai tre ore e cinquanta minuti. Lo fa per conto dell’operazione «Themis» di Frontex.[…] A un certo punto, dopo aver «setacciato» l’area a est della Sicilia e a sud della Puglia, si accorge […] che c’è un’imbarcazione piena di persone che si sta dirigendo verso le coste calabresi.
Il pattugliamento
Il velivolo […] fornisce poche informazioni ai radar. Per questo, per esempio, non viene captato dal sito di tracciamento Flightradar24. Alle 22.27 e 36 secondi inizia ad effettuare un giro attorno a quello che si rivelerà essere un caicco, come dimostrano i tracciati che il Corriere è riuscito a recuperare.
Tra le 22.31 e 41 secondi e le 22.32 e 07 scatta alcune foto da far analizzare. Nelle immagini, spiega via e-mail una portavoce di Frontex, «solo una persona è visibile a bordo», «ma le telecamere termiche (installate sul velivolo, ndr) rilevano una significativa risposta termica dai portelli aperti a prua», e «la barca era sommersa in modo significativo», segno che ci sono altri individui sull’imbarcazione.
[…] Frontex conferma che «come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato dell’avvistamento il Centro di coordinamento internazionale dell’operazione Themis e le altre autorità italiane competenti, fornendo la posizione dell’imbarcazione, la rotta e la velocità».
Parlando alla Commissione Affari costituzionali della Camera il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che «l’assetto aereo di Frontex che per primo aveva individuato l’imbarcazione non aveva segnalato una situazione di pericolo o di stress a bordo». Ma quando si chiede proprio all’agenzia a chi spettava lanciare l’operazione di ricerca e soccorso, quello che avrebbe dispiegato tutti i mezzi per salvare le persone in mare, la portavoce di Frontex è netta: «Secondo il diritto internazionale questa è una responsabilità delle autorità nazionali». Quindi dell’Italia.
Estratto dell’articolo di Giusi Fasano per corriere.it l’1 marzo 2023.
Ecco la segnalazione ufficiale che viene dal Coordinamento Sar (ricerca e soccorso in mare) e che potrebbe riguardare, il condizionale è d’obbligo, l’imbarcazione naufragata domenica mattina. Il dispaccio viene inviato dall’Imrcc Roma (Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo), alle 5.57 ora italiana (4.57 UTC) di sabato 25 febbraio, quindi circa 23 ore prima del naufragio al largo delle coste calabresi.
La comunicazione
Il dispaccio parla un mayday ricevuto via radio, in Italia, e segnala la possibile presenza di una imbarcazione in «distress», cioè una situazione di grande difficoltà, nel Mar Jonio. La comunicazione è però generica e non offre nessuna coordinata né la certezza che quella imbarcazione esista. Il coordinamento Sar chiede alle imbarcazioni nella zona di «prestare attenzione» e segnalare eventualmente la presenza di un natante in difficoltà o un’altra comunicazione di allarme.
Gli interrogativi
Che cosa poteva fare la Guardia costiera davanti a quel dispaccio (leggi qui la posizione del comandante della Capitaneria di porto di Crotone: «Con quel mare si interviene»)? Cosa dicono le regole? Anche su questo si sta cercando di fare chiarezza sia nelle indagini della Procura di Crotone (leggi qui l’intervista al procuratore capo: «Il meccanismo si è inceppato»), sia negli «approfondimenti» interni della stessa Guardia costiera.
Naufragio, ecco l’aereo di Frontex che per primo ha visto il barcone. «L’allarme doveva darlo l’Italia». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.
Il velivolo, un Beechcraft 200 Super King Air, ha avvistato il caicco alle 22.26. Ma dopo sei minuti ha dovuto fare rientro perché senza carburante. L’Agenzia: «Le telecamere termiche ci avevano segnalato una significativa presenza a bordo»
Sono le 22.26 di sabato 25 febbraio. Un Beechcraft 200 Super King Air, un velivolo biturboelica, è in perlustrazione sopra il Mar Ionio da ormai tre ore e cinquanta minuti. Lo fa per conto dell’operazione «Themis» di Frontex.
Vola a circa 2.300 metri di quota e procede a 200 chilometri orari di velocità media. A un certo punto, dopo aver «setacciato» l’area a est della Sicilia e a sud della Puglia, si accorge — grazie alla termocamera installata a bordo — che c’è un’imbarcazione piena di persone che si sta dirigendo verso le coste calabresi.
Il pattugliamento
Il velivolo di proprietà di una società privata specializzata fornisce poche informazioni ai radar. Per questo, per esempio, non viene captato dal sito di tracciamento Flightradar24. Alle 22.27 e 36 secondi inizia ad effettuare un giro attorno a quello che si rivelerà essere un caicco, come dimostrano i tracciati che il Corriere è riuscito a recuperare.
Tra le 22.31 e 41 secondi e le 22.32 e 07 scatta alcune foto da far analizzare. Nelle immagini, spiega via e-mail una portavoce di Frontex, «solo una persona è visibile a bordo», «ma le telecamere termiche (installate sul velivolo, ndr) rilevano una significativa risposta termica dai portelli aperti a prua», e «la barca era sommersa in modo significativo», segno che ci sono altri individui sull’imbarcazione.
L’allontanamento
Alle 22.32 e 19 secondi — cioè sei minuti dall’avvistamento — il Beechcraft si allontana dall’area. La portavoce di Frontex sostiene che «il nostro aereo ha continuato a monitorare fino a quando è dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante». Per altri quattro minuti procede alla stessa quota e velocità. Poi sale fino a 3.400 metri e accelera a oltre 300 chilometri orari, segno che la sua attività è terminata. Il velivolo va a Lamezia Terme e non decollerà prima di lunedì 27.
Chi doveva lanciare l’allarme
Frontex conferma che «come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato dell’avvistamento il Centro di coordinamento internazionale dell’operazione Themis e le altre autorità italiane competenti, fornendo la posizione dell’imbarcazione, la rotta e la velocità». Tra le «autorità italiane» c’è anche il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo che, si legge sul documento «Piano “Sar” marittimo nazionale», è incaricato di «assicurare l’organizzazione efficiente dei servizi di ricerca e di salvataggio nell’ambito dell’intera regione di interesse sul mare»
Il rimpallo di responsabilità
Parlando alla Commissione Affari costituzionali della Camera il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che«l’assetto aereo di Frontex che per primo aveva individuato l’imbarcazione non aveva segnalato una situazione di pericolo o di stress a bordo». Ma quando si chiede proprio all’agenzia a chi spettava lanciare l’operazione di ricerca e soccorso, quello che avrebbe dispiegato tutti i mezzi per salvare le persone in mare, la portavoce di Frontex è netta: «Secondo il diritto internazionale questa è una responsabilità delle autorità nazionali».
Quindi, a sentire loro, dell’Italia.
La mareggiata pitagorica. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2023.
Nel convalidare il fermo di due presunti scafisti del naufragio di Cutro, il giudice delle indagini preliminari così esordisce: «In attesa dell’atteso ed osannante turismo crocieristico, l’Italia scopre altri esotici viaggi alla volta di Crotone e dintorni». E, in attesa dell’atteso, continua: «Lungi dall’ergersi alla Cassandra di turno, chi scrive, gravato dagli orrori dell’ultima mareggiata pitagorica, si accinge a vergare l’ultimo fermo disposto in materia di immigrazione clandestina». Vergato il quale, conclude: «Lo sbarco in esame non può essere ritenuto il frutto di un accordo tra quattro amici al bar che, imbattutisi per caso in 180 disperati, decidono di affrontare i perigli del mare per speculare sul desiderio di libertà dei disperati medesimi». Che cosa può avere indotto il sarcastico estensore dell’ordinanza ad affrontare i perigli di una prosa spumeggiante ai limiti dell’esoterico pur di scrivere un atto giudiziario come se fosse un libretto di Metastasio? E volendo egli comunicarci che, sulla base della sua esperienza, gli scafisti russi sono stati sostituiti da quelli turchi, per quale motivo ha usato queste parole: «Si fa peraltro presente, sul canale esperienziale, come, venuta meno la manovalanza russofona, gli aurighi dei natanti siano quasi esclusivamente di nazionalità turca». Non è facile capire in che modo i dannati scafisti si siano trasformati in aurighi, ma dipenderà dall’antenna: i canali esperienziali li prende malissimo. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato.
Estratto dell’articolo di Manuela Messina per ilgiornale.it l’1 marzo 2023.
Non sono rare le espressioni "irrituali" nei provvedimenti dei giudici, dalle ordinanze alle motivazioni delle sentenze. […] Qui però c'è chi stavolta si è superato nel cosiddetto "esercizio di stile": parliamo del giudice per le indagini preliminari di Crotone Michele Ciociola, chiamato a decidere sul fermo di due dei tre presunti scafisti del naufragio di Crotone, Sami Fuat, 50enne turco e Khalid Arslan, 25enne pakistano.
Nell'ordinanza di convalida del fermo[…], il gip esprime alcune considerazioni poco neutre sulla tragedia dei migranti avvenuta sulle coste calabresi. Un prologo lungo neanche una ventina di righe, capace però di far saltare sulla sedia chi legge. "In attesa dell'atteso ed osannato turismo crocieristico - scrive nero su bianco - l'Italia per alcuni giorni scopre altri esotici viaggi alla volta di Crotone e dintorni".
“Esotici viaggi”? […] Ed eccolo che continua: "Nel frattempo immarcescibili e sempre più opulente organizzazioni criminali turche (nel caso in specie, tuttavia, emergono appendici strutturali pakistane) brindano all'ultima tragedia umanitaria (il disastroso terremoto che inghiottiva parte della Turchia e della già martoriata Siria) che regalerà ai loro traffici ulteriori miriadi di disperati, disperati disposti a tutto pur di mettersi alle spalle un crudele presente ed un ancor più fosco futuro”.
Siamo quasi alla fine della premessa, […]. "Lungi dall'ergersi alla Cassandra di turno, chi scrive, gravato dagli orrori dell'ultima mareggiata pitagorica, si accinge a vagliare l'ultimo fermo disposto in materia di immigrazione clandestina". Prima di entrare finalmente nel merito delle "apprezzande esigenze cautelari", ecco l'ultimo volo stilistico: "Diversamente dal consueto, il caso di specie registra decine di vittime, vittime di un destino sordo alle loro speranze e di uno stato di necessità non altrimenti fronteggiabile se non alla mercé di disperati viaggi della speranza".
Fine del prologo, fine della "letteratura". […] In sostanza: fermo convalidato e carcere per gli indagati per favoreggiamento all'immigrazione clandestina, naufragio colposo e lesioni. Il motivo principale: il "concreto pericolo di commissione di reati della stessa indole di quelli per cui si procede, per le specifiche modalità e circostanze del fatto che denotano una spiccata pericolosità sociale degli indagati” che spinge a “ritenere di certo non improbabile la reiterazione di analoghi comportamenti delittuosi”.
Estratto dell'articolo di Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 2 marzo 2023.
Davanti alla lunga fila di bare allineate al palasport di Crotone, il primo magistrato chiamato a emettere un provvedimento di giustizia poteva scegliere se usare un registro severo — per sottolineare la responsabilità dei presunti colpevoli — oppure un lessico solenne — se voleva rimarcare la gravità del reato — o ancora una prosa sobria e asciutta — preferendo scomparire dietro il suo ruolo per lasciar parlare i fatti e la legge.
E invece il dottor Michele Ciociola, che non è un semplice gip ma il coordinatore di tutti i gip di Crotone, dovendo convalidare il fermo di due presunti scafisti del naufragio di domenica ha deciso che era ora di mostrare al mondo il suo talento di scrittore satirico.
[…] Ha immaginato «immarcescibili organizzazioni criminali turche che brindano» e ha descritto una «mareggiata pitagorica» che realizzava una «tragica epifania», concludendo con la descrizione di se stesso costretto a «vagliare l’ultimo fermo» ma «lungi dall’ergersi alla Cassandra di turno».
Parole superflue, oltre che fuori luogo. Ed è amaro constatare che nemmeno una strage di poveri cristi riesce a fermare, nei tribunali, il contagio del protagonismo.
Estratto dell’articolo di Tommaso Ciriaco e Giuliano Foschini per repubblica.it il 2 marzo 2023.
Sono le sei del pomeriggio quando Matteo Salvini decide che è arrivato il momento di rompere il silenzio: "Solo immaginare che il ministro dei Trasporti, che è papà, abbia non solo detto ma anche soltanto pensato di non intervenire, è un oltraggio". E ancora: "Chi vuole fare polemiche, fare politica su questo, lasci in pace lo Stato e la Guardia costiera".
Quelle del ministro leghista dei Trasporti non sono parole di circostanza. Piuttosto, il risultato di quello che a tutti è parso, in queste ore, subito chiaro: nella guerra politica che si è aperta dopo la strage di Cutro, le opposizioni puntano al ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, ma in realtà mirano anche a Salvini. È a lui che risponde la Guardia costiera. E sono sue le direttive (quelle del 2019, quando era ministro degli Interni) e le indicazioni politiche (di oggi, da numero uno delle Infrastrutture) che, per errore o sottovalutazione, non hanno portato nessuna delle lance della Capitaneria di Porto in soccorso del peschereccio che affondava a pochi metri delle coste calabresi.
Fino a questo momento, la linea del governo sull’immigrazione era stata dettata da Salvini. La strage di Cutro - e la durezza delle immagini che hanno sconvolto tutti gli italiani - hanno convinto Giorgia Meloni e il suo sottosegretario, Alfredo Mantovano, che il pugno duro non potesse essere la risposta da offrire all’opinione pubblica. Ecco perché non sono piaciute per niente le parole del ministro Piantedosi quando, mentre ancora si dovevano chiudere le bare dei bambini, ha parlato della "responsabilità" di chi decide di intraprendere il viaggio. Ecco perché non una sola parola di solidarietà è arrivata dalla maggioranza dopo la sparata del leader leghista.
Ed ecco perché da Fratelli d’Italia sono giunte due indicazioni chiare: eliminare dal lessico espressioni come “porti chiusi” e, soprattutto, non liquidare la strage come una «"conseguenza del destino", per citare le parole di un uomo di governo. "Su questa storia", diceva ancora ieri pomeriggio, "è necessario fare la massima chiarezza. Se qualche errore, anche soltanto una leggerezza, è stata commessa, bisogna individuarla. Non possiamo girare la testa dall’altra parte".
Ecco: è proprio la ricostruzione della catena degli errori e le inevitabili risposte che si pretenderanno dalla Guardia costiera a non piacere a Matteo Salvini. E ai leghisti che ieri facevano notare anche una circostanza: l’inchiesta sulla strage è coordinata dal procuratore di Crotone, Giuseppe Capoccia. Magistrato stimato, ma che ha nel suo curriculum un passaggio da tecnico al fianco dell’attuale premier. Dal 2009 al 2010 è stato infatti vice capo legislativo del Ministero della Gioventù, quando a guidarlo c’era proprio Meloni. È stato insomma uno dei collaboratori dell’attuale presidente del Consiglio. A cui arrivò dopo un periodo passato al ministero della Giustizia e al Dap mentre al governo, come sottosegretario alla Giustizia, c’era un ex collega che aveva lavorato come lui tra Brindisi e Lecce a cui era legato da una forte stima reciproca: Alfredo Mantovano.
Estratto dell'articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2023.
La sorpresa arriva già a pagina due. «In attesa dell’atteso e osannato turismo croceristico, l’Italia per alcuni giorni scopre altri esotici viaggi alla volta di Crotone e dintorni». […] L’ordinanza che convalida il fermo di due presunti scafisti per la strage di migranti davanti alle coste calabresi di Cutro, comincia davvero in quel modo. E se quella frase sembra creativa, diciamo così, le altre a seguire hanno del surreale.
Michele Ciociola — così si chiama questo giudice delle indagini preliminari — dice che sì, i due indagati meritano di rimanere in carcere; perché rischiano di commettere di nuovo gli stessi reati per i quali sono stati fermati e poi perché, se liberi, ci sono buone probabilità che fuggano. Ma questo lo dice dopo, sul finale. All’inizio invece scrive un prologo che definire irrituale è un eufemismo.
Passaggi tipo: «Immarcescibili e sempre più opulente organizzazioni criminali turche brindano all’ultima tragedia umanitaria (il disastroso terremoto che inghiottiva parte della Turchia e della già martoriata Siria) che regalerà ai loro traffici ulteriori miriadi di disperati. Nel frattempo — sconfina nell’aulico — ha trovato tragica epifania quanto già in tante occasioni sfiorato e preconizzato».
Di più: «Lungi dall’ergersi alla Cassandra di turno, chi scrive, gravato dagli orrori dell’ultima mareggiata pitagorica, si accinge a vagliare l’ultimo fermo disposto in materia di immigrazione clandestina». Ma prima di vagliare va detto che «diversamente dal consueto, il caso di specie registra decine di vittime, vittime di un destino sordo alle loro speranze e di uno stato di necessità non altrimenti fronteggiabile se non alla mercè di disperati viaggi della speranza».
Sarebbe già sufficiente così. Un prologo davvero singolare. Ma il giudice Ciociola va oltre anche valutando i gravi indizi di colpevolezza. Lì parla del suo «crinale esperienziale», grazie al quale, a proposito della nazionalità turca degli scafisti, ha notato che per «l’eco del conflitto ucraino» è «venuta meno la manovalanza russofona» e che «negli ultimi mesi gli aurighi dei natanti sono quasi esclusivamente di nazionalità turca». Ancora.
Quando parla del presunto capo degli scafisti e del fatto che i migranti «mentre principiavano i soccorsi, cercavano di dar sfogo alla loro disperazione aggredendolo», aggiunge che «è di meridiana evidenza che, ove non coinvolto nella gestione del mortifero viaggio, risulterebbe del tutto inspiegabile la reazione dei migranti». E che sia chiaro: «Lo sbarco non può essere frutto di un epifenomenico accordo tra quattro amici al bar che, imbattutisi per caso in almeno 180 disperati, decidono di affrontare i perigli del mare per speculare sul loro desiderio di libertà». […]
In mare ancora 30 corpi, avvistato un bambino. L’ultimo messaggio di Mahdeh, 16 anni, dispersa: «Papà, mamma, cerco una vita migliore». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023
Ieri avvistato a Cutro un altro cadavere, ma il mare mosso non ha consentito il recupero: sarebbe di un altro bambino. Le vittime in tutto salgono a 69. La storia tragica della ragazzina afghana e le lacrime del cugino
«Papà, mamma. Abbracciatemi, vi lascio. Parto per l’Europa, cerco una vita migliore». Ricevuta la benedizione dai genitori, la sedicenne afghana Mahdeh Hossini ha lasciato Herat (non sappiamo quando e nè come) per raggiungere Smirne, in Turchia. Di lei non si sa più nulla, fa parte di quel numero — presumibilmente una trentina, ma potrebbe essere più alto — di dispersi, gente inghiottita, e trascinata chissà dove, dai flutti forza 5 che domenica all’alba frustavano quel fazzoletto di mare a 150 metri dalla spiaggia di Cutro.
Morta a Crotone Shahida, la capitana del Pakistan di hockey. Fuggiva dalla sua terra perché era perseguitata
La sua storia ora emerge per bocca del cugino Fayed, un uomo sulla trentina, giunto dalla Germania per avere notizie della giovane. Seduto nel tendone allestito dalla Croce Rossa proprio all’ingresso del Palazzetto dello Sport che ospita la camera ardente, l’afghano piange nel guardare le foto di Mahdeh che custodisce nel cellulare. «Ci sentivamo spesso, voleva raggiungermi in Germania». Poi le lacrime scendono copiose. Impossibile continuare. Mahdeh è dispersa come altri bimbi e ragazzini, forse i più deboli, incapaci di affrontare la violenza dei cavalloni, e che con ogni probabilità non sapevano nuotare.
Tra i nomi di quelli che non sono stati trovati ecco Mortza, 7 anni, la sorellina Mershana, 3; poi un’altra piccola, Niyayesh, 7, strappata alla madre Leila sopravvissuta alla strage assieme all’altra figlia Mariam, 17. Gli scampati: sono in tutto 82, chi ospite al Cara di Capo Rizzuto, chi in centri per minori, chi ricoverato al «San Giovanni di Dio» di Crotone, dove è stato in visita oggi il presidente Sergio Mattarella. Ieri, mercoledì sera, è stato avvistato un altro cadavere ma il mare agitato e il buio non hanno permesso il recupero del corpo. Sembrava proprio un altro bambino. E le vittime sarebbero così 69, anche se per l’ufficialità si attende il recupero del corpicino.
Posto che a bordo della «Summer Love», il nome dal caicco che si è squarciato dopo aver toccato uno scoglio, ci fossero circa 180 persone — così raccontano le testimonianze e ha riferito ieri il gip Michele Ciociola — i dispersi dovrebbero essere circa 30. Le ricerche continuano, motovedette pattugliano larghi tratti di costa ionica e vengono impiegati anche dei droni.
Vittorio Feltri, l’ennesimo tweet della vergogna di un uomo che non prova vergogna. Il giornalista e neoletto di Fratelli d’Italia prende in giro i morti in mare sui social. E a Destra lo voleva presidente della Repubblica. Mauro Munafò su L’Espresso il 2 Marzo 2023
Esiste un limite alla vergogna? Se c’è, Vittorio Feltri non lo conosce. Il giornalista e neoeletto consigliere regionale in Lombardia per Fratelli d’Italia non è nuovo alle “provocazioni” nelle sue interviste o sui suoi social. Provocazioni tra virgolette, battute, umorismo: così si giustifica di solito Feltri, proteggendosi con il mantello del “giornalista che dice cose scomode”.
Ma l’ultimo tweet no, di scomodo non ha nulla. È solo indegno. «Agli extracomunitari ricordo un vecchio detto italiano: partire è un po’ morire. State a casa vostra», scrive. E gioca con le parole e con la morte, come se fossero la stessa cosa. Come se una gag per i suoi follower con mattoncini e bandierine valesse qualcosa. Quando da Feltri, in questa come in altre circostanze, l’unica cosa che sarebbe piacevole ascoltare sarebbe il silenzio.
Diversi esponenti dell’opposizione chiedono ora a Giorgia Meloni un intervento su un suo eletto. La stessa Giorgia Meloni che con Matteo Salvini nel 2015 proponeva il nome di Vittorio Feltri come presidente della Repubblica, salvo poi candidarlo e farlo eleggere nel suo partito, a Milano e poi in Lombardia. Solo che oggi il presidente della Repubblica, quello vero, Sergio Mattarella, è a Crotone a piangere i morti. Davanti alle tante bare, comprese quelle troppo piccole, quelle bianche. Feltri, il presidente che avrebbe voluto la destra, invece sputa sui morti da Twitter. A ognuno il posto che merita.
Da “La Zanzara – Radio24” il 3 marzo 2023.
Vittorio Feltri non molla. A La Zanzara su Radio 24 dice: “Quando parti un rischio c’è sempre, se non partivi non morivi. Sbagliato addossare le colpe a Piantedosi, è la Turchia che doveva pensarci. Questi migranti vengono buttati lungo la penisola senza assistenza, pisciano nell’aiuole e delinquono. Presiedere il Consiglio Regionale? Non me ne frega nulla”.
“Quando dico ‘partire è un po’ morire’ cito un vecchio proverbio italiano. Avrà duemila anni, quando parti un rischio c’è sempre. Cinico? Sì, lo sono molto. Tutte le colpe addossate al ministro Piantedosi sono sbagliate, è la Turchia che non ha esaminato la questione alla partenza”. “Non puoi partire - continua Feltri a La Zanzara - con una nave colma di persone che non ha neanche il cesso. Se non partivi… non morivi. Lo so che non partono per una gita, che vengono per motivi economici ma pensano di trovare accoglienza sbagliando. Vengono buttati lungo la penisola senza assistenza, senza una casa, senza un lavoro.
Pisciano nelle aiuole e delinquono. Perchè lo fanno? Perchè non sanno come guadagnarsi da vivere”. Le opposizioni hanno detto che non dovresti presiedere il Consiglio Regionale: “Non me ne frega nulla, chi lo stabilisce? Chi se ne frega del Pd e dei 5Stelle, io sono in una maggioranza che non ha nulla a che vedere con questi signori strani, a me non me ne frega niente. Fate quello che volete”
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 3 marzo 2023.
Personalmente non si offende più nessuno: sono sempre altri a chiedere delle scuse per conto di qualcuno o di qualcosa. Se Vittorio Feltri parla dei disperati dei barconi e dice semiserio «partire è un po’ morire, state a casa vostra», mica s’offende un extracomunitario o qualche associazione: si offende Pina Picierno del Pd. Se poi un sindaco accosta Elly Schlein a una foto di cavalli e dromedari (su Facebook) mica si offende la Schlein, si offende Marco Simiani del Pd perché scandalizzato da «chi utilizza la denigrazione fisica».
E qui ci sarebbe da tornare a quando dicevano «mini-ministro» a Renato Brunetta, o «donna cannone» a Giuliano Ferrara, e Mario Giordano veniva definito «la vocina del padrone» mentre Grillo chiamava Berlusconi «nano bavoso» e Romano Prodi «Alzheimer», i tempi in cui Antonio Di Pietro diceva che Berlusconi era «come Hitler», «come Videla», «come Mussolini» eccetera.
Potremmo chiederci quando tutto sia cominciato, ma lo sappiamo già: è stato all’alba del grillismo, quando si fusero satira e slogan politici. In questa fase però il problema è tutto nella frase con cui il piddino Marco Simiani si è scagliato contro «chi utilizza la denigrazione fisica come strumento di confronto politico»: Simiani, non c’è nessun confronto politico. È proprio quello a mancare. Il turpiloquio riempie solo un vuoto.
Estratto dell'articolo di Francesco Boezi per “il Giornale” il 3 marzo 2023.
Un tweet del direttore editoriale di Libero Vittorio Feltri ha scatenato le consuete ire della sinistra. «Agli extracomunitari ricordo un vecchio detto italiano: partire è un po’ morire. State a casa vostra», ha cinguettato il neo eletto consigliere regionale di Fdi in Lombardia.
[…] Tra i primi a criticare l’intervento del noto giornalista, l’ex candidato al vertice del Pirellone Pier Francesco Majorino: «È questione di mostrarsi umani. E Feltri dimostra di non esserlo. C’è da provare vergogna che Feltri sia stato eletto consigliere regionale. È non solo inadatto. È indegno di ricoprire quel ruolo», ha tuonato l’esponente dem.
Il M5S ha persino avanzato una richiesta: che Feltri non presieda la prossima seduta consiliare. Il giornalista dovrebbe infatti sedere sullo scranno della presidenza, in quanto consigliere più anziano. Poi si procederà con l’elezione del presidente d’Aula.
[…] La rinnovata intesa tra dem e 5s si è declinata anche rispetto a questo episodio: «Queste parole sono semplicemente vergognose e inaccettabili», ha osservato De Luca, vicepresidente del Pd alla Camera. «Segnalo alla Presidente Giorgia Meloni che questo tweet indegno é di un suo eletto in regione Lombardia», ha commentato a stretto giro l’europarlamentare Pina Picierno, che fa sempre parte del partito di Elly Schlein. Tra gli attacchi, pure quello del giornalista David Parenzo a cui il direttore Feltri ha voluto replicare via Twitter.
Estratto dell’articolo di Francesco Boezi per ilgiornale.it il 4 marzo 2023.
Un tweet del direttore editoriale di Libero Vittorio Feltri ha scatenato le consuete ire della sinistra. «Agli extracomunitari ricordo un vecchio detto italiano: partire è un po' morire. State a casa vostra», ha cinguettato il neo eletto consigliere regionale di Fdi in Lombardia. Feltri ha ricevuto oltre seimila preferenze nella tornata elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale lombardo.
Tra i primi a criticare l'intervento del noto giornalista, l'ex candidato al vertice del Pirellone Pier Francesco Majorino: «È questione di mostrarsi umani. E Feltri dimostra di non esserlo. C'è da provare vergogna che Feltri sia stato eletto consigliere regionale. È non solo inadatto. È indegno di ricoprire quel ruolo», ha tuonato l'esponente dem.
Il M5S ha persino avanzato una richiesta: che Feltri non presieda la prossima seduta consiliare. Il giornalista dovrebbe infatti sedere sullo scranno della presidenza, in quanto consigliere più anziano. Poi si procederà con l'elezione del presidente d'Aula. Nicola Di Marco, consigliere regionale grillino, ha fatto «un appello al presidente Fontana e ai consiglieri che rappresentano la maggioranza dei cittadini lombardi: se come me provate un senso di ribrezzo di fronte a queste parole - ha dichiarato -, ma soprattutto se avete un minimo di rispetto per l'Istituzione regionale e per l'aula consiliare che rappresenta i lombardi, fate in modo che Vittorio Feltri non presieda la terza Camera dello Stato».
(...)
Vittorio Feltri sulla tragedia dei migranti: «Partire è un po’ morire, state a casa vostra». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023
Al cinico tweet del consigliere regionale di FdI risponde il Pd. Bonaccini: «Tra i più indegni, vergogna». Imbarazzo nel centrodestra
Polemica sui social per l’ultimo tweet di Vittorio Feltri che sulla tragedia dei migranti a Cutro (67 morti) ha scritto: «Agli extracomunitari ricordo un vecchio detto italiano: partire è un po’ morire. State a casa vostra». Sconcerto nei vari fronti politici, imbarazzo nel centrodestra.
Tra i tweet di risposta provenienti dall’opposizione quello dell’europarlamentare del Pd, Pina Picierno : «Segnalo alla presidente Giorgia Meloni che questo tweet indegno è di un suo eletto in regione Lombardia. Sconcerto e vergogna». Anche Stefano Bonaccini, presidente dem della Regione Emilia-Romagna e già candidato alla segreteria del partito, ha reagito: «Questo un tweet tra i più indegni, scritto da un eletto di Fratelli d’Italia nell’assemblea legislativa della più grande regione italiana. Vergogna». E Pierfrancesco Majorino, consigliere regionale dem: «Non ci sono attenuanti per lo schifo, lo sconcerto e la vergogna che le parole di Feltri generano. Non è questione di essere provocatorio o corrosivo. E’ questione di mostrarsi umani. E Feltri dimostra di non esserlo».
Nel Consiglio regionale lombardo, Nicola Di Marco del M5S ha chiesto: «I contenuti di questo tweet, oltre ad essere osceni, superano ogni limite di decoro e ogni minimo senso delle istituzioni, che un cittadino chiamato a rappresentarle dovrebbe provare. Il mio appello ai colleghi del centrodestra è quello di non umiliare l’istituzione regionale piegandola alla presidenza di chi si esprime in questi termini».
Feltri, direttore editoriale di Libero e consigliere FdI, già il 22 febbraio aveva postato sul medesimo social: «L’Ucraina e la Russia che fanno la guerra alle spalle della gente mi fanno schifo entrambe».
In un altro invece aveva insultato Zelensky. D’altra parte, da candidato o da eletto, Feltri ha lanciato altre accuse grevi o provocazioni. Di fine gennaio, nei giorni della campagna elettorale, quella per esempio su Matteo Messina Denaro: «Siamo sicuri che sia un assassino?».
O ancora, appena entrato in Regione, quando allertato che avrebbe dovuto presiedere per anzianità il primo consiglio (poi previsto per il 15 marzo), dice: «Ah questo non lo so, è una notizia che mi date voi, ma rifiuterò perché non ho nessuna voglia di rompermi i cogl…». Niente da fare, però, la presiederà.
Avvisiamoli. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2023.
Poiché i migranti vengono da posti dove certo non mancano telefoni e parabole, bisognerebbe avvisarli dei pericoli che corrono nel viaggiare per mare. Così parlò l’italo-fraterno Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, il quale probabilmente dirà che le sue parole sono state estrapolate da un contesto più ampio. Resta il fatto che a noi poveri di spirito arriva un messaggio piuttosto chiaro: se hanno telefoni e parabole, significa che tanto male non stanno. Un pregiudizio smentito proprio dalla situazione italiana, dove gli indigenti sono aumentati a dismisura esattamente come i telefonini. Nel 2023 il portatile non è un segno di benessere economico né un bene voluttuario: non più di quanto lo sia un paio di scarpe da ginnastica o di mutande. Anche al di là delle sue intenzioni, le riflessioni di Rampelli si inseriscono in un filone di goliardia macabra, teso a dimostrare che i migranti rischiano la vita sui barconi per ignoranza o per capriccio. L’idea che questa gente muoia di fame, di sete o di paura, e che preferisca rischiare consapevolmente il tutto per tutto piuttosto che prolungare la sua agonia, non riesce a fare breccia in certi cuori. La questione non si risolve dissuadendo i disperati dal mettersi in mare, ma offrendo loro alternative migliori. L’altra ipotesi, continuare a infischiarsene, non è più praticabile. Anziché i migranti, Rampelli farebbe meglio ad avvisare i suoi colleghi italiani ed europei: mi risulta che il telefono ce l’abbiano anche loro.
L'ultima deriva della sinistra: incolpare la Meloni assente a Crotone. Pd, grillini e media sfruttano l'agenda della premier, impegnata all'estero, per attaccarla. E contrapporla al Colle. Domenico Di Sanzo il 3 marzo 2023 su Il Giornale.
Lui contro lei. Lo schema dell'aggressione a Giorgia Meloni è collaudato. E si è ripetuto anche sulla tragedia del naufragio di Crotone. Con la visita del Capo dello Stato Sergio Mattarella che è diventata, per le opposizioni, un'occasione per contrapporre la premier al Presidente della Repubblica. Palazzo Chigi al Quirinale. Allora, ecco l'ultima accusa per mettere pressione a Meloni. Sottolineare «la grande assenza» (Repubblica del 2 marzo) della leader del governo e rinfacciarle l'omaggio solitario e silenzioso di Mattarella davanti alle bare dei migranti morti in Calabria. Un gioco pericoloso, quello di tentare di dividere due poteri dello Stato a margine di eventi strazianti come quelli accaduti sulla costa jonica calabrese.
Eppure Pd, M5s, Alleanza Verdi-Sinistra e giornali progressisti non hanno resistito alla tentazione di appigliarsi all'agenda di Meloni per protestare, stigmatizzare, parlare di disumanità e chiedere le dimissioni di mezzo esecutivo.
Lo ha fatto la neo-segretaria del Pd Elly Schlein, che si è precipitata a Crotone e ha sparato a palle incatenate contro la maggioranza e chi la guida. La leader appena incoronata dal congresso dem ha parlato di «assenza grave della voce del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, non solo su quanto avvenuto a Crotone ma anche su ciò che è avvenuto a Firenze». Ma Meloni, dopo avere espresso il suo cordoglio per le vittime, ha scritto una lettera all'Unione Europea per chiedere un intervento comune sul tema dell'immigrazione. L'europarlamentare del Pd Brando Benifei parla del «più inopportuno tra i paragoni», in riferimento ad alcune parole pronunciate dalla premier durante il suo intervento alla conferenza Raisina Dialogue di New Delhi in cui ha paragonato il suo ufficio di Palazzo Chigi alla «prua d'Italia», un avamposto per «guidare le nostre navi verso porti sicuri». Una metafora comune, che è bastata a Benifei per gridare «Vergogna!» contro il presidente del Consiglio.
Repubblica torna anche ieri sulla visita di Mattarella, «l'uomo in silenzio che salva lo Stato dal naufragio della pietà». E ancora: «Il governo non c'era». Non importa che Meloni sia dovuta partire nella serata di mercoledì 1 marzo per un'importante visita istituzionale in India ed Emirati Arabi Uniti. Il governo non c'era e la premier ha taciuto, questo è lo schema. Sempre sul quotidiano diretto da Maurizio Molinari ne approfitta Roberto Fico, ex presidente della Camera, grillino di rango con pedigree progressista. Fico tira in ballo ancora Mattarella, facendone un ariete inconsapevole per la battaglia politica. «Sono grato in maniera speciale al nostro capo dello Stato. La sua visita è stata un segnale alto, davvero importante», dice il pentastellato. E poi: «Il premier Giorgia Meloni avrebbe fatto bene ad arrivare subito a Crotone anche per vedere, per capire. Il Governo invece ha reagito in modo inaccettabile». Lo stesso spartito suonato in un tweet da Raffaella Paita, capogruppo di Azione e Italia Viva in Senato. «Ieri Mattarella è andato in silenzio a Crotone a portare umanità e lo Stato di fronte alle bare delle vittime del naufragio. Ma Giorgia Meloni dov'è?», va all'attacco la senatrice renziana. Seguita dai parlamentari dem vicini a Schlein. «Davvero stamattina non c'era nessuno del governo», si domandava mercoledì in Transatlantico Nicola Zingaretti. «Il problema è che non è andata Meloni», insiste Andrea Orlando. Lo schema non cambia.
Quali sono le regole per i salvataggi dei migranti, quando scatta l'allarme. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.
Chi comanda gli interventi della Guardia Costiera? E chi deve intervenire? Ecco che cosa prevedono i tre scenari del Piano marittimo nazionale
Le Unità costiera di guardia (Ucg), ovvero ogni comando di porto con delega a operazione Sar, di ricerca e soccorso, «alla notizia di pericolo per la vita umana in mare, comunque pervenuta, devono disporre i primi interventi operativi e informativi iniziando le operazioni di ricerca e soccorso con tutti i mezzi nella propria disponibilità».
È quanto prevede il punto 230.1 sulle responsabilità del coordinamento in situazioni operative del Piano marittimo nazionale del Comando generale del corpo delle Capitanerie di porto e della Guardia costiera (Imrcc).
L'Ucg dipende direttamente dai Centri secondari del soccorso marittimo (Mrsc) che agiscono delegati in determinati settori di ricerca e soccorso dal Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc) e che possono richiedere l'intervento di altre unità della Guardia costiera così come di altri enti (Guardia di Finanza, carabinieri, vigili del fuoco, polizia di Stato).
Sono tre le situazioni operative previste, da quella che può gestire solo l'Ucg alle altre due più complesse, con l'interessamento di altri comandi ed enti in via gerarchica, a seconda della portata dell'allarme.
Nel secondo scenario, ad esempio, al punto 230.3, spetta al Mrsc coordinare il soccorso in caso di «condizioni meteomarine particolarmente avverse e distanza dalla costa tali che le risorse a disposizione dell'Ucg sono inadeguate». Scenario drammatico, che potrebbe essere compatibile con quello del naufragio di Crotone del barcone carico di migranti.
Al punto 310 delle fasi di emergenza, il Piano sottolinea ancora come «tutti i soggetti pubblici o privati che comunque abbiano conoscenza di notizie relative a una nave o a persona in pericolo in mare, fermo restando dell'obbligatorietà dell'immediato soccorso, devono darne immediata comunicazione all'organizzazione Sar marittima competente». Devono inoltre «assumere informazioni per quanto più possibile complete» e «quando si presume che sussista una reale situazione di pericolo per le persone, si deve adottare un criterio non restrittivo, nel senso che una notizia con un minimo di attendibilità deve essere considerata veritiera a tutti gli effetti».
Tre le fasi successive: di incertezza, di allertamento e di situazione di pericolo effettiva.
Nella prima, al punto 350, il Piano sottolinea come bisogna «cercare ove possibile di stabilire un collegamento via radio», ma anche in caso contrario «assumere notizie presso fonti attendibili». E ancora: «Effettuare indagini appropriate per ottenere notizie dirette sullo stato di sicurezza del mezzo navale o delle persone in pericolo», come «attingere notizie dalle persone che possono essere a conoscenza dei movimenti del mezzo».
Nella fase di allertamento vengono predisposti «appropriati servizi e mezzi di ricerca e salvataggio», per essere pronti a quella successiva che «fa scattare l'esecuzione delle operazioni», con scambi di messaggi con la qualifica di «immediato» che devono formalizzare quello precedente d'urgenza di informazioni via radio o telefono o altri sistemi rapidi. Il messaggio, riporta sempre il Piano, «non deve mai essere causa di ritardo o interferenza» con il soccorso.
In tutti i casi «in nome dell'immediata salvezza di vite umane in mare, la richiesta di intervento di unità-velivoli militari può essere formulata nelle vie brevi da qualsiasi elemento dell'organizzazione Sar e rivolta a qualsiasi elemento dell'organizzazione militare».
Il coordinamento nella zona d'intervento è comunque prima di tutto del «comandante di mezzo aeronavale del Corpo delle Capitanerie di Porto», poi della Marina militare o di mezzo aereo dell'Aeronautica, poi della Guardia di finanza, carabinieri, polizia, infine di unità militari straniere, mercatili, da pesca o da diporto, oppure «a uso governativo straniero».
Naufragio Crotone, il dramma nelle relazioni di servizio: «Si stanno ribaltando, li sento urlare». di Giusi Fasano, inviata a Crotone su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.
Relazioni di servizio e protocolli per gli interventi in mare. Sono le prime carte acquisite dai carabinieri di Crotone per la nuova indagine sulla strage dei migranti, quella sui mancati soccorsi nella notte fra sabato 25 e domenica 26 febbraio. Per capire quale matassa il procuratore Giuseppe Capoccia e il suo sostituto Pasquale Festa dovranno districare, è utile ripercorrere i fatti.
La situazione di quella notte era la seguente: un barcone carico di 180 (o forse più) disperati era in arrivo verso le coste calabresi; il mare era forza 4; la boa di Capocolonna — parte della rete mareografica nazionale — registrava onde alte fino a 2 metri e mezzo; la Guardia di Finanza era uscita a cercare la barca avvistata da Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera; l’intervento era stato classificato come «low enforcement», cioè operazione di polizia e non di salvataggio; la Guardia costiera era stata inserita per conoscenza nella segnalazione di Frontex, aveva numerato «l’evento» come «Ev.Imm.533/2023» e seguiva tutto a distanza, a contatto con la Finanza; ma alla fine la Finanza si è arresa ed è rientrata senza rintracciare la barca, per le «proibitive condizioni meteo» e «l’impossibilità di proseguire in sicurezza».
Risultato: nessuno ha avviato un intervento Sar, cioè di soccorso in mare. La barca è arrivata davanti alla foce del Tacina, a Steccato di Cutro. Gli scafisti hanno visto delle luci e, credendo fosse la polizia, hanno cambiato rotta e dato gas al motore. È così che sono finiti su una secca disintegrando la barca e le vite di decine di disperati: 68 i corpi recuperati; 82 i superstiti e un numero imprecisato di dispersi (fra 27 a 47). Un’inchiesta sulla catena dei non-soccorsi, dicevamo. Per capire se qualcuno ha responsabilità penali per quel che è successo. E ieri, appunto, l’acquisizione delle prime carte, fra le quali la relazione di servizio della Guardia costiera. Che racconta anche dettagli drammatici, a naufragio appena avvenuto.
Per esempio questo: «Ore 4.25 di domenica. La Capitaneria di porto di Crotone riferisce alla Guardia costiera di Reggio Calabria che in località Steccato di Cutro una persona a terra vede una barca a circa 40-50 metri dalla riva con molte persone a bordo e che sente urlare da bordo. Segnala che in quel punto il fondale è sabbioso. Pertanto viene disposto l’impiego della motovedetta Cp321, previo imbarco del team sanitario». Ma è già troppo tardi. La Guardia costiera ne ha conferma alle 4.34 quando «un segnalante straniero contatta la Centrale operativa di Roma dicendo di aver avvistato una unità in difficoltà in procinto di ribaltarsi vicino al fiume Tacina. Nel corso della telefonata, abbastanza disturbata e confusa, il segnalante parla di Grosseto invece che di Crotone». La chiamata salta. Ma alle 4.35 lui, dice la relazione di servizio, «ricontatta Roma dicendo di aver visto “il peschereccio” ribaltarsi alla foce del Tacina, e di vedere delle luci e delle persone in acqua. Gli viene chiesto di rimanere in zona per fornire eventuali aggiornamenti ».
Le storie drammatiche di quella gente non fermano le polemiche politiche. Matteo Salvini se la prende con «chi attacca la Guardia costiera» (che dipende dal suo ministero) definendolo «ignorante o in malafede». Giuseppe Conte chiede alla premier Meloni di «fare chiarezza sulle responsabilità dei ministri» (Salvini e Piantedosi) e ricorda che «il mio governo fece il regolamento sui soccorsi in mare stabilendo che le persone vanno salvate». «Nessuno criminalizza la Guardia costiera», commenta Nicola Fratoianni, parlamentare dell’Alleanza verdi sinistra. «È sotto accusa chi le impedisce di salvare vite in mare. Consiglio a Salvini di guardarsi allo specchio».
Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 3 marzo 2023.
«Al momento in mare non abbiamo nulla». Alle 3.48 della notte tra sabato e domenica scorsi, la Guardia Costiera di Reggio Calabria rispondeva alla sala operativa della Guardia di Finanza che chiedeva testualmente: «Voi non avete nulla nel caso in cui dovessero esserci situazioni critiche?». Le motovedette 300 che avrebbero potuto facilmente raggiungere il barcone sono rimaste agli attracchi «a Taranto, Reggio, Vibo e Crotone».
Il dato rileva eccome sulla ricostruzione della tragedia di Steccato di Cutro […] se si considera che la segnalazione di Frontex inviata alle 22.25 a 26 indirizzi tra cui l'Mccr, il Centro nazionale di soccorso marittimo della Guardia costiera, era lineare. Segnalava una «imbarcazione sospetta di trasportare migranti a circa 40 miglia a Sud/Est di Isola Capo Rizzuto (KR)».
La qualifica come «senza segnalatori». Parla di navigazione regolare: «Non si vedono persone in mare». Ma dice anche che «a bordo c'è un telefono cellulare turco» (compatibile con la nota "rotta turca") il che avrebbe dovuto dirla lunga sulla presenza di scafisti. Aggiunge che c'è «una sola persona fuori coperta» ma che la fotografia termica rileva che il ventre dell'imbarcazione è caldo: «Possibili altri passeggeri sotto coperta» si legge agli atti. E poi il meteo era in peggioramento.
Per il portavoce della guardia Costiera Cosimo Nicastro «è stata una tragedia non prevedibile» non foss'altro perché «le informazioni di cui disponevamo non facevano presagire una situazione di pericolo». Eppure un documento che regola i soccorsi in mare redatto nel 2020 dalla Capitaneria di porto-Guardia Costiera, […] c'è. Esiste.
Recita che le missioni di salvataggio devono partire a ogni minima segnalazione: «Quando si presume che sussista una reale situazione di pericolo per le persone, si deve adottare un criterio non restrittivo, nel senso che una notizia con un minimo di attendibilità deve essere considerata veritiera a tutti gli effetti. Alla ricezione della segnalazione l'U.C.G. deve intervenire immediatamente».
È ragionevole ipotizzare che nulla di tutto questo è stato considerato quando l'Imrcc di Roma, centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo, informato già dalle 22.25 di un'imbarcazione chiaramente ad altissimo rischio di trasporto migranti e con mare forza 4, ha deciso di non aprire una Sar, cioè una missione di soccorso.
Col passare delle ore i fatti si fanno sempre più chiari e un report dei brogliacci delle comunicazioni intervenute tra Finanza e Guardia Costiera […] sono «già a disposizione dell'autorità giudiziaria competente» si apprende da fonti della Finanza.
Specificano che quando le due motovedette – la V5006 da Crotone e la "Barbarese" da Taranto – partite alle 2.20 per attendere che l'imbarcazione entrasse nelle 24 (12+12) miglia nautiche per azionare un intervento di polizia marittima, decidono di rientrare alle 3.30. «Il mare è Forza 7 non forza 4» raccontano fonti interne ai militari. Informano la loro sala operativa. Le onde le hanno spinte verso la costa, rimettono i motori al massimo e puntano le onde per tornare in porto. […]
La risposta della Guardia Costiera è che non hanno alcun mezzo in mare in quel momento. Pur di fronte a quella che per la Finanza è una richiesta «di intervento di loro unità navali per raggiungere il target» perviene da Reggio «riscontro negativo». E suonano come un movente politico le parole di fonti della Guardia Costiera sentite da La Stampa, ma con garanzia di anonimato: «Un tempo […] noi eravamo gli eroi […] Poi i tempi sono cambiati. È cambiato il nostro assetto. E ora ci muoviamo solo quando ci sono tutti i crismi di una operazione Sar».
[…] al momento attuale è pagante un'operazione di polizia che faccia arrestare qualche scafista e non un'azione umanitaria. […] la segnalazione giunta da Frontex non parlava di imbarcazione in «distress» (pericolo, ndr): nessuno era sul ponte e la barca sembrava tenere bene il mare. Ciò ha fermato la Guardia Costiera e fatto scattare la Guardia di Finanza rientrata al porto dopo un'ora di navigazione molto problematica. È un fatto acclarato che neanche a quel punto è scattata una operazione di salvataggio della Guardia Costiera.
Forse sarebbe stato troppo tardi. Di certo c'è che al distaccamento di Crotone dell'autorità marittima non è mai arrivato alcun segnale. Tutto è passato sulla loro testa. Del naufragio hanno saputo solo quando i cadaveri sono arrivati in spiaggia […]
Quel vuoto di sette ora da colmare. Maurizio Zoppi su L’Identità il 3 Marzo 2023
La Procura di Crotone tira dritto e accende i riflettori della giustizia rispetto alla strage dei migranti. Dopo giorni di caute dichiarazioni ed imbarazzo politico, i pm calabresi aprono la seconda inchiesta rispetto alla macchina dei soccorsi in cui sono morte 67 persone e numerosi feriti tra cui anche minorenni. Fortunatamente, proprio le condizioni cliniche dei sei bambini di età compresa tra i 3 e i 15 anni sono in netto miglioramento, stando alle parole del Primario della Unità Operativa di Pediatria, dell’Asp di Crotone, Stefania Zampagna.
Proprio alla fine della mattinata di ieri, il procuratore capo Giuseppe Capoccia ha aperto un secondo fascicolo: esattamente “un modello 45”. Ossia, al momento senza indagati e senza ipotesi di reato. L’indagine viaggerà in parallelo rispetto alla prima inchiesta giudiziaria che ha già preso il via per naufragio e omicidio colposo a carico di tre presunti scafisti, arrestati qualche giorni fa. Il pm Capoccia ha affidato ai carabinieri la delega, col compito per ora di acquisire dalla Guardia costiera, dalla Guardia di Finanza e dall’agenzia Frontex atti e registri relativi alle attività compiute fra sabato e domenica scorsi, nel lasso di ore intercorse fra il primo avvistamento del barcone e il suo naufragio su una secca a 150 metri dalla spiaggia di Steccato.
Gli accertamenti dovrebbero servire a chiarire se ci siano state omissioni, errori o sottovalutazioni nell’adempimento dei doveri e delle attività di soccorso. E non è da escludere che, dopo la lettura degli atti richiesti e dopo la verifica dei protocolli operativi, possano essere ascoltati in procura, come persone informate sui fatti, i vertici provinciali di Gdf e Guardia costiera, autorità deputate agli interventi in mare. A quanto pare, l’indagine partirà dalle testimonianze dei migranti sopravvissuti e dalle parole rese ai giornalisti dal comandante della Capitaneria di porto di Crotone Vittorio Aloi. “A noi risulta che domenica il mare fosse forza 4, ma motovedette più grandi avrebbero potuto navigare anche con mare forza 8…”. Sono queste le parole che hanno messo in discussione tutta la macchina dei soccorsi rispetto all’ennesima strage del mare e che ha posto numerose domande agli inquirenti. L’intrica matassa deve essere sbrogliata attraverso eventuali sottovalutazioni, rimpalli burocratici o ipotetiche responsabilità che non ha determinato l’uscita in mare di mezzi navali adeguati fra sabato sera e domenica mattina, quando ancora era possibile un soccorso al barcone con 180 migranti poi naufragato a largo della spiaggia di Cutro.
Il totale del disastro? Come già scritto, 67 vittime e 81 superstiti finora accertati, oltre a un numero imprecisato di dispersi. Vittime alle quali ha reso omaggio il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che proprio ieri è stato presente a Crotone. “Perché non siamo usciti? Dovreste conoscere i piani, gli accordi ministeriali – ha detto ieri il comandante Aloi –. Le nostre regole di ingaggio sono una ricostruzione molto complessa. Ci sarebbe bisogno di specificare come funziona il dispositivo per il pilottaggio dei migranti, da che arrivano nelle acque territoriali a che poi debbano essere scortati o accolti”. Ciò perché, ha puntualizzato l’ufficiale, “le operazioni le conduce la Gdf finché non diventano Sar”, ossia di ricerca e salvataggio.
Qui sta il primo nodo: “all’inizio, la procedura che manda in mare le vedette della Gdf, poi rientrare, non è Sar, ma di polizia”. Il comandante Aloi tiene il punto: “Crediamo di avere operato secondo le nostre regole d’ingaggio. Quali? Sarebbe troppo lungo specificarlo, anche perché sono spesso regole che non promanano dal ministero a cui appartengo”, quello dei Trasporti, ma “da quello dell’Interno”.
Questo è il secondo punto: le competenze ministeriali, in caso di interventi in mare verso i barconi di migranti, si intersecano a volte anche con quelle europee dell’agenzia Frontex. “C’è un intricato discorso di ricostruzione dei fatti – considera ancora il comandante crotonese –. Stiamo rifacendo tutto il percorso dei fatti e poi riferiremo all’autorità giudiziaria. Io sono provato umanamente, ma professionalmente a posto”.
Il lasso di tempo da esaminare è di 5-6 ore, anche se alle 4.57 di sabato mattina c’era già una segnalazione del Centro di coordinamento dei soccorsi marittimi della Guardia Costiera “a tutte le navi in transito nello Ionio” per un’imbarcazione in difficoltà, senza coordinate precise. Non c’è stato un Sos, se non dopo il naufragio, con una chiamata in inglese al 112. Per gli inquirenti, gli scafisti disponevano di un disturbatore di frequenza dei cellulari. Alle 4 di domenica mattina, il caicco si è fracassato su una secca a 150 metri dalla riva.
I primi soccorsi arrivano alle 4.30: due carabinieri recuperano una ventina di cadaveri e salvano due persone. Nella relazione allegata agli atti, la Capitaneria di porto crotonese scrive di avere ricevuto la prima segnalazione “alle 4.37”. Alle 5.37 scatta l’operazione Sar, ma quel punto sulla spiaggia ci sono ormai decine di corpi.
La strage nel mare di Crotone. Fermati 3 scafisti, uno ha il Covid. Polemiche tra Frontex e Guardia Costiera. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Febbraio 2023.
Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato sono riusciti a individuare i presunti trafficanti di uomini. Un cittadino turco e due pachistani, sospettati di essere gli scafisti accusati di "aver chiesto a ciascun migrante, per il viaggio di morte, circa ottomila euro". Uno dei tre scafisti, si è appreso, è risultato positivo al Covid.
Dopo l’ennesima tragedia in mare sono stati individuati tre presunti scafisti accusati di aver condotto nonostante le condizioni proibitive del mare il barcone carico di migranti dalla Turchia all’Italia, naufragato davanti alle coste del Crotonese. La Squadra mobile della Polizia di Stato, la Compagnia Carabinieri di Crotone e i finanzieri della Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Crotone, sotto il coordinamento della Procura crotonese, sono riusciti a individuare i presunti trafficanti di uomini. Un cittadino turco e due pachistani, sospettati di essere gli scafisti accusati di “aver chiesto a ciascun migrante, per il viaggio di morte, circa ottomila euro“. Uno dei tre scafisti, si è appreso, è risultato positivo al Covid.
C’erano tante di quelle persone stipate nella stiva del natante partito dalla Turchia e poi naufragato davanti alle coste di Crotone, almeno 150 migranti, mentre due scafisti che gestivano la folla di migranti “ci facevano salire per respirare per poi farci scendere sotto la barca”. E’ stato uno dei superstiti del naufragio di domenica all’alba, ascoltato ieri nel Cara di Capo Rizzuto, dove sono ospitati i migranti che sono riusciti a salvarsi, a raccontarlo agli investigatori, come risulta sui verbali del provvedimento di fermo
L’uomo superstite ha fatto anche una descrizione di uno degli scafisti arrestati e portati ieri in carcere: “Era un turco che aveva un tatuaggio sullo zigomo destra, non guidava ma dava ordini agli altri componenti dell’equipaggio. Lui era sempre seduto“. “Poi c’erano due pakistani, uno che era quello che ha gestito lo spostamento da Izmir alla prima barca“, ha aggiunto una superstite ascoltata dalla Polizia giudiziaria delegata dalla Procura di Crotone.
Le testimonianze ed i racconti di chi ha vissuto quei momenti e visto morire fra le onde amici e parenti sono agghiaccianti. Un altro dei sopravvissuti ha raccontato ai Carabinieri di aver lasciato la Siria nel 2015 per raggiungere la Turchia dove ha vissuto per otto anni. “Ho vissuto in una città della Turchia lavorando come pavimentista e muratore. Dopo tanti tentativi andati a vuoto per arrivare in Italia in cui sono stato arrestato, in questa ultima occasione, tramite Facebook ho contattato tale Abo Naser, palestinese conosciuto tramite un amico il quale ha organizzato questo viaggio. La partenza era da Izmir – racconta – e per arrivare a Izmir mi trovavo in una casa a Istanbul dove io e altri siamo stati nascosti per una notte. Arrivato di notte a Izmir su un camion con altre 130 persone, ho incontrato un pakistano che poi si è imbarcato sino all’arrivo in Italia. Questa persona mi è rimasta impressa perché ha sorpreso mio nipote filmare con il cellulare e lo ha rimproverato, al punto che io ho litigato con lui“.
“Da qui ci siamo incamminati per circa tre ore in un bosco – continua il racconto – sino ad arrivare presso una spiaggia. Ci hanno raccolto tutti in un punto ed abbiamo aspettato un po’ fino a quando qualcuno ha fatto arrivare la barca con un segnale luminoso. E’ arrivata una prima imbarcazione e siamo stati fatti salire. Iniziato il viaggio, dopo alcune ore la barca ha avuto una avaria ed il personale e l’ equipaggio ha fatto arrivare una seconda imbarcazione sulla quale siamo stati fatti salire” .
“La seconda imbarcazione è arrivata con quattro persone a bordo ed era guidata da un turco e da un siriano. Ricordo che il siriano era di corporatura robusta ed era anche un meccanico. Poi c’era anche un altro turco che aveva un tatuaggio sullo zigomo destra che non guidava ma dava ordini a tutta l’imbarcazione. Mi è sembrato una sorta di capo perché dava gli ordini agli altri. Poi c’erano due pakistani“.
Un altro superstite rivive la tragedia in mare tra le lacrime . “Circa quattro ore prima dell’urto della barca uno dei due pakistani è sceso nella stiva e ci ha detto che dopo tre ore saremmo arrivati a destinazione. Lui si è ripresentato un’ora prima dello schianto dicendoci di prendere i bagagli e prepararci a scendere che eravamo quasi arrivati. All’improvviso il motore ha iniziato a fare fumo, c’era tanto fumo e puzza di olio bruciato“. L’uomo ha verbalizzato agli inquirenti che indagano sulla tragedia quanto accaduto che è costato la vita a 65 persone: “Ho fatto in tempo ad afferrare mio nipote ed a salire in coperta dopo di che la barca si è spezzata e l’acqua ha iniziato a entrare. Quando sono salito senza più riscendere sotto c’erano circa 120 persone tra donne e bambini“. A quel punto, gli investigatori gli hanno chiesto cosa hanno fatto gli scafisti, ed ha risposto “Ho visto che il siriano e due turchi hanno gonfiato un gommone e sono scappati. Non ho visto cosa ha fatto il turco con il tatuaggio sullo zigomo perché ho pensato solo di mettere in salvo mio nipote” .
Le polemiche fra Frontex e Guardia Costiera
“Nelle tarde ore di sabato, un aereo di Frontex che sorvegliava l’area italiana di ricerca e soccorso nell’ambito dell’operazione Themis ha avvistato un’imbarcazione pesantemente sovraffollata che si dirigeva verso le coste italiane: come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato tutte le autorità italiane dell’avvistamento“. Ha dichiarato all’ANSA un portavoce di Frontex. “Il nostro aereo ha continuato a monitorare la zona fino a quando non è dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante. L’imbarcazione, che trasportava circa 200 persone, stava navigando da sola e non c’erano segni di pericolo“. Redazione CdG 1947
Naufragio di migranti in Calabria: 59 morti fra cui 9 bambini e 5 bambine. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Febbraio 2023.
Onde di 4 metri, barcone a picco. Prima dell’alba il peschereccio si è schiantato contro una secca a 100 metri dalle coste di Cutro, in Calabria. 81 i migranti salvati, tanti dispersi
Un peschereccio senza chiglia partito da Smirne, in Turchia, ha incontrato le onde proibitive del mare forza 4-5 arrivando, non si sa come, davanti alla costa calabrese, in località Steccato di Cutro, provincia di Crotone. La salvezza era lì, a portata di mano, nel buio delle quattro del mattino. A bordo c’era un numero ancora adesso imprecisato di uomini, donne e tanti bambini: qualcuno parla di 180 persone, altri di 250. I più afghani, pachistani, siriani, ma anche iraniani, somali e palestinesi.
Soltanto cento metri ancora e quel vecchio battello, che i trafficanti hanno avevano spacciato essere un motopeschereccio sicuro, sarebbe approdato a riva. Ma c’erano correnti troppo forti ed onde alte 3-4 metri. Non ha alcuna valenza, allo stato delle cose, sapere se quella carretta del mare sia finita dentro una secca o se sia stata un’onda a spaccarla in due pezzi a metà. Purtroppo parlano i fatti: barca smembrata, e quella povera gente in balia del mare. Chi sapeva nuotare ed trovato la forza di affrontare le onde fino a riva si è salvato. Per tutti gli altri purtroppo una morte atroce.
Il barcone naufragato all’alba di oggi davanti alle costa di Steccato di Cutro era partito quattro giorni fa dal porto di Smirne, in Turchia . Lo rende noto la Guardia di Finanza spiegando che l’imbarcazione era stata avvistata nella serata di ieri a circa 40 miglia dalla costa crotonese da un velivolo dell’agenzia europea Frontex in pattugliamento. Scattato l’allarme, erano salpati una vedetta della sezione operativa navale di Crotone e un pattugliatore del gruppo aeronavale di Taranto. Le proibitive condizioni del mare hanno tuttavia impedito di raggiungere la zona e i mezzi sono dovuti rientrare agli ormeggi. E’ stato quindi avviato il dispositivo di ricerca via terra e l’allarme è stato girato anche alle forze di polizia. Giunti sul luogo dello sbarco, non è stato possibile fare altro che constatare lo spezzamento del barcone ormai completamente distrutto dalle onde.
Il mare Mediterraneo è diventato un vero cimitero. Il numero dei morti in mare continua a salire e tocca ormai quota 26mila in dieci anni. Già 225 nel solo 2023, calcolando quelli del naufragio di oggi davanti alle coste crotonesi. Erano stati 2.406 nel 2022. Sono le vittime dei viaggi della speranza. Migranti partiti dall’Africa e dall’Asia col sogno di raggiungere l’Europa. Ma annegati durante la traversata. E’ l’Oim–Organizzazione internazionale per le migrazioni a portare il conto delle vittime con il “Missing migrant project”, attivo dal 2014. Un progetto che prende in considerazione tre rotte: Mediterraneo Centrale, Occidentale e Orientale. La prima, che collega Libia e Tunisia all’Italia, è la più letale in tutto il mondo. Oltre 17mila tra morti e dispersi registrati dal 2014 ad oggi. La strage maggiore del Mediterraneo centrale risale all’alba del 3 ottobre 2013, quando un barcone di 20 metri partito da Misurata, in Libia, si rovescia a mezzo miglio da Lampedusa. Il bilancio è di 368 morti accertati ed una ventina di dispersi.
“Un superstite mi ha riferito di un’esplosione a bordo e di corpi bruciati”, ha raccontato un soccorritore. Le motovedette sono impegnate in mare alla ricerca di sopravvissuti. Sul posto sono accorsi anche uomini della Polizia di Stato e dei Carabinieri, insieme al personale della Croce Rossa Italiana. Il governatore calabrese Occhiuto ha attaccato: “La Calabria è in lutto, dove è l’Europa?”. Il sindaco di Cutro, tra i primi ad accorerre, ha spiegato: “Erano già arrivati dei migranti, ma non c’era mai stata una tragedia di queste dimensioni”. La testimonianza del medico: “C’erano cadaveri che galleggiavano dappertutto“.
“La tragedia avvenuta al largo delle coste calabresi ci dice che quella barca che dovrebbe farci sentire con-sorti, accomunati da una simile sorte, resta per ora una speranza: il mondo continua a essere diviso in transatlantici e zattere, benestanti e disperati, stanziali e migranti per forza“. Lo afferma in una nota don Luigi Ciotti, presidente di Libera e del Gruppo Abele. “Sì perché bisognerebbe smetterla di chiamarle migrazioni: sono deportazioni indotte – prosegue – Nessuno lascia di sua spontanea volontà gli affetti, la casa, affrontando viaggi rischiosi in mano a organizzazioni criminali e in balia degli eventi atmosferici. Lo fa solo perché costretto da un sistema economico intrinsecamente violento, sistema che colonizza e sfrutta. Lo fa perché l’Occidente globalizzato, in nome dell’idolo profitto, gli fa terra bruciata attorno offrendogli in alternativa sfruttamento se non schiavitù – sottolinea don Ciotti -. Ed ecco la silenziosa carneficina che si sta consumando da almeno trent’anni sotto gli occhi di un ricco Occidente che finge di non vedere.“
È stata sottoposta a fermo dai Carabinieri e dalla Guardia di Finanza la persona sulla quale erano in corso accertamenti perché sospettato di essere lo scafista del barcone naufragato a Cutro. Si tratta di un cittadino turco la cui posizione è ora al vaglio della magistratura. Secondo quanto si è appreso, tra i relitti sarebbe stato trovato anche il documento di un altro soggetto che al momento non è stato rintracciato e che potrebbe essere fuggito o figurare tra i dispersi o le vittime.
La Procura della Repubblica di Crotone ha aperto un fascicolo, al momento contro ignoti, per disastro colposo, omicidio colposo plurimo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in relazione al naufragio avvenuto all’alba di oggi sulle coste del crotonese. Il procuratore capo della repubblica di Crotone questa sera ha preso parte alla riunione in Prefettura con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che in precedenza era stato a Steccato di Cutro per rendersi conto di persona dell’entità del disastro.
Mattarella: “Migranti, una tragedia che non può lasciarci indifferenti“
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso il proprio “dolore per il naufragio avanti alle coste crotonesi, nella quale hanno perso la vita decine persone e tra queste alcuni bambini. Molti tra questi migranti – ha detto Mattarella in una nota – provenivano dall’Afghanistan e dall’Iran, fuggendo da condizioni di grande difficoltà. È una ennesima tragedia del Mediterraneo che non può lasciare nessuno indifferente“. “E’ indispensabile – ha aggiunto il Capo dello Stato – che l’Unione europea assuma finalmente in concreto la responsabilità di governare il fenomeno migratorio per sottrarlo ai trafficanti di esseri umani, impegnandosi direttamente nelle politiche migratorie, nel sostegno alla cooperazione per lo sviluppo dei paesi da cui i giovani sono costretti ad allontanarsi per mancanza di prospettive“.
Meloni: “esigiamo collaborazione degli Stati di partenza“
La presidente del consiglio, Giorgia Meloni, esprime “il suo profondo dolore per le tante vite umane stroncate dai trafficanti di uomini. E’ criminale mettere in mare una imbarcazione lunga appena 20 con ben 200 persone a bordo e con previsioni meteo avverse. E’ disumano scambiare la vita di uomini, donne e bambini col prezzo del ‘biglietto’ da loro pagato nella falsa prospettiva di un viaggio sicuro. Il governo è impegnato a impedire le partenze, e con esse il consumarsi di queste tragedie, e continuerà a farlo, anzitutto esigendo il massimo della collaborazione agli stati di partenza e di provenienza. Si commenta da sé l’azione di chi oggi specula su questi morti, dopo aver esaltato l’illusione di una immigrazione senza regole“. Così Palazzo Chigi in una nota.
Il Papa: “Appreso con dolore del naufragio dei migranti”
“Stamattina ho saputo con dolore del naufragio avvenuto sulla costa calabrese, presso Crotone. Già sono stati recuperati 40 morti, tra cui molti bambini. Prego per ognuno di loro, per i dispersi, per gli altri migranti sopravvissuti”. Lo ha detto Papa Francesco all’Angelus. “Ringrazio quanti hanno portato soccorso e coloro che stanno dando accoglienza – ha aggiunto il Santo Padre -. La Madonna sostenga questi nostri fratelli e sorelle”. Redazione CdG 1947
La Procura di Crotone apre inchiesta sulla macchina dei soccorsi per il naufragio dei migranti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Marzo 2023
La delega è stata assegnata ai Carabinieri dal Procuratore Giuseppe Capoccia, e gli investigatori stanno raccogliendo del materiale sul "buco"' di almeno sei ore, intercorso tra le 22.30 di sabato 25 febbraio, quando l'aereo di controllo dell' agenzia europea Frontex ha trasmesso l'informazione con la quale veniva segnalata la presenza di una imbarcazione che navigava nelle acque del mare Jonio
La Procura di Crotone vuole fare chiarezza sulla catena della macchina dei soccorsi nella notte tra il sabato e la domenica mattina quando l’imbarcazione con a bordo almeno 180 migranti è naufragata e per questo motivo, come apprende l’Adnkronos, ha aperto un fascicolo, al momento contro ignoti. La delega è stata assegnata ai Carabinieri dal Procuratore Giuseppe Capoccia, e gli investigatori stanno raccogliendo del materiale sul “buco”‘ di almeno sei ore, intercorso tra le 22.30 di sabato 25 febbraio, quando l’aereo di controllo dell’ agenzia europea Frontex ha trasmesso l’informazione con la quale veniva segnalata la presenza di una imbarcazione che navigava nelle acque del mare Jonio. Al momento non è stata ipotizzata alcuna ipotesi di reato in quanto l’indagine della procura calabrese vuole fare chiarezza ed accertare l’eventuale presenza di eventuali omissioni di soccorso.
Il Comandante della Capitaneria di Porto di Crotone, Vittorio Aloi, parlando ieri con i giornalisti che gli chiedevano se sono stati sentiti dalla Procura della Repubblica di Crotone aveva replicato: “Saremo sentiti e ci farà piacere chiarire, chiariremo a chi dovere quando ce lo chiederanno”. Alla domanda sul perché non abbiano agito nonostante la segnalazione della sera prima, il sabato 25 febbraio, di una imbarcazione ‘distress’, cioè in pericolo, nello Jonio, ha replicato: “Non mi risulta che si trattasse di una segnalazione di distress, sapete che le operazioni le conduce la Guardia di Finanza finché non diventano comunicazione di SAR (cioè di salvataggio n.d.r.). Io non ho ricevuto alcuna segnalazione“.
Su questo imbarazzante rimpallo di responsabilità, il comandante Aloi ha aggiunto: “Non posso dire nulla, la Guardia costiera ha fatto un comunicato stampa e c’è scritto tutto e bene e lo capiamo tutti. C’è una inchiesta della Procura che non riguarda noi. Se e quando saremo chiamati a dare la nostra versione atti alla mano, brogliacci etc, noi riferiremo“. E poi ricorda che quel giorno “c’era mare forza 4″. “Le motovedette avrebbero potuto navigare anche con mare forza 8“. Ma oggi finalmente è arrivata l’apertura di un fascicolo della Procura anche sulla macchina dei soccorsi.
Sempre ieri sera dopo il TG1 nel nuovo programma “5minuti” a cura di Bruno Vespa che lo conduce anche, il comandante Cosimo NIcastro capo della Comunicazione della Guardia Costiera, ha interrotto il silenzio e ha dichiarato: “È stata una tragedia non prevedibile alla luce delle informazioni che pervenivano. Gli elementi di cui eravamo a conoscenza noi e la Guardia di Finanza non facevano presupporre che ci fosse una situazione di pericolo per gli occupanti. Non erano arrivate segnalazioni telefoniche né da bordo né dai familiari“. La segnalazione di Frontex “è stata trasmessa all’International coordination center, che è il punto di contatto non per le operazioni di ricerca e soccorso ma per le operazioni di polizia in mare” ed ha anche spiegato che quando le motovedette della Guardia di Finanza sono rientrate in porto c’è un contatto via radio tra la Capitaneria di Porto di Reggio Calabria e la Guardia di Finanza. E “non vengono segnalate situazioni critiche che facciano pensare che l’operazione di polizia si stia trasformando in un’operazione di emergenza”. E “la Guardia Costiera incomincia ad attivare tutta la sua catena affinché fosse predisposto il dispositivo Sar”.
Ecco cosa accadde quella notte: sono le 22.30 quando un aereo Frontex, l’ Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera, segnala la presenza di un barcone a 40 miglia dalle coste crotonesi e indica le coordinate. Fa anche sapere che a bordo c’è un telefono cellulare turco. Dunque, è ipotizzabile che si tratti di una imbarcazione di migranti. Poco dopo la mezzanotte partono due mezzi della Guardia di finanza, la V5006 da Crotone e il pattugliatore Barabrese da Taranto. Ma il mare è troppo agitato, forza 5 a tratti forza 6, e le motovedette delle Fiamme gialle rientrano. Le loro imbarcazioni non sono destinate ai salvataggi, ma da ‘intercettazione’, e pertanto non sono equipaggiate adeguatamente. Verso le 2 un nuovo tentativo, anche questa vano. Mentre fino a quel momento le motovedette della Guardia costiera rimangono attraccate in porto.
Sono quindi i 120 minuti che vanno dalle 2 alle 4 del mattino tra sabato e domenica, cioè il tempo che intercorre da quando i due mezzi della Guardia di finanza rientrano in porto perché non riescono a individuare il barcone e la chiamata di aiuto che viene inoltrata dai Carabinieri alle altre autorità del posto, facendo scattare la benedetta sigla Sar, che sta per ricerca e soccorso. Cioè l’allarme rosso.
Alle 4.10 è arrivata una telefonata al 112 da un numero internazionale, da qualcuno che parlava in inglese. La chiamata, presa dal vicebrigadiere Lorenzo Nicoletta, arrivava dalla imbarcazione che si trova a meno di centro metri dalla costa di Steccato di Cutro (Crotone). Sul posto sono quanti arrivati i Carabinieri del Nucleo Radiomobile, i quali capiscono immediatamente la gravità del fatto. Il vicebrigadiere Gianrocco Tievoli e il carabiniere Gioacchino Fazio si gettano in acqua in divisa e riescono a salvare cinque migranti. Purtroppo davanti ai loro occhi c’erano sono corpi ovunque. Anche di un bimbo neonato di appena sei mesi. “L’ho preso in braccio sperando che fosse ancora vivo”, racconta il vicebrigadiere Tievoli con un filo di voce. Purtroppo il piccolo era già morto. Come anche una coppia di gemellini. E tante altre vittime innocenti, tra cui un bimbo siriano di sei anni morto per ipotermia mentre il fratello ventenne si è salvato ed adesso è ricoverato sotto choc.
Spetta adesso alle indagini della Procura fare chiarezza su quanto accaduto quella maledetta notte, ed accertare eventuali responsabilità. Redazione CdG 1947
Da lastampa.it il 2 marzo 2023. In questo video sono visibili le immagini filmate dai migranti naufragati a Cutro su un primo barcone. Quest'ultimo sarebbe stato sostituito con una seconda barca (quella della tragedia) per un problema. A bordo si vedono molti bambini e minori e anche un uomo al timone.
Estratto dell'articolo di Laura Anello per “La Stampa” il 2 marzo 2023.
Sono due ore, due ore cruciali che avrebbero salvato la vita a madri, bambini, padri, fratelli. Quanti non si sa ancora, visto che il mare di Crotone continua a restituire cadaveri in una conta di corpi che non si ferma. E sono i 120 minuti che vanno dalle 2 alle 4 del mattino tra sabato e domenica, cioè il tempo che intercorre da quando i due mezzi della Guardia di finanza rientrano in porto perché non riescono a individuare il barcone e la chiamata di aiuto in inglese che rimbalza dai carabinieri alle altre autorità del posto, e fa scattare – finalmente – la benedetta sigla Sar, che sta per ricerca e soccorso. Cioè l'allarme rosso.
[…] La Guardia costiera, deputata ai soccorsi, dichiara che prima delle 4.30 non è stata informata di alcuna emergenza. Ma possibile credere che la Guardia di finanza, che per due volte è uscita in mare senza risultati e con mezzi non adatti al mare grosso (ma non grossissimo), in quelle due ore sia rimasta con le mani in mano senza fare nulla e senza avvertire i colleghi con cui sempre collabora e che – sa benissimo – hanno pronta lì una motovedetta tecnicamente inaffondabile, come quei pupazzetti che stanno sempre in piedi, in grado di affrontare anche il mare forza 9?
Pare che invece un contatto ci sia stato – e questo è un elemento su cui la procura stia indagando – ma che la Guardia costiera abbia risposto che non c'erano gli elementi per avviare l'operazione di salvataggio, «perché l'imbarcazione navigava autonomamente e non c'erano persone visibili a bordo». È quel mancato intervento che stupisce – quando ormai è chiaro che quel barcone si è perso e chissà mai se e quando approderà – più ancora del mancato intervento al momento della segnalazione dell'aereo di Frontex, sei ore prima.
Allora, quando la Guardia di finanza prende in carico la barca per svolgere un'attività di law enforcement, di polizia sul mare, si poteva ancora pensare che non ci fosse un pericolo imminente. Alle 2 del mattino, quando il barcone è sparito e le condizioni meteo peggiorano, è difficile immaginare che tutto si risolva in qualche arresto e in un fuggi fuggi di migranti.
Forse l'origine di questa storia sta nel primo novembre del 2014, quando l'operazione di soccorso Mare Nostrum, voluta dal governo italiano all'indomani della strage di Lampedusa, viene sostituita dal programma europeo Frontex.
[…] Qui cambia tutto, ed è a questo che sembra fare riferimento l'imbarazzato, dolente, intervento del comandante della Guardia costiera di Crotone, Vittorio Aloi, il primo in carne e ossa del suo corpo ad avere affrontato i microfoni dopo i silenzi e lo stillicidio di comunicati sibillini.
E lui, Aloi, dice una cosa importante. «Perché non siamo usciti? Non è così il discorso. Dovreste conoscere i piani, gli accordi che ci sono a livello ministeriale. Le nostre regole di ingaggio sono una ricostruzione molto complessa. Ci sarebbe bisogno di specificare molte cose su come funziona il dispositivo per il plottaggio dei migranti, da che arrivano nelle acque territoriali a che poi debbano essere scortati o accolti: le operazioni le conduce la Guardia di finanza finché non diventano Sar. In questo caso la dinamica è da verificare». […]
A Cutro, il peschereccio che trasportava circa 200 persone, si è spezzato in due a causa del mare mosso. REDAZIONE ONLINE La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Febbraio 2023.
Una distesa di teli bianchi e poco lontano sagome accovacciate sotto teli termici gialli alla ricerca di un po' di calore. È quello che resta dell’ennesimo viaggio della speranza sulla rotta che dalla Turchia porta alle coste calabresi. Un viaggio concluso in tragedia su un tratto di spiaggia della frazione Steccato di Cutro, nel crotonese. Un caicco carico di migranti si è spezzato a un centinaio di metri metri dalla riva ed è stata strage: 59 sono i cadaveri recuperati ed un numero indefinibile di vittime ancora da recuperare, 40, almeno.
E tra loro bambini, tanti bambini. Quattordici sono quelli recuperati tra cui due gemellini di pochi anni ed un piccolo di pochi mesi. Le vittime minorenni hanno un’età compresa tra i 13 anni e gli otto mesi. E poi 21 donne e 26 uomini. Intere famiglie spazzate via dalle onde. Solo in 82 si sono salvati. Per 22 di loro si è reso necessario il trasporto in ospedale ed uno è in prognosi riservata in terapia intensiva.
Quello che si è presentato agli occhi dei soccorritori è stato uno spettacolo agghiacciante. Cadaveri che galleggiavano ovunque. «Quando siamo arrivati nel punto del naufragio - ha raccontato Laura De Paoli, medico della Fondazione Cisom Cavalieri di Malta - abbiamo visto decine di cadaveri che galleggiavano ovunque. Ad un certo punto abbiamo visto due uomini che tenevano in alto un bambino. Siamo riusciti a recuperali, erano il fratello e lo zio del bambino che, però, era senza vita. Abbiamo provato a rianimarlo, ma aveva i polmoni pieni d’acqua e non ce l’ha fatta. Abbiamo saputo poi che aveva appena 7 anni». E in questo scenario di morte c'erano i sopravvissuti che si aggiravano spaesati e terrorizzati sulla spiaggia, gridando alla ricerca di un parente, un amico, un figlio che non riuscivano a trovare. Sin da subito si è capita l'immensità della tragedia. La cui conta, purtroppo, non è ancora conclusa.
I soccorritori non hanno notizie certe su quante fossero le persone a bordo alla partenza. Dal racconto dei sopravvissuti emergono, in questo senso, numeri contraddittori. Alcuni parlano di 180 persone, altri indicano un numero molto superiore. Col passare delle ore si è fatta strada la convinzione che i migranti fossero circa 180. Il che significa che mancano all’appello almeno una quarantina di persone, e le speranze di trovarle in vita, a questo punto, sono praticamente nulle. La tragedia è avvenuta in un tratto di costa isolata, con poche case, tutte distanti e disabitate in inverno, e su una spiaggia in cui sabbia e arbusti si contendono lo spazio.
Il barcone, partito quattro giorni fa da Izmir, in Turchia, con un carico di cittadini iracheni, iraniani, afghani e siriani, era stato individuato nella serata di ieri da un aereo del servizio Frontex. Dal porto di Crotone hanno preso il mare due unità della Guardia di finanza, ma le pessime condizioni - con mare forza 3-4 - hanno obbligato gli equipaggi a rientrare. Stamani, poi, verso le 4, una telefonata internazionale, proveniente probabilmente dalla stessa imbarcazione, ha provato a dare l’allarme alla Sala operativa del Gruppo aeronavale della Guardia di finanza di Vibo Valentia. Il telefonista, però, a causa di un inglese stentato, non ha fornito indicazioni utili, ma gli operatori hanno comunque capito che poteva essere accaduto qualcosa di grave ed hanno dato l’allarme. Quando sono giunti sul posto, i soccorritori si sono trovati davanti uno scenario di morte, con la la tragedia che si era già consumata.
L’ipotesi ritenuta più probabile è che il barcone di legno si sia infranto contro uno scoglio sommerso ad un centinaio di metri dalla riva, rimanendo in balia delle onde che l’hanno spezzato come un fuscello facendo riversare in mare il suo carico umano. Pochi, a bordo, sapevano nuotare e con la corrente e la forza del mare non ce l’hanno fatta. Si sono salvati soprattutto uomini.
La Procura della Repubblica ha avviato un’inchiesta per ricostruire la dinamica della tragedia, ipotizzando i reati di omicidio e disastro colposi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Carabinieri e Guardia di finanza, intanto, hanno sottoposto a fermo un cittadino egiziano sospettato di essere uno scafista. E sono i possesso dei documenti di un’altra persona che potrebbe avere fatto parte dell’equipaggio. Al momento è irrintracciabile. Non si sa se perché fuggito o se perché vittima o disperso anch’egli.
A concludere una giornata contraddistinta dal dolore, la mesta operazione di raccolta dei sacchi bianchi contenenti i poveri resti dei migranti. I corpi, dopo la benedizione impartita dal vescovo di Crotone mons. Raffaele Angelo Panzetta, sono stati caricati su carri mortuari e portati nel palasport di Crotone.
Il naufragio di Cutro. “Cadaveri galleggiavano ovunque, ho provato a rianimare un bimbo di 7 anni ma era morto”, il racconto di un medico da Crotone. Redazione su Il Riformista il 26 Febbraio 2023
“Quando siamo arrivati sul punto del naufragio abbiamo visto cadaveri che galleggiavano ovunque e abbiamo soccorso due uomini che tenevano in alto un bimbo. Purtroppo il piccolo era morto“. Le parole, drammatiche, sono di Laura De Paoli, medico che opera per la Fondazione Cisom cavalieri di Malta a supporto della Guardia costiera per gli interventi di soccorso in mare.
La dottoressa, sentita dall’agenzia Agi, era a borso della motovedetta della Capitaneria di porto di Crotone intervenuta nell’immediatezza del naufragio dell’imbarcazione spezzatasi in due al largo di Steccato di Cutro.
Qui, secondo il bilancio ufficiale, purtroppo non ancora definitivo, sono morte 59 persone. I corpi recuperati, come spiegato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi al termine della riunione di coordinamento presieduta in prefettura, sono di 30 uomini e 29 donne, con 14 minori fra loro.
All’appello mancano “un paio di decine” di persone, mentre in salvo ci sono 81 migranti. A bordo dell’imbarcazione, partita quattro giorni fa dal porto di Izmir, in Turchia, viaggiavano migranti in arrivo da Iran, Afghanistan e Pakistan.
Quando la nave si è spezzata “c’era mare forza 3 o 4, era difficile avvicinarci”, ha spiegato la dottoressa Laura De Paoli. “La barca dei migranti era già a pezzi sulla spiaggia e noi avevamo intorno tanti cadaveri galleggianti. Abbiamo visto due uomini che tenevano in alto un bambino e siamo riusciti a recuperarli. Erano il fratello e lo zio del bambino che, però, era senza vita. Abbiamo provato a rianimarlo ma aveva i polmoni pieni di acqua… aveva 7 anni“.
Pur avendo operato in altri teatri di guerra e in soccorsi in mare con varie associazioni umanitarie ed ong, De Paoli spiega di non essersi mai trovata davanti ad una catastrofe simile: “Io ho fatto soccorsi in mare, anche quello con la nave Prudence, ma sempre salvataggi senza morti, questa volta è stata devastante”.
Stando a quanto spiegato dalla Guardia di finanza, l’imbarcazione era stata avvistata nella serata di ieri a circa 40 miglia dalla costa crotonese da un velivolo dell’agenzia europea Frontex in pattugliamento. Scattato l’allarme, erano salpati una vedetta della sezione operativa navale di Crotone e un pattugliatore del gruppo aeronavale di Taranto.
Le proibitive condizioni del mare hanno tuttavia impedito di raggiungere la zona e i mezzi sono dovuti rientrare agli ormeggi. È stato quindi avviato il dispositivo di ricerca via terra e l’allarme è stato girato anche alle forze di polizia. Giunti sul luogo dello sbarco, non è stato possibile fare altro che constatare lo spezzamento del barcone ormai completamente distrutto dalle onde.
Estratto dell’articolo di Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2023.
Si esprime a fatica Alef, quanto basta, però, per capire il suo dramma e quello dei migranti naufragati sulla spiaggia di Steccato di Cutro (Crotone). Lei e suo marito Aziz si sono salvati, raggiungendo a nuoto la riva. «Non so dire da dove ci siamo imbarcati, ricordo soltanto il giorno: mercoledì scorso, veniamo da Mersin (città costiera che si affaccia sul Mediterraneo, ndr) e, da mesi, eravamo in lista d’attesa per questo viaggio verso le coste italiane».
[…] Una traversata da sempre piena di pericoli, quella del Mediterraneo. Anche se la rotta jonica potrebbe sembrare più vicina, per chi proviene dalla Turchia – e più sicura rispetto a quella che dalle coste dell’Africa taglia il Mediterraneo in direzione Nord, poiché per gran parte vicina alle coste – il viaggio dei profughi rappresenta sempre un’incognita […]
«Siamo partiti portandoci dietro solo qualche indumento. Ci hanno fatto prendere posto su un trattore e ci hanno portati in una spiaggia, lì abbiamo incontrato altri profughi. Prima di partire abbiamo consegnato 2.500 euro, altrettanti prima di imbarcarci. Non tutti, però – dice – abbiamo pagato la stessa somma. Alcuni hanno versato anche 8 mila euro».
[…] Sa quanti erano gli scafisti?, domandiamo. «Non lo so». Ha un sussulto. A quanto risulta è stato fermato un uomo con passaporto egiziano sospettato di essere uno scafista. Ma non sarebbe l’unico: gli investigatori sono in possesso dei documenti di un’altra persona che potrebbe aver fatto parte dell’equipaggio ma che è irrintracciabile al momento: potrebbe essere scappata oppure fra i dispersi.
«È stata dura. Il mare è stato quasi sempre mosso. Per tutto il tempo io sono rimasta abbracciata a mio marito. Il cuore mi si spezzava nel vedere i bambini, alcuni molto piccoli, piangere per il freddo. Nell’ultimo tratto, il mare si era ingrossato ancora di più. Le onde erano sempre più alte. Pensavamo di non farcela», conclude la donna.
Estratto dell’articolo di Niccolò Zancan per “La Stampa” il 27 febbraio 2023.
«Terra!». Continuavano a urlare, a pregare, a vomitare. Mare forza 6, vento di scirocco. «Quando abbiamo visto le luci, credevamo di essere salvi. “Vengono a prenderci!”. A quel punto, gridavamo tutti, eravamo sicuri di avercela fatta. Ma gli scafisti hanno iniziato a buttare giù i ragazzi, li tiravano per le braccia e li gettavano nel mare. A bordo si è scatenato il panico. La barca si è capovolta. E non era vero che ci avevano visto, non sono venuti a salvarci».
Fino a quel momento, i fantasmi del motopeschereccio partito dalla Turchia erano sopravvissuti a una traversata terrificante sulla rotta Smirne-Crotone, la rotta ionica. Sono morti a 200 metri da riva, a 200 metri dall’Europa. Qui a Steccato di Cutro, in Italia.
È stato un pescatore ad accorgersi per primo del naufragio. «Erano le cinque del mattino quando ha chiamato il mio amico Antonio Grazioso. Lui ha telefonato a me, e insieme siamo arrivati sulla spiaggia. Dopo quello che ho visto e che non potrò mai dimenticare, non sono sicuro che lo rifarei».
[…] Sul peschereccio di venti metri partito dalle coste turche, c’erano due cassoni carichi di nafta. E acqua, biscotti, redbull, ginseng, libri di preghiere, scarpe da ginnastica numero 34, una bicicletta da bambino e pochi salvagenti, perché il viaggio con giubbotto di salvataggio costa più caro. È tutto qui. Perfettamente chiaro. Su questa spiaggia.
A bordo viaggiavano da 150 a 180 persone: pachistani, afghani, iracheni, iraniani. Tutti inviati dai loro parenti, in missione per la vita. Con i risparmi messi insieme dopo anni di lavoro e sacrifici. Quattro giorni nel mare, tre notti intere contro le onde. Prima di arrivare a scorgere quelle luci sulla costa italiana. I morti sono già 74, molti sono minorenni. Ottantadue i salvati. Molti altri non si trovano, nessuno sa dire con esattezza quanti.
[…] «Ormai erano arrivati», dice senza smettere di fissare il mare Gianluca Messina. È il caposquadra del nucleo sommozzatori arrivato dalla Sicilia. Anche lui c’era il 3 ottobre del 2013 a Lampedusa, per quel naufragio identico a questo davanti alla spiaggia dei Conigli. «Non riesco a crederci, anche questa volta erano a un passo dalla salvezza», continua a ripetere. […]
[…] Sulla spiaggia adesso arriva un parroco per la benedizione delle salme, si chiama don Pasquale Squillacioti: «Siamo di fronte a una scena apocalittica. Ho visto tirare fuori dalle onde un ragazzino completamente nudo, e in quell’immagine ho visto la carne di Cristo».
Anche questa volta, la barca dei fantasmi era stata avvistata prima del naufragio. La capitaneria di porto di Crotone conosceva la situazione dalle 22 di sabato. Era stato un aereo di Frontex, in volo sul quel tratto di mare per presidiare le frontiere europee, a segnalare la posizione. Ma le condizioni del mare hanno impedito di tentare il salvataggio. Dunque: dormivamo e sapevamo. […]
Nel reparto di pediatria dell’ospedale di Crotone è ricoverata una ragazzina afghana, è stata lei a raccontare a suor Loredana gli attimi prima del naufragio: «Gli scafisti buttavano in mare i ragazzi. I ragazzi scomparivano nelle onde».
Credevano di essere salvi. Le bare stanno in fila sul campo dal basket del palazzetto dello sport di Crotone. Sono 74 alle nove di sera. Alcune grandi, altre più piccole e bianche. Sono tutte scoperchiate, perché è il momento delle fotografie della scientifica. Prendono le impronte, prelevano un campione di dna per permettere un riconoscimento. Sono i nomi e i cognomi che ci mancano. Sono le vite degli altri. E già si capisce che qui saranno pronunciate altre inutili parole di sdegno, all’ennesimo funerale del futuro italiano.
Chi si è salvato racconta quei drammatici momenti in mare. Strage di Cutro, le vittime salgono a 64: “Gettati in mare a 500 metri dalla spiaggia”, lo strazio dei sopravvissuti. Rossella Grasso su Il riformista il 27 Febbraio 2023
Mai avrebbero potuto immaginare il dramma cui stavano per andare incontro quando sono saliti sul peschereccio che li ha portati attraverso il mare e poi tra le onde. E con il passare delle ore, sale il numero dei migranti morti nel naufragio del barcone carico di migranti davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, Crotone. Ha perso la vita anche l’uomo ricoverato in gravi condizioni nell’ospedale di Crotone per le ferite riportate nel naufragio. Subito dopo l’arrivo nella struttura era stato portato in terapia intensiva ma dopo mezzogiorno è deceduto. Altri due corpi sono stati rilasciati dal mare. Le vittime accertate sono quindi 64. Una tragedia senza fine che si consuma negli occhi dei sopravvissuti rimasti accovacciati sulla spiaggia.
Dalle loro poche parole il racconto di quelle drammatiche ore. “Era buio, saranno state le cinque circa – hanno raccontato i sopravvissuti ai soccorritori come riportato dal Corriere della Sera – A un tratto gli scafisti, quattro in tutto, mentre eravamo a cinquecento metri dalla riva, hanno scorto delle luci, fasci provenienti da torce che illuminavano l’oscurità verso l’alto. Si sono spaventati, hanno pensato che fossero le forze dell’ordine che li aspettavano. Allora hanno cambiato rotta per approdare da un’altra parte. Ma c’era da far presto, aumentare la velocità: l’unico modo è stato quello di alleggerire il peso a bordo. Così hanno gettato gente in mare tra le onde che intanto sballottavano il motopeschereccio. Quanti? almeno venti persone”.
Un dramma raccontato da padri, madri, figli, mogli e mariti che hanno perso in mare le loro persone più amate. “Abbiamo sentito un rumore fortissimo. Poi la barca si è spezzata a metà, forse passando sopra uno scogli: io ero abbracciata a mio marito, in siano ritrovati in mare, lui non l’ho più visto”, racconta tra le lacrime una donna Pakistana che non trova il coraggio di lasciare la spiagga dove c’è il copro del marito coperto da un lenzuolo bianco. La giovane donna racconta che i due si sono sposati prima di fuggire dal Punjab. Poi insieme erano saliti sul peschereccio con uno zainetto con delle bottiglie d’acqua e un’po di cibo, tanta speranza e nulla più.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
Dopo il naufragio di Crotone, arriva lezione di vita del Ministro degli Interni. Piantedosi e la strage di Cutro: ‘maleducati’ che hanno perso la vita a pochi metri dalla spiaggia. Francesca Sabella su Il riformista il 27 Febbraio 2023
Volevano la vita e hanno trovato la morte. Volevano terra ferma e tutto intorno c’era solo mare. Mare scuro. Mare assassino. Una barca in balia delle onde, un pezzo di legno che si spezza in due, che cede nella tempesta, che affonda davanti alle coste calabresi. Poi la morte. Hanno perso la vita sessantadue persone, sessantadue migranti maleducati per il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi. Mentre i soccorritori erano in mare e tentavano disperatamente una corsa contro il tempo per cercare di salvare qualcuno, mentre i morti aumentavano, venti, trenta, sono cinquanta, sono sessanta, ci sono bambini, almeno tredici trovati morti ma sono molti di più i piccoli che il mare ha inghiottito… mentre succedeva tutto questo, sono arrivate in serata le parole del Ministro.
Una lezione di vita ai migranti. Un avviso ai naviganti. Un monito. “L’unica cosa che va detta ed affermata è: non devono partire. Non ci possono essere alternative. Noi lanciamo al mondo questo messaggio: in queste condizioni non bisogna partire – ha tuonato Piantedosi – di fronte a tragedie di questo tipo non credo che si possa sostenere che al primo posto ci sia il diritto o il dovere di partire e partire in questo modo. Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi cosa devo chiedere io al luogo in cui vivo ma cosa posso fare io per il Paese in cui vivo per il riscatto dello stesso”. Difficile tentare di rispondere. L’incredulità gioca brutti scherzi.
Caro Ministro Piantedosi, lei è stato educato alla responsabilità. Caro Ministro, lei è nato in Italia, immagino da una famiglia benestante o comunque non disperata che giustamente le ha insegnato la responsabilità, il senso del dovere, l’amore per il proprio paese. Lei è nato in Italia, immagino non sotto le bombe e non in una casa di fortuna. Immagino lei abbia avuto sempre almeno un pasto caldo al giorno e un letto confortevole nel quale addormentarsi sognando il suo futuro. È solo nato nella parte fortunata del mondo. Tutto qui. La nascita è un caso e lei, come me, è stato fortunato.
Ora, i soccorritori hanno raccontato di due uomini in mare che stavano annegando e cercavano di tenere in alto un bimbo, tentavano di salvarlo. Quando i medici li hanno raggiunti, il bambino era morto. Senza vita. Aveva sette anni e i due uomini che lo tenevano in braccio erano il padre e lo zio del bimbo. Secondo lei avrebbero voluto farlo morire? Secondo lei non avrebbero preferito potergli insegnare il senso di responsabilità? Lo stesso che lei conosce molto bene? Secondo lei hanno avuto scelta? No, perché non si trattava di insegnarli l’educazione o la “criminalità” si trattava di farlo vivere in un paese devastato dalla guerra, dalla fame, dalle malattie o di provare a dargli un’altra vita. E non ce l’hanno fatta.
Ma quanto deve essere forte la disperazione di un padre, di un fratello, di una madre, di una sorella che sfidano la morte e il mare pur di non restare dove sono? Io non lo so dire, non sono nata lì. Io come lei sono nata nella parte fortunata del mondo. Lei ha detto “in queste condizioni non si parte. Io non partirei se fossi disperato”. Ma lei non è disperato. Lei non ha gli occhi che hanno loro, lei non ha visto, sentito, provato lo strazio che hanno provato quelle persone a bordo. Probabilmente anche loro, se avessero avuto scelta, non sarebbero partiti. Dubito che conoscano il mare, la forza delle onde, le condizioni metereologiche e cosa succede quando si prende il largo.
Sono morte 62 persone e una lezione di vita, fuori da ogni logica, delirante, è l’ultima cosa di cui avevano bisogno e di cui hanno bisogno gli altri che si sono salvati. E Caro Ministro Piantedosi, faccia uno sforzo… perdoni quei migranti maleducati. Che non hanno saputo essere responsabili. Che volevano vivere…
Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Piantedosi, il ministro “disumano” per le parole sulla strage di Cutro: “Chi scappa dalla guerra non deve affidarsi agli scafisti”. Antonio Lamorte su Il riformista il 28 Febbraio 2023
Se fosse nato in Afghanistan, in Siria, in Iran o in Pakistan Matteo Piantedosi si chiederebbe più che altro cosa fare per aiutare il suo Paese invece che partire. Se fosse nato in uno di questi Paesi, il ministro, avrebbe ben chiaro che “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Parole irricevibili, definite così da tanti, da brividi, alla luce dei 64 morti della strage di migranti di Cutro. E continuano le ricerche, e non si conosce ancora con esattezza quante persone viaggiassero a bordo dell’imbarcazione naufragata a 200 metri dalle coste della Calabria. Parole che se suonano così agghiaccianti è per il “livello così altro di strumentalizzazione”, ha ribattuto il ministro.
“Chi scappa da una guerra non deve affidarsi a scafisti senza scrupoli, devono essere politiche responsabili e solidali degli Stati ad offrire la via d’uscita al loro dramma”, insiste oggi in un’intervista a Il Corriere della Sera. Sembra poco più di un dettaglio che da alcuni Paesi sia impossibile partire, viaggiare, lasciarli per andare via. “Sono andato subito sul luogo della tragedia per testimoniare il cordoglio per le vittime e la vicinanza ai superstiti a nome mio e di tutto il governo. E per questo dico che per occuparci concretamente della disperazione delle persone, e non a chiacchiere, così anche da evitare simili naufragi, ci siamo mossi sin dal nostro insediamento intensificando i corridoi umanitari con numeri (617 persone) che mai si erano registrati in un così breve lasso di tempo. In soli due mesi abbiamo anche approvato il decreto flussi che consentirà l’ingresso regolare di 83.000 persone”.
Piantedosi afferma senza esitazioni che nei soccorsi a Cutro non ci sia stato alcun ritardo. Lo sforzo del governo e gli appelli all’Europa viaggiano in una sola direzione: i migranti non devono più partire. “Chi mette questa tragedia in connessione con le nuove regole – dice a proposito del decreto Ong – dice il falso, per ignoranza o malafede. È una rotta dove le Ong non ci sono mai state. In ogni caso la nuova legge non prevede alcun divieto di presenza sugli scenari o di interventi di recupero, li abbiamo semplicemente assoggettati a un quadro normativo anche di rilievo internazionale”. Le Ong hanno accusato il governo del contrario, ieri hanno parlato della tragedia di Crotone come di un “frutto di precise scelte politiche”.
Il ministro potrebbe riferire in Parlamento sulla tragedia. Respinge ogni accusa di disumanità che gli è stata lanciata per le sue dichiarazioni: “I nostri sono fatti, e non dichiarazioni ipocrite, con cui intendiamo fare il possibile per fermare le partenze ed evitare altre tragedie“. Piantedosi ha incontrato a Parigi l’omologo francese Gérald Darmanin con cui “abbiamo condiviso propositi e progetti di lavoro congiunto molto interessanti. Fino a immaginare missioni congiunte in Paesi di fondamentale importanza come Tunisia e Libia“. Qualche mese fa aveva parlato di “carico residuale” per fare riferimento ai 35 migranti che il governo aveva costretto a restare a bordo dell’Ong tedesca Humanity 1 al largo della Sicilia: uomini che si trovano in buona salute e proprio per questo motivo non sarebbe necessario prestare loro soccorso.
64 i morti nell’ultimo bilancio aggiornato, tra cui donne e minorenni. Proseguono le ricerche al largo di Steccato Cutro. Quattro i presunti scafisti fermati al momento. Ogni passeggero avrebbe pagato ottomila euro per arrivare in Italia. La Procura di Crotone ha aperto un’inchiesta per omicidio e disastro colposi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Lo scontro in tv. “Migranti morti a Cutro potevano essere salvati”, il soccorritore Amodeo contro la ricostruzione di Piantedosi (che minaccia querela). Carmine Di Niro su Il riformista il 27 Febbraio 2023
Non è vero, come riferito anche in conferenza stampa tenuta nel pomeriggio di domenica a Crotone dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che i migranti naufragati davanti allo specchio d’acqua di Steccato di Cutro non potevano essere salvati. A sostenerlo Orlando Amodeo, per lunghi anni dirigente medico della polizia di Stato e da anni soccorritore a Crotone.
Ospite di ‘Non è l’Arena’ su La7, collegato proprio dal luogo dell’ennesima tragedia dell’immigrazione costata la vita ad almeno 60 migranti (in gran parte in arrivo da Iran, Afghanistan e Pakistan) partiti 4 giorni fa dal porto di Turchia, con 30-40 dispersi presumibilmente morti in acqua e solo da ‘recuperare’, ha nettamente smentito la ricostruzione fornite dal titolare del Viminale e dalla Guardia di Finanza, che avevano spiegato il mancato intervento di soccorso dell’imbarcazione per il mare agitato.
“Noi abbiamo imbarcazioni in grado di affrontare il mare anche a forza 6 o forza 7 – ha detto ancora Amodeo – Io sono salito a bordo di quelle imbarcazioni, qui in questi anni, e abbiamo compiuto salvataggi in condizioni simili”. Amodeo ha raccontato che lui stesso negli anni scorsi con mare forza 7 (come quello di domenica, nda) con un barchino da pescatore. “Si parla di questo bambino morto? Se fosse stato figlio loro sarebbero usciti anche col mare forza 21”, ha concluso Amodeo.
Secondo la ricostruzione ufficiale di GdF (in particolare il Reparto aeronavale di Vibo Valentia, competente per territorio) e ministro Piantedosi, l’imbarcazione dei migranti era stata avvistata nella serata di sabato a circa 40 miglia dalla costa crotonese da un velivolo dell’agenzia europea Frontex in pattugliamento. Scattato l’allarme, erano salpati una vedetta della sezione operativa navale di Crotone e un pattugliatore del gruppo aeronavale di Taranto.
Le proibitive condizioni del mare avevano tuttavia impedito di raggiungere la zona e i mezzi erano dovuti rientrare agli ormeggi. Era stato quindi avviato il dispositivo di ricerca via terra e l’allarme è stato girato anche alle forze di polizia. Giunti sul luogo dello sbarco, non è stato possibile fare altro che constatare lo spezzamento del barcone ormai completamente distrutto dalle onde.
Parole, quelle di Amodeo, che hanno visto poi imprecisate “fonti del Viminale” affidare all’agenzia AdnKronos una comunicazione che sa tanto di censura: “sottoporrà all’Avvocatura dello Stato le gravissime false affermazioni diffuse da alcuni ospiti in occasione della trasmissione” al fine di “promuovere in tutte le sedi la difesa dell’onorabilità del Governo, del ministro Piantedosi, di tutte le articolazioni ministeriali e di tutte le istituzioni che sono da sempre impegnate nel sistema dei soccorsi in mare”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
La tragedia e le polemiche. La strage di Cutro non solo di Stato ma anche razzista. Iuri Maria Prado su Il Riformista l’1 Marzo 2023
Ieri un telegiornale nazionale ha aperto sul bilancio “in progress” della strage di migranti dell’altro giorno: persone che, spiegava la conduttrice, salendo su quel barcone hanno deciso «di mettere a repentaglio la propria vita come quella dei propri figli». Si tratta, come sappiamo, della posizione che ha ritenuto di assumere il governo, una giudiziosa combinazione dei protocolli da compagnia di assicurazioni con i più moderni insegnamenti della scienza metereologica e con le più avanzate acquisizioni in campo di responsabilità genitoriale, il tutto riassunto in questo schema:
1) quando scappi dalla fame, dalla guerra e dall’oppressione, tieni conto del disclaimer ministeriale per essere sicuro se, come e quando hai diritto di essere salvato; 2) in ogni caso, altrimenti scatta la clausola di esonero, guarda il bollettino del mare; 3) soprattutto, sii “etico”, cioè non contravvenire all’obbligo di educare i tuoi figli secondo il principio dello Stato cui pretendi di accostarti, vale a dire “prima gli italiani”, e ricorda che soltanto poi e soltanto forse, meteo permettendo e condizioni contrattuali ammettendo, vengono i tuoi figli, che giusto per combinazione non sono battezzati e non hanno la pelle bianca.
Visto che almeno un paio di ministri, quello dell’Interno, il Commendator Carico Residuo, e quell’altro, Capitan Ruspa, minacciano querele nei confronti di chi osa affermare che sarebbe stato possibile salvare quei migranti, vediamo di intenderci. È verosimilmente improprio, o comunque è discutibile, reclamare le dimissioni di un ministro che dice uno sproposito, e probabilmente non dovrebbe dimettersi neppure se pretende di presidiare le enormità cui si abbandona con l’annuncio dell’azione legale contro chi lo critica.
Ma dire, come ha fatto questo giornale, che quella che si è consumata davanti alla Calabria è una strage di Stato costituisce l’esercizio di un diritto pieno: un diritto che nessuno, tanto meno un esponente del governo, può anche solo sognarsi di contestare, figurarsi tentare di conculcare a suon di querele. E siccome l’andazzo è questo, vediamola anche meglio. Non solo è una strage di Stato, dicitura che rimanda solitamente a una neutra prepotenza o negligenza omicida che viene dai lombi del potere pubblico: è pure di stampo etnico-razziale, perché questa gente è lasciata morire in mare non perché sta in mare, ma perché è fatta di migranti, gente di pelle e di religione diverse, e che in forza di questa diversità vede dimidiato, anzi annullato, il diritto di essere salvata.
E a mettere in forse, anzi a revocare, il dovere di salvare quella gente non è l’impossibilità di salvarla perché c’è il maltempo, non è l’avventatezza del clandestino insubordinato all’etica parentale del profugo comme il faut, non è il viaggio in violazione degli standard di sicurezza che il ministero-broker pretende dal contraente-migrante: a far accantonare il dovere di salvarli è che sono poveri e neri. Su quella strage, come sulle tante pregresse, non c’è dunque il semplice sigillo di una politica dello Stato: c’è il marchio di una politica razzista.
Iuri Maria Prado
Soccorsi negati, ecco come si poteva evitare la tragedia di Cutro. Angela Nocioni su Il Riformista l’1 Marzo 2023
Sarebbe bastato soccorrerli. La strage di bambini a due passi dalle coste di Cutro, in Calabria, si poteva evitare. Invece si continuano a contare i morti. Un centinaio, il bilancio è ancora incerto. Molti sono i buchi nella ricostruzione delle sei ore (perse) tra le 22,30 di sabato (quando la barca piena di profughi è stata avvistata e l’Italia avvisata) e le 4,30, quando la nave si è schiantata a pochi metri dalla spiaggia e a pochi passi dallo schieramento di agenti di polizie varie che, invece di andare a cercare ii profughi in mare, li stavano aspettando a terra in un’operazione di contrasto all’immigrazione clandestina finita a contare sulla spiaggia i cadaveri di quindici bambini.
Il ministro Piantedosi, capo della guardia di finanza e della polizia, a qualsiasi dubbio risponde: offensivo anche solo ipotizzarlo. Matteo Salvini è taciturno. Offre attestati di solidarietà alla Guardia costiera, attestati inusuali visto che la Guardia costiera al suo ministero fa riferimento. La Guardia costiera è il grande mistero di questa tragedia. Un corpo fatto di militari votati al mare che del salvataggio di persone a rischio hanno fatto la loro vita professionale, che nella storia tragica delle operazioni di riscatto naufraghi nel Mediterraneo hanno da anni il fondamentale ruolo di soccorritori anche in condizioni meteo proibitive, questa volta è stato fermo agli ormeggi fino a naufragio avvenuto. Presto qualcuno di loro spiegherà il perché. Ci sono troppi e troppo furibondi militari lì dentro perché tutti continuino a tacere a lungo.
I fatti: l’aereo Eagle1 di Frontex, missione europea incaricata di pattugliare il mare dal cielo, segnala alle 22,30 di sabato 25 febbraio a 40 miglia a sud est di Capo Rizzuto, in acque internazionali ma in piena Sar italiana (la zona in cui l’Italia è TENUTA a prestare soccorso in mare) una barca sovraccarica. Dice esplicitamente che ci sono all’incirca 200 persone a bordo. Lo dice a tutte le autorità italiane, incluso il Mrcc di Roma, il centro di coordinamento costituito da personale delle capitanerie di porto. Quel centro è quello a cui spetta legalmente la responsabilità dei soccorsi. È quel centro che comanda poi alle singole unità della guardia costiera, in caso sia necessario (e spesso lo è) anche alla guardia di finanza, di attuare un piano di salvataggio.
Incredibilmente non viene attivato il piano di soccorso. In gergo tecnico, non viene creato l’evento Sar, che consente di mandare tutti i mezzi possibili in aiuto alla barca in emergenza e di avvisare ogni natante in zona (e in quella zona trafficata di mare ce ne sono tanti: mercantili, petroliere…) di avvicinarsi al luogo segnalato per prepararsi a un’operazione di ridosso. Ossia a fare un cordone attorno alla barca così da proteggerla dal mare grosso e aiutare poi in caso i soccorsi. Perché non viene creato l’evento Sar? Perché la Guardia costiera non si è mossa per sei ore, e lo farà soltanto a naufragio avvenuto? In un comunicato ieri la Guardia costiera ha scritto: “Frontex avvistava un’unità in navigazione nel mar Jonio. L’unità risultava navigare regolarmente a 6 nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con solo una persona visibile sulla coperta della nave”.
Perché non dire che Frontex li aveva invece avvisati subito che sul caicco c’erano quasi 200 persone e che la barchetta era “heavily overcrowded” ossia “pesantemente sovraccarica”? Perché tacerlo? Perché la Guardia costiera fa finta di non sapere che c’erano 200 persone su quel rottame? Sappiamo per certo che la guardia costiera aveva queste informazioni fondamentali perché due giorni fa, a domande del nostro giornale, Paulina Bakula dell’ufficio stampa di Frontex ha risposto: “Noi abbiamo immediatamente informato le autorità italiane, tutte, non solo l’Mrcc. L’imbarcazione, con a bordo circa 200 persone stava navigando autonomamente e non c’erano segnali di pericolo”. E ha parlato di imbarcazione “heavily overcrowded”, pesantemente sovraccarica. Ovviamente la guardia costiera sa che una barca di pochi metri definita sovraccarica (semmai ci fosse bisogno della definizione dopo aver saputo che a bordo in pochi metri ci sono 200 persone) è in tutta evidenza a rischio. Per di più con condizioni meteo che le previsioni davano in peggioramento. Eppure la Guardia costiera non attiva i soccorsi e non esce.
Usciranno invece due mezzi della Guardia di finanza nella notte e rientreranno subito per timore, dicono, del mare grosso. Il mare, in verità, era nella zona dove stava la nave alle 22,30 con una onda massima di due metri, diventata poi di 2 metri e settanta solo alle 4, quando il caicco è arrivato a riva e si è schiantato sugli scogli. Perché tante omissioni? Nel centro di coordinamento della guardia costiera la catena di comando è chiara. La sala centrale operativa dipende dal capitano di vascello D’Agostino, che è il capo tecnico della Mrcc. D’Agostino risponde al capo del terzo reparto, l’ammiraglio Auricino, che coordina tutte le operazioni e i piani. E che riferisce al comandante generale, l’ammiraglio Carlone. D’Agostino, Auricino e Carlone potrebbero per favore spiegare perché l’evento Sar non è stato aperto subito, appena arrivata la segnalazione di Frontex, alle 22,30? Non ha senso lasciar supporre che siccome dal mezzo carico di profughi non è arrivato un sos non si è considerato il rischio naufragio.
Un caicco in quelle condizioni con duecento persone a bordo era chiaramente a rischio naufragio. Nelle capitanerie di porto si mastica amaro. In alcuni militari cova una rabbia che monta. C’è chi sbotta: “Ci hanno fatto scippare tutto dalla Guardia di finanza”. Altri: “Qualcuno sta vendendo il corpo alla Guardia di finanza”. Il timore che qualcuno si spinge a confessare è che si stia creando una pericolosa confusione, qualcosa di simile a una doppia catena di comando. Che “a decidere se una emergenza è un caso di immigrazione da contrastare con un’operazione di polizia o un caso di rischio naufragio da affrontare con una operazione di salvataggio non sia più la guardia costiera ma qualcun altro”. Angela Nocioni
L’odissea dei migranti in mezzo al mare. Strage di Cutro, nei verbali il racconto di una tragedia umana: “Le donne e i bambini piangevano, ci dissero di farli stare zitti”. Elena Del Mastro su Il Riformista l’1 Marzo 2023
“Ho sempre avuto paura…le donne e i bambini hanno sempre pianto e gridato aiuto perché temevano che la barca potesse affondare (…) Quando il barcone si è fermato noi eravamo impauriti dalle condizioni del mare, per tranquillizzarci ci hanno mostrato l’iPad con la rotta e la distanza fra la nostra posizione e la terraferma, dicendoci che volevano far passare quelle ore per farci sbarcare nel cuore della notte e non incappare nei controlli di polizia”. Inizia così il racconto raccolto dal Corriere della Sera e riportato nei verbali che ricostruiscono quei momenti drammatici in cui il barcone carico di migranti è drammaticamente naufragato a pochi metri dalla spiaggia di Cutro.
Tanti racconti dei superstiti che raccontano la loro personale Odissea: prima gli anni di cammino per arrivare sulla costa turca poi quella drammatica traversata del mare di notte in tempesta. E la morte dei loro cari che volevano solo portare in salvo. Il mare era in tempesta e tutti a bordo avevano paura. All’improvviso il forte colpo: la barca si era spezzata. La situazione nella stiva era drammatica: “C’era una perdita di gasolio e alcuni si erano inzuppati i vestiti”. Raccontano che ogni tanto uno degli scafisti scendeva nella stiva per portare acqua ai bambine e forse infastidito si raccomandava: “Non fateli piangere”.
“Gli scafisti disponevano di telefono satellitare e un apparecchio tipo Jammer (per disinibire il segnale dei cellulari, ndr). Ci facevano salire di sopra solo per esigenze fisiologiche o per prendere pochi minuti di aria prima di farci ritornare nella stiva”, dice un altro sopravvissuto. Dai racconti emerge che prima del naufragio avevano insistito nel chiamare i soccorsi perché le condizioni del mare erano spaventose. Ma gli scafisti non vollero. Avevano scorto sulla costa dei fasci di luce: “Pensando che segnalassero la presenza di poliziotti, hanno fermato la navigazione cercando di cambiare rotta e modificare il punto di approdo”.
Manovra che sulla barca suscitò molto malumore e ancora più preoccupazione. “Quella manovra — prosegue la testimonianza — suscitò i malumori di noi migranti, ormai stremati. Dopo il repentino cambio di rotta le onde alte hanno cominciato a far muovere e piegare la barca fino a quando improvvisamente ha urtato contro qualcosa e ha iniziato a imbarcare acqua e inclinarsi su un fianco”. Poi la tragedia senza fine, la morte e la disperazione.
A verbale ci sono an che i racconti dolenti dei soccorsi, come quelli dei carabinieri di Cutro che hanno toccato con mano quella tragedia. “Fra i corpi c’era quello di un bambino, abbiamo provato a fargli un massaggio cardiaco di emergenza ma era ormai privo di vita”, ha raccontato un carabiniere distrutto dal dolore. Persone “al buio, bagnate, alcune ferite”, un uomo “annaspante e in evidente sofferenza respiratoria” e poi quel bambino, un dramma umano anche per chi ha provato a fare qualcosa ma ormai era troppo tardi.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Il silenzio dell’Europa BiFrontex. L’Italia è sola con le sue bare. Rita Cavallaro su L’Identità il 2 Marzo 2023
Di fronte alle decine di bare bianche allineate, l’Italia invoca l’Europa, ma nessuno risponde. Come figli di un Dio minore, che bussano alle porte del Padre per chiedere accoglienza, eppure vengono lasciati al proprio destino. I migranti, a morire annegati a cento metri dalla riva di Cutro. E anche il nostro Paese, che non dovrebbe rimanere dietro quella porta, visto che quella “casa” europea ha contribuito a fondarla, nel segno di un ideale di collaborazione tra i popoli. L’Ue si è trasformata in una matrigna cattiva che, da un lato, chiede sacrifici e dall’altro volge la testa altrove, incapace di mettere in campo azioni concrete per risolvere l’emergenza dell’immigrazione clandestina, tutta sulle spalle dell’Italia. E pensare che soltanto pochi giorni fa la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in una bella passerella in Sicilia aveva detto che la questione migranti “è una grande sfida europea e ha bisogno di una risposta da parte di tutti noi e dell’Europa”, promettendo che “una soluzione europea è possibile e mi impegnerò al massimo per raggiungere l’obiettivo”. Era giovedì, poi domenica lo Ionio ha fatto strage di migranti che arrivavano dalla rotta greco-turca. E l’Europa è sparita, lasciando l’Italia al suo destino e in balia delle polemiche per i mancati soccorsi e per le parole del ministro Matteo Piantedosi, che ha sostenuto come “la disperazione non può mai giustificare viaggi che mettono in pericolo i propri figli”, mentre la premier Giorgia Meloni sottolineava che “l’unico modo per affrontare seriamente e con umanità questa materia è fermare le partenze e su questo sì, serve un’Europa che oltre a dichiarare la sua disponibilità agisca e in fretta”. Parole cadute nel vuoto, se non fosse per l’unica voce che si è levata da Bruxelles e che, nonostante parlasse italiano, non è suonata benevola. A rispondere a Meloni è stato il commissario Ue agli Affari Economici, Paolo Gentiloni: “Quello che è accaduto sulla costa di Crotone ha una dimensione che per noi è inaccettabile. Non ce la caviamo solo dicendo “la deve risolvere l’Europa”, non tutto si può chiedere all’Ue, che ha un bilancio pari a un settimo o ottavo di quello italiano”. Una dichiarazione politica, lungi dal ruolo istituzionale di un esponente del Pd in cerca d’autore dopo i risultati delle primarie, il quale, tra le righe, ha voluto dire all’Italia che deve cavarsela da sola. Come ha sempre fatto e come, anche stavolta, sta tentando di fare, lasciando da parte i “mai più” di circostanza, perché questa tragedia non è la prima e non sarà l’ultima, come dimostrano i numeri. Dal 2014 a oggi, oltre 20mila disperati sono stati inghiottiti dal Mediterraneo mentre tentavano di raggiungere illegalmente le nostre coste. Che non può essere colpa del governo lo capisce anche un bambino, seppure i burocrati e l’opposizione abbiano usato quei corpi senza vita per attaccare la linea dura del governo contro l’immigrazione clandestina. Come se le sanzioni contro le navi delle Ong, che vanno a raccattare disperati in alto mare per farli sbarcare nei nostri porti sicuri, siano la causa degli oltre 65 morti nello specchio di mare del crotonese. Polemiche frutto, se non di malafede, allora di ignoranza, visto che il naufragio di domenica non è avvenuto sulla rotta africana, presidiata costantemente dalle Ong, ma su quella greco-turca, da anni ignorata e, oggi, privilegiata dagli scafisti, i quali, attraverso i Balcani, conducono via mare i migranti che, prima della stretta di Erdogan e dei respingimenti dalla Croazia, giungevano a Trieste via terra. Nel 2022, in 29mila hanno preso la rotta dell’Egeo e 18mila di questi sono sbarcati in Italia. E Frontex attacca l’Italia per il mancato allarme del barchino in avaria: “Secondo il diritto internazionale questa è una responsabilità delle autorità nazionali”. Mentre la neosegretaria del Pd Elly Schlein punta il dito contro Piantedosi, parlando di “parole disumane, inaccettabili, non all’altezza del ruolo” e chiedendo le dimissioni. Dal canto suo, il titolare del Viminale ha sottolineato di essere stato in parte frainteso, perché il suo piano non prevede di bloccare alla partenza chi ha diritto a fuggire dalla guerra, ma di riaprire i flussi migratori legali, sospesi anche quando governava la sinistra, organizzando i trasferimenti. “Vi veniamo a prendere noi”, ha detto. Gli fa eco il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida: “Ci sono fino a 500mila posti di lavoro per i migranti”. Per ribadire che l’Italia non abbandona i disperati a morire in mare, ma regolarizzerà i flussi. Mentre l’Ue resta silente. Perfino alla lettera della premier Meloni, la quale ha scritto che “occorre lavorare tutti insieme per ribadire il principio che in Europa si entra solo legalmente e quindi in condizione di totale sicurezza” e “sviluppare e potenziare i canali legali di migrazione, distinti tra chi ha diritto alla protezione” e “chi intende accedere per ragioni di lavoro”. Per “contrastare, senza tentennamenti, i clan criminali che alimentano l’immigrazione illegale di massa. Senza concreti interventi dell’Ue, sin dalle prossime settimane e per l’intero anno, la pressione migratoria sarà senza precedenti, posto il difficile contesto che investe vaste zone del Pianeta”. Silenzio. Le uniche a gridare vendetta sono quelle bare bianche.
I dannati del mare. Piantedosi spiega che il naufragio di Cutro non c’entra con le nuove regole sulle ong. L’Inkiesta il 28 Febbraio 2023.
Il ministro ribadisce che «chi scappa da una guerra non deve affidarsi a scafisti senza scrupoli, devono essere politiche responsabili e solidali degli Stati a offrire la via di uscita al loro dramma». E ribadisce che sulla rotta Est, dove è avvenuta l’ultima strage di migranti al largo delle coste calabresi, «le organizzazioni non governative non ci sono mai state»
«La disperazione non giustifica viaggi che mettono in pericolo i figli». La frase pronunciata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi dopo il naufragio dell’imbarcazione al largo delle coste di Cutro, in Calabria, ha fatto esplodere le polemiche politiche e le reazioni indignate dell’opposizione contro le nuove regole varate dal governo sulle organizzazioni non governative che salvano i migranti in mare. I corpi recuperati finora sono 63, mentre continua la ricerca dei dispersi e ci si appella – come tutte le volte – all’azione comune europea.
In un’intervista al Corriere, Piantedosi spiega la sua posizione: «Chi scappa da una guerra non deve affidarsi a scafisti senza scrupoli, devono essere politiche responsabili e solidali degli Stati a offrire la via di uscita al loro dramma». Politiche che però, finora, non si vedono. A parte pochi corridoi umanitari, che sono solo una piccola goccia nel mare.
Il ministro racconta di essere «andato subito sul luogo della tragedia per testimoniare il cordoglio per le vittime e la vicinanza ai superstiti a nome mio e di tutto il governo. E per questo dico che per occuparci concretamente della disperazione delle persone, e non a chiacchiere, così anche da evitare simili naufragi, ci siamo mossi sin dal nostro insediamento intensificando i corridoi umanitari con numeri (617 persone) che mai si erano registrati in un così breve lasso di tempo. In soli due mesi abbiamo anche approvato il decreto flussi che consentirà l’ingresso regolare di 83mila persone».
L’obiettivo del governo Meloni, come ribadito dalla stessa premier, è «fare il possibile per fermare le partenze ed evitare altre tragedie». Piantedosi interverrà anche in Parlamento per spiegarlo: «Sarà l’occasione per illustrare ancora una volta una linea politica chiara che intende contrastare i flussi incontrollati e la rete dei trafficanti. Il resto sono vuote strumentalizzazioni di chi non è riuscito finora a offrire reali alternative a illusori viaggi della speranza che mettono in pericolo vite umane».
Il ministro prova a chiarire anche i dubbi sul ritardo nei soccorsi, di cui parlano diversi quotidiani (tra cui La Stampa): «Non c’è stato alcun ritardo. Ho presieduto la riunione a Crotone e so che sono stati fatti tutti gli sforzi possibili in condizioni del mare assolutamente proibitive».
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e lo stesso Piantedosi hanno rivolto un appello all’Europa. Il ministro dice che «esiste sempre di più la consapevolezza che la cooperazione internazionale deve essere di comune interesse di tutti i Paesi membri e non solo di quelli di primo ingresso. Anche grazie alle pressioni che stiamo facendo si può intravvedere un primo segnale di cambiamento di linguaggio e prospettiva. Il giudizio definitivo lo daranno i fatti, ma io mi auguro possano essere tangibili al più presto». E intanto, «confidiamo di ottenere al più presto risultati positivi dalle molteplici iniziative bilaterali che abbiamo avviato con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, di origine e transito dei flussi. E poi stiamo considerando un riallineamento normativo ad altre legislazioni europee su settori importanti come quello dell’asilo e dei rimpatri».
Ma queste iniziative, è bene precisarlo, non c’entrano con il naufragio di Cutro, essendo avvenuta sulla rotta Est del Mediterraneo che parte dalla Turchia, Paese alla quale l’Ue si è affidata per controllare i confini e gestire i flussi erogando da ultimo altri 6 miliardi di euro.
Così come il naufragio di Cutro nulla ha a che vedere con il nuovo codice delle ong varato dal governo, poiché le organizzazioni che salvano i migranti in mare non sono presenti in quella parte di Mediterraneo. «Chi mette questa tragedia in connessione con le nuove regole dice il falso, per ignoranza o malafede. È una rotta dove le ong non ci sono mai state. In ogni caso la nuova legge non prevede alcun divieto di presenza sugli scenari o di interventi di recupero, li abbiamo semplicemente assoggettati a un quadro normativo anche di rilievo internazionale», dice Piantedosi. «Il Codice serve eccome perché, proprio in un quadro di numeri crescenti, la percentuale degli sbarchi sulle nostre coste determinati da assetti navali di ong si è sensibilmente abbassata. Non c’è alcun legame tra le nuove regole e il possibile aumento di morti in mare. Nella rotta presidiata dalle ong non si è verificato alcun evento che non sia stato adeguatamente fronteggiato da Capitaneria e Guardia di finanza».
"Fermatevi, verremo a prendervi". E sul naufragio ecco cosa sappiamo finora. Francesca Galici su Il Giornale il 28 Febbraio 2023
Il numero delle vittime per il naufragio di Crotone è salito a 64: nelle testimonianze dei superstiti le ultime ore del viaggio dalla Turchia. Intanto il ministro Piantedosi ha tenuto a specificare: "Fermatevi, verremo noi a prendervi. Questo è il senso dei corridoi umanitari. Dobbiamo fare in modo che le terre siano sempre più sicure del mare".
Tabella dei contenuti
Le testimonianze
I soccorsi
L'intervento della guardia costiera
Il ruolo di Frontex
Le dichiarazioni di Matteo Piantedosi
Il bilancio delle vittime del naufragio di Crotone, al momento, è fermo a 64. Sono 23 le vittime identificate e 14 sono i minori che non sono riusciti a salvarsi. La procura è impegnata in un lungo lavoro di ricostruzione, per capire come si sia potuti arrivare a questa tragedia. Il peschereccio era partito da Smirne, in Turchia e nei pressi della costa Calabrese ha colpito una secca, incagliandosi. La violenza delle onde era talmente forte che i fascioni non hanno retto, arrivando alla rottura dell'imbarcazione. E proprio oggi in audizione alla commissione Affari costituzionali sulle linee programmatiche del dicastero, facendo una precisazione sulle sue affermazioni finite al centro di polemiche politiche dopo il naufragio di Cutro, Piantedosi ha tenuto a specificare: "Fermatevi, verremo noi a prendervi. Questo è il senso dei corridoi umanitari. Dobbiamo fare in modo che le terre siano sempre più sicure del mare".
Le testimonianze
I superstiti hanno raccontato di aver trascorso gran parte del viaggio stipati sotto coperta nel peschereccio. "Circa 4 ore prima dell'urto della barca è sceso nella stiva uno dei due pakistani e ci ha detto che dopo tre ore saremmo arrivati a destinazione. Lui si è ripresentato un'ora prima dello schianto dicendoci di prendere i bagagli e prepararci a scendere che eravamo quasi arrivati", racconta uno dei migranti. Ma poco dopo, spiega l'uomo, l'ambiente ha iniziato a riempirsi di fumo del motore e l'aria si è fatta acre per la puzza di olio bruciato.
"La gente nella stiva iniziava a soffocare e a salire su. Ho fatto in tempo ad afferrare mio nipote e a salire in coperta dopo di che la barca si è spezzata e l'acqua ha iniziato a entrare", prosegue il migrante nel suo racconto. In quel momento c'erano 120 persone a bordo e capendo che la situazione era diventata irrecuperabile, gli scafisti hanno tentato la fuga: "Ho visto che il siriano e due turchi hanno gonfiato un gommone e sono scappati. Non ho visto cosa ha fatto il turco con il tatuaggio sullo zigomo perché ho pensato di mettere in salvo mio nipote".
Dai verbali di indagine emergono anche nuovi dettagli: "I pakistani sulle direttive dei quattro scafisti ci facevano salire soltanto per esigenze fisiologiche o per prendere pochi minuti di aria, prima di farci ritornare nella stiva". E ancora, nei racconti dei superstiti si spiega che durante la navigazione "gli scafisti disponevano di un telefono satellitare ad apparecchio che sembrava tipo Jammer per inibire le onde radio telefoniche. Era attivo perché nessuno dei cellulari di noi imbarcati aveva segnale telefonico".
Ma ci sono anche dettagli riguardanti i momenti e i giorni prima della partenza: "I medesimi soggetti pakistani prima di averci fatto imbarcare, ci hanno sistemati in alcune abitazioni messe a disposizione dei trafficanti a Istanbul, tipo 'safehouse', dalle quali non potevamo uscire perché strettamente sorvegliati dai medesimi pakistani, che successivamente ci hanno sorvegliato nella stiva della seconda imbarcazione".
"Indagine sul naufragio, non sui soccorsi". Il procuratore gela la sinistra
I soccorsi
La procura di Crotone ha specificato che il fascicolo è stato aperto sul naufragio e non sui soccorsi, che però sono al centro dell'attenzione per alcune anomalie. Come riferisce l'agenzia Adnkronos, infatti, esiste un "buco" di circa sei ore, tra le 22.30 di sabato 25 febbraio alle 4.10 del mattino seguente, domenica 26 febbraio, quando una telefonata al 112, partita da un cellulare internazionale, segnala un naufragio a cento metri dalla costa di Steccato di Cutro. A quell'ora, i carabinieri del nucleo radiomobile e operativo di Crotone si precipitano sul posto e si gettano in acqua per iniziare i soccorsi. Portano in salvo 5 migranti ma per altri non c'era già nulla da fare. Ma resta da capire cosa sia successo in quelle sei ore di buco.
Alle 22.30 un aereo Frontex, l'Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera, segnala la presenza di un barcone a 40 miglia dalle coste crotonesi e indica le coordinate. Fa anche sapere che a bordo c'è un telefono cellulare turco, segno evidente che si tratta di un barcone di migranti. Poco dopo la mezzanotte partono due mezzi della Guardia di finanza, uno da Taranto e uno da Crotone. Ma il mare è troppo agitato, forza 5 a tratti forza 6, e le motovedette delle Fiamme gialle rientrano, perché quel tipo di imbarcazioni non è destinato ai salvataggi, è da intercettazione, quindi non sono equipaggiate per quel tipo di intervento. Alle 2 viene effettuato un altro tentativo ma va a vuoto anche quello: la telefonata però arriva solo alle 4.10, quando la barca è già nei pressi della costa.
L'intervento della guardia costiera
La procura di Crotone ha acquisito ieri tutta la documentazione trasmessa da Frontex e altre comunicazioni. E ieri sera i carabinieri hanno trasmesso al procuratore Giuseppe Capoccia tutte le informative per spiegare che la chiamata di allarme è partita proprio dalla barca, mentre ieri il magistrato escludeva che l'allarme fosse partito dall'imbarcazione poi naufragata. La stessa guardia costiera, però, a fronte di queste indicazioni, ci ha tenuto a fare una specifica: "Alle 04.30 circa, giungevano alla Guardia costiera alcune segnalazioni telefoniche da parte di soggetti presenti a terra relative ad un'imbarcazione in pericolo a pochi metri dalla costa. I carabinieri, precedentemente allertati dalla guardia di finanza, giunti in zona, riportavano alla Guardia costiera l'avvenuto naufragio. Questa è la prima informazione di emergenza pervenuta alla Guardia costiera riguardante l'imbarcazione avvistata dal velivolo Frontex".
La Guardia costiera, quindi, ha specificato "che nessuna segnalazione telefonica è mai pervenuta ad alcuna articolazione della guardia costiera dai migranti, presenti a bordo della citata imbarcazione, o da altri soggetti come avviene in simili situazioni". Quando sono arrivate le segnalazioni da terra, è stato attivato il protocollo SAR.
Il ruolo di Frontex
In queste ore che Frontex è sotto accusa, l'agenzia europea di soccorso ha spiegato la sua posizione, effettuando una ricostruzione di quanto accaduto nella notte tra sabato e domenica: "Nelle tarde ore di sabato, un aereo di Frontex che sorvegliava l'area italiana di ricerca e soccorso nell'ambito dell'operazione Themis ha avvistato un'imbarcazione pesantemente sovraffollata che si dirigeva verso le coste italiane: come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato tutte le autorità italiane dell'avvistamento".
L'aereo di Frontex ha seguito il peschereccio finché ha potuto: ha interrotto il controllo quando è l'aereo è stato costretto a rientrare per mancanza di carburante. "L'imbarcazione, che trasportava circa 200 persone, stava navigando da sola e non c'erano segni di pericolo. Le autorità italiane hanno inviato due motovedette per intercettare l'imbarcazione, ma le condizioni meteorologiche avverse le hanno costrette a rientrare in porto", ha spiegato ancora Frontex.
L'agenzia, quindi, aggiunge: "L'operazione di salvataggio è stata dichiarata nelle prime ore di domenica, dopo che il naufragio è stato localizzato al largo di Crotone. L'operazione, coordinata dalle autorità italiane, è stata condotta via terra, via mare e via aerea con il supporto di una nave e di un aereo di Frontex. L'operazione è in corso".
Le dichiarazioni di Matteo Piantedosi
Sommerso dalle critiche strumentali, che imputano al decreto Ong la responsabilità del naufragio di Cutro, Matteo Piantedosi dalle colonne del Corriere della sera si è difeso: "Il messaggio deve essere chiaro: chi scappa da una guerra non deve affidarsi a scafisti senza scrupoli, devono essere politiche responsabili e solidali degli Stati ad offrire la via di uscita al loro dramma". Nelle ore immediatamente successive al naufragio, Piantedosi si è precipitato a Crotone dove ha assistito al coordinamento dei soccorsi.
"Ma che disumano!". Piantedosi così smonta le bufale della sinistra
In audizione alla commissione Affari costituzionali sulle linee programmatiche del dicastero, facendo una precisazione sulle sue affermazioni finite al centro di polemiche politiche dopo il naufragio di Cutro, Piantedosi ci ha tenuto a specificare: "Fermatevi, verremo noi a prendervi. Questo è il senso dei corridoi umanitari. Dobbiamo fare in modo che le terre siano sempre più sicure del mare".
Nella sua intervista al Corriere, Piantedosi ha sottolineato come "ci siamo mossi sin dal nostro insediamento intensificando i corridoi umanitari con numeri (617 persone) che mai si erano registrati in un così breve lasso di tempo. In soli due mesi abbiamo anche approvato il decreto flussi che consentirà l'ingresso regolare di 83.000 persone". Come ha sottolineato il ministro, esiste sempre di più "la consapevolezza che la cooperazione internazionale deve essere di comune interesse di tutti i Paesi membri e non solo di quelli di primo ingresso. Anche grazie alle pressioni che stiamo facendo si può intravvedere un primo segnale di cambiamento di linguaggio e prospettiva. Il giudizio definitivo lo daranno i fatti, ma io mi auguro possano essere tangibili al più presto".
Cascini e Curzio: "Non sa fare il suo mestiere". Il pm che indaga sulla strage di Cutro (e sul Governo) ha lavorato per Meloni. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 4 Marzo 2023
Sono ore frenetiche per i Carabinieri di Crotone che indagano sulla macchina dei soccorsi per la strage di Cutro. Tutta l’Italia aspetta di sapere di chi è la responsabilità per la morte di un centinaio di migranti, tra corpi recuperati e dispersi. E non si tratta di pressione mediatica o di polemiche di parte. Quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, vola a Crotone e fissa attonito quelle bare, è chiaro a tutti che le risposte vanno date, e adesso.
Se l’Arma indaga su mandato della Procura, è facile immaginare con quanta foga, con quale solerzia stia seguendo le indagini il Procuratore capo. Che omen nome, si chiama Capoccia. Giuseppe Capoccia. «Il Procuratore di Crotone è fuori sede e torna soltanto lunedì», informa lapidaria una nota che l’Adnkronos apprende dagli uffici pitagorici. Siamo nel pieno delle indagini, i riflettori di tutti i tg sono accesi sul palazzo di Giustizia del capoluogo calabrese e lui dov’è? “Fuori sede”. Ma chi è, Capoccia? Un magistrato in prima linea, contro la criminalità organizzata, ma anche in prima fila, quando c’è Giorgia Meloni. E non da oggi.
Quando l’8 maggio 2008 Giorgia Meloni diventa Ministra per le politiche giovanili, è Capoccia che lei chiama come consulente giuridico. Vicecapo del legislativo del suo ministero. Classe 1961, Capoccia aveva iniziato presso la Procura-Pretura di Brindisi dove presta servizio dal ’90 al ’93. Poi l’approdo a Lecce, nella sua città. Nel ’97 entra nel pool di magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia. Nel capoluogo salentino rimarrà fino al 2003 quando si trasferirà a Roma. Siamo ai tempi del Berlusconi III, il governo di centrodestra più longevo della storia repubblicana. È in quell’ambito che Capoccia, che poi aderirà a Magistratura Indipendente, entra come magistrato presso l’ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia.
Dal 2005 al 2009 è Direttore dell’Ufficio Studi per le Relazioni Internazionali dell’Amministrazione Penitenziaria. L’incarico fino a oggi più importante della sua carriera. Dal 2009 al 2010 accompagna l’ascesa politica di Giorgia Meloni come vice capo dell’ufficio legislativo del Ministro della Gioventù ed è facile immaginare che a partire da quella sede abbia potuto consolidare una rete di relazioni e di amicizie nell’ambito del centrodestra. Una ascesa non proprio irresistibile, a guardare le considerazioni che su di lui vengono svolte da alcuni autorevoli magistrati. Che sono chiamati una prima volta nel 2015 e poi nel 2022 a dire la loro sul giudice da mettere alla guida della Procura di Crotone. Il quale era incorso in un problemino non di poco conto: gli spalti dello Stadio di Crotone insistevano, si era venuti a sapere, su un’area archeologica.
Dovevano essere rimossi, ma la Procura aveva proceduto con qualche indugio di troppo. La sezione disciplinare del Csm che aveva esaminato gli atti non era stata clemente, con Capoccia. E aveva deciso per la sanzione della censura. Si era parlato poi di qualche interlocuzione di troppo, su un territorio scivoloso come quello calabrese. Forse anche di qualche dialogo con le persone sbagliate. A Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, quando si trattò di riconfermare Capoccia a Crotone volarono gli stracci. Letteralmente. Il consigliere Giuseppe Cascini (AreaDg) aveva fatto verbalizzare tutta la sua contrarietà alla riconferma di Capoccia.
«Parliamo di un procuratore che non sa fare il suo mestiere, non doveva aprire alcun tavolo, la sua è stata una scelta inopportuna. Per l’ordine pubblico c’è il Questore, non il procuratore. Signori siamo in Calabria, dove un magistrato deve avere piena consapevolezza del limite, non ci deve essere alcuna interlocuzione con il sindaco né con un soggetto accusato in quel momento di associazione mafiosa» ha detto il consigliere Giuseppe Cascini, espressione della sinistra giudiziaria. «Se non potrà fare ulteriormente carriera, pazienza. Non dobbiamo pensare agli interessi dei singoli, in Italia ci sono migliaia di magistrati».
Il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, nell’entrare nel merito della questione non era stato molto più diplomatico: «I comportamenti di Capoccia, definiti quantomeno leggeri da parte di tutti, a mio parere sono cose che se un procuratore della Repubblica li pone in essere, significa che non conosce come deve essere svolta la sua professione. Crotone è una città difficile e sappiamo che alcuni colleghi sono costretti a fare una vita quasi monacale. Capoccia non ha capito come fare il procuratore» aveva concluso Curzio. Noncurante della scarsa stima dei colleghi, Capoccia ricorse in Cassazione contro la sanzione disciplinare della Censura ed ebbe soddisfazione “per difetto di motivazione”.
È rimasto in sella, come noto. Né lo hanno scoraggiato quei giudizi sferzanti. E sarebbe ora in cabina di regia dell’inchiesta che non è più solo su una tragedia del mare, ma una tragedia del male: la condotta criminosa di chi ha omesso il soccorso, ritardato l’intervento, ignorato gli allarmi che hanno portato ad un pesantissimo bilancio di vite umane perse. Ieri sono state raccolte alcune relazioni di servizio, ma anche protocolli e altri documenti. Tutte le carte verranno poi inviate ai magistrati – che già indagano sull’attività degli scafisti e sullo schianto sulla secca – che cercheranno di capire cosa è accaduto quella notte tra il 25 e il 26 febbraio.
Dopo avere analizzato le carte, la Procura di Crotone potrebbe decidere di aprire un fascicolo, che per ora è conoscitivo, con un’ipotesi di reato specifica. Al momento il fascicolo è contro ignoti e senza ipotesi di reato. Se si accerteranno responsabilità penali, i reati contestati potrebbero essere quelli di omissione di soccorso e disastro colposo. Rimane incredibile, ed è una prima volta assoluta, che le indagini siano affidate a un Pg che ha lavorato a stretto contatto con l’attuale premier, nella sua precedente esperienza di governo. Una circostanza tanto inaudita da non essere più consentita dalla Legge Cartabia.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Il medico che infanga il governo? Con chi era candidato. Fabio Rubini su Libero Quotidiano l’1 marzo 2023
Da ieri gira come una trottola da una trasmissione di La7 all’altra, da Non è l’Arena a L’Aria che Tira e si prepara a diventare la nuova icona anti Meloni. Parliamo di Orlando Amodeo, medico in quiescenza della Polizia di Stato, che ospite di Giletti domenica sera ha accusato il ministero dell’Interno di non aver fatto uscire le navi adeguate al salvataggio dei migranti naufragati al largo delle coste crotonesi. Ci torneremo. Prima però vale la pensa spendere due parole su quello che Giletti ha presentato come «Un soccorritore che ha fatto parte della Polizia di Stato. Una persona che io so chi è», spalleggiato da Enrico Mentana che rincara la dose: «Non è un agitatore politico, che da destra o sinistra o qualsiasi altra parte ha la volontà di soffiare sul fuoco. È un addetto ai lavori, così lo possiamo tranquillamente chiamare, che sta lì e dice cose molto precise». Amodeo, però, non è “solo” un soccorritore, non è “solo” un addetto ai lavori. Amodeo è “solo” uno che quattro mesi fa era candidato al Senato per Alleanza Verdi Sinistra di Nicola Fratoianni in Calabria. Cioè, per dirla semplice, è uno che non sarà «un agitatore», ma che con ogni probabilità si può annoverare tra quelli politicamente schierato contro il governo Meloni. Di tutto questo però nelle dichiarazioni e nelle difese andate in onda non vi è traccia.
PAROLE GRAVI
Torniamo alla polemica. Domenica sera Amodeo, in collegamento dal luogo del naufragio, sostiene testualmente che «la tragedia di oggi sia quasi voluta» e che «se io so che una nave è in difficoltà le vado incontro». Le frasi più pesanti contro il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, Amodeo le pronuncia per rispondere a Giletti che legge al medico la nota della Guardia di Finanza e del ministero, che spiega che la motovedetta uscita in mare per il salvataggio è stata costretta a rientrare a causa delle condizioni avverse del mare.
Una versione che Amodeo bolla come «una grande fesseria detta per giocare sulla pelle della gente», ricordando di come lui stesso in passato è intervenuto in condizioni di mare analoghe. «Abbiamo imbarcazioni che possono affrontare mare forza 6 e 7. In passato l’abbiamo fatto. Anzi siamo andati a 40/50 miglia a sud di Crotone e li abbiamo soccorsi». Incalzato da Giletti che ribadisce la «versione ufficiale» delle Istituzioni, Amodeo conferma le accuse: «Ho fatto soccorsi in mare per 30 anni, quello che ho detto lo confermo tutto». Anche se poi a precisa domanda di Giletti «Sono le nuove direttive (sulle Ong, ndr) ad aver impedito i soccorsi», Amodeo si rifugia in un prudente «questo non posso saperlo». L’affondo finale è pesante. Pur senza nominare il nome di Piantedosi, Amodeo spiega che «oggi come cittadino italiano non lo riconosco come il mio ministro».
La polemica, come ovvio, deflagra in tutta la sua potenza. Tanto che una ventina di minuti dopo Giletti legge in diretta un’agenzia che riporta una nota di “fonti del Viminale”, che spiega come «il ministero sottoporrà all’Avvocatura dello Stato le gravissime false affermazioni diffuse da alcuni ospiti al fine di promuovere in tutte le sedi la difesa dell'onorabilità del Governo, del Ministro Piantedosi, di tutte le articolazioni ministeriali e di tutte le istituzioni che sono da sempre impegnate nel sistema dei soccorsi in mare».
BOTTA E RISPOSTA
La nota indispettisce i conduttori, soprattutto il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana che prende le difese dell’ospite: «Questa è una minaccia tuona -. Facciamo nostre le parole che sono state dette, così l’Avvocatura dello Stato se la prende anche con noi». A testimonianza della vicinanza di Amodeo con Nicola Fraoianni, ieri sono arrivate le parole a difesa del medico proprio del leader di Sinistra italiana: «Il ministro Piantedosi minaccia provvedimenti legali contro trasmissioni televisive e ospiti che chiedono spiegazioni sui ritardi e sulla dinamica nei soccorsi in merito alla strage di Crotone? Inaccettabile». E ancora: «Non è il primo caso, la stessa Meloni ha portato in tribunale i giornalisti ostili. Forse l’attuale governo ha confuso il secolo corrente con quello precedente, ma la logica delle minacce alle opposizioni sociali- conclude Fratoianni- non è accettabile in uno stato democratico. Facciano qualcosa di concreto per gli italiani, invece di minacciare chili critica».
Silenzi e omertà sulla sciagura di Cutro. Quando Meloni accusò Renzi di strage per un naufragio, ora caccerà Piantedosi? Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Marzo 2023
Lo vedete riprodotto qui, su questa pagina, il tweet con il quale qualche anno fa, nell’aprile del 2015, Giorgia Meloni sostenne che il presidente del Consiglio, che all’epoca era Matteo Renzi, avrebbe dovuto essere indagato per strage colposa, perché su di lui ricadeva la responsabilità di un tragicissimo naufragio, al largo delle coste libiche, che costò la vita a centinaia di profughi.
La presa di posizione di Giorgia Meloni era dettata evidentemente dalla rabbia – giusta, molto comprensibile – per la gravità di quella tragedia. Le responsabilità del governo italiano però in quell’occasione erano modeste. Il naufragio fu improvviso e avvenne vicino alle coste libiche e a più di cento miglia di Lampedusa. La marina italiana non ebbe nessuna possibilità di intervenire in tempo. Stavolta le cose sono diverse. E immaginiamo però che Giorgia Meloni abbia sentito lo stesso impulso di rivolta e di furia che sentì di fronte a quel cimitero in mare del 2015.
Sono diverse, le cose, perché il naufragio di Cutro non è avvenuto in Libia, né in mare aperto, ma a cinquanta metri dalle spiagge della Calabria. Noi capiamo benissimo l’ imbarazzo della Presidente del Consiglio, la necessità di muoversi con cautela, anche la giusta esigenza di difendere il suo giovane governo. Però in nessun modo può negare le responsabilità del ministro dell’interno e forse anche del ministro delle infrastrutture.
Le dimissioni del ministro dell’Interno sono inevitabili, specialmente dopo le sconsiderate dichiarazioni che ha rilasciato e troppo tardivamente corretto, sulla responsabilità delle vittime. Immaginiamo che Giorgia Meloni, che ha una lunga esperienza politica, e anche una sensibilità umana che nessuno ha mai messo in discussione, sia rimasta esterrefatta di fronte agli errori tragici dei suoi ministri, che hanno dimostrato di non essere all’altezza, e poi di fronte alle dichiarazioni rilasciate in modo sconsiderato.
Però ora la responsabilità è sua. Deve battere i pugni sul tavolo e chiedere quantomeno a Piantedosi di lasciare. È un dovere. Non è giusto dire al paese che una strage in fondo è una eventualità della vita e che ci si dimette solo per il sospetto di un traffico di influenze o di una raccomandazione indebita. Il ribaltamento dei valori non può essere accettato. Non c’entra niente destra o sinistra. Neanche maggioranza o opposizione. C’entra la dignità del paese.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il vizio massimalista. Il primo atto del nuovo segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera è stato quello di chiedere con veemenza le dimissioni del ministro dell'Interno Matteo Piantedosi. Augusto Minzolini il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il primo atto del nuovo segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera è stato quello di chiedere con veemenza le dimissioni del ministro dell'Interno Matteo Piantedosi. Se tanto mi dà tanto ad ogni intervento la nuova leader chiederà le dimissioni di qualcuno. È la natura di ogni vocazione massimalista che purtroppo quando è consumata in salsa grillina si trasforma in una parodia. Ed è probabile che la segretaria del Pd tentando di lanciare un ponte verso Conte e Grillo finisca per essere egemonizzata dal costume, dalle logiche, dalla cultura del Movimento 5 stelle. Creando un vortice nell'opposizione, una logica al rialzo, una gara a chi la dice più grossa. Tant'è che ieri alla sortita della Schlein si sono subito accodati Conte e Calenda. Anche se poi bisognerà vedere cosa faranno ora i grillini e la sinistra dura e pura - sono le contraddizioni del massimalismo - sugli avvisi di garanzia a Conte, a Speranza e agli altri nell'inchiesta sul Covid.
Ora nella vicenda in questione, cioè il naufragio nel mare di Crotone che è costato la morte a 67 immigrati tra cui molti bambini, all'inquilino del Viminale si può rimproverare di avere usato un lessico troppo burocratico, un gergo prefettizio, nel parlare della tragedia, ma poco di più. La politica del governo a cominciare dal decreto sulle Ong - al netto dello scontro ideologico e della polemica politica che avvelenano i pozzi - non c'entra un fico secco con quanto è avvenuto. Intanto perché l'imbarcazione proveniva da una rotta poco frequentata dalle imbarcazioni di immigrati. Eppoi perché quelle persone avevano tutte, visti i Paesi di provenienza, lo status di rifugiati. Quindi, sarebbero state accolte senza problemi. Non si trattava di migranti economici, per fare un esempio, partiti dalla Tunisia. Semmai la questione pone altri problemi che se risolti avrebbero contribuito - e contribuirebbero in futuro - a salvare quelle persone: l'esigenza di un ufficio in Turchia dove valutare le domande di asilo dei rifugiati creando dei corridoi umanitari; una maggiore efficacia di Frontex, l'agenzia europea dai molti costi e dalle molte carenze; e magari, un maggior coordinamento tra le motovedette dei porti e quelle della Finanza, che dipendono da ministeri differenti (Interno e Infrastrutture). Anzi, sarebbe meglio che ci fosse un'unica autorità che si occupi delle imbarcazioni di immigrati che tentano di sbarcare clandestinamente sulle nostre coste per evitare rimpalli di competenza che possono sfociare in tragedie.
Insomma, per chi ha cuore la pelle dei migranti ci sarebbero tanti argomenti da trattare e provvedimenti da prendere in un confronto anche aspro tra maggioranza e opposizione. Solo che il massimalismo non dà importanza a questi particolari, carica sempre e comunque come i tori di fronte ad un drappo rosso. Ha le dimissioni in bocca sempre e comunque. Si ciba di riti e non punta a migliorare la situazione. È la grande differenza con il riformismo che punta a risolvere i problemi con pragmatismo e realismo, tenendo conto delle forze presenti in Parlamento e nell'interesse della nazione. Sono due pianeti diversi. Il Pd, seppure con i suoi limiti, è sempre stato sul pianeta riformista. Ora, invece, guidato dalla Schlein rischia di volare su Marte. Sul pianeta della Rivoluzione. Il pianeta rosso dei radical-chic, per usare una celebre definizione coniata più di sessanta anni fa dal giornalista americano Tom Wolfe, cioè dei rivoluzionari da salotto.
Il caso di Firenze. Chi è Giuseppe Valditara, il neocrociano fedele alla pedagogia di calci e pugni. Michele Prospero su Il Riformista il 26 Febbraio 2023
Uomo di vastissime letture, non a caso è il ministro dell’istruzione. C’è del metodo, e molta sottile metafisica, nelle sue esternazioni che fortunatamente, per il loro incredibile impatto costruttivo sulle menti della Nazione, diventano sempre più frequenti. Ha consultato anche stavolta i grandi classici prima di prendere penna e calamaio per annunciare la dura censura governativa contro la “politicizzata” dirigente scolastica fiorentina. Quali fonti filosofiche ispirano il luminare che Meloni ha voluto giustamente promuovere a prestigioso titolare del ministero di viale Trastevere?
Non c’è dubbio, le sue parole, mai scontate, nascondono un pensiero forte. Nell’affondo inevitabile contro la professoressa Annalisa Savino, il creativo ministro del merito ha sicuramente raccolto e fatto proprio l’insegnamento racchiuso in un’antica pagina di Benedetto Croce. Il grande filosofo, anch’egli con un’esperienza al ministero, benediceva le aggressioni contro gli uomini e le donne delle sinistre che si agitavano con le loro “vuote” idee d’eguaglianza e di socialismo. Avevano ragione, scandiva in “Etica e Politica”, quanti associati in squadre nere prendevano “a scappellotti i creduli in quelle formule insulse e coloro che le vanno ripetendo a uso dei gonzi”.
Non preoccupavano, il cantore della “religione della libertà”, i pestaggi dei fascisti, da lui esaltati anzi in un’occasione come “uomini di vivo senso storico e politico divenuti appassionati partigiani della forza”. La loro violenza politica sugli avversari racchiudeva sì una veemenza “grossolanamente intesa”, ma non si poteva certo pretendere una sottigliezza eccessiva nei modi d’agire che ispiravano un energico e scanzonato movimento politico di rigenerazione nazionale. Gli squadristi comunque, a loro merito, si prendevano la briga di dare degli “scappellotti” ai sostenitori delle “formule insulse” della democrazia. Per questo al loro capo, pure lui un “popolano impetuoso e anche violento”, tributò un applauso scrosciante al Teatro San Carlo.
Giovanni Gentile non credeva di esagerare dipingendo questo Croce, così attratto dalla pedagogia muscolare dei calci e pugni, come “uno schietto fascista senza camicia nera”. Sulle orme del “filosofo dei distinti”, il ministro della verità avrà sentito forte il richiamo etico-politico del filosofo abruzzese, cantore della bella violenza somministrata romanamente contro i “gonzi” come una immancabile pratica educatrice. Alla preside, che si permette senza ritegno di citare Gramsci, e quindi di fare politica, il ministro dalle vaste vedute raccomanda di cimentarsi con la superiorità morale di alcune pagine di Croce. Quelle sì che erano un esempio fulgido di etica pubblica, soprattutto quando ritenevano del tutto salutari, nel loro risvolto “pratico o praticistico”, i movimenti rudi, dal futurismo al fascismo, perché quando agivano per strada menando da par loro andavano celebrati dal momento che “la eventuale pioggia di pugni, in certi casi, è utilmente e opportunamente somministrata”.
Davanti al liceo politicizzato di Firenze, come potevano non materializzarsi quelle esemplari spedizioni pedagogiche dei novelli “partigiani della forza”? Come fa la dirigente scolastica a insorgere, per giunta in bella prosa, per qualche baldo ceffone e a non cogliere tutta la carica liberatrice sprigionata dalla neo-littoriale giovanile pratica persuasiva della “pioggia di pugni”? Si aggiorni sui nuovi metodi didattici in voga nell’età del merito, lasci stare il teorico sardo che odiava gli indifferenti e apprenda i rudimenti della filosofia crociana dello scappellotto. Non possiede proprio i più elementari fondamenti del pensiero, questa professoressa che non conosce il magistero di Croce sui risvolti culturali dei pugni in faccia e la butta in politica scandalizzandosi per la violenza educatrice dispensata sui marciapiedi dagli intrepidi nuovi patrioti.
Mentre Giorgia, la madre, cristiana, patriota, si prende una pausa dalla politica e si fionda in macchina diretta al ristorante di Anzio (fa più notizia con lo Chef e le vongole che a Kiev con i capi di Stato ai quali promette aerei tra colpi di tosse e risate fuori ordinanza), non spendendo neppure una parola dinanzi alle botte distribuite dai toschi degni apprendisti di uno statista alla Donzelli, questa preside ha l’ardire di entrare dritta in politica e prendere le difese di quattro studentucoli, di novelli “gonzi” da rieducare con l’infallibile medicina crociana della pedata e del cazzotto. È proprio a digiuno della pedagogia manesca che a Trastevere non dispiace affatto blandire in nome dell’endiadi pensiero e azione.
Il ministro neo-crociano, colpito da siffatta ignoranza circa i grandi passaggi della cultura nazionale, sta meditando su quale sanzione comminare a una dirigente scolastica che resiste alle forme educative del tempo nuovo. Fuori la politica dalla scuola, ordina inebriato dal richiamo fiorentino ai valori sempiterni della forza e della vitalità. E dentro il liceo entrino presto quei sei audaci pugilatori cresciuti in gagliarda arte politica nelle sedi gigliate di Fratelli d’Italia.
Chi altri infatti, se non questo moderno esemplare di agile somministratore di violenza di piazza per scacciare la politica dalle aule, è degno di essere chiamato in cattedra per chiara fama? Ministro, cacci in fretta l’obsoleta preside e assuma i sei camerati, non servono concorsi, bastano come metro del loro “merito” le pure immagini, prive per una volta di ogni opacità semantica. Hanno i titoli e soprattutto il tirocinio pragmatico necessari per insegnare, crocianamente s’intende, la filosofia dello scappellotto. Michele Prospero
Scuola, il ministro Valditara nega di essere fascista: "Lo dimostrano i miei libri e miei atti". Il ministro dell'Istruzione Valditara, in una intervista, si è dichiarato non fascista: "Mio unico provvedimento contro docente che negava la shoah". Valentina Mericio su Notizie.it il 4 Marzo 2023
Il ministro dell’Istruzione e del merito Valditara ha difeso le sue posizioni proprio nelle ore in cui Firenze si preparava ad accogliere la manifestazione antifascista. In una intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale, il ministro ha ricordato che il padre non era fascista e che anzi il padre era un partigiano delle Brigate Garibaldi: “A casa ho ancora il suo fazzoletto rosso”, ha spiegato.
Scuola, il ministro Valditara si difende: “Non ho bisogno di dare prove del mio antifascismo”
Nel corso dell’intervista Valditara ha rilanciato evidenziando quanto sia importante manifestare in modo democratico e confrontarsi: “Ben venga qualunque manifestazione che dia voce alle idee e alimenti un dibattito democratico. Per parte mia raccolgo e rilancio l’invito del sindaco Nardella per un confronto con lui sui temi dell’antifascismo, di tutti i razzismi, della democrazia e della libertà di opinione: organizziamolo presto. Un confronto che deve essere franco, onesto e sereno”.
In merito ai fatti dei giorni scorsi avvenuti al liceo Michelangelo, il ministro ha sottolineato che nei confronti della dirigente scolastica non verranno presi provvedimenti: “L’unica indagine disciplinare che ho chiesto è stata nei confronti di un docente accusato di aver fatto affermazioni che negavano l’Olocausto. Aggiungi al riguardo che non è compatibile con il pubblico impiego chi neghi la Shoah. Rimettiamo al centro il dialogo e l’ascolto pluralista. Si approfitti di questa occasione per sollevare un dibattito serio nel Paese”.
Profondo rosso. Augusto Minzolini il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.
Oggi a Firenze ci sarà il battesimo del nuovo progetto politico della sinistra.
Oggi a Firenze ci sarà il battesimo del nuovo progetto politico della sinistra. Pd, Verdi e post comunisti, grillini, Landini e una spruzzatina di «radical chic» alla Oliviero Toscani, tutti insieme appassionatamente per una manifestazione anti-fascista. Un salto indietro nel tempo di decenni e decenni. Ma, soprattutto, una regressione della sinistra italiana, che per sposarsi con i 5 Stelle ha ritirato fuori dalla soffitta il vecchio armamentario di un tempo.
Ora, tutto è legittimo e rispettabile, ma parlare di fascismo nel 2023 fa un po' impressione. Soprattutto è un argomento che la sinistra tira in ballo ogni volta che è in crisi di idee per criminalizzare l'avversario. Un'arma spuntata che ha come unica conseguenza quella di radicalizzare gli animi e riproporre lo scontro ideologico. Il che potrà pure apparire assurdo, ma è proprio l'obiettivo di Elly Schlein: radicalizzare lo scontro per ridare un'anima al Pd.
Il nuovo vestito del partito è il profondo rosso, proprio per evitare che qualcosa possa nascere o vivere alla sua sinistra. In fondo è una vecchia regola comunista, riletta e riveduta in chiave movimentista. Se cinquanta anni fa il problema del Pci era non farsi scavalcare dai gruppuscoli dei vari Lucio Magri o Mario Capanna, ora la Schlein punta a dire qualcosa più di sinistra - per citare Nanni Moretti - di Giuseppe Conte. Anzi , lo insegue sulle sue tematiche. Siamo, quindi, in un vortice che vede la nuova segretaria del Pd chiedere le dimissioni del ministro dell'Interno e aderire alla manifestazione grillina di solidarietà verso la preside che ha lanciato l'allarme anti-fascista a Firenze.
È evidente che in uno schema del genere la proposta economica del Pd ricalcherà quella dell'anima più massimalista della Cgil: un fisco proiettato verso ogni tipo di patrimoniale e un ambientalismo ideologico. La politica estera, invece, asseconderà il pacifismo disarmato dei grillini. Come pure sulla giustizia sarà cancellata anche l'ombra del garantismo per non dispiacere a Conte e a Travaglio e non prestare il fianco alle loro critiche.
Su questa linea, come è avvenuto in passato, i veri nemici del Pd diventeranno i riformisti, cioè quelli dentro al partito (le loro speranze ecumeniche si trasformeranno sempre più in contraddizioni insuperabili) e l'area di centro che guarda a sinistra. Un'area che per un Pd protagonista di un processo di polarizzazione della politica italiana, va delegittimata. In fondo i massimalisti da sempre individuano nei riformisti i loro avversari giurati. Basta pensare alla faida tra socialisti e comunisti in questo Paese (la vicenda di Bettino Craxi è esemplare).
Polarizzare significa, infatti, obbligare gli altri a schierarsi, a stare di qua o di là. Ed è naturale che l'«antifascismo» sia uno degli argomenti, magari il più comodo in presenza di un governo caratterizzato a destra, con cui scavare un solco. Una patina coniugabile con tutto: con la violenza nelle piazze, con l'immigrazione, con i diritti civili e chi più ne ha più ne metta.
“No alla violenza fascista”, censura su quella comunista: Repubblica ormai sembra la Pravda. Lucio Meo il 4 Marzo 2023 su Il Secolo d’Italia.
Grande spazio, questa mattina, sui giornali di sinistra, alla manifestazione anti fascista che si svolgerà nel pomeriggio a Firenze a seguito della rissa di qualche giorno fa all’esterno di un liceo fiorentino, tra ragazzi di opposte fazioni. Nulla, o quasi, invece, sulle indagini a carico degli studenti dei Collettivi a carico degli esponenti di Azione studentesca, con otto giovani “compagni” indagati dalla Procura di Bologna anche grazie a un video che riprende le scene di violenza. “Repubblica”, in particolare, saluta il debutto della Schlein a Firenze con una paginata di giubilo, senza dedicare neanche un rigo ai fatti di Bologna. “No alla violenza fascista”, scrive “Repubblica”, ma su quella comunista non c’è spazio neanche per una breve. Magari due righe per dire che a Bologna, menare un ragazzo di destra, non è vero che non è reato…
“Repubblica” allarmata per la violenza fascista, ma solo per quella…
“La manifestazione antifascista quella che attraverserà le strade del centro storico oggi pomeriggio. Un corteo che riunirà non solo fiorentini, ma anche studenti, genitori, insegnanti e lavoratori da altre regioni: Lombardia, Piemonte, Lazio, Emilia. E poi numerosi volti della politica, con i capi di partito: dalla nuova segretaria nazionale del Pd, Elly Schlein a Giuseppe Conte leader dell Movimento 5 Stelle….”, scrive “Repubblica” .
Bologna, otto indagati per il pestaggio ai danni degli studenti di destra. Ma nessuno si è mai indignato... (video)
Eppure ieri tutte le agenzie hanno dato la notizia di otto giovani sono indagati dalla Procura di Bologna per un’aggressione, avvenuta il 19 maggio 2022 ai danni di un gruppo di studenti di Azione Universitaria. Le accuse contestate sono di lesioni personali aggravate e rapina.
Le minacce agli studenti fascisti
In particolare, come si legge nel capo di imputazione, contenuto nell’avviso di conclusione delle indagini, gli indagati “in concorso tra loro e con altri non tutti meglio identificati con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, rivolgendo minacce con frasi del tipo “tornate nelle fogne”, “siete morti”, “vi uccidiamo”, “ve ne dovete andare”, nonché per mezzo di violenza consistita in calci, spintoni, pugni e strattonamenti al fine di trame un ingiusto profitto si impossessavano delle bandiere e delle aste per bandiere detenute dagli esponenti del movimento studentesco ‘Azione Universitaria’. Uno degli aggressori in particolare si scagliava con violenza da tergo contro uno dei membri del movimento, sfilandogli così la bandiera che lo stesso portava alle spalle”. Cosine così, secondarie per “Repubblica” nazionale, nel giorno del “no alla violenza fascista…”.
In corteo bandiere e slogan violenti: "Uccidere i fascisti non è reato". Federico Bini il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.
Altro che difesa della scuola e della Costituzione, solo attacco all'esecutivo di centrodestra. Nel mirino i ministri Piantedosi e Valditara. E qua e là anche manifesti di solidarietà a Cospito e contro il 41 bis.
Firenze. Doveva essere una manifestazione a difesa di scuola e Costituzione, quella organizzata ieri da Cgil, Cisl e Uil, dopo i fatti del Liceo Classico Michelangiolo. Invece si è trasformata, come era facile intuire, in un evento strettamente politico e contro il governo Meloni. Gianfranco Pagliarulo, presidente Anpi, attacca: «Meloni, lei piange per le leggi razziali ma non condanna il fascismo!». E qualcuno grida: «Il maresciallo Tito ce l'ha insegnato uccidere un fascista non è un reato».
In piazza si respira un ritorno al passato più che al futuro, riproponendo una sinistra che vuole mettere insieme forze moderate con frange più estremiste e radicali. Slogan «boicottare Israele e Palestina libera», bandiere jugoslave, anarchiche, palestinesi, tante falci e martello, cartelloni con scritto «sono antifascista ma soprattutto comunista», «Valditara e Piantedosi. Dimissioni». Ma forte è anche il sentimento anti-Nato. Spiccano manifesti contro l'imperialismo, il militarismo e le guerre umanitarie, colpevoli di «rapinare risorse e fonti di energia». Il corteo giunge in Santa Croce sulle note di Bella Ciao, e lentamente iniziano ad arrivare prima gli esponenti di primo piano dei partiti e poi i leader. Bonelli, Fratoianni, Serracchiani, Boldrini, Fiano, Verini, Provenzano, quindi la neosegretaria Schlein e Giuseppe Conte. Al momento della foto tra Landini, Conte e Giani, un organizzatore della Cgil si lascia andare ad una battuta: «Sta nascendo il Conte ter» e a fine comizio, sotto il palco un altro sindacalista, soddisfatto dell'esito, strizzando l'occhio al compagno (alcuni si chiamano ancora compagni) esclama: «Bene. Possiamo dire che l'operazione politica è stata compiuta». E se anche i rappresentanti del Pd non lo ammettono chiaramente, da Giani alla Boldrini, parlano di «piazza democratica», è probabile che da qui possa iniziare il percorso per la nascita di un nuovo fronte progressista. Dal palco uno dei ragazzi chiamati a intervenire si lascia andare - si spera a causa della foga del momento ad un «c'è Cospito in carcere e i fascisti liberi». In diversi intervistati, antifascisti lombardi e liguri, c'è solidarietà verso l'anarchico rinchiuso al 41-bis. Qualcuno parla addirittura di «persecuzione politica». Applauditissima e super protetta dagli uomini delle forze dell'ordine la neosegretaria del Pd. Gli elettori democratici apprezzano una svolta più a sinistra, sconfessano Matteo Renzi, «non l'abbiamo mai votato!», e Carlo Calenda. Ma sono comunque i tanti ragazzi dei collettivi e non, che davanti ai vertici dei partiti chiariscono: «Non vengano pure qui a fare passerelle. Dal comune alla regione al governo nazionale hanno partecipato alla distruzione del paese». Come vedrebbe questa alleanza tra Pd e M5s - chiedo ad un passante con la bandiera della Cisl messa in modo un po' garibaldino? «Io sono un cattolico di sinistra. Mi rappresentava Fioroni che però è uscito spero non sia solo un accordo elettorale». Ma dal reddito di cittadinanza, «non sono favorevole», all'invio di armi a Kiev non è in linea con la politica contiana. Insomma, molte sono le contraddizioni nella rossa piazza fiorentina. Anzi, richiamando Mao, «grande è la confusione» nella galassia progressista. Schlein e Conte in fondo al palco parlottano amichevolmente, poi si girano e salutano insieme. L'antifascismo e la lotta al governo Meloni, li unisce, almeno nei discorsi. All'uscita, un gruppo di giovani regala dei giornalini marxisti per la rivoluzione: «L'inganno della transizione capitalista».
La battaglia di libertà: dalla strage di Cutro a Cospito. Il fascismo è processare ingiustamente Berlusconi e tenere Eva Kaili in carcere tra torture e ricatti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Marzo 2023
Oggi si svolge a Firenze una manifestazione antifascista. È stata convocata per protestare contro l’aggressione subita dagli studenti del liceo Michelangelo da parte di una pattuglia di estrema destra, e contro il silenzio del governo di centrodestra su questo episodio. È giusto protestare. Anche se il liceo Michelangelo non credo sia il cuore del problema-Italia.
Io resto dell’idea che se vogliamo fare delle battaglie antifasciste serie, dobbiamo occuparci del fascismo moderno. Che poi ognuno può chiamarlo come vuole ma è un fenomeno reazionario vero, non solo italiano, che rischia di rimandare indietro di molti anni il livello alto di civiltà che l’Europa aveva conquistato in questi anni. Per me l’antifascismo non è un’etichetta. Una bandiera. Un richiamo alla tradizione e all’eroismo dei partigiani. Non è la canzone Bella Ciao o Fischia il vento. Non è un rito. È più radicalmente – molto più radicalmente – una battaglia per la libertà, contro la repressione, contro il giustizialismo, l’ultralegalitarismo, la xenofobia, il razzismo, il nazionalismo, l’autoritarismo. Per me antifascismo vuol dire opporsi ai respingimenti dei profughi, difendere l’articolo 10 della Costituzione, protestare per la detenzione (in assenza di reati) di Dell’Utri o di Contrada e per il carcere duro illegalmente inflitto ad Alfredo Cospito.
È difendere la comandante Carola Rakete, e anche Berlusconi processato ingiustamente, è trovare casa e lavoro ai migranti, denunciare la follia della violazione dell’articolo 11 della Costituzione e del coinvolgimento dell’Italia nella guerra in Ucraina, ed è anche indignarsi per i fenomeni di Torquemadismo in corso in Belgio ai danni di alcuni parlamentari europei. Mi riferisco in particolare alla situazione della deputata europea di nazionalità greca Eva Kaili, che è stata catturata e messa in cella tre mesi fa con l’accusa di essersi fatta corrompere dal governo del Qatar, o forse da quello del Marocco, ma contro la quale, a quanto sembra, non si trovano le prove. La Procura belga ha deciso di usare il carcere come mezzo di indagine. Come si faceva fino al 700.
Lo ha già fatto con il compagno della Kaili, Francesco Giorgi, e con Antonio Panzeri. Loro hanno accettato il gioco, pare, hanno confessato, hanno lanciato qualche accusa contro un paio di parlamentari, seppure senza offrire riscontri, hanno detto quello che i magistrati volevano che dicessero, e in cambio hanno ottenuto uno la liberazione, l’altro un formidabile sconto di pena e la scarcerazione di moglie e figlia. Eva Kaili invece non ha accettato di confessare, si dichiara innocente e fa infuriare gli inquirenti. Che l’hanno arrestata illegalmente, perché lei era protetta dall’immunità parlamentare – inventandosi una inesistente flagranza di reato – l’hanno anche torturata, tenendola 48 ore al gelo e senz’acqua (dopo avergli sequestrato anche il cappotto) in una cella di isolamento con le luci sparate per non farla dormire, e le hanno fatto capire che o parla o resta al gabbio.
Ieri il giudice ha respinto una sua richiesta di liberazione e ha decretato che starà in cella almeno altri due mesi. Cioè che per ora è stata condannata a cinque mesi di prigione senza processo. Poi, se non parla, altri mesi. Sebbene non esistano le condizioni per la carcerazione preventiva (non può scappare, non può reiterare, non può inquinare le prove) e sebbene la Kaili sia madre di una bambinetta di due anni che non vedrà la mamma per almeno cinque mesi (nemmeno nel giorno del suo secondo compleanno), che sono i mesi più importanti della vita di un bambino per i rapporti con la mamma. Chiamatelo medioevo, chiamatelo fascismo, se per fascismo intendete il modello più noto dei regimi autoritari europei, chiamatela pura sopraffazione dello Stato. Di certo è una violazione pazzesca del diritto e una sfida alla politica e alla democrazia. La politica però non reagisce. Si inchina a Torquemada. La stampa non ha neanche bisogno di inchinarsi perché è già prona.
Mi piacerebbe se la manifestazione di Firenze si occupasse anche di questo. E si schierasse a difesa della deputata greca. E poi, soprattutto, mi piacerebbe se si occupasse di Cutro e protestasse per la politica della non-accoglienza (che certo però non può essere addossata solo al governo attuale) che sei giorni fa ha provocato una vera e propria strage di profughi. Avvenimento che a me pare, per la sua gravità, schiacci tutte le altre polemiche. È impossibile spiegarsi come mai i ministri che avevano la responsabilità dei salvataggi non siano stati ancora allontanati. Elly Schlein ha chiesto l’altro giorno le loro dimissioni. Ha fatto benissimo. È un ottimo esordio. Mi auguro che non demorda. Sennò l’antifascismo diventa pura cerimonia.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il delirio antifascista di Montanari getta benzina sul fuoco: vuole “aprire la testa” agli studenti. Federica Argento il 4 Marzo 2023 su Il Secolo d’Italia.
Lo sproloquio antifascista di Tomaso Montanari dal palco di Firenze è la raffigurazione plastica dell’odio e dell’intolleranza. La sinistra condanna la violenza nelle scuole in maniera selettiva: quando a picchiare sono i rossi nessuno lo deve sapere. Vedi i fatti di Bologna. In presenza, nello stesso giorno, di striscioni con Meloni e Valditara a testa in giù davanti al liceo Carducci di Milano la parola d’ordine è tacere. Nessuno da sinistra ha preso le distanze. Tantomeno Montanari. Invece il problema oggi per il rettore dell’Univeristà di Siena e per quanti lo hanno applaudito al corteo fiorentino è il fascismo.
Secondo lui, che ha anche le traveggole, “oggi nella politica, nei media, c’è una grande zona grigia di complicità con i fascisti. Ci dicono: questo governo non c’entra nulla con il fascismo e io dico: se il ministro della Scuola intimidisce una preside perché ha parlato di antifascismo allora dov’è che siamo? Fascista è chi il fascista fa”. Il rettore dell’Università per stranieri di Siena getta benzina sul fuoco dal palco di Firenze.
Le sue parole sono pericolose. Praticamente dice che la scuola deve fare politica e instillare un antifascismo in assenza di fascismo. Parole grottesche. Per Montanari la scuola non ha fatto abbastanza nell’opera di indottrinamento e di emarginazione di chi non ha un orientamento di sinistra. “E’ la stessa democrazia ad essere a rischio tra astensionismo di massa e ritorno del fascismo – prosegue nel suo delirio- . Perché non si è lavorato a produrre una massa cosciente. Eppure è a questo che serve la scuola: non a selezionare una classe dirigente ma a formare una massa cosciente, parole di don Milani”. Gli studenti per lui devono essere manipolati fino a diventare “massa cosciente”. Dove pensa di stare, nell’ex Urss?
“Vogliamo davvero essere antifascisti? – esplode- . Riportiamo la scuola alla sua funzione costituzionale. Permettiamo che abbia una sua coscienza civile per non tradire anche noi i nostri ragazzi. Perché se accanto ai calci dei fascisti si prendono anche la scuola del ‘merito’ e dell’alternanza scuola-lavoro allora davvero non c’è speranza”. Il riferimento al “merito” è una chiara istigazione in quel contesto di piazza: ragazzi, il ministro Valditara, al quale ha dato poco prima del “fascista”, è il nemico. Dirà qualcosa dei democraticissimi studenti che hanno messo il ministro a testa in giù sullo striscione? Sono “massa” sufficientemente “cosciente”?
Come vuole “aprire la testa” agli studenti
Ad istigare all’odio oggi c’era Montanari e a chi l’ ha applaudito acriticamente. Il peggio viene alla fine, quando l’ultras Montanari ha usato parole tristemente evocative. “Nessuno di voi, ragazzi, pensi che la testa dei fascisti si apra a forza di colpi con la chiave inglese”. Pensava di usare parole di pacificazione, ma non lo sono affatto. “Ai fascisti la testa gli si apre con scuola giusta”. Qualche cattivo maestro dovrà farsi un esame di coscienza.
La surreale marcia di Conte e Schlein contro i fascisti (immaginari) Andrea Indini il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il corteo antifascista di Firenze raccatta tutta la sinistra: dall'Anpi alla Cgil, dai 5S ai dem. Impugnano la Costituzione contro una deriva dittatoriale ma chiudono gli occhi davanti alla minaccia anarchica
Ebbene sì: nel 2023 siamo ancora qui a parlare di fascismo. Impossibile farne a meno. Perché il corteo di Firenze - o meglio la surreale "passeggiata antifascista" indetta da Cgil, Cisl e Uil "in difesa della scuola e della Costituzione" - è diventato tutt'a un tratto il collante del sinistrume nostrano, grillini compresi. Accanto ai centri sociali, ai collettivi studenteschi, alle prezzemoline sigle dell'onnipresente associazionismo rosso (Anpi, Acli, Cobas e l'immancabile Anpi), si sono accodati - rullo di tamburi - la neo segretaria nazionale del Pd Elly Schlein e il leader M5S Giuseppe Conte. Tutti a fingere che l'Italia corra un gravissimo rischio: l'instaurazione di una nuova dittatura fascista.
A sentir sproloquiare gente come il segretario della Cgil Toscana, Rossano Rossi (omen nomen), qualcuno tra quelli che oggi hanno marciato a Firenze contro il "disgustoso rigurgito" dello squadrismo nero sembrerebbe credere davvero a questo imperituro allarmismo che àncora la sinistra in crisi di ideali (ma non di ideologia) ai fantasmi di settant'anni fa. "Il fascismo oggi prende il volto delle organizzazioni di estrema destra che picchiano giovani di sinistra davanti alle scuole e assaltano le sedi sindacali", ha sentenziato Rossi. E poi ancora: "Dobbiamo essere partigiani e non indifferenti: Firenze e la Toscana oggi sono il centro dell'Italia democratica e antifascista". Partigiani, appunto. Come all'inizio degli anni Quaranta del secolo scorso. E come oggi, nel nuovo millennio. Tutto muta, tranne loro. Partigiani sempre. Bella ciao e tutto il resto: i pugni chiusi, le bandiere rosse con la falce e il martello, gli slogan. Sempre i soliti, come quello intercettato dal Foglio: "Uccidere un fascista non è un reato". E poi il tiro al ministro, Giuseppe Valditara in primis. E anche i due Matteo, Salvini e Piantedosi. Ma soprattutto lei: Giorgia Meloni. Tutti fascisti, tutti da defenestrare da Palazzo Chigi e dai loro ministeri. Esattamente come li hanno dipinti gli studenti del liceo classico "Carducci" di Milano: premier e ministro dell'Istruzione a testa in giù. Ecco l'"Italia democratica e antifascista", ecco la crème de la crème dei collettivi studenteschi. Stessa risma dei centri sociali che a Bologna hanno preso a bastonate i ragazzi di Azione Universitaria. O dei violenti che alla Sapienza hanno tolto a Daniele Capezzone il diritto a parlare.
A questa combriccola di manifestanti va dato atto che, di generazione in generazione, perseverano con assurda tenacia nella solita, strampalata narrazione. Decine di anni a brandire la Costituzione contro un'immaginaria deriva autoritaria che non si è mai verificata. Ma che importa? "Siamo in piazza per difendere i principi costituzionali", sentenzia Conte. Eppure il governo è stato eletto democraticamente, dovrebbe saperlo, lui che a Palazzo Chigi è stato paracadutato senza nemmeno passare dal voto e quando ci è passato ha perso. Pure la Schlein sembra ignorare il mandato popolare conferito al centrodestra. "Il Pd è ovunque si difende Costituzione", dice. E poi col più classico dei no pasarán: "Quei metodi violenti non passeranno, quei metodi squadristi non passeranno, troveranno questo cordone di solidarietà umana a difesa della scuola come presidio di cultura antifascista". Un cordone di solidarietà umana che, quando a odiare, pestare e minacciare sono i centri sociali, i collettivi studenteschi o gli anarchici, si volta opportunamente dall'altra parte.
Quella surreale marcia fuori tempo. Dopo la marcia su Roma, ecco cent'anni dopo la surreale la marcia su Firenze. Paolo Armaroli il 5 Marzo 2023 su Il Giornale.
Dopo la marcia su Roma, ecco cent'anni dopo la surreale la marcia su Firenze. Aveva ragione il vecchio Marx, Carlo non Groucho: «La Storia si manifesta una prima volta in tragedia e una seconda volta in farsa». Ieri hanno marciato sul capoluogo toscano i soliti noti: Landini, l'Anpi e compagnia cantante. Gente che ancora non ha digerito che Giorgia Meloni si sia legittimamente insediata a Palazzo Chigi senza sfigurare affatto. Come hanno riconosciuto Letta e Bonaccini, per questo lapidati dai sanculotti delle zone a traffico limitato delle grandi città. Né poteva mancare noblesse oblige la partecipazione straordinaria di Conte, un estremista per prudenza, e della Schlein. I promessi sposi. I Renzo e Lucia dei giorni nostri. Ma, come nelle comiche finali, presto potrebbero prendersi a torte in faccia per via della «roba»: i voti degli elettori.
Che ci sono venuti a fare? Ma è chiaro: per sfogare in corteo la loro rabbia. Novelli Don Chisciotte, hanno voluto ancora una volta combattere fuori tempo massimo contro i mulini a vento di un fascismo immaginario. Roba da matti. Hanno voluto esprimere la loro solidarietà alla preside Savino, sulla cui famosa lettera il ministro Valditara si è permesso di esprimere perplessità non sulle sue opinioni ma sui suoi errori. Perché Gramsci non è morto in carcere. Come ha scritto spensieratamente la preside, abilitata pare all'insegnamento di storia e filosofia. No, Gramsci era da un pezzo in libertà condizionata. Perché la ricostruzione della nascita, e della rinascita, del fascismo da parte della preside è stata ad usum delphini. Perché la sua condanna delle frontiere è assurda. Difatti, oltre a delimitare un territorio, racchiudono un'identità nazionale. Siamo entrati in Europa in quanto italiani. E ne siamo orgogliosi.
Elly ha esordito dicendo che farà vedere i sorci verdi a Giorgia. Sai che paura, ha lasciato intendere la presidente del Consiglio. Lei si aspetta dal Pd un'opposizione durissima. Fuori e dentro il Parlamento. Ma l'opposizione va saputa fare. E la fresca numero uno del Pd ha cominciato con il piede sbagliato. Una manifestazione riesce non per il numero dei partecipanti, un'infinitesima parte della popolazione. Ma se squaderna una buona causa davanti al tribunale dell'opinione pubblica. E invece anche qui a Firenze ieri si è manifestato non «per» ma «contro». Il colmo della mistificazione è poi osannare a parole la Costituzione, quella che Benigni e i suoi cari definiscono la più bella del mondo, e nei fatti proteggere gli studenti che se la mettono sotto i piedi quando pretendono di vietare la libera manifestazione di pensiero come all'università di Roma, a Firenze, a Bologna e altrove a chi non la pensa come loro.
Si può ingannare una persona per tutta la vita, tutti per una volta, ma non si possono ingannare tutti per sempre. Parola di Abramo Lincoln. Ma lo sanno i manifestanti fiorentini di ieri? Lo sanno i promessi sposi?
Unico collante ideologico la mobilitazione totale contro il pericolo fascista (che però non esiste). Rispolverato il vecchio ritornello lo tirano in ballo come pretesto. Francesco Giubilei il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.
Quasi ogni giorno, dalla campagna elettorale di questa estate a oggi, la sinistra ha rispolverato un suo grande classico: l'antifascismo come strumento politico. Una tendenza destinata a durare per tutto il periodo in cui il centrodestra governerà e che utilizza ogni occasione per tirare in ballo il «pericolo fascista». Lo si è visto con quanto avvenuto al Liceo Michelangiolo di Firenze e con le successive polemiche dopo la lettera della preside del Liceo Da Vinci di Firenze Annalisa Savino e le parole del ministro Valditara culminate con la manifestazione antifascista andata in scena ieri a Firenze in cui, guarda caso, era presente anche la Savino. Già a settembre, pochi giorni prima delle elezioni, Enrico Letta aveva dichiarato: «La moderata Meloni annuncia che cambieranno la Costituzione da soli. Gli italiani domenica, con il loro voto, diranno a questa destra che la Costituzione nata dalla Resistenza e dall'antifascismo non si tocca». Non è andata proprio così. Il suo compagno Nicola Fratoianni era stato ancor più esplicito: «Meloni dice che non è fascista. Ma per governare l'Italia bisogna fare un passo in più, bisogna definirsi antifascista». Una frase significativa che testimonia come non sia sufficiente dirsi non fascisti ma occorra definirsi «antifascisti» come se si trattasse di un'ideologia a cui aderire. Le parole di Fratoianni spiegano che, qualunque cosa dica la destra su questi temi, non basta mai, serve sempre un passo in più fino a dar vita alla famosa destra che piace alla sinistra. Perciò ieri a Firenze la «cosa rossa» è scesa «in piazza per ribadire l'antifascismo come valore fondante» in una manifestazione che, già dagli intenti, è nata contro qualcuno o qualcosa, in questo caso Valditara e il governo. Una grande chiamata a raccolta dalla Schlein a Conte, da Landini all'Anpi. Nelle ultime settimane è stato un profluvio di dichiarazioni e, con la «piazza antifascista» di Firenze (a quando una «piazza anticomunista» (?), si è toccato il punto più alto. Se la Schlein ha parlato di una «risposta allo squadrismo» e di una «scuola come presidio antifascista», il suo collega Giuseppe Provenzano del Pd ha affermato: «I valori dell'antifascismo dovrebbero unire tutte le forze politiche. Oggi è il momento dell'unità di popolo». Tomaso Montanari, rettore dell'Università per stranieri di Siena, ha invece utilizzato toni radicali: «Ci dicono questo governo non c'entra nulla con il fascismo e io dico se il ministro della Scuola intimidisce una preside perché ha parlato di antifascismo allora dov'è che siamo? Fascista è chi il fascista fa». Secondo Rossano Rossi, segretario della Cgil Toscana: «Dobbiamo essere partigiani e non indifferenti: Firenze e la Toscana oggi sono il centro dell'Italia democratica e antifascista». Se per i fatti del Liceo Michelangiolo non si sono sprecate le parole, si registra un silenzio assordante per condannare l'aggressione avvenuta qualche mese fa a Bologna da parte dei collettivi ai danni di alcuni studenti di destra di cui sono state da poco diffuse le immagini. Così come sono mancate frasi di solidarietà al ministro Valditara per le minacce ricevute o prese di distanza dai collettivi quando impedivano di svolgere convegni nelle università pubbliche. Sarebbe davvero paradossale se ancora oggi passasse il messaggio che la violenza è sbagliata ma ci sono alcune violenze più sbagliate di altre a seconda di chi le compie.
Schlein e Conte, il corteo antifascista è una farsa. I leader di Pd e 5Stelle saranno presenti alla manifestazione del 4 marzo a Firenze. Max Del Papa su Nicola Porro il 2 Marzo 2023.
Compagna, il popolo non copre le bollette. Dategli dell’antifascismo. La lunga marcia verso la fusione dei fissati, dei fanatici, sinistra social comunista mezza piddina e mezza grillina, passa per Cospito e il liceo Michelangiolo, per la professoressa Savino che teme la risacca diciannovista, per il sabato antifà. È qui che si incontreranno gli stati generali di due leader di laboratorio, Elly e Beppi, e la vedremo, ah se la vedremo, chi è più sovversivista, movimentista, massimalista. Perché non c’è dubbio che nella Firenze delle ombre rosse, delle cosche rosse i casini scoppieranno e grandi casini: le minacce, garantite, alla Meloni nel garantismo carrierista dei soliti, le foto bruciate, le devastazioni democratiche, la guerriglia proustiana, i pupazzi impiccati per i piedi, il vaneggiare a pugno chiuso degli spiaggiati da centro sociale.
Nella Firenze dell’eterna ebollizione più o meno armata, del misterioso comitato esecutivo delle Bierre che non si è mai localizzato ma dove comandava il terrorista prof. Senzani, implicato coi Servizi italiani e gradito ospite di quelli americani. Roba che i vecchioni del Pd sanno benissimo come la sa il prof. Prodi delle sedute spiritiche fantasma per indirizzare a Gradoli (la via non il paese, cazzo!), a vana ricerca dei carcerieri di Moro. Prodi, amico, collega e sodale del padre della ragazza Schlein in seno al centro di potere il Mulino. Chi invece non sa niente di queste convergenze parallele è la generazione S, come Schlein, come Sardine. Quella che in nome dell’amore ti fa fuori senza complimenti. Cinica, ecco una continuità ittica col comunismo degli squali e dei piranha, al punto da usare un naufragio con un centinaio di morti per attribuirlo al governo e un regime di relativo isolamento su un balordo non innocuo per attribuirlo al governo.
Benzina sul fuoco da chi cerca l’incendio della prateria e lo cerca nella Firenze dei furori da centro sociale, sostenuta dalla stampa irresponsabile. Oggi come allora la provocazione miserabile fino alla messa in conto del morto da addebitare al regime fascista. Tanto fascista che finora si è preoccupato di andar d’accordo con gli ineffabili poteri forti, ineffabili ma non indicibili visto che i nomi li conoscono tutti: il Colle, la finanza totale della quale il massimo rappresentante Draghi dice “Noi decidiamo tutto o almeno ci proviamo, voi subite comunque”, la Unione Europea comitato d’affari della grande industria, i finanzieri eversivi come i Gates e i Soros che sostengono i manga di nome Elly o Greta, i burattinai perversi tipo Schwab, l’informazione unica che da questi è pagata e può farti scoppiare tra i piedi un ordigno mediatico in qualsiasi momento.
La verità è che il governo si muove sulle uova, i Piantedosi, i Valditara sono disastrosi nella comunicazione temendo conseguenze che, si mettessero l’anima in pace, arriveranno comunque. C’è un ordine costituito che non è modificabile, che può essere solo arginato come per la demenziale transizione all’auto elettrica e questo Giorgia Meloni lo sa e cerca di barcamenarsi. E c’è una effervescenza antagonista per le allodole, che lavora per il regime vero, un regime sovranazionale e finanziario. Per cui diventa fondamentale la recita dei sovversivi d’ordine che a Firenze vanno da comparse più o meno consapevoli di una rappresentazione di potere per il potere. O, per farla facile: ci va bene che in questa fase siate voi al comando purché sia chiaro che è un comando nominale, di facciata, che possiamo farvi fuori come e quando vogliamo. Poi magari si sbagliano anche loro, ma il senso del sabato (anti) fascista fiorentino è questo ed è palese.
La grande farsa della contrapposizione tra donne di vertice, la post fascista e la neocomunista, sta nella attribuzione alla premier di condizionamenti atlantici contro i quali si opporrebbe la pacifista e antagonista segretaria piddina che è una carica oggi patetica. Che Meloni abbia coltivato sponde atlantiste è chiaro e non è un delitto, ma ad uscire dalle fabbriche americane degli influencer politici, a sponsorizzare le tematiche del neorevisionismo pubblicitario americano, gender, clima, isteria antifà, ad avere un passaporto americano, connessioni con l’egemonia politica e culturale americana, è il nuovo capo del partito grillino democratico. Ma, siccome vale tutto, può benissimo valere che una adunata d’ordine venga partecipata dai leader d’ordine, del nuovo ordine, globalista, finanziario, in veste filosovversivista, sotto l’egida dell’antifascismo militante in sostegno a un insurrezionalista anarcoide bombarolo. Max Del Papa, 2 marzo 2023
Elly’s Island. La battaglia contro il decreto anti-ong non si può fare abbracciati al M5s. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 3 Marzo 2023.
Accusare il governo di avere tanti morti sulla coscienza per norme assai più morbide di quelle varate a suo tempo da Conte è una scelta discutibile di per sé, ma ripetere quelle parole mentre si sfila a braccetto con l’Avvocato del popolo sarebbe imperdonabile
Dinanzi a una tragedia come quella di Cutro è sempre molto difficile tracciare il confine tra doverosa richiesta di chiarezza e speculazione politica, legittima indignazione e strumentalizzazione di parte.
Certo sarebbe più facile abbassare i toni se l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dinanzi a una tragedia analoga, nel 2015, non avesse dichiarato pubblicamente che il governo Renzi avrebbe dovuto essere «indagato per strage colposa». O se l’attuale ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, per prima cosa non fosse andato in conferenza stampa a stigmatizzare il comportamento delle vittime, a suo giudizio responsabili di avere messo a rischio la vita di se stessi e dei loro cari, aggiungendo poi, in quell’occasione come nei numerosi interventi successivi, dichiarazioni se possibile ancora più grottesche. La migliore di tutte l’ha detta in audizione in Senato: «Io sono talmente capace di emozionarmi che lo faccio prima che le tragedie avvengano».
Quella del ministro, insomma, è una sensibilità predittiva, quasi profetica. Sarebbe bello se una simile dote lo portasse a dimettersi prima della prossima figuraccia.
Non bastassero le molte ombre sull’accaduto, l’inspiegabile lentezza nei soccorsi, il rimpallo di responsabilità, le contraddizioni emerse dalle diverse ricostruzioni, l’opposizione avrebbe dunque ancora mille buone ragioni per chiedere le dimissioni di Piantedosi, e bene ha fatto la nuova segretaria del Pd, Elly Schlein, a guidare questa battaglia.
Dopo tante discussioni sull’identità della sinistra, e la necessità di maggiore radicalità, maggiore nettezza, maggiore autenticità, ci sono però nelle sue prime mosse e nei suoi primi interventi alcune vistose omissioni (tu chiamale, se vuoi, rimozioni).
Schlein ha dichiarato immediatamente, nel suo primo discorso da segretaria, che la strage di Crotone «pesa sulle coscienze di chi solo qualche settimana fa ha voluto approvare un decreto che ha la sola finalità di ostacolare il salvataggio in mare». Parole molto pesanti, e anche approssimative, che hanno offerto l’occasione al governo di ricordare facilmente come la strage sia avvenuta in una tratta non coperta dalle navi delle ong. Ma soprattutto parole che mal si conciliano con la scelta di rilanciare il rapporto con Giuseppe Conte, cioè il presidente del Consiglio responsabile di quei decreti sicurezza che avevano esattamente tale finalità, ostacolare l’opera delle ong, ed erano da questo punto di vista anche assai più duri (senza contare che secondo l’ex portavoce della guardia costiera, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, intervistato ieri da Repubblica, il primo governo Conte ha anche la responsabilità di avere «imbrigliato» l’azione della guardia costiera, assegnando un ruolo strategico al Viminale, in una logica più di polizia che di soccorso). Come si può dunque da un lato dire che tanti morti pesano sulla coscienza di chi ha approvato un decreto che ostacola i salvataggi e dall’altro apprestarsi a manifestare insieme a Conte a Firenze, in quello che da giorni viene presentato come il primo atto del nuovo corso unitario del Pd?
Anche in parlamento, intervenendo in commissione contro il ministro Piantedosi, Schlein ha scandito: «Voi dovreste chiedere una missione di ricerca e soccorso in mare europea, una Mare Nostrum europea, e finirla con una criminalizzazione spietata delle organizzazioni non governative che stanno solo sopperendo alla mancanza di una missione con pieno mandato umanitario da parte dell’Unione europea nelle rotte più pericolose».
Non tedierò il lettore con il ripasso di tutte le dichiarazioni e gli atti legislativi con cui il Movimento 5 stelle ha proceduto in questi anni alla criminalizzazione delle ong, oltre a votare contro l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Per chi fosse interessato all’argomento, ne troverà un’esauriente ed equanime raccolta, insieme con le perle di tanti altri leader, compresi fior di democratici, in un bel libro di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone: «Com’è successo» (Fandango). Per i più pigri, mi limito a ricordare che è al Movimento 5 stelle che dobbiamo la definizione di «taxi del mare», nonché alcuni degli emendamenti più odiosi ai decreti sicurezza (per inasprirli, ovviamente) come quello sulla confisca delle navi delle ong.
Per di più, nel suo intervento in commissione, Schlein invitava il governo a chiedere la riforma del trattato di Dublino, ricordava di essersene occupata a suo tempo come parlamentare europea e incalzava il ministro con queste parole: «…ho potuto spesso rimarcare la totale assenza delle forze che oggi governano questo paese alla discussione che lei sa essere la più importante per l’Italia, perché è quello strumento che blocca centinaia di migliaia di richiedenti asilo nel primo paese europeo dove mettono piede anziché avere, prendo le sue parole di prima, una risposta che non è quella insufficiente del ricollocamento volontario che non ha mai funzionato, ma un sistema di redistribuzione obbligatorio delle responsabilità sull’accoglienza che valorizzi anche i legami significativi dei richiedenti asilo con tutti i paesi europei; l’avevamo ottenuta questa riforma, nel 2017, senza il voto delle forze che oggi governano il paese».
Per la cronaca, a votare contro la riforma nel 2017 è stato anzitutto il Movimento 5 stelle (la Lega, per dire, si astenne). In compenso, quel sistema di ricollocamenti volontari «che non ha mai funzionato» è esattamente il sistema ottenuto da Conte al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2018, e sbandierato allora ai giornali come un risultato storico (sì, esatto, proprio come ha fatto Meloni poche settimane fa: non c’è presidente del Consiglio italiano che in questo campo non ottenga risultati storici, a chiacchiere).
Il Partito democratico di Schlein ha dunque ora due strade davanti a sé: continuare a incalzare il governo su questo terreno, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità (con la necessaria dose di autocritica per le scelte passate, ad esempio sugli accordi con la Libia), oppure abbassare i toni e cercare magari altri terreni su cui radicalizzare lo scontro. Sono entrambe scelte legittime, che hanno pro e contro sia in linea di principio sia da un punto di vista puramente tattico. Ma quale che sia la scelta, bisogna essere conseguenti, e misurare bene le proprie parole: accusare il governo di avere tanti morti sulla coscienza per un decreto assai più morbido di quello varato a suo tempo da Conte è una scelta discutibile di per sé, per le ragioni già dette, ma ripetere quelle parole mentre si sfila a braccetto con il leader grillino sarebbe davvero imperdonabile.
Estratto dell’articolo di L. Ane. per “La Stampa" il 2 marzo 2023.
«È cambiato tutto, e in breve tempo. Un tempo andavamo a salvare la gente e potevamo vantarcene, eravamo ripagati solo da questo, adesso c'è una gravissima menomazione di chi per anni nella Guardia costiera ha svolto questo compito».
Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale della Capitaneria di Porto, ufficiale con lunga esperienza a Lampedusa, oggi fa parte del "Comitato per il diritto al soccorso".
Cos'è cambiato e da quando?
«È cambiato da quando - diciamo dall'epoca del ministro Minniti e poi dall'avvio dei decreti sicurezza - la tendenza è stata quella di portare sul mare quello che è un problema di terra, la difesa dei confini. In mare non si fanno selezioni, in mare non si fanno attività di polizia, perché queste attività possono essere pericolose.
Frontex è un'istituzione europea nata a difesa dei confini. Quando è apparsa sulla scena, si pensò di darle come referente nazionale la Guardia di finanzia, cioè un Corpo che non si occupa di soccorso, ma di polizia. È lo snaturamento della cultura marinara, per cui il soccorso recede di fronte alle esigenze di polizia. Ma la Guardia costiera ha un'altra storia…».
Possibile che la Guardia costiera non fosse al corrente fino a disastro avvenuto? […]
«Conoscendo non solo i metodi, i protocolli della Guardia costiera, ma anche l'impegno che versa alla causa del soccorso, mi sono fatto l'idea che non sia stata chiamata in causa. La vicenda è stata assolta da altri, con finalità che non riguardavano il soccorso. L'andazzo è questo, prevale l'idea di portare avanti un'operazione di polizia. Si è instaurata questa mentalità, che ha prodotto questo effetto e altri ne produrrà». […]
Pulpiti, prediche. I Cinquestelle in aula chiedono dove sia Salvini, ma dimenticano dov’erano loro. Francesco Cundari su L’Inkiesta l’8 Marzo 2023.
Il dibattito sulle responsabilità politiche dietro la tragedia di Cutro ha raggiunto un tasso di ipocrisia superiore perfino ai nostri già altissimi standard, specialmente riguardo alla posizione di Conte e del M5s. Urge veloce ripasso
La tragedia di Cutro ha suscitato un giusto moto di indignazione nella politica e nell’opinione pubblica, spingendo anche la destra a moderare i toni – e ciò che più conta, a quanto pare, anche i provvedimenti – in tema di immigrazione. O almeno, questo è quello che sembrerebbe intenzionata a fare Giorgia Meloni.
Secondo tutti i giornali, infatti, la presidente del Consiglio starebbe cercando di contrastare la pressione di Matteo Salvini per un’ulteriore stretta alle norme, attraverso il ripristino di alcune misure previste nei suoi famigerati decreti sicurezza, varati nel 2018 e nel 2019, durante il primo governo Conte; misure che il Partito democratico riuscì molto faticosamente a far cancellare nel 2020, durante il secondo governo Conte.
Non per niente ieri Salvini è tornato a rivendicare esplicitamente quelle norme: «Negli ultimi dieci anni, quello in cui si verificarono meno morti nel Mediterraneo fu casualmente il 2019, anno in cui io ero ministro degli Interni e in cui erano in vigore i decreti sicurezza». Per la cronaca, il calo è da attribuire semmai agli accordi con la Libia firmati da Marco Minniti nel 2017, durante il governo Gentiloni (entrambi esponenti del Pd), e non è affatto detto che sia un merito, tenuto conto di come opera la cosiddetta guardia costiera libica e di dove finiscono i migranti trattenuti o intercettati da simili sentinelle (risposta breve: in veri e propri lager).
Premesso dunque che sull’argomento nessuno ha la coscienza a posto, il dibattito sull’immigrazione ha raggiunto però un tasso di ipocrisia superiore perfino ai nostri già altissimi standard, specialmente per quanto riguarda la posizione di Giuseppe Conte e del Movimento 5 stelle, che in questi giorni si scagliano con veemenza contro il governo, contro Salvini e persino contro il tentativo di «criminalizzare le ong».
Da quando hanno deciso di ricollocarsi sul mercato progressista, i grillini hanno infatti cercato di scaricare sul leader della Lega almeno gli aspetti più indigeribili (per uno stomaco di sinistra) delle loro scelte passate.
Ecco ad esempio quello che Conte ha detto a Piazza Pulita, su La7, il 16 settembre 2021 (cioè ben due anni dopo la caduta del governo giallo-verde): «Non è che nel decreto sicurezza c’è scritto che le persone migranti devono stare qualche giorno di più in mare e poi sbarcare, e in ogni caso il cosiddetto pos (place of safety, o porto sicuro, ndr) veniva dato e viene dato dal ministro dell’Interno, quindi non è stato di mia competenza».
Ancora meglio un paio di settimane prima, il 30 agosto 2021, in un’intervista al Corriere della sera. Qui Conte risponde a una domanda riguardo al comportamento di Salvini e ai suoi attacchi alla ministra Luciana Lamorgese sui migranti. E la risposta è questa: «Ma lui che cosa ha fatto sull’immigrazione? Già quando era un mio ministro cercai di fargli capire che un problema così complesso non si affronta con demagogia, facendo la voce grossa in televisione, sui giornali e sui social. Gli chiesi, senza successo, di migliorare il sistema dei rimpatri, ma non ci riuscì pur avendo i pieni poteri di ministro. Avrebbe dovuto lavorare con costanza nella cornice europea, dove non è mai stato troppo presente. Senza contare che i decreti sicurezza hanno messo per strada decine di migliaia di migranti dispersi per periferie e campagne. L’eliminazione della protezione umanitaria ha impedito a molti migranti di entrare nel sistema di accoglienza e ad altri di farli uscire in quanto non aventi più titolo, con il risultato che migliaia di migranti sono diventati invisibili. Insomma, Salvini da ministro dell’Interno sui rimpatri e sull’immigrazione ha fallito. È un dato di fatto».
A rileggerlo oggi, si stenta a credere che stesse parlando di un ministro del governo guidato da lui. Ma la verità è che Movimento 5 stelle e Lega, allora, fecero a gara nell’inasprire i decreti sicurezza e nell’attribuirsene il merito, a cominciare dagli emendamenti sulle multe milionarie e il sequestro delle navi alle ong che effettuavano i salvataggi (a proposito di «criminalizzazione delle ong»).
Le dichiarazioni dell’epoca, del resto, non lasciano spazio a equivoci. Queste le parole del ministro (cinquestelle) delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, l’11 gennaio 2019, ospite di Agorà, su Raitre, a proposito della politica dei porti chiusi: «Se non c’era il sottoscritto, la Lega non faceva niente, se io e Salvini non agivamo contemporaneamente: io sono responsabile della sicurezza della navigazione fino all’attracco dell’imbarcazione al porto, lui è responsabile dopo, per lo sbarco e l’ordine pubblico». E ancora: «Nel 2018, solo grazie a sette mesi del governo del cambiamento, meno 90 per cento di sbarchi in Italia, sa cosa significa, quanti morti in meno?». E infine: «…se queste due politiche, questi due elementi non si integravano non c’era questo -90 per cento. È grazie al buon lavoro di due forze politiche chiare, coerenti, fatto insieme, che si portano a casa i risultati».
Vi sembrano le parole di un ministro costretto ad accettare una politica che non condivide? O non vi sembra piuttosto la legittima rivendicazione di un risultato che allora il Movimento 5 stelle non voleva lasciare al solo Salvini?
Ancora più chiaro, in questo senso, quello che lo stesso Toninelli diceva quattro mesi dopo, il 18 maggio 2019. Domanda del giornalista: sulla questione dei porti chiusi decide Conte o decide Salvini alla fine? Risposta: «Fino a oggi non Salvini, ma Salvini assieme al sottoscritto e al presidente del Consiglio Conte abbiamo diminuito di una cifra veramente enorme il numero degli sbarchi. Significa che stiamo facendo un buon lavoro di squadra. L’Italia torna ad andare avanti a testa alta su un problema epocale come quello dell’immigrazione in cui con i governi di centrosinistra era stata abbandonata».
Ieri in Parlamento, durante l’informativa del ministro degli Interni Matteo Piantedosi, il Movimento 5 stelle ha chiesto più volte, polemicamente, dove fosse Salvini, e perché non fosse anche lui in aula, a prendersi le sue responsabilità. Dimenticando però dov’erano loro, quando le scelte decisive, in tema di immigrazione, sbarchi e soccorsi, venivano compiute.
Se effettivamente la tragedia di Cutro fosse stata causata anche dalla scelta di dare priorità alle esigenze di polizia rispetto alle esigenze di soccorso, come tanti esponenti dell’opposizione hanno sostenuto ieri, sarebbe giusto chiederne conto a Salvini, ancor più che a Piantedosi. Ma qualunque intemerata contro il leader della Lega pretenda di sorvolare sulle responsabilità di Conte e del Movimento 5 stelle, da loro stessi pubblicamente rivendicate per oltre un anno, farebbe un pessimo servizio alla causa, finendo per confermare negli italiani l’idea che alla fine sia tutto, sempre e solo un gioco delle parti.
Lamorgese con i pm in difesa di Conte: "Militari ad alzano? Lui non lo sapeva". Maria Sorbi il 7 Marzo 2023 su Il Giornale.
L'allora ministro dell'Interno: "Prima del 6 marzo già fatte le verifiche sul campo"
Tre anni fa esatti a quest’ora. Gli ospedali di Bergamo sono agonizzanti. I casi di Covid sono 5.061 (di cui 3.420 solo in Lombardia), è appena terminata la riunione fiume della Protezione civile e del Cts in cui ci si tormenta sul «zona rossa sì o zona rossa no» ad Alzano e Nembro. Mentre si tentenna, l’8 marzo - con i contagi saliti a 7.375 di cui 4.189 in Lombardia - il governo elabora una nuova bozza di decreto e scatta la zona arancione per Regione Lombardia e altre 14 province.
Siamo alla vigilia del lockdown, che comincia il 9 marzo.
Ma la zona rossa per Alzano e Nembro non arriva. E nonostante il premier Giuseppe Conte abbia riferito ai pm della necessità di «intervenire con misure drastiche» nella Bergamasca, non traduce in decisione la sua preoccupazione. Dando il tempo al virus di devastare la zona. Non solo, a quanto riferisce Giovanni Rezza, direttore Prevenzione del ministero della Salute ed ex direttore Malattie infettive dell’Iss, sentito come teste a giugno 2020, «mi sembrava che il presidente del Consiglio non fosse convinto e avesse bisogno di un forte supporto per convincersi della opportunità di istituire la zona rossa. Io uscii da quella riunione (del 6 marzo, ndr) con l’idea che ci fosse indecisione. La mia fissazione restava la necessità di una zona rossa a Nembro e Alzano». La sera del 6 marzo è tutto pronto per «cinturare» i comuni più colpiti e tentare di circoscrivere i contagi. La polizia chiede 24-30 ore di tempo per mettere in atto il piano e isolare l’area. Ma il via libera di Conte non arriva, annacquato poi dal decreto sulla zona arancione. A confermarlo è il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che riferisce: «Il capo della Polizia programmò un sopralluogo organizzativo, per rendersi conto di come fosse la situazione e del numero di persone necessarie.
Conte non sapeva, il fine era di natura preventiva e ricognitiva. Tutte le disposizioni di cui sto parlando, formulate da parte mia non sono cristallizzate in provvedimenti formali: si è trattato di disposizioni orali». E orali restano. La firma per ufficializzarle non arriva.
«A quel punto abbiamo ritirato gli uomini».
Si temporeggia, intanto i decessi si avvicinano pericolosamente a quota 400. «Credo che l’1 o il 2 marzo Locatelli, unitamente a Brusaferro, già avevano anticipato la situazione epidemiologica di Alzano Lombardo e Nembro - riferiscono i verbali della testimonianza di Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute - Locatelli evidenziava in particolare l’esigenza di attenzionare la zona di Bergamo per il numero dei casi significativo che si stava registrando nei comuni vicini». E a quanto pare anche il sindaco di Alzano, Camillo Bertocchi, dà la zona rossa per fatta: «Non l’ho chiesta io, ma ero convinto scattasse dal 3 marzo». «Non sono in grado di dire perché il governo non abbia poi adottato questa decisione, pur attesa; ho trovato seguito l’istituzione della zona rossa» riferisce anche l’assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera, sentito dagli inquirenti quattro mesi dopo. L’ex presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti invece ammette di avere chiesto alla Regione di non fare la zona rossa, ma di limitare le chiusure solo alle aziende non essenziali. Agli atti anche le dichiarazioni di Walter Ricciardi, all’epoca consigliere dell’allora ministro Roberto Speranza. È uno dei sostenitori della linea dura fin dall’inizio, fin dalla partita Atalanta-Valencia giocata a San Siro il 19 febbraio. «Ma all’estero pensavano stessimo esagerando» riferisce.
L’accusa di Renzi al primo governo Conte: «Fu lui a cambiare le regole sul soccorso». La strage di Crotone riapre la polemica sui decreti sicurezza, voluti all’epoca da Salvini e Piantedosi. Ma la retorica sui migranti dura almeno dal 2017, l’anno degli accordi Italia-Libia. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 3 marzo 2023
Fu il governo guidato da Giuseppe Conte, in cui Matteo Salvini era vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, a cambiare le regole d’ingaggio sui migranti, in particolare per quel che riguarda la Guardia Costiera. L’accusa lanciata da Matteo Renzi è di quelle destinate a far parlare per giorni, perché è vero che l’ex presidente del Consiglio attacca allo stesso tempo l’attuale titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, ma è anche vero che mentre il mare davanti a Cutro continua a restituire i cadaveri dei migranti, il leader di Italia viva sposta l’attenzione sul leader M5S, che respinge al mittente.
Il riferimento di Renzi è al governo Conte I, quello dei decreti sicurezza fortemente voluti da Salvini e orchestrati dallo stesso Piantedosi, che all’epoca era capo di gabinetto del segretario del Carroccio. Un governo nel quale l’alter ego di Salvini era Luigi Di Maio, che non ancora folgorato sulla via di Città della Pieve dalla visione di Mario Draghi parlava di «taxi del mare» mentre Salvini “chiudeva i porti” alle navi cariche di persone.
Ma la retorica sui migranti è di vecchia data, e se parliamo di Guardia Costiera non possiamo non ricordare quella libica, accusata da organismi nazionali e internazionali di sparare su pescherecci (anche italiani), che provano a soccorrere i migranti nel canale di Sicilia e che dopo aver riportato in Libia i migranti li costringe nei “centri d’accoglienza” che sarebbe più giusto definire lager. Quella stessa Guardai costiera libica che l’Italia, ormai dal 2017, finanzia con il memorandum d’intesa firmato dall’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, messo in piedi dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, e che si è rinnovato automaticamente nel 2020 e nel 2022.
Gli scopi di quell’accordo, ovviamente, erano nobili. Prevede infatti che il governo italiano fornisca aiuti economici e supporto tecnico alle autorità libiche (in particolare alla Guardia costiera), nel tentativo di ridurre il traffico di migranti attraverso il Mar Mediterraneo, mentre in cambio la Libia si impegna a migliorare le condizioni dei propri centri di accoglienza per migranti. Il risultato è stato l’opposto. Dalla Libia continuano a partire migliaia di migranti ogni anno, e quelli che restano lo fanno perché costretti dalla Guardia costiera nei campi di concentramento a suon di torture, percosse, stupri e omicidi. Secondo Save the Children, dal 2017 all’11 ottobre 2022 quasi centomila bambini, donne e uomini sono stati intercettati in mare dai dalla Guardia Costiera libica, per poi essere riportate in un Paese che non può essere considerato sicuro.
Insomma la retorica sui migranti, che raramente si trasforma in azioni concrete che migliorino la vita delle persone nei loro paesi d’origine evitando che si imbarchino in traversate che possono concludersi come il naufragio di Cutro, va avanti da anni.
Secondo Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di porto, oggi in pensione, è però con il governo Conte I che tutto è cambiato, perché, ha spiegato, «le nostre motovedette sono diventate i “taxi del mare”, i nostri uomini da eroi sono diventati la cinghia di trasmissione, le nostre navi, come la Diciotti e la Gregoretti, che avevano fatto niente più che il loro dovere salvando i migranti in pericolo, sono state lasciate fuori dai porti italiani». Per l’ammiraglio da allora «è cambiato il clima politico, ma sono cambiate anche le regole d’ingaggio ed è cambiata l’immagine stessa del Corpo». Quel Corpo che oggi Salvini difende, perché «codardamente coinvolto in una squallida battaglia politica» e che «se tutelerà in tutte le sedi opportune comprese quelle giudiziarie la propria onorabilità farà solo e soltanto il suo dovere».
Conte intanto butta la palla nel campo del governo, spiega la necessità per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni «di fare chiarezza» perché «non basta una letterina a Bruxelles per chiedere un nuovo sforzo congiunto europeo» e perché «deve chiarire chi è perché non è intervenuto». Ma al momento l’unico chiamato a spiegare quanto accaduto la notte tra domenica e lunedì è Piantedosi, che martedì alle 13 riferirà alla Camera, con le opposizioni pronte a dare battaglia.
Eravamo adulti. Riepilogo sulla mania di chiedere le dimissioni nella società opinionistica di massa. Guia Soncini su L’Inkiesta l’8 Marzo 2023
Gli intellettuali, gli influencer, gli aspiranti Gabibbo e il mio fruttivendolo corrono a usare gli stessi social per dire che la Meloni si deve dimettere dopo la morte di settantadue persone. Come hanno già fatto in almeno cento altre occasioni meno gravi nell’ultimo mese
Riepilogando. Attribuire la responsabilità delle morti non naturali è ormai lo sport preferito degli esseri umani con connessione wifi e bisogni primari abbastanza risolti da poter passare le giornate a polemizzare: s’incolpa un concetto di fantasia quale la competitività nelle università italiane per i suicidi giovanili, figuriamoci se non cerchiamo un colpevole per il naufragio d’una barca di disperati.
Riepilogando. Le settantadue morti al largo della Calabria non si dovrebbe saper bene a chi attribuirle. Al governo che ha fatto i decreti sicurezza? Ai governi che non li hanno annullati? Al governo in carica? Indizio: trattasi di quattro governi diversi. Eppure siamo ogni volta sicurissimi delle responsabilità da attribuire – ma mica perché siamo propagandisti, eh.
Riepilogando. Giorgia Meloni, avrà agevole modo di dire chi voglia darle la colpa, andava nei talk-show a dire che le navi andavano fatte affondare, e così non sarebbero più partite: stava quindi annunciando le politiche che sta in effetti attuando. Si potrebbe però con lo stesso criterio ricordare che Meloni accusava Renzi, allora presidente del Consiglio, di strage colposa per analogo naufragio: stava quindi dicendoci che se muore una nave di disperati è colpevole chi è al governo e che quindi lei al governo non avrebbe lasciato succedesse la stessa cosa?
Riepilogando. In Italia sono morti profughi sotto governi di destra, di sinistra, e di ambo le parti. Ho come il sospetto che una soluzione semplice a un problema complesso qual è quello delle migrazioni non esista, ma per fortuna a noialtri che non governiamo nessuno chiede una soluzione, solo di tenerci pronti a strillare che è uno scandalo quando le soluzioni non vengono trovate.
Riepilogando. Quando Giorgia Meloni, ingenua come Jude Law che in Closer chiede a Natalie Portman di guardarlo negli occhi come se quella fosse garanzia d’onestà, chiede se davvero pensiamo che lei sia contenta che siano morti, quel che finge di chiedere è: «davvero mi ritenete insensibile»; quel che sta chiedendo è: «davvero mi ritenete scema».
Riepilogando. Siamo tutti abbastanza adulti da sapere che ciò che uno bercia allorché all’opposizione e in campagna elettorale non è parente di ciò che farà allorché caricato di responsabilità di governo. Siamo tutti abbastanza adulti da sapere che nessun governo vuole che gli muoiano profughi sulle spiagge: non per generosa sensibilità; egoisticamente, perché i morti diventano un problema politico. Siamo tutti abbastanza adulti, ma non lo siamo.
Riepilogando. Non riteniamo particolarmente scema la Meloni, ma non è mica quello il punto. È che abbiamo un telefono, e quel telefono è collegato al mondo senza comporre un numero. C’erano una volta i telefoni che usavi per chiamare qualcuno che conoscevi. C’erano una volta le notizie che ti andavi a cercare. Adesso nel telefono ti arriva il mondo, adesso il mondo ti riguarda anche se non hai i mezzi per affrontarlo, adesso il mondo pretende che tu abbia un’opinione su di esso, ti vibra in tasca sollecitandoti prese di posizione.
Riepilogando. Mentre sospiriamo nostalgia sui politici del Novecento, quelli che sì erano dignitosi, che sì erano perbene, che sì sapevano governare, non somigliamo minimamente all’elettorato del Novecento. Non è neppure del tutto nostra responsabilità: li avrei voluti vedere, Churchill o De Gasperi, governare un mondo con la quantità di complicazioni portate dal secolo successivo, e dovendo rispondere a un elettorato coi telefoni che vanno sull’internet e l’opinionismo di massa in servizio permanente effettivo. Berlinguer, invece di andare in spiaggia con la giacca, avrebbe aperto un chiringuito.
Riepilogando. Muoiono settantadue persone, e tutti – l’opposizione, le chattering classes, gli intellettuali e gli influencer e gli aspiranti Gabibbo e il mio fruttivendolo – corrono a usare gli stessi social per dire che la Meloni si deve dimettere, che Piantedosi si deve vergognare, che è uno scandalo. Solo che gli stessi toni e gli stessi lemmi sono su quegli stessi mezzi di comunicazione già stati usati – dall’opposizione e dagli intellettuali e dal mio fruttivendolo e da tutti gli aspiranti Gabibbo che sono ormai la maggioranza della popolazione che rumoreggia: quella silente, preziosissima, tendiamo a non conteggiarla – in almeno cento occasioni nell’ultimo mese.
Riepilogando. Se chiedi dimissioni quando una cattolica dice che purtroppo l’aborto è una scelta che le donne possono praticare, quando un sindaco dice che Elly Schlein è più cessa di Belen, quando La Russa dice che le donne di destra erano più bonazze prima; se dici più spesso «deve dimettersi» di quanto tu dica «no comment», quando poi si presenta il momento di decine di morti, quanto è ormai deprezzata una frase che dovrebbe essere dirompente quale «chiedo le sue dimissioni»?
Riepilogando: è peggiorato chi ci governa, rispetto al Novecento? Siamo peggiorati noi elettori? Un po’ e un po’?
DAGONOTA l’1 marzo 2023.
Il naufragio del barcone al largo delle coste calabresi, che ha causato 67 morti, si poteva evitare? Di sicuro le autorità italiane hanno fatto un pastrocchio: l’allarme è arrivato alla Guardia di Finanza di Crotone, che ha trattato il caso come un’operazione di polizia e non di soccorso.
Per questo, sono partite le motovedette delle Fiamme Gialle e non quelle della Guardia Costiera, che invece sono adatte ad affrontare il mare forza 3-4 e sono uscite dal porto di Reggio Calabria solo a naufragio avvenuto. Le regole di ingaggio prevedono infatti che le operazioni siano condotte dalla Guardia di Finanza, fintanto che l’operazione non sia ufficialmente riconosciuta come “evento SAR” (Search and Rescue).
Frontex ha puntato il dito sull’Italia: l’agenzia europea sostiene infatti che l’allarme era stato lanciato, dopo che un loro aereo, che sorvolava l’area, ha avvistato l’imbarcazione, “pesantemente sovraffollata”, che si dirigeva verso le coste calabresi. Non solo, 23 ore prima del naufragio, sarebbe arrivato anche un dispaccio del Coordinamento Sar che segnalava la presenza dell’imbarcazione (vedi articolo di Giusi Fasano sul “Corriere”). A chi è arrivata questa comunicazione?
La Guardia costiera ha di fatto ammesso di aver ricevuto la segnalazione di Frontex, ma ha giustificato la mancanza di intervento adducendo il fatto che il barcone stesse “navigando regolarmente” (ricostruzione in parte smentita dalla stessa Frontex).
Le autorità italiane hanno quindi inviato le vedette della Guardia di Finanza per ragioni di law enforcement, cioè di polizia, e non di soccorso. Le navi però sono state costrette a rientrare in porto per le condizioni avverse. Soltanto nelle prime ore di domenica è stata lanciata l’operazione di salvataggio, ma a quel punto era già troppo tardi.
La domanda è: chi ha dato l’ordine? E perché non è stata inviata subito la Guardia costiera? Sia come sia, l’episodio fa tornare alla mente quel che diceva Giuliano Amato a proposito del profilo ideale da mandare al Viminale. Il ragionamento del “Dottor Sottile”, che stigmatizzava il ricorso eccessivo ai tecnici, era: i prefetti badano solo all’ordine pubblico, ma al ministero degli Interni ci vuole un politico, che sappia distinguere caso per caso e soprattutto valutare l’opportunità delle scelte, indipendentemente dalla mera applicazione della legge.
"Il decreto Salvini all’origine della strage". Ma Repubblica smentisce se stessa. In appena 24 ore, La Repubblica ha accusato i decreti Salvini di aver causato la strage di Cutro per poi smentirsi con l'intervista a Paola De Micheli. Francesca Galici il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.
La tragedia di Cutro, fin dall'inizio, è stata utilizzata come strumento politico dall'opposizione, per attaccare l'operato del governo e delegittimarne l'operato. Anche i media di parte si sono attivati per attaccare il governo Meloni, come dimostra l'attacco sferrato dal direttore de la Repubblica al ministro Salvini: "Il decreto firmato da Salvini nel 2019 che impedisce alla guardia costiera l’intervento in acque extra territoriali è all’origine della strage di Cutro. Un errore da correggere, una responsabilità collettiva".
Un attacco feroce contro il ministro, che viene rapidamente sconfessato dalla senatrice Mara Bizzotto, vicepresidente vicario dei senatori della Lega, che riporta un'intervista rilasciata proprio oggi da Paola De Micheli, ex ministro dem delle Infrastrutture, proprio al giornale di Maurizio Molinari.
"Ho scritto un atto di indirizzo che recepisse le modifiche al codice della navigazione internazionale per il salvataggio in mare. Con quel mio provvedimento c'era la copertura giuridica totale anche da parte dell'Italia sulle procedure internazionali già comunque applicate. La stella polare era: le operazioni di salvataggio devono scattare a qualsiasi condizione", ha dichiarato Paola De Micheli, a La Repubblica, per poi aggiungere: "Il clima politico è evidentemente diverso. Ma non credo ci sia un meccanismo di condizionamento. Nella guardia costiera ci sono uomini e donne che giurano di salvare altre persone, militari che si attengono alle regole, non le interpretano".
Davanti a queste parole, che di fatto smentiscono Molinari, Bizzotto aggiunge: "L'ex ministro del Pd oggi ammette al giornale l'inesistenza di meccanismi di condizionamento verso la guardia costiera, confutando la tesi sostenuta dal direttore Molinari il giorno prima, che attribuiva le colpe a Salvini. Certo, non avevamo bisogno del contributo di De Micheli per sapere che la Guardia costiera, purtroppo recentemente vilipesa, fa il suo dovere. Strano però che, a un giorno di distanza, il quotidiano Repubblica smentisca se stesso".
Strage di Steccato di Cutro, il diritto di sapere oltre le polemiche. ROCCO VALENTI su Il Quotidiano del Sud l’1 marzo 2023.
C’è un diritto che ognuno di noi ha e che va oltre le polemiche, il diritto di sapere perché a Cutro una disperata speranza è diventata strage
C’è qualcosa che va chiarito in quello che è accaduto (o, meglio, non è accaduto) tra le ultime ore di sabato scorso e le prime del giorno successivo. Nel lasso di tempo, cioè, tra l’avvistamento in mare (a 40 miglia dalla costa calabrese) del barcone carico di migranti e il momento del naufragio a meno di un centinaio di metri dalla battigia a Steccato di Cutro, con 66 morti accertati e ancora numerosi dispersi.
La piega che ha preso il dibattito nazionale su un episodio devastante in termini di perdite umane presenta aspetti indecorosi. Non solo per le strumentalizzazioni politiche, a destra e a sinistra, per le infelici dichiarazioni da esponenti istituzionali, ma anche per la straordinaria capacità di non voler prendere atto – salvo sparute eccezioni – che di fronte ad una tragedia immane costata la vita a decine di mamme, papà e bambini non c’è spazio per buchi neri nella ricostruzione di quello che è successo, e che, in estrema sintesi, può essere ricordato così: un barcone carico di persone, proveniente dalla Turchia, è arrivato a poche decine di metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, ha urtato su una secca e si è capovolto; molti degli occupanti cadendo in acqua sono morti. Punto.
Scopri tutto ciò che c’è da sapere sul Naufragio di migranti diventato la strage Cutro
Che si trattasse di migranti – se proprio a qualcuno interessi per completezza di informazione – lo si è saputo ufficialmente solo a tragedia consumata. Così come solo all’arrivo della prima pattuglia di carabinieri sulla spiaggia della morte si è avuta la prima percezione dell’entità della tragedia.
STRAGE DI CUTRO, IL DIRITTO DI SAPERE COSA È SUCCESSO
Torniamo invece alla tarda sera di sabato scorso. Intorno alle 22,30 arriva alle autorità italiane la segnalazione, da parte di Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), sulla presenza del barcone al largo della costa calabrese.
“Nelle tarde ore di sabato, un aereo di Frontex che sorvegliava l’area italiana di ricerca e soccorso nell’ambito dell’operazione Themis ha avvistato un’imbarcazione pesantemente sovraffollata che si dirigeva verso le coste italiane: come sempre in questi casi, abbiamo immediatamente informato tutte le autorità italiane dell’avvistamento”, ha riferito all’Ansa un portavoce di Frontex. Aggiungendo: “Il nostro aereo ha continuato a monitorare la zona fino a quando non è dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante. L’imbarcazione, che trasportava circa 200 persone, stava navigando da sola e non c’erano segni di pericolo. Le autorità italiane hanno inviato due motovedette per intercettare l’imbarcazione, ma le condizioni meteorologiche avverse le hanno costrette a rientrare in porto…”
Dal canto suo, la Guardia costiera ha precisato che “Nessuna segnalazione telefonica è mai pervenuta ad alcuna articolazione della Guardia costiera dai migranti, presenti a bordo della citata imbarcazione, o da altri soggetti come avviene in simili situazioni”. E poi: “La sera di sabato 25 febbraio un velivolo Frontex avvistava un’unità in navigazione nel Mar Ionio.
L’unità risultava navigare regolarmente, a 6 nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con solo una persona visibile sulla coperta della nave – prosegue la Guardia costiera – Il velivolo Frontex inviava la segnalazione al punto di contatto nazionale preposto per l’attività di law enforcement, informando, tra gli altri, per conoscenza, anche la Centrale operativa della Guardia costiera di Roma.
ALLE 4.30 LE SEGNALAZIONI DA TERRA SULLA IMBARCAZIONE IN PERICOLO
A seguito di tale segnalazione, la Guardia di Finanza comunicava l’avvenuta attivazione del proprio dispositivo, già operante in mare, per intercettare l’imbarcazione – aggiunge – Alle 4.30 circa, giungevano alla Guardia Costiera alcune segnalazioni telefoniche da parte di soggetti presenti a terra relative ad un’imbarcazione in pericolo a pochi metri dalla costa. I carabinieri, precedentemente allertati dalla Guardia di Finanza, giunti in zona, riportavano alla Guardia costiera l’avvenuto naufragio. Questa è la prima informazione di emergenza pervenuta alla Guardia Costiera riguardante l’imbarcazione avvistata dal velivolo Frontex”.
Ora, al di là della non secondaria circostanza citata dalla fonte dell’Ansa sull’imbarcazione “pesantemente sovraffollata”, al di là di valutazioni tecniche di compatibilità tra il “pesantemente sovraffollata”, la mancanza di “segni di pericolo” e le “buone condizioni di galleggiabilità” (per le quali non abbiamo alcuna competenza), rimane un primo interrogativo, dal quale ne discendono altri: perché il mezzo aereo di Frontex ha continuato a rimanere in zona prima di fare rientro perché aveva finito il carburante? Frontex ha i suoi protocolli d’intervento, di sicuro, ma è probabile che di fronte ad un’imbarcazione comunque non meglio identificata si cerca di saperne di più, per usare termini spiccioli, tant’è che quell’aereo è rimasto in zona fino a che non ha finito la “benzina”.
NON C’ERANO ALTRI MEZZI DA ATTIVARE?
E poi? Non c’erano altri mezzi aerei da attivare, soprattutto se c’era quella stima di circa duecento persone a bordo di un caicco? È vero, sono state allertate le autorità italiane e due motovedette della Guardia di Finanza hanno dovuto desistere dall’intervenire per le proibitive condizioni del mare. Tutto legittimo, soprattutto per chi conosce direttamente lo spirito e la grande generosità in mare dei militari delle motovedette. Ma il problema è un altro. E’ possibile, allora, che di quel barcone “pesantemente sovraffollato” si sono riallacciati i contatti solo dopo che i cadaveri galleggiavano nelle sfortunate acque di Steccato di Cutro?
È possibile che l’esito drammatico di quel viaggio l’abbiano dovuto scoprire i carabinieri di Crotone della prima pattuglia arrivata là in poco più di dieci minuti dalla telefonata al 112 con la quale era partita la richiesta di aiuto da uno dei migranti (carabinieri che si sono buttati in acqua, nel buio, per cercare di salvare qualcuno, così come gli altri che sono arrivati dopo tra forze di polizia, pescatori del luogo e volontari)? No, non è possibile. Non è concepibile che nell’epoca dell’intelligenza artificiale, in Calabria, terra di sbarchi da decenni, toccata dalla “rotta turca” da decenni, non ci siano mezzi capaci di intervenire con il mare grosso.
STRAGE DI CUTRO, PRIMO AVVISTAMENTO ALLE 22.30
Ha detto bene il governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, l’altro giorno in un intervento televisivo: “In Calabria i migranti li vediamo sbarcare quotidianamente, e li soccorriamo, evitando di considerarli un problema. Tante volte si tratta di bambini e di donne che scappano da Paesi in guerra e che cercano una vita migliore. Le vittime di questa sciagura hanno pagato migliaia di euro per inseguire un sogno che, purtroppo, li ha condotti alla morte.
L’imbarcazione, lo ha detto il ministro Piantedosi, che ringrazio per essere subito venuto in Calabria, è stata segnalata da Frontex intorno alle 22.30 di sabato sera. Era partita una motovedetta della Guardia di Finanza, ma è dovuta rientrare in porto a causa del mare forza 7, una condizione di oggettiva difficoltà. Questo però ci dice che vanno rafforzati gli strumenti e le misure per il soccorso dei migranti. Nel 2023 l’Europa e i Paesi coinvolti da questi fenomeni devono essere in grado di effettuare, in ogni condizione, salvataggi in mare”. Parole di buon senso che meritano plauso, così come meritano riconoscenza formale e sostanziale tutti quelli, carabinieri per primi, che si sono gettati in acqua tra i legni che restavano del barcone distrutto.
STRAGE DI CUTRO, I CITTADINI HANNO IL SACROSANTO DIRITTO DI SAPERE
Perché il problema vero non è quello dei soccorsi quando la tragedia era già consumata. Il problema vero è che un mezzo aereo di Frontex ha avvistato quel barcone poco dopo le dieci di sera di sabato e fino alle 4 del mattino di domenica, momento della prima notizia del naufragio avvenuto, non c’erano mezzi idonei che potessero intervenire. In una situazione che certamente lo richiedeva, perché se il barcone era al largo della Calabria, il mare grosso era per tutti, a maggior ragione per quel caicco “pesantemente sovraffollato”.
C’è qualcosa, dunque, che va chiarito. E deve farlo lo Stato, perché i cittadini (anche quelli a cui non interessano chiacchiere e controchiacchiere della politica) hanno il sacrosanto diritto di sapere.
Dal primo allarme all'intervento: chi deve decidere e il rebus di poteri. Gli Stati sono competenti per le zone Sar. Le forze di salvataggio dipendono da attività di polizia e soccorso. Patricia Tagliaferri il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.
1. In caso di emergenza in mare di chi è la competenza dei soccorsi?
Deve intervenire lo Stato responsabile di un'area Sar, zona di ricerca e salvataggio sulla quale ciascun Paese esercita la competenza al soccorso di imbarcazioni in situazione di criticità attraverso un Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo.
2. Cosa deve fare il Paese responsabile della zona Sar dove è avvenuta l'emergenza?
Coordinare le operazioni di soccorso con l'impiego della propria flotta, ma anche con unità militari e civili che si trovino in prossimità dell'imbarcazione in difficoltà. Nel caso in cui un'autorità marittima riceva informazioni di un'emergenza in corso in un'area Sar di competenza di un altro Stato informa il Rescue Coordination Center competente ed estende la notizia a tutte le unità in transito in quell'area Sar.
3. Quale Paese è obbligato a indicare il porto sicuro di approdo dopo un soccorso?
Il Paese responsabile della zona Sar in cui è accaduto l'evento critico deve fornire al più presto un posto sicuro (place of safety), cioè un luogo ove, oltre alla cura dei bisogni primari, sia garantito ai naufraghi l'esercizio dei diritti fondamentali, tra cui quello di asilo.
4. Qual è il ruolo di Frontex?
L'Agenzia europea della guardia frontiera e costiera è tenuta a fornire assistenza tecnica e operativa in mare a sostegno delle operazioni di soccorso che possono verificarsi durante la sorveglianza delle frontiere. In caso di avvistamento di un'imbarcazione in difficoltà Frontex fa una segnalazione al Centro di coordinamento internazionale dell'operazione Themis - la nuova missione navale europea che opera nel Mediterraneo centrale assistendo l'Italia nella gestione del flusso dei migranti - e alle altre autorità italiane competenti, fornendo la posizione della barca, la rotta e la velocità. Ma è compito delle autorità nazionali classificare o meno un evento come Sar e decidere i mezzi da inviare.
5. Quando interviene la Guardia Costiera?
Quando parte il dispositivo Sar (Search and Rescue), che prevede l'invio di mezzi navali e aerei, uomini e mezzi terrestri, nella zona della possibile emergenza.
6. E quando la Guardia di Finanza?
Nel caso in cui Frontex segnali la barca all'Icc, International coordination centre, ipotizzando possibili reati, come casi sospetti di traffico di migranti o di contrabbando. Situazioni che vengono gestite come operazioni di polizia, non di soccorso, con mezzi militari che servono per pattugliare, non per salvare le persone.
7. Da chi dipende la Guardia Costiera?
Funzionalmente dal ministero delle Infrastrutture in materia di sicurezza marittima, mentre è l'Imrcc - che si coordina con il ministero degli Interni - a coordinare gli interventi Sar.
8. Quali sono i paletti imposti alle Ong dall'ultimo decreto?
Devono aver raccolto tempestivamente l'intenzione dei migranti di avere protezione internazionale e sono obbligate a richiedere alle autorità, nell'immediatezza dell'evento, l'assegnazione del porto di sbarco per poi raggiungerlo tempestivamente.
L'ultima ossessione di media e opposizione: attaccare e affondare la Guardia costiera. La stampa di sinistra ha già emesso il suo verdetto: "Salvini è il colpevole". Felice Manti il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.
Non c'è bisogno di un processo. La stampa di sinistra ha già deciso che la Guardia costiera ha le mani sporche del sangue delle ottantacinque vittime della strage della disperazione sulle coste di Crotone. Bastava leggere i giornali di ieri: secondo Repubblica è colpa di Matteo Salvini «se nessuno nel centro di coordinamento della nostra Guardia Costiera di Pratica di mare ritiene di aprire una pratica Sar, facendo chiedere alle imbarcazioni che la Guardia costiera ha a disposizione di sfidare il mare in tempesta contro quel naviglio sconosciuto». Il quotidiano di Largo Fochetti è già Cassazione: «Nessuno ha voluto salvarli», anzi «li hanno lasciati morire tutti e sono andati a letto senza curarsi di quel barcone, dopo uno sconcertante rimpallo di responsabilità tra Frontex, Guardia di Finanza e Guardia Costiera». La Stampa parla di «Strage di Stato», di bugie, omissioni e rimpalli tra Viminale, Guardia Costiera e Frontex: «Quanti altri corpi dovrà restituire il mare di Crotone perché il governo italiano si decida a fornire (...) una risposta vera, non ideologica, che non scarichi meschinamente sui migranti la responsabilità...». Le ricostruzioni sul «buco di sei ore negli Sos» - alle 5.40 la Guardia Costiera avrebbe contattato uno dei pescatori - chiamano in causa persino i testimoni del massacro («La Capitaneria di porto ha mandato me in spiaggia a vedere») mentre «nessuna unità della Guardia costiera sarebbe stata impiegata nel soccorso». Insomma, persino i pescatori di Crotone vengono strumentalizzati pur di attaccare il ministro delle Infrastrutture Salvini che ha la delega alla Guardia Costiera, come se fosse il «suo» esercito che il leghista comanda da Via Bellerio. La sinistra agita i corpi delle vittime nel macabro balletto di responsabilità, il Domani spara a palle incatenate: «Salvini e la sua Guardia Costiera hanno lasciato morire i migranti, perché il ministro responsabile dei soccorsi non si è mosso? È stato informato durante la notte? Restano troppe domande che abbiamo girato alla Guardia costiera, al portavoce del ministro Salvini, ma non abbiamo ottenuto risposta». Poi c'è il Fatto quotidiano, che sostiene di aver ricostruito tutto l'accaduto: «Dobbiamo rientrare, dicono i finanzieri alla Capitaneria di Porto di Crotone tra l'una e le due di notte del 26 febbraio» mentre le loro motovedette tentavano di rintracciare invano il caicco individuato alle 22:31 della sera prima da Frontex ed erano costrette a tornare perché incapaci di reggere il mare. «Almeno un CP 321 della Guardia Costiera di Crotone» che resiste a un mare forza 12 «è potenzialmente pronto per salpare, ma resta lì perché secondo il Fatto non c'erano i presupposti per una operazione di salvataggio Sar «visto che non ci sono persone visibili a bordo. Un'analisi drammaticamente sbagliata». I giudici di carta hanno già emesso il verdetto.
Senza soccorso. Salvare le vite dei migranti era il «vanto» della Guardia Costiera, poi sono arrivati Salvini e Di Maio. Linkiesta il 2 Marzo 2023.
Dopo la strage di Cutro, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di porto, racconta che con il governo Conte Uno «le nostre motovedette sono diventate i “taxi del mare”, i nostri uomini da eroi sono diventati la cinghia di trasmissione, le nostre navi, come la Diciotti e la Gregoretti, sono state lasciate fuori dai porti italiani»
«L’attività della mia Guardia costiera è stata fortunata. Salvavamo centinaia di migliaia di vite umane e nonostante il grandissimo lavoro e lo sforzo immane, per tutti noi era un vanto, un orgoglio portare a terra ogni persona. E soprattutto ti arrivava il riconoscimento, la stima di un Paese intero, persino l’invidia. Ed è stato per tutta Italia un grande arricchimento poter dire: se hai salvato una vita, hai salvato il mondo».
Mentre la Guardia Costiera è nell’occhio del ciclone per il mancato salvataggio del barcone di Cutro, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di porto, oggi in pensione, ricorda in un’intervista a Repubblica cosa è stata, fino a qualche anno fa, l’attività della Guardia costiera in Italia e la sua percezione nell’opinione pubblica.
Poi al governo sono arrivati i gialloverdi del governo Conte Uno, con Matteo Salvini e Luigi Di Maio. E tutto è cambiato.
«È cambiato che a un certo punto le nostre motovedette sono diventate i “taxi del mare”, i nostri uomini da eroi sono diventati la cinghia di trasmissione, le nostre navi, come la Diciotti e la Gregoretti, che avevano fatto niente più che il loro dovere salvando i migranti in pericolo, sono state lasciate fuori dai porti italiani», racconta l’ammiraglio.
Con il governo Conte Uno, prosegue, «è cambiato il clima politico, ma sono cambiate anche le regole d’ingaggio ed è cambiata l’immagine stessa del Corpo», spiega. «Noi abbiamo potuto raccontare la nostra attività, noi portavamo i giornalisti sulle motovedette, per mostrare a loro e a tutto il mondo cosa significava salvare vite in mare. Non è cosa facile avere a che fare con il mare, ogni soccorso è una storia a sé, impari e immagazzini un capitale culturale che abbiamo potuto trasferire ai nostri giovani. Poi, improvvisamente, l’attività di salvataggio dei migranti è persino scomparsa dalle foto dei calendari del Corpo».
Prosegue: «I limiti dell’azione della Guardia costiera sono sempre stati quelli della zona Sar, ma centinaia di volte ci siamo spinti fuori e nessuno si sognava di bacchettarci. Soprattutto se andavi in soccorso di un’imbarcazione che navigava in direzione delle acque italiane: andavamo a prevenire il rischio ad ampio raggio. E diciamo che non dovevamo rendere conto a nessuno».
Poi, con il governo Conte, l’operatività è stata di fatto ridotta, finendo sotto il controllo del ministero dell’Interno. «Diciamo che qualche decreto interministeriale ha in qualche modo imbrigliato l’attività», dice Alessandro. «Tutto si muove su un piano non normativo e la Guardia costiera, che prima si spingeva molto al di là delle acque territoriali, è stata in qualche modo ritirata. Il Viminale ha assunto un ruolo strategico nell’assegnazione del porto di sbarco. E se è vero che il soccorso in sé non rientra nelle prerogative del ministero dell’Interno, è anche vero che – se l’asse si sposta indietro – c’è il rischio che non si veda l’esigenza del soccorso e resti in primo piano un’esigenza di polizia».
È questo, secondo l’ammiraglio, il problema attorno a cui è maturata la tragedia di Cutro. «Ce lo diranno le indagini, ma è del tutto evidente che, se l’Mrcc avesse percepito la priorità di dichiarare un evento di ricerca e soccorso anche a 40 miglia, avrebbe potuto mandare le nostre motovedette. E invece si è fatta un’operazione di polizia. Ma in mare non si fa polizia: in mare si fa soccorso», conclude.
Quello che non torna del naufragio di Cutro: mail e telefonate all’alba. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2023.
Cutro, i dubbi e le domande a sette giorni dalla tragedia. Spuntano le chiamate da numeri stranieri con le coordinate
A distanza di una settimana, l’ultima delle cose che sappiamo del naufragio di Cutro è un elenco di telefonate e una mail per chiedere aiuto. Conversazioni dai contenuti in parte misteriosi e comunque tutte quante inutili a evitare la strage, perché arrivate nella fascia oraria che va dalle 4.20 alle 4.35 del mattino. E invece il barcone con i 180 (e forse più) migranti si è schiantato contro la secca fra le 4 e le 4.10 di quell’alba disgraziata del 26 febbraio. Mentre sulla battigia di Steccato di Cutro cresceva la fila dei corpi senza più vita, qualcuno chiamava i soccorsi credendo che sarebbe stato ancora possibile salvare tutti.
Sono le 4.20. Un numero turco chiama i carabinieri di Crotone «da una non meglio identificata barca», come dicono loro. La linea è pessima, cade. Il telefono agganciata la cella della località «Le Castella», Isola Capo Rizzuto. I militari provano a ricontattarlo ma è tutto inutile. Alle 4.35, «un segnalante straniero» con utenza telefonica italiana chiama due volte la Centrale operativa delle Capitanerie di porto (Mrcc), a Roma: nella prima chiamata dice di vedere una barca in difficoltà che sta per ribaltarsi, a 40-50 metri dalla riva davanti alla foce del fiume Tacina. «Li sento urlare», aggiunge. Nella seconda chiamata, subito dopo, annuncia: «Ho visto il peschereccio ribaltarsi». Ore 4.52. Un altro «segnalante straniero contatta la stessa Centrale operativa di Roma. Anche stavolta il numero è turco; il tizio parla in inglese. «C’è una barca che sta per affondare davanti a Isola Capo Rizzuto», dice. Gli chiedono se è a bordo e lui risponde no, «ma ho avuto l’informazione via Facebook e non ho il numero di bordo». Sa quante persone sono imbarcate?, gli chiedono. Risposta: «Dal post su Internet risultano presenti 200-250 persone, non so che barca sia e non ho altre informazioni».
Nella cronologia di quei minuti concitati, la chiamata successiva è delle 5.13. Viene da una donna italo-marocchina, nota attivista per i diritti umani. Chiama anche lei la Guardia costiera, che nella sua relazione di servizio annota: «Ci ha detto di aver ricevuto una telefonata da un numero tedesco (che non fornisce) di un sedicente familiare di alcune persone a bordo della barca. Dice di aver saputo che la barca era partita dalla Turchia con 120 persone a bordo e che circa un’ora prima aveva urtato uno scoglio spezzandosi, a Capo Rizzuto». La donna detta alla capitaneria anche longitudine e latitudine dell’imbarcazione e dice che a bordo c’è una utenza turca di cui fornisce il numero. Le chiedono come fa ad avere la posizione esatta e quel numero di telefono turco; lei risponde che le è stata «riportata dai parenti delle persone a bordo», quindi dal tedesco che l’ha chiamata.
Alle 5.35, annotano in Guardia costiera, «perveniva mail della segnalante che confermava quanto detto nella telefonata». Escluso il testimone oculare che ha prima sentito le urla e poi ha visto la barca ribaltarsi, le altre chiamate portano domande e mistero. Per esempio: quale sarebbe il profilo facebook che avrebbe pubblicato il post per dire «stiamo affondando»? (telefonata delle 4.52). Ha senso pubblicare un Sos via Facebook in attesa che qualcuno lo capti nel mare del Web? Oppure: come può uno dei migranti a bordo conoscere la posizione esatta? Tanto più che ora sappiamo, dalle testimonianze, che gli scafisti avevano gli strumenti per oscurare i cellulari dei migranti.
Sono semmai proprio loro, gli scafisti, ad avere quel genere di informazioni. Che questo parente tedesco fosse il parente di uno scafista? Tra l’altro non si vede un senso nell’essere in difficoltà e chiamare non i soccorsi ma un parente in Germania che a sua volta chiami poi un’attivista in Italia... E infine: chi è la persona misteriosa che chiama alle 4.20 e poi scompare? Fra le cose ormai note, dopo una settimana di corpi recuperati e polemica politica, ci sono i punti chiave che abbiamo raccontato in questi giorni per capire se e chi ha sbagliato, quella notte.
Da quei punti partiranno il procuratore Giuseppe Capoccia e il suo sostituto Pasquale Festa nell’indagine sui mancati soccorsi, che per adesso è soltanto conoscitiva e per la quale hanno avuto una delega (ancora non formalizzata per iscritto) i carabinieri del Comando provinciale di Crotone. Punto numero uno: l’avvistamento della barca alle 22.26 di sabato. L’Agenzia europea Frontex la vede 40 miglia al largo delle coste calabresi. La segnala al punto di contatto italiano (in sostanza alla Finanza) e per conoscenza alla Guardia costiera. Punto due: la Finanza esce per andare a cercare la barca. E’ una operazione di polizia marittima, non di soccorso. Alle 2.20 parte una motovedetta da Crotone, alle 2.30 un pattugliatore da Taranto. Ma il mare è «proibitivo», dicono via radio. E tornano indietro per «attivare il dispositivo di ricerca a terra lungo le direttrici di sbarco» avvisando la Guardia costiera. Nessuno lancia l’attività Sar, cioè ricerca e soccorso in mare. Fra le 4 e le 4.10 lo schianto. Alle 4.35 la chiamata che certifica la fine: «L’ho vista ribaltarsi».
A Crotone la strage dei bambini, due i corpi recuperati in mare: «A bordo i piccoli erano decine». Storia di Alessandro Fulloni e Carlo Macrì, inviati a Crotone, su Il Corriere della Sera il 4 marzo 2023.
Il primo dei due corpicini trovati sabato galleggiava a una ventina di metri dalla spiaggia di Steccato, la stessa dove domenica scorsa all’alba la Summer Love si è aperta a metà dopo che la chiglia è stava sventrata da uno scoglio. A scorgere il piccolino — tre anni di età, con indosso un giubbottino in jeans — sono stati, verso le cinque del mattino, dei volontari della Protezione civile che giorno e notte perlustrano quel tratto di riva. Poi ad adagiarlo su un telo bianco sono giunti i sommozzatori dei vigili del fuoco e i marinai della Guardia costiera. Stessa scena otto ore dopo, ma stavolta a Botricello, un paio di chilometri a Ovest, scendendo verso il Reggino. Qui il bimbo aveva un’età approssimativa di sei anni. Lo hanno visto grazie a una mano che usciva dall’acqua, aveva degli short e una scarpa.
Senza contare i dispersi (una cifra che potrebbe variare tra i 30 e i 50), il totale dei morti ora è salito a 70 mentre sono 62 le vittime che — grazie al poderoso lavoro della Scientifica — hanno già ricevuto un nome e un cognome. Il fatto che i corpi trovati ieri siano quelli di due bimbi inquadra uno degli aspetti che più sconvolge in questa tragedia, quello dell’alto numero di minori che hanno perso la vita nel naufragio del caicco.
Sono ancora le puntuali cifre fornite dalla prefetta di Crotone Maria Carolina Ippolito a dirci che i morti con meno di 18 anni sono 27, tutti identificati tranne l’ultimo caso a Botricello. Per adesso sulla bara bianca di questo piccolino comparirà solo questa sigla: «KR70M6». Per chiarire: «KR» sta per Crotone, «70» ci indica che siamo davanti alla settantesima salma recuperata, «M» vuol dire che è un maschio mentre «6», appunto, è l’età presumibile. Ma ecco altri numeri, ancora più in dettaglio: tra femmine e maschi le vittime sotto i 12 anni sono 18 mentre sono 9 quelle comprese fra i 13 e i 17 anni. Uno aveva 8 mesi, due erano di un anno e altri due di tre anni. Poi contiamo uno di quattro anni, uno di cinque, tre di sei, uno di sette, due di otto e altri due di nove. E ancora: due undicenni, un dodicenne, un tredicenne, un quattordicenne, un quindicenne, quattro sedicenni, e due diciassettenni.
Non è finita qui: è prevedibile che anche nell’eventuale recupero di altre salme sia prevalente la presenza dei bimbi. «Dai racconti dei sopravvissuti — spiega Giovanna Di Benedetto, portavoce di Save the Children, ong in questi giorni prima linea nell’assistenza al Cara di Capo Rizzuto — sappiamo che sulla Summer Love i piccoli sotto i dieci anni erano a decine, i più vulnerabili». Immaginando, tra l’altro, che pochissimi, forse nessuno, fossero in grado di nuotare, è stato impossibile riuscire a sfuggire alla violenza dei flutti forza 5. E forse molti sono stati anche travolti da altre persone più grandi in quei drammatici momenti della fuga per la salvezza dalla stiva alla coperta.
Ci sono poi genitori straziati come l’afghano Wahid che a 150 metri dalla spiaggia, oltre alla moglie Munika, ha perso tre figli piccoli: Maewa e Hadija, 12 e 8 anni, adesso riposano in una bara bianca mentre di Tajib, 5, non si sa nulla. L’uomo, sopravvissuto con il primogenito 14enne, aveva lasciato Herat per sfuggire ai talebani ma ora continua a dire che «tutto quello che è successo è colpa mia: non dovevo partire». Davanti a un feretro nella camera ardente al Palasport, Mina, 60 anni, piange la morte della sorella e delle nipotine tra cui una di 7 anni. «C’eravamo sentite anche la sera di sabato e lei, Aisha, era felice: stavano per arrivare» ha raccontato all’Adnkronos, appena giunta dall’Olanda.
Ma i minori sopravvissuti? Secondo Save the Children, due di loro hanno perso tutti i genitori. Uno ha dodici anni, si trova al reparto Pediatria del San Giovanni di Dio e parlando con gli psicologi continua a ripetere che «papà verrà presto a prendermi dalla Svezia». Altri due adolescenti avrebbero affrontato la traversata da soli e c’è da capire se abbiano dei parenti in Europa ai quali, eventualmente, saranno affidati.
Ciascuna delle storie che ruotano attorno alla Summer Love lascia sgomenti. Una è quella del piccolo Hassan, tre anni, il figlio di Shahida Raza, la capitana della nazionale di hockey femminile del Pakistan morta nel naufragio. Il bimbo è rimasto nel suo Paese e vive con Saadia, la sorella della giocatrice ventinovenne che all’Ap ha raccontato che Shahida si era imbarcata sul caicco per trovare le cure adatte ad Hassan, paralizzato in parte dopo un ictus. «All’ospedale di Karachi le era stato detto che all’estero — ricorda Saadia — avrebbe avuto possibilità di recupero. Ora? Sono orgogliosa di lei, ha fatto di tutto per salvare il suo Hassan».
Naufragio Crotone, Frontex non vuole lo scontro, «ma il soccorso spettava all’Italia». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2023.
L’Agenzia conferma la segnalazione la sera prima dell’incidente, ma ricorda che l’avvio della ricerca e soccorso è competenza dei singoli Stati. Med5: «Più sorveglianza»
L’ordine al quartier generale dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, a Varsavia, è evitare lo scontro con l’Italia. Anche quando la premier Giorgia Meloni spiega che Roma «non ha ricevuto indicazioni di emergenza da Frontex». Secondo il nuovo direttore esecutivo Hans Leijtens — insediatosi il 1° marzo — l’agenzia deve essere il più apolitica possibile. Per questo quando si chiede una risposta ufficiale alle frasi della presidente del Consiglio italiano, il portavoce di Frontex Piotr Switalski non commenta. Ma ricorda che le regole d’ingaggio sono chiare. Subito dopo il naufragio al largo delle coste calabresi sono scoppiate le polemiche sul mancato salvataggio quando l’imbarcazione con 180 migranti era a 40 miglia dall’Italia. La posizione ufficiale di Frontex è che l’agenzia ha fatto quello che le spettava: segnalare la presenza dell’imbarcazione che navigava «senza mostrare segni di pericolo» ma con a bordo diverse persone come stabilito dalle telecamere termiche installate sul velivolo in perlustrazione sul Mar Ionio.
Ma chi doveva lanciare le procedure per il recupero in sicurezza dei migranti? Secondo Katarzyna Volkmann, dell’ufficio stampa dell’agenzia, «la classificazione di un evento come “ricerca e soccorso”, secondo le norme internazionali, spetta alle autorità nazionali». «Gli aerei e i droni di Frontex pattugliano aree selezionate oltre le frontiere esterne dell’Ue nell’ambito della sorveglianza aerea multiuso», spiega l’agenzia. «Se qualcuno nota una barca che necessita di assistenza l’agenzia informa l’autorità nazionale responsabile delle attività di soccorso nell’area e segue le sue istruzioni in linea con il diritto marittimo internazionale».
«Individuare una piccola imbarcazione in mezzo al mare è un compito arduo — chiarisce l’agenzia sul sito —, motivo per cui una volta che un aereo di Frontex ne incontra una, rimane vigile e continua a monitorare l’area fino all’arrivo dei soccorsi o fino a quando l’aereo è costretto a partire a causa del carburante scarso». La sera del 25 febbraio il Beechcraft 200 Super King Air noleggiato da Frontex, che per primo ha individuato il barcone, è dovuto rientrare dopo quasi quattro ore di volo perché ormai a secco.
A Frontex si rivolge «Med5», l’organizzizazione che riunisce cinque Paesi del Mediterraneo (tra i quali l’Italia). «Il rafforzamento della sorveglianza delle frontiere sia marittime che terrestri è una componente essenziale della lotta contro il traffico di migranti», scrive «Med5» nel documento conclusivo del vertice di ieri a Malta dove per l’Italia c’era il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. «Frontex deve destinare maggiori risorse a questo compito, compresa la sorveglianza delle acque internazionali» — si legge ancora — anche mettendo a disposizione «ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere, dei mezzi di sorveglianza».
Trovati altri 2 bimbi. E l'inchiesta punta sugli ultimi minuti "Botto e tanto fumo". Nelle carte i racconti dei sopravvissuti. Le vittime salgono a 70, 47 ancora dispersi. Lodovica Bulian il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.
I corpi di altri due bambini sono stati recuperati ieri dai Vigili del fuoco e dalla Guardia costiera. Non più di tre anni uno, si ipotizza tra i dodici e i tredici anni l'altro. Le vittime del naufragio di domenica scorsa a Cutro salgono a 70, di cui 16 minorenni, ma restano ancora i dispersi: si «stima» siano tra le 27 e le 47 le persone inghiottite dal mare. Delle 70 vittime accertate, 56 salme sono state riconosciute dai parenti, che stanno chiedendo il rimpatrio per seppellirle nei loro Paesi di origine, tra cui Pakistan, Tunisia, Siria e Palestina. Le ricerche proseguono «a oltranza per tutto il fine settimane spiega la prefettura di Crotone con mezzi aerei, navali, nucleo di sommozzatori e con il personale di presidio a terra della Guardia costiera, Questura, Carabinieri, Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco e Protezione civile regionale».
E prosegue anche l'inchiesta della Procura di Crotone, che procede per naufragio e omicidio colposo a carico dei presunti scafisti identificati, tre dei quali, un turco e due pachistani (uno è minore), sono stati fermati, mentre un quarto è irreperibile. C'è anche l'altro filone di indagine, al momento senza indagati e senza ipotesi reato, che mira a ricostruire la dinamica dei soccorsi per stabilire cosa è accaduto dopo la segnalazione del velivolo di Frontex sulla presenza del barcone a 40 miglia dalla costa calabrese. Domani è previsto l'affidamento ai carabinieri della delega all'acquisizione degli atti di quella notte. Sul fronte dell'inchiesta a carico degli scafisti invece i pm invieranno al giudice la richiesta di incidente probatorio per acquisire le testimonianze dei superstiti. Un passaggio necessario per cristallizzare davanti al gip le eventuali prove che emergeranno dai racconti dei sopravvissuti sulla dinamica che ha portato alla tragedia. Alcune testimonianze raccolte dagli inquirenti sono già citate nei verbali del provvedimento di fermo di uno degli scafisti: «Circa quattro ore prima dell'urto della barca è sceso nella stiva uno dei due pakistani e ci ha detto che dopo tre ore saremmo arrivati a destinazione - racconta uno dei sopravvissuti - Lui (uno degli scafisti, ndr), si è ripresentato un'ora prima dello schianto dicendoci di prendere i bagagli e prepararci a scendere che eravamo quasi arrivati. All'improvviso il motore ha iniziato a fare fumo, c'era tanto fumo e puzza di olio bruciato». «La gente nella stiva iniziava a soffocare e a salire su - racconta un altro superstite - Ho fatto in tempo ad afferrare mio nipote e a salire in coperta dopo di che la barca si è spezzata e l'acqua ha iniziato a entrare. Quando sono salito senza più scendere sotto c'erano circa 120 persone tra donne e bambini». In Procura a Roma è arrivato invece un esposto dei deputati di Sinistra Italiana Ilaria Cucchi e Nicola Fratoianni, che chiede di verificare se ci sono state responsabilità anche a livello ministeriale, se vi siano «disposizioni ministeriali che abbiano impedito l'uscita in mare della Guardia Costiera» tenuto conto che «non si può escludere che vi sia una responsabilità superiore visto che la Guardia Costiera dipende dal ministero dei Trasporti, mentre il ministero dell'Interno è diventato il supercoordinatore di sbarchi e soccorsi dei migranti». Una versione respinta dal sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano: «La Guardia Costiera non è intervenuta perché non è stato lanciato un segnale di allarme».
Interviene il Consiglio nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti sul vergognoso giornalismo di “Piazza Pulita”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Marzo 2023.
Avrebbe turbato gli spettatori per stessa ammissione del conduttore del programma durante la lettura del suo editoriale, portata in studio dall’inviata sul luogo del dramma. Ma anche gli attacchi tutt’altro che velati e deontologicamente corretti rivolti alle istituzioni strumentalizzando una tragedia ancora tutta da accertare e metabolizzare.
Con una nota il Comitato esecutivo del Cnog ha reso noto che sono giunte numerose segnalazioni sulla “spettacolarizzazione” della trasmissione “Piazza pulita” in onda su La7 durante la quale sono state mostrate, in chiave di spettacolarizzazione, le scarpette presumibilmente di uno dei bimbi coinvolti nel tragico naufragio sulle coste di Crotone. “Comportamenti poco deontologici che saranno valutati dai Consigli di disciplina competenti per territorio“.
Quell’insistere della telecamera sulla scarpetta di una delle piccole vittime del naufragio di Cutro, Avrebbe turbato gli spettatori per stessa ammissione del conduttore del programma durante la lettura del suo editoriale, portata in studio dall’inviata sul luogo del dramma. Ma anche gli attacchi tutt’altro che velati e deontologicamente corretti rivolti alle istituzioni strumentalizzando una tragedia ancora tutta da accertare e metabolizzare.
“Il diritto di cronaca è sacro” ricorda il Consiglio Nazionale “ma lo è altrettanto il rispetto della deontologia professionale che impone il corretto comportamento dei cronisti sui luoghi degli eventi e, anche in televisione, continenza e rispetto nel linguaggio, compreso quello non verbale”.
Il Comitato esecutivo del Cnog pertanto ha deciso quindi di inviare una segnalazione ai Consigli di disciplina competenti per l’apertura di un procedimento sul caso. E forse era ora che qualcuno riportasse sui binari del corretto giornalismo il programma “Piazza Pulita”, visto l’editore de La7 pensa solo e soltanto all’ Auditel….Redazione CdG 1947
Pd, lo stupidario politico-lessicale sulla tragedia di Crotone: parole a caso. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 05 marzo 2023
La sensazione che si ricava seguendo le polemiche di questi giorni dopo la tragedia di Crotone è che in Italia sia davvero impresa difficile riuscire a liberarsi dello stupidario politico-lessicale della sinistra di matrice sessantottina.
Ci si era illusi che alcuni strumenti della subcultura comunista fossero stati consegnati in via definitiva al magazzino di un robivecchi. La qual cosa non sembra essere avvenuta a giudicare dalle molte reazioni maturate nella cosiddetta area progressista. Infatti, i “funzionari della verità” - come in una sorta di riflesso pavloviano - invece di attendere il risultato delle indagini, per capire che cosa sia andato storto nella catena delle comunicazioni la notte del nubifragio, si sono affrettati, con la nota sicumera, a dare la “giusta versione” dei fatti: si è trattato di una strage di Stato. Il dizionario della politica italiana compie, in tal modo, un salto indietro di parecchi decenni. Il concetto, famigerato e fuorviante, guadagna un posto di rilievo nel nostro dibattito pubblico all’indomani della strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969 a Milano, quando viene dato alle stampe un pamphlet - per l’appunto “La strage di Stato” - in cui attraverso una dubbia operazione condita di sospetti e coincidenze vengono additati quali responsabili della bomba alla Banca dell’Agricoltura - in disprezzo delle più elementari regole fattuali non solo singoli funzionari o parti di servizi deviati, ma addirittura le più importanti cariche istituzionali del Paese. Vengono fatti i nomi del ministro dell’Interno Franco Restivo, del presidente del Consiglio Mariano Rumor e - tanto per non tralasciare nulla- viene tirato in ballo finanche il capo dello Stato Giuseppe Saragat.
Dietro quell’orribile atto terroristico si affermava nel libretto - non potevano non esserci personalità di così alto livello in ragione del fatto che essi non solo in quei mesi erano impegnati a contrastare le violenze di piazza commesse dai compagni, ma soprattutto risultavano amici degli Stati Uniti a cui veniva attribuita (manco a dirlo) la regia occulta della strage. Una tale vulgata diventa egemone presso l’establishment politico-culturale della sinistra a tal punto da guidare negli anni a venire l’interpretazione di tutti gli episodi cruenti che segnano la vita pubblica italiana nel secondo Novecento. Una forma mentis che informa di sé ricostruzioni storico-giornalistiche, atti parlamentari, requisitorie giudiziarie fino a ridurre in un unico quadro esplicativo l’intero capitolo dei misteri d’Italia. Tutto finisce nel medesimo calderone, dalle stragi impunite ai servizi segreti deviati, dalle Brigate rosse al terrorismo nero, da Gladio alla P2, dalla morte di Mattei al caso Moro e così per tante altre pagine della storia repubblicana. In tal senso, fare luce sui singoli accadimenti finisce con il risultare secondario rispetto all’opportunità di sfruttarli appieno per ragioni di opportunismo politico. Del resto, riportare ogni singolo atto dentro la logica della strage di Stato significa legittimare la validità del “verbo cominternista” che individua nello Stato democratico-liberale i presupposti di un perenne pericolo fascista al quale è necessario rispondere attraverso una continua mobilitazione popolare guidata dagli unici soggetti in possesso dei titoli giusti per farlo, ovvero i comunisti. Ci si era illusi che tutto ciò appartenesse al passato. Purtroppo, a giudicare dalle polemiche sul naufragio di Crotone sembra che poco sia cambiato. I fatti ancora una volta possono essere sacrificati in nome dell’ideologia.
Come quei morti in mare del ’97. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 3 Marzo 2023.
Si poteva evitare è l’urlo dalla folla durante la visita del Presidente della Repubblica all’Ospedale di Crotone. Il Capo dello Stato coraggiosamente – e giustamente – porta conforto agli scampati del naufragio e i morti sono proprio morti, macigni sulla coscienza di tutti noi. E chissà se in quel Venerdì Santo del 1997, quando la motovedetta albanese Kater i Rades ebbe a essere affondata – 81 morti, 27 dispersi – in conseguenza del blocco navale deciso dal governo, chissà se qualcuno dalla folla, dai talk show, dalla segreteria dei democratici e dunque dal Quirinale qualcuno disse «si poteva evitare». Chissà. C’era Romano Prodi al Governo, Beniamino Andreatta al Ministero della Difesa e purtroppo ancora no, non ancora, uno come Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Ed è così che di quei morti e di quei dispersi – di certo tutti defunti – ahinoi non si ricorda mai nessuno.
Strage di Cutro, adesso finiscono sotto accusa pure i ritardi nei soccorsi a terra: "Persi trenta minuti decisivi". Alessandra Ziniti su La Repubblica il 6 marzo 2023.
L'obiettivo delle indagini difensive di un pool di legali che si è messo a disposizione della famiglia è ambizioso: portare nell'inchiesta il tema delle responsabilità politiche emerse per verificare se possano tradursi in responsabilità penali
"Li hanno lasciati soli a mare ma anche a terra. Quando il barcone è naufragato hanno avuto il tempo di chiamarci, al telefono invocavano aiuto disperati, ma non c'era nessuno. I soccorsi sono arrivati in ritardo di almeno mezzora. Chissà quante vite si sarebbero potute salvare".
I trenta minuti di terrore, quelli tra le 4 del mattino di domenica 25 febbraio (ora presunta del naufragio) e le 4.35
Estratto dell'articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” Il 6 marzo 2023.
«Li hanno lasciati soli a mare ma anche a terra. Quando il barcone è naufragato al telefono invocavano aiuto disperati, ma non c’era nessuno. I soccorsi sono arrivati in ritardo. Chissà quante vite si sarebbero potute salvare».
Sono stati trenta minuti di terrore, quelli tra le 4 del mattino di domenica 25 febbraio (ora presunta del naufragio) e le 4.35 quando, per prima, una macchina dei carabinieri arriva sulla spiaggia di Cutro. E ora i familiari delle 70 vittime arrivati in Calabria da Germania, Australia, Stati Uniti, aprono un altro fronte di denuncia, quello sul ritardo dei soccorsi anche a terra.
La ricostruzione di quei trenta minuti sarà uno dei filoni delle indagini difensive di un pool di avvocati di grido, Luigi Ligotti, Mitja Gialuz, Vincenzo Cardone e Francesco Verri, che — gratuitamente — hanno accettato di rappresentare una decina di famiglie delle vittime costituendosi parte civile nel procedimento che, nei prossimi giorni, entrerà nel vivo con l’incidente probatorio che vedrà di fronte i superstiti e i tre scafisti arrestati.
I primi documenti acquisiti dai carabinieri, le relazioni di servizio di tutte le forze dell’ordine interessate e il decreto di fermo consentono di ricostruire la mezz’ora intercorsa dal momento dello schianto del caicco sulla secca all’arrivo dei primi soccorsi.
[…] Alle 4.15, a far scattare le prime ricerche a terra è la sala operativa dei carabinieri di Crotone che — ricevuta una telefonata di richiesta di aiuto da un numero straniero — localizza la chiamata e invia un’auto a Steccato di Cutro.
Come conferma il decreto di fermo dei tre scafisti, i primi ad intervenire sulla spiaggia sono i carabinieri del Radiomobile. Sono le 4.35, il barcone è naufragato da almeno 25 minuti. Il radar della Finanza lo aveva intercettato alle 3.50 ormai vicinissimo alla costa.
Gli altri soccorsi arrivano solo dopo attivati da una serie di telefonate: chiamano gli stessi naufraghi sopravvissuti o i loro familiari, alle 4.52, alla centrale operativa di Roma, chiama alle 5,12 l’attivista italo-marocchina Nawal Soufi, che conosce persino l’esatta posizione del barcone.
Una mail con le coordinate viene inviata dalla Soufi alle 5.35 alla sala operativa della Guardia costiera. A quell’ora la notizia del naufragio è già su Facebook ma la macchina dei soccorsi istituzionali ancora non carbura. Sono le 5.40 quando un pescatore che porterà in salvo alcuni superstiti ma anche un bimbo morto riceve una chiamata dalla Guardia costiera che chiede a lui di recarsi sulla spiaggia di Cutro a vedere cosa è successo. Poi arrivano tutti gli altri. Un lasso di tempo infinito per tante vite in bilico. […]
Estratto dell'articolo di giu.leg. per “La Stampa” Il 6 marzo 2023.
Era nell'ara da giorni, ma è di ieri l'ufficialità che alcuni dei familiari delle vittime del naufragio di Steccato di Cutro (il cui bilancio ha superato i 70 morti), hanno cominciato ad affidarsi ad alcuni legali.
[…] Due gli scenari percorribili, che non si elidono a vicenda: quello di un "class action" per ragionare in termini di responsabilità civile e di risarcimento danni e quello penale per dare un contributo all'accertamento dei fatti. Entrambi puntano al capitolo soccorsi, che è oggetto al momento di un fascicolo autonomo in procura senza ipotesi di reato e senza indagati.
Oggi arriveranno a Crotone gli avvocati torinesi Marco Bona ed Enrico Calabrese (coadiuvati dal civilista Stefano Bertone): «Incontreremo i familiari delle vittime che ci hanno contattato.
Prenderemo in esame ogni possibile responsabilità di istituzioni nazionali e comunitarie, Frontex e Commissione inclusa». Lo studio piemontese, già in passato, ha fornito assistenza legale alle famiglie delle vittime del Naufragio Norman Atlantic, Al Salam Boccaccio, (mille migranti morti) e Costa Concordia [..]
Ma la lista di legali pronti a dare battaglia in aula è lunga. Figura tra questi lo storico avvocato dei collaboratori di giustizia Luigi Ligotti, che in passato ha difeso i super pentiti di Cosa Nostra Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo.
A loro si aggiunge il legale crotonese che ha ottenuto diverse vittorie alla Corte europea dei diritti dell'uomo, Francesco Verri, e ancora l'avvocato Mitja Gialuz, professore ordinario di Diritto processuale penale nell'Università di Genova.
Già da oggi saranno al lavoro in vista dell'incidente probatorio (un esame tecnico irripetibile) che la procura di Crotone guidata dal magistrato Capoccia hanno richiesto al fine di cristallizzare i racconti dei superstiti sulle fasi del viaggio, la responsabilità degli scafisti arrestati e – se ve ne sono stati – i mancati soccorsi. «Siamo stati incaricati da diversi familiari delle vittime di rappresentarli nei due procedimenti penali iscritti», dicono Ligotti, Mitja Gialuz e Verri. [...]
[…] Sul fronte delle indagini non si registrano novità di rilievo, fatta eccezione per il fatto che oggi verrà eseguito un accertamento sul cellulare del presunto scafista minorenne (in carcere sono ristretti anche un turco e un pachistano). Lui nega di aver partecipato al viaggio a titolo di organizzatore.
Il dettaglio che rileva è che il suo è l'unico telefonino sequestrato ai presunti organizzatori del viaggio partito da Smirne all'alba del 22 febbraio scorso. Nei file, nelle tracce lasciate dall'apparecchio, gli investigatori dell'Interpol di Catania potrebbero trovare tracce molto utili a ricostruire meglio i contatti in Turchia e gli eventuali complici.
Un team di avvocati indaga sulla strage di migranti a Cutro. Il monito di Mattarella: «Dopo il cordoglio servono scelte concrete». Il procuratore di Crotone: «Perché nessuno è intervenuto? Bella domanda». Simona Musco su Il Dubbio il 6 marzo 2023.
«Di fronte all'evento drammatico che si è consumato» davanti alle coste calabresi, «ma ancor più a quel che questo raffigura di condizione drammatiche» in Afghanistan «come in altri Paesi, il cordoglio deve tradursi in scelte concrete, operative, da parte di tutti: dell'Italia, per la sua parte, dell'Unione europea, di tutti i Paesi che ne fanno parte, perché questa è la risposta vera da dare a quel che è avvenuto, a queste condizioni che, con violazioni di diritti umani e della libertà, colpiscono tutti, in qualunque parte del mondo». Dopo esser stato in silenzio davanti alle bare in fila sul parquet del Palasport di Crotone, trasformato in camera ardente dopo il tragico naufragio di migranti a Steccato di Cutro che è costato la vita ad almeno 70 persone, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha lanciato un monito alle istituzioni, intervenendo a Potenza all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università della Basilicata.
Un messaggio breve ma forte, quello del Capo dello Stato, che ha richiamato il governo e l’Ue alle proprie responsabilità nella gestione del fenomeno migratorio. «In qualunque comunità - ha sottolineato - la libertà non è effettiva se non è appannaggio di tutti e il mondo intero è ormai sempre più una comunità raccolta, con ormai nessuna distanza effettiva, interconnessa, dentro la quale la mancanza di libertà colpisce tutti, ovunque. Questo richiamo è per noi particolarmente avvertito in questi giorni» dopo la tragedia di Cutro, «che ha coinvolto interamente la commozione del nostro Paese».
Mattarella ha ricordato quanto avvenuto solo due anni fa a Kabul, con l’occupazione da parte dei Talebani, evento che ha spinto l’Italia ad accogliere le persone in fuga. Immagini terribili, quelle di quei giorni, che fanno comprendere «il perché intere famiglie, persone che non vedono futuro, cercano di lasciare con sofferenza, come sempre avviene, la propria terra, per cercare un avvenire altrove, per avere possibilità di un futuro altrove». Una risposta implicita, forse, alle parole con le quali il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha giudicato le partenze di migliaia di disperati, quasi colpevoli del loro tentativo di sfuggire a morte certa nel proprio Paese.
Il team di avvocati a sostegno delle vittime
In attesa delle mosse della procura e del Consiglio dei ministri convocato a Cutro giovedì 9 marzo, a Crotone si è costituito un pool di avvocati - Luigi Ligotti, Mitja Gialuz, Vincenzo Cardone e Francesco Verri - che assisterà gratuitamente alcune delle famiglie delle vittime. I filoni di indagine della procura, al momento, sono due: uno che vede indagati quattro presunti scafisti e un altro sulla macchina dei soccorsi. Nell’ambito del primo fascicolo, la prossima settimana, si terrà l’incidente probatorio. «Il secondo procedimento - spiegano gli avvocati Luigi Ligotti, Mitja Gialuz, Vincenzo Cardone e Francesco Verri - mira a raccogliere gli elementi per valutare se ci sono responsabilità per il mancato soccorso in mare. In entrambi i procedimenti forniremo il nostro attivo contributo - anche per mezzo di ricerche e investigazioni difensive - per accertare i fatti e perseguirli se risulteranno provati».
Nelle prossime ore verranno nominati dei consulenti, in grado di guidare il team di avvocati nell’interpretazione delle procedure e delle comunicazioni che sono avvenute (o non avvenute) la notte tra sabato 25 e domenica 26 febbraio. «Quello che vogliamo capire è cosa sia successo, dalla partenza all’arrivo, se così possiamo chiamarlo», spiega al Dubbio l’avvocato Verri. Nelle mani dei legali c’è intanto il rapporto di Frontex - che secondo la premier Giorgia Meloni non avrebbe avvisato le autorità italiane del pericolo -, un documento «stringato ma importante», evidenzia Verri. L’Agenzia europea, alle 23.03 di sabato 25 febbraio, ha avvisato la centrale operativa della Guardia costiera di Roma, il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Nucleo di coordinamento centrale del ministero dell’Interno della presenza del caicco, fornendo le coordinate dell’imbarcazione. Ma non solo: nella mail spedita alle autorità italiane si segnalava la possibile presenza di persone sottocoperta, nonché «una telefonata satellitare dalla barca verso la Turchia», i «boccaporti a prua aperti», nessun salvagente visibile e una «significativa risposta termica» degli stessi. «Di notte, d'inverno, perché i boccaporti dovrebbero essere aperti? Perché c’è qualcuno sotto coperta. C’era una nave, di notte, con mare forza 4 e previsioni serie di peggioramento rimasta a navigare tutta la notte fino alla tragedia. Questo è un dato di fatto», rileva Verri. La procura di Crotone, intanto sta «lavorando in maniera puntuale, non ci stiamo fermando un attimo - ha dichiarato il procuratore di Crotone, Giuseppe Capoccia -. Stiamo acquisendo tutti gli elementi connessi a questa vicenda e ciò che riguarda i momenti precedenti al disastro. Ma siamo già a un buon punto di ricostruzione della rete di comunicazioni che sono avvenute prima dell’evento». E sul perché nessuno abbia soccorso l’imbarcazione il procuratore si è limitato a dire: «Bella domanda».
L’indagine aperta a Roma
Intanto anche la procura di Roma ha aperto un fascicolo - senza ipotesi di reato e senza indagati -, dopo l’esposto depositato dall’avvocato Fabio Anselmo per conto dei parlamentari di Avs Angelo Bonelli, Ilaria Cucchi, Giuseppe De Cristofaro, Devis Dori, Eleonora Evi, Aurora Floridia, Nicola Fratoianni, Francesca Ghirra, Marco Grimaldi e Luana Zanella, finalizzato a far emergere eventuali responsabilità politiche. «Dal 2019 - si legge nell’esposto - l’Italia ha iniziato a distinguere le situazioni di immigrazione illegale da quelle di ricerca e soccorso urgente (Sar), cui corrispondono procedure, mezzi e perfino “culture” di intervento diverse». L’evento, come noto, è stato gestito dalle Fiamme Gialle come ipotesi di immigrazione illegale, mentre la predisposizione di un evento Sar avrebbe consentito di spedire in mane le motovedette «praticamente inaffondabili» della Guardia Costiera. Ma chi classifica l’evento? «Le autorità a terra», ha spiegato alla stampa Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della Guardia costiera. «L’evento doveva dunque essere classificato immediatamente come caso Sar - continua l’esposto -. Riteniamo che sia necessario approfondire se vi siano state disposizioni ministeriali che abbiano impedito l’uscita in mare della Guardia Costiera».
Estratto dell’articolo di Ester Palma per corriere.it Il 6 marzo 2023.
«Mai più tragedie come quella avvenuta nel mare della Calabria, mai più una nuova Cutro. I trafficanti di uomini siano fermati, non continuino a disporre della vita di tanti innocenti, e i viaggi della speranza non si trasformino più in acque della morte. Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere». Rinnova il suo appello per i migranti Papa Francesco al termine dell'odierno Angelus in piazza San Pietro: «Esprimo il mio dolore per le vittime. i familiari e i sopravvissuti e l'apprezzamento alla popolazione locale e alle istituzioni per l'accoglienza e la solidarietà mostrata. Rinnovo il mio appello perché non si ripetano più queste tragedie».
A rispondere all'appello di Francesco sono stati, via social, la premier Giorgia Meloni e il suo vice: «Le parole del Santo Padre rappresentano un grande richiamo per tutte le Istituzioni. Come Governo le facciamo nostre, continuando a impiegare tutte le forze necessarie per combattere i trafficanti di esseri umani e fermare le morti in mare», ha twittato la presidente del Consiglio. Mentre Matteo Salvini ha aggiunto: «Condivido le parole del Santo Padre e lavoro, non da oggi, per metterle in pratica e salvare vite».
Sulla tragedia di Cutro, si è espressa con un documento anche l'Anm, associazione nazionale magistrati: «Nessuna norma potrebbe mai imporre ad alcuno il dovere di non fuggire da Paesi dove la guerra o la miseria impediscono l'accesso a condizioni di vita dignitose.
L'Anm auspica che in qualsiasi circostanza venga sempre rispettato l'inderogabile obbligo di salvataggio, che è scolpito nella nostra Costituzione ancor prima che nelle convenzioni internazionali. L'obbligo è inderogabile e tutti ne debbono beneficiare, a prescindere dalla concreta possibilità dei singoli di restare in seguito sul territorio italiano». […]
"Nessun mercante rischia, si godono la vita a Istanbul". Strage Cutro, l’audio del presunto scafista (“Papà paga la seconda rata”) e le accuse del fratello: “Erdogan sta cacciando tutti”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 6 Marzo 2023
“Ha versato 4500 dollari, nessun mercante di uomini rischia la sua vita su una barca, stanno a godersi la vita nelle loro belle ville a Istanbul” ha detto indignato Antisham, il fratello di uno dei fermati, quando l’avvocato Salvatore Perri gli comunica le accuse che vengono mosse al fratello Arslan: “Mio fratello, un collaboratore degli scafisti? Ma siete impazziti?”. Per i magistrati, è uno dei mozzi che ha aiutato gli scafisti, ma Antisham continua nella difesa mostrando le prove: “Lui ha pagato, io ho le ricevute, il messaggio audio che ha mandato a mio padre perché versasse la seconda rata, tutto”, dice.
Antisham è arrivato dopo un lungo viaggio da Schio, dove lavorava in un ristorante come lavapiatti e qualche turno da rider. Ad oggi è un richiedente asilo che da anni vive in Italia. Sapeva che il fratello Arslan era su quella barca, lo aspettava. In Turchia, spiega – come riportato da Repubblica -, la vita per gli stranieri è diventata impossibile, nonostante abbiano un lavoro regolare, il regime di Erdogan ha avviato una vera e propria campagna di repressione. E anche Arslan, che lì lavorava da sette anni, è stato costretto a partire. “Ma lui ha pagato”, dice.
Antisham mostra la ricevuta del versamento della prima tranche, come funziona sulla rotta jonica, una prima quota viene pagata prima della partenza, poi il saldo si fa all’arrivo in Italia. Una sorta di assicurazione, e nel caso in cui il barcone venga intercettato e respinto, viene garantito un secondo viaggio: “Lui ha pagato quattromilacinquecento dollari”, insiste Antisham. Quando già si vedeva la costa, al padre ha poi inviato un audio perché versasse la seconda tranche. “Papà sto arrivando, puoi versare il resto dei soldi, è tutto a posto”, si sente nell’audio pubblicato da Repubblica.
Era ancora al lavoro Antisham quando ha saputo del naufragio, poi si è precipitato in stazione e ha preso un treno. Dopo numerosi cambi è arrivato a Crotone. Lì la scoperta: il fratello è sopravvissuto allo schianto del barcone sulla secca, ma poco dopo è stato fermato dalle forze dell’ordine. Molti sopravvissuti hanno indicato Arslan come uno dei mozzi che trasmetteva ordini e indicazioni per conto dei quattro skipper (i tre turchi e il siriano che gestivano quella traversata). Solo uno di loro è stato individuato e fermato, gli altri tre, come hanno riferito gli uomini e le donne sopravvissuti al naufragio, sarebbero riusciti a scappare su un gommone calato in acqua poco prima che il vecchio caicco si spezzasse.
“Mio fratello parla un po’ di turco, probabilmente è per questo che parlava per conto degli skipper”, spiega Antisham. “Ma lui no, non è un trafficante. Nessun mercante di uomini rischia la sua vita su una barca, stanno a godersi la vita e a dare ordini dalle loro belle ville a Istanbul”. In manette come mozzo è finito anche un ragazzino di diciassette anni. Intanto a Catania l’Interpol comincerà ad analizzare il telefono alla ricerca di audio e dei dati sulla rete turca che gestisce le partenze. Nelle testimonianze di chi è sopravvissuto, l’ombra di un’organizzazione si intravede. Riccardo Annibali
Cutro. Anche una giornalista afghana morta nel naufragio, collaborava con l'Onu. Redazione Internet su Avvenire lunedì 6 marzo 2023
Era un'attivista dei diritti umani per l'Onu e realizzava servizi fotografici sulla condizione delle donne in Afghanistan: a raccontare la storia di Torpekai Amarkhel la sorella arrivata dall'Olanda
Era un'attivista dei diritti umani per l'Onu e realizzava servizi fotografici sulla condizione delle donne in Afghanistan: Torpekai Amarkhel, giornalista afghana di 42 anni è stata identificata tra le vittime del naufragio del barcone a Steccato di Cutro.
Collaborava anche con la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA). Nel suo Paese era diventato sempre più difficile potere proseguire la sua professione giornalistica, così nell'estate del 2021 ha deciso di lasciare l'Afghanistan, a piedi, per raggiungere l'Italia.
Lei e i suoi familiari si trovavano sulla barca che è naufragata il 26 febbraio 2023 a Steccato di Cutro. Una delle sorelle della giornalista, Mida, giunta a Crotone da Rotterdam, ha dato mandato al pool di legali creato a Crotone per assistere gratuitamente le famiglie delle vittime, di rappresentarla nel procedimento giudiziario che scaturirà dall'indagine in corso alla Procura della Repubblica di Crotone.
"Il suo sogno era quello di fare la giornalista in Italia - ha raccontato tra le lacrime la sorella Mina, 50 anni, arrivata in auto dall'Olanda dove vive - Era laureata in giornalismo all'Università di Kabul e aveva una grande passione per il giornalismo: collaborava anche con l'agenzia Unama News. Amava fare interviste, raccontare le donne. Ma con i talebani che bussavano ogni sera alla porta, era diventato impossibile. Così ha deciso di partire".
L'ultimo messaggio di Torpekai alla sorella è di mercoledì, 22 febbraio, alle 20.43: nel testo non aveva precisato che quella sera si sarebbe imbarcata dopo poche ore su quella carretta del mare maledetta che all'alba di domenica si sarebbe schiantata contro una secca a poche metri dalla costa di Steccato di Cutro (Crotone). Mina ha saputo del naufragio solo dalla tv all'indomani mattina.
"Ho chiamato mio fratello che si è messo in contatto con lo scafista che stava in Turchia - ha aggiunto la sorella Mina - Quello a cui sono stati dati i soldi, di Torpekai e dei bambini. Per lei un pagamento di 10mila dollari e per i bambini 8mila a testa". Un viaggio lungo e insidioso per Torpekai e i suoi cari. Mina mostra la sua foto e piange, in silenzio. "Dopo avere lasciato l'Afghanistan ha raggiunto a piedi l'Iran, da qui è poi andata a Istanbul dove ha preso casa in affitto in attesa di potere partire per l'Italia a bordo di un barcone". Mercoledì 22 febbraio l'appuntamento vicino Smirne con i trafficanti che l'avrebbero accompagnata fino al barcone. In nottata la partenza.
Poco dopo le 4 del mattina lo schianto sulla secca di Steccato di Cutro ha spento i sogni di Torpekai Amarkehl e di tutte le altre persone innocenti che si trovavano sul quel barcone.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” il 7 marzo 2023.
Nove giorni fa l'imbarcazione turca Summer Love partita il 22 febbraio da Smirne si è schiantata in una secca a pochi metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro: più di 70 morti, di cui 16 bambini. Una strage. Dal giorno dopo i 98 sopravvissuti sono ospitati nei locali dell'ex Cara di Crotone, una struttura travolta anni fa dall'articolata inchiesta del procuratore Nicola Gratteri e che oggi torna al centro della bufera. Perché, pare di capire da autorevoli testimonianze di chi c'è stato dentro, «ospiti» è la parola sbagliata. «Sono trattenuti in forma arbitraria in due capannoni inadeguati non solo per chi è scampato a un naufragio terribile, ma per qualunque essere umano. Vanno chiusi».
La voce della professoressa Alessandra Sciurba, docente all'università di Palermo e coordinatrice della Clinica legale Migrazione e diritti, racconta l'altra faccia della tragedia di Steccato di Cutro. «Da un lato c'è un paese che si commuove, dall'altro ci sono persone che si vedono negati i propri diritti».
Insieme a Franco Mari, parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra è entrata l'altroieri in quei locali che – assicura – «sarebbero utili come spazio coperto per un gregge di pecore». Precisazione: «Mi creda: siamo rimasti allibiti da quanto abbiamo visto: è una situazione che forse si può accettare in emergenza per 4 ore dopo lo sbarco. Il resto è illegale».
Così dunque stiamo trattando i "survived", uomini, donne e bambini riusciti ad arrivare a riva senza farsi inghiottire dal mare nella maledetta notte del 25 febbraio: «Ci sono una quarantina di letti con materassi di gomma piuma senza lenzuola, altri cinquanta o sessanta dormono su panche di ferro; donne e uomini condividono lo stesso bagno, ergo, per le signore, è impossibile fare una doccia. Hanno solo le ciabatte estive, le scarpe che sono arrivate sono calzature sbagliate. Nei capannoni non c'è riscaldamento». Ancora: «Non possono uscire quando vogliono, non possono andare a trovare le salme dei loro parenti se non scortati dalle forze di polizia, non possono condividere il lutto con i parenti arrivati da tutto il mondo».
Il punto è che non si capisce in quale regime tecnico-politico sono trattenuti lì dentro: «Se fosse un hotspot ci vorrebbe la convalida di un giudice e invece non c'è». Su questo aspetto si è a lungo concentrato, negli ultimi giorni, il lavoro di un pool di legali e accademici dell'Asgi, associazione che si concentra sugli aspetti legali dell'immigrazione tra cui diritti umani e diritto marittimo internazionale.
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Il testo integrale dell’informativa di Piantedosi alla Camera sul naufragio di Cutro. MATTEO PIANTEDOSI su Il Domani il 07 marzo 2023
Pubblichiamo il testo integrale dell’informativa alla Camera del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi
Signor Presidente, Onorevoli Deputati/Senatori,
il governo ha immediatamente accolto l'invito del Parlamento a riferire in merito al naufragio di un'imbarcazione in legno che trasportava migranti, avvenuto nelle prime ore del mattino del 26 febbraio scorso nel mare antistante la località Steccato di Cutro in provincia di Crotone.
Voglio rinnovare prima di tutto il cordoglio, mio personale e di tutto il governo, per le vittime di questo ennesimo, tragico, naufragio e la vicinanza alle loro famiglie e ai superstiti.
Premesso che il bilancio non è ancora definitivo, gli aggiornamenti giunti dalla prefettura di Crotone portano il numero delle vittime a 72, di cui 28 minori, mentre i superstiti sono 80. Di questi, 54 sono accolti nel locale Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo (Cara) e nel pomeriggio odierno saranno trasferiti nella struttura alberghiera che già ospita i propri parenti, 12 nel Sistema Sai a Crotone, 8 sono ricoverati in ospedale, 2 minori non accompagnati sono stati collocati nelle strutture dedicate e 3 soggetti, presumibilmente gli scafisti, sono stati arrestati.
In particolare, sono stati fermati un cittadino turco e due pakistani, uno dei quali minorenne. Sono in corso le ricerche di un quarto scafista e non si escludono sviluppi nelle prossime ore.
I sopravvissuti sono afghani, iraniani, pakistani, palestinesi, siriani e somali.
Appresa la notizia del naufragio, mi sono immediatamente recato a Cutro per testimoniare, a nome del governo, il cordoglio per le vittime e la vicinanza ai superstiti, nonché alle Amministrazioni locali.
Anche in questa sede desidero rivolgere una parola di profonda gratitudine alla Calabria che, da sempre, accoglie con solidarietà e generosità i tanti migranti che sbarcano sulle sue coste e che affronta questa tragedia con compostezza e dignità non comuni.
Nell’occasione, ho presieduto una riunione in prefettura a Crotone per un primissimo punto di situazione con le Forze di polizia, i rappresentanti delle comunità locali e i responsabili delle attività di soccorso.
Il dispositivo di ricerca e soccorso in mare, tuttora in funzione, ha interessato i reparti specialistici della guardia costiera, della guardia di Finanza e dei Vigili del fuoco, secondo uno schema operativo integrato che prevede il dispiegamento di unità navali, aeree e terrestri.
Ringrazio anche gli operatori della protezione civile regionale insieme all’Arma dei carabinieri e ai tanti volontari del posto.
Per la doverosa ricostruzione dei fatti, che in quella sede deve avvenire, sulla vicenda sta indagando la Procura della Repubblica di Crotone.
Attenderemo, pertanto, con fiducia e rispetto l'esito degli accertamenti giudiziari.
Ho già fornito alcuni elementi sul naufragio nei giorni scorsi, sia in occasione delle audizioni presso le Commissioni Affari costituzionali di Senato e Camera sulle linee programmatiche del Ministero dell'interno sia nell’analoga audizione svolta dinanzi al Copasir.
L'informativa odierna, sempre in attesa di quanto emergerà dalle indagini in corso, mi offre l’opportunità di dare risposte alle molte domande che in questi giorni sono state legittimamente rivolte, anche dall'opinione pubblica, con riferimento a quanto accaduto davanti alla costa crotonese.
Veniamo ai fatti, come ricostruiti sulla base degli elementi acquisiti dalle autorità italiane competenti, cui si aggiungono le dichiarazioni di alcuni sopravvissuti raccolte in una relazione Frontex. A tal proposito va precisato che gli elementi acquisiti dai superstiti, pur restando indicativi del quadro generale dell’evento, richiedono ancora ulteriori accertamenti per la messa a fuoco degli aspetti di dettaglio.
La traversata - raccontano i sopravvissuti – parte da Cesme, in Turchia, intorno alle 3.00 del 22 febbraio in condizioni metereologiche ottimali: condizioni che, tuttavia, dopo 2 o 3 giorni peggiorano. Secondo il loro racconto, a bordo dell’imbarcazione erano presenti circa 180 persone, oltre a 4 scafisti, due turchi e due pakistani.
Tre ore dopo l’inizio della navigazione, un guasto al motore dell’imbarcazione induce due scafisti a contattare, tramite cellulare, un complice. Dopo altre tre ore di attesa, i migranti sono raggiunti da una seconda imbarcazione, pilotata da altri tre scafisti. Dopo il trasbordo dei migranti, la navigazione prosegue verso le coste italiane.
Sempre sulla base del racconto dei sopravvissuti, la barca giunta in sostituzione aveva due motori MAN entro-bordo. I migranti notano che gli scafisti dispongono di telefono satellitare e di un apparecchio che sembrava di tipo “Jammer” ovvero in grado di inibire la trasmissione e la ricezione di onde radio. Inoltre, quando l’imbarcazione incrocia davanti alle coste elleniche, gli scafisti sostituiscono la bandiera turca con quella greca.
Durante la navigazione, sempre stando alla narrazione dei migranti, gli scafisti li costringono a restare sotto coperta, facendoli salire sul ponte solo pochi minuti per prendere aria.
Dopo una traversata di 4 giorni, superato l’arcipelago delle isole greche, sempre sulla base delle dichiarazioni, il 25 febbraio, intorno alle 18.00, gli scafisti decidono di fermarsi al largo della Calabria e attendere un momento favorevole per sbarcare ed evitare di essere avvistati da parte delle Forze dell’ordine.
Dopo alcune ore, i migranti, lamentandosi della sosta, inducono gli scafisti a mostrar loro, tramite un gps, che la loro posizione era ormai vicina alla costa calabrese, con la rassicurazione che avrebbero ripreso la navigazione, per arrivare intorno alle 01.30 del 26 febbraio.
Va, tuttavia, precisato che, sulla base degli elementi acquisiti dal Ministero della giustizia, gli scafisti decidono di sbarcare in un luogo ritenuto più sicuro e di notte, temendo che nella località preventivata vi potessero essere dei controlli; il piano prevedeva l’arrivo a ridosso della riva sabbiosa, con il successivo sbarco e la fuga sulla terraferma.
Sulla base degli elementi acquisiti da guardia di Finanza e guardia costiera, alle 23.03 del 25 febbraio il Centro Situazioni di Varsavia dell’Agenzia Frontex comunica - all’International Coordination Centre di Pratica di Mare e, per conoscenza, al Centro di coordinamento italiano dei soccorsi marittimi (Itmrcc), nonché al Centro Nazionale di Coordinamento (Ncc) - l’avvistamento avvenuto alle 22.26 da parte dell’aereo Frontex “Eagle One”, impegnato in attività di sorveglianza nello Jonio, di un’imbarcazione in buono stato di galleggiabilità con una persona visibile sopra coperta, in acque internazionali, a circa 40 miglia nautiche dalle coste calabresi. Frontex segnalava che l’unità navigava con rotta 2-9-6 a velocità di 6 nodi.
L’assetto aereo, oltre ad aver captato una chiamata satellitare diretta in Turchia ed evidenziato boccaporti aperti in corrispondenza della prua, segnalava una risposta termica dei sensori di bordo e, quindi, la possibile presenza di persone sotto coperta. Fatta la segnalazione, l’aereo Frontex faceva rientro alla base per l’esigenza di rifornirsi di carburante.
Alle 23.37 la guardia di Finanza di Vibo Valentia contatta l’autorità marittima di Reggio Calabria rappresentando che una sua unità navale, come da pianificazione operativa, era già in mare e che vi sarebbe rimasta fino alle 06.00, per attività di polizia sul caso segnalato.
In tale contesto, in base alle relazioni acquisite, il quadro della situazione in possesso della guardia Costiera a quel momento si fondava sui seguenti elementi:
la segnalazione Frontex circa l’imbarcazione non rappresentava una situazione di pericolo; non c’erano state chiamate di soccorso di nessun genere; sullo scenario era presente un’unità navale della guardia di Finanza dedicata all’evento, che avrebbe potuto fornire ulteriori elementi mediante riscontro diretto e che, qualora fosse stato necessario, avrebbe anche potuto svolgere attività di soccorso quale risorsa concorrente, in linea con le previsioni del Piano nazionale sar; non erano variate le condizioni meteo-marine.
A mezzanotte circa, l’unità della guardia di Finanza, considerato il tempo stimato in circa 7 ore dall’avvistamento da parte dell’aereo Frontex, necessario al caicco per raggiungere le acque territoriali - presupposto per l’esercizio delle funzioni di polizia - rientra temporaneamente alla base di Crotone per un rabbocco di carburante. Contemporaneamente, oltre al rifornimento, veniva organizzato un nuovo assetto navale rafforzato con un maggiore dislocamento, in grado di poter meglio affrontare le condizioni del mare.
Alle 00.30 del 26 febbraio, al fine di approfondire i dati relativi alla telefonata satellitare - a cui ho prima fatto cenno -, la centrale di coordinamento operativo del Comando operativo aeronavale della guardia di Finanza di Pratica di Mare, chiede a Frontex di condividere il numero di utenza satellitare per tracciare il contatto. Frontex, nel comunicare l’utenza, evidenzia che la stessa era riferita ad un dispositivo ricevente situato in Turchia che, quindi, non era suscettibile di localizzazione.
Tornando al racconto dei sopravvissuti, intorno alle 01.30 del 26 febbraio, nonostante il peggioramento delle condizioni del mare, gli scafisti decidono di riprendere la navigazione.
Alle 02.20 circa, da quanto risulta dai rapporti acquisiti, due assetti navali della guardia di Finanza - la motovedetta rientrata per rifornimento insieme ad un’altra unità navale di più ampia dimensione - riprendono la navigazione alla ricerca dell’imbarcazione.
Tuttavia, alle 03.30 circa, le due unità navali della guardia di Finanza sono costrette a rientrare in porto a causa delle pessime condizioni meteo marine in atto.
Alle 03.48, la guardia di Finanza informa l’autorità marittima di Reggio Calabria del suo rientro, confermando il quadro conoscitivo sopra tratteggiato, che non conteneva ulteriori elementi né riguardo alla posizione, né riguardo ad eventuali criticità relative all’imbarcazione.
Alle 03.50, la stessa Sala Operativa della guardia di Finanza di Vibo Valentia, mediante la postazione della propria rete radar costiera, acquisisce, per la prima volta, un target, verosimilmente l’imbarcazione riconducibile a quella segnalata da Frontex.
Alle 03.55 la Sala Operativa del Comando provinciale della guardia di Finanza di Vibo Valentia contatta le sale operative del Corpo dei comandi provinciali di Catanzaro e di Crotone, nonché quelle della Polizia di stato e dei carabinieri di Crotone e Catanzaro, alle quali chiede l’invio di pattuglie nella zona di interesse, specificando, altresì, che le unità navali della guardia di Finanza non avevano stabilito alcun contatto con il natante e che, a causa delle avverse condizioni del mare, quest’ultimo non poteva essere raggiunto, motivo per cui le loro unità navali erano state costrette a rientrare.
Pochi minuti dopo, sull’utenza di emergenza 112 giunge una richiesta di soccorso telefonico da un numero internazionale che veniva geolocalizzato dall'operatore della Centrale Operativa del Comando Provinciale dei carabinieri di Crotone e comunicato, con le coordinate geografiche, alla Sala Operativa della Capitaneria di Porto di Crotone.
È questo il momento preciso in cui, per la prima volta, si concretizza l’esigenza di soccorso per le autorità italiane.
Alle 04.19, la Centrale Operativa del Comando Provinciale dei carabinieri di Crotone invia nella località geolocalizzata (Foce Tàcina di Steccato di Cutro) la pattuglia del Nucleo Radiomobile della Compagnia di Crotone.
Alle 04.30 circa, tramite il numero di emergenza 1530, la Capitaneria di Porto riceve una segnalazione circa la presenza di una barca a 40 metri dalla foce del fiume Tàcina.
Pochi minuti dopo il segnalante richiamava, specificando che l’imbarcazione si trovava a 50 metri dalla riva, che si stava muovendo in direzione della spiaggia e che erano presenti persone a bordo.
Veniva, pertanto, informato il Centro Secondario del Soccorso Marittimo di Reggio Calabria (MRSC), che disponeva l’invio di una motovedetta, con imbarco di un team sanitario, e di pattuglie via terra, chiedendo altresì l’intervento dei Vigili del fuoco, del 118 e della Questura di Crotone per l’attivazione dei soccorsi a terra.
Nel contempo, in località Steccato di Cutro convergevano militari dei carabinieri, personale della locale Questura e di altre Forze di polizia, nonché sanitari, personale dei Vigili del fuoco e della Capitaneria di Porto. Sul posto, intervengono, per primi, i carabinieri che nell’immediato traggono in salvo un uomo e un bambino, quest’ultimo purtroppo deceduto poco dopo, bloccando subito uno degli scafisti.
Davanti agli occhi dei soccorritori, i corpi di tante vittime innocenti, bambini, donne e uomini, riversi sulla battigia, i naufraghi e quel che rimaneva dell’imbarcazione, incagliata a circa 40 metri dalla spiaggia.
Tornando ai momenti immediatamente precedenti al naufragio e quindi ai racconti dei sopravvissuti, la navigazione era proseguita fino alle 03.50, allorquando, a circa 200 metri dalla costa, erano stati avvistati dalla barca dei lampeggianti provenienti dalla spiaggia e a quel punto gli scafisti, temendo la presenza delle forze dell’ordine lungo la costa, effettuano una brusca virata nel tentativo di cambiare direzione per allontanarsi dal quel tratto di mare.
In quel frangente, la barca, trovandosi molto vicino alla costa ed in mezzo ad onde alte, urta, con ogni probabilità, il basso fondale (una secca) e per effetto della rottura della parte inferiore dello scafo, comincia ad imbarcare acqua.
Sempre sulla base delle dichiarazioni dei superstiti, a quel punto due degli scafisti si buttano in acqua, mentre un terzo viene fermato dai migranti, per impedirgli di lasciarli soli sulla barca incagliata; molti altri migranti, nel frattempo, salgono sul ponte in cerca di aiuto e lo scafista rimasto a bordo, approfittando del momento di caos, riesce ad abbandonare la barca su un gommone di piccole dimensioni e a far salire poi gli altri due scafisti per dirigersi verso la costa.
In quel preciso momento una forte onda capovolge la barca di legno e tutti i migranti cadono in mare mentre la barca viene distrutta.
Fin qui la ricostruzione di questo tragico naufragio, che ha posto al centro del dibattito, anche mediatico, la questione delle competenze rispetto agli interventi in mare.
Per rendere comprensibile il quadro normativo, a costo di una qualche semplificazione, preciso che gli interventi operativi in mare sono riconducibili a due missioni statali, quella del law enforcement e quella di ricerca e soccorso (cosiddetta sar).
Devo subito evidenziare, tuttavia, che, sebbene si tratti di due funzioni statali qualitativamente diverse, è tutt’altro che infrequente che un determinato evento, in ipotesi nato come di law enforcement, si evolva successivamente in un evento sar (come pure può verificarsi l’inverso), dato che, in mare, il quadro situazionale si modifica repentinamente e talvolta in modo profondo e considerato soprattutto che, anche nelle attività di contrasto dei reati (immigrazione illegale, traffico di esseri umani, contrabbando, traffico di armi o droga o di reati ambientali), può in concreto porsi un problema di tutela della incolumità della vita umana in mare ed è proprio per questo che gli assetti navali di polizia sono attrezzati anche per operazioni di soccorso.
Del resto, questo assetto replica un modello ordinamentale che, ai sensi della legislazione vigente, vede le Forze di polizia chiamate a prestare soccorso, in qualsiasi contesto operino, anche quali strutture operative del servizio di protezione civile.
Voglio dire che l’esigenza di tutela della vita ha sempre la priorità, quale che sia l’iniziale natura dell’intervento operativo in mare.
In altre parole, le attività di law enforcement, che fanno capo al Ministero dell’Interno, e quelle di soccorso in mare, che competono al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, esigono la cooperazione e la sinergia tutte le volte che i contesti operativi concreti lo richiedono, e in primis quando si tratta di salvaguardare l’incolumità delle persone in mare.
Non esistono, né possono esistere barriere tra Corpi dello stato che operano in un campo, quello degli interventi in mare, che si fonda sulla cooperazione e sul coordinamento proprio perché il conseguimento di risultati, in quel contesto, più ancora che in altri, non può che avvenire con il concorso e il contributo di tutti gli attori coinvolti, come peraltro il diritto interno e quello internazionale impongono.
Le attività di contrasto all'immigrazione irregolare sono sempre pronte a coniugarsi con le attività di ricerca e soccorso in mare, proprio in ragione – lo voglio ribadire - del superiore interesse di tutela della vita umana.
Tra l’altro, è anche per questa ragione che esistono i Centri di coordinamento, che operano e si interfacciano h 24 e 7 giorni su 7, in composizione prevalentemente interforze e disponendo di apparati tecnologici adeguati alle finalità. Si tratta di un impegno costante, faticoso e rischioso di tante donne e uomini dello stato che sarebbe ingeneroso - anzi, consentitemi, offensivo - svalutare o disconoscere.
A questo proposito, evidenzio che il quadro normativo nazionale, peraltro sottoposto a vincoli di natura internazionale con specifico riguardo alla materia del soccorso in mare, non è assolutamente stato modificato dall’attuale governo.
Peraltro, le modalità tecnico-operative dei salvataggi non possono essere in alcun modo sottoposte a condizionamenti di natura politica o a interventi esterni alla catena di comando.
Dunque, sostenere che i soccorsi sarebbero stati condizionati o addirittura impediti dal governo costituisce una grave falsità che offende, soprattutto, l’onore e la professionalità dei nostri operatori impegnati quotidianamente in mare, in scenari particolarmente difficili.
Inoltre, permettetemi di precisare che trovo incomprensibile aver messo in connessione il cosiddetto “decreto ong” con il naufragio di Cutro perché, in primo luogo, né nello Jonio né lungo la cosiddetta rotta turca hanno mai operato navi di Organizzazioni non governative e, poi, perché le regole introdotte con il citato provvedimento partono dal presupposto che prima di tutto devono essere sempre assicurati il soccorso e l’assistenza dei migranti a tutela della loro incolumità.
Per capire come in concreto si raccordino tra loro le competenze dei vari soggetti istituzionali coinvolti e se, alla luce delle procedure esistenti, vi siano stati degli errori, è essenziale chiarire che l’attivazione dell’intero sistema sar non può prescindere da una segnalazione di una situazione di emergenza.
Solo ed esclusivamente se c’è tale segnalazione, si attiva il dispositivo sar. Laddove, invece, non venga segnalato un distress, l’evento operativo è gestito come un intervento di polizia, anche in ragione di quanto prima osservato circa la capacità di soccorso delle nostre unità navali.
È esattamente quanto avvenuto nel caso in questione.
Nell’evento, il primo dato certo è che l’assetto aereo Frontex che, per primo, ha individuato l’imbarcazione alle ore 22.26 del 25 febbraio a 40 miglia nautiche dall’Italia, non ha rilevato e, quindi, non ha segnalato una situazione di distress a bordo, limitandosi a evidenziare la presenza di una persona sopra coperta, di possibili altre persone sotto coperta e una buona galleggiabilità dell’imbarcazione. Frontex annotava, altresì, che l’imbarcazione procedeva a velocità regolare (6 nodi l’ora), non appariva sovraccarica e non “sbandava”.
Peraltro, nessuna segnalazione di allarme o richiesta di aiuto proveniva dall’imbarcazione in questione.
È utile precisare che l’assetto aeronavale Frontex che ha rilevato l’imbarcazione stava operando, nel quadro della missione “Themis”, in un’area della cosiddetta “rotta orientale”, rispetto alla quale il Ministero dell’Interno aveva formalmente chiesto, già dal 2021, a Frontex il potenziamento del dispositivo di sorveglianza, poi avvenuto grazie al dispiegamento di un ulteriore mezzo aereo.
L’assetto Frontex, poiché l’evento rilevato alle 22.26 del 25 febbraio non aveva, né lasciava supporre, una condizione di distress, lo segnalava, correttamente, alle autorità italiane di law enforcement e, per conoscenza, anche a quelle di soccorso marittimo, nonché al proprio quartier generale, come previsto dalle procedure esistenti affinché le autorità nazionali competenti gestissero l’evento con strumenti appropriati per tale tipo di operazioni in base al proprio ordinamento.
Aggiungo che Frontex, oltre a fornire alle autorità nazionali un “early warning”, cioè una notifica precoce di quanto constatato, effettua un monitoraggio dell’imbarcazione sospetta rilevata, interrotto, nel nostro caso, unicamente perché l’aereo era a corto di carburante e quindi doveva ritornare alla base.
Per quanto riguarda i nostri assetti navali operativi in mare, sui quali in questi giorni circolano le illazioni più disparate, fermo restando, ovviamente, il doveroso accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria, trovo ingiusto non riconoscere i risultati ottenuti dalle nostre strutture responsabili degli interventi operativi in termini di salvataggio di vite in mare.
Aggiungo, altresì, che i fatti di Cutro si inseriscono nel fenomeno dei cosiddetti sbarchi autonomi, ovvero di quelle imbarcazioni, spesso di minime dimensione, che giungono sulle nostre coste senza essere intercettate e che non rappresentano un’evenienza rara in quanto riconducibili a una precisa strategia degli scafisti di elusione dei controlli alle frontiere marittime.
Tornando ai risultati conseguiti dai nostri apparati statali impegnati in operazioni in mare, limitandomi al periodo più recente, dal 22 ottobre 2022 al 27 febbraio 2023, le nostre Autorità hanno gestito 407 eventi sar, mettendo in salvo 24.601 persone. Nello stesso periodo, nel corso di 300 operazioni di polizia per il contrasto dell’immigrazione illegale, la sola guardia di Finanza ha tratto in salvo 11.888 persone. Per un totale, tra sar e law enforcement, di 36.489 persone salvate.
Dunque, dati alla mano, è del tutto infondato che le missioni di law enforcement non siano in grado di effettuare anche salvataggi.
Allo stesso tempo, non possiamo non ricordare la lunga e terribile serie di naufragi che continuano a verificarsi nel Mediterraneo.
Solo nel 2016, anno in cui era ancora operante l’operazione navale umanitaria “Mare Nostrum” - avviata all’indomani del naufragio di Lampedusa dell’ottobre 2013 con 368 morti, dispiegando un possente dispositivo aereonavale e con la presenza di navi ONG - le vittime nel Canale di Sicilia furono 4.574 secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale della Migrazione. Nel 2022, in base alla medesima fonte, le vittime sono state 1.377.
Con il solo intento di riportare alla memoria il ricordo delle troppe vittime del nostro mare dal 1997 ad oggi, da più parti, in questi giorni, sono stati richiamati i tragici naufragi della Kater i Rades, nel Canale d’Otranto, il 28 marzo 1997, con 81 migranti morti, quello del 3 ottobre 2013 a Lampedusa che causò la morte di 368 persone e quello dell’11 febbraio 2015, nel canale di Sicilia, che costò la perdita di 330 vite.
Con la stessa finalità, voglio ricordare tanti altri naufragi avvenuti nello stesso periodo, 49, solo tra quelli principali segnalati dalle Capitanerie di Porto. Di questi, permettetemi di fornire un elenco di quelli mi hanno maggiormente toccato, per le modalità e il portato di sofferenze e di dolore che ancora restituiscono.
Il 12 maggio 2008 un barcone con 66 migranti va alla deriva per giorni. A bordo, 47 persone muoiono di freddo e stenti e sono gettate in mare dai compagni, altre 3 sono ritrovate morte.
Il 10 luglio 2012, nel tratto di mare tra la Libia e Lampedusa si sgonfia un gommone e muoiono 54 persone.
Il 1° luglio 2014, a bordo di un peschereccio stipato di oltre 600 persone, 45 muoiono asfissiate.
Il 19 luglio 2014, 30 migranti, chiusi nella stiva di un barcone, muoiono asfissiati dalle esalazioni del motore.
Il 22 agosto 2014, davanti alle coste libiche, l’affondamento di una imbarcazione produce oltre 200 morti, molti dei quali recuperati sulla spiaggia.
Il 18 aprile 2015, al largo delle coste libiche, il naufragio di un natante carico di migranti porta le vittime ad un numero imprecisato, tra le 700 e le 1.000 persone.
Il 5 maggio 2015, nella ressa alla vista dei soccorsi, muoiono in 40, alcuni a bordo, altri per annegamento.
Per venire a tempi più vicini a noi, il 19 agosto 2020, proprio nella fase di massima contrazione degli arrivi per effetto della pandemia, al largo della Libia perdono la vita 45 persone.
Il 12 novembre 2020, almeno 74 migranti annegano nello stesso tratto di mare per il naufragio di un’imbarcazione che trasportava più di 120 persone.
Il 21 aprile 2021 naufraga un barcone carico di 130 migranti: sono ritrovati 8 corpi.
Potrei continuare a lungo questa tragica elencazione, ma credo basti a dare l’idea della drammaticità delle conseguenze delle partenze illegali.
Proprio per interrompere questa tragica sequenza, sul presupposto che la causa principale, immediata e diretta delle morti in mare sia costituita dalle reti criminali dedite al favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e che la causa profonda risieda nei persistenti e crescenti squilibri tra Nord e Sud del mondo, questo governo ha finalmente riportato il tema migratorio al centro dell’agenda politica, in modo trasversale rispetto a tutte le dimensioni lungo le quali si esplica la sua azione: a livello nazionale; sul piano europeo; con i paesi di transito e partenza dei flussi.
È in tale direzione che, insieme al Presidente Meloni e al Ministro Tajani, stiamo sviluppando un’intensa attività congiunta di collaborazione con Turchia, Tunisia e Libia sui principali dossier di interesse comune tra i quali la cooperazione di polizia e la lotta al terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione irregolare.
Abbiamo condiviso la necessità di un approccio concreto e pragmatico al fenomeno migratorio che, superando un’ottica esclusivamente securitaria, contribuisca a rimuovere le criticità, anche di natura sociale ed economica.
Ho già in programma ulteriori missioni in Egitto e Costa d’Avorio finalizzate ai medesimi obiettivi.
Voglio evidenziare, in tale contesto, il recente incontro con il mio omologo francese, dal quale ho raccolto una forte volontà di lavorare con l’Italia su dossier di interesse comune, tra i quali la realizzazione di missioni congiunte in paesi di fondamentale importanza come Tunisia e Libia.
A livello europeo, grazie all’efficace azione del nostro Presidente del Consiglio, intravediamo i primi significativi cambiamenti di prospettiva.
In tal senso, le conslusioni dell’ultimo Consiglio europeo del 9 febbraio rappresentano un cambio di paradigma, atteso che per la prima volta si riconosce che la questione migratoria “è una sfida europea che richiede una risposta europea”.
Prendiamo atto di questi sviluppi incoraggianti, ma nei prossimi appuntamenti europei lavoreremo perché tali affermazioni di principio si traducano in politiche unionali coerenti, con misure concrete e impegni vincolanti per gli stati membri.
Nel recente incontro dei paesi del Med5, tenutosi a Malta il 3 e 4 marzo scorsi, con i miei colleghi di Spagna, Grecia, Cipro e Malta abbiamo convenuto, nella dichiarazione congiunta adottata al termine del vertice, tra l’altro, che il nostro comune impegno è quello di intensificare gli sforzi per prevenire la migrazione irregolare, al fine di evitare la perdita di vite umane in mare, nonché lo sfruttamento dei migranti da parte dei trafficanti.
Sul piano nazionale, abbiamo rafforzato i canali legali di ingresso dei migranti e intendiamo ulteriormente valorizzare strumenti importanti quali l’introduzione a livello nazionale di quote privilegiate di ingresso nel decreto flussi a beneficio dei paesi più collaborativi nella lotta all’immigrazione illegale e nell’attuazione dei rimpatri.
Con l’ultimo decreto Flussi sono stati programmati circa 83 mila ingressi regolari per motivi di lavoro, a soli due mesi dall’insediamento del governo. I precedenti decreti Flussi avevano ammesso, nel 2021, 69.700 ingressi e, nel 2020, 30.850.
Sono, questi, dati incontrovertibili che testimoniano l’impegno del governo per favorire l’immigrazione regolare in modo da renderla proficua sia per i migranti sia per il sistema produttivo nazionale e la società italiana.
Abbiamo intenzione di proseguire in questa direzione, rafforzandone gli strumenti e semplificando gli aspetti procedurali.
Sul versante umanitario, continueremo e potenzieremo anche le iniziative in atto relative ai corridoi d’ingresso umanitario, alle evacuazioni umanitarie e ai programmi di reinsediamento, che hanno sempre visto l’Italia in prima fila nella tutela delle persone vulnerabili.
Il governo, sin dal suo insediamento, ha intensificato i corridoi migratori legali, portando in Italia 617 persone, un numero mai registrato in un così breve lasso di tempo.
Nella stessa direzione, il nostro Paese si è impegnato, tra l’altro, ad accogliere, in accordo con la Commissione Europea, 1.481 persone, entro il primo semestre del 2023 (in particolare 981 afghani da Iran e Pakistan e 500 persone dalla Libia). Nell’ambito delle ammissioni umanitarie, ulteriore impegno programmato, sempre per il 2023, è quello di accogliere altre 850 persone. Vengo alle conslusioni.
Quella di Cutro è una tragedia che ci addolora profondamente, anche sul piano personale, e la dinamica dei fatti conferma la sua dipendenza diretta dalla gestione criminale di trafficanti senza scrupoli che non esitano a sacrificare la vita altrui per biechi profitti personali, come il racconto dei sopravvissuti ha chiaramente messo in evidenza.
Lo ricordo, gli scafisti:
hanno tenuto nascosti i migranti sottocoperta per tutta la traversata, in condizioni disumane;
hanno utilizzato, con ogni probabilità, un dispositivo in grado di inibire la trasmissione e la ricezione di onde radio;
hanno scelto di sostare molte ore davanti alle coste calabresi per sbarcare di notte ed evitare di essere intercettati dalle forze dell’ordine;
hanno cercato di sbarcare in un luogo isolato, anziché in un porto dove i migranti avrebbero potuto ricevere soccorso;
sentendosi minacciati, hanno compiuto una virata azzardata che ha determinato il naufragio.
Alla gravità di questa condotta criminale facevo riferimento quando, con commozione, sdegno e rabbia e negli occhi l’immagine straziante di tutte quelle vittime innocenti, ho fatto appello affinché la vita delle persone non finisca più nelle mani di ignobili delinquenti, in nessun modo volendo colpevolizzare le vittime.
Mi dispiace profondamente che il senso delle mie parole sia stato diversamente interpretato.
La sensibilità e i principi di umana solidarietà che hanno ispirato la mia vita personale, sono stati il faro, negli oltre trent’anni al servizio delle istituzioni e dei cittadini, di ogni mia azione e decisione.
Sono questi i valori che mi hanno guidato quando mi sono dovuto confrontare con l’accoglienza e l’integrazione di persone vulnerabili, con la salvaguardia di posti di lavoro, con il sostegno a persone in difficoltà e il soccorso in occasione di calamità.
Penso che su una cosa siamo tutti d’accordo.
Se vogliamo evitare che chi scappa da guerre, persecuzioni e povertà affidi la sua vita a trafficanti di esseri umani, dobbiamo scardinare il business dell’immigrazione illegale attraverso politiche sempre più efficaci di contrasto in qualsiasi direzione necessaria.
In questo senso, combattere gli scafisti ed i loro fiancheggiatori è indispensabile.
Non possiamo rassegnarci, e non lo faremo, all’idea che i flussi migratori siano gestiti da criminali senza scrupoli, né all’accettazione passiva di una migrazione senza regole, principale causa delle tragedie in mare.
Vi ringrazio per l’attenzione.
Estratto dell'articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” l’8 marzo 2023.
Nove giorni, errori macroscopici, affermazioni false e nessuna risposta alla domanda delle domande: chi, la sera di sabato 25 febbraio, ha deciso che ad uscire in mare per controllare quel barcone segnalato da un aereo di Frontex nel mare Ionio dovessero essere le motovedette della Finanza e non i mezzi specializzati della Guardia costiera? Chi ha deciso che, per quella che era in tutta evidenza una imbarcazione che trasportava migranti, doveva essere avviata una operazione di polizia e non di soccorso?
«Falso e offensivo che i soccorsi sono stati condizionati o addirittura impediti dal governo». Prima alla Camera, poi al Senato, strappando una standing ovation della maggioranza che stride con la tragicità della vicenda, Matteo Piantedosi non chiarisce assolutamente nulla sulla catena di comando che, nelle sei ore antecedenti al naufragio di Cutro, avrebbe potuto cambiare le sorti di quel barcone lasciato nel mare in tempesta con il suo carico di 180 vite, più di metà delle quali andate perdute.
[…]
Addirittura, mostrando di ignorare persino la storia dei soccorsi in mare, fa la conta di 4.745 morti in mare «solo nel 2016, anno in cui era ancora operante l’operazione navale umanitaria Mare Nostrum avviata all’indomani del naufragio di Lampedusa dell’ottobre 2013 dispiegando un possente dispositivo aereonavale e con la presenza di navi Ong». Peccato che la missione Mare Nostrum nel 2016 era terminata ormai da due anni.
Improponibile l’autodifesa sul mancato intervento dei mezzi della Guardia Costiera: «L’attivazione di un soccorso – la tesi di Piantedosi - non può prescindere da una segnalazione di una situazione di emergenza. Solo ed esclusivamente se c’è tale segnalazione, si attiva il dispositivo Sar. Laddove, invece, non venga segnalato un distress, l’evento operativo è gestito come un intervento di polizia. È esattamente quanto avvenuto nel caso in questione».
Ignora evidentemente il ministro dell’Interno non solo le regole del Piano Sar in vigore, ma soprattutto quelle che da anni sono le indiscusse linee guida della Guardia costiera, sancite da innumerevoli sentenze della magistratura: e cioè che tutte le imbarcazioni che trasportano migranti «devono essere considerate subito in distress, in ragione del fatto che sono sovraccariche, inadeguate a percorrere la traversata, prive di strumentazione e di personale competente».
E il caicco avvistato il 25 febbraio alle 22.26 dall’aereo di Frontex sicuramente come barca di migranti era stata classificata dalle sale operative informate, diversamente non sarebbe stata disposta una operazione di polizia nei confronti di un’imbarcazione sulla quale – pur navigando senza evidenti emergenze – una rilevazione termica segnalava la presenza di numerose persone sottobordo e di un satellitare che interloquiva con una utenza turca.
[…] Come se quel mare grosso che costringe la Finanza al rientro in porto non fosse un elemento sufficiente di rischio per un barcone di certo meno attrezzato di un mezzo militare. […]
Estratto dell'articolo di Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” l’8 marzo 2023.
[…] Quella ricostruzione però è piena di omissioni e inesattezze. Soprattutto, non risponde alla domanda più importante: perché la Guardia costiera non è intervenuta sapendo che c'era un caicco carico di migranti sulle coste calabresi con il mare forza sei?
Il ministro elude, confonde, cita cose inesatte. È soprattutto interessato a indicare un unico colpevole per quanto accaduto (72 morti accertati di cui 28 minori, 80 superstiti e ancora molti dispersi): gli scafisti.
[…]
«L'assetto aereo Frontex che, per primo, ha individuato l'imbarcazione alle ore 22:26 del 25 febbraio a 40 miglia nautiche dall'Italia, non ha rilevato e quindi non ha segnalato una situazione di distress a bordo, limitandosi a evidenziare la presenza di una persona sopra coperta, di possibili altre persone sotto coperta e una buona galleggiabilità dell'imbarcazione», dice Piantedosi. «L'imbarcazione procedeva a velocità regolare, non appariva sovraccarica e non sbandava». Peraltro, non arrivava da lì «nessuna segnalazione di allarme o richiesta di aiuto».
Quella richiesta, stando alle parole dello stesso ministro, non poteva arrivare perché gli scafisti erano in possesso di uno strumento capace di inibire le comunicazioni Gps. Ma restiamo a quanto detto su Frontex che non aveva segnalato un distress. «Non sta a noi classificare un evento come "Search and rescue" (di ricerca e soccorso) - ha fatto sapere l'Agenzia europea delle frontiere - secondo le leggi internazionali è responsabilità delle autorità nazionali». Quindi, doveva essere l'Italia a trasformare quella segnalazione - caicco in avvicinamento, rilevazione termica di molte persone a bordo, condizioni del mare in peggioramento - in un evento per il quale doveva intervenire la Guardia costiera.
[…] Racconta poi che le due motovedette uscite quella notte non sono riuscite ad avvicinarsi alla barca e sono tornate indietro per le cattive condizioni del mare, ma non spiega perché - a quel punto - non siano usciti i mezzi più possenti e adatti alla tempesta della Guardia costiera.
Soprattutto non cita mai il report che l'Aeronautica militare aveva inviato alle autorità: il bollettino prevedeva, dalle 18 del 25 febbraio alle 6 del mattino dopo "burrasche sullo Ionio settentrionale". "Mare molto mosso e in aumento", fino a forza 7. Non bastava questo, per segnalare un «distress», per usare il linguaggio anglo-burocratico del ministro?
Non è forse vero che secondo il disciplinare Sar del 2020 perché scattino le operazioni di ricerca e soccorso basta il riscontro oggettivo di situazioni di pericolo, anche dubbio o eventuale? Insomma, non è forse vero che non serve che qualcuno chiami e dica: «Affoghiamo», perché la Guardia costiera si muova a soccorrere un'imbarcazione che le è stata segnalata in una situazione di pericolo?
A queste domande, non polemiche, il ministro non ha dato risposta. Anzi, sembra dire il contrario: «È essenziale chiarire che l'attivazione dell'intero sistema Sar non può prescindere da una segnalazione di una situazione di emergenza». Ma chi deve farla? Il Piano nazionale di ricerca e soccorso è molto chiaro: «Tutti i soggetti pubblici o privati che abbiano a conoscenza notizie relative a una nave o a una persona in pericolo in mare devono darne immediata comunicazione all'organizzazione Sar marittima». Non lo ha fatto il centro di coordinamento dopo la segnalazione Frontex? Bene, doveva farlo la Guardia di Finanza. E invece, il soccorso in mare non è scattato. […]
La denuncia da Crotone. Strage di Cutro, l’ultimo sfregio ai migranti sopravvissuti al naufragio: “vivono” senza letti e riscaldamento. Redazione su Il Riformista il 7 Marzo 2023
Da venerdì si trova a Crotone, come volontaria con una parte della clinica legale Migrazioni e diritti dell’Università (che coordina) e con altre associazioni. Alessandra Sciurba, docente universitaria palermitana e giurista, non usa mezzi termini per descrivere cosa si è trovata di fronte quando ha potuto incontrare i migranti sopravvissuti al naufragio di Cutro, donne e bambini riusciti a scampare alla morte che ha invece inghiottito almeno 70 persone che erano a bordo del caicco partito dalla Turchia e spezzatosi in due a circa 100 metri dalla spiaggia calabrese.
Per Sciurba però al dramma che si è consumato di fronte alla spiaggia di Cutro, ne sta seguendo un secondo coperto dal silenzio. Se infatti in mare “ha prevalso la logica di polizia e difesa dei confini su quella del soccorso delle persone in pericolo, in terra prevale la logica del confinamento e della punizione di chi emigra sul rispetto dell’umanità”.
Così i sopravvissuti al naufragio, provati nel fisico e nell’animo per aver perso in molti casi un familiare nella traversata del Mediterraneo finita in tragedia sulle coste calabresi, sono tenuti “in un hotspot improvvisato. Una piccola Lampedusa anche per loro. Con letti improvvisati, panchine per dormire e donne e bimbi sistemati nella stessa area degli uomini”.
Prima di lasciare Crotone Sciurba non manca di criticare le istituzioni: “Non sapevo se avesse senso venire, se potessimo essere utili. E invece è stato importantissimo farlo – racconta – Qui serve tutto. Ben oltre la commozione e le visite brevi delle istituzioni“.
“Abbiamo aiutato noi, per due giorni, le brave assistenti sociali del Comune di Crotone a compilare i moduli per il rimpatrio delle salme. Un tavolino a poca distanza dalle bare per chiedere a papà che hanno perso la moglie e i figli, a figlie che hanno perso la madre, a fratelli che hanno perso una sorella e i suoi bambini di pochi anni, dove desiderassero che quei corpi venissero infine portati“, aggiunge la docente palermitana, già portavoce di Mediterranea Saving Humans.
“Moltissimi chiedono che le salme tornino in Afghanistan, nonostante siano fuggiti proprio dal regime dei talebani, e bisogna trovare il modo, anche se è difficile e può essere pericoloso proprio per queste famiglie, di dare dignità almeno a questo desiderio“, spiega ancora Sciurba, ma “non ci sono notizie sui fondi destinati al trasporto di questi corpi. Non ci sono informazioni certe su nulla. Le famiglie arrivate da ogni dove sono confuse, frustrate, disperate“. “I ragazzi e le ragazze dell’associazione Sabir di Crotone fanno tutto quello che possono – dice ancora la volontaria – Così come i sommozzatori e tutte le squadre che ancora continuano nella ricerca dei corpi, certamente più di 30, che sono ancora dispersi“.
Domenica pomeriggio Alessandra Sciurba è stata sulla spiaggia di Steccato di Cutro, “con queste madri e padri e nonni e figli e fratelli e sorelle di chi non ce l’ha fatta, cercavamo di spiegare come sia stato possibile“. “Ma le parole mancano – aggiunge ancora – E la certezza che questo paese abbia delle colpe imperdonabili ti toglie il fiato quando scopri, come è successo a noi, entrando dentro il Cara di Crotone prima col Comune e poi con l’Onorevole Franco Mari, dove sono stati collocati i sopravvissuti“. “I superstiti delle famiglie spezzate di cui tutta Italia ha pianto la tragedia, sono reclusi in due capannoni antistanti al centro, due magazzini – dice – Un hotspot improvvisato con la metà dei letti che servirebbero, gli altri dormono sulle panche. Donne e minori in mezzo agli uomini adulti. Il bagno in comune. Le pareti scrostate, nessun riscaldamento. Niente lenzuola. Niente scarpe chiuse. Nemmeno la possibilità, essendo confinati lì se non per poche uscite programmate e scortate, di restare accanto alle bare e ai parenti venuti qui a Crotone da lontano per identificare e piangere i morti. Ed è difficile rispondere mentre chiedono come potere superare le rigidità insensate delle leggi europee che gli vietano di seguire le salme dei loro cari nei casi in cui queste verranno portate in altri paesi UE dove si trovano familiari partiti prima di loro“.
“Oltre alla verità e alla giustizia sulla morte delle loro famiglie, è loro negata adesso, in terra italiana, anche la dignità delle vittime“, è l’amaro commento al trattamento riservato a chi è sfuggito alla morte.
Da open.online l’8 marzo 2023.
Saranno tutte trasferite entro oggi al cimitero musulmano di Bologna le salme delle vittime del naufragio di Steccato di Cutro. Lo ha deciso il ministero degli Interni. Una scelta che ha colto di sorpresa le famiglie delle vittime: alcuni dei parenti si sono immediatamente riuniti davanti alla camera ardente allestita a Crotone per protestare contro la scelta delle autorità italiane.
I famigliari delle vittime – riferisce l’Ansa – chiedono di attendere qualche giorno per avere la possibilità di avviare le pratiche per il trasferimento nei Paesi di origine. «Vorremmo poter decidere noi dove portare i nostri defunti», ha detto all’Adnkronos un uomo di nome Aladdin, che nella strage ha perso la zia e tre cuginetti. Il Comune di Crotone, che ha raccolto le istanze dei famigliari delle vittime, aveva già deliberato delle somme per i costi del trasferimento delle salme, prelevandole dal Fondo migranti che poi sarebbe stato rimborsato dal Ministero.
Dopo le proteste, fonti del Viminale hanno precisato che il trasferimento a Bologna è una «soluzione provvisoria e non definitiva presa per dare immediata dignità alle salme, anche perché in Afghanistan non è semplice procedere nell’immediato al rimpatrio». E dal ministero dell’Interno, inoltre, si precisa: «Si procederà sulla base delle richieste di ogni nucleo familiare con la soluzione definitiva: qualora sia richiesto il rimpatrio della salma, lo Stato italiano se ne farà carico di tutti gli oneri».
(…)
Cutro, la protesta a oltranza dei parenti delle vittime: «Sepolte a Bologna? No, vanno rimpatriate». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l’8 marzo 2023.
Davanti al palasport arrivano decine di afghani, nazionalità di gran parte delle vittime. I pugni battuti sui vetri, poi si arriva a una sofferta mediazione
Imbacuccata in una coperta grigia, seduta per terra in mezzo alla strada. Il cielo sopra Mina è prima nuvoloso, con squarci di azzurro, poi rosso fuoco. Un tramonto così spettacolare da essere quasi offensivo, per il dolore che lei e tutti gli altri sentono addosso, pesante dieci, cento, mille delle coperte che avvolgono le loro spalle.
Mina ha perduto sua sorella, la giornalista afghana Torpekai Amarkhel. Alauddin non rivedrà più sua zia e i suoi tre bambini. Basir piange la nipote e il marito di lei... Sono qui, i parenti dei migranti morti. Eccoli.
Alle dieci del mattino sono arrivati a protestare davanti al Palasport che ospita le bare e non se ne sono più andati. O meglio: a tarda sera hanno deciso che le donne e i bambini sarebbero tornati in albergo e che invece una delegazione di uomini avrebbe dormito lì dentro, in quello scrigno di morte. «Per fare la guardia alle bare», dicono. Perché non si fidano. Perché temono che qualcuno — la prefettura, il sindaco, il governo, poco importa — decida di portar via quei morti in posti dove loro non vorrebbero che andassero.
La protesta è nata dal tam tam della mattina presto. Trasferiscono tutte le bare, è stata la prima notizia ancora incerta, rimbalzata dall’una all’altra delle famiglie in attesa di avere risposte sulla destinazione chieste per i loro morti. Ma, sorpresa: ad uno ad uno, i familiari vengono avvisati dalla prefettura che le salme andranno tutte a Borgo Panigale (Bologna), dove si trova un grande cimitero islamico.
È il panico. Scoppia la rabbia, c’è tensione. Davanti al Palamilone arrivano a decine, soprattutto afghani perché la gran parte dei naufraghi morti nella strage di Cutro era afghana. Si siedono per terra, qualcuno si sdraia. Striscioni, fotografie, cartelli. Il traffico si paralizza, intervengono i vigili urbani e la polizia ma loro non mollano. «Da qui non ce ne andiamo se non ci mettete per i scritto che porterete i nostri morti dove chiediamo di mandarli, a spese vostre» è la richiesta. «Ce l’avevate promesso».
Un funzionario della prefettura prova a mediare, spiega che i rapporti con l’Afghanistan sono difficili, per non dire impossibili, ma è inutile. Il sit in continua. E quando arriva il primo carro funebre gli afghani cominciano a battere i pugni sui vetri, diventa chiaro che forse è meglio rinunciare al piano Bologna.
La figlia di Mina traduce in inglese la rabbia di tutti: «Da 12 giorni ci dicono “domani, domani” ma il tempo passa e non succede nulla. Il vostro presidente della Repubblica ci ha detto che non ci avrebbe abbandonati e oggi ci dicono di Bologna...Noi vogliamo che tornino in Afghanistan».
Nel pomeriggio il sindaco di Crotone Vincenzo Voce viene a parlare ai manifestanti: «È stata trovata una soluzione. A Bologna andranno solo le salme i cui familiari hanno dato consenso». Per gli altri «è stata contattata un’agenzia funebre tedesca» che le porterà in Afghanistan. «Non è un problema di soldi», aggiunge, pregandoli di sciogliere il sit in. A fine giornata la situazione è questa: due privati stanno portando i loro morti in Germania grazie a una raccolta fondi; altri cinque sono già stati trasferiti; entro oggi 25 salme andranno a Bologna. Delle altre 40 si sta decidendo in queste ore.
(ANSA l’8 marzo 2023) - E' stato arrestato il quarto presunto scafista dell'imbarcazione carica di migranti il cui naufragio a Cutro, all'alba del 26 febbraio scorso, ha provocato la morte accertata di 72 persone e un numero ancora imprecisato di dispersi.
Si tratta di un cittadino turco, Gun Ufuk, di 28 anni, che dopo il naufragio era riuscito ad allontanarsi e a rendersi irreperibile. Ufuk, secondo quanto si é appreso, é stato rintracciato in Austria.
Sul conto di Gun Ufuk pendeva l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Crotone, Michele Ciociola, dopo la convalida dei fermi dei presunti scafisti. Gli altri tre arrestati sono un turco e due pakistani, uno dei quali minorenne.
Ufuk sarebbe stata la persona cui era affidato il compito di condurre il caicco che a poche decine di metri dalla riva, davanti la costa di 'Steccato' di Cutro, ha urtato contro una secca scaraventando in mare il suo carico umano. Il cittadino turco, inoltre, avrebbe svolto anche le funzioni di meccanico, intervenendo più volte quando il motore dell'imbarcazione ha manifestato qualche problema.
Al momento non si hanno particolari sugli elementi che hanno consentito agli investigatori di rintracciare in Austria e di arrestare lo scafista
Cutro, i volti e le storie della tragedia. Alessandro Fulloni, Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2023.
Le foto delle vittime che erano sul peschereccio naufragato sulle coste di Crotone. I nomi, le età. «Cercavano una vita migliore e la libertà». I corpi recuperati sono sinora 72, 29 avevano meno di 18 anni
Fotografie attaccate con il nastro adesivo all’inferriata del Palazzetto dello Sport trasformato in camera ardente. Fotografie chieste ai familiari delle vittime giunti qui a Crotone da Olanda, Austria, Germania, Stati Uniti e anche da diverse città italiane, come Taranto e Verona, dopo aver saputo del naufragio del caicco avvenuto all’alba di domenica 26 febbraio a 150 metri dalla spiaggia di Steccato, una frazione del comune di Cutro. Fotografie pubblicate dai quotidiani e periodici locali — il Crotonese, il Quotidiano del Sud, Cn24tv.it — che stanno raccontando, loro che ne hanno viste e testimoniate a decine a partire dagli anni Novanta, tutti i dettagli di questa ennesima sciagura nelle acque del Mediterraneo.
Fotografie recuperate sul web da giornalisti e volontari che hanno visto da vicino la martoriata vita dell’Afghanistan dominato dai talebani. In queste due pagine pubblichiamo alcune immagini dei volti di chi il 22 febbraio è partito da Smirne, in Turchia, con il cuore pieno di speranza. Un viaggio cominciato sovente a piedi —per i più all’indomani del precipitoso abbandono, nell’agosto 2021, dell’Afghanistan da parte della missione internazionale —, partendo da Herat e Kabul. Volti di gente qualunque, e i loro sogni, perduti nell’inabissamento della Summer Love. Per esempio quello due donne: la giornalista Topekai e l’attivita Abiden, in prima linea nella lotta per i diritti delle donne afghane e per questo perseguitate.
Poi l’entusiasmo di un ragazzino come Afridi, partito da solo, e la grinta di una nonna cinquantenne come Gul Makai che voleva vedere i nipotini nati in Germania. I corpi recuperati sono sinora 72 e di questi erano 29 ad avere meno di 18 anni. Sono 63 le vittime, grazie al colossale lavoro della Scientifica di Crotone, che hanno ricevuto un nome un cognome. I dispersi sono un numero imprecisato che va di 30 ai 50. Nove le salme ancora da identificare: per adesso l’unico «nome» che hanno è quello di una sigla impressa sulla targa d’ottone che compare sulle bare. Una è questa: KR27D18. Vuol dire questo: «KR» sta per Crotone, «27» indica il ventisettesimo ritrovamento, la «D» spiega che si tratta di una donna. Il «18», infine, è l’età. Di questa ragazza non sappiamo altro.
Arabzadeh Mohammad Esagh(31)
Afghanistan
Mohammad Esagh Arabzadeh, 31anni, morto insieme alla moglie, Jomgh Gol Arabzadeh, 28 anni. La La loro foto campeggia sull’inferriata del Palasport di Crotone adibito a camera ardente. Lui e lei assieme, probabilmente in un centro commerciale. Lui e lei, partiti assieme da Smirne. Lui e lei, morti assieme a Cutro
Abiden Jafari(28)
Afghanistan
Subito questa donna, Abiden Jafari, 28 anni, afghana, era stata identificata solo con una sigla: «KR16D45». Ma dopo che la Scientifica è riuscita a recuperarne le generalità, si è scoperto che Abiden era un’attivista che si batteva per i diritti delle donne. Perseguitata, si è imbarcata sul caicco dove ha trovato la morte
Ali Muhammad Qasim Maqsood(21)
Pakistan
La sua foto è appesa all’inferriata del Palasport di Crotone trasformato in camera ardente. Di Ali Muhammad Qasim Maqsood, 21 anni, pakistano, sappiamo molto poco. Non si sa nemmeno chi abbia avuto il pensiero di ricordarlo con quell’immagine. Si sa solo che il suo nome è nell’elenco ufficiale delle vittim
Alish Amhadi Ahmad(50)
Afghanistan
Un 50enne partito da solo, Ahmad Alish Amhadi, afghano. A ricordarlo è un familiare giunto dalla Germania non appena ha saputo della tragedia di Cutro. Yazif (questo il nome del parente) dice che «Ahmad è partito lasciando moglie e figli in Afghanistan. Sperava poi di riuscire a fare partire anche loro»
Arabzadeh Jomgh Gol(28)
Afghanistan
La foto di Jomgh Gol Arabzadeh, 28 anni, campeggia sull’inferriata del Palasport di Crotone adibito a camera ardente. L’immagine la ritrae insieme al marito Mohammad Esagh Arabzadeh, 31 anni, ed è una delle più strazianti perché racconta il sogno di una moglie. Lui e lei assieme, probabilmente in un centro commerciale. Lui e lei, partiti assieme da Smirne. Lui e lei, morti assieme a Cutro
Armin Noori(6)
Afghanistan
Azan Afridi(15)
Pakistan
Questo 15enne di nome Azan Afridi è una delle vittime — sarebbero quattro o cinque, fra i quali almeno tre dispersi — di nazionalità pakistana. Nomi e cognomi di cui si sa molto poco sebbene la stampa di Islamabad abbia dato molto risalto alla sciagura avvenuta all’alba di domenica 26 febbraio
Basira Orya(32)
Afghanistan
Basira Orya è morta nel naufragio della «Summer Love». È dispersa sua figlia Ayesha, 2 anni, mentre sono stati trovati i corpi del primogenito Mohammad Osman, 4, e del marito Samiullah, 27. Gli Orya avevano lasciato Kabul a piedi assieme alla giornalista Torpekai Amarkhel, una loro familiare
Benimin Noori(8)
Afghanistan
Farhad Afghanzadeh(16)
Afghanistan
«Se parti tu allora parto anche io... che sto a fare qui senza di te?» Farhas Afghanzadeh, 16 anni, afghano, voleva infinitamente bene a sua sorella Mina, 24 anni, e mai l’avrebbe lasciata andare via da sola: ma sono entrambi morti sul caicco squarciatori all’alba di domenica 26 febbraio
Gul Makai Barikzai(61)
Afghanistan
Una decina di anni fa questa mamma di 61 anni, Gul Makai Barikzai, afghana, vedova di un maestro ucciso dai talebani, disse a una delle sue figlie, Lialuma: «Che stai a fare qui... Vai negli Usa, studia». Lialuma è diventata dentista e per rivedere lei e altri nipoti in Germania la donna ha trovato la morte nello Ionio
Hakef Taimoori(6)
Afghanistan
Per qualche giorno ha avuto soltanto questa sigla: «KR70M6». Poi sono stati gli zii Youssef e Leyla, giunti dalla Germania, a riconoscerlo tramite la scarpina che aveva indosso e una foto. Nella sciagura è morto anche il fratellino Hassif, 2 anni, mentre è disperso il terzo fratello, Afir. Sono i figli di Zaboullah e Mina Taimoori. Una famiglia spazzata via nel naufragio
Hassif Taimoori(2)
Afghanistan
Hassif Taimoori, 2 anni, è morto nella sciagura del naufragio del caicco insieme ai genitori, Mina e Zaboullah, e al fratello Hakef, di 6 anni, mentre è disperso il terzo fratello, Afir
Kenan Shakoori(26)
Afghanistan
«Se non dovessi farcela, scrivete queste parole sulla mia tomba». Chissà se è stato un presentimento quello dell’afghano Kenan Shakoori, 26 anni, nell’elenco delle vittime. Ecco ciò che aveva chiesto di scrivere: «Su questa barca ho capito che sei il luogo in cui arrivi, quella è la tua destinazione
Mariam Safari(16)
Afghanistan
La storia di questa 16enne, Mariam Safari, afghana, è tra le più drammatiche. Sua madre è attualmente ricoverata all’ospedale di Crotone con il fratellino più piccolo. La donna teneva in braccio il bimbetto per salvarlo ma ha visto sparire tra i flutti Mariam, ritrovata morta giorni dopo. Dispersa pure la sorellina Nihaish, 7 anni
Nihaish Safari(16)
Afghanistan
Questa bimba di 7 anni, l’afghana Nihaish Safari, che sta nell’elenco dei dispersi, è la sorella di Mariam, 16enne trovata morta nei pressi del luogo della sciagura. Dalle testimonianze dei sopravvissuti è emerso che molte donne sono morte perché, a differenza degli uomini, non sapevano nuotare
Meysam Qhasemi(16)
Afghanistan
Un volto sorridente che racconta tanto di questo 16enne afghano, Meysam Qhasemi, che sulla Summer Love si era imbarcato da solo. Sognava di raggiungere Amburgo dove da tempo vive lo zio. «Voleva studiare e laurearsi» racconta l’uomo giunto a Crotone per portare la salma del nipote in Germania
Mina Afghanzadeh(24)
Afghanistan
Aveva sposato suo marito nel 2020 sapendo che lui, subito dopo le nozze, avrebbe lasciato l’Afghanistan per la Germania, cercando lavoro. Mina Afghanzadeh, lo avrebbe raggiunto non appena messa da parte la somma per il viaggio. Ma è morta nel naufragio con il fratello 16enne
Mina Taimoori(25)
Afghanistan
Questa mamma di 25 anni è l’ultima delle vittime — la 63esima — a essere stata identificata dagli specialisti della Scientifica di Crotone: si tratta di Mina Taimoori, afghana, madre di Hassif, Akef e Afir. Il suo corpo è stato trovato a poche centinaia di metri dal luogo del naufragio del caicco
Zaboullah Taimoori(DISPERSO)
Afghanistan
Aveva deciso di lasciare l’Afghanistan per cercare un futuro migliore, quest’uomo sulla trentina che aveva lavorato nell’amministrazione pubblica del suo Paese: si chiamava Zaboullah Taimoori.Suo fratello Youssef nei giorni scorsi è stato sulla spiaggia di Steccato e ha pregato a lungo davanti al mare
Mohammad Osman Orya(4)
Afghanistan
Mohammad Osman Orya, 4 anni, è il primogenito di Basira, 32 anni, e di Samiullah Orya, 27. Il suo corpo è stato trovato insieme a quello dei suoi genitori.
Ayesha Orya(2)
Afghanistan
Questa bambina, di 2 anni, dispersa, è la piccola della famiglia Orya. Una famiglia distrutta, che aveva lasciato Kabul a piedi assieme alla giornalista Torpekai Amarkhel, una loro familiare. Nel naufragio sono morti la mamma, Basira Orya, il papà, Samiullah Orya e il fratellino Mohammad Osman Orya, 4 anni
Naimi Abaifazl(19)
Afghanistan
Un altro ragazzo che aveva deciso di partire da solo, Niami Abaifazl, 19 anni, afghano. Di lui raccontano qualcosa dei cugini che hanno attaccato la foto all’ingresso del Palasport: «Aveva lasciato l’Afghanistan 2 anni fa e per pagarsi il viaggio aveva lavorato in Turchia» . È morto nel naufragio
Parina Noori(38)
Afghanistan
Quraishi Gulsom(28)
Afghanistan
Un volto sereno, forte: questa donna afghana di 28 anni si chiama Gulsom Quraish ed è la mamma delle due sorelline Roqia, due anni, e Zhara, che ne aveva quattro. Tutte e tre sono nell’elenco ufficiale delle vittime del naufragio. Del marito di Gulsom non si sa nulla, inghiottito dallo Ionio
Roman Kohisani(21)
Afghanistan
Un ragazzo di 21 anni pieno di grinta, Roman Kohisani. Il suo nome sta nell’elenco ufficiale dei morti e a piangerlo sono dei familiari che sono giunti dalla Germania non appena hanno saputo di ciò che è successo a 150 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro. Roman, dicono, aveva il sogno di laurearsi
Roqia Quraisishi(2)
Afghanistan
Roqia Quraisishi aveva due anni e la sua sorella Zhara, 4. I tanti passanti che giungono al Palasport per lasciare un fiore o un biglietto davanti all’immagine che ritrae la bimba insieme a Zhara sostano a lungo, pensierosi. C’è chi si mette a pregare, chi piange, chi impreca. Sotto alla foto di queste due bambine degli scolari crotonesi hanno lasciato questa letterina: «Roqia, Zhara, voi siete le nostre sorelline…»
Samiullah Orya(27)
Afghanistan
Samiullah Orya aveva lasciato Kabul a piedi con la moglie, Basira Orya, 32 anni. Sono morti entrambi nel naufragio della «Summer Love». È dispersa la loro figlia Ayesha, 2 anni, mentre è stato trovato il corpo del primogenito Mohammad Osman, 4
Shahida Gulam Raza(29)
Pakistan
Trent’anni, pakistana di etnia hazara, Shahida Raza era calciatrice e capitano della nazionale femminile di hockey su prato del Pakistan. Una parente ha spiegato che Shahida era madre di un bimbo colpito da ictus. La donna era partita per trovare in Europa cure migliori per il suo piccolo
Sodinah Zainal Farooqui(27)
Afghanistan
Moglie di Wazri Zainlfarghi. La donna è stata trovata in spiaggia poco lontano dal luogo in cui è naufragata la «Summer Love». Il figlio Mortza, 6 anni, è disperso come la sorellina Mehrsana, di 3. Un cugino di Wazri, Jamshidi Gulaqa, residente a Taranto: «Li attendevo tutti...»
Wazri Zainlfarghi(Deceduto)
Afghanistan
Di quest’uomo nella foto conosciamo il nome, Wazri Zainlfarghi, e sappiamo che era un ex ufficiale dell’esercito afghano. L’uomo ha lasciato Herat con moglie e figli (nella foto a destra) probabilmente per sfuggire alle persecuzioni a cui i talebani sottopongono gli ex membri delle forze armate
Torpekai Amarkhelgiornalista (41)
Afghanistan
Una giornalista appassionata e una brava fotografa. Torpekai Amarkhel, 41 anni, «producer» per l’agenzia dell’Onu Unama News in Afghanistan, ha dovuto lasciare il suo Paese per le continue minacce subite dai talebani. Dice la sorella Mina: «Ha sempre voluto fare la giornalista, studiando all’Università»
Zahra Quraisishi(4)
Afghanistan
Zahra Quraisishi aveva 4 anni e Roqia, sua sorella, 2. Sono morte insieme alla madre Gulsom, 28 anni. Davanti alla foto delle due bambine afghane i crotonesi sostano a lungo. C'è chi prega, chi piange, chi impreca. Alcuni bambini delle scuole della città hanno lasciato questa letterina: "Roqia, Zahra, voi siete le nostre sorelline"
Zribi Siwar(23)
Tunisia
Nel pomeriggio di martedì la salma di Siwar Zrebi, 23 anni, è partita su una nave diretta verso il suo Paese d’origine: la Tunisia. Poco prima del naufragio Siwar aveva telefonato al marito, un siriano che l’attendeva in Germania, dicendogli «amore mio, vedo la costa. Tra poco saremo insieme
Sohaila Sultani (50)
Sohaila Sultani(Dispersa)
Afghanistan
Sohalia, 50 anni, afghana, dispersa come la figlia Behista. Il nipote, Madhi Sultani, 5 anni, è nell'elenco dei morti
Mahdeh Hossin(16)
Afghanistan
«Papà, mamma, abbracciatemi: vi lascio. Parto per l’Europa, cerco una vita migliore». Ricevuta la benedizione dai genitori, Mahdeh Hossini, 16 anni, ha lasciato Herat per raggiungere Smirne. È tra i dispersi e a piangerla è suo cugino Fayed, giunto a Crotone dalla Germania per avere sue notizie
Whaid Mohammadi(30)
Afghanistan
Di Whaid Mohammadi, afghano, a quasi due settimane dalla tragedia si conosce pochissimo.Ha trent’anni ed è ufficialmente disperso. È possibile vedere una sua immagine grazie alle ricerche condotte dopo il disastro di Cutro dai volontari dell’associazione «Sabir» di Crotone
Atiqullah Khalili(16)
Afghanistan
Questo 16enne afghano, Atiqullah Khalili, voleva raggiungere a Trento suo cugino Alidad Shiri, 24 anni, giunto in Italia (dove si è laureato in Filosofia) una decina di anni fa attraversando a piedi i Balcani e nascondendosi in un tir. Ma Atiqullah non ce l’ha fatta: è morto nel naufragio
Behista Sultani
Afghanistan
Questa giovane donna, Behista Sultani, è dispersa come la mamma Sohalia, 50 anni. Il figlio, Madhi, 5 anni, è nell’elenco dei morti mentre il marito, Mohammed Sultani, si è salvato
Madhi Sultani (5)
Afghanistan
Madhi Sultani aveva solo 5 anni e il suo nome è nell’elenco dei morti di chi non ce l’ha fatta. Partito il 22 febbraio, è morto nell’abissamento della Summer Love. La sua mamma, Behista Sultani, è dispersa come la nonna Sohalia, 50 anni. Il papà, Mohammed Sultani, si è salvato
La via giudiziaria al socialismo. Così la sinistra delega l’opposizione ai pm. Quella che dovrebbe essere l’ala radicale del Parlamento si affida ancora alle toghe per dare un senso al proprio ruolo politico: i querelanti. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 7 marzo 2023.
Se non sei in grado di combatterlo politicamente, denuncialo. Così, una parte della sinistra italiana pensa di ovviare alla penuria di forza parlamentare, figlia della carestia di voti, per guadagnarsi uno strapuntino di diritto di tribuna. Non in Parlamento o nelle piazze, come farebbe un’organizzazione politica radicale, ma in Procura. È la nuova via giudiziaria al socialismo seguita da alcuni leader della galassia che galleggia alla sinistra del Pd.
Giovanni Donzelli straparla in Aula rivelando probabili segreti d’ufficio sulla detenzione di Alfredo Cospito di cui era venuto a conoscenza dal sodale di partito e sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro? L’opposizione salirà sulle barricate di Montecitorio fino alle dimissioni dell’esponente di FdI, chiamando a raccolta “il popolo” se necessario, si aspetterebbe un elettore. Invece no: la minoranza, incarnata da Angelo Bonelli (Alleanza verdi-sinistra) presenta un bell’esposto ai pm lasciando che sia la magistratura a lavorare ai fianchi del governo.
Ma non finisce qui. Settantadue migranti vengono fatti morire in maniera ignobile davanti alle nostre coste? Di certo la sinistra sinistra organizzerà un picchetto a oltranza sotto il Viminale fino a un chiarimento inequivoco del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, verrebbe da pensare. Ancora no: ad Angelo Bonelli (sempre lui) e Nicola Fratoianni (sempre Avs) non viene in mente niente di meglio che presentarsi al posto di polizia del Senato per depositare un nuovo «esposto con cui chiediamo alla Procura di Roma, non di Crotone, di aprire una indagine sulle responsabilità ministeriali riguardo alla tragica sventura avvenuta a Crotone».
Con buona pace dell’egemonia culturale, quella che dovrebbe essere l’ala radicale del Parlamento si affida ancora alle toghe per dare un senso al proprio ruolo politico: i querelanti. Un vizio che ha ormai ha intaccato persino la sinistra extraparlamentare dura e pura. Quel che rimane di Rifondazione comunista ha infatti dato mandato ai propri «legali di predisporre un esposto alla Procura della Repubblica affinché siano perseguiti tanto i responsabili istituzionali quanto l’intera catena di comando» sui fatti di Crotone. «Che finiscano alla sbarra i mentitori di Stato», “tuona” una nota firmata dal segretario Maurizio Acerbo. Ma il “questurino” non era Piantedosi?
Migranti, io infiltrata tra i trafficanti: “Abbiamo poliziotti amici”. Karima Moual su La Repubblica l’11 marzo 2023.
Mi sono spacciata per Samira e ho organizzato un viaggio per mio fratello dalla Turchia: “Via mare costa 9.500 euro”. Le tariffe, i porti e le complicità della rete dei padroni delle tratte. “Via terra costa meno, 6.500 euro, vieni qui a Istanbul con i soldi e facciamo l’affare”
Ma voi sapete cosa significa non poter uscire dal proprio Paese anche quando diventa una gabbia insopportabile? Dopo la tragedia di Cutro non si parla d'altro che di scafisti, la premier Giorgia Meloni ha detto che intende cercarli lungo tutto il "globo terraqueo". Ma più che gli scafisti sono i trafficanti che andrebbero stanati e fermati. Chi sono, dove si nascondono?
Il trucco della badante
Per risalire virtualmente alla loro rete ho finto di essere Samira, una marocchina che è fuggita tempo fa in Italia e che, lavorando come badante, ha messo da parte 10 mila euro e ora vuole salvare a tutti i costi l'unico fratello che le è rimasto.
Estratto dell’articolo di Benedetta Perilli per “la Repubblica” il 10 marzo 2023
Cresta, bermuda, t-shirt e tatuaggi con simboli anarchici, quando nel 2020 il 31enne Dani di Maiorca arriva a Barcellona nessuno sospetta della sua identità. Ha pochi soldi, lavora come installatore di impianti di areazione, cerca una palestra economica e inizia a frequentare quella del centro sociale occupato Cinètika.
Ha posizioni politiche antisistema, segue i movimenti sociali, ama fare nuove amicizie, in particolare con le donne. Grazie a loro riuscirà a entrare e a operare negli ambienti indipendentisti catalani. Resterà a Barcellona fino al 2022 quando racconterà di doversi trasferire in Danimarca.
Dani in verità è un agente della Policía Nacional infiltrato negli ambienti anarchici. Lo ha scoperto il giornale vicino ai movimenti sociali Directa in un’inchiesta pubblicata un mese fa.
E allo stesso modo ne sono venute a conoscenza cinque delle otto militanti che lo hanno frequentato — alcune scelte sulla app per incontri OkCupid in base alle posizioni politiche dichiarate nella bio — durante il periodo sotto copertura. «A letto con il nemico», scrivono ora i blog anarchici accusando lo Stato di essere disposto persino a sfruttare il corpo della donna nella “sporca lotta” contro gli antagonisti.
Così la vicenda si polarizza: da un lato quella che viene presentata come una questione di sicurezza nazionale; dall’altro quella che viene percepita come una violenza di genere. Le cinque attiviste si rivolgono al centro per i diritti umani Iridia e al sindacato Cgt attraverso i quali depositano una denuncia per abuso, delitto contro l’integrità morale, rivelazione di segreti e privazione dell’esercizio dei diritti fondamentali.
Cronaca di un naufragio annunciato. E ignorato...La tragedia calabrese smaschera l’incapacità di gestire gli sbarchi anche sotto il profilo della “sicurezza”. Simona Musco Il Dubbio il 9 marzo 2023
Se la priorità per il governo è difendere i confini, allora ha comunque fallito. La storia del naufragio di Steccato di Cutro, nel quale hanno perso la vita almeno 72 persone in fuga da fame e guerra, comunque la si guardi è una catastrofe. Soprattutto per un governo che, in tema di contrasto all’immigrazione clandestina, pretende di fare il duro e puro. Lo è dal punto di vista umanitario, con l’inceppamento - si vedrà per quali ragioni - della macchina dei soccorsi e lo è anche se si vuole considerare quella della notte tra il 25 e il 26 febbraio come un’operazione di law enforcement, un’operazione di polizia. Perché un barcone, indipendentemente da cosa trasportasse, è stato lasciato libero di arrivare a ridosso della costa. E che fosse carico di persone - come era e com’era prevedibile che fosse -, di droga o di armi, nessuno ha fatto niente per raggiungerlo e verificare la situazione.
Basterebbe questo per classificare la vicenda nella categoria “figuracce”. Ma di mezzo ci sono persone che hanno perso la vita, ad una manciata di metri dalla spiaggia, persone che avrebbero potuto essere salvate. E per capire come si sarebbe dovuto intervenire basta affidarsi alle norme. Il punto di partenza è sempre lo stesso: la comunicazione di Frontex alle 23.03 di sabato 25 febbraio. Una comunicazione eloquente, spiega Francesco Verri, tra i legali del team che segue le famiglie di vittime e superstiti. Perché? «Che a bordo della nave ci fossero altre persone, oltre a quella avvistata sul ponte, è una certezza. Hanno segnalato che i boccaporti erano aperti e non si naviga a febbraio, alle 23, con i boccaporti aperti. Hanno comunicato che non si vedevano salvagenti a bordo e che c’era una significativa risposta termica dagli oblò. Per ipotizzare la presenza di persone non è necessario salire a bordo». Poco dopo le 23, dunque, le autorità marittime sono informate. E secondo le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, le imbarcazioni che trasportano migranti vanno considerate in condizioni di pericolo sin dall’inizio del viaggio. Ma non solo: Frontex avvista la nave nel corso dell’operazione Themis. Che ha un fine specifico: controllo delle frontiere, sì, ma soprattutto ricerca e salvataggio, definite attività «cruciali». «Questo - spiega Verri - descrive il senso della presenza di Frontex lì». Il che vuol dire che nel momento in cui segnala la presenza di una nave, l’attività è anche - e soprattutto - un evento di ricerca e salvataggio.
Verri e i suoi colleghi - Vincenzo Cardone, Mitja Gialuz e Luigi Li Gotti - sono da giorni a caccia delle fonti normative. E uno dei dati più importanti è fornito dall’articolo 6 del decreto del ministero dell’Interno del 14 luglio 2003 (disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina), che stabilisce cosa si fa quando è in corso un’operazione di polizia, ma ci sono elementi indicativi di un rischio per le persone. «Questa norma, ancora in vigore, - spiega Verri - ci dice che le operazioni di law enforcement (come quella messa in atto quella notte dalla Guardia di Finanza, ndr) e quelle di search and rescue vanno di pari passo. Il fatto che sia in corso un’operazione di polizia non esclude che ci si debba preoccupare anche degli aspetti legati alla sicurezza. I pochi fatti noti, messi in relazione a queste norme, danno la soluzione alla domanda delle domande: è stato fatto tutto quello che si poteva fare? Noi non vogliamo anticipare le conclusioni, ma l’apparato di norme a disposizione, in relazione al caso, autorizzano degli interrogativi».
Il regolamento Ue dice una cosa importante: quando è in corso un’operazione marittima, le unità impegnate devono valutare il caso. Ovvero se si tratti di una situazione di incertezza, allarme o pericolo. Su che base? Il numero di persone a bordo rispetto al natante, la presenza di personale qualificato al timone e le condizioni meteomarine. Accoppiando questo tipo di test alla situazione di fatto e alle indicazioni del Consiglio di Europa, è possibile dire che una valutazione non c’è stata. O meglio, secondo la relazione depositata dalla Guardia Costiera in procura, la valutazione è stata del tutto errata. Perché nonostante la segnalazione, da parte di Frontex, della significativa risposta termica e di una telefonata satellitare verso la Turchia, il Centro di coordinamento della Guardia Costiera di Roma (Mrcc) ha comunicato ai colleghi di Reggio Calabria che «non si evidenziano elementi riconducibili al fenomeno migratorio». Su che base? Non è dato saperlo. Anche perché, nella stessa comunicazione, l’Mrcc segnala che «risulta possibile che ci siano altre persone sottocoperta». Un’ipotesi tutt’altro che peregrina considerando che la costa calabrese - e nella provincia di Crotone in particolare - è da sempre meta di disperati a bordo di carrette malconce.
Ma non solo: il 24 febbraio la Guardia Costiera ha aperto un evento Sar dopo un segnale di mayday, segnalazione della quale poi non si ha avuto più notizia. Per la Guardia Costiera, come riportato da Domani, non si può escludere che si trattasse della stessa nave poi spezzata in due dalle onde. Dunque si trattava di una situazione quantomeno di incertezza, che andava investigata adeguatamente, cosa che non è stata fatta. E anche con una sola persona in mare a bordo di una nave col mare forza 4, non era necessario intervenire per metterla in salvo, dal momento che anche le vedette della Guardia di Finanza sono rientrate per le condizioni avverse? Ma il problema è anche a valle. Solo alle 4.20 la Capitaneria di Porto di Crotone sarebbe stata avvertita dai Carabinieri che la «Guardia di finanza aveva fornito loro l'informazione di un'imbarcazione che trasportava presumibilmente migranti irregolari e che la vedetta Gdf stava rientrando per avverse condizioni meteo». A quell’ora il naufragio è già avvenuto. E gli uomini della Guardia Costiera arrivano, comunque, alle 5.35. Oltre un’ora dopo. Quando ormai c’era solo da fare la conta delle vittime.
Si fa presto a dire “scafista”. I veri trafficanti non li abbiamo mai visti.... Non basta trovarsi al timone di una barca per essere considerato al pari dei trafficanti. Che si guardano bene dal condividere con i “clienti” i rischi altissimi della traversata. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 10 marzo 2023
A chi abbia seriamente voglia di capire bene chi siano davvero i cosiddetti “scafisti”, suggerisco di leggere una inchiesta molto utile e documentata, pubblicata lo scorso ottobre e realizzata da Arci Porco Rosso e Alarm Phone con la collaborazione di Borderline Sicilia e Borderline Europe.
Nella comune vulgata sul fenomeno migranti, la figura dello scafista - cioè colui che guida il barcone carico di poveri sventurati e lo porta a destinazione - si sovrappone e si confonde con quella del trafficante di esseri umani. In realtà gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe d’altronde essere chiaro o almeno facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione. Ed è altrettanto ovvio che i membri di quelle associazioni criminali che mettono in mare i barconi, stipati all’inverosimile, guidandoli nel primo tratto del percorso, si guardano bene a loro volta dal condividere con i “clienti” i rischi altissimi della traversata.
I veri, unici “scafisti” che meriterebbero di essere individuati e severamente puniti sono proprio costoro, che imbarcano esseri umani ben oltre ogni ragionevole capienza e “scortano” i barconi fino a varcare i limiti delle acque territoriali del Paese di partenza (Libia, Turchia, eccetera), per poi tornarsene bellamente a casa, sui loro potenti motoscafi, abbandonando quei disperati al loro incerto destino. Ma è chiaro che questi criminali, al pari degli armatori, cioè dei reclutatori dei migranti, noi in Italia non li abbiamo mai visti, né mai li vedremo, nemmeno in fotografia. Se ne stanno comodamente a casa loro, a contare i pacchi di banconote che lucrano sulla pelle di donne e uomini disperati. Dunque, questo nostro digrignare i denti, che già si annuncia con i soliti squilli tromba (“la stretta sugli scafisti”, “pene più severe per gli scafisti”, “nuovi reati contro gli scafisti”), serve giusto giusto per poter scrivere questi titoli sui giornali all’indomani dell’ennesima tragedia, mentre a quei criminali non fa nemmeno il solletico.
La documentata ricerca di cui vi dicevo ci aiuta a capire meglio, allora, chi siano gli “scafisti” che affrontano il viaggio, timonando i barconi fino a destinazione, e finendo spesso nelle mani dell’autorità giudiziaria italiana. Negli ultimi dieci anni sono stati fermati/arrestati/indagati/processati oltre 2.500 “scafisti”. Posto che costoro non sono soliti indossare il cappellino da capitano, essi vengono normalmente individuati - con approssimazione facilmente intuibile - dalle dichiarazioni degli stessi migranti (e dei superstiti, quando accadono naufragi), che dicono “guidava Tizio”. Ora, nella grandissima parte dei casi “Tizio” - ammesso che fosse davvero lui a timonare - è un migrante come gli altri, che per le più varie ragioni (ed essendo capace di guidare un natante) si è dichiarato disposto ad accettare l’incarico della associazione criminale di condurre il barcone. Generalmente, è facile immaginare che questo accada per ottenere uno sconto sul costo del viaggio; o altrimenti, sono disperati disposti a rischiare la vita (ed il carcere in Italia) per guadagnare qualcosa.
Per questi scafisti, cioè quelli che finiscono nelle nostre mani e che vengono spesso individuati con larghissimi margini di incertezza, è già prevista una pena molto alta dall’art. 12 del Testo Unico Immigrazione. La ipotesi base, infatti, punita fino a cinque anni di reclusione, è del tutto irrealistica. Basta che le persone trasbordate siano più di cinque, cioè la normalità del fenomeno, per far scattare l’ipotesi aggravata, con pena da un minimo di cinque ad un massimo di quindici anni, per il solo fatto di aver timonato il barcone. Se poi c’è naufragio, a maggior ragione come a Cutro dove pare certo che gli scafisti abbiano azzardato una manovra sciaguratamente rischiosa, si contesterà a costoro anche (almeno) l’omicidio colposo plurimo. Dunque, una aspettativa punitiva già altissima, senza alcun bisogno di novità normative.
Nel nostro Paese, ogni volta che accade un fatto grave, una sciagura che colpisce la pubblica opinione e che magari interroga anche possibili responsabilità istituzionali, si riesce ad immaginare una sola risposta: la introduzione di nuove figure di reato, o l’innalzamento delle pene previste per i reati già esistenti. È un riflesso puramente populista, da sempre patrimonio comune dei governi di qualsivoglia colore politico, che usano il diritto penale non per raggiungere un seppur minimo e concreto risultato in termini di maggiore sicurezza sociale, ma per lanciare tramite la narrazione mediatica il messaggio di uno Stato che reagisce con implacabile severità.
Qualcuno di voi pensa seriamente che il migrante che si rende disponibile a guidare il barcone perché altrimenti non avrebbe il denaro sufficiente per imbarcarsi, o il disperato che non sa come altrimenti guadagnare nella vita, potranno recedere dal loro intento quando verranno a sapere (da chi, poi?), che la pena che sta rischiando non è più di 15, ma di 20 anni? Ma tant’è, inutile parlarne: assisteremo alla consueta liturgia dello “Stato che reagisce con fermezza”, celebrata da telegiornali e testate compiacenti; e saremo tutti più tranquilli.
Fratoianni, “scafisti ragazzini che…”: la sparata che imbarazza la sinistra. Libero Quotidiano il 10 marzo 2023
"Devo proprio?". Nicola Fratoianni sfodera il sorriso beffardo e sfrontato tipico di chi non ha mai avuto responsabilità di governo. Il leader di Sinistra italiana, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, risponde così quando la conduttrice gli chiede un commento sul CdM andato in scena giovedì pomeriggio a Cutro, il paesino della Calabria teatro del drammatico naufragio di 12 giorni fa in cui hanno perso la vita oltre 70 migranti, a poche decine di metri dalle spiagge italiane. Colpa del governo, secondo Fratoianni, Pd e 5 Stelle.
"Quello che è andato in scena dimostra che il vecchio detto per cui quando arrivi sul fondo può sempre succedere di cominciare a scavare può diventare realtà. Io sono molto colpito da quello che è successo ieri, Myrta - prosegue con tono affranto Fratoianni -. Una vicenda dal mio punto di vista terribile". Non il naufragio, ovviamente, ma il CdM. "Terribile per l'empatia che non solo non ha dimostrato ma che ha frantumato anche nei gesti. Ci sono delle cose che contano molto, specialmente per chi ha potere. Se vai a Cutro la prima cosa che devi fare è andare dai familiari delle vittime, passare del tempo con loro. Non devi sgombrare le salme o fare un Consiglio dei Ministri che non produce alcunché se non propaganda sciocca e imbarazzante".
"C'è una natura propagandistica tutta incentrata sulla torsione securitaria - prosegue il leader di SI -, andremo a cacciare gli scafisti nell'orbe terracqueo. Quelli sono ragazzini speso scafisti che non rappresentano il cuore dei trafficanti di uomini, quelli stanno al caldo sulla terraferma, non si imbarcano sulle barche che affondano e con cui spesso facciamo affari come in Libia". Quindi la proposta: "Perché non si introduce il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro? In maniera tale che tu mentre cerchi di lavoro sei in regola". Elly Schlein prenderà nota.
“Alla sinistra non basta dire solo no a Meloni”. Edoardo Sirignano su L’Identità il 10 Marzo 2023
“Il governo prende le parole del Papa alla carta. Il Cdm a Cutro è solo una passerella, mentre la conferenza stampa un attacco alla democrazia”. A dirlo Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana.
Meloni riunisce il governo laddove Mattarella ha pianto sulle bare. Una scelta sensata?
Peggio! Una vergogna quanto accaduto in Calabria. Il Consiglio dei ministri, praticamente, non produce alcun elemento sostanziale sul terreno di cui l’Italia ha bisogno, ovvero lavorare purché le persone smettano di morire in mare. Scopre, al contrario, una targa che strumentalizza le parole del pontefice. Il Papa viene preso alla carta. L’attuale esecutivo mette in risalto solo ciò che gli conviene, dimenticando tutto il resto. C’è, poi, l’imbarazzante conferenza in cui Meloni immagina che sia inaccettabile che qualche giornalista faccia domande dopo che 72 persone sono morte a 50 metri dalla costa.
Nuovo decreto flussi. Così sarà risolto il problema migranti?
Non c’è niente di nuovo, se non un ulteriore inasprimento della stretta repressiva contro i migranti fragili. Anche qui siamo di fronte a norme confuse. Ogni giorno s’inventa un reato, senza tra l’altro perimetrarlo. Sono certo che la stessa Meloni alla fine dovrà fare più di qualche semplice dietrofront.
Cosa ne pensa, in particolare, sull’abolizione della sorveglianza speciale?
Nulla. Stiamo parlando di norme, che in buona parte già esistono. Comporta, piuttosto, ancora una volta, un’operazione che piega sul terreno dell’ordine pubblico, del controllo, della repressione, un fenomeno che è strutturale e che richiede tutt’altri strumenti di gestione.
Palazzo Chigi depotenzia Piantedosi. È una bocciatura?
Lasciandolo al suo posto e blindandolo, vuol dire che Meloni non ha badato molto alle figuracce fatte sulla vicenda, sia sul piano della gestione della catena dei soccorsi, che della comunicazione. Le parole hanno un peso quando a pronunciarle è un ministro. Piantedosi avrebbe dovuto semplicemente dimettersi.
Se Crosetto prenderà il suo posto, cambierà qualcosa?
In questi casi, il ruolo delle persone è importante fino a un certo punto. Ciò che definisce l’esito di vicende così complesse ha a che vedere con la linea politica. Quella del governo la conosciamo tutta, l’abbiamo vista e in fondo la aspettavamo, pur se non nella dimensione drammatica con cui si è presentata.
La piazza, intanto, si schiera contro Palazzo Chigi. Peluche contro l’auto del premier. È un segnale da tenere in considerazione?
Si tratta di una reazione civile. Viviamo in un Paese che una capacità di reazione e per fortuna di resilienza anche di fronte alla naturalizzazione di parole cattive. Siamo di fronte a una nazione, che rispetto a quanto accaduto, a come è stato gestito, perfino al pasticcio dello spostamento delle salme, trova la forza di reagire. Il lancio di peluche è una risposta di dignità.
Sul tema, ci sarà un tavolo unico del centrosinistra?
Mi auguro che ci sia innanzitutto un’iniziativa comune, come ho avuto modo di dire in Parlamento durante l’informativa del nulla di Piantedosi. Occorre non soltanto costruire un’opposizione a norme sbagliate, confuse e inaccettabili, ma soprattutto ricordare, che quando andremo al governo, alcune cose dovranno essere cambiate. Non basta dire che la Bossi-Fini è una legge sbagliata. Stiamo parlando di una normativa in vigore da oltre venti anni, che non è mai stata cambiata. Serve una forte opposizione oggi per costruire un programma di cambiamento domani.
Cosa pensa della linea del premier britannico sui migranti?
Le considero parole, che vanno, ancora una volta, in una direzione sbagliata, quella che immagina l’immigrazione come un’emergenza o un pericolo da cui difendersi. Quest’ultima, invece, è un grande fenomeno strutturale, pur essendo piena di contraddizioni e problemi. Bisogna imparare che di fronte a questo tipo di cose, le risposte emergenziali non funzionano. Stiamo parlando di un problema che discutiamo da decenni. Le dichiarazioni di Sunak non sono solo non condivisibili, ma sciocche, inefficaci e sbagliate.
I giornali inglesi, intanto, definiscono Salvini estremista di destra. È d’accordo?
Stiamo parlando di un estremista, come lo è il governo italiano e la maggioranza che lo sostiene. Siamo di fronte all’esecutivo più a destra della storia repubblicana. Non ha mai nascosto, d’altronde, questa vocazione, anzi l’ha sempre confermata nelle scelte e nei comportamenti.
Qualcuno dice che l’Italia abbia copiato la linea adottata da altre nazioni…
Sul fronte delle scelte scellerate in materia di immigrazione, Meloni e Salvini hanno un buon curriculum. Non c’è tanto bisogno, quindi, di guardare altrove.
Il salvataggio di 500 migranti per la sinistra non è una notizia. Andrea Soglio su Panorama il 10 Marzo 2023
Oggi la Guardia Costiera è impegnata in missioni con la Marina Navale salvare 1300 migranti nel Mediterraneo. E sono già state salvate 9mila dal 1gennaio e 55 mila nel 2022. Eppure c'è chi racconta di un Governo anche davanti all'evidenza dei fatti
Il giorno dopo il Consiglio dei Ministri tenutosi a Cutro dopo la tragedia co la vita a 73 migranti (ultimo corpo recuperato proprio oggi) ci sono alcune che meritano una piccola riflessione. Nel corso della agitata (a dire poco, e su questo dovrebbero riflettere un p tutti: il premier, chi gestisce la sua comunicazione ed i giornalisti presenti nel complesso non hanno dato proprio una bella immagine di quella istituzionalità che dovrebbe essere sempre presente quando parla il Consi dei Ministri al completo) conferenza stampa post cdm c’è stato un punto Giorgia Meloni ha voluto porre la sua attenzione: «ma davvero pensate che Governo abbia dato l’ordine di non soccorrere e non aiutare chi rischiava vita? C’è qualcuno qui che lo pensa davvero?». Tre volte il premier lo ha ripetuto, in maniera sempre più secca tra rabbia e stupore di chi si trova costretto a spiegare una cosa ovvia, come il fatto che Natale sia il 25 dicembre la carbonara si prepari con il guanciale e non con la pancetta. A leggere però alcuni (e non pochi) giornali di oggi, a leggere tweet di opinionisti e commentatori (finti Super Partes) si percepisce l’esatto contrario. C’è gente per cui l’ovvio a quanto pare va comprovato, volta do volta, giorno dopo giorno e forse nemmeno questo basterà a convincere c per partito preso, dev’essere critico. Ci ha provato sia Salvini che Piantedosi a ribadire che proprio ieri, durante conferenza stampa, c’erano ben 25 operazioni di soccorso in essere in qui erano impegnate mezzi e uomini della Guardia Costiera, per alcuni i «cattivi che non sarebbero intervenuti in tempo a Cutro lo scorso 26 febbraio. Nie da fare; la linea che deve passare è che questo governo di destra non ha coscienza, non ha idea del valore della vita umana, non ha cuore e rispetto Poi però, nel bel mezzo delle polemiche odierne, ecco che la vita, la cronaca riapre gli occhi. È di oggi infatti la notizia di diverse ed impegnative operazioni di soccorsi Mediterraneo delle nostre navi. Tre motovedette stanno operando, a circa 70 miglia a sud di Crotone, per prestare soccorso a un barcone con circa 500 migranti a bordo. Altre unità della Guardia Costiera - Nave Dattilo e ulteriori 3 motovedette - stanno prestando soccorso ad altri due barconi con un totale di circa 800 migranti bordo che si trovano, invece, a circa 100 miglia da Roccella Ionica. I soccorsi coordinati dalla Centrale operativa della Guardia Costiera di Roma in area responsabilità sarà italiana, risultano particolarmente complessi per il numero elevato di persone presenti a bordo delle imbarcazioni alla deriva. Le operazioni proseguiranno nelle prossime ore anche con l'impiego di un aereo Atr 42, di Nave Corsi e di Nave Visalli della Guardia Costiera. La situazione così complessa che è stato chiesto anche l’intervento di navi della Marina Militare. Questi sono fatti, è cronaca di oggi, di queste ore. Si tratta di uomini e don che non hanno esitato, che stanno rischiando anche del loro per soccorrer salvare, secondo le norme internazionali e secondo il volere di questo Governo e se pensate che sia solo una cosa di oggi, fatta magari ad hoc dopo la conferenza stampa di ieri, beh, sappiate che la Guardia Costiera dal 1 gennaio ha salvato 9 mila persone e nel corso di tutto il 2022 ben 55 mila. Ci perdoni il Presidente del Consiglio se facciamo nostra la sua domanda, ripetiamo: «Davvero c’è qualcuno che crede che questo Governo voglia fa morire le persone in mezzo al mare invece che soccorrerle?». Purtroppo sono, Presidente. E la spiegazione è una sola: attaccare regala più popolar applausi e copie vendute che fare i complimenti al suo esecutivo e soprattutto quelle persone che, senza avere traccia sui quotidiani, ogni giorno nel nome del Popolo Italiano salva la vita a degli sconosciuti, in mezzo al mare.
Cutro, il video definitivo di Frontex che scagiona il governo Meloni. Libero Quotidiano il 12 marzo 2023
Nella vicenda del naufragio di Cutro spunta un video che scagiona il governo e sbugiarda chi da giorni grida alla “strage di Stato”. Il filmato, a quanto si apprende, è stato girato dall’aereo Eagle 1 di Frontex nella sera di sabato 25 febbraio e riprende il caicco che viaggiava in buono stato di galleggiabilità nel mar Jonio. Dal video, che dura diversi minuti, emergono diversi elementi. Intanto che l’aereo ha compiuto diversi passaggi sopra il barcone; poi che lo stesso stava navigando senza apparenti criticità e non si notava la presenza di migranti a bordo. Tutti elementi che sono stati condivisi con tutti i soggetti coinvolti nelle eventuali operazioni di soccorso e che, in quel momento, non davano evidenze di un’imbarcazione carica di migranti.
Insomma le immagini girate da Frontex si sposano alla perfezione con la versione data dal governo, dalla Guardia costiera e dalla Guardia di Finanza, che subito dopo la tragedia avevano parlato di prime segnalazioni - fatte da Frontex che non avevano dato sentore dell’imminente tragedia. E sbugiardano per l’ennesima volta le polemiche che, in maniera strumentale, alimentano da giorni il dibattito politico. Ovviamente questo video finirà tra gli elementi dell’inchiesta che dovrà accertare eventuali ritardi o responsabilità nelle operazioni di soccorso.
SOCCORSO CONTINUO
A smentire le ricostruzioni - tutte spostate a sinistra - di un governo tiepido nel soccorrere i migranti in difficoltà nei nostri mari, è stata la giornata di venerdì che ha visto impegnate nelle operazioni di soccorso cinque motovedette, tre navi e un elicottero della Guardia costiera e una nave della Marina militare, che hanno soccorso tre barconi sovraccarichi nel mar Jonio con a bordo oltre 1.300 persone. Sempre venerdì la nave Diciotti della Guardia costiera- che già trasportava 180 persone - ha soccorso oltre 480 migranti che arriveranno questa mattina a Reggio Calabria. Sono due le rotte che in queste ore preoccupano il Viminale. C’è quella del Mediterraneo centrale, tra Libia e Tunisia, che è quotidianamente attraversata da decine di barchini. Tra questi venerdì ne è stato soccorso uno - prima da un peschereccio tunisino e poi dalla Guardia costiera italiana- con a bordo 42 persone. L’altra rotta tenuta sotto controllo è quella che parte dalla Turchia. La stessa seguita dall’imbarcazione naufragata a Cutro.
Proprio quella che venerdì ha visto il soccorso dei tre barconi carichi di passeggeri. Quello delle rotte della disperazione è un tema tenuto in grande attenzione dal ministro dell’Interno Matteo Piantesosi. Dopo le visite in Tunisia, Libia e Turchia, il titolare del Viminale ha in programma nelle prossime settimane viaggi anche in Costa d’Avorio (da dove arriva la maggioranza dei profughi) ed Egitto, al fine di sensibilizzare i due Paesi a contrastare le partenze.
SICUREZZA
La giornata di venerdì è stata importante anche sul fronte politico. Complice l’intesa sul decreto legge che stringe le maglie verso gli scafisti, c’è stata una schiarita tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. A sancire la pace è stato il deputato del Carroccio Igor Iezzi, che si è detto pronto a ritirare la proposta di legge presentata in Commissione Affari Costituzionali alla Camera sulla stretta dei permessi, che puntava alla reintroduzione dei vecchi “decreti sicurezza” voluti da Salvini quando era ministro dell’Interno del governo gialloverde. La stretta sulla protezione speciale, però, è stata inserita in parte nel decreto immigrazione approvato dal Cdm a Cutro. E allora ecco che «quello che volevamo è che si discutesse questo tema - ha spiegato Iezzi. Siamo contentissimi. Evidentemente insistere, serve...». La pace fatta è stata certificata anche dalle parole che i leader di Fratelli d’Italia e Lega hanno affidato ai social. Per Meloni «il decreto legge approvato in Cdm ribadisce la nostra determinazione nello sconfiggere i trafficanti di esseri umani, combattere l’immigrazione illegale e fermare le morti in mare». Salvini, dopo aver elencato i punti salienti del decreto, chiosa: «Avanti col buonsenso e il lavoro di squadra, per salvare vite umane e tutelare la sicurezza del nostro Paese».
Le vittime di Cutro sono 76. La Guardia costiera soccorre centinaia di migranti. Il Domani 11 marzo 2023
Le tre vittime ritrovate oggi sono una bambina di 5 anni, un adulto e un’altra minore, la trentaduesima. La Marina interviene per assistere la Guardia costiera a causa dell’alto numero di partenze, 4.600 nelle ultime 48 ore. Gli arrivi a Lampedusa sovraccaricano l’hotspot
Tra le acque di Cutro, sono stati ritrovati i corpi di tre nuove vittime accertate del naufragio del 26 febbraio, il cui bilancio è ora di 76 morti. Si tratta di una bambina di circa 5 anni, di un adulto, il cui corpo è stato recuperato nel pomeriggio, e di un’altra bambina di età compresa tra i 6 e i 10 anni, la trentaduesima minore rimasta vittima della tragedia.
I ritrovamenti arrivano a meno di un giorno da quello del corpo di un altro bambino.
Una nave della Guardia costiera ha portato in salvo 580 migranti, sbarcati a Reggio Calabria. La nave ha effettuato tre diversi interventi di soccorso prima di attraccare.
In mattinata, un peschereccio con 487 persone a bordo è stato scortato dalla Guardia costiera nel porto di Crotone. L’imbarcazione, partita da Tobruk in Libano, ha viaggiato per cinque giorni prima di essere intercettato a 70 miglia dalle coste italiane dopo una segnalazione di Frontex. La maggior parte dei migranti soccorsi sono di nazionalità pakistana.
MANIFESTAZIONE A CUTRO. In migliaia alla manifestazione a Cutro, mentre le vittime salgono a 76. Ad aprire il corteo, la croce realizzata con il legno del barcone. Presenti anche i familiari dei migranti annegati. Il Dubbio l’11 marzo 2023
È partito a Steccato di Cutro (Crotone) il corteo "Fermare la strage subito” per ricordare le vittime del naufragio del 26 febbraio scorso. Migliaia i partecipanti. Ad aprire il corteo il segretario regionale della Cgil Calabria Angelo Sposato, il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, e tanti altri cittadini comuni con la fascia bianca al braccio. Il corteo è preceduto dalla croce realizzata con il legno del barcone. Presenti anche i parenti delle vittime del naufragio. Tengono uno striscione con la scritta: "Rete 26 febbraio. Mai più stragi di migranti nel Mediterraneo".
Sfila anche un gruppo di giornalisti che in questi giorni ha seguito la tragedia. Indossano un badge con la fotografia di Torpekai Amarkhel, la giornalista afghana i 42 anni morta nella notte dell’infamia. L'idea è stata del giornalista calabrese
Bruno Palermo di Crotone news. Tra i manifestanti si vedono anche l'ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris e l'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano.
Sono all'incirca una trentina gli autobus che hanno raggiunto il piccolo Comune calabrese dalle Regioni del Sud e del Centro Italia.
Cosa si poteva fare per salvare quelle vite? «L'abbiamo visto questa notte. Questa notte sono state portate centinaia di migranti. Sappiamo come fare, l'abbiamo già fatto, dobbiamo continuare a farlo. Questa gente non deve restare a mare nemmeno un minuto di più», dice il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, riferendosi ai tanti salvataggi compiuti nella notte in acque italiane anche con mezzi della la Marina militare. «Siamo qui a Steccato di Cutro a manifestare la nostra amarezza per quanto successo. La gente umana è qui, sono veramente diverse migliaia di persone. L'umanità non ha colorazione politica, non deve averla. Quello che ho visto in questi giorni e ho ascoltato dai familiari delle povere vittime è qualcosa che non pensavo mai di ascoltare. Non ho parole», aggiunge il sindaco.
«Oggi siamo qui per far sentire alle autorità la voce della società civile», ha detto Cecilia Strada, responsabile della comunicazione della Onlus ResQ People Saving People che conduce operazioni umanitarie nel Mediterraneo. «Noi abbiamo presentato insieme ad altre associazioni un esposto alla Procura della Repubblica affinché la magistratura faccia luce sui ritardi che hanno provocato la morte di tante persone, ancora non sappiamo quante. Le stiamo provando tutte per far sì iche la politica rinsavisca e torni a basare le proprie scelte sul rispetto della vita umana e la dignità di tutti gli esseri umani non solo quelli che percepiamo vicini a noi», ha aggiunto la figlia del fondatore di Emergency.
«Non si può non essere qua, oggi a Cutro, per chiedere verità e giustizia per le vittime del naufragio e per i loro familiari, ma anche per la democrazia, per lo stato di diritto. Quello che abbiamo visto nei giorni scorsi è incredibile e sconcertante: continua ad aggravarsi la mancanza di senso delle istituzioni del nostro governo», dice il segretario di +Europa, Riccardo Magi, presente al corteo. «Abbiamo visto la presidente del Consiglio non rispondere a delle domande prevedibili e scontate che si fanno moltissimi italiani e poi ribaltare tutto e fare le domande lei ai giornalisti. Il decreto del governo non coglie assolutamente la priorità delle questioni. La priorità è salvare delle vite in mare e poi creare la possibilità di arrivare legalmente nel nostro Paese», aggiunge Magi.
E proprio mentre il corteo partiva, altri due corpi sono stati ritrovati nel mare di Steccato di Cutro (Crotone). Uno dei due sembra appartenere a una bambina tra i 6 e i 10 anni. È il terzo ritrovamento della giornata, dopo la bimba di 5 anni rivenuta questa mattina. Il bilancio delle vittime ufficiali sale a 76.
Anche per questo non si placano le polemiche per le immagini del diffuse karaoke di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, in occasione del compleanno del ministro dell'Interno. «Non omaggiano i morti, ma cantano», dimostrando «disumanità e cinismo», dice la capogruppo dem al Senato, Simona Malpezzi.
Tensioni tra la premier e i giornalisti. La passarella della Meloni a Cutro è un flop, fischi al governo. Claudia Fusani su Il Riformista il 10 Marzo 2023
Se non è stata una passerella – la cittadina di Cutro è diventata zona rossa e i negozi chiusi fino alle 19 – è stata però una visita super blindata. Tra i peluche che i manifestanti hanno lanciato contro le auto blu in arrivo e anche qualche applauso, Giorgia Meloni ha messo piede nella sede del comune poco dopo le 16 per ripartire alle 20. Una visita lampo, il tempo della riunione, della conferenza stampa partita in attacco e finita in ritirata, del saluto alle autorità, dell’installazione di una targa alla memoria e poi di nuovo l’aereo con destinazione Roma. Nella targa si leggono due frasi.
La prima è di Papa Francesco quando il 5 marzo ha chiesto all’Angelus di “fermare gli scafisti”. La seconda è a nome del governo che “rinnova il suo massimo impegno per contrastare la tratta di esseri umani, tutelare la dignità delle persone e salvare le vite umane”. Parole scritte invece che momenti reali di umana vicinanza e pietà con i parenti delle vittime. Nessun faccia a faccia col dolore, con i luoghi e le persone della tragedia. Dopo dodici giorni, si dirà, che senso ha? Ma i luoghi hanno l’anima e conservano la memoria di ciò che sono stati e che hanno visto. I luoghi parlano. Se si sanno ascoltare. Per dodici giorni la premier ha scansato un confronto diretto sulla tragedia di Cutro. Ha delegato il ministro dell’Interno con i risultati che sappiamo: reticenza, gaffe, errori, contraddizioni. I giornalisti così aspettavano da giorni la conferenza stampa per un confronto diretto.
C’è stato, finalmente. Ed è stato un disastro: nessuno vuole accusare qualcuno di non aver fatto qualcosa, la premier però ancora una volta ieri non ha capito, non ha voluto ammettere che qualcosa non ha funzionato nel sistema di sorveglianza e dei soccorsi. Non si è fatte le giuste domande. Non ha chiesto scusa per il fatto che quella notte tutti in un modo o nell’altro erano girati dalla parte sbagliata. La premier è arrivata con i due vicepremier, Salvini e Tajani, l’obiettivo era dare un’immagine di unità. Ma non è stato facile convincere Salvini che la linea sull’immigrazione la darà d’ora in poi palazzo Chigi e che lui, se proprio vuole, può divertirsi in Parlamento a portare avanti misure che vanno però in direzione opposta rispetto a quella del governo. Che ha abbandonato la vecchia propaganda del “muro navale”, e inizia a fare i conti con “una faccenda complessa e difficile come l’immigrazione” come ha detto la premier.
Le norme inaspriscono le pene per gli scafisti e riattiva e potenzia i Centri per i rimpatri. Alla fine il decreto non dice chi ha sbagliato e dove in quella tragica notte tra il 25 e il 26 febbraio in uci hanno perso la vita 74 persone in circostanze ancora non chiarite dal governo. L’articolo 10 che aveva potenziato i meccanismi di sicurezza e sorveglianza in mare affidando il coordinamento alla Marina Militare, è stato alla fine tolto. «Me l’ha chiesto personalmente il ministro Crosetto. E alla fine anch’io valuto che il dispositivo funzioni bene così com’è». La premier Meloni dice che quella notte (dice il 24, invece è il 26) si è verificata “una sciagurata coincidenza”. Salvini resta a bocca asciutta. O meglio: può forse issare la bandierina della norma cosiddetta Soumahoro (articolo 7) che prevede norme più stringenti e severe nella gestione dell’accoglienza. E una limitazione dei permessi speciali (che esistono solo in Italia).
Tutta la maggioranza può issare lo scalpo delle pene più dure per gli scafisti che (articolo 6) arrivano fino a 30 anni se “nel trasporto dei migranti si cagiona la morte anche in modo non volontario”. Sarà questa la novità che, nel racconto della maggioranza, connota e specifica il decreto Cutro. «Dobbiamo stroncare il traffico degli esseri umani, debellare questa che è la schiavitù del terzo millennio, e colpire gli scafisti che provocano queste ed altri stragi», ha esordito la premier nel cortile del comune sistemato con sedie e tavoli. Il decreto contiene anche un pacchetto di norme che facilitano l’ingresso degli immigrati, i permessi di soggiorno e di lavoro. Cinque articoli su dieci ampliano le quote flussi (che saranno fissate ogni anno con un Dpcm), aumentano fino a tre anni i permessi di soggiorno e semplificano le procedure per poter lavorare in Italia. Anche a chiamata.
«Noi vogliamo combattere gli scafisti che sono la schiavitù del terzo millennio– ha esordito la presidente Meloni – noi cerchiamo gli scafisti e non i migranti, vogliamo far capire anche con campagne mediatiche nei paesi di partenza – e che andremo a premiare garantendo più ingressi – che non conviene partire affidandosi ai trafficanti. Mi chiedo perché tutto questo non sia stato fatto prima». Il ministro Piantedosi le siede accanto. E anche per questo la premier vuole ribadire che a suo modo di vedere la notte della strage dei bambini “è stata una disgrazia provocata dagli scafisti”, nel tentativo di stronacare i sospetti sollevati sulle responsabilità del sistema di controllo e di allerta che dipendono dal ministro dell’Interno seduto lì accanto a lei.
Il tema del cordoglio, della vicinanza alla vittime, della partecipazione al loro dolore viene risolto con il “pragmatismo”. «Noi cerchiamo di rispondere con i fatti e di dare risposte». Ed è un fatto, dice la premier, «l’alto valore simbolico di celebrare qui il Consiglio dei ministri: mai prima d’ora i ministri si erano riuniti nel luogo dove è avvenuta la tragedia…». Vero. Anche perché è la prima volta che si assiste ad un naufragio con oltre cento morti a cento metri dalla spiaggia. Le tragedie, i naufragi, tanti troppi, sono avvenuti in acque nazionali ma lontani miglia dalla costa.
Giorgia Meloni inizia, appunto, dalla seconda parte del decreto, quella repressiva. Con il supporto tecnico dei ministri Nordio e Piantedosi spiega la grande novità: «Una nuova fattispecie di reato che introduce la morte causata durante la navigazione organizzata da canali clandestini e prevede pene fino a 30 anni». Ma non finisce qui: il ministro Nordio allarga, in qualche modo, la competenza territoriale della giurisdizione italiana. «Li andremo a colpire anche là dove organizzano e predispongono il traffico dei clandestini, fuori dai nostri confini nazionali».
Nei paesi stranieri non è possibile. Quindi si parla di acque internazionali? Sembra un’enormità giuridica. La premier completa l’informazione dicendo che «il progetto è uniformare tutti i paesi europei a questa fattispecie di reato. Pensiamo ad un reato universale». Vedremo, chissà. In genere è un po’ più complicato. Meloni ha cercato per dodici giorni di evitare un confronto diretto sulla notte del naufragio. Ieri non ha potuto sottrarsi. «Vede Presidente – ha chiesto un cronista calabrese – dal 1996 lavoro qua e vedo sbarchi. Le posso assicurare però che mai ho visto una cosa del genere a duecento metri dalla riva, ci sono più di cento morti, lei capisce che noi, tutti noi non possiamo non farci questa domanda: cosa è successo quale notte? Cosa non ha funzionato?».
È stata come una miccia, prima e dopo altre domande dello stesso tema sono arrivate una dietro l’altra e la premier non è riuscita a rispondere. Se non per dire: «Non accetto che si dica che ci siamo voltati dall’altra parte». Una debacle. Piantedosi ha cercato di chiudere rinviando alle sue cinque diverse informative tenute in questi giorni. Salvini è intervenuto per dire che «in questo momento le Capitanerie di porto stanno facendo 25 interventi di soccorso in mare». Sollecitata in più modi alla fine la premier ha scansato via il microfono e buttato la testa all’indietro. Solo il ministro Tajani, seduto lì accanto, ha potuto raccogliere il suo sconforto.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Cutro, "una messinscena contro la Meloni": una indicibile verità. Libero Quotidiano l’11 marzo 2023
Hanno fatto molto discutere le immagini della folla che a Cutro ha accolto Meloni e i suoi ministri con urla e lancio di peluche. Il governo è andato nella città calabrese qualche giorno fa in occasione di un Consiglio dei ministri straordinario dedicato a un pacchetto sull'immigrazione dopo il terribile naufragio di domenica 26 febbraio. Per giorni si è parlato di una manifestazione di piazza contro l'esecutivo per le morti in mare. Tra gli slogan urlati contro il governo sono saltate all'occhio parole come "assassini" e "dimissioni", con tanto di accuse sui mancati soccorsi al barcone.
Ma quanti cittadini c'erano davvero in piazza? Il Giornale, per esempio, si chiede quanta fosse la comunità e la cittadinanza locale e quanto invece l'associazionismo di sigle come Cobas e Usb, le associazioni che avevano ottenuto l'autorizzazione a manifestare. Stando a quanto riportato dall’Ansa, alla protesta hanno partecipato certamente Cobas, Usb, e il gruppo "Fabbrikando l’avvenire", costituito da ex dipendenti della Pertusola sud di Crotone, industria chiusa da anni. A questi si sono aggiunti anche collettivi universitari di Cosenza, oltre ad altri movimenti di lotta sindacale.
Il sospetto, quindi, è che si sia trattato solo di una messinscena. Il Corriere della Sera ha raccontato di un avvocato arrivato da Crotone con un mazzo di fogli da distribuire alla gente con le scritte in italiano e in inglese "Non in mio nome". "Quel gruppo laggiù, li vede? Non hanno voluto fogli perché sono qui per dare il benvenuto alla Meloni. Sono molto arrabbiata dalla poca partecipazione della gente di Cutro alla protesta", ha detto.
Cutro, Mimmo Lucano a capo del corteo: la faccia tosta della sinistra. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 13 marzo 2023
Ma com’è umano, Mimmo Lucano. La lunga processione verso un Golgota immaginario si snoda nella Cutro avvolta nel dolore eppure assediata da associazioni, partitini, sindacati, movimentini che quel dolore hanno inchiodato a un crocefisso. E il crocefisso, fatto con le assi e la chiglia della nave naufragata, è costellato da bandiere rosse della Cgil e da vessilli arcobaleno; e viene issato da un gruppo di sindaci compagni fuori sincrono con la realtà (il cartello «Fermate la strage subito» viene sfoderato proprio nel momento in cui la Guardia costiera ha appena tratto in salvo 1500 migranti). E alla testa di questi contriti compagni, ecco la notizia vera: ecco che svetta, in cappellino e favella tagliente, Mimmo Lucano. Lucano, il redivivo, si muove a braccetto di microfoni e telecamere. Accarezza il legno del relitto e sussurra: «Questa croce è il simbolo della sofferenza oggi. È istintivo essere qui. C’è una piccola comunità a Riace che è rimasta sconvolta. Certe volte ci penso e mi vergogno di essere un cittadino occidentale. Quando ci sono queste fasi emergenziali, le comunità calabresi sono scosse e prevale subito quello spirito di solidarietà che non dimostra il governo». E poi, contrito, continua Lucano: «Mi viene da ridere, non ho reticenza a dirlo, il vero unico obbiettivo di questo governo è di salvare se stesso». Salvare se stesso.
Un discorso che sarebbe rispettoso della circostanza, e perfino delle intemerate politiche dell’opposizione, se non fosse che a farlo è Lucano. Mimmo Lucano, ragazzi. Ossia l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni di carcere - il doppio rispetto a quanto richiesto dalla pubblico accusa - nel processo di primo grado a Locri per sfruttamento dell’immigrazione. L’uomo che secondo i giudici, avrebbe costruito, da «spregiudicato», una vera e propria associazione a delinquere in grado di strumentalizzare il processo di accoglienza. «Lucano, da dominus indiscusso del sodalizio - è scritto nella motivazione della sentenza - ha strumentalizzato il sistema dell’accoglienza dei migranti a beneficio della sua immagine politica» con tanto di cotè di presunte fatture false e «attestati gonfiati e fittizi». Lucano deus ex machina di un sistema che sarebbe stato impostato in anni «per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale». Lucano, ossia il condannato in primo grado per il quale, in secondo grado, è stato richiesto dai pm un piccolo sconto di pena a 10 anni e 5 mesi; e che conoscerà il suo destino nelle prossime udienze, tra fine marzo e inizio aprile. Lucano, che i suoi concittadini non hanno rieletto nonostante il suo «modello di integrazione studiato in tutt’Europa» come vantavano a sinistra, trattandolo con la deferenza degli eroi. Ecco, quel Lucano lì regge la croce.
SEMPRE GARANTISTI
Ora, al netto di un imprescindibile garantismo, Domenico Lucano, “Mimmo dei curdi” resta innocente fino a sentenza definitiva. Saranno i magistrati a definire se il suo sia stato uno sbalorditivo accrocchio di delitti o un «reato d’umanità». E saremmo davvero felici se Mimmo, il «migrante al contrario verso la sua terra», fosse innocente. Però. Però c’è un limite anche allo scontro politico e alla sfacciataggine e alla decenza. Se si è sotto processo già condannati per uso improprio di migranti, be’, mettersi alla testa di una (legittima) manifestazione pro-migranti e attaccare governo e avversari sul tema è più che un delitto, è un errore come diceva Talleyrand. Per dire, le tambureggianti processioni di Soumahoro hanno prodotto l’effetto di riservargli il posto sulla croce...
Cutro, l'urlo che umilia la sinistra: "Vergognatevi, di chi è la colpa". Libero Quotidiano l’11 marzo 2023
"Vergognatevi, la colpa è degli scafisti e voi state strumentalizzando questa tragedia": una signora lo avrebbe urlato dal balcone di casa sua a Cutro, durante il corteo per le vittime del naufragio di domenica 26 febbraio. Sentendo quelle parole, i manifestanti avrebbero risposto cantando "Bella Ciao". E a quel punto la donna avrebbe chiuso le imposte.
Il corteo è stato organizzato per ricordare la tragedia di Cutro e al momento starebbe attraversando le vie della frazione Steccato per dirigersi proprio verso la spiaggia dove due settimane fa è avvenuto il naufragio dei migranti. Tra i presenti alla manifestazione ci sarebbero Cecilia Strada, figlia di Gino Strada, Luigi De Magistris, ex sindaco di Napoli, e l'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Tra gli striscioni portati dai manifestanti uno recita: "Cutro, la strage è di Stato, difendete le persone non i confini".
"Siamo qui a Steccato di Cutro per portare vicinanza e solidarietà ai superstiti e ai familiari delle vittime ma anche per ricordare che qui c'è l'umanità della gente a dispetto della disumanità del potere - ha fatto sapere De Magistris, portavoce di Unione popolare -. Per ricordare che le persone vanno salvate in mare e non bisogna essere complici di queste stragi e di queste morti. Da Steccato di Cutro giunga il più grande messaggio di umanità e di pace".
Migranti, l’insopportabile ipocrisia dei radical chic. Di fronte al naufragio di Cutro si rimane sgomenti. Ma cercare il colpevole in Italia non ha senso. Redazione su Nicolaporro.it l’11 Marzo 2023.
Si rimane ancora una volta sgomenti, la lingua si attacca al palato, davanti alle immagini che testimoniano l’ennesimo dramma di uomini, donne e bambini morti in mare nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Al male, fino a quando anche una sola stilla di umanità scorrerà nelle nostre vene, non ci abitueremo mai, non possiamo farlo e non lo dobbiamo, in nome di quel comune senso di fratellanza che ancora alberga nei nostri cuori.
Il colpevole in casa nostra
Mi chiedo: nella notte del mare in tempesta cosa avranno pensato questi nostri fratelli mentre gli scafisti impedivano loro di lanciare l’allarme con il cellulare? Davanti ad una simile abisso di miseria tutta umana (Però, se ’l mondo presente disvia,/in voi è la cagione, in voi si cheggia: ricordiamo che il male ha radici soltanto umane, come bene afferma Marco Lombardo nel canto XVI del Purgatorio) il nostro cuore e la nostra mente si smarriscono: ci abbandoniamo, così, al linciaggio mediatico, vogliamo trovare il colpevole e dobbiamo trovarlo in casa nostra, perché trovarlo fuori casa vorrebbe dire sederci e pensare, ragionare, andare oltre la superficie. Ma, nella comunicazione veloce, nella frenesia del titolo, della notizia che spacca, le notizie si susseguono, si smentiscono l’una con l’altra: i morti escono dai dibattiti televisivi e vi entrano prepotentemente le accuse, del ministro ritenuto colpevole si invocano le dimissioni, la destra e la sinistra si accusano a vicenda, si addossa sul Governo la responsabilità morale dell’accaduto.
Il solito triste copione, portato simili modo sulla scena mediatica e politica, indipendentemente dal colore del partito di maggioranza. Questo comportamento uccide per la seconda volta quegli infelici che hanno avuto la sola colpa di credere possibile la via della salvezza. Come non possiamo accettare il dramma del naufragio, così non possiamo accettare lo squallore morale dell’accusa reciproca: sicuramente verrà il tempo della chiarezza, con modalità, tempi e procedure previste dalla nostra legislazione. Questo è, invece, il tempo del lutto durante il quale ciascuno di noi deve sentirsi responsabile di quanto accaduto e deve dare risposte ai quei bambini morti, se, per davvero, li consideriamo fratelli.
La responsabilità degli scafisti
Come vorrei un Paese libero e quindi capace di individuare le responsabilità prime. Innanzitutto, occorre condannare, senza possibilità di appello, i responsabili di questo disastro, ossia gli scafisti, esseri senza morale, conniventi con la malavita, sciacalli che considerano uomini e donne che scappano dalla guerra e dalla fame merce da sfruttare, che rubano loro i risparmi di una vita (8mila euro costa un viaggio) stipandoli, tamquam oves ad occisionem ducti, in barconi senza acqua, senza pane, senza sicurezza, da consegnare alla morte. È necessario affermare con chiarezza la responsabilità degli scafisti, anche se il condannarli ci espone. Siamo disposti alla denuncia, quella vera che ci scomoda e, magari, ci costa la vita? La strumentalizzazione politica, da radical chic, è realmente insopportabile e moralmente inaccettabile. Sono 26mila le persone che hanno perso la vita, in questi anni, in mare e i colpevoli sono questi scafisti che speculano sulla miseria: loro devono stare al banco degli imputati, non altri. Ritorna quanto mai l’anatema scagliato con forza da San Giovanni Paolo II contro i mafiosi “Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!
Organizzare dei presidi in loco
Rivolgo, allora, un invito al mondo della politica: non sciupate il tempo a farvi la guerra bensì unitevi e concentratevi sulla soluzione. La strategia vincente non può che essere un’Europa unita che si ponga come obiettivo, prioritario tanto quanto quelli nel campo economico, la cessazione dei viaggi della speranza, tramite accordi con i Paesi dai quali si scappa. Occorre organizzare dei presidi in loco, censendo tutte le persone che vogliono fuggire dai loro paesi di origine per ragioni vere e che hanno il diritto ad essere accolti. Si organizzino i trasferimenti verso l’Europa di persone già censite e, al contempo, si organizzi nei paesi di accoglienza uno smistamento di queste persone che hanno diritto ad una casa, ad un lavoro, alla scuola per i propri figli. Come diciamo tutti da tempo, non possiamo tollerare più lo scempio degli scafisti, non possiamo limitarci a far sbarcare queste persone creando nuovi ghetti che generano solo nuove forme di sfruttamento, nuova delinquenza. Occorre una organizzazione, sia dove si parte sia dove si giunge, senza accontentarci più della gestione dell’emergenza. E ovviamente l’Italia non può essere lasciata sola davanti al fenomeno migratorio. È chiaro che Lampedusa non può ospitare l’Africa: abbiamo assistito tutti alle rimostranze di altri paesi europei ad accogliere, perché è palese che, se l’immigrazione è vissuta come un approdo di immigrati condannati ai ghetti e, quindi, alla delinquenza, ci sarà una reale fatica sul fronte dell’accoglienza.
L’ipocrisia dei pro accoglienza
Mi sia consentita un’ulteriore osservazione che nasce dalla mia esperienza diretta: spesso chi è a favore di un’accoglienza non gestita poi, di fatto, scarica sul privato, sul terzo settore la gestione e il reperimento delle risorse, non muove un dito e non promuove alcuna forma di reale integrazione. Parlo perché so quel che dico sulla base dell’esperienza che vivo con gli studenti esuli dall’Ucraina accolti dalle scuole paritarie a loro spese, grazie all’aiuto dei privati, del terzo settore: dove sono quei politici, veri radical chic, che si riempiono la bocca di parole quali accoglienza e integrazione, senza sporcarsi realmente le mani e vivendo nei loro appartamenti nei centri storici delle nostre città o nei quartieri più alla moda? La risposta è semplice: rimangono nei loro appartamenti.
Le mosse dell’Europa
Infine l’Europa dovrebbe unire le forze ed investire in questi paesi affinché chi scappa per povertà possa vivere nel proprio paese. Molti non vorrebbero emigrare ma vorrebbero vivere dove sono nati. Gli emigranti meridionali avrebbero certamente preferito non spostarsi nelle città industriali del nord, dove assai spesso trovavano chiusura, ostilità e diffidenza. Non si affitta ai terroni. Ricordiamocelo bene. Abbiamo vissuto e viviamo la povertà del nostro Sud che ha perso i giovani e le menti migliori, condannandolo alla mafia e alla camorra. Allora impariamo dai nostri stessi errori, nell’accoglienza e nella creazione delle condizioni migliori per fermare il fenomeno migratorio. Senza speculare, ovviamente!
E infine preghiamo per quei morti e preghiamo per i familiari delle vittime perché sperimentino la vicinanza materiale dell’Occidente e sia donata loro quella pace che il mondo irride ma che rapir non può.
sr Anna Monia Alfieri, 11 marzo 2023
L'interrogazione parlamentare di Grimaldi. Chi è Emad Trabelsi, il trafficante di uomini che fa accordi con Piantedosi. Redazione su Il Riformista il 12 Marzo 2023
Marco Grimaldi, deputato di Sinistra Italiana, ha presentato una interrogazione chiedendo che il ministro degli Interni risponda in aula. Il tema è quello che abbiamo segnalato sul Riformista di giovedì: perché l’Italia tratta amichevolmente con un trafficante libico?
Dice Grimaldi: «In data 3 marzo, il media Libya Review ha riportato che il Ministro dell’Interno libico Emad Trabelsi è stato arrestato dalla polizia francese a Parigi, presso l’aeroporto Charles de Gaulle, mentre “trasportava un’ingente somma di denaro in contante”, per essere rilasciato dopo poche ore. La notizia è stata poi riportata da altre fonti di stampa anche italiane nelle quali si fa riferimento a “mezzo milione di euro” su cui il Ministro non avrebbe saputo dare spiegazioni. La rivista Limes, nel riferirla, aggiunge che “l’uomo è legato al traffico di migranti da prima di diventare Ministro” e la figura di Emad Trabelsi è stato oggetto di diverse inchieste del quotidiano L’Avvenire».
«Trabelsi – continua l’on. Grimaldi – è stato nominato Ministro dell’interno del governo di Tripoli in veste “temporanea” dal Primo Ministro libico Abdul Hamid Dbeibah il 6 novembre 2022; nel 2018, Trabelsi fu citato in un rapporto annuale sui diritti umani redatto dal Dipartimento di Stato Usa, che riportava informazioni delle Nazioni Unite in merito a violazioni dei diritti in Libia; Trabelsi veniva individuato come uomo appartenente a una milizia e “destinatario di fondi ottenuti illegalmente”, si segnalava inoltre che controllasse un gruppo armato chiamato “Special Operation Forces” che avrebbe raccolto “circa 3.600 dollari per ogni cisterna che attraversava i checkpoint” libici». «Gionalisti di RadioRadicale – prosegue l’interrogazione – hanno riportato nel dicembre del 2022 che l’esito di questi viaggi sarebbe stato l’ingresso illegale di petrolio prodotto in Tunisia per un valore di centinaia di migliaia di dollari; già in occasione della precedente nomina a Sottosegretario, le organizzazioni per i diritti umani libiche e internazionali, fra cui Amnesty International, hanno indicato Trabelsi come “uno dei peggiori violatori di diritti umani e del diritto umanitario internazionale”». «Nelle carte ufficiali delle Nazioni Unite e del Tribunale Penale Internazionale si parla di “traffico di esseri umani, violenze, torture e sparizioni forzate ai danni di migliaia di migranti e rifugiati”». Fin qui la descrizione del personaggio.
Poi l’interrogazione si sposta in Italia: «Le autorità italiane hanno incontrato Trabelsi in svariate occasioni per discutere le relazioni fra i due Stati, ma in particolare la gestione dei migranti; come noto, dal 2017 è in vigore un Memorandum Italia-Libia che consente, tra l’altro, alla Guardia costiera libica di intercettare e fermare i migranti nel Mediterraneo, accordo rinnovato il 2 febbraio di quest’anno; il 29 dicembre del 2022, Trabelsi ha ricevuto a Tripoli una delegazione del Ministero dell’Interno italiano e dei Servizi segreti italiani, presenti anche il Prefetto capo della polizia e il Direttore dell’ Aise; a fine gennaio 2023, nel corso di un viaggio in Africa, la Presidente del Consiglio ha presenziato a Tripoli alla firma di un accordo sul gas del valore di 8 miliardi di dollari tra l’Eni e la compagnia statale Noc per la produzione di gas in Libia; le intese fra i due governi hanno riguardato non solo “investimenti ed esplorazione” nel gas, ma anche “il rapporto con la Guardia costiera”; il 21 febbraio, il Ministro dell’Interno italiano ha incontrato nel suo ufficio Trabelsi per discutere “comuni azioni” per gestire i flussi migratori, ossia per bloccare le partenze dalla Libia». L’interrogazione si conclude con l’ovvia richiesta: «Si chiede al Ministro interrogato, alla luce dei fatti esposti, di informare il parlamento circa i rapporti intercorsi con Emad Trabelsi, figura accusata di traffico di migranti e violazioni dei diritti umani».
"Malta e Libia inattive". "L'Italia non lascia nessuno". La verità sull'ultimo naufragio. Francesca Galici il 12 Marzo 2023 su Il Giornale.
Naufragio in zona Sar libica ed ennesima polemica contro il nostro Paese: il ministro degli Esteri e la guardia costiera mettono a tacere chi strumentalizza i naufragi a fini politici
Antonio Tajani in queste ore si trova a Tel Aviv per un convegno di Leonardo e prima di iniziare si è fermato con i giornalisti, con i quali ha avuto modo di tornare sul tema dei migranti, in particolare dei naufragi, che negli ultimi tempi è troppo spesso strumentalizzato e utilizzato come arma contro il governo. "Non bisogna mai strumentalizzare quello che accade", ha detto il ministro degli Esteri, ribadendo la piena fiducia e il pieno appoggio ai corpi marittimi dello Stato, quotidianamente impegnati in operazioni di soccorso in mare.
Il comunicato della guardia costiera
"L'intervento di soccorso è avvenuto al di fuori dell'area di responsabilità Sar italiana registrando l'inattività degli altri Centri Nazionali di coordinamento e soccorso marittimo interessati per area", ha affermato la guardia costiera in merito all'ultimo naufragio, accompagnato dalle solite polemiche. La guardia costiera ha spiegato che la comunicazione di distress da parte di Alarm Phone è arrivata a Italia, Malta e Libia. Successivamente, il barchino è stato visto dall'aereo della Ong "il quale procedeva ad inviare una chiamata di soccorso e contattava il mercantile Basilis L che confermava di dirigere verso il barchino. Tutte le informazioni venivano fornite anche alle Autorità libiche e maltesi".
Il mercantile, spiega il corpo italiano, si è posizionato in modo tale da avere il contatto visivo con l'imbarcazione, senza potersi avvicinare a causa del meteo avverso, che avrebbe causato un incidente. "Le Autorità libiche, competenti per le attività di ricerca e soccorso in quell'area, a causa della mancanza di disponibilità di assetti navali, chiedevano il supporto, così come previsto dalle Convenzioni Internazionali sul soccorso in mare, del Centro Nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma che, su richiesta delle autorità libiche, inviava nell'immediatezza, un messaggio satellitare di emergenza a tutte le navi in transito", prosegue il comunicato.
Le operazioni di trasbordo, complicate dal meteo, hanno portato al naufragio. 17 persone sono state soccorse e recuperate dalla nave Froland mentre risultavano dispersi circa 30 migranti. Sono stati 4 i mercantili ad avvicinarsi. Le operazioni di ricerca dei migranti dispersi "continuano con l'ausilio dei mercantili presenti in zona, con ulteriori due mercantili che stanno raggiungendo l'area di ricerca e col sorvolo di due assetti aerei Frontex".
"Sono convinto, conoscendo la guardia costiera, la marina militare italiana e la guardia di finanza, che questi uomini di mare non lascino mai nessuno senza soccorso", ha sottolineato Tajani, rivendicando il coraggio e il costante impegno delle divise. Il ministro ha poi aggiunto di ritenere che "si debba sempre fare un'analisi reale di ciò che accade e mai strumentalizzare perché stiamo parlando di vite umane". E poi ha concluso: "Tutti quanti siamo impegnati per evitare queste tragedie nel Mediterraneo".
Sullo scenario attuale, Tajani ha ricordato che questo governo ha "sempre detto che bisognava impedire le partenze di imbarcazioni non all'altezza di affrontare il mare. Abbiamo già dato una nave alla Guardia costiera libica, altre due verranno consegnate nei prossimi giorni a Messina con il sostegno di una Commissione Europea che finanzia l'acquisto delle motovedette". L'impegno di questo governo nel contrasto all'immigrazione clandestina è noto, l'obiettivo è quello di impedire le morti in mare ma nonostante tutto la sinistra continua a strumentalizzare i morti del naufragio di Cutro, usandoli come arma politica.
Le polemiche della sinistra
"Chiudo con un elemento di grande dolore, la notizia di un nuovo naufragio. È una vergogna per l'Italia e per l'Europa, non possiamo più vedere il Mediterraneo ridotto a un grande cimitero a cielo aperto", ha detto Elly Schlein in chiusura dell'assemblea in merito al naufragio al largo delle coste della Libia, che pare sia avvenuto mentre una nave mercantile cercava di compiere il trasbordo su coordinamento della guardia costiera. Ma nonostante tutto, la sinistra, come si evince anche dalle parole di Schlein, non si arrende. Le ha fatto eco, con un intervento sconclusionato, anche Nicola Fratoianni: "Hanno più sollecitudine per andare alle feste di compleanno di un 50enne piuttosto che ad organizzare un efficace sistema di ricerca e soccorso nel mare Mediterraneo".
Almeno 30 dispersi al largo della Libia. I superstiti di Cutro assolvono il governo e accusano gli scafisti.
Un'altra tragedia del mare. Mare territoriale libico, anche se il dito viene puntato contro il governo italiano. Valentina Raffa il 13 Marzo 2023 su Il Giornale.
Un'altra tragedia del mare. Mare territoriale libico, anche se il dito viene puntato contro il governo italiano. Trenta persone risultano disperse dopo il naufragio dell'ennesimo gommone partito con condizioni meteo proibitive, in un Mediterraneo sempre più invaso di barchini diretti verso le coste italiane.
A bordo c'erano 47 migranti e l'imbarcazione si è capovolta mentre i passeggeri venivano trasbordati su uno dei 4 mercantili presenti in zona per il soccorso. Solo 17 i superstiti. L'ennesimo dramma è avvenuto fuori dalla «giurisdizione» italiana. E altri Paesi non si sono mossi, lo attesta la Guardia costiera. Ma la sinistra mette sul banco degli accusati il nostro Paese. Eppure, anche sul dramma di Cutro, gli ultimi sviluppi paiono scagionare il governo. «Noi migranti non potevamo nemmeno telefonare ai soccorsi perché i membri dell'equipaggio erano dotati di un sistema elettronico che bloccava le linee telefoniche. Gli scafisti invece erano dotati di una ricetrasmittente satellitare ma non chiamavano i soccorsi, peraltro gli scafisti avevano anche invertito la rotta allontanandosi». Questa la testimonianza resa agli inquirenti da una superstite del naufragio dinanzi alle coste di Steccato di Cutro che risulta fondamentale ai fini di un'esatta ricostruzione di quanto accaduto. Dimostra come nessun Sos sia partito dal natante, perché i passeggeri non potevano lanciarlo, mentre gli scafisti non lo hanno fatto sia perché avevano intravisto una luce in spiaggia e non volevano essere acciuffati, sia perché erano impegnati a fuggire, incuranti delle sorti dei passeggeri. La verità dei superstiti assolve il governo italiano, che pure è stato investito dall'accusa strumentale e politicizzata di aver lasciato annegare i migranti. Finora sono 79 le vittime accertate. Tra gli ultimi corpi restituiti ieri dal mare ci sono quelli di due bambini, che fanno salire a 23 il numero delle bare bianche.
Il copione delle accuse si è ripetuto ieri alla notizia. Un gommone era stato segnalato da Alarm Phone e avvistato dall'aereo Sea-bird della Ong Sea Watch. Quest'ultima parla di «omissione di soccorso», mentre Alarm Phone accusa il governo di avere «ritardato deliberatamente i soccorsi». La Guardia costiera italiana in una nota sottolinea che «l'intervento di soccorso è avvenuto al di fuori dell'area di responsabilità Sar italiana registrando l'inattività degli altri Centri Nazionali di coordinamento e soccorso marittimo interessati per area». Ma la segretaria del Pd, Elly Schlein, non perde tempo ad aprir bocca: «Vergogna per l'Italia e per l'Europa». Le partenze, che in questi giorni hanno messo a dura prova i soccorritori, non accennano a scemare e mentre si accolgono nei porti di Augusta, Messina, Catania e Lampedusa i 1.300 migranti soccorsi negli scorsi giorni, che fanno salire a circa 19mila gli sbarcati nel 2023, arriva preoccupante l'allarme degli 007 italiani dell'ultimo report settimanale inviato al governo: «Oltre 685mila migranti irregolari provenienti dalla Libia sono pronti a partire per sbarcare sulle coste italiane». E saranno 900mila se si considerano quelli pronti a salpare dalla Tunisia. Un'autentica invasione che l'Italia, malgrado la macchina bene oleata dei soccorsi e dell'accoglienza, non potrà fronteggiare da sola. Sono cifre da capogiro, che non si possono nemmeno immaginare e che danno contezza delle difficoltà imminenti che ci aspettano se solo le si rapporta al dato finale degli arrivi del 2022 di «soli» 104mila migranti sbarcati. I potenziali ospiti in questo già funesto 2023, dunque, considerando le partenze dalla Libia e dalla Tunisia, superano di nove volte il dato definitivo degli sbarcati lo scorso anno. Intanto si cerca di affrontare un problema per volta. La prefettura di Agrigento trasferirà dall'hotspot di Lampedusa altri 600 migranti: 183 in partenza stamattina in nave e 430 nel pomeriggio se le condizioni del mare lo consentiranno. Ieri in visita all'hotspot il presidente della Regione Sicilia Renato Schifani, con il prefetto Valerio Valente, capo Dipartimento nazionale Libertà civili e immigrazione del Viminale. Dall'hotspot chiedono beni di prima necessità e Schifani si è attivato perché siano consegnate. «Lampedusa è la porta d'Italia non la porta della Sicilia, purtroppo l'Europa nonostante i nostri forti richiami ha detto Schifani - non ha mai dato risposte concrete ed è arrivato il momento che si assuma le proprie responsabilità».
La sinistra sfrutta l'ultima tragedia ma giustifica chi guida i barconi. Il Pd attacca l'esecutivo, incolpevole. E concede attenuanti a chi sta a bordo. Domenico Ferrara il 13 Marzo 2023 su Il Giornale.
È una reazione pavloviana: ogni volta che c'è una tragedia in mare la sinistra si alza dalla sedia e punta il dito contro il governo. Una strumentalizzazione costante andata in scena anche ieri quando un barchino, con a bordo 47 migranti, si è trovato alla deriva a circa 100 miglia dalle coste libiche. La ricostruzione della Guardia Costiera lascia spazio a pochi dubbi: i maltesi non si sono mossi, i libici, competenti per le attività di ricerca e soccorso in quell'area, non avevano mezzi navali e così hanno chiesto aiuto a Roma, che ha inviato 4 mercantili e ha coordinato i soccorsi in un'area non di competenza italiana. Purtroppo l'imbarcazione si è capovolta e soltanto 17 migranti sono stati salvati. Ma la sinistra non ha perso un attimo per etichettare il governo come artefice della morte di quelle persone. La segretaria pd Elly Schlein ha subito strumentalizzato la tragedia urlando «Vergogna!». Laura Boldrini ha accusato il governo di essere complice e il segretario di Più Europa Riccardo Magi ha minacciato di denunciare l'esecutivo. È lo stesso refrain che va in onda da tempo: la sinistra che distorce la realtà, naturalmente a suo favore. Lo fa anche parlando degli scafisti. Sono poveretti, disperati, vittime. Una narrazione, fatta da giornali progressisti e mondo delle ong, distorta e pericolosa, che ha trovato il suo apice nella tragedia di Cutro. Un racconto che presenta i tratti del giustificazionismo e che rivolge agli scafisti solo sguardi di commiserazione e nessuna reprimenda. Era l'ottobre 2021 quando Arci Porco Rosso e Alarm Phone scrissero un report, ricondiviso ieri dall'ong Mediterranea Saving Humans, dall'eloquente titolo: «Non chiamateli scafisti». E come dovremmo chiamarli, secondo loro? Migranti-capitani retribuiti. Per il governatore della Puglia, Michele Emiliano, «lo scafista molto spesso è semplicemente un altro disgraziato costretto a fare questo viaggio chissà per quali ragioni».
Su Repubblica Concita De Gregorio ha sentenziato: «Il governo delle sanzioni annuncia di voler far sparire gli scafisti: pensa te quanto gliene importa ad uno scafista se rischia 20 o invece 30 anni di galera, quando si imbarca sul legno o sul gommone dove rischia di morire. Che poi gli scafisti sono disperati come gli altri, ce lo raccontano i giornali che ci parlano e ne scrivono libri: sono i trafficanti quelli che comandano il commercio di uomini, e i trafficanti restano sempre a terra, al sicuro». Le fa eco il Domani, secondo cui gli scafisti non sono altro che l'ultimo anello della catena e spesso sono obbligati a farlo. Per carità, nessuno mette in discussione che a comandare siano i trafficanti, ma non è che gli scafisti siano così tutti disperati. Basta leggere i verbali dei superstiti del naufragio di Cutro, visionati dall'Adnkronos, per capire che almeno quegli scafisti non fossero dei santi. Qualche esempio? «Al momento dell'imbarco mi sono stati sequestrati i soldi in mio possesso di matrice turca»; «Noi non potevamo nemmeno telefonare ai soccorsi perché i membri dell'equipaggio erano dotati di un sistema elettronico che bloccava le linee telefoniche»; «Uno scafista faceva dei video con il proprio telefono cellulare inneggiando a un trafficante asserendo che i suoi migranti erano giunti in Italia».
Inoltre, secondo le ricostruzioni del governo, sarebbero stati proprio gli scafisti a causare la rottura della barca virando all'improvviso e finendo su una secca. Insomma, occhio a giustificarli. Perché un conto è vedere solo la pagliuzza e non la trave, un altro è avere il prosciutto sugli occhi.
Cutro, la denuncia dei migranti superstiti: gli scafisti non ci hanno fatto chiamare i soccorsi. Il Tempo il 12 marzo 2023
Sulla dinamica della tragedia al largo delle coste di Cutro inizia a emergere la verità. A parlare sono gli stessi superstiti del naufragio, secondo i quali gli scafisti non hanno permesso di chiamare i soccorsi. «Appena giunta vicino alla spiaggia italiana, nel tardo pomeriggio del 25 febbraio, uno scafista turco ci ha detto che eravamo giunti in Italia e che potevamo salire sopra coperta per pochi minuti. Abbiamo fatto pure un piccolo video inneggiando alla fine del viaggio anche se non riuscivamo a vedere la costa. Nonostante ciò l’imbarcazione spegneva il motore senza pertanto navigare verso costa. In quel momento» uno dei due scafisti «faceva dei video con il proprio telefono cellulare inneggiando a un trafficante asserendo che i suoi migranti erano giunti in Italia». Inizia così il racconto di un’altra superstite del naufragio dello scorso 26 febbraio, ascoltata lo scorso primo marzo dagli investigatori che indagano sulla tragedia, coordinati dalla Procura di Crotone.
I superstiti sono stati sentiti, come apprende l’Adnkronos, lo scorso primo marzo. «Avete chiesto perché l’imbarcazione non raggiungeva la costa?», chiede l’inquirente alla donna. Risposta: «Lo abbiamo chiesto ma questi non rispondevano. Intanto il mare diveniva sempre più agitato e uno degli scafisti turchi ci mostrava una mappa sul cellulare cercando di tranquillizzarci e dicendoci che eravamo ormai vicini all’Italia». «Nonostante ciò noi migranti ci stavamo un po' agitando perché non comprendevamo il motivo per cui si stava esitando a raggiungere la costa - prosegue la superstite - Peraltro noi non potevamo nemmeno telefonare ai soccorsi perché i membri dell’equipaggio erano dotati di un sistema elettronico che bloccava le linee telefoniche. Gli scafisti, invece, erano dotati di una ricetrasmittente satellitare ma non chiamavano i soccorsi, peraltro gli scafisti avevano anche invertito la rotta allontanandosi». In questa fase gli scafisti «scendevano sottocoperta a dirci di non denunciarli alla Polizia in caso di controllo ma di riferire che erano migranti come noi».
«Dopo 5 giorni di navigazione sapevamo di essere in prossimità delle coste italiane, quando ho sentito un forte rumore e da una falla nello scafo, abbiamo cominciato a imbarcare acqua. Il livello dell’acqua sottocoperta è salito molto rapidamente generando il caos a bordo. Ho visto i membri dell’equipaggio vicino intenti a contattare telefonicamente qualcuno». A raccontarlo è un altro superstite, come si legge nel verbale del primo marzo visionato dall’Adnkronos.
La tragedia di Cutro e i suoi mille interrogativi. Egidio Lorito Panorama il 13 Marzo 2023
L'opinione dei legali che seguono i parenti delle vittime del naufragio dello scorso 26 febbraio
Luigi Li Gotti, autorevole penalista originario di Crotone, guida un pool di esperti che rappresentano i parenti delle vittime, insieme ai colleghi Francesco Verri e Vincenzo Cardone del Foro di Crotone e Mitja Gialuz ordinario di diritto processuale penale a Genova. La linea difensiva del collegio, pronto a depositare lunedì una corposa memoria difensiva, si poggia su un buco nero nelle comunicazioni di salvataggio che pare sia durato dalle 23.00 del 24 febbraio alle 4.00 del 25 e che, a loro dire, avrà contribuito a causare la tragedia: gli esperti sono convinti che se alle operazioni di approdo della carretta del mare stipata di oltre centro migrati avessero partecipato uomini esperti, in grado di far approdare quella vecchia barca in un luogo più sicuro, oggi non si parlerebbe di “tragedia di Cutro”. Panorama.it ha incontrato l’avvocato Luigi Li Gotti, penalista di origini crotonesi, da cinquant’anni al centro di importanti casi giudiziari, sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi, e il penalista crotonese Francesco Verri esperto in diritto penale umanitario. Avvocato Li Gotti, partiamo dall’inizio. «Occorre partire dalle ore 23.03 del 25 febbraio quando l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, nota come Frontex, registra un avvistamento di un natante in avvicinamento lungo le coste ioniche calabresi: immediatamente viene allertato il nostro Ministero dell’Interno perché dalle rilevazioni effettuate tramite thermoscanner emerge la presenza di un numero consistente di persone a bordo. E’ dal porto di Crotone che un’unità navale della Guardia di Finanza prende il largo: non intercetta il barcone ed è costretta a far rientro in rada a causa delle avverse condizioni meteo-marine». Eccolo il “buco nero” nei soccorsi che lei denuncia…
«E’ da quel momento, sino alle successive 04.00 del 26 febbraio, che su tutta la vicenda cala il classico buco nero: ancora oggi non riusciamo a spiegarci perché il silenzio sulle comunicazioni unito alle proibitive condizioni meteorologiche siano riusciti a causare una tragedia. Sarebbe bastato che l’approdo fosse stato spostato per superare la secca situata alla foce del fiume Tacina e si sarebbero salvate 100 vite umane». Siete al lavoro per spiegare queste incongruenze. «Forse anche omissioni, mi perdoni. Stiamo acquisendo dati e documenti che faremo analizzare ai nostri consulenti, in modo da affiancare la Procura di Crotone e fare luce sull’accaduto. Dal nostro punto di vista sono in discussione le responsabilità nella catena dei soccorsi partendo proprio da chi aveva il compito di intervento. La nostra domanda, sin da subito, è stata una sola: «perché è stata allertata immediatamente la Guardia Costiera che da sempre nel nostro Paese salva le vite in balia delle onde?». C’è un documento che lei considera conducente, una sorta di “pistola fumante”. «Non c’è una pistola fumante, ma poco prima della mezzanotte del 24 febbraio era stato lanciato un “mayday” , ovvero quel segnale radiofonico internazionale che un’imbarcazione o un velivolo emettono per indicare una situazione di emergenza. Quel segnale è stato attivo sino alle 04.57 della mattina del 25 febbraio, mentre l’avvistamento operato da Frontex si riferisce alla serata dello stesso 25». Quindi il “mayday” era stato lanciato ben prima che Frontex intervenisse! «Dobbiamo accertare se a lanciare quella richiesta d’aiuto fosse stato lo stesso natante in balia delle onde o in avaria al motore. Perché se a lanciare la richiesta d’aiuto fosse stato un altro natante, è evidente che ad oggi non se ne hanno tracce». Insomma, ancora oggi non si sa chi abbia lanciato la richiesta di aiuto?
«E’ l’oggetto della nostra indagine. Abbiamo un S.A.R. (richiesta di Search and rescue” , ricerca e soccorso) lanciato, senza che fosse seguito dall’accertamento del natante, perché non abbiamo notizia di uno sbarco sullo steso tratto di costa. Ecco perché parlo di un misterioso “buco nero”. I nostri accertamenti sono diretti a verificare se a lanciare la richiesta di soccorso fosse stato lo stesso barcone poi collassato su sé stesso. Abbiamo solo il dato di partenza, una richiesta di soccorso lanciata a tutte le navi in transito nel mare Ionio. Inoltre il buco nero è relativo all’avvistamento da parte di Frontex comunicato alle 23.03 del 25 febbraio e il soccorso delle 04.30 del mattino del 26, a naufragio avvenuto. Perché nulla per circa 6 ore?». * Avvocato Verri, lei è anche uomo di mare. «Dirigo il centro velico di Crotone, e conosco bene la situazione meteomarina dell’area. La boa di Capo Colonna, ovvero il punto di rilievo ondametrico di Crotone, ubicata al largo di Capo Colonna -il punto più orientale della Calabria- in un tratto di mare con profondità nominale di 80 metri, è inserita nella rete ufficiale di rilevamento, e la notte tra il 24 e il 25 gennaio, segnava onde di 2 metri e mezzo». C’era un obbligo di soccorso in capo alle autorità marittime? «Mi spiego. L’intero viaggio di questi disperati rappresenta una situazione di pericolo, da quando queste barche lasciano le coste di provenienza. Perché è notorio che si tratti di natanti fatiscenti, occupate oltre ogni limite di capienza, che affrontano un mare per il quale non sono assolutamente equipaggiate, per di più condotte da equipaggi -è un eufemismo…- del tutto impreparati ad affrontare il mare. E’ proprio da questa situazione di fatto che nasce l’obbligo di soccorso». Da giorni sentiamo parlare di “operazione di polizia” e attività di “ricerca e soccorso”. «Per legge l’una non esclude l’altra. E’ scritto nero su bianco nel Decreto del Ministro dell’Interno del 2003: l’articolo 6 prevede che “nelle acque territoriali e interne italiane le unità navali delle Forze di polizia svolgono attività di sorveglianza e di controllo ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti. Le unità navali della Marina Militare e delle Capitanerie di Porto concorrono a tale attività attraverso la tempestiva comunicazione dell’avvistamento dei natanti in arrivo o mediante tracciamento e riporto dei natanti stessi, in attesa dell’intervento delle Forze di polizia”». Quella notte le condizioni meteomarine hanno fatto sentire il proprio peso… «La norma se ne occupa: infatti, “quando in relazione agli elementi meteomarini ed alla situazione del mezzo navale sussistano gravi condizioni ai fini della salvaguardia della vita umana in mare, le unità di Stato presenti, informata la Direzione centrale e sotto il coordinamento dell’organizzazione di soccorso in mare provvedono alla pronta adozione degli interventi di soccorso curando nel contempo i riscontri di polizia giudiziaria”». Poi ci sono le norme comunitarie… «Per il Regolamento UE del 2014, in mare la situazione è di pericolo quando si nota qualcosa che “‘può far pensare alla probabilità del pericolo”». Partiamo da Frontex: che ha dichiarato di aver segnalato un natante. Siamo in ipotesi di “Search and rescue”? «Frontex avvista l’imbarcazione e lancia l’allarme. D’altra parte, l’operazione “Themis” in cui era impegnato l’aereo di Frontex, testualmente ha lo scopo di migliorare il “law enforcement” , cioè il rafforzamento dell’attività di Polizia, ma “continuando a considerare la ricerca e il soccorso come componente cruciale”». Il thermoscanner aveva rilevato a bordo la presenza di persone… «Che a bordo della barca naufragata ci fossero “migranti” era apparso evidente da subito (non solo in base ai dati trasmessi da Frontex) anche perché gli sbarchi in questi anni sul tratto di costa Crotonese sono stati decine, con migliaia di persone. Non è vero che si tratti di una rotta inedita, come ho sentito dire: al contrario, anche perché i processi contro i presunti scafisti sono moltissimi, mentre non mi risultano processi per contrabbando, traffico di armi o narcotraffico via mare». Conclusione? «Una barca che naviga verso Crotone o Cutro di notte, con il mare grosso senza comunicare con nessuna autorità, trasporta rifugiati, senza alcun dubbio. Rifugiati in pericolo per definizione, come dicono leggi e precedenti giudiziari». * Luigi Li Gotti, nativo di Mesoraca (Kr), classe 1947, dopo essersi laureato in legge a Bari, si trasferisce a Roma nei primi anni Settanta, dopo aver avviato l’attività di penalista a Crotone. Parte civile nel processo per la strage di Piazza Fontana, ha rappresentato i familiari del maresciallo Oreste Leonardi e dell’appuntato Antonio Ricci nel processo Aldo Moro, la famiglia del commissario Luigi Calabresi, Francesco Gratteri imputato nel processo per le vicende accadute nella Scuola Diaz a Genova, partecipando anche ai processi per le stragi di Capaci, di via D’Amelio e degli Uffizi, e al recente Aemilia, sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel nord-est. Formatosi politicamente nella destra sociale, nel 1998 abbandona Alleanza Nazionale approdando a Italia dei Valori nel 2001: dal maggio del 2006 sino alla fine del secondo governo Prodi è stato sottosegretario -non deputato- alla Giustizia e poi senatore dal 2008 al 2013.
Francesco Verri, crotonese, classe 1971, è avvocato penalista del Foro di Crotone. Nel corso della sua attività per un verso ha approfondito le problematiche relative al diritto penale economico e, per altro, si è dedicato al tema della diffamazione per il tramite dei mezzi di comunicazione di massa curando la difesa di varie testate cartacee e radiotelevisive. Con il collega Vincenzo Cardone ha pubblicato Diffamazione a mezzo stampa e risarcimento del danno (Giuffrè Editore, Milano, 2003, 2007, 2013) diretta da Paolo Cendon. Ha anche diretto il Centro Velico di Crotone
Gli sciacalli sui morti di Cutro. Emanuele Beluffi su Culturaidentità il 13 Marzo 2023
Eppur si muovono. Dagli USA alla Danimarca, dal Regno Unito alla Francia, tutti vogliono blindare i confini. Nella Perfida Albione a farlo è il primo premier di origine straniera, Rishi Sunak, quindi incriticabile per definizione anche se non è a sinistra. Macron idem proprio perché a “sinistra”. E allora dove mirano i giornaloni e i dem de noartri per il tiro al piccione sui migranti? E’ colpa nostra, dicono. E’ colpa nostra se il sistema solare funziona così (il climate change) ed è sempre colpa nostra se sbarcano i migranti. C’entrano niente gli scafisti, al massimo sono solo dei tipi un po’ rozzi (giuro, un giornale web dell’avanguardia del fronte unito progressista l’altro giorno li ha definiti così. Come dire che Donato Bilancia era un po’ manesco). Ovunque, nel mondo, i Paesi tornano a chiudere le frontiere e ora la parola d’ordine non è accogliamoli tutti ma rafforziamo i confini. Ma in Italia una sinistra che rosica si aggrappa a tutto pur di dare spallate al Governo in carica da meno di 6 mesi. Hanno iniziato coi fascisti, ora in cerca di argomenti se la prendono con la festa di compleanno di Salvini, presenti il premier Meloni e Berlusconi, per aver cantato le strofe della Canzone di Marinella a una festa privata. Per la sinistra sconfitta in cerca di rivincita, cantarla è un’offesa alle vittime del naufragio di Cutro (Marinella è una migrante annegata mentre era in cerca di un futuro migliore). Ora dopo Cutro un’altra strage di migranti, 30 dispersi e 17 salvati in un naufragio al largo di Bengasi, Libia e Malta zitte e le ONG accusano l’Italia per i ritardi. L’impressione, che è più di un’impressione, è che l’aumento massivo di sbarchi sia un ricatto: da quando il Governo ha annunciato pene severissime per gli scafisti e i trafficanti di vite umane gli sbarchi sono triplicati rispetto al 2022. Mentre continuano le ricerche dei corpi nelle acque di Cutro, un altro naufragio rinnova lo shock e le polemiche di chi si aggrappa ai morti per infilzare il governo di centrodestra. L’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano durante la manifestazione a Cutro “per fermare la strage” con bandiere rosse della CGIL al seguito dice di vergognarsi di essere un cittadino occidentale e che il governo è disumano: questo, nel momento stesso in cui la Guardia costiera aveva appena tratto in salvo più di 1200 migranti. Anche la Schlein attacca (“Vergogna”, in riferimento all’accusa all’Italia per il ritardo nei soccorsi al barcone ribaltatosi al largo della Libia) e al PD si aggiungono le ONG, ma sono proprio i superstiti delle stragi a scagionare il Governo (“Non potevamo nemmeno telefonare ai soccorsi perché membri dell’equipaggio erano dotati di un sistema elettronico che bloccava le linee telefoniche, gli scafisti invece erano dotati di una ricetrasmittente satellitare ma non chiamavano i soccorsi”, questa la testimonianza agli inquirenti di un superstite del naufragio di Cutro, indispensabile per una estata ricostruzione della tragedia). Infatti, nessuno abbandona nessuno, men che meno lo fa il Governo, ma una sinistra sconfitta in cerca di rivincita e di argomenti per riaverla non si ferma nemmneo di fronte ai morti.
Emanuele Beluffi, Giornalista pubblicista
Anche la tragedia al largo della Libia è una responsabilità di Italia e Ue. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 13 marzo 2023
L’ultima tragedia nel Mediterraneo racconta le disastrose politiche dell’Unione europea e dell’Italia nei confronti dei migranti, iniziate con gli accordi italo-libici voluti dall'allora ministro dell'Interno Pd, Marco Minniti, e confermate anche dal governo delle destre, guidato da Giorgia Meloni
L’ultima tragedia nel Mediterraneo racconta le disastrose politiche dell’Unione europea e dell’Italia nei confronti dei migranti, iniziate con Marco Minniti (Pd), ministro dell’Interno, e confermate anche dal governo delle destre, guidato da Giorgia Meloni.
Queste politiche includono l’esternalizzazione del controllo delle frontiere nel Mediterraneo centrale, la formazione della Guardia costiera libica con l’istituzione della zona di ricerca e soccorso davanti alle coste della Libia (Sar). Decisioni avviate con la firma del memorandum Italia-Libia, voluto dal governo guidato da Paolo Gentiloni, nel febbraio 2017, e mai rinnegate anche dall’esecutivo in carica che ha bloccato le navi ong e reso sempre più ardua l’impresa di salvare vite umane.
L’ULTIMA TRAGEDIA
Di fronte alla nuova strage di innocenti, naufragati nel Mediterraneo, la Guardia costiera italiana parla di «un intervento di soccorso avvenuto al di fuori dell’area di responsabilità Sar italiana registrando l’inattività degli altri centri nazionali di coordinamento e soccorso marittimo interessati per area».
La competenza era della Libia che ha risposto di non avere imbarcazioni disponibili e di Malta che non ha mosso un dito, un’inerzia che ha avuto come conseguenza lasciare morire i migranti. Gli allarmi sono stati espliciti e ripetuti, ma l’esito è stato lo stesso di Cutro.
Nella notte tra il 10 e l’11 marzo, Alarm Phone ha ricevuto la segnalazione di un’imbarcazione in enorme difficoltà con 47 persone a bordo che scappavano dall’inferno della Libia. La posizione è stata comunicata alle autorità libiche, maltesi e italiane, la situazione era di enorme pericolo.
«Abbiamo informato i ripetutamente, sia via e-mail che per telefono, il Centro di coordinamento del soccorso marittimo (Mrc) italiano di questa situazione (...) Alle ore 3:01, abbiamo chiesto a di Roma di ordinare alla nave mercantile Amax Avenue, che si trovava nelle vicinanze, di intervenire», si legge in una ricostruzione di Alarm Phone.
Il caso è stato segnalato anche via social, dopo nove ore, l’aereo Seabird 2 di Sea-Watch ha avvistato dal cielo l’imbarcazione in difficoltà, informando anche le autorità sulla situazione di imminente pericolo.
L’imbarcazione era in piena Sar libica, come ricorda anche la Guardia costiera italiana, ma nessuno è intervenuto, solo una nave mercantile, ma a distanza di diverse ore dalle ripetute segnalazioni. L’esito dell’inerzia, con Malta e Italia immobili, in attesa dell’intervento libico, è la morte.
«L’ultima comunicazione con le persone a bordo è avvenuta alle ore 06:50 del 12 marzo. Erano esauste e disperate. Subito dopo quella telefonata, abbiamo inviato la loro posizione Gps alle autorità, chiedendo loro di intervenire con urgenza. Alle ore 07:20, le persone a bordo ci hanno chiamato un’ultima volta, ma non si sentiva nulla. Dopo il nostro ultimo contatto, la barca si è capovolta», si legge nel rapporto. I sopravvissuti sono 17, i dispersi una trentina.
LA LIBIA LAVA OGNI COLPA
Il modello concepito a sud della Sicilia ha previsto una zona Sar libica, il ruolo della guardia costiera locale, foraggiata dall’Italia, e la stessa giustificazione di fronte a ogni tragedia: è competenza della Libia.
Questo ha due conseguenze. La prima è che quando i libici riescono ad agguantare i barconi, i migranti vengono riportati dentro i lager e le prigioni violando la prescrizione dell’Onu, che considera la Liba un paese non sicuro.
La seconda conseguenza è che quando i barconi non vengono intercettati i barconi, la colpa di morti è della Libia. Ma la regia di questa mancata assunzione di responsabilità è tutta italiana ed europea.
Questa strategia trova una prima traccia in una nota del ministero dell’Interno. «Le Ong sono diventate una piattaforma in attesa dei gommoni provenienti dalla Libia (…) Tale modalità di pattugliamento potrebbe costituire un indice rivelatore di un preventivo accordo tra le organizzazioni criminali e l’equipaggio delle imbarcazioni», si legge nel documento, datato 2016, il preludio al memorandum con la Libia.
È iniziata allora la criminalizzazione delle organizzazioni non governative che, in quel momento, dopo che il governo Renzi aveva archiviato l’operazione militare Mare nostrum, cominciavano ad agire a largo della Libia per salvare vite umane.
Nelle carte dell’inchiesta sulle Ong e i migranti, pubblicata su Domani nel 2021, emergeva già questo spaccato. Da allora tutti i governi hanno cercato di limitare le ong e hanno scelto di affidarsi alla Guardia costiera libica. Cioè a operatori senza esperienza, in rapporti con ambienti criminali, che riportano nelle prigioni i migranti oppure, come successo adesso, li lasciano morire in mare.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
(ANSA il 28 giugno 2023) - L'Aula del Senato nega la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per le opinioni espresse su Carola Rackete, all'epoca dei fatti comandante della Sea Watch 3, la nave della ong tedesca impegnata nel soccorso di 53 migranti nella zona SAR libica il 12 giugno 2019. Il voto (82 sì, 60 no, 5 astenuti) accoglie la relazione della Giunta delle immunità, del 28 febbraio 2023, che ritiene le parole coperte da insindacabilità.
La Giunta si è espressa sugli atti del tribunale di Milano che vede Salvini accusato di diffamazione aggravata. Hanno votato contro Pd, M5s, Avs, astenuta Iv e maggioranza a favore.
(ANSA il 28 giugno 2023) - "Che dire? Notizia attesa e scontata. È l'insindacabilità dell'insulto. È interessante notare come il Parlamento abbia ritenuto un'opinione espressioni come 'zecca tedesca', che qualificano chi le pronuncia ben più di una donna che è stata costretta a subirle".
E' il commento dell'avvocato Alessandro Gamberini, legale di Carola Rackete, alla decisione del Senato di negare la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, che era a processo per diffamazione davanti al Tribunale di Milano.
“Zecca tedesca”, “Complice scafisti”. Per il Senato gli insulti di Salvini a Carola Rackete sono “insindacabili”. L'Aula ha negato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro leghista per le opinioni espresse sulla comandante della Sea Watch 3. Simone Alliva su L'Esprresso il 28 Giugno 2023
L'Aula del Senato ha detto no alla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini per le frasi indirizzate all'attivista Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3, la nave della ong tedesca impegnata nel soccorso di 53 migranti il 12 giugno 2019. La stessa calda estate del "Papeete", che portò alla crisi e alla fine del governo gialloverde.
Il caso si riferisce a un procedimento a Milano per diffamazione continuata e aggravata di Rackete, all'epoca dei fatti comandante della Sea Watch 3, nave della ong tedesca impegnata nel soccorso di migranti nel Mediterraneo, "per aver proferito diverse frasi offensive" sui social e in un’intervista televisiva. La comandante venne appellata come "zecca tedesca", "complice degli scafisti e trafficanti" e "sbruffoncella".
A dire no alla richiesta della Procura di Milano, dove pende l'accusa per il leghista di diffamazione aggravata, sono stati 82 senatori (Lega-Fdi-Fi), 60 invece a favore della richiesta della magistratura (Pd, M5s, Avs) e 5 astenuti (tra cui Italia Viva). Con questo voto il Senato approva la relazione della Giunta delle immunità di Palazzo Madama che si era espressa a fine febbraio 2023, ritenendo insindacabili le affermazioni dell'allora ministro dell'Interno. «Apprezziamo lo sforzo del relatore di trovare degli appigli giuridici per giustificare la richiesta di insindacabilità del senatore Salvini. Tuttavia, c'è un parso di sentire il classico rumore delle dita sugli specchi, di chi si arrampica sui vetri, per cercare di giustificare l'ingiustificabile» attacca il senatore del Pd, Alfredo Bazoli.
«Che dire? Notizia attesa e scontata. È l'insindacabilità dell'insulto. È interessante notare come il Parlamento abbia ritenuto un'opinione espressioni come 'zecca tedesca', che qualificano chi le pronuncia ben più di una donna che è stata costretta a subirle». Questo il commento dell'avvocato Alessandro Gamberini, legale di Carola Rackete.
Magi (+Eu), Meloni dovrebbe chiedere scusa a Rackete
Il nome di Carola Rackete è anche risuonato nell'altro ramo del Parlamento, impegnato stamattina nel dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio Giorgia Meloni in vista del Consiglio europeo di domani e dopodomani: «Voglio dire - è un passaggio dell'intervento del premier - che sono fiera di essere arrivata alla guida di questa nazione quando era lanciata a folle velocità verso la cancellazione dei confini nazionali, il riconoscimento del diritto inalienabile alla migrazione e quindi ad essere accolti in Europa senza vincoli e senza distinzioni, il divieto di adottare qualsiasi misura di contenimento dell'immigrazione illegale, arrivando perfino a legittimare chi sperona le navi dello Stato italiano; e di ritrovarmi oggi a rappresentare una Nazione che si fa portatrice di una visione diametralmente opposta». Il riferimento alla comandante tedesca provoca la reazione di Riccardo Magi, segretario di Più Europa, protagonista anche qualche giorno fa di alterco con Meloni sul tema della droga.
«Per un momento ho sperato - ha detto Magi in aula - che nella replica la presidente chiedesse scusa all'aula e anche ai cittadini che hanno ascoltato questa mattina il suo intervento, per un passaggio particolare in cui ha fatto riferimento a un episodio di esattamente quattro anni fa, del 29 giugno del 2019, definendo quello che accadde a Lampedusa come lo speronamento di navi dello Stato italiano da parte della comandante Rackete. Ci tengo molto a sottolineare - aggiunge - che quello che la presidente ha detto in quest'Aula è una menzogna, perché ero su quella nave personalmente e perché c'è stata una sentenza della Cassazione passata in giudicato che ha riconosciuto che la comandante Carola Rackete ha agito nel rispetto delle leggi e degli obblighi internazionali».
L'ex comandante Sea-Watch. Carola Rackete si candida alle elezioni Europee: “Manca una sinistra forte nei parlamenti”. L'ex comandante della nave Sea Watch, andata allo scontro con Salvini, correrà con il partito di sinistra tedesco Die Linke. Redazione Web su L'Unità il 17 Luglio 2023
Carola Rackete si candiderà alle elezioni europee in programma nel giugno 2024. La capitana al comando della nave da salvataggio Sea Watch sarà la candidata di punta della Die Linke, la sinistra tedesca, che al momento non naviga propriamente in buone acque. Il partito sta attraversando una crisi di consensi. “Mi sono resa conto di quanto ci manchi ancora il sostegno di una sinistra forte nei parlamenti”, ha detto Rackete annunciando che si impegnerà soprattutto sui temi dell’ambiente, delle migrazioni e dei movimenti sociali. Correrà con il co-leader del partito Martin Schirdewan, già europarlamentare.
Era il 29 giugno del 2019 quando la capitana venne accusata di aver forzato la chiusura del porto di Lampedusa. Fu arrestata con l’accusa di resistenza a nave da guerra e tentato naufragio. L’arresto non venne convalidato dalla giudice per le indagini preliminari di Agrigento. L’inchiesta è stata archiviata nel 2021. La Sea-Watch 3 aveva salvato in quella missione 42 migranti. Era in mare da 17 giorni. L’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva previsto il cosiddetto “decreto sicurezza bis”, approvato dal governo Conte 1 a inizio giugno del 2019, che impediva lo sbarco.
Lo scorso febbraio la Giunta per le immunità del Senato e due settimane fa il Senato in via definitiva hanno negato l’autorizzazione a processare il segretario della Lega e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini per diffamazione. Rackete lo aveva denunciato per le frasi e gli epiteti che il politico aveva utilizzato nei suoi confronti. Era stata definita “sbruffoncella”, “complice dei trafficanti”, “potenziale assassina”, “pirata”, “una che ha provato a uccidere dei finanzieri e ad ammazzare cinque militari italiani”, “fuorilegge”.
Rackete ha raccontato di non aver “preso la decisione alla leggera”. Ha definito la sua candidatura come una sorta di opportunità per una “nuova partnership” tra i movimenti sociali e il partito. Secondo i sondaggi il consenso di Linke si aggira intorno al 4,5%. Al quotidiano Spiegel ha raccontato in un’intervista che il mandato al Parlamento Europeo serve ai movimenti per il clima “per essere una sorta di cane da guardia a Bruxelles. Si tratta di comunicare i contenuti dei movimenti e di far conoscere ai movimenti stessi ciò che viene deciso a Bruxelles”.
Le elezioni si terranno tra il 6 e il 9 giugno 2023.
Redazione Web 17 Luglio 2023
Carola ora vuole "speronare" l'Europarlamento. La Rackete getta la maschera e vira sulla politica: correrà con l'estrema sinistra. Fausto Biloslavo il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.
Carola Rackete, l'eroina del mondo alla rovescia di sinistra e radical chic nostrano, ha gettato definitivamente la maschera. Da intrepida paladina dei migranti, che sfida i «cattivi» come Matteo Salvini, allora ministro dell'Interno, ma non si sporca le mani con la politica, adesso si candida al Parlamento europeo. Ovviamente con Die Linke, «la sinistra» dura e pura tedesca erede del partito comunista della Germania Est. Gli stessi che aiutano e finanziano le Ong del mare.
A Strasburgo tremano più per il ridicolo della novella Giovanna D'Arco delle Ong europarlamentare, che per la pericolosità dell'ex capitana. L'ultima volta era tornata agli onori delle cronache per un arresto in Germania vestita da pinguino e avvinghiata ad un albero che non si doveva abbattere in nome della lotta per salvare il mondo. La talebana dell'accoglienza e dell'ecologia aveva poi fatto perdere le tracce in Norvegia dopo una protesta locale «in difesa dell'ecosistema». L'autocandidatura di ieri sui social ha fatto sorridere pure Salvini, che ha risposto con una battuta: «Dallo speronare motovedette italiane della Guardia di Finanza alla candidatura per Bruxelles con la sinistra tedesca, è un attimo. Auguri, viva la democrazia».
La teutonica Carola è diventata famosa nel 2019 al timone della Sea watch 3, nave dei talebani dell'accoglienza tedeschi. La capitana ha sbarcato a forza 42 migranti a Lampedusa, nonostante il divieto del governo italiano, schiacciando contro la banchina una motovedetta della Guardia di Finanza che stava cercando di impedire la manovra pirata.
La magistratura l'ha velocemente graziata e Carola è diventata un'icona elevata nell'Olimpo di sinistra assieme ad altre «eroine» come Elly Schlien, oggi fallimentare segretaria del Pd, la giornalista Rula Jebral e la scrittrice Michela Murgia.
In realtà pochi sanno che la stessa Sea Watch considerava Carola una testa matta e la mancanza di contratti con le Ong del mare l'ha spostata sulla via dei tanti «gretini» che seguono la giovane Thunberg, estremista dell'ecologia.
L'aspetto tragicomico della candidatura a Strasburgo per il voto del prossimo anno sono le folli idee e dichiarazioni dell'ex capitana proprio sull'Europa. Per Carola la Ue è assassina: «Vuole che i migranti affoghino per spaventare chi intende intraprendere gli attraversamenti». E ovviamente lei si è sempre battuta «contro il razzismo strutturale delle autorità europee». L'acuta proposta, con tanto di hastagh che ha lanciato è #DefundFrontex, una campagna per tagliare i fondi dell'agenzia europea in difesa delle frontiere esterne, che già riesce a fare poco.
Il grido di battaglia non lascia dubbi: «Come cittadini europei, dobbiamo interrompere questa politica! Dobbiamo abbattere la fortezza Europa». L'obiettivo è far entrare tutte «le persone in movimento», ovvero i migranti, come se fosse normale e legale passare clandestinamente i confini degli Stati. Chissà se utilizzerà gli stessi slogan in campagna elettorale nei Land tedeschi che cominciano ad avere le scatole piene dei continui arrivi e dei talebani dell'ecologia. Se riuscirà ad infinocchiare gli elettori, come ha fatto con molti progressisti in Italia, povero Europarlamento.
Migranti, Sea Watch accusa: “Roma sapeva, ci ha riattaccato il telefono...”. La Ong diffonde audio e video delle ore precedenti al naufragio a largo delle coste libiche: a bordo del barchino 47 persone, di cui 17 sopravvissuti e 30 dispersi. Il Dubbio il 13 marzo 2023
Sono tutti sbarcati a Pozzallo i 17 sopravvissuti del naufragio di un barchino di migranti che trasportava 47 persone. E a fornire una ricostruzione minuziosa delle ore che hanno preceduto l'ennesimo naufragio a largo delle coste libiche, con 30 dispersi, è la Ong Sea Watch. Che ha reso pubbliche le immagini girate dal suo velivolo di ricognizione Seabird e le registrazioni audio delle chiamate tra l'equipaggio, la nave mercantile vicina al barchino e i Centri di coordinamento dei soccorsi libico e italiano.
“Ci sono due cose da chiarire - dice all'Adnkronos Sea Watch Italia -. La prima: quando si parla di zona Sar libica non ci si riferisce alle acque territoriali libiche ma a un'area di responsabilità libica. Dal momento che la cosiddetta Guardia costiera libica non era in grado di soccorrere il barchino secondo la Convenzione di Amburgo gli italiani o maltesi potevano andare e salvare la vita delle persone a bordo”. Il secondo aspetto che per l'ong merita di essere sottolineato è che “a Roma sapevano benissimo cosa stesse succedendo”. “La scelta di demandare il soccorso ad assetti inadatti (la nave mercantile, ndr), che, infatti, nel soccorrerlo hanno fatto capovolgere il barchino, è stata una loro scelta. Loro, quindi, la responsabilità”, attacca Sea Watch, che nella ricostruzione di quanto accaduto spiega che il primo sos lanciato da Alarm Phone alle autorità competenti risale alle 2.28 di sabato scorso.
L'ong è in contatto con la barca sovraccarica e in balia delle onde. Alle 10.32 anche Seabird avvista la carretta del mare in difficoltà e lancia un mayday, raccolto dal mercantile Basilis L. distante 15 miglia dal barchino. “La gente in pericolo si sbraccia. È richiesta assistenza immediata”, spiegano da Seabird e dalla nave cisterna Basilis L. rispondono: “Ok, siamo a 15 miglia, procediamo”. A distanza di un'ora l'equipaggio di Seabird contatta nuovamente via radio il mercantile, che spiega di aver ricevuto istruzioni dal Centro di coordinamento del soccorso in mare (Mrcc) di Roma di coordinarsi con la Guardia costiera libica, che a sua volta ha ordinato di raggiungere la barca e poi richiamarli. “La Guardia costiera libica vi ha detto di prendere a bordo le persone?”, chiede Seabird all'equipaggio della nave, che risponde: “Non possiamo darvi questa informazione. Posso solo dirvi che stiamo procedendo verso la posizione indicata e basta”. Alle 16.51 l'ong contatta il “Joint Rescue Coordination center” di Tripoli, che comunica di essere a conoscenza del caso ma che nessuna motovedetta è disponibile da Bengasi. “Non abbiamo nessuna motovedetta pronta”, si sente nell'audio diffuso da Sea Watch.
Alle 17.06 l'ong contatta nuovamente il Mrcc di Roma, spiegando che dalla Libia non partirà alcuna motovedetta. “Il nostro aereo ha lasciato la scena - dice Seabird -, ma abbiamo appena chiamato il Jrcc Libia e ci hanno informato che hanno cercato di mettersi in contatto con l'autorità portuale di Bengasi, ma che non sono riusciti a contattare nessuno e quindi nessuna imbarcazione si sta dirigendo verso l'imbarcazione in pericolo, che è solo 'riparata' dal mercantile di cui via abbiamo informato. Chi è responsabile ora per questo caso visto che il centro libico non è in grado di rispondere a questo caso di emergenza?”. “Ok, grazie per l'informazione, ciao”, è la risposta che riceve l'equipaggio dell'ong. “Poi Roma ha riattaccato il telefono”, dicono da Sea Watch. Domenica all'alba un mercantile soccorre l'imbarcazione con 47 persone a bordo. A causa delle onde alte durante le operazioni la barca si capovolge: solo 17 i sopravvissuti.
Analisi di un naufragio: solo l'Italia è intervenuta anche se non le toccava. Grecia e Malta non rispondono agli sos. E l'Ue: "Operazioni di competenza libica". Fausto Biloslavo il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.
«Il 12 marzo, dopo diverse ore nell'area di allerta (in attesa della luce del giorno e del miglioramento del tempo), ho ricevuto istruzioni dalla motonave Basilis L di procedere al soccorso dei migranti in pericolo. In prossimità dell'imbarcazione tutte le persone si sono spostate su un lato e la barca si è capovolta» scrive il comandante Denys Rusakov della nave da carico Froland. I suoi marinai sono intervenuti per soccorrere le 57 persone in mezzo al mare naufragate domenica mattina ad oltre 100 miglia da Bengasi. Diciassette migranti illegali del Bangladesh sono stati salvati arrivando ieri a Pozzallo. Per gli altri 30 nulla da fare. Il Giornale è in grado di ricostruire nei dettagli quello che è accaduto fra sabato e domenica mattina ristabilendo la realtà dei fatti deformata dalla narrativa delle Ong e della sinistra che sfrutta i morti per colpire il governo.
Lo scorso fine settimana i trafficanti della Cirenaica hanno utilizzato il solito modus operandi: riempire un barchino in vetroresina con una cinquantina di persone facendole salpare verso l'Italia. «Dopo un centinaio di miglia, quando erano abbastanza lontani dalla Guardia costiera libica, hanno chiamato con un satellitare Alarm phone» racconta il capo del Centro di soccorso della Guardia costiera (Mrcc), Gianluca d'Agostino. Alarm phone è il centralino dei migranti con operatori in mezza Europa, compreso a Palermo, che segnala i barchini facendo fuoco e fiamme per portare i migranti quasi sempre in Italia. «L'area di ricerca e soccorso (Sar) era di competenza libica, ma hanno scritto a tutti comprese Malta e Grecia» spiega l'ufficiale.
Alle 2.29 di sabato mattina si attiva Alarm phone. Malta e Grecia neppure rispondono e il portavoce dell'Unione europea, Peter Stano, conferma che «le operazioni di ricerca e soccorso in acque libiche sono autorizzate solo per le imbarcazioni libiche». L'area Sar è ben più ampia delle acque territoriali di Tripoli, ma non c'erano navi militari europee nelle vicinanze. Alle «05:28 dell'11 marzo viene emesso da MRCC Roma, su richiesta dell'Autorità SAR libica, un messaggio circolare a tutte le navi in transito in zona per informare del barchino» fa notare D'Agostino. La Guardia costiera italiana si mobilitata subito individuando la posizione del natante attraverso il satellitare Thuraya a bordo. La prima nave ad intervenire è la Basilis L e alle 9.39 di sabato l'aereo Sea Bird della Ong tedesca Sea Watch intercetta il barchino.
I libici devono mandare una motovedetta, che non arriverà mai. La nave Basilis è una petroliera e ha difficoltà ad approcciare il barchino, ma riesce a rifornire i migranti di viveri e acqua. E rimane sempre a distanza visiva. Alle 20.37 di sabato il comandante riferisce al centro di soccorso di Roma «che le condizioni meteo marine non erano favorevoli ad effettuare il trasbordo e che non voleva mettere in pericolo il proprio equipaggio». Dall'Italia hanno già preso in pugno la situazione convogliando altri mercantili nell'area. Gran parte della flotta della Guardia costiera è lontana e impegnata in eventi di soccorso. I talebani dell'accoglienza di Sea Watch sostengono che «a Roma sapevano benissimo cosa stesse succedendo». Vero, ma è falso che l'Italia non sia intervenuta lasciando naufragare i migranti. «Stavano arrivando le altre navi, ma calava anche la sera - prosegue D'agostino - Il comandante della Basilis riteneva pericoloso l'intervento al buio, ma dopo l'alba (di domenica nda) i battelli del mercantile Froland hanno cominciato ad avvicinarsi. Tutti i migranti si sono spostati dal lato dei soccorritori facendo capovolgere il barchino». Purtroppo succede spesso nel panico del momento anche con le motovedette attrezzate della Guardia costiera. Trenta persone sono sparite fra le onde e solo 17 vengono messe in salvo. Sea watch ribalta la realtà pur di gettare discredito su Guardia costiera e governo: «La scelta di demandare il soccorso ad assetti inadatti (navi mercantili, come è stato fatto ripetutamente in passato ndr), che, infatti, nel soccorrerlo hanno fatto capovolgere il barchino, è stata una loro scelta. Loro, quindi, la responsabilità». I criminali trafficanti di uomini, che hanno mandato i migranti verso la morte, non vengono mai citati come responsabili. Oltre a quattro mercantili il centro di soccorso di Roma ha indirizzato sul luogo del naufragio un aereo di Frontex per cercare i superstiti. Un veterano del mare non ha dubbi: «È palese che da giorni, compresa quest'ultima vicenda, si sta scatenando una bagarre complottistica intrisa di fake news contro il governo. È tutta propaganda politica».
Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro per “La Verità” il 13 marzo 2023.
Cantare la Canzone di Marinella è un’offesa alle vittime del naufragio di Cutro? La ballata di Fabrizio De André, dedicata a «una giovane che scivolò nel fiume a primavera», racconta la storia di una ragazza assassinata e gettata nel Tanaro o nel Bormida (lo rivelò lo stesso cantautore in un’intervista di trent’anni fa), ma per una sinistra sconfitta, in cerca di una rivincita e soprattutto di argomenti per ottenerla, Marinella è una migrante annegata mentre era in cerca di un futuro migliore.
E dunque le sue strofe non possono essere cantate alla festa privata per i 50 anni di Matteo Salvini […]Pd, Verdi e 5 stelle se la prendono con un’innocua serata privata. […]
Sì, c’è tutta l’ipocrisia e la mistificazione dell’opposizione in questa indignazione a comando per una canzone. Ora a quanto pare, bisogna maneggiare con prudenza anche le strofe, perché la cancel culture fa le pulci persino al karaoke. Immaginate che cosa sarebbe successo se invece dei versi di De André l’altra sera fosse stata intonata Come è profondo il mare di Lucio Dalla, che mette in musica annegamenti, pesci che stanno a guardare e morti.
E se addirittura i tre «tenori» si fossero spinti a intonare Onda su onda, incisa da Bruno Lauzi e Paolo Conte, in cui si fa riferimento a un tizio caduto dalla nave, all’acqua gelida e al naufragio che dà la felicità? […] c’è una lunga lista di brani che parlano di mare, naufragi, libertà, Mediterraneo, ma solo politici con una mentalità deformata e disperata potrebbero scorgervi un qualche nesso con la tragedia di Cutro.
[…] Per salvare i migranti dai naufragi non serve un’Italia listata a lutto in discoteca o alle feste private, ma sono necessarie misure che fermino i trafficanti e impediscano che la vita dei profughi sia messa a rischio. Punto. Tutto il resto rappresenta il funerale della ragione, di una sinistra che vuole mettere in penitenza il Paese condannandolo alle litanie cimiteriali.
Da rockol.it il 13 marzo 2023.
Stefano Cappellini su "Repubblica" commenta il fatto che alla festa di compleanno di Matteo Salvini gli invitati hanno cantato "La canzone di Marinella", e s'indigna scrivendo: "Il karaoke con la canzone sull’annegata no, c’è un limite, è una trovata veramente di bassa lega".
Come sapete Rockol non entra mai nel merito di questioni politiche e annesse, quindi non lo facciamo nemmeno questa volta. Però se si parla di canzoni, quella è materia nostra: e allora ci tocca ricordare, come ha puntualmente scritto qui Federico Pistone, che Maria Boccuzzi, la prostituta adolescente di origine calabrese a cui De André si ispirò per comporre "La canzone di Marinella", non morì annegata: nel 1953 venne uccisa con un colpo di pistola e gettata nel fiume Olona.
"Scivolò nel fiume" sì, come canta De André; ma era già morta.
Come si diceva una volta, "per amor di precisione": nient'altro.
Da nicolaporro.it il 13 marzo 2023.
Come saprete, in occasione dei cinquant’anni anni di Salvini, venerdì c’è stata una festa a sorpresa a cui sono stato anche io. E apriti cielo per quel video in cui Salvini e Meloni cantano insieme. Insomma, guai a pensare che Salvini possa festeggiare i suoi cinquant’anni insieme a Meloni e Berlusconi! Perché questo è avvenuto: non hanno fatto di certo i trenini o sono andati al Piper.
Perché ho pubblicato il video del karaoke di Salvini e Meloni? Come ho spiegato questa mattina, l’ho fatto, evidentemente dopo aver chiesto il permesso, per far vedere come tutte le cazzate che scrivevano i giornali in quei giorni, riguardo dei presunti malumori interni al governo, fossero totalmente inventate. È proprio per questo che oggi gli rode! In un mondo normale, un ministro ha tutto il diritto di festeggiare il suo compleanno con una festa più che sobria. Invece oggi non mancano le critiche dei soliti intellettuali. Addirittura Stefano Cappellini titola “Il karaoke della vergogna”.
Ma vi rendete conto che cazzo dicono questi? Ricapitolando, prima si è fatto intendere che il governo fosse responsabile della strage di Cutro e che la Meloni non fosse tornata in tempo dalle sue visite ufficiali. Successivamente, in occasione del Consiglio dei Ministri fatto a Cutro, il governo è stato incolpato di non aver fatto abbastanza nei confronti dei parenti delle vittime. Infine, se il Ministro dei trasporti si permette di festeggiare il suo compleanno in occasione dei suoi cinquant’anni, un’innocua festa è ai loro occhi uno scandalo e diventa “il karaoke della vergogna“. Che ipocriti!
"Lo prendo a calci nel c...". Porro all'attacco di Polito sul karaoke Salvini-Meloni. Il vicedirettore del Giornale risponde alle critiche per aver pubblicato il video del karaoke di Salvini e Meloni. Bartolo Dall'Orto il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.
"Mi hanno rotto i coglioni per tutta l'infanzia a farmi lezioncine", "lezioni di giornalismo da un comunista proprio no", "la parola moderato è una stronzata", "io Polito lo prendo a calci nel culo". È un Nicola Porro a ruota libera quello che, questo pomeriggio, si collega a Giornale Radio con Luca Telese e Giuliano Guida Bardi. Ne ha per tutti: per i colleghi transitati per il Parlamento che vorrebbero insegnargli a fare il mestiere, per chi lo critica per il video del karaoke di Salvini e Meloni e in particolar modo proprio per l'editorialista del Corriere, il "comunista" di cui sopra.
Il karaoke Salvini-Meloni
Breve antefatto, per capire. Venerdì scorso, il giorno dopo il Consiglio dei ministri a Cutro, Salvini, Meloni e Berlusconi si ritrovano in Monza-Brianza ad una festa a sorpresa in occasione dei 50 anni del segretario della Lega. Un contesto privato, da cui gli uffici stampa fanno trapelare una foto dei tre leader insieme al tavolo. E che però si colora di un dettaglio: il vicedirettore del Giornale pubblica tre minuti di video con il premier e il vicepremier che intonano la "Canzone di Marinella" al karaoke. Apriti cielo. Ne nasce una polemica sul governo ("Il karaoke della vergogna", scrive Repubblica) ma anche su Porro e sulla scelta di condividere quel filmato.
Il conduttore di Quarta Repubblica la sua versione dei fatti l'ha già fornita. Sintetizziamo: ho visto quel duetto, mi sembrava smentire le ricorrenti voci di continue liti tra leader di governo, era una notizia e l'ho pubblicata. Amen. Mossa che non è piaciuta a Antonio Polito, che su Twitter ironicamente la definisce "un colpo da maestro, da grande comunicatore", il cui non detto sembra chiaro: Porro ha fatto da megafono, non da cronista. Da qui, in diretta a L'attimo fuggente, la dura replica del diretto interessato.
Porro attacca Polito
"Polito da ragazzino era iscritto al Partito comunista leninista - attacca il conduttore -. Poi fu cacciato perché era iscritto a un circolo di tennis. Allora andò nel Partito comunista, poi si candida con il Partito populista, poi diventa direttore dell’Unità, poi fa il giornalista, poi ritorna a fare il senatore dell'Ulivo, e oggi dice a me: 'Porro, ma che cazzo hai fatto? Che comunicazione hai fatto?'. Ecco la differenza tra Polito, e i tanti Polito che ci sono nel mondo del giornalismo, e il sottoscritto è che loro sono dei politici che per guadagnare due lire devono fare i giornalisti; io sono un giornalista che non farà mai il politico. Quindi io penso che la notizia sia una cosa fondamentale del nostro mestiere. Non so se è chiaro questo". Il vicedirettore non si ferma qui: assicura di non serbare rancore, però "io a Polito lo prendo a calci nel culo". "Ho 50 anni, mi hanno rotto i coglioni per tutta l'infanzia a farmi lezioncine, ma lezioncine da un comunista che mi deve spiegare come fare il giornalista, francamente a 50 anni non ne prendo! Se vuole giochiamo a tennis insieme, e gli faccio il culo anche a tennis".
"Avrei pubblicato comunque quel video"
La replica di Polito non si è fatta attendere. "Adesso è chiaro perché Porro, invitato alla festa privata di Salvini, ha fatto il video del karaoke: era giornalismo. Non cane da compagnia, ma cane da guardia del potere". Va detto che alcune critiche sono arrivate anche da esponenti del centrodestra, perché il filmato avrebbe danneggiato il governo, ma Porro non fa passi indietro. Sintesi: "Ma che cazzo me ne frega a me di danneggiare il centrodestra?". Una cosa è certa: benché prima di pubblicare il video il conduttore di Quarta Repubblica lo abbia comunicato per cortesia a uno dei due leader, se non gli avessero dato il permesso le cose non sarebbero andate diversamente: "Sarò anche stato un po’ democristiano a chiederlo - conclude Porro - ma l'avrei pubblicato anche se mi avessero chiesto di non farlo". Bartolo Dall'Orto
Questa del telefonino è la storia vera. Porro restituisce le voci di Salvini e Meloni (e altre incapacità di capire il mondo) Guia Soncini su Linkiesta il 13 marzo 2023.
La domanda è quando abbiano scollegato il cervello tutti quelli che, in presenza di smartphone che li inquadrano, si comportano come se fossero nella cucina di casa Corleone potendo contare sull’omertà dei familiari
La prima volta era il settembre del 2001, e ancora non avevamo tutti un telefono con dentro la telecamera. Però nella scuola in cui George W. Bush stava leggendo le fiabe ai bambini c’era ovviamente una troupe, e quindi per tutta la vita poi il poverino è stato quello: il presidente inadeguato che fa la faccia da coglione che non capisce quando gli dicono dobbiamo andare, si è schiantato un aereo sul World Trade Center.
Non sapevamo che presto tutti saremmo stati W., perché i telefoni con la telecamera non li abbiamo – per usare l’espressione che accomuna Schlein e Meloni – visti arrivare. Una settimana dopo l’interruzione nella lettura di fiabe, il 18 settembre, la Bbc riferiva di questo nuovo giochino giapponese, mah, i telefoni con la telecamera, cosa ce ne dovremmo fare, e il pubblico aveva l’aria di chi non si fa fregare – vogliono solo farci pagare di più i telefoni – mica quella di chi si prepara a un cambiamento epocale.
Da allora abbiamo avuto tante di quelle immagini di momenti cui normalmente non avremmo assistito – un fenomeno che i fessi chiamano «trasparenza» e quelli con un paio di neuroni «inferno» – che non ci fa certo impressione Nicola Porro.
Lo so, lo so: voialtri pensate che i protagonisti della polemicuzza del weekend – quella sul video di Giorgia Meloni e Matteo Salvini che cantano “La canzone di Marinella” – siano Salvini e la Meloni che, ohibò, osano cantare mentre, come dicono i frasifattisti, «il mare restituisce i corpi», e appropriarsi di De André, «che cantava gli ultimi» (che invidia per chi non s’imbarazza a usare certe espressioni, dev’essere riposantissimo non aver alcun gusto per le parole, alcun senso del ridicolo, alcun raccapriccio per i ricatti emotivi).
E invece ciò su cui dovremmo concentrarci, se fossimo capaci di osservare la realtà con meno automatismi rispetto ai cani di Pavlov, è il ruolo di Nicola Porro. Quando mi hanno detto che il video l’aveva instagrammato lui, ho pensato: ah, vedi, la Schlein gli ha fatto un contratto di consulenza e lui ha subito messo a segno un punto, brava lei, bella intuizione.
Deve aver postato quel video come tentativo di demolizione della presentabilità di Meloni e Salvini, Porro, no? A meno che non abbia voluto invece dimostrarci contiguità ai famosi, proprio come quelli che vogliono l’autoscatto con la vedova al funerale del morto del giorno: guardate, io a quel compleanno c’ero, ho fatto persino il filmino.
I dubbi sulle ragioni della diffusione li ho avuti finché non sono andata sull’Instagram di Porro, dove c’era il pezzo mancante. I piccoli polemisti dell’internet – la categoria più incapace nelle polemiche e la più efficace nel mancare sempre il punto – avevano sì freneticamente diffuso il video invocando scandalo per l’aver osato Salvini festeggiare il proprio compleanno mentre-il-mare-restituisce-i-corpi, invece di mettere in pausa la propria vita come avremmo fatto noi, persone perbene; ma non avevano reso nota la didascalia.
La didascalia sulla pagina Instagram di Porro è di sei secondo lui esaustive parole: «A proposito di crisi di governo». Quindi Nicola Porro – giornalista cinquantatreenne, non militante sedicenne – ritiene che quel video servirà a zittire chi parli di disaccordi politici tra i due: squarciagolano insieme «e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose», chi mai può pensare che il governo non sia saldo?
Nel Paese in cui di fronte all’infame che sorride noialtre persone perbene vibriamo «Franti, tu uccidi tua madre», Porro non sa preconizzare che le immagini d’un compleanno spensierato serviranno ai social a trascorrere lietamente il sabato dicendo che schifo, che orrore, che disumanità, che insensibilità, il mare restituisce i corpi, De André cantava gli ultimi.
La domanda, ovviamente, non è solo quando Porro abbia smesso di capire il mondo, ma anche – soprattutto – quando abbiano smesso di capirlo Salvini, Meloni, tutti quelli che, in presenza di telefoni che li inquadrano, si comportano come se fossero nella cucina di casa Corleone a imparare come si fa il sugo potendo contare sull’omertà dei familiari.
Tempo fa m’hanno raccontato d’una conduttrice televisiva che, quando in riunione c’è una certa collaboratrice del programma, non dice niente, essendo convinta che costei la registri per sputtanarla. Me l’hanno raccontato per dirmi che la conduttrice è paranoica, ma io penso che sia saggia. Non solo perché conosco la collaboratrice e la so capacissima di fare una roba del genere, ma perché se condividessi uno spazio lavorativo con qualcuno non direi una parola prima d’essermi accertata che i telefoni fossero stati lasciati fuori dalla stanza in cui ci troviamo.
E invece nessuno impara, tutti si comportano come se i telefoni non li riprendessero, i social non li diffondessero, e le loro serate di svago potessero restare riservate. Curva d’apprendimento piattissima, ma mica rispetto al Bush del 2001: rispetto allo stesso Salvini di un anno fa, quando andò con Berlusconi nella pizzeria di Briatore e ovviamente i presenti pubblicarono i video e ovviamente tutti accorsero a polemizzare, e all’epoca non era il-mare-restituisce-i-corpi ma non-ci-pensi-all’Ucraina, ma insomma sempre quelli sono i tic, e sempre egualmente fessi quelli che li alimentano.
L’unica possibilità che in questo scontro di automatismi sciatti, esibizionismi sconsiderati, frasifattismi, tentativi di posizionarsi, l’unica possibilità che in mezzo a questo spettacolo d’arte varia ci sia qualcuno che ancora capisce qualcosa è che Salvini e Meloni di quel video abbiano voluto la diffusione. Per parlare a quel pubblico che ritiene i morti siano un sacrificio necessario a metter fine alla gigantesca rottura di coglioni che sono le migrazioni (non aver del tutto smesso di capire il mondo significa anche sapere già che questa è la frase che verrà sintetizzata in «Soncini ha scritto che le migrazioni sono una gigantesca rottura di coglioni»: se oggigiorno non sei preparata alla non comprensione di testi e toni, alle distorsioni e alle decontestualizzazioni e alle polemiche pretestuose, è meglio tu ti esprima solo a mezzo «il mare restituisce i corpi» e «De André cantava gli ultimi»).
Non capire il mondo significa rifiutarsi di credere che quel pubblico esista, che esistano priorità diverse.
Sabato Francesca Mannocchi ha scritto un tweet in cui interpellava il sindaco di Roma: è normale che nel metrò la voce che indica le fermate abbia appena detto «attenti agli zingari»?, chiedeva. Si sono precipitati – Gualtieri, e l’azienda dei trasporti romana – a rassicurarla, a indignarsi, ad annunciare provvedimenti disciplinari.
Tra le risposte e i retweet, il prevedibile affollamento di cittadini che notano che è la prima volta che i trasporti romani mostrano efficienza in qualcosa, e quel qualcosa non è la puntualità dei mezzi, o la restituzione del maltolto a qualche passeggero derubato. Hanno torto i romani intervenuti, a pensare che la stigmatizzazione dei borseggi a mezzo profilazione razziale non sia la cosa più grave che l’Atac abbia mai fatto? O ha torto Gualtieri, a non prevedere che la pronta indignazione per la lesa correttezza politica verrà accolta con abbondanti pernacchie?
Forse, banalmente, ognuno capisce solo il proprio pezzettino di pubblico.
Gli uni parlano a quell’elettorato che ritiene accettabile che gli autobus vadano a fuoco, purché si viva in una società sufficientemente civile da non controllare subito se il portafoglio è ancora al suo posto non appena s’intravede qualcuno che gli altri (non noi, va da sé) ritengono sia appartenente a un’etnia di ladri.
Gli altri parlano a quell’elettorato che ritiene accettabile che i forestieri poveri ogni tanto muoiano a decine, purché non m’interrompano mentre sono seduto al ristorante chiedendomi la carità, purché a me arrivino solo come testi di canzonette, il consumo più trasversale e meno ideologico che c’è.
I due gruppi non hanno niente in comune, tranne i telefoni con la telecamera ormai bene primario e, appunto, le canzonette: il luogo in cui il sentimentalismo viene relegato da coloro che hanno fischi pavloviani diversi da «il mare restituisce i corpi».
Ogni tanto arrivano le elezioni, e ognuno conta i suoi. Di solito vincono quelli che non fanno un plissé per «zingari»; ma, anche quando vincono i buoni e giusti, non mi pare che per i disperati del mondo nelle loro legislature vada assai meglio che nelle canzoni di De André.
Dal "buon selvaggio" all'"inumano", la nuova parola magica della sinistra. "Inumano" è l'aggettivo più usato dalla sinistra. L'ha usato Elly Schlein per definire il "governo inumano di Cutro", ma in generale non c'è giorno che qualcuno di destra non venga definito inumano. Massimiliano Parente il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.
«Inumano» è l'aggettivo più usato dalla sinistra. L'ha usato Elly Schlein per definire il «governo inumano di Cutro», ma in generale non c'è giorno che qualcuno di destra non venga definito inumano. Matteo Salvini, per Saviano, è «inumano». Se ne deduce che a sinistra sono tutti umani, nell'accezione fantozziana di «com'è umano lei». Perdonatemi ma, essendo io un'autorità nel settore, autore tra i miei romanzi della Trilogia dell'inumano, volume di millesettecento pagine edito (e riedito, in questo mese è uscita la quarta ristampa in sei anni, senza contare le edizioni precedenti) da La Nave di Teseo che da quindici anni viene studiato nelle università, a voi di sinistra vi consiglierei di cambiare aggettivo (in realtà dovreste cambiare tutto, e preciso: non sono né di destra né di sinistra, non voto più).
Inumano, detto così, per significare cattivo, contrapposto ai buoni, non significa niente. Gli animalisti dovrebbero protestare (se non fossero antropocentrici anche loro). Biologicamente siamo tutti primati, e no, non discendiamo dalle scimmie come chi interpreta male Darwin, siamo scimmie (per l'esattezza grandi scimmie antropomorfe, che sono cinque, lo ricordo sempre: orango, scimpanzé, gorilla, bonobo e uomo, cioè noi).
Inumano, contrapposto a umano in senso buono, è un controsenso, perché tra i primati, in generale, siamo anche i più violenti. Putin invade l'Ucraina? È umano. Come era umano Hitler quando inventò i campi di concentramento, o Stalin i gulag, o gli islamici la lapidazione di femmine e omosessuali. In natura, tra le specie non umane, non succede. Non si è mai visto un campo di concentramento di castori per sterminare altri castori, ma neppure guerre tra i nostri cugini scimpanzé per affermare una propria divinità rispetto a un'altra, e sterminarsi tra di loro.
L'uso della parola «inumano» in senso buonista è un'eredità del mito del buon selvaggio, che in quanto mito si è rivelato falso, perché il selvaggio, essendo umano rispetto alle altre specie, è in genere propenso a ogni tipo di crudeltà umana insensata. Quindi mi fa ridere che a destra, secondo la sinistra, ci siano gli inumani, e a sinistra ci siano gli umani.
L'intera storia dell'umanità è fatta di conflitti, e nel decidere da che parte stare. Erano umani i nazisti, erano umani gli alleati. Sono umani i profughi che scappano dai loro aguzzini, come sono umani gli stessi aguzzini. È l'essere umano in generale che spesso fa schifo, tranne una piccola minoranza che ha migliorato la società in Occidente, facendoci entrare in una nuova era, dall'Illuminismo alla rivoluzione industriale a quella scientifica allo smartphone che avete in mano e che userete per insultarmi su Twitter.
Ma tornando agli immigrati, ai barconi, agli scafisti, credo che le opinioni in merito siano tutte umane, quindi non sono tutte intelligenti. Quelle più intelligenti sono complicate. La sinistra si sente umana nel volerli accogliere tutti, come del resto il Vaticano, impresa impossibile, perché non si può portare tutta l'Africa in Italia o in Europa. La regolamentazione è qualcosa di cui discutere per trovare soluzioni. Possibilmente inumane, ovvero complesse. Gli altri animali preservano il loro territorio, come abbiamo sempre fatto noi umani per duecentomila anni, prendendo i Neanderthal a clavate, altrimenti si fanno i cavoli loro. Noi umani inumani moderni invece cerchiamo di essere razionali, e la razionalità è complessa, e a volte scomoda. Di certo, per esempio, armare chi è aggredito da un dittatore che si comporta da umano è inumanità giusta, razionale, mentre sventolare bandiere arcobaleno pensando che la pace arrivi da sola è umanità cretina.
La sinistra si indigna per il karaoke. Ma scorda le sue risate. Schlein e Conte sorridenti in piazza: non serviva più compostezza? La lezione del sindaco di Cutro. Francesco Maria Del Vigo il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.
Alla fine ci ha pensato il sindaco di Cutro a rimettere le cose nel loro ordine naturale, a stoppare gli sciacalli che non fermano i loro calcoli elettorali nemmeno di fronte alle tragedie, che mischiano morti e karaoke senza soluzione di continuità e con sprezzo del ridicolo. Dopo due giorni di delirio, in cui il dibattito pubblico si è avvitato attorno al cinquantesimo compleanno di Matteo Salvini, Antonio Ceraso, primo cittadino del piccolo comune calabrese, risponde così a chi gli chiede dell'ormai celeberrimo video in cui il ministro dei Trasporti e la premier intonano una canzone di De Andrè: «Non mi sono sentito offeso. Vado oltre, altrimenti perdiamo tempo. Questo problema deve essere attenzionato a livello europeo, vivo sulla mia pelle pensando ai miei concittadini». Parole semplici e definitive. Basta perdere tempo, inseguendo la polemica e dimenticando l'emergenza. Basta perdere tempo.
Eppure, a giudicare dalla mole di commenti, articolesse col ditino alzato, sfrucugliamenti nelle vite private altrui ma mai nelle proprie e dichiarazioni cariche di giudizi morali pelosi e ipocriti, di tempo da perdere ce n'era. E pure tanto.
La vita privata di un politico, anche nei momenti difficili e tragici, non può prescindere da spazi e momenti privati nei quali si può anche festeggiare (addirittura!) un compleanno. Il moralismo stucchevole di una certa sinistra è l'ultimo lascito di una visione illiberale del mondo, che vorrebbe allungare una cappa plumbea di tristezza sovietica sulle vite di tutti, ma preferibilmente su quelle degli altri. Specialmente se sono di destra. D'altronde sono gli stessi che durante il lockdown pretendevano di mandare gli ispettori nelle dimore degli italiani, per verificare se fossero attovagliati con congiunti o semplici conoscenti.
Nell'altro campo, per fortuna, nessuno si è mai sognato di questionare sul fatto che Pd-M5s e Cgil non dovevano andare in piazza a manifestare gioiosamente contro un fascismo inesistente e a cantare Bella Ciao, a pochi giorni da una strage di migranti drammaticamente reale. Le foto e i video ritraggono Schlein e Conte felici, abbracciati e sorridenti in posa di fronte ai fotografi, come è giusto e legittimo che sia. Certo, sarebbe stato più ragionevole fare un corteo contro i trafficanti di uomini o organizzare un compito sit-in. Ma sono scelte personali, seppur di soggetti pubblici e le difenderemo sempre. Di intrusioni politiche e morali nella case, nelle vite, negli affari e sotto le lenzuola ne abbiamo viste troppe negli ultimi trent'anni, ma non abbastanza da impedirci di esserne ancora disgustati. Specialmente se sono fatte con il bilancino del doppiopesismo. Perché se la premier socialdemocratica finlandese Sanna Marin balla scatenata a un party privato (in mezzo al conflitto ucraino), per la sinistra, è un esempio brillante dell'emancipazione femminile e della capacità di saper interpretare in modo moderno il proprio ruolo politico, se Salvini e la Meloni intonano La canzone di Marinella invece è uno scandalo epocale. Una festa diventa subito un argomento di dibattito buono per sfoderare, con grandissimo compiacimento, il proprio arsenale di pubbliche indignazioni. Se queste sono le nuove armi del Partito Democratico targato Elly Schlein, puzzano già di vecchio. Ma, soprattutto, sono spuntate.
I migranti ce li manda la Russia. Crosetto accusa la Wagner: “Guerra ibrida”. Pietro De Leo su Il Tempo il 14 marzo 2023
C’è una leva geopolitica a muovere l’enorme afflusso di migranti verso l’Italia. Rischi tangibili circa il movimento indotto di masse umane verso l’Europa come elemento destabilizzante erano già stato prefigurati all’inizio dell’invasione in Ucraina. La Russia, infatti, è uno dei «nuovi attori» egemonici nel continente africano, che divide il primato del protagonismo con la Cina. La Wagner, società privata paramilitare russa guidata da un imprenditore tra i più vicini a Putin, Evgenij Prigozhin, oltre ad essere attiva nell’Ucraina Orientale ha avuto un ruolo anche nei rivolgimenti politici nella fascia del Sahel. E dunque, di fronte a nuovi, drammatici numeri sugli arrivi in Italia (dal primo gennaio alla giornata di ieri, dati del Viminale, è stata toccata quota 20.017, oltre tre volte gli arrivi dello scorso anno, 6.152 nel periodo omologo). Di un collegamento tra gli sbarchi e l’eventualità di una iniziativa russa per propiziarli si parla esplicitamente anche nel governo al termine della riunione a Palazzo Chigi tra il premier Meloni, i vertici dell’Intelligence e i ministri Crosetto, Piantedosi, Tajani e Salvini, questi ultimi due in videocollegamento. Il ministro degli Esteri sottolinea che «molti migranti arrivano da aree controllate dal gruppo Wagner. Non vorrei ci fosse un tentativo di spingerli verso l’Italia». Posizione analoga esprime il titolare della Difesa Guido Crosetto: «Mi sembra che oramai si possa affermare che l’aumento esponenziale del fenomeno migratorio, che parte dalle coste africane sia anche, in misura non indifferente, parte di una strategia chiara di guerra ibrida che la divisione Wagner, mercenari al soldo della Russia, sta attuando, utilizzando il suo peso rilevante in alcuni Paesi africani».
E sposta, Crosetto, l’attenzione su Alleanza Atlantica e Ue: «Ue, Nato e Occidente sarebbe opportuno capissero che anche il fronte sud europeo sta diventando ogni giorno più pericoloso. Dovrebbero prendere atto che l’immigrazione incontrollata e continua, sommata alla crisi economica e sociale, diventa un modo per colpire i Paesi più esposti, in primis l’Italia, e le loro scelte geostrategiche, chiare e nette». Yevgeny Prigozhin, capo della Wagner, risponde con un audio su Telegram: «Non abbiamo idea di cosa stia accadendo in merito alla crisi dei migranti, ma noi non ce ne occupiamo», ha detto Prigozhin, utilizzando poi per l’esponente del governo italiano il termine russo «Mudak», un pesante insulto. La disperazione come arma. Espediente cinico già visto, purtroppo. Dalla Turchia di Erdogan alla Bielorussia di Lukashenko fino alla Cirenaica di Haftar. Alzare il prezzo con moneta umana.
Che l’Africa sia al centro di tutto questo lo ha confermato anche il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «In questi giorni siamo stati accusati di cose raccapriccianti, ma la mia coscienza è a posto. Forse sarebbe più facile mettere la testa sotto la sabbia - ha detto presentando il libro di Padre Antonio Spadaro - lasciare che siano dei mafiosi a decidere chi deve arrivare da noi, lasciare che arrivi da noi solo chi ha soldi per pagare quei mafiosi, lasciare che in Africa continuino a prendere piede i mercenari della Wagner e i fondamentalisti». Alla riunione di ieri a Palazzo Chigi si è parlato anche di un coordinamento maggiore per la sorveglianza marittima per individuare i barconi che trasportano i migranti in acque extraterritoriali. Coinvolgendo, dunque, la Marina Militare.
Guerra Ucraina, Yevgeny Prigozhin insulta Crosetto: non ci occupiamo di migranti. Il Tempo il 13 marzo 2023
Botta e risposta tra Guido Crosetto e Yevgeny Prigozhin. I migranti scatenano il putiferio tra il governo italiano e la Brigata Wagner. Il nostro ministro della Difesa ha accusato i mercenari russi di favorire le migrazioni dalle zone controllate verso l'Italia. Accuse che sono state rispedite al mittente da Yevgeny Prigozhin in malo modo. Con tanto di insulti. Il capo del gruppo Wagner ha risposto con un audio su Telegram al ministro Crosetto che aveva parlato dell’aumento del fenomeno migratorio dalle coste africane come parte di una «strategia di guerra ibrida» messa in atto dalla stessa Wagner, presente in vari Paesi dell’Africa. «Non abbiamo idea di cosa stia accadendo in merito alla crisi dei migranti, ma noi non ce ne occupiamo», ha detto Prigozhin, utilizzando poi per l’esponente del governo italiano il termine russo "Mudak", un pesante insulto.
Ma qual è la situazione delle migrazioni dal nord Africa verso l'Europa? Libia, Sudan, Mozambico, Repubblica centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Mali: sono tutti i Paesi dove si è fatta più forte ed estesa la presenza dei mercenari del gruppo Wagner, che il Cremlino usa «per eliminare l’influenza occidentale dal continente africano». E «per raggiungere i suoi obiettivi senza fare grandi investimenti, continuando a negare la sua presenza», spiega all’Adnkronos Brian Jenkins, esperto del think tank americano Rand Corporation. Nella Repubblica centrafricana, ricca di depositi di oro e diamanti, si contano poco meno di duemila mercenari russi, schierati con il governo nella guerra civile in corso. In Libia si parla di 1-2mila miliziani, schierati a sostegno dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar. Il loro numero che si è ridotto negli ultimi mesi dopo che Mosca ha richiamato buona parte dei mercenari per ridispiegarli in Ucraina. In Mali, dove la giunta ha costretto i francesi a lasciare il Paese, si conterebbero centinaia di combattenti del gruppo fondato da Eveghny Prigozhin, oligarca vicino a Vladimir Putin. In Sudan, Wagner si è assicurato il business delle concessioni delle miniere di diamanti, in Mozambico, un mese prima del dispiegamento dei miliziani nel settembre del 2019, la Russia ha firmato accordo sulle risorse minerarie, l’energia e la difesa. Il gruppo è arrivato fino in Burkina Faso, dove, secondo le accuse del presidente del Ghana Nana Akufo-Addo, «una miniera sarebbe stata concessa al gruppo come forma di pagamento per i loro servizi». Nella Repubblica democratica del Congo, nella crisi tra Kinshasa e il gruppo filoruandese M23 i mercenari russi sarebbero schierati con l’esercito congolese, che ha invece negato la loro presenza.
L'Italia ha speso quasi cento milioni per la Guardia costiera libica, ma i migranti continuano a morire. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 14 marzo 2023
Mentre cresce il numero di donne, uomini e bambini che perdono la vita nel Mediterraneo, nessuno ha ricordato quanti soldi l’Italia ha investito sulla Guardia costiera libica.
Il primo patto risale al 2007. Allora il ministro dell’Interno era Giuliano Amato. Da allora tutti i governi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, i due di Conte e Draghi hanno continuato a consegnare motovedette e investire nell’addestramento delle forze libiche. Intanto continuano a morire i migranti nel Mediterraneo.
L’Italia allarga le frontiere degli accordi con i paesi che violano i diritti umani: oggi i ministri Antonio Tajani e Anna Maria Bernini, in Egitto, hanno incassato l’appoggio di Al Sisi nel contrasto alle migrazioni irregolari.
Mentre cresce il numero di donne, uomini e bambini che perdono la vita nel Mediterraneo, nessuno ha ricordato quanti soldi l’Italia ha investito sulla Guardia costiera libica. Non lo ha fatto nemmeno il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi durante la sua relazione in parlamento. Eppure quei fondi, che sono riportati nero su bianco nelle leggi dello stato italiano, avevano l’intento dichiarato di frenare le morti in mare. Sono stati spesi quasi cento milioni di euro e, nel corso degli anni, cedute svariate motovedette con cerimonie partecipate dai ministri.
Il primo patto risale al 2007. Allora il ministro dell’Interno era Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio che sarebbe poi diventato presidente della Corte costituzionale e sarebbe entrato a più riprese nella rosa dei possibili presidenti della Repubblica.
Amato era nella squadra di centrosinistra guidata da Romano Prodi, ma la terminologia utilizzata è paragonabile a quella dell’attuale governo Meloni, il più a destra della storia repubblicana. La notizia si ritrova negli archivi del ministero dell’Interno: «L’accordo prevede l’organizzazione di pattugliamenti marittimi congiunti davanti alle coste libiche».
In questo modo, ha detto Amato durante la firma dell’accordo a Tripoli, «sarà possibile contrastare efficacemente la partenza dei natanti e bloccare il tragico traffico degli esseri umani». L’Italia si è votata così ai «controlli sull’immigrazione clandestina» e all’«azzeramento» dell’«afflusso dei clandestini» dalla rotta libica. Il viceministro di Amato era Marco Minniti.
SOLDI E MOTOVEDETTE
Nel «protocollo di cooperazione» del 2007, il governo si è impegnato a cedere tre guardacoste classe Bigliani e tre vedette classe V5000. Inoltre, il decreto legge del 31 gennaio del 2008 ha stanziato per la prima volta più di 6 milioni e 200mila euro per la partecipazione della guardia di Finanza alla missione in Libia.
L’accordo è piaciuto al centrodestra, che dopo aver vinto le elezioni ha cominciato a metterlo concretamente in atto. Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e ministro dell’Interno il leghista Roberto Maroni.
Nel 2009 è partito il trasferimento dei mezzi, con la consegna ufficiale a Gaeta, in provincia di Latina. «Oggi – ha detto il Maroni in quell’occasione – è una giornata importante ed è un’ulteriore tappa della svolta iniziata nella lotta all’immigrazione clandestina».
GOVERNI E MISSIONI
Le proroghe, a suon di milioni, da allora non sono quasi mai mancate. Per l’anno 2009 ce ne sono due: prima con decreto del dicembre 2008, per 4 milioni e 822mila euro. Poi 1 milione e 246mila euro con un decreto di novembre del 2009. A gennaio 2010 si riparte: 8 milioni e 220mila euro per «garantire la manutenzione ordinaria e l’efficienza delle unità navali». Nel 2010 c’è un breve stop contestuale alle modifiche del Codice dell’ordinamento militare, ma non è chiaro se nel frattempo i fondi siano già stati spesi tutti o no.
Il governo di Mario Monti nel 2011 si limita a rifinanziare il personale militare, e d’altronde il patto era stato siglato con la “Grande giamahiria araba libica”, ma il dittatore Muhammar Gheddafi era morto a ottobre. In Italia era il periodo della manovra «lacrime e sangue», ma lo stesso Monti ricorda ancora oggi di essere stato il primo presidente a recarsi nel paese africano dopo la morte di Gheddafi e di «aver ripreso alcuni aspetti» delle politiche precedenti.
Il decreto del dicembre del 2012 stanzia altri 4 milioni e 600mila euro, in questo caso per lo «svolgimento di attività addestrativa della Guardia costiera libica». Il 28 aprile 2013 diventa presidente del Consiglio Enrico Letta, con ministro dell’Interno Angelino Alfano, ex berlusconiano e leader del Nuovo centro destra. Il 3 ottobre muoiono sulle coste della Sicilia 368 naufraghi: partivano dalla Libia.
Nasce allora l’operazione europea che ancora oggi viene ricordata come la più efficace: l’operazione militare e umanitaria Mare nostrum, partita il 18 ottobre di quell’anno. L’Italia non interrompe però i finanziamenti alla Guardia costiera, stanziando 2 milioni e 895mila euro il 10 ottobre. Nel 2014, il nuovo presidente del Consiglio è Matteo Renzi, che attraverso altri due atti stanzia più di 5 milioni e 227mila euro. Il ministro dell’Interno è ancora Angelino Alfano, mentre quello degli Esteri è Paolo Gentiloni.
IL CRITICO 2015
L’Italia rinnova il finanziamento anche nel 2015, a pochi mesi dallo scoppio della guerra civile in Libia. Di fronte all’instabilità a Tripoli, il parlamento decide però di far saltare la proroga alla missione della Guardia di finanza, che era stata rifinanziata con altri 4 milioni e 360mila euro.
Lo stop dura poco. Intanto cambiano le regole di approvazione della spesa per le missioni: nel 2016 si passa dal decreto emendabile a una nuova legge quadro. Anche se il parlamento deve comunque essere informato, il governo si muove con deliberazioni sui il parlamento è chiamato solo ad esprimersi con delle risoluzioni.
È in questo momento che arriva il memorandum Italia-Libia. La firma è del febbraio 2017 e porta il nome dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, con Gentiloni presidente del Consiglio. Ha durata triennale, con rinnovo automatico.
Da tempo invece è in atto la criminalizzazione delle Ong, ma nell’opinione pubblica comincia a diffondersi una consapevolezza opposta: che sia sbagliato prendersela con chi è realmente impegnato nei soccorsi verso le nostre sponde, mentre in Libia i migranti continuano a essere riportati nei lager.
Le associazioni umanitarie iniziano a pubblicare report che tengono il conto dei soldi spesi: dal 2017 al 2022 vengono stanziati altri 44,44 milioni. Nel solo 2022 si è messa a budget una spesa di 11 milioni di euro. L’Italia ha continuato a cedere inoltre unità navali, una ventina in totale, dieci solo nel 2018.
Mentre cambiano i governi, i soldi per la Libia restano. Tra i primi viaggi all’estero, Meloni ha scelto proprio Tripoli: «Ho firmato un memorandum d’intesa tra il governo italiano e quello libico per la consegna di cinque vedette finanziate dall’Unione europea. Rafforziamo la cooperazione con la Libia, anche per contrastare i flussi d’immigrazione irregolare». Lo ha detto il 28 gennaio. Il 12 marzo sono morte altre 30 persone che cercavano di superare la rotta libica. Nel frattempo l’Italia allarga le frontiere degli accordi con i paesi che violano i diritti umani: i ministri Antonio Tajani e Anna Maria Bernini, in Egitto, hanno incassato l’appoggio di Al Sisi nel contrasto alle migrazioni irregolari.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Guardia costiera sotto schiaffo. La gloriosa nave Gregoretti mentre muoiono i profughi, sequestra pesci spada e tonni…Angela Nocioni su Il Riformista il 14 Marzo 2023
Qualcosa deve esser successo se la gloriosa Gregoretti finisce sulla home page della Guardia Costiera per aver sequestrato 6 pesci spada “tagliati in pezzi allo scopo di rendere più complessa la misurazione della loro lunghezza per eludere la sanzione prevista per la materia in sottomisura”. La nave Gregoretti ce la ricordavamo perché salvava vite umane. Che fine hanno fatto quelle foto della plancia assolata solcata dagli sguardi indicibili di persone appena tirate fuori dalle onde? I cinquantacinquemila migranti salvati dalla Guardia costiera nel 2022 sono spariti dalla comunicazione che il corpo fa di se stesso. Sostituiti da 267 tonni sottomisura e da ben sette quintali di lampughe sprovviste della documentazione prevista dalle norme sulla tracciabilità scovate il 21 novembre scorso durante un’ispezione della nostra Guardia costiera che, una volta, non aveva come fiore all’occhiello la lotta alla pesca di frodo.
Eppure dal 21 novembre ad oggi più di novemila persone ha tirato fuori la guardia costiera da barconi alla deriva. Nei comunicati visibili on line però spariscono, in favore delle lampughe.
Chi sa di mare dice che è dal 2019 che la Guardia costiera è finita sotto schiaffo e i salvataggi li fa, ma sta ben attenta a non sbandierarli. Da allora subisce una sorta di subordinazione di fatto a Viminale. Prima di allora il Centro di coordinamento del soccorso in mare di Roma decideva in piena autonomia se bisognava avviare una operazione di salvataggio in mare o no. Le operazioni di polizia in mare erano subordinate alle attività di soccorso. Da allora in poi, mascherato dalla necessità di arrestare gli “scafisti” – che se sono in un gommone insieme agli altri in balia delle onde trafficanti evidentemente non sono – si è imposto il principio della priorità delle indagini di polizia. I migranti non sono più stati qualificati come potenziali naufraghi, ma come migranti in transito che possono essere considerati “ vittime di tratta” e clandestini in ingresso illegale. E così anche alle Ong che fanno salvataggi da allora (da un po’ prima per la verità) viene fatta la guerra con l’argomentazione sconcertante che l’attività di soccorso impedirebbe la cattura dei favoreggiatori e ostacolerebbe le indagini.
Una direttiva (tirata fuori ieri da Alessandra Ziniti su Repubblica) emanata nel 2019 da Salvini, allora ministro degli Interni – direttiva che ne richiama un’altra firmata da Beppe Pisanu (Forza Italia) nel 2005 e mai applicata prima che uscisse quella di Salvini nel 2019 – ordina di “attenersi scrupolosamente alle indicazioni operative al fine di prevenire l’ingresso illegale di immigrati sul territorio nazionale”. È il pezzo di carta che mostra l’operazione del Viminale sulla sovranità decisionale della Guardia costiera riguardo ai salvataggi. Basta una direttiva ministeriale a spiegare la disponibilità di un corpo militare a farsi ridimensionare una missione, quella del soccorso dei naufraghi, che è scritta nella legge del mare da sempre? Basta davvero la visita di Matteo Salvini al Comando, avvenuta subito dopo il suo insediamento a capo del ministero dell’infrastrutture nel governo Meloni, a spiegare la permeabilità della Guardia costiera ai voleri del ministro leghista al punto che l’ufficiale del centro nazionale di coordinamento del soccorso italiano sabato, informato della nave con i 47 migranti alla deriva in acqua internazionali e in Sar libica, ufficiale che non ignora a quale vuoto corrisponda l’espressione Sar libica, alla domanda su chi assumerà il coordinamento e la responsabilità delle persone, incredibilmente, attacca il telefono?
Strage di Cutro, il ruolo di Frontex, il codice Imei passato alla Finanza e l’evento Sar aperto (e poi chiuso?)
Una catena di atti mancati dal 25 febbraio scorso non si può spiegare solo con la subordinazione al Viminale e ai desideri del Ministro delle infrastrutture, Salvini, che della Guardia costiera è formalmente capo. Si tratta di un corpo militare con una storia. Serve una adesione volontaria e molto zelante di qualcuno che ha molto potere operativo in mano per spiegare una strana catena di atti mancati. E una serie di sottoposti che si adeguano. Per convenienza, per opportunismo, per timore. Perché la guardia costiera non ha ancora spiegato se ha chiuso e quando l’evento Sar 384, aperto già venerdì 24 febbraio e ancora aperto quando ha ricevuto la segnalazione da parte di Frontex del barcone Summer Love poi naufragato con la sua stiva piena di decine di bambini. E, in caso, come l’ha chiuso e perché. È fondamentale saperlo. È arrivata forse un’altra barca di cui non è stata data notizia? Questo non risulta a nessuno. Non è stata individuata nessuna barca? È possibile che a lanciare la richiesta di aiuto sia stato una delle persone poi naufragate a Cutro? Non ha spiegato la Guardia costiera perché non ha mandato soccorsi immediatamente dopo aver ricevuto la segnalazione Frontex. E non ha spiegato se è vero che la Guardia di finanza dopo esser tornata agli ormeggi per il maltempo la notte tra il 25 e il 26, poco prima del naufragio del Summer Love, ha chiamato la capitaneria di porto sollecitando una sua uscita anche congiunta e s’è sentita rispondere che no, la guardia costiera non sarebbe uscita per i soccorsi.
A sentire i pochi che dentro il corpo militare parlano, l’operazione di sottomissione di fatto della Guardia costiera al Viminale sarebbe cominciata durante il governo Conte 1, con Salvini agli Interni che si mette ad assegnare il porto di sbarco (sempre stato competenza delle Capitanerie di porto). Alle infrastrutture c’era un trasparente Danilo Toninelli sotto i cui occhi sono passati i cambiamenti della distribuzione delle competenze nei salvataggi in acque internazionali. Sta di fatto che sono cinque anni che i vertici del corpo non parlano pubblicamente di soccorsi. L’ultimo fu l’ammiraglio Pettorino nel giugno 2018 “Noi non abbiamo mai lasciato da solo nessuno in mezzo al mare” disse. Fu lui a raccontare agli ignari Toninelli e Salvini la notte del 16 ottobre del 1940 del comandante della Regia Marina Salvatore Bruno Todaro che salvò i nemici naufragati, fu lui il primo a citare quel “ho duemila anni di civiltà sulle spalle” (che s’è giocato Renzi in Senato davanti a Piantedosi). L’ammiraglio Pettorino passa per essere l’unico che resistette alla pressione del Viminale. Dopo di lui, dicono, “molto malumore ma niente piedi puntati. Anche tra i suoi, però, c’è chi maligna che “la sua resistenza durò 15 giorni, poi s’acquattò con discrezione e più tardi, a scenario raffreddato, fu premiato…”.
Oggi il capo della Guardia Costiera è l’ammiraglio Carlone. Che tace. Dopo la strage di bambini a 40 metri dalla riva calabrese ha mandato il suo portavoce da Bruno Vespa. Il portavoce non ha chiarito un bel nulla. Poi, il 7 marzo, l’ammiraglio ha inviato un messaggio di fiducia e orgoglio di corpo ai suoi sottoposti in cui ricorda che “la funzione del soccorso marino è un pilastro del nostro agire”. Lui è persona che i soccorsi li fa, li ha sempre fatti. È stato lui a far mettere agli atti nel 2017 che un barcone carico di migranti senza le condizioni per navigare in completa sicurezza è da considerare a rischio naufragio e quindi da soccorrere. Alcuni dei suoi lo danno come capro espiatorio già pronto lì sull’altare del governo. Tra i favoriti al suo posto ci sarebbe l’ammiraglio Liardo. Molto più gradito al governo Meloni. Sarebbe una tombola per Salvini. Angela Nocioni
L'alibi per non averli salvati. Cosa è la zona Sar libica: le balle del governo che nega aiuto a chi annega. Luca Casarini su Il Riformista il 14 Marzo 2023
Sembra quasi una strategia, o forse lo è proprio, quella di fare confusione tra acque territoriali, acque internazionali, zone di competenza per il soccorso in mare, regole di ingaggio e quant’altro. All’insegna del “è colpa di qualcun altro”, quando la realtà ti insegue, implacabile, e ti butta in faccia i morti, chi scappa butta in mezzo di tutto: è colpa delle vittime, è colpa dei parenti, è colpa dei libici, è colpa del mare. Basta che non sia colpa nostra. Anche questa volta, come per la strage di Cutro, nessuno dei governanti che dica: potevamo e dovevamo evitarlo. Trenta vite umane sono state perse, e per questo non c’è rimedio. Ma vale per le persone per bene. I comandanti veri, non abbandonano la nave per primi, anzi. Si fanno carico fino all’ultimo della situazione, si prendono l’onere di quello che non ha funzionato, sempre. Ma qui di comandanti se ne vedono pochi.
Come per la strage di Cutro, la strage dei bambini come verrà ricordata, anche nel caso di questo naufragio si cerca di scaricare le responsabilità, che sono evidenti visto il preavviso di trenta ore a disposizione delle autorità italiane, europee, mondiali, terracquee, per decidere se salvare o no quelle vite. Salvarle con tutte le forze, in ogni modo, provandoci fino all’ultimo. Invece si è deciso diversamente. L’alibi stavolta è la “zona Sar libica”. Che semplicemente non esiste, è una pura finzione messa in piedi la prima volta nel 2017, grazie all’intervento dell’allora governo italiano (Gentiloni-Minniti), al quale serviva una cornice formale per trasformare la Libia in una vera e propria “milizia delle coste e del mare” contro i migranti che dovevano essere trattenuti lì, e non raggiungere le coste italiane ed europee. Un’altra “tragica furbata” del Patto Italia – Libia, una delle cose più infami prodotte dalla classe politica italiana.
Dopo una prima bocciatura nel 2017, ricevuta dall’IMO di Londra, ente al quale uno Stato presenta la sua “autodichiarazione di zona Sar”, cioè di “responsabilizzazione per la gestione del soccorso in mare”, nel 2018 Tripoli ha potuto fregiarsi di averne una tra le più grandi per estensione, messa in piedi grazie ai mezzi e agli uomini della Marina militare italiana, presenti appositamente lì, con due navi (la Capri e la Caprera) e una missione votata dal Parlamento Italiano, la “Nauras”. La prima non accettazione dell’IMO ( International Maritime Organization) era infatti dovuta al fatto che il governo di Tripoli non avrebbe potuto gestire alcunché, mancando di mezzi, strutture logistiche, formazione. Con l’investimento italiano, che fornisce soldi, motovedette, logistica, e su forte pressione dell’Europa, l’Imo si piega e “accetta” l’autoattribuzione. Perché innanzitutto la zona Sar è questo: una autodichiarazione che gli stati rivieraschi presentano, e se nessun altro stato ha qualcosa in contrario, rimane lì, sul registro Imo delle zone sar. Solo uno stato può fare ricorso per mettere in discussione la sua ufficializzazione. E nessuno, ovviamente, l’ha fatto.
La zona Sar non c’entra niente di niente con la zona di sovranità di uno stato, la quale viene esercitata entro le 12 miglia dalla costa, e al massimo nelle acque di contiguità e cioè entro il limite delle 24. Avere una grande zona Sar da gestire, dovrebbe vuol dire, secondo la Convenzione di Amburgo, avere la capacità tecnica e operativa innanzitutto, per poterlo fare. Per rendere possibili ed efficaci gli interventi di soccorso in mare. Avere ad esempio, un centro di coordinamento “MRCC”, avere una flotta navale ed aerea, ma anche agire in nome del soccorso in mare, che come ben ribadito “termina solo quando i naufraghi sono sbarcati in un Pos ( Place of Safety)”, un posto sicuro. Ora, è chiaro che il governo di Tripoli, non ha nessuna di queste caratteristiche. È in dubbio persino la sua qualifica di “stato unitario”, figurarsi se può garantire il vero soccorso a qualcuno.
Di sicuro non ha un Pos da offrire a chi recupera dal mare. Questo nemmeno secondo le Nazioni Unite, da cui Imo dipende. E nemmeno secondo sentenza della Cassazione italiana si può riportare in Libia qualcuno. Ne sa qualcosa il comandante della Asso 28, nave della compagnia napoletana. Ma allora questa zona Sar libica che cos’è? È una frontiera illegale. Una frontiera liquida, in mare, dove poter far agire una polizia, capace di catturare e riportare indietro donne, uomini e bambini che tentano di fuggire dalla Libia. Si utilizza “politicamente” la zona Sar, per cercare di ovviare alla chiara delimitazione che esiste tra il diritto sovrano statuale, e il diritto internazionale. È ancora, la logica del “law enforcement”, fatta prevalere illegalmente sulle Convenzioni internazionali di Amburgo – sul soccorso in mare – e di Ginevra – sui rifugiati e profughi. E sul “diritto del mare”. Il rischio che il Mediterraneo diventi una “terra di nessuno” è altissimo. Un luogo dove se vengono fatte morire persone che non sono né bianche né ricche, non è colpa di nessuno, appunto. Luca Casarini
Governo attaccato per i morti nel Mediterraneo, ma quando c'era il Pd a Palazzo Chigi era peggio. Andrea Soglio su Panorama il 14 Marzo 2023
I dati sui migranti morti mentre cercavano di arrivare in Europa con Renzi, Gentiloni ed il Conte bis al comando smentiscono le teorie della destra che non vuole salvare
A leggere i giornali, ad ascoltare i programmi di politica in tv, a guardare i social sulla questione migranti-Governo siamo alle seguenti conclusioni. Primo: questo Governo non salva i migranti in difficoltà in mare. Secondo: questo governo addirittura dà l’ordine di non salvare i migranti in mare. Terzo: questo governo è fatto di cinici e disumani. Regole che valgono in tutte le acque del Mediterraneo. Non solo per quelle a poche decine di metri dalle spiagge di Cutro ma persino quelle dell’ultimo episodio di due giorni fa a 113 miglia dalle coste libiche (e 300 da quelle italiane), in piena zona SAR di Malta. Secondo ad esempio le Ong qualsiasi nave sia in difficoltà tocca all’Italia intervenire. E fa niente se, ad esempio per il caso di domenica, la Guardia Costiera non avesse navi con un raggio d’azione di 600 miglia (tra andata ritorno) a disposizione per intervenire e non per negligenza o disorganizzazione, semplicemente perché erano impegnate in altre missioni di soccorso; la colpa è sempre e solo dell’Italia, anzi del suo governo che «gode» nel vedere la gente che muore. Ragionamenti e conclusioni talmente folli che non si dovrebbe nemmeno spiegare, o ad esempio raccontare che la Guardia Costiera dall’inizio dell’anno ha salvato quasi 30 mila persone con più di 20 interventi al giorno. Proviamo quindi ad andare oltre. Proviamo ad esempio a controllare i dati sui morti nel Mediterraneo degli ultimi anni analizzandoli a seconda del Presidente del Consiglio in carica, in una classifica dei decessi che fa di per se rabbrividire ma che mostra come queste tragedie non sono legate al colore della maggioranza, non sono colpa ed esclusiva della Meloni e della destra, anzi. La grafica è molto chiara. Con Renzi (Pd) a Palazzo Chigi i morti sono stati più di 10 mila. Gentiloni (altro Pd) raggiunse quota 3500. La metà, 1700, furono quelli dell’epoca del Conte I, quello del governo giallo verde, e furono 1500 quelli invece del Conte bis, (con il Pd nella maggioranza); anche Draghi ha la sua triste cifra di cadaveri: 2700 circa. In ultimo il governo attuale il cui numero, drammatico, è di più di 400 morti. Serve quindi altro? Cosa non è chiaro del fatto che i morti ci saranno sempre, con qualsiasi governo, fino a quando ci saranno barchini di disperati in mare? Cosa non è chiaro del fatto che la furia del mare e la ferocia degli scafisti non guarda a quale sia la maggioranza di Palazzo Chigi? Continuare ad attaccare questo esecutivo è oltre che un falso (dimostrato dai numeri) soprattutto una vergogna politica.
Argomenti fantoccio. Dalla strage di Cutro alla tragedia del Covid, «mica penserete» è il nuovo mantra della politica italiana. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 15 Marzo 2023
Da una parte e dall’altra, a ogni richiesta di chiarezza, si risponde gridando alla strumentalizzazione e allo sciacallaggio. A prescindere. La domanda non viene respinta cioè dopo un esame e un dibattito, neanche sommari. È piuttosto dichiarata inammissibile
A seconda di chi abbiate votato alle ultime elezioni, è probabile che troviate il parallelo inaccettabile per opposte ragioni, ma provate per un momento a sospendere il giudizio e a osservare l’emergere di un nuovo (in realtà vecchissimo) automatismo politico-giornalistico, a destra come a sinistra, che si parli di Cutro o del Covid. Quasi un riflesso pavloviano. Lo chiamerei l’argomento del «Mica penserete».
Basta sfogliare le cronache degli ultimi giorni. Da un lato abbiamo infatti il rimpallo di responsabilità tra guardia di finanza e guardia costiera nel naufragio di Cutro, seguito adesso dallo scaricabarile con la guardia costiera libica immortalato dal terribile audio della telefonata in cui, all’avvertimento che i libici non manderanno soccorsi, si risponde con un gelido: «Thank you for the information, bye bye». Dall’altro lato abbiamo il rimpallo di responsabilità tra governo e Regione Lombardia sulla mancata chiusura di Alzano e Nembro nel 2020, le polemiche sul mancato aggiornamento del piano pandemico, l’incredibile sottovalutazione della seconda ondata (in verità questo ultimo punto non è che sia così presente nel dibattito, sebbene a me sembri il principale).
Il meno che si possa dire, se stiamo alle ricostruzioni ufficiali di entrambe le vicende, delle stragi di migranti e di quelle causate dalla pandemia, è che non manchino punti oscuri, incertezze e contraddizioni. Ma discuterne laicamente sembra impossibile.
Nel caso delle stragi di migranti l’argomento principale del governo e dei suoi difensori è ben riassunto dall’affermazione pronunciata più volte da Giorgia Meloni davanti ai giornalisti: «Davvero pensate che non volevamo salvarli?». Ma se invece di migranti morti nel Mediterraneo nel 2023 parliamo degli italiani morti di Covid nel 2020, il principale argomento usato dai difensori di Giuseppe Conte e Roberto Speranza, allora rispettivamente presidente del Consiglio e ministro della Sanità, è praticamente lo stesso.
Da una parte e dall’altra, a ogni richiesta di chiarezza, si risponde gridando alla strumentalizzazione e allo sciacallaggio. E lo si fa, per dir così, a prescindere: cioè prima ancora di – anzi, direi, senza nemmeno minimamente – entrare nel merito, spiegare, controbattere. La richiesta di chiarezza non viene respinta cioè dopo un esame e un dibattito, neanche sommari. È piuttosto dichiarata inammissibile, inaccettabile, vergognosa. Ed è proprio per questo – per dimostrarne l’inammissibilità – che dev’essere subito deformata nella sua caricatura, con il più vecchio e il più banale dei trucchetti retorici (tecnicamente, un classico «straw man argument», o argomento fantoccio).
Il centrodestra esprime unanime solidarietà al suo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, alla guardia costiera e alla guardia di finanza, fingendo di non vedere tutti i buchi delle ricostruzioni fin qui fornite. Ma soprattutto fingendo di non vedere, o negando esplicitamente, qualunque tipo di nesso con le scelte, le norme, le direttive e le pressioni politiche messe in atto da Matteo Salvini sin dai tempi dei primi decreti sicurezza. Vale a dire – occorre sempre ricordarlo ai numerosi smemorati – ai tempi del primo governo guidato da Giuseppe Conte, poco prima di diventare il punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti (secondo l’allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e forse pure secondo l’attuale).
Il centrosinistra e il Movimento 5 stelle, dal canto loro, fanno altrettanto con Conte e Speranza per quel che riguarda la gestione della pandemia, ripetendo la bufala secondo cui l’Italia se la sarebbe cavata alla grande (siamo stati tra i paesi con più morti e allo stesso tempo con le misure restrittive più pesanti e prolungate al mondo: cosa avremmo dovuto fare, concretamente, per fare peggio di così?).
Alla prima riunione della nuova assemblea nazionale del Pd, domenica scorsa, non c’è stato oratore, da Elly Schlein a Stefano Bonaccini, che non abbia sentito il dovere di dichiarare con enfasi che, fermo restando il doveroso rispetto per l’azione della magistratura, Speranza aveva fronteggiato il Covid nel migliore dei modi e andava solo ringraziato e applaudito.
Nemmeno quando esponenti della sinistra sono stati accusati delle cospirazioni più assurde e infamanti, dalla farsa del «fondo Quercia» all’epoca della scalata Telecom fino alla cosiddetta «trattativa Stato-Mafia», si era mai levato da una loro assemblea un coro così forte, orgoglioso e compatto.
Siccome però sulla gestione del Covid le responsabilità sono politicamente assai ben distribuite, nel senso che la gara a chi faceva peggio tra la Regione Lombardia amministrata dalla Lega e il governo guidato da cinquestelle e Pd è stata combattutissima, dopo un iniziale tentativo di scaricare ciascuno le proprie responsabilità sull’altro, si è arrivati di fatto a una sorta di disarmo bilaterale, nel comune interesse. Una di quelle intese non scritte che, se non ci fossero di mezzo Conte e i cinquestelle, sarebbero state senza dubbio denunciate immediatamente come la più scandalosa delle trattative e il peggiore degli «inciuci».
Siccome però alla fine nessuno ha interesse a riaprire l’argomento, tranne ovviamente coloro che hanno pagato il prezzo più alto, ecco che la questione sembra già pronta a confermare quella tendenza dei drammi collettivi della storia italiana a scivolare naturalmente «verso Ustica», come ha scritto ieri Paolo Giordano, in un bellissimo articolo sul Corriere della sera.
Tutte le legittime perplessità sulle dichiarazioni dei magistrati (il cui compito non è certo quello di saziare «la sete di verità» del popolo), sull’attendibilità di calcoli e scenari controfattuali, sulla possibilità di accertare univocamente responsabilità politiche e giudiziarie in situazioni di emergenza così estreme non possono diventare un alibi con cui chiudere preventivamente ogni discussione. Come scrive Giordano, la richiesta di chiarezza non può essere liquidata con la formula «nessuno ci aveva capito niente». Non solo e non tanto per ragioni di giustizia o per riguardo alle vittime e ai loro famigliari, quanto per ragioni di tutela della salute e della vita di ciascuno di noi: perché capire cosa non ha funzionato – dove, quando, come e perché – è l’unica speranza che abbiamo, per quanto flebile, di non ripetere gli stessi errori la prossima volta.
Se non vogliamo rivivere ogni volta le stesse tragedie, commettendo sempre gli stessi errori, pensarci oggi è un dovere.
"C'è posto per tutti, venite". Il messaggio del clandestino inviato dopo lo sbarco a Lampedusa. Francesca Galici il 15 Marzo 2023 su Il Giornale
Uno dei clandestini appena arrivati in Italia spinge i suoi "fratelli" alla partenza per Lampedusa, dove sono in corso evacuazioni d'emergenza
Esclusiva
Nelle ultime settimane in Italia si è assistito a un incremento elevato degli arrivi, in particolare a Lampedusa, figli dell'aumento delle partenze dalla Tunisia che, stando ai rapporti del Viminale, hanno superato quelle dalla Libia. Sui barchini, spesso in metallo, che lasciano le coste di Sfax e di altre città costiere prospicienti la piccola isola italiana non ci sono solo tunisini ma si tratta per la maggior parte di migranti subsahariani. Nelle chat dei facilitatori di "convogli" non sono rari gli annunci in cui si specifica che non sono ammessi tunisini a bordo delle carrette del mare, probabilmente in risposta a quanto sta accadendo nel Paese di Kaïs Saïed.
"Bussola o app?". Così i migranti si nascondono durante il viaggio
In Italia "c'è posto per tutti"
In una di queste chat, impegnato in una discussione su quale sistema di guida sia meglio a bordo dei barchini, abbiamo incrociato anche un migrante che, almeno stando alle sue parole, ora si trova in Italia. Sarebbe arrivato a Lampedusa con gli sbarchi degli scorsi giorni e sembra entusiasta di quello che ha trovato nel nostro Paese. Con gli altri partecipanti alla chat, che a differenza sua si trovano ancora in Tunisia in attesa del "convoglio" giusto per raggiungere l'Italia discute del miglior modo per non farsi tracciare dalla marina tunisina in acque territoriali e di come non perdere l'orientamento durante la navigazione per arrivare rapidamente in Italia. Nel corso di quella conversazione si è interfacciato anche con un partecipante che ha raccontato di non essere riuscito a partire ma di voler raggiungere l'Italia.
A lui, con grande semplicità, il migrante già in Italia replica: "Preghiamo per voi che siete rimasti lì. C'è posto per tutti, venite". Davanti alle immagini che arrivano dall'hotspot di Lampedusa al collasso e agli sforzi immani che sta compiendo il nostro Paese tra navi e aerei militari impiegati per i trasferimenti, oltre che personale dislocato per le emergenze, stona leggere che uno dei migranti che ne sta usufruendo inviti gli altri a partire perché in Italia "c'è posto per tutti". In questi giorni fervono i preparativi per nuove partenze, che ritardano solo per le non ottimali condizioni meteo.
Le case dei migranti e i giubbotti di salvataggio
Da quanto abbiamo avuto modo di appurare, i facilitatori raggruppano i migranti pronti a partire in abitazioni, spesso fatiscenti, non lontane dalla costa in cambio di qualche centinaio di dinari, finché non sopraggiungono le condizioni per la partenza. Qui vengono anche ospitate le donne, che se non dispongono del denaro sufficiente per la traversata, se vogliono imbarcarsi devono concedersi carnalmente ai facilitatori. "Smettila di voler dormire con tutte le ragazze solo perché organizzi il viaggio. Non è degno, cerca una donna, è meglio", scrive un utente rivolgendosi all'organizzatore che, senza fare una piega, replica: "Questo ha fumato erba stamattina [...] finché non è stupro è legale davanti alla legge".
Tra chi lo difende perché "è uomo ed è fatto di carne" e chi lo implora perché "per favore, ho anche mia moglie che viene lì", c'è chi mette in guardia: "Le ragazze evitino di andare a Sousse senza i soldi per il movimento, altrimenti il loro corpo ne soffrirà". Abbiamo anche scoperto che ci sono casi in cui le camere d'aria o, per chi se li può permette, i giubbotti di salvataggio vengono venduti a parte. Al costo della partenza, per avere quella minima percezione in più di sicurezza, i migranti devono quindi aggiungere ulteriori costi da versare ai trafficanti e a tutto l'indotto che specula su questo business della morte.
Dal tracking navale alle app "amiche": partenze organizzate monitorando le mosse delle Ong. Il tracking usato per trovare la posizione delle Ong. E l'ira dei trafficanti quando queste navi sono lontane. E sulla pagina "Amici di Ocean Vicking" vengono organizzati i viaggi. Francesca Galici il 15 Marzo 2023 su Il Giornale
Esclusiva
La narrazione secondo la quale lea presenza delle Ong non hanno alcuna influenza sulle partenze dei migranti, in particolare dalla Libia, non regge più. Probabilmente non ha mai retto, se non agli occhi dei soliti propagandisti dell'immigrazione, che vorrebbero l'Italia, e solo l'Italia, aperta a qualunque tipo di sbarco, e trasformata in un hub per stranieri. Le accuse che in questi giorni piovono sul nostro Paese per il naufragio al largo della Libia, poi, completano un quadro distopico che vede l'Italia responsabile di qualunque evento nel mar Mediterraneo, nonostante non sia l'unico Paese che vi si affaccia. Ma sull'influenza delle Ong sui viaggi della speranza a bordo di barchini precari, inabili anche solo a galleggiare, non è difficile trovare traccia dall'altra parte del mare, nelle conversazioni di chi organizza le traversate e di chi si prepara a compierle.
Continuando la nostra ricerca nei siti e sui gruppi social dedicati all'immigrazione illegale, compiuta alla luce del giorno, ci siamo imbattuti in un post molto particolare. Le traversate hanno ripreso vigore nelle ultime settimane, complice il bel tempo e l'imminente inizio del Ramadan, durante il quale i praticanti non effettueranno i viaggi. Ciò, per le leggi dei grandi numeri, ha portato a numerosi incidenti in mare. Naufragi che hanno causato decine di morti e di dispersi. Se nel nostro Paese c'è indignazione, dall'altra parte del Mediterraneo c’è molta rabbia. Il motivo? Non ci sono le navi delle Ong, quindi manca la percezione di sicurezza. Il messaggio che abbiamo trovato, d'altronde, parla chiaro: "Non ci sono navi di salvataggio in mare ma avete davvero 'lanciato' la gente. I corsari della Libia...". È stato accompagnato da un barchino in legno in fiamme, probabilmente un'immagine di repertorio, utilizzata per rendere l’idea di quanto accade senza l’intervento degli equipaggi delle Ong.
Effettivamente, in questi giorni le navi delle Ong sono tutte in porto e non attive sulla rotta che solitamente viene battuta. L'unica sottoposta a fermo amministrativo per violazione del decreto è la Geo Barents, le altre teoricamente potrebbero operare ma sono comunque ferme. Quel messaggio lasciato sui social è esemplare di quello che accade in Nordafrica e involontariamente suggerisce che le navi Ong sono realmente un fattore di pull-factor. Tra i vari post troviamo poi gli annunci che riferiscono sull'inizio delle missioni delle varie navi
E che siano un elemento di garanzia lo si evince anche dal fatto che, come abbiamo avuto modo di appurare, nei telefoni dei migranti sono installate le applicazioni di tracking marittimo, che permettono di individuare la posizione delle navi in tempo reale, quindi anche quella delle Ong, per verificare quando saranno nei pressi della Libia ed effettuare i “lanci” con maggiore sicurezza. "Dio li punirà", risponde qualcuno nei commenti, sottolineando la malafede di chi mette in pericolo i migranti quando mancano le navi del soccorso civile.
Nel corso della nostra ricerca abbiamo avuto modo di percepire la reale influenza che le Ong hanno nell'immaginario collettivo al di là del Mediterraneo anche imbattendoci in una pagina che si chiama "Amici della Ocean Viking in Europa". Scorrendo tra i post pubblicati ne abbiamo anche trovati alcuni di recente condivisione che propongono partenze per l'Italia prima dell'inizio del Ramadan, anche se non sono previste missioni delle Ong nell’immediato futuro.
C’è il numero di telefono da contattare per prendere accordi prima della partenza, ci sono le foto dei motori impiegati e della barca che dovrà ospitare i migranti, un piccolo peschereccio ben più grande rispetto a quelle utilizzate in Tunisia. Tra le foto c'è anche un grande motoscafo, con ben due motori da 100 cavalli ognuno: ora, dire con certezza che sarà una delle barche impiegate per il trasporto nei migranti è impossibile ma, considerando anche i video che circolano su quelle stesse pagine e quanto fino a oggi noto, non è escluso che si tratti di una "nave madre" utilizzata per portare i migranti fuori dalla Libia quanto più vicino possibile alle coste italiane.
Guardia costiera esasperata. "Noi dipinti come assassini". Lo sconforto dei militari per la campagna della sinistra: "Attacchi ingiusti, salviamo delle vite". Fausto Biloslavo il 14 Marzo 2023 su Il Giornale
Giù le mani dalla Guardia costiera. Soprattutto dai 2200 uomini e donne che operano in mare e si fanno in quattro per salvare i naufraghi. La Guardia costiera è sotto tiro per colpire il governo con un'orchestrata campagna politica della sinistra e dei talebani dell'accoglienza delle Ong alimentata dal volano della grande stampa. «In queste ultime settimane i messaggi fra di noi, sia dei giovani, che dei veterani sono intrisi di sconforto e frustrazione. Siamo obiettivo di attacchi ingenerosi. Quello che da più fastidio è che non si basano su dati di fatto. Le accuse puntano sul nulla cosmico. Per questo fanno male» racconta un ufficiale superiore al Giornale rendendo noto il profondo malumore del corpo.
Non a caso Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture e trasporti, ha incontrato ieri i vertici della Guardia costiera. E difeso a spada tratta il corpo. «Solo pensare che i 10.200 marinai e marinaie della Guardia costiera possano deliberatamente scegliere di non salvare qualcuno mentre stanno facendo un lavoro umanamente straordinario è qualcosa di disgustoso» ha dichiarato a Radio 24. E aggiunto: immaginare «Salvini che chiama di notte l'Ammiraglio Carlone comandante della guardia costiera: no mi raccomando è partito un barcone, lasciali affondare, è una roba da deficienti».
Lo sfogo di chi è in prima linea nei soccorsi ricalca questo concetto: «Qualcuno pensa veramente che ci giriamo dall'altra parte se la gente annega? Siamo marinai e un tempo non lontano chi oggi ci attacca ci definiva angeli del mare. Continuiamo a salvare più vite possibili, ma siamo dipinti come assassini». Le parole della nuova segretaria del Pd, Elly Schlein, che senza sapere nulla del naufragio al largo di Bengasi ha accusato la Guardia costiera di «avere puntualizzato in maniera pilatesca» offendono il personale del mare.
Lunedì sera a Quarta repubblica il comandante del Centro di soccorso, capitano di vascello Gianluca D'Agostino, un veterano, ha parlato forte e chiaro. Le reazioni degli uomini in mare non si sono fatte attendere: «Finalmente le parole giuste con le immagini giuste (...) Ha reso chiaro l'impegno umano del nostro lavoro (...) Comandante ci hai rappresentati tutti nel modo migliore, cuore oltre all'ostacolo».
Ieri nave Gregoretti, in servizio per la tutela della pesca, è stata criticata perché «sequestra tonni mentre la gente muore». Ovviamente passa in secondo piano che l'11 marzo, il giorno del barchino in difficoltà al largo di Bengasi, che poi si è ribaltato, la Guardia costiera soccorreva 1200 migranti in diversi eventi. Anche a 100 miglia dalla costa, ma in acque di ricerca e soccorso italiane. «In mezzo alle onde si rischia la vita per una paga minima, soprattuto fra i giovani - racconta chi lo vive - È tutta politica. Gli attacchi sono strumentali e danno addosso a noi per colpire il governo».
Il soccorso in mare schiera le ammiraglie Dattilo e Diciotti, navi di 100 metri con ponte di volo, il Gregoretti di 60 metri, tre unità di 50 metri e altre nuove lunghe 35. Oltre ad una trentina di motovedette, quelle con il gommone arancione attorno, le Classe 300 che si spingono fino a 100-150 miglia dalla costa. La Guardia costiera ha pure quattro squadre di volo, ma con soli tre aerei Atr, un po' vecchiotti e 16 elicotteri.
Le bestie nere sono le Ong dei talebani dell'accoglienza. «Qualche anno fa si sono riuniti a Tunisi - ricorda una fonte - stilando un documento che pianificava la strategia contro l'Italia. E adesso stanno portando avanti gli attacchi pure con un esercito di agguerriti avvocati che sparano esposti per metterci i bastoni fra le ruote attraverso la magistratura. Sono riusciti addirittura a denunciarci alla Corte europea dei diritti dell'uomo, neanche fossimo dei criminali di guerra». Un altro ufficiale superiore conferma che «le Ong sono una macchina da guerra. Hanno navi, aerei, un centralino dei migranti per le chiamate d'allarme. Vogliono sostituirsi ai Centri di soccorso degli Stati».
Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 16 marzo 2023.
Un tatuaggio è rimasto negli occhi di tutti quelli che ce l'hanno fatta e non sono sprofondati nello Jonio come le 86 vittime accertate della strage di Steccato di Cutro: «Due gocce di lacrime sullo zigomo destro». Impossibile dimenticare Sami Fuat: «Guidava spesso la nave e si alternava con un altro. Ci ha portato lui alla morte. Si nascondeva tra di noi in spiaggia, appena abbiamo toccato terra, glielo abbiamo indicato ai carabinieri per farlo arrestare».
Verbali e testimonianze del naufragio più drammatico degli ultimi anni, di uomini e donne affogati quasi a riva, a poche decine di metri dalla salvezza, dalla fine di un viaggio iniziato a Izmir, Turchia, il 22 febbraio scorso, chiuso con un botto fragoroso della pancia dell'imbarcazione «Summer Love» sulla secca vicino alla riva alle 4,10 del 26 successivo.
Voci di chi c'è ancora di chi ha perso figli, padri, madri, fratelli, sorelle, nonni, mogli. Ma è qui a vivere controvento. A disegnare nei verbali agli atti dell'inchiesta della procura i tratti dei Caronte che al porto di Smirne avevano promesso una nuova vita e in Calabria «con una brusca manovra» gliela hanno tolta.
Raccontano di migranti spaventati già durante il viaggio «dalle onde e dalle oscillazioni della barca». E di scafisti che rispondono: «Stai tranquillo, è da 15 anni che faccio queste cose». […]
«Ci facevano salire soltanto per fare i bisogni o prendere pochi minuti di aria prima di farci ritornare nella stiva. Sempre loro, prima di averci fatto imbarcare, ci hanno sistemati in alcune abitazioni messe a disposizione dai trafficanti a Istanbul». Il modello è quello della «Safehouse dalle quali non potevamo uscire poiché strettamente sorvegliati».
Giorni di attesa, coi parenti pronti a pagare «7 o 8 mila euro» al segnale concordato. Dagli alberghi «ci hanno trasferiti a bordo di pick-up ad un cantiere edile dove, sempre seguendo i loro ordini, siamo saliti su un camion in gruppo da settanta-ottanta persone e ci hanno condotti, dopo un viaggio durato circa sette ore, alla spiaggia di partenza». […]
Sono le 20 del 21 febbraio ed eccola lì, dopo la traversata tra gli alberi, la nave attesa da anni «per svoltare le nostre vite». Sulla fiancata c'è scritto: «Luxury/2». Qualcuno conta le persone: «Hanno chiamato un turco e hanno comunicato: 142 adulti, 30 bambini a bordo». Una barca «molto bella, lunga 15-18 metri, due piani, aveva tre stanzette con dei letti» che – però – «il giorno dopo la partenza - destino atroce - si ferma».
Problemi al motore: «Abbiamo sentito puzza dì gasolio, ma i due membri dell'equipaggio ci hanno detto che non era un problema. Trascorse tre ore di viaggio, la barca ha iniziato a fare di nuovo fumo ed il motore si è spento. Ci hanno chiesto se tra noi ci fosse un meccanico». Risposta negativa.
Hanno telefonato ad altre persone e dopo cinque ore è arrivata una seconda imbarcazione, un Caicco, ma era in pessime condizioni». Stavolta a bordo «c'è un siriano che sapeva aggiustare i motori». […]
L'accordo con gli scafisti è nei verbali: «Ci dissero che una volta arrivati a riva avremmo potuto scappare liberamente. Ma alle 4 circa quando vedevamo la costa italiana uno scafista ha virato perché le luci che provenivano dalla spiaggia hanno fatto credere che ci fossero controlli. Abbiamo sentito un forte rumore nello scafo e il caicco ha cominciato a piegarsi e a imbarcare acqua, In quel momento - ha raccontato un superstite agli investigatori - mi trovavo sopra e ho visto che la barca stava affondando». […]
Migranti, l’ammiraglio della Guardia Costiera: «A noi i politici non danno ordini. Su Cutro nulla da rimproverarci». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2023
L’ammiraglio Aulicino (Guardia Costiera): salvare vite ha la precedenza
Due naufragi nel giro di pochi giorni, 86 morti nel primo, 30 nel secondo. Ammiraglio, c’è mai stata un’interferenza politica, un’indicazione sui vostri interventi?
«Non scherziamo. Il livello politico non ha mai dettato nemmeno una virgola ai nostri centri operativi. Assolutamente mai. Le sale operative prendono le decisioni sapendo che di ogni singola decisione si è poi responsabili penalmente, e tenendo presente sempre la cosa più importante, cioè che la salvezza delle vite umane ha la precedenza su ogni cosa. Rispondiamo alle norme, alle convenzioni internazionali, non a qualcuno».
Sicuro che il clima politico non vi condiziona?
«Sarò più chiaro: non è mai successo che un ministro, Salvini o i precedenti, abbia chiamato per dire di fare o non fare qualcosa».
Eppure siete finiti sotto attacco...
«Io ho quasi 40 anni di servizio, sono abituato a vedere sulla mia testa giochi politici, nel senso di strumentalizzazioni. So che possono attaccare noi per attaccare la politica. Ma forse stavolta siamo andati un po’ oltre. E, guardi, non lo dico per me. Lo dico per i ragazzi, per chi lavora ogni giorno in mare e sul territorio. Mi dispiace per loro che ci mettono l’anima, ogni giorno, per salvare persone in mezzo al mare e che poi vengono messi alla berlina, o chiamati “assassini”. Non so come la vede lei, io dico che parole così ingiuste fanno male».
L’ammiraglio Giuseppe Aulicino, classe 1964, è a capo del Reparto Piani e Operazioni della Guardia costiera. Dipende da lui tutto ciò che è operativo. Dopo il naufragio di Cutro del 26 febbraio e dopo la barca rovesciata (il 12 marzo) al largo delle coste libiche, parla per la prima volta. Per difendere i suoi uomini e per dire che «non abbiamo niente di cui rimproverarci».
Cominciamo dal punto più critico: il fatto che la Guardia costiera, la notte di Cutro, non ha attivato un'operazione Sar, cioè di soccorso in mare. Il mare era grosso, la Finanza è andata a cercare la barca segnalata da Frontex ma è tornata indietro per le condizioni meteomarine. Perché non aprire una operazione di soccorso?
«Frontex aveva già fatto una prima valutazione, come sappiamo. Il suo report non segnalava una situazione critica. Si vedeva una sola persona a bordo, la barca navigava a 6 nodi con mare 4. I sensori termici dell’aereo ipotizzavano la possibile presenza di persone sottocoperta ma certezze non ce n’erano; non c’erano gli elementi per ritenere tutto questo un evento Sar».
Le condizioni meteo non erano di per sé un elemento di pericolo possibile?
«Quando è stata avvistata la barca non navigava in difficoltà. E non c’erano le chiamate di richiesta d’aiuto a noi o a organizzazioni come Alarm Phone. Né hanno chiamato i parenti a terra di qualcuno dei migranti, come capita spesso. Ora sappiamo che gli scafisti avevano un sistema per inibire l’uso dei cellulari, mai finora utilizzato; in quelle ore non lo sapevamo. Le informazioni che avevamo e le considerazioni che abbiamo condiviso con la Guardia di finanza riguardavano — ripeto — non un caso Sar ma sicuramente un caso da investigare, tant’è che si è mossa la Guardia di Finanza, che è in grado di fare valutazioni ed eventualmente agire».
Parliamo del secondo naufragio. Allarme di Alarm Phone l’11 marzo, la barca si rovescia il 12, dopo ore in balia delle onde. Le Ong dicono: «lasciati morire deliberatamente».
«Stiamo parlando di acque Sar libiche, il barchino era a 100 miglia dalle coste della Libia, lontanissimo da noi. Le ricordo che un Paese è responsabile delle sue acque Sar. Quando abbiamo ricevuto la segnalazione da Alarm Phone abbiamo immediatamente mandato verso il barchino il mercantile più vicino. Che poi: domandiamoci anche perché i migranti chiamano Alarm Phone e non le nostre centrali operative...».
P er quella barca vi ha chiamato anche Sea-Watch, dice che avete riattaccato.
«Sì, il famoso “ciao, ciao” del nostro operatore. Non abbiamo riattaccato, l’audio lo dimostra. Il “ciao ciao” era un saluto, non una scortesia. E poi ricordo che non siamo tenuti a dare informazioni a chi ci chiama. Sea-Watch ci stava chiedendo informazioni operative, eravamo impegnati a salvare vite in mare. Va immaginato anche il contesto di quella chiamata...».
Torniamo alla barca in mezzo al Mediterraneo.
«Le operazioni all’inizio le ha condotte la Libia, responsabile Sar di quel tratto di mare. Noi eravamo troppo lontani per mandare una delle nostre Classe 300 (i mezzi di soccorso più adatti, ndr) che non avrebbero poi avuto autonomia sufficiente per operare e tornare indietro. Avevamo le nostre navi già impegnate in attività di soccorso. Quando la Libia ci ha chiesto aiuto abbiamo mandato verso il barchino le unità navali più vicine che, ricordo a tutti, sono obbligate a intervenire o commetterebbero omissione di soccorso».
Lei ha parlato con i suoi uomini che la mattina della strage sono intervenuti a Cutro?
«Sì. Ho accompagnato il comandante generale, l’ammiraglio Nicola Carlone, a Crotone, dove ha voluto incontrare i suoi uomini all’indomani della tragedia. Erano giorni difficili. Volevamo che sentissero la vicinanza di tutti noi».
Il video che smonta le bufale della sinistra sul naufragio di Cutro. Andrea Indini il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.
Un filmato pubblicato dal sito Nicolaporro.it smonta le ricostruzioni farlocche sui sopravvissuti e spazza via la "grande" stampa progressista che ha speculato sul dolore per attaccare il governo e la Meloni
Realtà e narrazione. Quante volte si scopre che il disegno che viene fatto di un evento sia in realtà così distante da ciò che accade veramente. La riprova, plastica come sanno esserlo solo alcuni video, la si ha sulla tragica vicenda del naufragio di Cutro. Almeno 86 persone sono morte per fatalità, per colpa del maltempo, degli scafisti, di un viaggio insensato e costellato di pericoli. Da giorni la "grande" stampa progressista non fa che parlare dei presunti errori della Guardia Costiera, delle responsabilità del governo, come se qualcuno a Palazzo Chigi potesse volere la strage di uomini, donne e bambini. Si è raccontato di tutto, da quel tragico 26 febbraio. Anche che i superstiti e i parenti delle vittime avrebbero accusato il premier Giorgia Meloni di insensibilità per non aver visitato i feretri dei defunti quando si è recata a Cutro per presiedere il Consiglio dei ministri che ha partorito il decreto anti-trafficanti.
Certo, nessuno mette in dubbio che alcuni di loro potranno esserci rimasti male. E chi mai potrebbe biasimare chi tra loro volesse imputare al governo le colpe di quel naufragio? Il dolore non si processa, mai. Ma i racconti artefatti sì. Il filmato, pubblicato in esclusiva dal sito Nicolaporro.it, smonta le ricostruzioni farlocche sui sopravvissuti, quelle accuse all'escutivo e quei commenti velenosi come "ci aspettavamo un omaggio alle bare" o "ci ha lasciati soli al nostro dolore". E poi i grandi editoriali, gli articoli impegnati, i commenti indignati. Risultato: quando ieri i parenti delle vittime sono stati ricevuti in forma riservata a Palazzo Chigi dal premier, alla fine di un incontro che i presenti raccontano "disteso" e molto "emozionante", anziché urlare le loro accuse contro l'esecutivo in molti si sono fermati e hanno chiesto un selfie alla Meloni. Domanda: delle persone infuriate, magari convinte che la responsabilità della morte dei loro cari sia da imputare all'esecutivo italiano, potrebbero mai voler conservare nel cellulare una fotografia con il premier?
La risposta è scontata. Le cronache raccontano che, nell'ascoltare i racconti dei sopravvissuti, la Meloni si sia commossa. Che abbia chiesto loro se erano consapevoli dei rischi cui si esponevano salendo su quei barconi. Ad alcuni ha promesso il sostegno per cercare di portare a termine ricongiungimenti familiari in Italia o all'estero. Giorni fa Repubblica ha scritto che il governo si è "fermato a Cutro". Ma ieri da quelle persone è arrivato un messaggio chiaro, semplice, fortissimo: non si fa politica sul dolore. Non si specula. Gli 86 morti di Cutro sono una disgrazia, un tragico evento, una fatalità terribile. Ma certo nessuno di loro sembra accusare Meloni, come fatto da più parti a sinistra, di essere la responsabile pratica o morale di quel naufragio.
Il testimone: «Quel bambino non è annegato, è morto di freddo». ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 18 marzo 2023.
Tre ore nelle acque gelide di Steccato di Cutro. È morto di freddo, non annegato, stando alla testimonianza di suo zio, quel bimbo di sei anni. Quel bimbo, qualche giorno prima, era stato sgridato da uno degli scafisti perché faceva un video con un cellulare mentre i disperati si imbarcavano. Un particolare agghiacciante, che si ricava da una delle prime (tre) testimonianze approdate ieri al vaglio del gip del Tribunale minorile di Catanzaro Donatella Garcea nel corso dell’incidente probatorio a carico di un presunto trafficante non ancora maggiorenne, difeso dall’avvocato Salvatore Perri.
Quel bimbo, mentre nelle acque di Steccato naufragava un barcone facendo almeno 86 vittime, si era tuffato insieme al fratello e allo zio che si sbracciavano ma forze dell’ordine e soccorritori da terra non li vedevano. Quell’anima innocente che ha patito l’inferno, che è giunto morto in spiaggia tra le braccia del fratello, qualche giorno prima, mentre saliva sulla carretta, è stato rimproverato da uno degli organizzatori della tragica traversata, al punto che suo zio ci ha quasi litigato. Il cellulare con cui, magari per gioco, aveva scattato qualche immagine ormai è nei fondali, inabissatosi insieme al diritto negato di un’infanzia felice.
«Ho lasciato la Siria nel 2015 per raggiungere la Turchia, dove ho vissuto per otto anni lavorando come pavimentista e muratore» ha detto il superstite, un siriano, agli inquirenti, e l’ha confermato in aula, incalzato dalla sostituta procuratrice presso il Tribunale dei minori Maria Rita Tartaglia ma anche dall’avvocato Francesco Verri, del pool di legali che assistono (gratis) i familiari delle vittime.
«Dopo tanti tentativi andati a vuoto per arrivare in Italia, in cui sono stati arrestato, ho contattato, tramite Facebook, il palestinese Abo Naser, conosciuto tramite un amico il quale ha organizzato questo viaggio… La partenza era da Izmir, prima con altri migranti mi sono recato in una casa a Istanbul dove siamo stati nascosti per una notte. Siamo partiti di notte e siamo arrivati a bordo di un camion con altre 130 persone a Izmir». Gli è rimasto impresso, quell’uomo che ha sgridato il nipote, un pakistano, che poi ha riconosciuto come componente dell’equipaggio. «Ha sorpreso mio nipote filmare con il cellulare e l’ha rimproverato, e io ho litigato con lui». Il racconto prosegue con il cammino in un bosco e l’arrivo in spiaggia. «È arrivata quest’imbarcazione e siamo stati fatti salire, iniziato il viaggio, dopo alcune ore la barca ha avuto un’avaria e il personale dell’equipaggio ha fatto arrivare una seconda imbarcazione mentre ci hanno detto che la prima barca era affondata».
La testimonianza è importante anche perché l’uomo riconoscerebbe gli scafisti. «La seconda imbarcazione era guidata da due turchi e dal siriano i quali si alternavano. Ricordo che il siriano era di corporatura robusta ed era anche un meccanico poiché faceva manutenzione al motore. Oltre a loro, dell’equipaggio c’era anche un altro turco che aveva un tatuaggio con la forma di due lacrime sullo zigomo destro, che non guidava ma dava ordini a tutta l’imbarcazione. Mi è sembrato essere una sorta di capo perché dava gli ordini agli altri componenti dell’equipaggio. Lui era sempre seduto. Poi c’erano i due pakistani, uno che era quello che ha gestito lo spostamento da Izmir alla prima barca. Ricordo che tutti e due gestivano la folla sulla seconda imbarcazione e ci facevano salire per respirare un po’ d’aria ogni tanto e per fare i bisogni per poi farci ritornare nella stiva». Poi, l’inferno. «Circa quattro ore prima dell’urto della barca è sceso nella stiva uno dei due pakistani e ci ha detto che entro tre ore saremmo arrivati a destinazione. Con un cellulare ci ha fatto vedere la mappa per tranquillizzarci dell’imminente arrivo anche perché la gente iniziava ad agitarsi vista la traversata che durava da ormai quattro giorni. Lui si è ripresentato circa un’ora prima dello schianto, dicendoci di prendere i bagagli e prepararci a scendere perché eravamo quasi arrivati. Ma all’improvviso il motore ha iniziato a fare fumo, c’era tanto fumo nella stiva e puzza di olio bruciato. Ho sentito dire da altri migranti che un turco dell’equipaggio (quello di corporatura robusta) ha spinto al massimo la leva dell’acceleratore, rompendola. A seguito di ciò il motore è rimasto accelerato e nessuno sapeva come spegnerlo, anche perché iniziava a diffondersi il panico tra tutti. La gente nella stiva iniziava a soffocare ed a salire nella coperta. Io ho fatto in tempo ad afferrare mio nipote ed a salire in coperta, dopodiché la barca si è spezzata e l’acqua ha iniziato ad entrare dappertutto. Quando sono salito in coperta, senza più riscendere nella stiva, sotto c’erano circa 120 persone tra donne e bambini».
E la fuga degli scafisti. «Io non ho visto personalmente cosa hanno fatto ma mi hanno detto altri migranti che il componente siriano e due turchi hanno gonfiato un gommone e sono scappati». Ma la cosa tragica è che quando il barcone è affondato, «io, col nipote più grande e quello piccolino ci siamo tuffati in mare, siamo rimasti in mare per tre ore». Un dato che sembra coincidere con l’annotazione della guardia costiera che riferisce che soltanto alle 6.50 la motovedetta Cp 321 della guardia costiera di Crotone recupera un bambino deceduto e due uomini in ipotermia. L’allarme, invece, è scattato poco dopo le 4, ed è presumibile che il barcone si fosse già spezzato in due. Non erano uscite, le motovedette, perché la Direzione marittima di Reggio Calabria comunicava, in risposta ai finanzieri della Sezione operativa navale di Crotone che rientravano per le cattive condizioni meteo, di non avere «certezza della presenza di migranti a bordo e in considerazione che l’imbarcazione stava navigando regolarmente», si legge, invece, nella relazione delle Fiamme gialle. Eppure quel tratto lo battono da trent’anni i trafficanti di esseri umani con barconi ricolmi fino all’inverosimile.
Un altro pezzo della storia la racconta il fratello del bambino, ma sarà sentito successivamente. È lui che ha spiegato agli inquirenti che «l’imbarcazione andava molto veloce, ad una velocità mai adottata prima, i migranti erano terrorizzati, improvvisamente il natante ha urtato contro qualcosa e ha iniziato ad imbarcare acqua, ho preso mio fratello di sei anni e sono salito sopra coperta, il mare era agitato, io, mio zio e mio fratello ci siamo tuffati, mio fratello è morto perché l’acqua era freddissima, siamo stati in acqua tre ore ma mio fratello è morto già alla prima, vedevo le forze dell’ordine ma non riuscivano a vederci, sono riuscito a portare mio fratello in spiaggia ma era già deceduto». E questo pezzo del racconto forse va messo in rapporto con i ritardi dei soccorsi anche a terra. Ma ieri è stato sentito anche un altro pakistano che ha confermato anche lui quanto già riferito agli inquirenti. Un racconto che coincide con altri, dai 7000 euro versati per la traversata al vagare tra boschi e montagne fino al viaggio in camion per Izmir alla spiaggia da dove si parte con una barca di colore bianco, che poi ha problemi al motore e viene sostituita. Agli scafisti proponevano di chiedere aiuto a qualche peschereccio, ma uno di loro mostrava un tablet sostenendo che sarebbero arrivati a breve.
Dopo cinque giorni di traversata, finalmente giungono in prossimità della costa quando si sente un forte rumore, e da una falla lo scafo imbarca acqua. «Il livello dell’acqua sotto coperta è salito molto rapidamente generando caos a bordo, mi sono ritrovato in mare e mi sono aggrappato a un pezzo di legno, la corrente mi ha spinto a riva». Intanto, «i sei membri dell’equipaggio erano intenti a contattare telefonicamente qualcuno». Chissà se li aspettava qualcuno a terra. Dubbi sul ruolo di scafista del minorenne indagato li ha fatti emergere l’avvocato Perri, poiché uno dei testi pakistani ha sostenuto di aver pagato insieme a lui il taxi quando tornarono indietro, dopo una settimana di cammino, perché non trovarono l’imbarcazione in spiaggia. Dubbi, però, anche sui mancati soccorsi in mare, come quelli fatti emergere da una domanda dell’avvocato Verri a un altro pakistano. «Gli scafisti mi hanno rassicurato che chi ha affrontato il viaggio prima di me sapeva che, giunti in acque italiane, saremmo stati salvati. Sapevo che l’Italia protegge. Quando sono arrivato sulla spiaggia c’erano solo un pescatore e due carabinieri». Il resto è cronaca.
Cutro, il giallo dello zaino degli scafisti: “C’era un milione, è sparito”. Il Tempo il 19 marzo 2023
Nell'ambito delle indagini sul tragico naufragio di migranti a Cutro, Crotonese, spunta il giallo del "tesoro" degli scafisti. Secondo quanto riferito da uno dei superstiti, infatti, uno zainetto pieno di soldi che poteva contenere un milione di euro, forse un milione e mezzo, sarebbe sparito. Il calcolo della cifra è indicativo, e deriva dal fatto che i 180 profughi della Summer Love avevano pagato tra i quattromila e gli ottomila euro a seconda dell'età, in tutto si parala di 1.560.000 euro, riporta il Corriere che ha sollevato il caso.
I soldi secondo il testimone sentito dai magistrati "erano in uno zaino nero, grande, posto sotto il divano dove era seduto uno degli scafisti", ma da allora nessuno li ha visti più. "Non c’è stato nessun sequestro di denaro e non esiste un verbale depositato che lo certifichi", dice Francesco Verri, uno degli avvocati dei familiari delle vittime del naufragio mentre un funzionario della Mobile di Crotone, Ugo Armano, afferma che non risulta che sia stato trovato uno zaino pieno di soldi.
Il testimone afferma che un membro dell'equipaggio avrebbe anche parlato dello zaino con dentro "circa un milione". Dei cinque scafisti individuati tre sono arrestati a Cutro dopo il naufragio, uno otto giorni dopo in Austria e un altro risulta ancora latitante. Il sospetto è che sia lui ad avere il tesoro dei trafficanti, sempre che questo esista. La pista vien e definita "verosimile" e non viene scartata da chi conduce le indagini.
"Un milione nello zaino dello scafista": l'ultimo mistero del naufragio di Cutro. Francesca Galici il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.
Pare che gli scafisti del caicco naufragato a Cutro avessero con sé oltre un milione di euro ma di quella borsa non è ancora stata trovata traccia
Emergono nuove testimonianze sul naufragio di Cutro da parte dei migranti che si trovavano a bordo del caicco che si è schiantato contro la secca davanti alla costa, portando alla morte di decine di persone. Quel viaggio è costato ai migranti una cifra vicina ai 4mila euro per i bambini e 8mila euro per gli adulti. Considerando che a bordo dell'imbarcazione c'erano poco meno di 200 migranti, nelle tasche dei trafficanti è finito oltre un milione di euro. Un calcolo che sarebbe approssimativo ma vicino alla realtà, come hanno confermato anche alcune delle persone che sono state sentite dia magistrati.
"Nessun mayday da Frontex". Spunta la mail sul naufragio: come sono andate le cose
"Erano in uno zaino nero, grande, posto sotto il divano dove era seduto uno degli scafisti", ha riferito uno dei migranti. Di quello zainetto, però, non si trova traccia. Alcuni presunti scafisti sono stati fermati ma non avevano con sé il denaro. Nemmeno quello che è stato fermato alcuni giorni dopo alla frontiera aveva più con sé quel borsone. Ne mancano due all'appello ma uno risulta essere tra i morti del naufragio. Il quinto, invece, pare essere riuscito a scappare e a far perdere le sue tracce. Gli avvocati che difendono i sopravvissuti, come riporta il Corriere della sera, ne sono certi: "Non c’è stato nessun sequestro di denaro e non esiste un verbale depositato che l’ho certifichi". Sulla stessa linea anche il capo della mobile della polizia di Crotone, Ugo Armano: "Non risulta essere stato trovato uno zaino contenente denaro".
Le ipotesi sono tante, tra queste c'è anche quella che l'ultimo scafista arrestato, prima di essere fermato, possa aver ceduto il borsone a terzi o che lo abbia quello irreperibile. O, anche se improbabile, che lo zaino sia rimasto sulla barca e che, quindi, sia andato a fondo insieme al relitto. Attorno a questo zaino si è creato un vero e proprio giallo, perché il migrante che ne ha raccontato l'esistenza al magistrato è stato molto preciso nella sua descrizione: "Uno dei membri dell’equipaggio aveva con sé tanti soldi. Tra di noi, a bordo del caicco, si parlava che, in quello zaino, ci fosse circa un milione".
Per quanto il racconto del migrante sia preciso, c'è anche un'altra ipotesi che non può essere scartata, ossia che lo zaino con i soldi non sia mai salito sul mezzo a Smirne. Appare poco probabile che abbiano rischiato la traversata con una somma così ingente, quindi non è da escludersi che lo zaino visto sulla barca fosse in realtà un modello uguale a quello coi soldi ma senza il profitto di quella traversata.
Estratto dell'articolo di Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2023.
Il tragico viaggio dei profughi, da Smirne verso le coste calabresi, è costato oltre alla vita (88 di loro sono morti annegati nel naufragio di Steccato di Cutro), 4.000 euro per ogni minore e 8.000 per gli adulti. Sul «Summer Love» il caicco spezzatosi in due a 150 metri dalla riva, viaggiavano 180 persone(il numero esatto ancora non è stato accertato), di cui 30 minori.
L’organizzazione che cura le traversate di questi sventurati avrebbe quindi incassato 1.560.000 euro. Una cifra esorbitante che, come riferito da alcuni superstiti del naufragio, gli scafisti si sarebbero portati dietro, durante il viaggio.
«Erano in uno zainetto nero – hanno detto al magistrato - sistemato sotto il divano dove era seduto uno degli scafisti. Tra di noi si diceva potessero essere più di un milione». Lo zainetto, però, non è mai stato trovato, né c’è traccia nei verbali di sequestro del materiale rinvenuto sulla spiaggia. […]
L’ingente somma, infatti, potrebbe essere nelle mani dell’unico scafista riuscito a scappare subito dopo la tragedia. È un siriano e su di lui pende un mandato di cattura europeo. Gli altri quattro, di cui un minore, sono stati arrestati. Un quinto è morto annegato. Lo scafista in fuga, così com’è stato per Gun Ufuk, rintracciato in Austria dopo otto giorni, potrebbe aver raggiunto la Germania o i Paesi Bassi.
Così come è accaduto in passato l’organizzazione dei trafficanti di uomini potrebbe averlo aiutato a lasciare l’Italia con mezzi di fortuna. Ed è probabile che ciò sia avvenuto, con la complicità di qualcuno che era in attesa del loro arrivo, sulla spiaggia di Cutro. […]
La tragedia di «Utopia»: 132 anni fa il mare inghiottì gli emigranti, troppe le vittime di San Paolo Albanese. Il comune che pagò più di tutti in termini di vittime. Erano diretti in America. MARIAPAOLA VERGALLITO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 marzo 2023.
Una traversata, il sogno di una vita migliore, la voglia di ricongiungersi con i propri cari oltreoceano; poi, all’improvviso, un vento di burrasca, la necessità di fermarsi in porto per rifornimenti. Un errore umano, lo scafo in ferro cede, le 2.371 tonnellate sembrano una piuma. Le urla dei passeggeri sovrastano il vento di burrasca.
Nell’ufficio del sindaco di San Paolo Albanese, Mosè Antonio Troiano, c’è il modellino di un monumento in fase di realizzazione: sarà dedicato anche alle vittime che da San Paolo Albanese si imbarcarono e perirono.
Era il 17 marzo del 1891. Il piroscafo «Utopia» navigava nel mar Mediterraneo seguendo la rotta che partendo da Trieste conduceva i passeggeri a New York. Gli scali intermedi nei porti di Napoli e di Genova, permettevano di imbarcare altri (numerosi) emigranti italiani. E quello di Gibilterra era l’ultimo porto dove reperire i rifornimenti di viveri e carbone prima della traversata oceanica.
In quel pomeriggio di 132 anni fa la navigazione procedeva con difficoltà a causa della tempesta. Come raccontano le cronache dell’epoca e le ricostruzioni successive, il comandante decise di dirigersi ugualmente verso il porto per assicurare al vascello un ancoraggio sicuro. Entrando nella baia di Gibilterra si accorse che in rada c’erano diverse navi da guerra britanniche.
Pur se a bassa velocità, il comandante notò con disappunto che l’ormeggio a cui abitualmente attraccava il suo vapore era occupato dalle corazzate britanniche. Decise di attraversare il braccio di mare davanti ai due vascelli della Royal Navy ma in quel momento, secondo quanto riferì alla commissione di inchiesta il comandante, fu abbagliato dal faro della corazzata «Anson» che scandagliava il porto di Gibilterra durante la burrasca.
Un errore di valutazione che, unito al vento di burrasca, fu fatale. Il piroscafo affondò in meno di venti minuti. Morirono più di 500 persone, tra equipaggio e passeggeri. Impossibile fare un calcolo preciso delle vittime, perché molti passeggeri erano clandestini.
Quella storia sarà raccontata dal ricercatore Gianni Palumbo in un libro che sarà edito nel corso del 2023.
La Basilicata pianse molte di quelle vittime, che provenivano da almeno 10 comuni diversi, tra cui Matera e Potenza. Ma il sacrificio maggiore, in termini numerici, lo ha compiuto proprio il piccolo comune di San Paolo Albanese, con 12 vittime.
Il sindaco Mosé Antonio Troiano scorre lentamente il dito tra i dispacci di morte che arrivarono solo nel settembre successivo: Smilari Francesco, anni 62; Smilari Diamanda, anni 23; Troiano Caterina, anni 14; Trupo Andreana, anni 51; Buccolo Maddalena, anni 16; Blumetti Maddalena, anni 36; Osnato Maddalena, anni 41; Basile Giuseppe, anni 40; Blumetti Domenica, anni 29; Fioravante Maddalena, anni 34; Fioravante Raffaele, anni 24; Sassano Francesco Antonio, anni 32.
«Molti nomi sopravvivono ancora nelle generazioni di adesso - spiega il sindaco - segno, se mai ce ne fosse bisogno, che quella tragedia deve essere ricordata perché ci riguarda ancora. Sono corsi e ricorsi storici, è successo all’epoca e succede oggi. E succederà ancora se non si prendono dei provvedimenti. Sull’Utopia alcuni avevano il biglietto per andare in America ma sappiamo anche che nelle stive c’erano tanti clandestini senza un permesso regolare».
Scappare da una guerra e sentirsi accolti e integrati: fu il destino delle comunità Arbëreshë che si stanziarono in Italia tra il XV e il XVIII secolo dopo la morte dell’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Skanderbeg. «Fu una storia di accoglienza - spiega il sindaco - perché i nostri avi sono stati accolti. Ma fu anche una storia di integrazione nella comunità italiofona. Oggi dovremmo parlare anche di uguaglianza, perché siamo un unico popolo».
Uomini o trafficanti. La storia di Diouf, condannato come scafista anche se non lo era. Valerio Nicolosi su L’Inkiesta il 20 Marzo 2023.
Nella sua vicenda ci sono le storture dell’ordinamento giuridico italiano che considera complice chiunque sfiora il timone, o passa una tanica di benzina, quando i veri organizzatori della tratta restano al sicuro sulle coste libiche
Sorriso timido e sguardo buono, Diouf Alaji sembra molte cose ma tra queste non c’è sicuramente un galeotto o un trafficante di essere umani. Però per lo Stato italiano è entrambi: condannato a otto anni di reclusione per essere lo scafista di un’imbarcazione partita dalla Libia con circa centotrenta persone a bordo, otto delle quali morte per asfissia durante il viaggio.
Nella storia di Diouf Alaji c’è il paradosso dell’ordinamento giuridico italiano e del sistema messo in atto in questi anni per contrastare il traffico di esseri umani. Sei uno «scafista» se porti l’imbarcazione anche solo per un breve tratto, oppure se aiuti chi lo sta facendo e, nel suo caso, anche se un uomo che viaggiava in un barcone vicino al tuo ti taccia di essere lo scafista, anche se l’accusa non viene confermata dalle persone che viaggiano con te.
Per raccontare meglio questa storia però dobbiamo fare un passo indietro, al 2005, quando in un piccolo villaggio del Senegal muore un uomo che lascia sua moglie e i suoi figli. La donna fisicamente non è in grado di lavorare e i figli interrompono il percorso scolastico e vanno a lavorare per sostenersi e sostenere tutta la famiglia. Cose che a noi oggi sembrano lontane e difficili da immaginare nel “nostro mondo” ma che accadono ancora in Senegal come in molti altri Paesi.
Diouf è uno dei figli rimasti orfani di padre e inizia a lavorare come piastrellista, ma i soldi sono pochi e la fame è tanta, così nel 2015 decide che l’Europa è la sua destinazione, perché vuole continuare a fare il piastrellista ma vuole anche vivere e far vivere la sua famiglia dignitosamente. In Senegal pensare di andare via per lavorare e inviare soldi è qualcosa di comune, quasi il dieci per cento del Pil nazionale si basa proprio sulle rimesse di chi si trova in altri Paesi, principalmente nel vecchio continente.
Mali, Burkina Faso e Niger, le rotte migratorie non sono mai lineari ma disegnano linee impreviste dettate della permeabilità delle frontiere e dai rapporti dei trafficanti con una polizia locale invece che con un’altra. Un chilometro alla volta, una tangente dopo l’altra da pagare a chi controlla quelle zone, Diouf attraversa il deserto e arriva in Libia.
«Molti di quelli che viaggiavano con me sono rimasti indietro perché non avevano i soldi, io invece ho portato tutti i risparmi della mia famiglia e abbiamo chiesto anche un aiuto ai nostri parenti», racconta mentre passeggiamo per i giardini del quartiere Esquilino di Roma, dove abita in una casa messa a disposizione dell’associazione Baobab Experience.
Dei centri di detenzione in Libia da anni ormai sappiamo che sono luoghi infernali dove la vita vale poco o nulla, dove le donne sono vittime di abusi e che gli uomini sono torturati ai fini di pagare un riscatto. Diouf spende gli ultimi duemila euro del suo tesoretto per salire su di un barcone alla volta dell’Italia.
«Eravamo in centotrenta nel barcone, talmente tanti e stretti che non potevamo distendere neanche le gambe», mi racconta mentre gli spunta un sorriso amaro e aggiunge: «Io del mare ho sempre avuto paura. Era vicino a casa mia ma non ci andavo mai».
Di quella traversata Diouf ricorda il mare mosso, la paura, le tante ore immobili e soprattutto le sette donne e l’uomo che sono morti a bordo per asfissia, prima che arrivasse la Guardia Costiera italiana a soccorrerli.
Diouf arriva al porto di Taranto insieme ad altre centinaia di persone, soccorse da diversi barconi e trasbordati su di una nave civile. Al momento dello sbarco vengono divisi in base alla barca di provenienza e la Guardia di Finanza inizia a interrogare i migranti per capire chi fossero gli scafisti. Diouf viene indicato come tale da un uomo che aveva perso la sorella durante la navigazione, però l’uomo che lo accusa non si trovava sulla sua stessa barca, dettaglio non irrilevante visto anche l’alto numero di persone a bordo.
Nessuno di chi viaggiava con Diouf conferma questa tesi, ma lui tutto questo lo saprà tempo dopo, perché non solo non parla italiano ma nemmeno inglese, francese e arabo; parla solo la lingua mandinga e quando viene portato negli uffici della Guardia di Finanza e poi tradotto in carcere dalla Polizia, lui continuerà a non sapere cosa stia accadendo.
«In carcere quando mi hanno interrogato, io parlavo solo mandinga e non comprendevo le domande che mi venivano rivolte». Dalla sentenza, invece, risulta che lui abbia detto di parlare solo wolof e che le domande dell’interrogatorio gli siano state rivolte in inglese, francese ed arabo. «Può essere un interrogatorio valido?», mi chiede retoricamente e aggiunge: «Se capitasse oggi potrei difendermi perché capisco e parlo italiano».
La sentenza di primo grado è di dodici anni di reclusione con il rito abbreviato, evidentemente l’avvocato d’ufficio non ha creduto alla sua innocenza o non ha voluto investirci tempo. In Corte d’Appello viene ridotta a otto anni ma la sentenza sembra più una beffa che una conquista: «Gli imputati non sono gli organizzatori del viaggio, questi ultimi rimasti al sicuro sulle coste libiche – recita la sentenza e prosegue – bensì altri disgraziati che hanno accettato tale compito per fuggire anch’essi dalla condizione in cui versavano in patria. Dunque scafisti improvvisati se è vero che essi venivano allenati sulla spiaggia alla conduzione dei gommoni poco prima della partenza».
Disgraziati, nonostante Diouf Alaji rifiuti anche questa ricostruzione: «Io non l’ho mai portata una barca, io sono un piastrellista e questo so fare», ribadisce spesso interrompendo il suo racconto.
Oggi è un uomo libero e da poche settimane lavora come piastrellista, ha scontato quasi sette anni di carcere che lo hanno provato molto. «Ho tentato più volte il suicidio, soprattutto quando è morta mia mamma e io ero ancora in prigione. È stata molta dura e ho pensato di usare una corda per impiccarmi». Il racconto si ferma, due sussulti della testa tradiscono un singhiozzo nervoso, seguito dalle lacrime. «Mio fratello mi ha detto che nostra mamma è morta con la mia foto sotto al cuscino, per me è ancora un dolore grandissimo», chiosa mentre reprime il pianto.
Il Testo unico sulle migrazioni all’articolo 12 prevede la condanna per «chiunque promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato», basta anche solo passare una tanica di benzina per essere tecnicamente condannati, nonostante anche la Corte d’Appello di Lecce nella sentenza escluda il collegamento tra i migranti condannati e i trafficanti, quelli che sulle barche non ci mettono piede e non penserebbero mai di “sacrificare” un proprio uomo, sapendo che finirebbe in carcere.
Dopo la tragedia di Cutro si è tornato a parlare di scafisti e il decreto governativo ha inasprito le pene per quest’ultimi sapendo benissimo che la rotta turco-calabra ha bisogno di persone esperte nella navigazione perché le imbarcazioni di solito sono a vela e comunque sono grandi e difficili da comandare, ma sanno bene che è anche una rotta marginale: a fronte dei ventimila arrivi in Italia dal 1 gennaio a oggi, solo 689 sono avvenuti su quella rotta mentre dodicimila circa dalla Tunisia e poco più di settemila dalla Libia, in questi ultimi due casi le piccole imbarcazioni utilizzate non sono mai guidate dai trafficanti o da uomini legati a loro.
«Il caso di Diouf Alaji ci mostra come in Italia si possa verificare una vera e propria sospensione dello stato di diritto ma soprattutto che fin quando non ci sarà la modifica dell’articolo 12 del Testo unico sulle migrazioni, che definisce trafficante qualunque migrante sfiori per un attimo il timone, ci saranno casi come questo», commenta Alice Basiglini portavoce dell’associazione Baobab Experience, che sta sostenendo Diouf insieme all’avvocato Francesco Romeo.
«Stiamo chiedendo la revisione del processo perché vogliamo dimostrare che lui non è uno scafista, che non ha portato quell’imbarcazione e che non gli è stato garantito il diritto di difesa che la nostra Costituzione definisce inviolabile, Diouf non ha compreso nemmeno di quale reato è stato accusato, per quale delitto è stato processato e poi condannato», conclude l’avvocato.
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 20 marzo 2023.
Non c’è mai stato alcun dubbio che quella barca fotografata dall’aereo di Frontex la sera di sabato 25 febbraio nascondesse sottocoperta dei migranti. Tre settimane dopo il naufragio di Cutro, altri documenti aiutano a ricomporre la verità, inserendo nuovi tasselli nel puzzle che la Procura di Crotone sta ricomponendo e nel quale sempre di più emerge la sottovalutazione di un evento trattato come caso di polizia invece che di soccorso. […]
Un appunto, nel giornale delle operazioni di quella notte della Guardia di finanza, scritto a penna dall’ufficiale di turno alle 23.20, un’ora dopo l’avvistamento del caicco in arrivo dalla rotta turca da parte dell’aereo di Frontex rivela quello che era chiaro sin dall’inizio. «Si comunica avvistamento Eagle 1 di natante con migranti», scrive l’ufficiale dopo aver ricevuto da Roma la nota di Frontex, affidando al giornale delle operazioni quella che è la logica ed evidente interpretazione (ma fin qui negata da tutti) di perché quella imbarcazione segnalata da Frontex sia sospetta.
E cioè perché trasporta migranti: non lo dice chiaramente il dispaccio di Frontex che segnala una sola persona sul ponte e dà conto di una rilevazione termica consistente sottobordo, ma lo dice la logica e l’esperienza dell’ufficiale di turno quella sera alla sala operativa della Guardia di finanza. Che dispone l’uscita della motovedetta V5006 prima e del pattugliatore Barbarisi poi.
Ma, attenzione, perché poi quella notazione a penna «natante con migranti» registrata alle 23.20 del sabato (dunque quando il caicco è ancora in navigazione) sparisce poi dalla annotazione di polizia giudiziaria che la sezione operativa navale di Crotone della Guardia di finanza redige il giorno dopo, la domenica 26, quando la tragedia si è ormai compiuta. Da quel momento in poi il caicco diventa per tutti solo una barca «sospetta», non si sa per cosa.
Nel fascicolo dell’inchiesta c’è anche la relazione della sala operativa del reparto aeronavale di Vibo Valentia che offre risposte precise alle domande: chi, quando e perché ha deciso l’intervento dei mezzi della Guardia di finanza in una operazione di law enforcement.
Alle 23.20 di sabato 25, quando il comando generale della Finanza trasmette in Calabria il dispaccio di Frontex, la sala operativa «dispone che la vedetta 5006 effettui pendolamenti in zona Capo Colonne in attesa che il target entri nelle acque nazionali. Pertanto la V5006 procede per ritorno in Crotone per effettuare il rifornimento e ritornare in zona».
In altre parole: per effettuare l’operazione anti immigrazione la Finanza aspetta che il caicco, segnalato da Frontex a 40 miglia a sud di Crotone, dunque in acque internazionali, entri nelle nostre acque territoriali. E nel frattempo va a fare gasolio.
Non senza però accertarsi di cosa stia facendo la Guardia costiera. Che — qui la conferma — alle 23.20 è informata di tutto. Si legge ancora nella relazione della Finanza: «Contattata Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, riferisce di essere a conoscenza del natante. Attualmente non hanno predisposto alcuna imbarcazione, in caso di necessità faranno uscire unità di Crotone».
Ma la «necessità» non scatta nemmeno quattro ore dopo quando i mezzi della Guardia di finanza comunicano che stanno rientrando in porto per le condizioni meteo. Il mare — si apprende ancora dalla relazione della Finanza — è forza 4, di operazioni con onde più alte in passato se ne sono fatte tante.
E però sia la motovedetta V 5006 che il pattugliatore Barbarisi rinunciano a effettuare la loro operazione di polizia. Logica vorrebbe che se le condizioni meteomarine sono proibitive per mezzi così performanti qualsiasi altra barca dovrebbe essere considerata a rischio, soprattutto se sospettata di trasportare migranti. E dunque, non a caso, la sala operativa del gruppo aeronavale richiama la Guardia costiera.
Sono le 3.20 di domenica 26 febbraio, venti-trenta minuti prima di quando il caicco (ormai arrivato a poche miglia dalla costa) si infrange contro una secca a Steccato di Cutro dopo una brusca manovra degli scafisti. Ma torniamo ai registri della Guardia di finanza: «La Capitaneria di porto di Reggio Calabria, alla richiesta se avevano unità pronte a muovere, comunicava che non avendo ricevuto richiesta di soccorso e non avendo certezza della presenza di migranti a bordo e che l’imbarcazione sta navigando regolarmente, non hanno predisposto uscita di unità navale». […]
La nota sparì e la Guardia Costiera rimase in porto. Strage di Cutro, l’appunto “natante con migranti” smentisce la ricostruzione ufficiale: la Finanza sapeva. Riccardo Annibali su Il Riformista il 20 Marzo 2023
A tre settimane dal naufragio emerge un documento che inchioda la Guardia di Finanza e smonta molte delle ricostruzioni ufficiali delle autorità fatte su quanto accaduto tra la tarda serata di sabato 25 febbraio e l’alba di domenica 26, quando un barcone carico di migranti si schiantò contro una secca a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Cutro dopo una navigazione con mare forza 4.
La versione più volte ribadita in Parlamento dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che vorrebbe le autorità italiane allertate da Frontex (’agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne) della presenza di un’imbarcazione in difficoltà tra le onde senza sapere che essa trasportasse migranti è stata smontata da un appunto scritto a mano da un ufficiale di turno della Guardia di Finanza e oggi pubblicato da La Repubblica.
“Si comunica avvistamento Eagle 1 di natante con migranti”, recita l’appunto a penna sul giornale delle operazioni alle 23.20 vergato subito dopo la segnalazione arrivata da Frontex che, seppur non indicava la presenza di migranti a bordo, dava informazioni sufficienti a capire la situazione, soprattutto con il dato che riportava la rilevazione termica sottobordo. Tanto che l’ufficiale di turno disponeva l’uscita della motovedetta V5006 e del pattugliatore Barbarisi.
Non è ancora chiaro perché a quella segnalazione non fece seguito un intervento SAR. È un fatto – rivela La Repubblica – che quell’appunto il giorno dopo risulta sparito. Non ve n’è traccia nell’annotazione di polizia giudiziaria che la sezione operativa navale di Crotone della Gdf redige domenica 26 febbraio, a tragedia avvenuta.
Alle 23.20 del sabato sera, il comando generale della Guardia di Finanza dispone “che la vedetta 5006 effettui pendolamenti in zona Capo Colonne in attesa che il target entri nelle acque nazionali”. Indizio di una ‘melina’ della Gdf in attesa che il caicco, che si trova in acque internazionali, entri in quelle territoriali. In quel momento la Guardia Costiera è già informata. “Contattata Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, riferisce di essere a conoscenza del natante”, ma non essendo stato attivato alcun protocollo SAR, “attualmente non hanno predisposto alcuna imbarcazione, in caso di necessità faranno uscire unità di Crotone”. Nessuno interviene e il mare intanto cresce fino a raggiungere forza 4 tanto che a notte fonda i mezzi della Gdf sono costretti a rientrare in porto per “condizioni proibitive per quelle imbarcazioni”. Non più di mezz’ora dopo, a seguito di una brusca manovra degli scafisti in balia delle onde alte, il caicco s’infrange contro una secca a poche centinaia di metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro. Ad oggi ancora si contano i morti, arrivati a 86. Riccardo Annibali
«Mi sono salvato a nuoto grazie a un pezzo di legno. I soccorsi? Sono arrivati mezz’ora dopo». I parenti delle vittime piangono i propri cari deceduti nella strage di Cutro. Continua l’incidente probatorio al tribunale dei minorenni di Crotone: oggi il secondo confronto tra i sopravvissuti e il 17enne accusato di essere tra gli scafisti. Il suo legale: è innocente, aiutava solo i migranti durante la traversata. Il legale dei familiari delle vittime: «Sono trascorsi troppi tragici minuti dall'urto all’arrivo dei soccorsi». Simona Musco Il Dubbio il 20 marzo 2023
«Ho sentito una botta, ero sopra. Mi sono salvato a nuoto, salendo sopra un legno. Ci ho messo mezz'ora ad arrivare in spiaggia a nuoto. Ribadisco che ci ho messo mezz'ora e a terra non c'erano ancora i carabinieri». Khan Asif, uno dei sopravvissuti al tragico naufragio di Cutro, nel quale hanno perso la vita almeno 87 persone, era solo quando, miracolosamente, ha raggiunto la spiaggia a nuoto dopo che la nave su cui si trovava si è spezzata in due. Una tragica conferma del fatto che quella notte, nonostante le autorità sapessero della possibilità che una nave carica di migranti stesse affrontando il mare in tempesta, la macchina dei soccorsi è partita in ritardo. Tant’è che anche i primi ad arrivare sul luogo del disastro - i carabinieri - ci hanno messo almeno 30 minuti prima di raggiungere i naufraghi. Il particolare è emerso oggi, nel corso dell’incidente probatorio in corso davanti al tribunale dei minori, che si concluderà domani con gli ultimi quattro testimoni.
Da una parte, dunque, i sopravvissuti, dall’altra un 17enne, anch’egli scampato al tragico naufragio di Cutro, ma per la procura di Crotone tra gli scafisti che hanno intascato denaro per portare in Italia 180 migranti. Un’accusa che il giovane pakistano respinge, confortato dalle testimonianze in corso a Crotone. «Anche questa volta - spiega al Dubbio Salvatore Perri, difensore dei due pakistani accusati, assieme a tre turchi e un siriano, di aver organizzato la traversata -, uno dei testi sentiti nel corso dell’incidente probatorio ha confermato che il mio assistito ha tentato insieme a lui ad imbarcarsi qualche giorno prima dello sbarco poi terminato in tragedia, ma che non ci sono riusciti perché la barca non è arrivata e loro hanno fatto rientro a Istanbul con un taxi insieme anche all'indagato, taxi che hanno pagato un po' ciascuno». Il teste avrebbe inoltre spiegato che «chi poteva aiutare lo faceva e che è rimasto tutto il tempo del viaggio sulla coperta, soprattutto sulla prima nave. Ma non solo lui, circa una ventina di persone. Rispetto all’altro indagato che assisto - ha aggiunto -, il teste ha spiegato che da solo non poteva fare nulla: erano i turchi a dare indicazioni. Erano i turchi a indicare cosa fare e cosa dire e a spiegare come sarebbe andato il viaggio. Un teste - ha spiegato poi - ha riferito che i comandanti turchi hanno chiesto ai migranti di lasciare le lire turche che avevano e le avrebbero raccolte per loro. Ma non era assolutamente la quota di viaggio: a domanda specifica della difesa delle persone offese, hanno riferito che il viaggio è stato pagato con il metodo Hawala, ovvero mediamente il deposito a un soggetto terzo nel paese di provenienza». Presente all’incidente probatorio anche l'avvocato Francesco Verri, tra gli avvocati del team che assiste i parenti delle vittime. «Abbiamo ricevuto la conferma - ha detto dopo l’udienza - che sono trascorsi troppi tragici minuti dall'urto della barca con la secca fino a quando non sono arrivati i soccorsi, persino a terra. Questo aspetto sta emergendo prepotentemente nell'incidente probatorio».
I racconti dei superstiti sono chiari. «Mi hanno detto: “Vai con la nave e arrivi in Italia, senza specificare dove esattamente” - ha raccontato Khan Asif -. Era la prima volta che cercavo di venire. Sono salito su una prima nave bianca. Poi abbiamo cambiato barca. Non c'erano salvagenti in nessuno dei due casi. Molte persone si sentivano male. In questo caso potevano salire sopra per poco. Il permesso lo dava il comandante. Sono salito su, si vedevano le luci dell'Italia, il mare era grosso, c'erano onde». Poi lo schianto e l’arrivo, a nuoto, sulla spiaggia. «La prima barca era buona ma piccola. Poi ci siamo spostati su un'altra barca. La guidavano in tre - ha aggiunto -. I viaggiatori erano seduti sotto ma anche sopra. Potevamo salire tranquillamente sopra e fermarci 10/15 minuti. C'erano due persone che accompagnavano le persone su e giù. L'indagato era anche nella prima barca. La seconda barca era vecchia. Non c'erano salvagenti. Respiravo male e quindi salivo sopra - ha spiegato un altro testimone -. Sapevamo solo che ci avrebbero portato in Italia, non dove».
Il 17enne accusato di essere uno scafista «aiutava le persone a salire sopra, traduceva perché parlava turco. Viaggiava sopra, stava con un'altra persona del Pakistan. Uno dei due pakistani ha raccolto dei soldi sulla barca. Anche l'indagato ha raccolto denaro. Giravano con una borsa. Quando stavamo arrivando, la navigazione proseguiva tranquillamente. Il mare era agitato. Eravamo preoccupati. Avevamo anche ansia di arrivare. Anche quelli che stavano sopra erano coperti. Quando il mare si è molto agitato i comandanti sono scappati. Era buio. Non so nuotare, mi ha salvato Dio: sono stato espulso verso la riva con l’aiuto di un pezzo di legno. Quando sono arrivato a terra c’erano solo due pescatori, i carabinieri sono arrivati 10/15 minuti dopo. Ho pagato il viaggio in contanti in Turchia ma quel denaro è stato tenuto bloccato. Della consegna si è occupato mio cugino».
Cutro, i superstiti: «Pensavamo che l’Italia ci avrebbe salvati». Iniziato venerdì al Tribunale dei minorenni di Catanzaro l’incidente probatorio. Simona Musco Il Dubbio il 19 marzo 2023
«Il quarto giorno il mare è diventato brutto. Abbiamo pregato e basta. Dopo l'urto ognuno ha cercato di salvasi da solo, aggrappandosi a dei pezzi di legno della barca». A raccontarlo venerdì uno dei superstiti del naufragio di Steccato di Cutro, nel quale hanno perso la vita almeno 8y persone. Il giovane è stato ascoltato nel corso dell’incidente probatorio davanti ai giudici del Tribunale dei minorenni di Catanzaro che devono stabilire la responsabilità del 17enne pakistano indicato come uno degli scafisti.
«Prima di partire - ha spiegato - gli scafisti non ci hanno detto se l'arrivo sarebbe stato sicuro o insicuro, sulla spiaggia o in un porto. Ma noi contavamo sul fatto che appena giunti nelle acque italiane ci avrebbero salvato. Nessuno degli scafisti ha aiutato noi passeggeri naufraghi dopo l'urto, c'erano solo due carabinieri in spiaggia che aiutavano. Anche io ho salvato persone. Ho nuotato dieci, dodici minuti per arrivare a terra».
Quella di venerdì è stata la prima delle tre giornate calendarizzate per l’incidente probatorio, durante il quale il 17enne ha ribadito la propria innocenza. Secondo l’accusa, avrebbe avuto un ruolo determinante prima come organizzatore del viaggio e poi durante la navigazione. Accuse che il giovane, assistito dall’avvocato Salvatore Perri, ha respinto. E secondo il legale si tratterebbe di un capro espiatorio, al pari dell’altro pakistano finito in carcere, anch’egli suo assistito. I tre superstiti hanno confermato che a gestire la navigazione erano tre turchi e un siriano, così come dichiarato nell’immediatezza anche da molti altri naufraghi. Il 17enne si sarebbe dunque limitato a “tradurre” gli ordini impartiti dagli scafisti. Ma non solo: uno dei testimoni sentiti venerdì, già una settimana prima del tragico sbarco, aveva tentato di imbarcarsi da Smirne, tornando indietro perché la barca attesa non è mai arrivata. Il giovane ha dunque fatto ritorno a Istanbul in taxi proprio assieme al 17enne, con il quale ha diviso la spesa per il viaggio.
«Mi hanno fatto stare sempre sottocoperta - ha raccontato un altro superstite -. Non mi sono reso conto che il mare era così tanto agitato, da sotto non si sentiva. Poi mi sono molto preoccupato. Non ho ancora pagato il prezzo: 8.100 euro. Gli scafisti mi hanno rassicurato ha aggiunto -, ma da chi aveva affrontato il viaggio prima di me sapevo che, giunti nelle acque italiane, saremmo stati salvati. Sapevo che l'Italia protegge. Quando sono arrivato sulla spiaggia c'erano solo un pescatore e due carabinieri». Il terzo superstite ha raccontato i momenti successivi allo schianto sulla secca: una volta spezzatasi la nave, è stato tra i primi a buttarsi in acqua. «Ero con due nipoti - ha raccontato - uno di 22 e l'altro di 6 anni. Siamo rimasti in acqua tre ore. Dopo un'ora il bambino è morto di freddo. Ci sono volute due ore perché arrivasse la Guardia costiera». Tra i migranti c’erano diversi pakistani, aveva spiegato l’avvocato Perri nei giorni scorsi al Dubbio, «ed è palese che l’unico tra i fermati ad essere stato identificato con certezza, grazie anche al contributo dei miei assistiti, è il turco, aggredito sulla spiaggia dai sopravvissuti davanti agli occhi delle forze dell’ordine». Ad incastrare i due giovani pakistani assistiti da Perri, dunque, il loro farsi “tramite” rispetto alle richieste degli scafisti. «Una cosa assolutamente frequente negli sbarchi: come potrebbero quattro scafisti tenere a bada, da soli, 180 persone? I miei assistiti hanno pagato al pari degli altri per partire e non si sono sottratti alla ricerca dei responsabili. Perché si parla di componente strutturale pakistana se è certo, da oltre 10 anni, che gli indizi per identificare gli scafisti stanno nell’eccentricità della nazionalità, il possesso di documenti di riconoscimento e di mezzi per la fuga? Non vorrei che, proprio perché ci sono tante vittime, si cerchi in qualche modo un contrappeso. Non sarebbe giusto. Si tratta di disperati, glielo assicuro».
Estratto dell’articolo di Giusi Fasano per corriere.it il 22 marzo 2023.
Finora avevamo visto soltanto un frame. Una singola immagine che Frontex aveva allegato alla sua segnalazione. Questo invece è il video intero. Sono le ultime immagini del caicco intero della strage di Cutro.
Sono nel fascicolo della procura di Crotone e serviranno a definire se e quanto fosse possibile - a partire proprio da queste immagini - parlare di situazione pericolosa per la vita delle persone. Il parametro del pericolo per la vita umana avrebbe escluso ogni interpretazione e avrebbe obbligato la Guardia Costiera a intervenire subito aprendo una operazione di soccorso (Sar). Sappiamo che non è stato così. È stata avviata una operazione di polizia, law enforcement, della Guardia di Finanza.
[…] Quella persona (sembra un uomo) si muove agevolmente verso prua, segno che il mare, per quanto agitato, in quel momento non era proibitivo. […] Non ci sono elementi visibili e certi sulla presenza di migranti a bordo. Ma l’imbarcazione è sospetta lo stesso. Perché i sistemi a bordo dell’Eagle 1 rilevano una risposta termica «significativa» in prossimità dei boccaporti, segno - appunto - di un possibile carico umano.
E in più Eagle 1 registra pure un flusso di chiamate fra la barca e la Turchia, e anche questo depone a favore della tesi del trasporto migranti. Dopo il monitoraggio Eagle 1 si allontana. Andandosene riprende la barca con una inquadratura più distante che la mostra fra le onde più dondolante di quanto sembra osservata da più vicino. […]
Estratto dell'articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2023.
«L’accordo era per il pagamento di 8.300 euro, lasciati a garanzia in una agenzia Hawala di Kabul. Se fossimo arrivati a destinazione, i trafficanti li avrebbero ricevuti con un’operazione di money transfer. Io non ho sbloccato il pagamento. L’hanno fatto direttamente gli scafisti quando hanno visto che non ero morto. Hanno guardato le immagini che i familiari dei sopravvissuti hanno girato all’interno del centro di accoglienza e così hanno saputo chi di noi era rimasto vivo».
Un tassello in più nel puzzle spietato dei trafficanti di vite umane: intascare i soldi della traversata anche se è finita con una strage (88 i corpi finora recuperati davanti alla costa calabrese di Cutro). Chi rimane vivo paga. […]
Lo racconta Rohullah Kabiry, afghano classe 1994, sopravvissuto al naufragio del 26 febbraio e sentito ieri, davanti al giudice delle indagini preliminari nell’incidente probatorio che dovrà stabilire ruoli e responsabilità di uno dei presunti scafisti, il minorenne.
Rohullah non ha precisato né come i trafficanti abbiano potuto sbloccare il denaro lasciato in deposito, né come ha saputo di quella dinamica, cioè gli scafisti che avrebbero visto le immagini dei superstiti e preteso i soldi. Dalle sue dichiarazioni si direbbe che la cifra da pagare fosse interamente vincolata, anche se spesso i migranti pagano subito una parte della somma concordata e versano il saldo a viaggio concluso.
«Sono stati giorni drammatici», commenta Francesco Verri, uno degli avvocati che (in team con altri tre) difende un gruppo di sopravvissuti e i loro familiari. «Ma con questo incidente probatorio abbiamo messo a fuoco i fatti meglio di quanto avessimo fatto finora». […]
Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” il 22 marzo 2023.
[…] il cinismo che emerge dalle ultime testimonianze dei sopravvissuti al drammatico naufragio di Steccato di Cutro costato la vita a un centinaio di migranti, rasenta il macabro se è vero come sembra che coloro che hanno organizzato il viaggio da Smirne alle coste calabresi avrebbero preteso il pagamento delle quote - comprese tra i 7 e gli 8 mila euro ciascuno - anche dopo la tragedia, perlomeno da parte dei sopravvissuti.
[…] Di fronte al giudice, Kabiry Rohullah ha raccontato: «I familiari hanno fatto visita alle persone superstiti nel centro di Sant'Anna. Hanno fatto le foto e così i trafficanti hanno saputo chi era vivo», ha raccontato il ragazzo. «Per la traversata in mare ho pagato la somma di 8.300 euro» e i trafficanti «li avrebbero ricevuti tramite money transfer».
Chi era presente all'audizione in aula lo ha interpretato cosi: «Sembrerebbe essersi trattato di un macabro gioco a premi: chi è sopravvissuto – racconta l'avvocato Francesco Verri, legale di alcuni familiari delle vittime del naufragio - ha pagato il biglietto dopo che gli organizzatori del viaggio hanno acquisito la prova della buona riuscita del traffico; chi non ce l'ha fatta è stato esonerato dal versamento».
Un'ipotesi che verrà vagliata dagli inquirenti di Crotone, asserragliati da settimane in un prolungato silenzio sul fronte investigativo. […]
Strage di Cutro, l'inchiesta porta a Kabul. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 20 marzo 2023
CUTRO (CROTONE) – Porta dritto fino a Kabul l’inchiesta avviata dalla Procura di Crotone per fare luce sul tragico naufragio del 26 febbraio scorso, in cui sono morti almeno 87 migranti che viaggiavano stipati in un caicco schiantatosi contro una maledetta secca. Emerge dalle testimonianze dei superstiti che presto approderanno nell’incidente probatorio che si sta celebrando dinanzi al Tribunale minorile di Catanzaro (le udienze proseguono oggi e domani), poiché uno dei presunti scafisti, un giovanissimo pakistano, non ha ancora compiuto 18 anni.
L’inchiesta porta a Kabul perché, stando a quanto stanno raccontando agli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Crotone i superstiti, gli organizzatori della tragica traversata sono afghani. Al vaglio degli inquirenti ci sono nomi e immagini. Sì, anche immagini. Perché, da quanto è stato possibile apprendere, uno dei migranti, durante un interrogatorio svoltosi al Centro d’accoglienza S. Anna, ha mostrato d’iniziativa due video, contenuti nella memoria del suo cellulare, in cui viene filmata la consegna di somme, da parte dei suoi familiari, a trafficanti afghani. La conferma viene da uno degli avvocati nominati per assistere i migranti. Già, perché – è un paradosso – gli scampati al massacro rivestono pure lo status di indagati, con l’accusa di violazione della legge sull’immigrazione, essendosi introdotti “clandestinamente” nello Stato italiano, anche se avranno con ogni probabilità accolta la loro richiesta d’asilo perché fuggono da massacri e persecuzioni, considerati i Paesi di provenienza.
La consegna del denaro sarebbe avvenuta a Kabul e dalle immagini si notano i volti di chi prende in mano i dollari. Le cifre versate da ciascuno dei migranti variano dai settemila agli ottomila dollari. Uno di coloro che ricevono il denaro ha la barba bianca, sembra anziano. Secondo un’altra testimonianza uno degli organizzatori afghani ha un nome. Quello di Said Reza. Il teste ricorda che come garanzia di pagamento suo padre aveva impegnato una villa e un terreno di cui sarebbe divenuto proprietario un mediatore, in caso di viaggio andato a buon fine; un mediatore che al trafficante afgano avrebbe versato anticipatamente 120mila euro al trafficante.
Ammonterebbe complessivamente a un milione il bottino racimolato dai sei presunti membri dell’equipaggio, uno, un siriano, ancora irreperibile, quattro, turchi e pakistani, fermati, e un sesto, un altro turco, morto nel naufragio. Chissà che fine ha fatto quello zaino nero contenente il denaro e che, secondo le testimonianze dei migranti, era custodito sotto il sedile su cui si accomodava uno degli scafisti. A questo punto non è azzardato ipotizzare che le indagini sulla tratta potrebbero passare alla Dda di Catanzaro, perché i requisiti dell’associazione a delinquere sembrano esserci tutti, tanto più che l’organizzazione transnazionale che lucra sulla pelle dei migranti disponeva di diverse imbarcazioni. La “Luxury 2”, che ad alcuni disperati sembrava costruita per far viaggiare “persone importanti”, dopo un’ora di navigazione aveva già un’avaria al motore ed è stata sostituita con quel legno malandato denominato “Summer Love”. Del resto, la Dda guidata dal procuratore Nicola Gratteri indaga da tempo sulla rotta dell’Egeo, da trent’anni battuta da trafficanti senza scrupoli.
Negli ultimi anni, almeno prima della guerra, la manovalanza degli scafisti era ucraina, ma la regia era di un’organizzazione di matrice turca. Ed è su questa che i finanzieri hanno acceso i riflettori. Ma le indagini sono difficili. La Turchia non collabora. Ma se quasi tutti i giorni partono barconi ricolmi fino all’inverosimile costeggiando coste turche e greche, è possibile che le autorità di quei Paesi non ne sappiano nulla? Dal chiudere un occhio all’essere complici, a volte, il passaggio è breve.
Cutro un mese dopo, Alì e le altre 11 vittime ancora nel palasport: 4 bimbi senza nome. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.
L’ultimo corpo ripescato ieri, un mese dopo la tragedia: 90 i morti, 35 minori. Fuggita la metà dei sopravvissuti. La Procura indaga sulle responsabilità degli scafisti
Il mare se li era presi per poche ore. Quando la luce del giorno illuminò la strage, furono fra i primi strappati alle onde. Una bambina di cinque-sei anni e un bambino sui sette. La terza, invece, è stata recuperata pochi giorni fa: bimba che avrà tra i cinque e i sette anni.
È passato un mese e le loro tre bare sono lì, nel Palamilone di Crotone diventato camera ardente; nessuno li ha riconosciuti quindi niente nomi. Anche se forse per una di loro l’anonimato potrebbe finire oggi.
La mamma che non c’è
Bimbi così piccoli non potevano essere soli, ovviamente, sul barcone che si è sfasciato davanti a Steccato di Cutro all’alba del 26 febbraio. Ma fra gli 81 sopravvissuti della strage la mamma — o le mamme, o chiunque altro fosse con loro — non c’è. E allora si tratta di cercare fra i 90 morti ripescati finora, l’ultimo corpo ieri, oppure di aspettare che il mare restituisca, prima o poi, il corpo di chi gli ha voluto bene.
Ci vorranno «abbinamenti» di Dna, ci vorrà altro tempo, altra speranza.
Un mese dopo il naufragio, nel Palamilone è rimasta una fila di dodici bare. Quattro sono bianche: i nostri tre piccoli amici senza nome e un bimbetto di sette-otto mesi al quale qualcuno — forse un sopravvissuto che l’ha sentito chiamare sulla barca o forse un medico che l’ha visto scritto sul vestitino — ha dato il nome di Alì. Nient’altro. E, anche nel suo caso, nessuno che lo reclami. Alì, quindi, è il suo secondo nome, diciamo così. Quello per identificarlo è KR16MØ, che significa Crotone, cadavere numero 16, maschio, zero anni.
I quattro anonimi
Ci sono anche quattro anonimi adulti, nel Palasport. E altre quattro bare sulle quali invece un nome è scritto (tre iraniani e un palestinese) ma che per qualche motivo non possono ancora lasciare la Calabria. Tutte le altre vittime sono state portate via da Crotone, chi per l’Afghanistan, chi per la Germania, chi per il cimitero islamico di Bologna, uno per la Tunisia...
E poi ci sono i superstiti. Una quarantina ha scelto la via della richiesta di asilo (13 in Italia e il resto in Germania). Ma l’altra metà di quella gente — fuggita da guerra, povertà o diritti negati — ha scelto di fuggire ancora anche dall’Italia, dopo il naufragio. Non era il nostro Paese, la loro terra promessa.
In tanti, soprattutto gli afghani, puntavano alla Germania o a qualche altra nazione europea. E in questo mese molti hanno deciso di andare incontro a quel che restava del loro sogno senza aspettare che fossero mantenute promesse e compiute procedure burocratiche. Sono semplicemente spariti. Irreperibili. Probabilmente partiti assieme ai parenti arrivati in Calabria dopo la strage e ormai rientrati tutti a casa.
Gli spariti
«Saranno arrivati nei Paesi in cui volevano andare in modo illegale, purtroppo molti lo fanno», commenta Manuelita Scigliano, dell’associazione Sabir. Dal 26 febbraio a oggi questa giovane donna ha passato il suo tempo ad assistere sopravvissuti e parenti senza mai un giorno di pausa. L’altra mattina ha visto la piccolissima bara di Alì-KR16MØ in mezzo al Palasport e non è riuscita a trattenere le lacrime. «Mi ha spezzato il cuore l’idea che quel bambino fosse in quello spazio immenso tutto solo, non riesco ad accettare che lui, come gli altri tre, possa rimanere senza nome, finire in una tomba anonima dove nessuno porterà mai un fiore...».
Così, con questi pensieri in testa, Manuelita è andata dal sindaco di Crotone a chiedere che per favore, nel caso che i bambini anonimi fossero seppelliti a Crotone «lasciate accanto alla loro tomba lo spazio per la mamma, quando sarà trovata». Quando e se, sarà trovata.
Estratto da liberoquotidiano.it il 25 marzo 2023.
[…] Se si analizzano gli sbarchi e i numeri di morti in mare, questi ultimi con l'attuale governo sono nettamente inferiori rispetto agli esecutivi precedenti. Lo ribadisce Giuseppe Cruciani durante La Zanzara e in risposta a David Parenzo. "Siccome avete rotto i cog*** da un mese con questi morti in mare - esordisce - 1,7 vittime ogni 100 sbarcati con il governo Meloni". Cifre ben più alte con il Conte 1: "16,6 ogni 100, Conte 2 4,7. E Draghi? Con Draghi 2,5".
Da qui la conclusione: "In questi mesi del governo Meloni ci sono state meno vittime in assoluto rispetto agli sbarcati che in tutti i governi precedenti". E di fronte ai fatti, Parenzo non può che rispondere con un semplice "mmm". [...]
Poi le accuse alle ong: "Questo flusso non è ineluttabile. È vero che l'Italia è più esposta ed è vero che sono disperati. come dice Modu Ghei, ma noi non possiamo farci carico della disperazione di tutto il mondo. Lo so che lei vuole farsi carico della disperazione di tutto il mondo e io la ammiro per questo, ma lei da solo e nemmeno l'Italia può farcela, non ce la possiamo fare ad accogliere gli immigrati economici e gli immigrati climatici".
Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini e Paola Zanca per “il Fatto quotidiano” il 28 marzo 2023.
[…] Sono le 17:39 del 9 marzo, il governo presieduto da Giorgia Meloni è venuto in trasferta a Cutro, il paese della costa calabrese dove una barca carica di migranti ha lasciato sulla spiaggia 91 morti. Su quel naufragio senza soccorsi in mare, ora indaga la Procura di Crotone. Ma la politica, quel giorno, si sente in dovere di “dare un segnale concreto della nostra attenzione”, celebrando un Cdm sul luogo della tragedia.
Una passerella, si è detto.
[…] I ministri, che sono atterrati a Crotone un paio d’ore prima, hanno già fretta di tornare a casa. Non a Roma, vedremo poi. A casa. Hanno fretta e soprattutto non hanno voglia di aspettare la conferenza stampa che […[ rischia di andare per le lunghe. Durerà 75 minuti. Ma i ministri rumoreggiano ancora prima di saperlo. E per il tramite della fidata segretaria della premier, Patrizia Scurti, fanno arrivare il messaggio che è ora di ripartire.
[…] Da Roma sono partiti quasi tutti a bordo dell’Airbus di governo. La premier invece li ha raggiunti insieme ai vice, con il Falcon da 16 posti. All’aeroporto di Crotone, la squadra di Palazzo Chigi viene trasportata nel centro di Cutro in minivan. Il corteo presidenziale è già abbastanza folto e i ministri che speravano di viaggiare sulle berlina della scorta personale […] devono accontentarsi, non senza rimostranze, del passaggio di gruppo.
All’arrivo nella sede del comune calabrese, la scorta della presidente del Consiglio resta parcheggiata in piazza Municipio, mentre i pulmini che devono trasportare i ministri vengono fatti spostare in uno spazio adiacente. Tanto, secondo i piani, saranno gli ultimi a partire. Invece, dovranno presto fare manovra per lasciare Cutro e percorrere i 15 minuti in direzione dello scalo Pitagora, dove li attende l’Airbus pronto a decollare un’altra volta, carico dei ministri che ritengono di aver già sufficientemente dato “segnale concreto” della loro attenzione. Elisabetta Casellati, a dire il vero, avrebbe voluto fare almeno il viaggio di ritorno sul più nobile Falcon: si era già seduta in prima fila alla conferenza stampa, disposta perfino ad attendere la fine, quando l’hanno avvertita che la stavano aspettando per ripartire insieme gli altri.
D’altronde, la ministra delle Riforme contava su una certezza: sul Falcon di Meloni, alla fine della conferenza stampa, sarebbe rimasto libero il posto di Matteo Salvini. Già, perché nel frattempo, il ministro delle Infrastrutture, che proprio quel giovedì compie 50 anni, ha fatto spiccare il volo da Roma a un altro Falcon, questa volta da dirottare verso Milano. Vuole tornare subito a casa, Salvini: il giorno dopo ha in programma un weekend con la fidanzata Francesca Verdini, che invece gli ha organizzato a sorpresa una festa – ricorderete il karaoke e la tragica Canzone di Marinella – cui ha invitato mezzo governo.
Fatto sta che decide di evitarsi la perdita di tempo di ripassare da Roma per poi risalire lo Stivale. Chiama l’aereo e vola dritto al Nord, non senza dare un passaggio ad altri tre ministri diretti a Milano: Annamaria Bernini, Roberto Calderoli e Giuseppe Valditara.
Sul Falcon con la premier, quindi, restano gli altri ministri che hanno partecipato alla conferenza stampa: Antonio Tajani, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Francesco Lollobrigida e il sottosegretario Alfredo Mantovano. Non c’è spazio per una parte dello staff, che a quel punto è costretto ad assecondare le volontà del segretario della Lega: i malcapitati salgono sull’aereo chiamato da Salvini, arrivano a Milano e poi tornano a Roma a notte fonda. I loro posti erano sull’Airbus, che però è partito da più di un’ora, per la furia dei ministri. Che a Cutro hanno resistito un centinaio di minuti.
Indimenticabili, questo sì.
Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per lastampa.it il 2 aprile 2023.
I migranti tornano a denunciare l’Italia sulla strage di Steccato di Cutro, mentre sale a 92 il numero delle vittime. Oggi pomeriggio, a distanza di 36 giorni dalla tragedia, è stato rinvenuto un cadavere in località "Santa Monica" della frazione "San Leonardo" di Cutro. Si tratterebbe di un giovane di circa 20 anni. Il corpo è stato portato nel cimitero di Cutro, a disposizione della Procura della Repubblica di Crotone.
Intanto, agli esposti già presentati nei primi giorni successivi al drammatico naufragio dello scorso 26 febbraio a largo delle coste calabresi se ne aggiunge – agli atti dell’inchiesta – un ultimo depositato ieri dai legali torinesi e greci di alcuni familiari delle vittime. Che mette nel mirino anche Frontex, l’agenzia internazionale di soccorso, rea di aver – in prima battuta - diniegato agli avvocati (per asseriti vizi di forma”) l’accesso agli 11 file che hanno “cristallizzato” quanto avvenuto quella notte comprese le registrazioni di bordo tra piloti e membri dell’equipaggio. Chiedono ai pm di Crotone di “acquisirli tutti”.
E rilanciano su come sia stato possibile non “proclamare una missione di soccorso (Sar) già alle 23.03, quindi 5 ore prima della tragedia “parlando buona navigabilità quando dal video diffuso negli scorsi giorni” e di cui molti erano in possesso già quella notte (sicuramente Frontex ndr) “è evidente a tutti che ci fosse una linea di galleggiamento bassissima segno che insistevano diverse persone sotto coperta” ad aumentare il carico della nave in maniera spropositata “rendendola chiaramente un’imbarcazione in grave difficoltà”.
(...)
Più in generale rileva per i legali il fatto che “la segnalazione – a prescindere dall’assunto sulla buona navigabilità o meno – contenesse elementi ampiamente sufficienti per avere la certezza di migranti a bordo”. E c’è infine il fronte dei soccorsi pervenuti a terra, cioè dopo le 4.10 orario del naufragio: “Perché la Capitaneria di porto – domandano ai pm – è giunta sul posto alle 6.50 ossia due ore e mezzo dopo il drammatico schianto sulla secca nonostante fosse a conoscenza dell’esistenza del caicco da parecchie ore? Ovvio è che un intervento tempestivo avrebbe quantomeno potuto evitare l’aggravarsi della tragedia posto che _ per quanto appreso – alcuni (imprecisati) naufraghi sarebbero morto per intervenuta ipotermia”.
E su questo punto si innesta la testimonianza resa di fronte al tribunale dei minori, nel corso dell’incidente probatorio convocato per cristallizzare le prove contro il presunto scafista minorenne, da uno dei sopravvissuti Algazi Firas che si è visto morire tra le braccia il fratellino di 6 anni. Il caso, raccontato da La Stampa nei giorni scorsi, si arricchisce di nuovi dettagli emersi nella deposizione: “Quando c’è stato l’urto ho visto delle luci arrivare dalla spiaggia.
Eravamo sottocoperta, ho preso mio fratello e, presi dal panico, ci siamo buttati a mare. Eravamo in acqua già dalle 4, ci siamo rimasti tre ore, il bimbo è morto dopo un’ora ma è rimasto sempre nelle mie braccia: non l’ho lasciato andare anche dopo che non respirava più. Sono stato soccorso in mar dalla guardia costiera e una volta a bordo della loro nave sono svenuto. Abbiamo chiesti aiuto agli scafisti, ma nessuno ci ha soccorso”.
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per repubblica.it il 2 aprile 2023.
Lo hanno riconosciuto da vivo e da morto. Senza alcuna esitazione. C’era lui, l’uomo ritratto con il numero KR65M40 tra le foto delle vittime, al timone del caicco al momento del naufragio: la barba folta nera, la maglietta a righe, il tatuaggio sull’avambraccio. Bayram Guler, 33 anni, turco. Così si chiamava. Nella barca che ha mandato a schiantare contro la secca di Cutro provando a girare la prua a velocità è morto anche lui.
I superstiti se lo ricordano bene: «Quindici minuti prima dell’urto stava conducendo la barca ad altissima velocità», racconta Assad Almolki, siriano, uno dei 40 sopravvissuti alla tragedia. Era stato lui ad arrivare con il caicco per trasbordare i migranti quando la prima barca su cui erano saliti in Turchia si era rotta dopo poche ore di navigazione.
Ed era ancora lui, poche ore prima del naufragio, quando a bordo cominciava a serpeggiare paura per il mare mosso, a mostrare sul tablet che le coste italiane erano ormai in vista. «Ci diceva di stare tranquilli, che aveva 15 anni di esperienza nel campo e non voleva essere arrestato dalla polizia, che sarebbe tornato in Turchia con la barca», ricorda Ali Namzai, afghano che nella strage ha perso 16 membri della sua famiglia.
Eccoli i volti degli scafisti di Cutro, tutti riconosciuti senza esitazione nell’album di 15 foto che gli uomini della Polizia scientifica di Crotone hanno mostrato ai superstiti raccogliendo a verbale le loro dichiarazioni: tre arrestati subito sono in carcere a Crotone, il quarto fermato in Austria (dove era riuscito ad arrivare in fuga da Cutro) in attesa di estradizione, il quinto in una bara come le altre 91 vittime recuperate.
Tre turchi e due pakistani, scafisti veri, di quelli che la rotta da Smirne all’Italia devono averla fatta più volte, e con legami diretti con l’organizzazione criminale che quel viaggio da un milione di euro e tantissimi altri ha organizzato. […]
Estratto da corriere.it il 3 aprile 2023.
Con cinque diversi viaggi dell’elicottero Nemo 8 della Guardia costiera sono stati recuperati i 32 migranti , fra cui 4 donne e un bambino, che da ieri erano bloccati sull’isolotto di Lampione. La scelta di utilizzare l’elicottero è stata fatta perché almeno per le prossime ore sarà impossibile per le motovedette, a causa del mare forza 6, riuscire ad avvicinarsi alla costa di Lampione. […]Tra le persone salvate c’è anche una donna incinta. La Guardia costiera ha provato ripetutamente a portare in salvo i migranti, ma le onde alte impediscono di avvicinarsi in sicurezza.
[…] Nel pomeriggio alcuni elicotteri erano riusciti a far arrivare dal cielo cibo e coperte per i naufraghi: si temeva dovessero passare la notte all’adiaccio. L’isolotto di Lampione, disabitato, lungo circa 200 metri si trova a circa 15 miglia a ovest di Lampedusa. […]
Sono inoltre iniziati i primi accertamenti per capire con quale imbarcazione — forse naufragata, o forse allontanatasi per volontà degli scafisti — siano arrivati i profughi che hanno raggiunto l’isolotto. […]
Svolta nell'inchiesta. Cutro, primi indagati per ipotesi omissione di soccorso. Morirono 94 persone. Perquisizioni a Frontex, Gdf e Capitaneria. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista l'1 Giugno 2023
Una serie di perquisizioni disposte dalla Procura della Repubblica di Crotone nelle sedi di Frontex, della Guardia di finanza e della Guardia costiera nell’ambito dell’inchiesta sul naufragio del barcone carico di migranti avvenuto il 26 febbraio scorso davanti la costa di Cutro in cui sono morte 94 persone.
L’inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Crotone sul naufragio del barcone carico di migranti a Steccato di Cutro, mira ad accertare eventuali responsabilità per i presunti ritardi nei soccorsi al barcone che poi si spezzò, a causa delle forza del mare, a poche decine di metri dalla riva.
Gli accertamenti in corso hanno lo scopo di verificare, in particolare, cosa non abbia funzionato, eventualmente, nel sistema che avrebbe dovuto garantire assistenza al barcone sul quale si trovavano i migranti e di ricostruire la filiera delle competenze da parte di chi sarebbe dovuto intervenire per soccorrere le persone che si trovavano sull’imbarcazione, evitando così che si schiantasse a poca distanza dalla spiaggia.
Il decreto di perquisizione, firmato dal sostituto procuratore Pasquale Festa, viene eseguito in queste ore dai carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Crotone. Le perquisizioni, da quel poco che emerge dalla Procura della Repubblica, stanno interessando le sedi locali della Guardi di finanza, della Guardia costiera e di Frontex e servono a raccogliere elementi per verificare la possibilità di iscrivere come ipotesi di reato l’omissione di soccorso.
La notte del naufragio
L’imbarcazione che naufragò sulla spiaggia di Steccato di Cutro venne avvistata da Frontex nella notte del 25 febbraio. La segnalazione dell’agenzia europea che si occupa delle frontiere, fu raccolta dalla Guardia di finanza che inviò verso l’imbarcazione due unità navali da Taranto e Crotone.
I mezzi militari, però, tornarono indietro, ufficialmente per condizioni meteo marine avverse. Nel frattempo il caicco continuava la sua navigazione verso la costa calabrese seguita da un aereo Frontex che per problemi di carburante fu costretto a tornare alla base. In questo frangente la Guardia costiera non venne mai allertata per un intervento Sar. La motovedetta della Guardia costiera intervenne circa 6 ore dopo l’avvistamento solo a seguito dell’allarme lanciato da alcuni pescatori che si trovavano sulla spiaggia di Steccato.
Rotte e numeri
I numeri del ministero dell’Interno italiano evidenziano un forte calo della rotta turca della tragedia di Cutro, con 1.769 arrivi al primo giugno rispetto ai 4.279 dello stesso periodo del 2022, un dato che si discosta dai 16.115 sbarchi complessivi dei migranti partiti dalla Turchia lo scorso anno.
Resta marginale, infine, la rotta che dall’Algeria ha portato in Italia almeno 237 migranti irregolari, in aumento rispetto alle 195 persone arrivate in Sardegna nello stesso periodo del 2022, a fronte di 1.389 arrivi del 2022. Giulio Pinco Caracciolo
Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” il 7 giugno 2023.
Alle 3,58 della notte tra il 25 e il 26 febbraio scorsi, mentre il mar Jonio settentrionale si era fatto scuro sferzato da onde alte due metri e il caicco "Summer Love" con a bordo 200 migranti […] stava per schiantarsi in una secca a Steccato di Cutro «intercorreva una conversazione tra un operatore della sala operativa del Roan (reparto operativo della Guardia di Finanza) e un collega della guardia costiera di Reggio Calabria ».
Il primo dice al secondo: «Sul radar non battiamo nulla». La motovedetta delle Fiamme Gialle rientra in porto. Venti minuti dopo la prua dell'imbarcazione andrà a sbattere contro un fondale sabbioso: gente in mare appesa a stracci di legno, bambini che affogano, urla, pianti, morte. In novantaquattro perderanno la vita, uno su 3 erano minori e «alcuni neonati» precisano gli inquirenti. L'apocalisse, appunto. […]
Il primo mistero del naufragio […] inizia qui. Perché – si legge agli atti del decreto di perquisizione a carico di tre ufficiali e sottoufficiali della Finanza – «dall'analisi delle tracce del radar emerge che il natante oggetto di segnalazione era stato agganciato per la prima volta alle 3,34. Distava 6,3 km dalla costa di Le Castella e 13,51 km dalla foce del torrente Tacina dove avverrà il naufragio». Aggiunta: «La barca veniva monitorata per circa 38 minuti». Perché alle 3,58 tutti dicono di non aver visto nulla «sebbene – chiosano gli investigatori – il target fosse monitorato da circa 24 minuti?».
E perché, ancora, alle 3, 50 nella relazione di servizio redatta da un colonnello indagato e «nel brogliaccio di sala» si legge che «è stato agganciato un bersaglio non immediatamente riconducibile all'imbarcazione»? Magari qualcuno […] avrà pensato a un falso obiettivo ("ombre", si dice in gergo investigativo), ma ciò che è certo è che quel "bersaglio" era la "Summer Love" che alle 4,02 – orario dell 'ultimo aggancio radar – dista 3,6 km dalla secca della morte.
Sul fatto infine che si sia sostenuto che non vi fosse la certezza che su quel caicco viaggiassero migranti è smentito dal fatto che «l'intervento 533» viene registrato a fascicolo dalla Guardia Costiera come «evento migratorio».
Proprio per queste anomalie «e per comprendere le ragioni di queste scelte operative, del ritardo accumulato dalla Finanza […] e nella mancata comunicazione della posizione della barca alla Capitaneria di porto» la procura ha cercato di acquisire le comunicazioni di servizio intercorse tra i finanzieri sui server in uso al loro corpo di appartenenza.
Risultato? «Non veniva ritrovata alcuna traccia audio». Non solo: ad attirare l'attenzione è un dettaglio non di poco conto che ha spinto i pm a incaricare i carabinieri di fare la copia forense del contenuto dei telefonini dei militari «visto che gli indagati, quella notte e per comunicare sui fatti, hanno utilizzato cellulari personali».
Altre ombre: perché alle 23,49, un'ora e 25 minuti dopo la segnalazione fatta dall'aereo "Eagle 1" di Frontex, gli operatori delle Fiamme Gialle riferivano alla sala operativa della Capitaneria di porto dell'avvenuto impiego della vedetta "5006 " per una missione di Law Enforcement sebbene sia poi «lo stesso comandante della vedetta a scrivere nella relazione che in quei momenti l'imbarcazione, lungi dall'essere in navigazione alla ricerca del target […] si trovava in realtà all'interno del porto di Crotone».
Già alle 21, peraltro, si era capito […] che la vedetta 5006 «non sarebbe riuscita a navigare […] viste le condizioni meteo pessime». Per questo [è stato] avvertito il pattugliatore" […] Di diverso tenore il commento dell'avvocato Francesco Verri, legale in pool, di una trentina di famiglie delle vittime: «La Finanza ha detto che stava cercando la nave di migranti e, secondo la procura, era in porto coi mezzi fermi. Ha visto la barca nei radar e non è intervenuta. Non ha fatto niente».
E la Guardia Costiera? «Ha impiegato un'ora e mezzo da terra per percorrere in auto un tratto di strada che, di notte, richiede 20 minuti. Via mare è arrivata […] a Steccato dopo due ore e cinquanta dallo schianto. Quando la barca si è inabissata […], sulla spiaggia non c'era l'esercito per identificare e arrestare gli scafisti ma due pescatori». In definitiva: «Doveva partire una missione di soccorso».
Strage di Cutro: un’inchiesta internazionale sbugiarda l’Italia e Frontex. Stefano Baudino su L'Indipendente il 5 Giugno 2023
“L’Italia ha mentito sul suo ruolo in un naufragio che ha ucciso 94 persone – tra cui 35 bambini – e l’agenzia di frontiera dell’UE Frontex ha contribuito a insabbiare tutto”. Si apre con queste pesantissime parole il comunicato con cui il collettivo di giornalisti dell’organizzazione no-profit Lighthouse Reports dà atto del suo ultimo rapporto, incentrato sulle presunte responsabilità sottese alla tragedia di Cutro, avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, quando un’imbarcazione da diporto in legno, la “Summer Love”, naufragò vicino alla costa calabrese. Secondo la ricostruzione dei giornalisti, infatti, “l’imbarcazione sovraccarica era stata avvistata dall’agenzia di frontiera europea Frontex sei ore prima del naufragio, in difficoltà a causa del maltempo”, ma “Frontex e le autorità italiane si sono date la colpa a vicenda”. All’inchiesta giornalistica internazionale hanno collaborato la testata italiana Domani, Süddeutsche Zeitung, Le Monde, El Pais e Sky News. E ora i pm incaricati delle indagini potrebbero attingere anche al suo contenuto.
I risultati del rapporto di Lighthouse Reports e dei suoi partner – redatto grazie a documenti inediti, testimonianze dirette, fonti confidenziali, immagini satellitari e modelli 3d – evidenzierebbero come sia le autorità italiane che Frontex fossero pienamente consapevoli del fatto che il mezzo mostrasse importanti segni di difficoltà quando fu avvistato per la prima volta (precisamente sei ore prima che si verificasse il naufragio). Nonostante questo, decisero di “non intervenire” e, successivamente, avrebbero provato a “nascondere quanto sapevano”.
La prima circostanza, tra le tante che ancora non tornano, su cui è incentrato il report è presunto tentativo di Frontex di insabbiare le dichiarazioni del pilota di un proprio aereo, l'”Eagle 1″, in merito alle condizioni metereologiche avverse registrate poche ore prima del naufragio. In particolare, i giornalisti hanno potuto visionare “rapporti di missione riservati di Frontex”, che hanno rivelato come il velivolo avesse “lanciato segnali di pericolo sia all’agenzia che alle autorità italiane” due ore prima dell’avvistamento della “Summer Love”, avvertendo “di ‘forti venti’ nel Mar Ionio”. Proprio per questo motivo – e non per fare rifornimento, come ha sostenuto Frontex nella nota diramata dopo il naufragio -, sulla base dei documenti in possesso di Lighthouse, l’aereo sarebbe infatti rientrato alla base.
Successivamente, “Frontex ha individuato l’imbarcazione” poi naufragata, “tracciando diverse telefonate satellitari effettuate nel corso della giornata dalle persone a bordo”. Le chiamate indirizzate dai profughi ai familiari a terra, sulla base del contenuto delle carte dell’inchiesta, sarebbero molteplici; secondo la versione ufficiale di Frontex, ce ne sarebbe invece solo una. Il resoconto delle chiamate effettuate dal pilota dimostrerebbe che Frontex “sapeva che si trattava di una ‘possibile nave di migranti’, senza giubbotti di sicurezza visibili e con una ‘significativa risposta termica’ da sottocoperta”.
Secondo le norme marittime dell’Italia e di Frontex, il maltempo, la mancanza di giubbotti di salvataggio e il sovraffollamento “costituiscono segnali di pericolo”. Nonostante ciò, Frontex non ha segnalato un evidente “pericolo per la navigazione” e le autorità italiane non hanno ritenuto necessario intraprendere un’operazione Sar (ovvero di ricerca e salvataggio), ma soltanto un’operazione di law enforcement, cioè di polizia. In seguito al naufragio, l’agenzia di frontiera europea avrebbe inoltre “nascosto il fatto che il suo pilota aveva segnalato il forte vento alla sala di controllo durante il volo di sorveglianza”.
Il Domani spiega poi che, “intorno alle 23.20 del 25 febbraio, secondo quanto scritto nei registri interni della guardia di finanza di Vibo Valentia”, la sala operativa dispose che la motovedetta V. 5006 effettuasse ‘pendolamenti in zona Capo Colonna’” in attesa che il target entrasse “in acque nazionali'”. Se “nei registri compilati a mano dall’agente di turno si legge testualmente che l’avvistamento di Eagle 1 è un ‘natante con migranti‘”, all’interno della relazione finale e ufficiale sull’accaduto, la Summer Love è invece “identificata come un ‘natante sospetto‘”. Poi, intorno alle 3.20 del 26 febbraio – scrive ancora il Domani -, “dopo diversi pattugliamenti”, le unità della guardia di finanza V 5006 e il P.V.6 Barbarisi “sono ritornate verso il porto di Crotone a causa delle avverse condizioni meteo” e, venti minuti dopo, “la finanza ha chiesto alla capitaneria di porto di Reggio Calabria se avessero a disposizione i mezzi giusti per navigare con quel tempo”. Le vedette c’erano, ma poiché non vi era “certezza che ci fossero migranti a bordo” e “senza richieste di soccorso”, la guardia costiera decise nuovamente “di non intervenire nonostante l’orario di navigazione, le chiamate satellitari verso la Turchia e la rotta di provenienza della nave, non potevano far presagire che si trattasse di altro”.
Il collettivo di giornalisti autori dell’inchiesta ricordano che Frontex “ha dichiarato che l’imbarcazione non mostrava ‘alcun segno di pericolo’ e che spettava all’Italia decidere se lanciare un’operazione di salvataggio”, mentre la premier Giorgia Meloni ha sostenuto che le autorità italiane, non avendo ricevuto da Frontex alcuna “comunicazione di emergenza”, non sono intervenute poiché non avevano contezza del fatto che l’imbarcazione “’rischiava di affondare‘”. Insomma, il più plastico dei rimpalli di responsabilità, cui molto spesso tocca assistere, anche e soprattutto dopo tragedie di così ampia portata. Secondo il Domani, incalzata sul motivo alla base della mancata sostituzione di Eagle 1 con un altro aereo, l’agenzia Frontex avrebbe risposto che «in quel momento non c’era nessun altro aereo disponibile».
«Non sono state effettuate perquisizioni nei confronti di Frontex, ma il quadro generale dell’indagine è quello: più che delle vere e proprie perquisizioni, stiamo eseguendo dei riscontri puntuali su elementi che ritenevamo mancanti per completare le indagini», ha dichiarato il procuratore di Crotone Giuseppe Capoccia, facendo intendere come l’inchiesta stia abbracciando nuove prospettive. Intanto, sei persone sono state iscritte nel registro degli indagati: tre appartengono alla Guardia di Finanza (due ufficiali e un sottoufficiali), mentre sull’identità delle altre tre i pm hanno imposto l’omissis. Contestualmente, la settimana scorsa sono state perquisite le sedi della Guardia di Finanza e della Guardia costiera, dove sono state anche effettuati sequestri. Nel decreto di perquisizione, i magistrati scrivono che “lungi dall’essere in navigazione alla ricerca del target”, la motovedetta della Guardia di Finanza “si trovava in realtà all’interno del porto di Crotone“ e che i suoi documenti sarebbero stati alterati, come dimostrerebbe il fatto che “il giornale di chiesuola presenta delle significative anomalie”.
Gli avvocati delle famiglie di alcune delle vittime hanno intenzione di presentare un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo sulla tragedia di Cutro, affermando che l’Italia dovrebbe essere ritenuta responsabile per la “violazione irrimediabile del diritto alla vita dei migranti”. Nel frattempo, i morti rimangono là, in attesa di giustizia. [di Stefano Baudino]
Strage di Cutro, l’avvocato Verri: «Quella notte lo Stato sbagliò tutto». Lo scopo dell'inchiesta della procura di Crotone è quello di accertare i motivi del mancato intervento in soccorso dei migranti e se sia stata rispettata la normativa che imponeva un intervento a prescindere dalle singole competenze e responsabilità. Il Dubbio il 3 giugno 2023
«Quella notte, lo Stato ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare. Tutto. E noi avevamo visto giusto fin dal principio. Adesso, finalmente, le cose iniziano a essere più chiare e le responsabilità stanno venendo a galla». Lo ha detto all'Adnkronos l'avvocato Francesco Verri, il legale che rappresenta alcune dei familiari delle vittime della strage di Cutro dello scorso 26 febbraio. Sono oltre 90 i morti della tragedia di Steccato di Cutro, tra cui 35 minori. E alcuni dei corpi non sono mai stati ritrovati.
Nei giorni scorsi, la Procura di Crotone, guidata dal Procuratore Giuseppe Capoccia che coordina l'inchiesta con il Pm Pasquale Festa, ha iscritto nel registro degli indagati sei persone, tra cui tre finanzieri. La Procura della Repubblica di Crotone ha emesso un decreto di perquisizione nei confronti del tenente colonnello Alberto Lippolis, comandante del Roan di Vibo Valentia della Guardia di Finanza; ad Antonino Lopresti, dello stesso Roan, operatore di turno la notte della tragedia, e al colonnello Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto. Lo stesso provvedimento è stato notificato ad altre tre persone i cui nomi, però, ancora non sono stati resi noti.
Lo scopo dell'inchiesta è quello di accertare i motivi del mancato intervento in soccorso dei migranti e se sia stata rispettata la normativa che imponeva un intervento a prescindere dalle singole competenze e responsabilità. «Adesso sono più chiare le responsabilità - spiega ancora l'avvocato Verre - Non è compito agevole e lo capisco. E' chiaro che la Procura ha bisogno di un po' di tempo per arrivarci, ma mi pare che la situazione sia abbastanza chiara. La certezza è che lo Stato ha sbagliato. Esattamente come diciamo dal primo giorno. Punto». E, parlando dei documenti inediti pubblicati da Lighthouse Reports, con decine di testimonianze su cosa è accaduto quella sera, per capire quali sono state le falle nella catena di comando, l'avvocato Verri dice: «Questi documenti sono ancora più eloquenti, sono prove ancora più schiaccianti. Perché adesso è confermato che già alle nove di sera Frontex dice chiaramente che c'è una barca con possibili migranti a bordo, non c'era nulla da interpretare - dice - noi abbiamo fatto le nostre considerazioni in questi mesi, dicendo che alle 23 l'agenzia Frontex segnala che c'è una barca con i boccaporti aperti e d'inverno non si naviga in alto mare con il boccaporto schiuso».
PARLA LA DIFESA DI UN INDAGATO
«Faremo le nostre ricerche di documenti e di acquisizioni che con riservatezza, la stessa astrattamente dovutaci, analizzeremo e prospetteremo all'autorità giudiziaria. La sola motivazione di una perquisizione è bastata a scatenare una serie di pregiudizi. L'indagine è all’inizio. L'accusa pubblica e quella privata, numerosa hanno tutte diritto e dovere ad operare raccogliendo elementi. Lo faremo anche noi in silenzio». Lo ha detto all'Adnkronos l'avvocato Pasquale Carolei, il legale dei tre finanzieri indagati nell'ambito dell'inchiesta sul naufragio di Steccato di Cutro costato la vita ad almeno 90 migranti, tra cui 35 bambini.
Estratto dell’articolo di Abbas Azimi, Sara Creta e Youssef Hassan Holgado per editorialedomani.it il 2 giugno 2023.
Fin quando non ha perso conoscenza, Omid, un ragazzo afghano di 20 anni, ha ricordi nitidi di quello che è successo nelle prime ore del 26 febbraio. «Erano circa le 3 del mattino quando i trafficanti ci avevano detto di raccogliere le nostre cose e di preparare gli zaini perché eravamo arrivati.
Qualche minuto dopo il fianco sinistro della barca ha urtato una roccia o qualcosa di simile. In poco tempo l’acqua mi è arrivata ai piedi e poi all’altezza dell’ombelico. Ho detto ai miei genitori di salire sul tetto dell’imbarcazione il prima possibile, affinché fossero più al sicuro, e in un attimo la pancia della barca si è riempita d’acqua».
Omid è uno dei circa 180 migranti che erano a bordo della Summer Love, la barca naufragata a pochi metri dalle coste di Steccato di Cutro. Quella notte sono morte almeno 94 persone, tra questi anche i suoi genitori e 35 minori. Oltre dieci sono i dispersi.
A tre mesi di distanza la procura di Crotone ha iscritto i nomi e cognomi dei primi indagati nell’ambito dell’inchiesta sul naufragio avvenuto quel 26 febbraio scorso a 40 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro.
Inoltre sono in corso una serie di verifiche negli uffici della guardia di finanza e della guardia costiera. «Più che ricerche vere e proprie, stiamo effettuando controlli a campione su elementi che ci sembravano mancanti per completare l’indagine», ha detto il procuratore Giuseppe Capoccia.
Le perquisizioni si sono concentrate nei confronti di almeno tre ufficiali della guardia di finanza a cui vengono contestate misure opache e poco trasparenti sia nella redazione delle relazioni finali sull’operato del corpo in quella sera sia nelle comunicazioni. Secondo la procura gli agenti hanno utilizzato anche cellulari personali privati per comunicare tra loro, l’obiettivo è rintracciare le chiamate e i messaggi per capire le motivazioni dei ritardi nei soccorsi.
Un’inchiesta internazionale – a cui Domani ha collaborato insieme a Lighthouse Reports, Süddeutsche Zeitung, Le Monde, El Pais e Sky News – mostra attraverso documenti inediti, fonti confidenziali, immagini satellitari, modelli 3d e decine di testimonianze le falle nella catena di comando che hanno portato prima al naufragio e poi al rimbalzo delle responsabilità tra le tre autorità coinvolte.
Subito dopo il naufragio la premier Meloni ha detto alla stampa: «Se avessimo potuto, avremmo salvato i migranti», l’inchiesta evidenza come fin dall’inizio siano stati sottovalutati tutti i segnali di pericolo, decidendo di non intervenire con un’operazione di ricerca e soccorso in mare (Sar) ma con una di law enforcement.
Il 22 febbraio scorso un’imbarcazione metallica bianca è partita dalle coste turche di Cesme verso l’Italia con a bordo migranti provenienti soprattutto dall’Afghanistan (140) e dal Pakistan (20). Dopo poche ore di navigazione gli scafisti sono stati costretti a chiamare rinforzi […] e i migranti sono stati trasbordati su una nuova imbarcazione, la Summer Love. Secondo i racconti dei sopravvissuti, questa barca di legno era molto più grande, ma più vecchia e meno robusta della prima.
Durante la traversata gli scafisti hanno interrotto la navigazione più volte per via dei problemi al motore e costretto i migranti a rimanere sottocoperta per non essere individuati.
La sera del 25 febbraio l’aereo Eagle 1 ha captato alcune telefonate che dalla barca chiamavano verso la Turchia e ha rilevato la nave a circa 40 miglia dalle coste italiane con una velocità di navigazione di 6 nodi. L’Eagle 1 è il velivolo di sorveglianza di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere.
Da un documento inedito consultato da Domani e dagli altri partner dell’inchiesta si legge che il pilota dell’Eagle 1 avesse segnalato al centro di controllo di Frontex a Varsavia – già due ore prima dell’avvistamento della Summer Love – le difficoltà a completare il suo «schema di volo pianificato a causa dei forti venti». È una segnalazione importante perché certifica che Frontex era al corrente delle cattive condizioni meteorologiche.
Tutti i dati raccolti durante il pattugliamento dell’Eagle 1 sono stati trasmessi in diretta streaming al centro di controllo in Polonia e messi a disposizione delle autorità italiane. Inoltre, nella sala di monitoraggio di Varsavia erano presenti un rappresentante della guardia di finanza e della guardia costiera italiana.
Alle 22.26, oltre ad avvistare la Summer Love, le telecamere termiche a bordo del velivolo hanno rilevato una risposta «significativa» e «altri segni» che indicavano la presenza di tante persone sottocoperta. Inoltre Frontex aveva segnalato anche che l’imbarcazione non aveva a disposizione i giubbotti di salvataggio. Tutte le autorità italiane competenti erano a conoscenza dell’imbarcazione e della possibilità che trasportasse migranti verso le coste italiane. E da questo momento, però, iniziano le omissioni nei racconti di ciò che è accaduto.
Dopo il naufragio, l’Agenzia europea ha affermato nel suo comunicato di non aver potuto continuare a monitorare la Summer Love perché Eagle 1 era a corto di carburante. Non risulta tuttavia nessuna comunicazione pubblica sulle pessime condizioni meteorologiche.
Inoltre, Frontex ha riferito di aver captato solo una chiamata verso la Turchia nell’area prima di avvistare la Summer Love, mentre in realtà il numero è più alto. Un’ulteriore indizio sulla possibile presenza di migranti a bordo, visto che la rotta migratoria che dalle coste turche porta all’Italia è sempre più battuta dai trafficanti.
Frontex ha risposto alle nostre domande. Dall’Agenzia sostengono che non è compito suo coordinare le operazioni di soccorso e stabilire se un evento possa considerarsi Sar o di polizia. La Summer Love «non era in difficoltà quando l’abbiamo osservata l’ultima volta», dicono. Tuttavia, perché Frontex non ha inviato nuovamente Eagle 1 a pattugliare l’area dopo il rifornimento, sapendo le cattive condizioni meteo? […]
Secondo le regole marittime di Frontex […] il sovraffollamento di un’imbarcazione, le avverse condizioni meteorologiche e la mancanza di giubbotti salvataggio a bordo sono considerati già dei segnali che presuppongono l’adozione di un’operazione Sar. Nonostante ciò, Frontex non ha segnalato un evidente «pericolo per la navigazione», e le autorità italiane non hanno ritenuto necessario iniziare un’operazione Sar.
Circa un’ora dopo, intorno alle 23.20 del 25 febbraio […] la sala operativa ha disposto che la motovedetta V. 5006 «effettui pendolamenti in zona capo colonne in attesa che il target entri in acque nazionali». A scanso di equivoci, nei registri compilati a mano dall’agente di turno si legge testualmente che l’avvistamento di Eagle 1 è un «natante con migranti». Una certezza esplicitata solo in quel documento redatto a mano. Mentre nella relazione finale e ufficiale su quanto accaduto quella sera, la Summer Love è identificata come un «natante sospetto».
Nel frattempo era stata contattata anche la capitaneria di porto di Reggio Calabria, che aveva riferito «di essere a conoscenza del natante» ma «attualmente non hanno predisposto alcuna imbarcazione». In caso di necessità – si legge ancora nel documento della finanza – la guardia costiera aveva garantito che avrebbe fatto uscire un’unità da Crotone.
Dopo diversi pattugliamenti, intorno alle 3:20 del 26 febbraio le unità della guardia di finanza V 5006 e il P.V.6 Barbarisi sono ritornati verso il porto di Crotone a causa delle avverse condizioni meteo. Venti minuti più tardi, la finanza ha chiesto alla capitaneria di porto di Reggio Calabria se avessero a disposizione i mezzi giusti per navigare con quel tempo.
Le vedette erano disponibili, ma non avendo certezza che ci fossero migranti a bordo e senza richieste di soccorso la guardia costiera ha deciso, ancora una volta, di non intervenire nonostante l’orario di navigazione, le chiamate satellitari verso la Turchia e la rotta di provenienza della nave, non potevano far presagire che si trattasse di altro.
Nei giorni seguenti, guardia di finanza e costiera si sono accusate a vicenda e hanno preso di mira le zone grigie dei protocolli della catena di comando. «Questa vaghezza ha permesso alla guardia di finanza di dire “siamo noi a comandare perché questa è un’operazione di polizia”», dice un alto funzionario della guardia costiera che ha deciso di parlare in anonimato.
«Nel caso di Cutro si sarebbe dovuto applicare il principio di precauzione. Se c’è anche la minima probabilità di un naufragio, allora dobbiamo avere i mezzi per lanciare un’operazione di salvataggio», aggiunge. «Nel momento in cui si torna indietro, significa che le condizioni del mare non sono praticabili, il criterio di precauzione non è stato rispettato e l’evento deve diventare Sar».
La guardia di finanza e la guardia costiera hanno deciso di non rispondere alle nostre domande […] Per il vicepremier Matteo Salvini, invece, «Frontex, la guardia costiera e tutte le autorità hanno confermato di aver fatto tutto il possibile e l’impossibile. Nessuno è venuto meno al proprio dovere».
[…] Secondo quanto riferito in parlamento dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi la prima richiesta di soccorso è avvenuta intorno alle 4 del mattino quando dalla barca un numero turco ha chiamato il 112 chiedendo aiuto. Ma oramai era troppo tardi. […]
[…] «Molte situazioni di pericolo conclamato vengono ormai registrate come evento migratorio, mentre prima erano identificati come situazione di soccorso. Quando le imbarcazioni si vedono navigare a galla e con i motori in funzione si ritiene, sbagliando, che non abbiano bisogno di assistenza o addirittura di soccorso. Il caso di Cutro rientra senz’altro fra queste ipotesi», dice l’ammiraglio ed ex portavoce della guardia costiera Vittorio Alessandro secondo cui «quell’imbarcazione, così come fotografata e descritta dall’aereo di Frontex, andava incontro alla rovina perché sovraccarica».
Soltanto le indagini potranno far luce completa sull’accaduto. Ma la sottovalutazione dell’evento è figlia di una scelta politica chiara adottata da quando nel 2019 si è insidiato al ministero dell’Interno Matteo Salvini. Secondo una serie di accessi agli atti di Altreconomia dal 2019 ai primi due mesi del 2023 i migranti arrivati via mare in Italia sono stati 232.660 attraverso 6.300 eventi. In quasi sei casi su dieci dei sono stati eventi classificati come law enforcement e non di ricerca e soccorso (Sar).
«La trasparenza è scomparsa e ci sono ancora molte zone d’ombra», dice la fonte anonima della guardia costiera. Alla domanda sul perché c’è tanta resistenza a mettere in atto operazioni di ricerca e salvataggio, Matteo Salvini ha risposto categoricamente: «Perché è provato che si tratta di viaggi organizzati. Gli eventi Sar rispondono a un soccorso per un evento imprevisto». E ha aggiunto: «In questo caso, i viaggi vengono contrattati online con un punto di partenza e una durata. Sarà necessario rivedere le norme Sar in queste aree».
Oltre alle indagini sulle falle della catena di comando e sulle eventuali responsabilità delle autorità italiane è in corso l’incidente probatorio nel procedimento penale a carico degli scafisti. Gun Ufuk, Sami Fuat, Ishaq Hassnan e Khalid Arslan sono accusati di naufragio colposo, di morte in conseguenza di altro reato e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Khalid Arslan e Ishaq Hassnan (un ragazzo pakistano ancora minorenne al momento del naufragio) si sono dichiarati innocenti e hanno mostrato al loro avvocato le ricevute dei pagamenti per il viaggio, come tutti gli altri richiedenti asilo. «Mio fratello viveva in Turchia da circa cinque anni e ha deciso di venire qui in Italia da me. Così ho pagato per lui», dice Ahtisham fratello di Khalid Arslan. «Il pagamento è stato di 7.000 euro, di cui 2.500 pagati in anticipo e 4.500 a titolo di garanzia».
Alcuni sopravvissuti hanno identificato Khalid come scafista perché aveva assunto il ruolo di traduttore tra chi guidava la nave e le persone presenti a bordo. Ma per il suo avvocato, Salvatore Perri, non ci sono dubbi: Khalid Arslan è innocente. Oltre ai documenti forniti lo dimostrerebbe anche l’aggressione ricevuta dai due imputati turchi avvenuta all’interno del carcere. «Temeva per la sua incolumità dato che li aveva riconosciuti come coloro che hanno guidato l’imbarcazione per tutto il viaggio», dice Perri.
[…] Ricostruire la rete dei trafficanti che hanno organizzato il viaggio della Summer Love non è semplice. I richiedenti asilo sono partiti da Istanbul il 20 febbraio intorno alle 15 nascosti in un camion e dopo oltre sette ore di viaggio sono arrivati a Cesme. Hanno camminato per tre ore in una foresta fino a una collina prima di raggiungere una spiaggia rocciosa in una località isolata dove la prima barca era già in attesa.
La maggior parte dei migranti ha pagato il viaggio una cifra tra i 6500 e i 9000 euro attraverso sistemi simili ai money transfer come Ria Payments, che garantiscono protezione e privacy a chi riceve i soldi. I sopravvissuti hanno inviato pagamenti in Pakistan, Turchia e Afghanistan.
«Questa è una rete difficile da ricostruire, perché ci sono decine di trafficanti anche in ogni nazione. Parte del pagamento di Khalid è stato fatto in Pakistan, mentre altri hanno fatto pagamenti in Afghanistan e in Turchia. Una volta arrivati in Turchia dai paesi di origine il viaggio viene gestito da altre organizzazioni, per lo più turche, ma che utilizzano anche manovalanza di altre nazionalità», spiega l’avvocato Perri. Ma una cosa è chiara: i trafficanti avevano emissari anche in Europa.
Il procedimento penale contro gli scafisti farà forse luce sulla rete che ha organizzato il viaggio. Ora si cerca di capire quali siano state le responsabilità politiche e logistiche sulle falle nella catena di comando. […]
Cutro, vergogna contro l'Italia: "Insabbiamenti", chi c'è dietro il report. Libero Quotidiano il 02 giugno 2023
Nuove accuse sulla strage di Cutro. Dopo che il sostituto procuratore ha inserito nel registro degli indagati sei persone, è un report a puntare il dito contro l'Italia. "Sia le autorità italiane che l'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex) hanno cercato di omettere le loro reali responsabilità riguardo al naufragio avvenuto a Steccato di Cutro tra il 25 e il 26 febbraio, in cui hanno perso la vita 94 persone migranti, tra cui 35 bambini". Questo è quanto si legge in una nota diffusa da Lighthouse Reports, secondo cui "in una imbarcazione in cui solitamente troverebbero posto 16 persone, si stima ce ne fossero dieci volte tante, di cui 140 dall'Afghanistan e 20 dal Pakistan".
L'inchiesta giornalistica ha visto la collaborazione con Domani di Carlo De Benedetti, Süddeutsche Zeitung, Le Monde, El Pais e Sky News. Nel dossier vengono riportati "documenti e testimonianze inedite come fin dall'inizio siano stati sottovalutati tutti i segnali di pericolo, decidendo di non intervenire con un'operazione di ricerca e soccorso in mare (Sar) bensì con una operazione di polizia (Law enforcement)".
E ancora: "Vari articoli apparsi in questi mesi sulla stampa italiana hanno evidenziato ombre nella ricostruzione degli eventi di Cutro da parte dell'Italia, su cui anche la Procura di Crotone ha aperto un'indagine. Proprio ieri, il procuratore ha disposto verifiche e accertamenti che coinvolgono le sedi di Frontex, Guardia di finanza e Guardia costiera". In particolare l'inchiesta fornisce nuovi dettagli sul ruolo svolto da Frontex. In mano a Lighthouse Reports "un documento riservato che si è rivelato determinante nel mettere in luce due significative incongruenze, riguardanti da un lato la valutazione delle condizioni del meteo, e dall'altro il reale numero di chiamate satellitari tracciate dall'imbarcazione".
Si tratterebbe di un velivolo della Guardia Costiera. Naufragio di Cutro, svolta nelle indagini. Svolta sul naufragio. Tre sopravvissuti testimoniano: “Un elicottero volava sul barcone”. Tre sopravvissuti alla tragedia raccontano di aver visto un elicottero della Guardia Costiera sorvolare l’imbarcazione, poi naufragata, per ben due volte nelle ore precedenti al disastro. Ora si cercano riscontri nei piani di volo. Redazione su Il Riformista il 30 Luglio 2023
Arriva una svolta nelle indagini sul naufragio di Cutro del 26 febbraio scorso. Sarebbero, infatti, emerse tre nuove testimonianze, di tre alla tragedia sopravvissuti ascoltati dai legali torinesi.
Così come riporta, oggi, fra gli altri quotidiani, il Corriere della Sera, i tre sopravvissuti avrebbero testimoniato in inglese e in faro, mentre si trovavano in due diversi campi di accoglienza nel nord della Germania, dove risiedono tuttora. Si tratterebbe di due donne e di un uomo, che riferiscono di aver visto un elicottero bianco, con la coda rossa, in volo sul battello carico di migranti per ben due volte, prima che si schiantasse contro una secca. Le parole dei tre sopravvissuti sarebbero state videoregistrate e tradotte.
A largo di Cutro, lo ricordiamo, è avvenuto uno dei naufragi più drammatici della cronaca recente, con 94 morti, dei quali 35 bambini. Solo 80 persone si sono salvate.
Secondo la testimonianza dei sopravvissuti, l’elicottero avrebbe sorvolato il barcone prima che fosse buio, alle 19 del 25 febbraio circa: questa la ricostruzione dei legali. Poi lo hanno avvistato di nuovo di notte, probabilmente intorno alle 22. Quindi, l’avvistamento sarebbe avvenuto circa 4 ore prima che un velivolo di Frontex segnalasse l’imbarcazione e più o meno 9 ore prima del naufragio.
I sopravvissuti ricordano che in tutti e due i casi gli scafisti hanno fatto entrare subito sotto coperta i migranti per nasconderli. Nella registrazione della deposizione consegnata in Procura, di cui il quotidiano La Stampa asserisce di avere copia, si vede che un sopravvissuto indica l’immagine di un elicottero della Guardia Costiera.
Dettagli emersi solo ora, a distanza di mesi, casualmente, mentre i legali tentavano di ricostruire cosa fosse accaduto prima del naufragio. I magistrati cercano ora riscontri. Verranno quindi acquisiti i piani di volo degli elicotteri della Guardia Costiera per verificare le testimonianze raccolte.
Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” domenica 30 luglio 2023.
Da una settimana circa, agli atti dei magistrati di Crotone che indagano sul più drammatico naufragio di migranti avvenuto in acque italiane negli ultimi dieci anni – 94 morti di cui 35 bambini e 80 sopravvissuti – c'è un colpo di scena sul quale sono in corso accertamenti investigativi. Tre testimonianze, […] sono state depositate dai legali torinesi Marco Bona, Enrico Calabrese e Stefano Bertone con la formula delle indagini difensive. I sopravvissuti parlano di un elicottero bianco che alle 19 del 25 febbraio, quindi 9 ore prima del tragico schianto del caicco "Summer Love" in una secca a ridosso della spiaggia di Steccato di Cutro, avrebbe sorvolato l'imbarcazione. Alle 19 circa e poi alle 22.
[…]
Primo verbale: «È volato sopra di noi, ha compiuto una deviazione e se n'è andato. Eravamo seduti sul ponte superiore della nave, i quattro scafisti ci hanno costretto a nasconderci sottocoperta». I legali chiedono ai testimoni di descrivere il velivolo: «Era tutto bianco con una coda rossa e insegne rosse. Di nuovo intorno alle 22 ha sorvolato la nostra imbarcazione, poi è andato via. Siamo dovuti correre ai piani inferiori un'altra volta per non farci vedere». A quel punto vengono loro mostrate le foto di due elicotteri: uno della Guardia di Finanza e uno della Guardia Costiera.
Nel video depositato in procura – di cui La Stampa ha copia – indicano senza esitazioni il secondo: «È questo». Sottoscrivono il match con una firma sull'immagine riconosciuta. Aggiungono: «Il governo italiano non ci ha aiutato affatto, quei due elicotteri sapevano della nostra nave, nonostante ciò, non si sono presi cura di noi e non ci hanno salvato. Abbiamo navigato in acque italiane per dieci ore. Nessuna polizia nessuna guardia di frontiera sono venuti a salvarci e ci hanno lasciato affondare».
Secondo verbale: «Verso le 22-22.30 mentre mi trovavo sotto coperta ho sentito il rumore di un elicottero, ne sono certa».
Terza testimonianza: «Ho visto un elicottero bianco sorvolare la nostra barca. L'ho visto per 5 secondi perché non appena si è abbassato lo scafista mi ha costretta a tornare sottocoperta». Ci vorranno ovviamente approfondimenti per capire se quell'elicottero appartenesse realmente alla Guardia Costiera italiana o magari anche all'omologa greca (che ha una livrea identica ma con inserti azzurri) visto che alle 19 della sera precedente allo schianto la Summer Love si sarà trovata (viaggiando a 6 nodi com'è noto) a circa 60 miglia nautiche dalla Calabria e fuori dalle "acque italiane". Di certo c'è che l'autorità marittima del nostro Paese mai, nell'articolato resoconto di quella notte, ne ha fatto menzione.
[…]
Spiegano i legali torinesi che in passato hanno già assistito le famiglie delle vittime dei naufragi Norman Atlantic, Al Salam Boccaccio, (1000 migranti morti) e Costa Concordia: «Del transito di un elicottero hanno parlato spontaneamente introducendo loro quella presenza. Di particolare interesse è che quando abbiamo chiesto loro come potessero essere sicuri che quel rumore appartenesse a quel tipo di mezzo e non a un bimotore ad elica come quello di Frontex ci hanno risposto che come afghani hanno una considerevole esperienza di sorvoli di ogni genere di velivoli anche militari». Parola ai magistrati.
Estratto dell'articolo di Lodovica Bulian per "il Giornale" lunedì 31 luglio 2023.
Di nuovo la Guardia costiera sotto accusa per i mancati soccorsi che avrebbero causato il naufragio di un caicco carico di migranti a Steccato di Cutro […] Nell'inchiesta della Procura di Crotone, gli avvocati delle famiglie di vittime e superstiti, nell'ambito delle loro indagini difensive, hanno […] raccontano di aver visto un elicottero, «tutto bianco con una coda rossa e insegne rosse», sorvolare il caicco tra le 19 e le 22 del 25 febbraio, cioè nove ore prima dello schianto.
E tutti e tre, di fronte a due foto mostrate dai legali, una raffigurante il mezzo della Guardia Costiera e l'altra quello giallo della Guardia di Finanza, hanno indicato con certezza il primo. Il corpo però respinge con forza l'ipotesi e in queste ore fornirà alla Procura di Crotone tutti gli atti relativi agli ordini di volo delle basi aeree del 25 febbraio. […]
Sottovoce trapela indignazione per l'ennesima accusa basata su una certezza cromatica tale anche da scartare l'ipotesi che si potesse trattare di un mezzo della guardia greca, dotata di elicotteri bianchi con insegne azzurre. […]
Le condizioni di luce permettevano di distinguere con nitidezza colori e livree? […]Un elicottero del corpo ha un'autonomia di due ore e mezza, non sufficiente per coprire l'arco di tempo che va dal primo avvistamento riferito dai migranti alle 19, al secondo collocato tre ore e mezza dopo. […]
Il presunto sorvolo si colloca quattro ore prima della segnalazione di Frontex all’International coordination center e al centro di coordinamento della Guardia costiera. Segnalazione che ha attivato un'operazione di law enforcement contro l'immigrazione illegale e non di soccorso, il Search and rescue. É il nodo su cui ruota l'inchiesta. Frontex si era limitata a segnalare l'imbarcazione in navigazione regolare, con una buona linea di galleggiamento, una sola persona in coperta, e la possibile presenza di persone sottocoperta rilevata dalle telecamere termiche.
Insomma, un evidente caso di immigrazione clandestina. Ma non è stato lanciato un mayday. Se davvero un elicottero della guardia costiera italiana, greca o maltese avesse sorvolato il caicco quattro ore prima di Frontex, avrebbe valutato condizioni di pericolo diverse e avrebbe agito in altro modo? Domande senza risposta. […]
In 500 sul barcone salvati nella notte. E a Salerno soccorsi altri migranti. Tragedia scongiurata dalla Geo Barents in acque maltesi. Il carico della Ocean Viking. Valentina Raffa il 5 Aprile 2023 su Il Giornale.
Onde alte, forti raffiche di vento che domenica hanno toccato i 40 nodi e area Sar Maltese. La situazione di un barcone con circa 500 migranti non è delle migliori, ma l'imbarcazione è guardata a vista dalla Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici senza Frontiere, che è riuscita a trasbordare circa 200 passeggeri. Malta ha assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso autorizzando solo due mercantili giunti nella notte tra domenica e ieri per «ombreggiare» l'imbarcazione, non la nave di Msf che comunque sta proseguendo nel trasbordo. Il barcone era stato segnalato domenica da Alarm Phone. Procedeva verso Nord. Il motore, infatti, funzionava, ma le condizioni meteo marine destavano preoccupazione.
Due piccoli scafi di Geo Barents si sono avvicinati per tentare il soccorso, reso impossibile dal mare grosso, per cui la Ong ha lanciato i salvagenti, di cui i passeggeri, partiti dalla Libia, erano sprovvisti. In tutto questo trambusto, da più parti è stata chiamata in causa Malta. «Credo che questo barcone sia in acque 'Sar' maltesi. Tocca ai maltesi intervenire se la nave è in pericolo. Vedremo cosa diranno» ha dichiarato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che ha aggiunto: «Siamo in contatto con le autorità libiche e anche con il generale Haftar che controlla la Cirenaica. Stiamo dando motovedette italiane alla Guardia costiera perché siano effettuati controlli che impediscano partenze». E poi eccola, dopo essere stata contattata dall'Italia, finalmente la guardia costiera de La Valletta ha assunto il coordinamento dei soccorsi. Bisognerà vedere se sarà disposta anche ad accogliere i migranti una volta messi in sicurezza o se, come da copione, questi sbarcheranno in Italia dove, ieri poco alle 8, al molo 22 del porto di Salerno sono approdati i 92 migranti presi a bordo al largo della Libia dalla Ocean Viking di Sos Mediterranèe. Il loro gommone si era sgonfiato. Tra i passeggeri ci sono 9 donne e 51 minori, di cui 48 non accompagnati. Per Salerno è il 27esimo sbarco, il secondo da inizio anno. In questo contesto il premier Giorgia Meloni ha convocato un vertice di governo con i vice Tajani e Salvini e i ministri Piantedosi e Crosetto per parlare del nuovo piano in 9 punti per la gestione dei flussi e per far fronte all'emergenza sbarchi che da inizio anno hanno superato i 28mila arrivi. Malgrado il cattivo tempo di questi giorni, le partenze si sono registrate ugualmente, con il rischio di naufragi, di alcuni dei quali probabilmente non si saprà mai. In difficoltà anche i soccorritori, che hanno faticato per mettere in salvo 32 migranti, tra cui un bambino, che erano approdati nell'isolotto di Lampione (Pelagie), restando bloccati. La guardia costiera ha effettuato diversi tentativi di recupero via mare con le motovedette Sar, ma le onde alte e il forte vento hanno impedito di raggiungere i migranti che, alla fine, sono stati messi in sicurezza con un elicottero Nemo della guardia costiera. Il mezzo ha operato in condizioni difficilissime, anche con raffiche di vento fino a 50 nodi. Per tre dei migranti è stato necessario il trasferimento al Poliambulatorio di Lampedusa per accertamenti. Se il maltempo non ha impedito ai trafficanti di far salpare i barconi, da Lampedusa sono stati bloccati i trasferimenti dei migranti stabiliti dalla prefettura di Agrigento. I traghetti che fanno la spola con Porto Empedocle, infatti, non hanno potuto raggiungere l'isola dove, nell'hotspot, al momento ci sono 465 ospiti.
Cutro, l'accusa a Frontex: "Informazioni fuorvianti", cosa è successo. Libero Quotidiano il 06 settembre 2023
Sul fronte dell'inchiesta sulla strage di Cutro arriva una grossa novità. "Le informazioni fornite da Frontex sulla rotta e sulla navigazione sono state molto approssimative se non fuorvianti". Così a sorpresa, con una consulenza destinata a suscitare polemiche, i periti nominati dalla Procura di Cutro definiscono le indicazioni date da Frontex a tutti gli interlocutori istituzionali, tra cui anche le autorità italiane, dopo l"avvistamento nella notte tra il 25 e il 26 febbraio scorso del caicco naufragato a Steccato di Cutro con 94 vittime. E di fatto questa perizia ha un peso mostruoso nell'inchiesta: infatti mette a tacere le voci vergognose sui mancati soccorsi da parte della nosrtra Guardia Costiera in quella maledetta notte.
Come più volte avevamo ricordato, Frontex si limita a parlare di una imbarcazione in navigazione senza però rilevare particolari criticità. La sinistra ha usato la strage di Cutro per attaccare il governo, ma adesso i fatti e la verità vengono alla luce.
A quanto pare, secondo il racconto dei periti, il caicco si avvicinò alle coste calabresi secondo una rotta e con tempi diversi da quelli indicati da Frontex. E questo avrebbe cerato non pochi problemi sul momento in cui è stato dato l'allarme con il conseguente intervento delle motovedette della Guardia di Finanza. Insomma la storia di Cutro a quanto pare è tutta da riscrivere con buona pace della sinistra che ha usato quella vicenda per colpire l'esecutivo con i morti ancora sulla spiaggia.
Le origini dell’Estraneità domenica. L'Indipendente domenica 27 agosto 2023.
La figura dell’Estraneo può nascere da una scarsa conoscenza di sé e di quelli che ci circondano. Ecco perché solo una buona conoscenza di se stessi, può liberarci dall’essere considerati degli estranei.
Come mai nessun essere umano è consapevole del proprio immenso valore?
Esaminando i destini relativi a persone che nascono come capolavori e poi vengono imprigionati nel labirinto delle norme e dei ruoli (sono uno studente, un dottore, una moglie, un’artista, una badante, etc.) si finisce per provare sentimenti di avversione, di ostilità e di odio nei confronti degli sconosciuti e a volte perfino verso se stessi. Il noto problema della diffusa ostilità verso gli extracomunitari e l’avversione per chi non è nato nel nostro Paese, scaturisce in ognuno dall’ignoranza del proprio grande valore.
L’Estraneità dunque, nasce da ciò che si ignora. Se veramente conosciamo noi stessi, non solo l’Estraneo non esiste, ma il nostro Ego, ovvero il nostro “io”, si può diffondere all’esistenza di tutti i nostri simili. Purtroppo attraverso il tempo tutti o quasi si sottomettono a Stati e Governi, il cui potere trae origine in massima parte dal dilagare dell’Estraneità. Si tratta di scoprire che gli Esseri Umani non solo sono simili tra loro ma sono identici, con il diritto di vivere e non soltanto di esistere, sotto il peso di una cultura imposta dall’alto che non è la loro. [di Silvano Agosti – regista, sceneggiatore, poeta e scrittore]
Estratto dell’articolo di Marco Valle per “il Giornale” martedì 22 agosto 2023.
Cattive notizie per Mohammad bin Salman Al Sa’ud (MBS per amici e nemici), rampantissimo principe ereditario dell’Arabia Saudita. L’ong britannica Human right watch ha presentato un durissimo rapporto riguardante le «attività di contrasto all’immigrazione» lungo il confine meridionale del regno. Secondo gli attivisti di Hrw le guardie di frontiera saudite schierate sulla frontiera con lo Yemen - Paese da anni dilaniato da una feroce guerra civile tra sciiti e sunniti, rispettivamente sponsorizzati da Teheran e Riad - hanno il grilletto molto, troppo facile.
Risultato, un susseguirsi di carneficine con centinaia di morti. A farne le spese soprattutto i migranti in fuga dalla vicina Etiopia un altro inferno devastato dalle faide interne, dalla carestia e dalla siccità - che, attraversato il Mar Rosso e approdati nello Yemen, tentano di passare nel regno dei Saud per raggiungere gli emirati o l’Egitto e poi, forse, l’Europa. […]
«Quando i sauditi ci hanno visto, hanno iniziato a spararci con proiettili e razzi - dice una donna a Hrw -. Dei 300 che erano nel mio gruppo, sono sopravvissuti meno di 150». «Ho visto persone uccise in un modo che non avrei mai immaginato», ha detto ai volontari di Hrw la 14enne Hamdiya, che ha attraversato il confine con altre 60 persone lo scorso febbraio. Per chi sopravvive un campo di concentramento, torture e bastonate.
Da qui l’immediata richiesta del Dipartimento di Stato americano ai sauditi di aprire subito «un’indagine approfondita e trasparente». È di ieri peraltro la notizia che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden potrebbe incontrare il principe in occasione del vertice del G20 in programma il 9 e 10 settembre a Nuova Delhi.
Insomma, una brutta storia che offusca nuovamente il blasone del principe e oscura le nuove ambiziose politiche saudite. […] Ricordiamo che da anni MBS è impegnato nella difficile modernizzazione del suo sabbioso regno, uno sforzo iniziato nel 2017 con la rottura dell’asse storico tra la dinastia e il molto reazionario clero wahabita, il richiamo all’ordine, felpato ma severo, dei potenti locali (compresi i circa 300 membri della famiglia reale) e l’introduzione di alcune prudenti riforme.
Poi, forte dei petrodollari dell’Aramco (la società energetica statale) l’erede al trono ha lanciato «Vision 2030», una somma di progetti avveniristici destinati a modificare radicalmente l’immagine dell’Arabia Saudita tra città ecosostenibili, massicci investimenti nell’idrogeno e nel solare, aperture impensate al turismo (con l’obiettivo di portare a Riad l’expo 2030).
Al tempo stesso MBS ha investito enormi capitali in Europa e negli Stati Uniti con importanti acquisizioni immobiliari e partecipazioni nel business del calcio. Il tutto tra inciampi come la guerra per procura contro l’Iran nello Yemen, l’embargo verso il Qatar e, soprattutto, l’assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, di cui la Cia ha accusato il principe d’essere il mandante.
Per gli Stati Uniti MBS divenne una persona impresentabile e lo stesso Joe Biden lo definì un «reietto». Ma, poiché i soldi non dormono mai e gli interessi geopolitici nemmeno, le accuse occidentali rientrarono presto. Al punto che qualche giorno fa il premier britannico Rishi Sunak ha invitato MBS a Londra, e chissà se questa visita resterà in piedi.
L’Arabia Saudita è e resta un attore fondamentale del nuovo scenario mondiale e l’erede al trono è saldo al potere. Qualcuno avverta i poveri migranti etiopi. Difficilmente per loro vi sarà giustizia.
La frontiera uccide. Nicoletta Dos su L'Indipendente giovedì 10 agosto 2023.
Fathallah, trentun’anni… Ullah, quindici anni… Blessing, ventun’anni… altre e altri mai trovati o ritrovati dopo il disgelo, ridotti a resti irriconoscibili…
È la storia di chi si perde, nel vano tentativo di superare il confine tra Italia e Francia, risalendo la Valle di Susa verso la Valle della Durance.
Oggi arriva la notizia dell’ennesima vittima della frontiera, anche lui giovanissimo, trovato tra le pinete abbarbicante sul ripido versante che da Montgenèvre scende a Briancon. Sentieri di lupi e di fuggiaschi… e di migranti sul cammino della disperazione, caduti mentre cercano di sfuggire alle guardie di frontiera.
I giornali non ci dicono nulla di lui se non la presunta età di 20-25 anni, ma è facile immaginarlo sulla strada da Oulx verso Claviere, poi sul viottolo che, lasciato l’abitato, si inerpica lungo pendii sempre più ripidi, l’occhio e l’orecchio attento dell’animale braccato dai cacciatori. Equipaggiamento nullo, forse qualche generica indicazione, ma a temperare la fatica c’è il sollievo che la Francia è vicina (che cosa sono pochi chilometri rispetto ad un cammino che dura da anni, tra pericoli e soprusi infiniti?) e forse la meta – un parente, amici, o comunque qualche prospettiva per cui è valsa la pena tanta sofferenza – si trova lì, a portata di mano.
Più in basso, a Claviere, a Montgenèvre, si respira il clima festaiolo delle vacanze: sono stati riaperti alberghi e alloggi stagionali; quelle che d’inverno diventano piste da sci, si sono trasformate in campi da golf (sponsor la Lavazza) e in percorsi ginnici; il bacino artificiale, le cui acque vengono utilizzate per l’innevamento invernale, è diventato una sorta di solarium per gli amanti della la tintarella, mentre la statale di valico funziona da via dello “struscio” per chi vuol farsi “due passi in frontiera”.
Qui, lo scorso fine settimana, i solidali NO Border avevano organizzato Passamontagna, un campeggio itinerante “senza frontiere né autoritarismi”. Contro di loro la frontiera ha reagito con ferocia: la Gendarmerie in assetto antisommossa, manganelli e un fuoco di fila di lacrimogeni. Naturalmente a sollecitare l’indignazione dei bempensanti non è stato il fumo dei lacrimogeni ma la “maleducazione dei manifestanti che hanno calpestato i campi da golf”.
Intanto poco lontano, nel cuore della foresta, ai bordi di un sentiero che si perde nel nulla, moriva, solo, un ragazzo.
[di Nicoletta Dosio – Oltre ad essere da sempre attiva in numerose lotte sociali e politiche sul territorio piemontese, Nicoletta Dosio è uno dei volti storici del Movimento No TAV. Condannata ai domiciliari per aver partecipato a una manifestazione pacifica del Movimento, ma rifiutandosi di sottostarvi e divenire così “carceriera di sé stessa”, Nicoletta è stata imputata di almeno 130 evasioni, che le sono valse la condanna a oltre un anno di carcere presso il penitenziario di Torino]
"Non c'è frontiera! Sono i bianchi ad averla...". La verità sui flussi migratori. Dai subsahariani arroganza e offese alla Tunisia e minacce all'Europa che tentano di fermare i migranti irregolari: "Non ce ne frega, noi continuiamo". Francesca Galici l'8 Maggio 2023 su Il Giornale.
Il flusso migratorio dalla Tunisia all'Italia è in costante aumento. Le destabilizzazioni geopolitiche degli ultimi mesi hanno contribuito a incrementare le partenze verso l'Italia, causando una situazione di emergenza nel nostro Paese. La Tunisia è un Paese sull'orlo della bancarotta e senza un aiuto da parte dell'Europa difficilmente può essere in grado di gestire i flussi di migranti che prendono il mare dalle sue coste. Per questa ragione, la Farnesina ha disposto uno stanziamento di 10 milioni di euro, di cui 6,5 per ulteriori forniture di equipaggiamenti per il contrasto alle migrazioni irregolari.
Intesa contro il traffico di esseri umani. L'Ue dà ragione al governo sui migranti
"L'Italia conferma il suo ruolo cardine a sostegno della Tunisia a tutto campo. Un nuovo, concreto, gesto è rappresentato dalla decisione di assicurare risorse aggiuntive alla collaborazione in ambito migratorio per accompagnare le autorità tunisine nella gestione di un fenomeno che vede i nostri Paesi uniti nel combattere le reti di trafficanti di esseri umani", ha spiegato Antonio Tajani. L'eco delle parole del vicepremier, e la notizia dello stanziamento, sono arrivate fino all'altra sponda del Mediterraneo, dove sono state oggetto di discussione tra i possibili futuri migranti e il resto dei nordafricani. "Bravo alla Tunisia per essere la polizia dei loro confini. Bravo al neocolonialismo", scrive un sostenitore delle migrazioni irregolari, sostenendo che questi aiuti configurano una nuova forma di colonialismo. Teoria smontata da un altro utente: "Sono entrati legalmente in Tunisia? I tunisini saranno in grado di proteggere il proprio confine come priorità con questi soldi... Non importa dove sia il confine, ci sono regole da rispettare". Concetto troppo complicato, a quanto pare, da capire: "Africa è Africa, non c'è frontiera! Sono i bianchi che ce li hanno, noi siamo diversi. Devono imparare bene la storia prima di intervenire. È l'Africa che vince se non ha paura di aver paura".
Un confine è senz'altro costituito dal Mar Mediterraneo che separa l'Africa dall'Europa ma nemmeno quello sembrano rispettare, ripetendo gli stessi concetti che da sinistra e dalle Ong vengono utilizzati per giustificare le migrazioni. Paesi senza più confini e libera circolazione in tutto il mondo: "Devono solo mettere la recinzione! Andiamo dove Dio vuole". I subsahariani, che rappresentano la percentuale maggiore di migranti irregolari verso l'Italia, ora si arrogano anche il diritto di insultare la Tunisia, offendendone il governo perché collabora con l'Italia ne tentativo di bloccare le partenze irregolari: "Se ho capito bene la Tunisia è ora guardiana dei confini italiani. Vergognati, davvero". C'è poi l'arroganza di dire "non ce ne fotte", in totale sfregio di due Paesi che tentano di ristabilire la legalità: "Vi restano ancora 90 milioni di euro da versare in Tunisia. Nel frattempo, noi continuiamo ad attraversare il Mediterraneo. Tunisia, sei il vero zerbino italiano".
Ma tra tutti i messaggi di questo tenore, che evidenziano un atteggiamento strafottente e pretensioso, esibito anche una volta arrivati in Italia, c'è anche chi, forse inconsciamente, rivela la realtà dietro l'aumento dei flussi. "Abbiamo chiamato i soldati? Sì, li chiameremo anche domani per aiutarci. Non dimenticate che c'è il buono tra i cattivi, e la Russia è buona tra i Paesi europei per l'Africa".
"Ipocrisia infinita". Dai migranti africani l'assurda polemica sull'accoglienza agli ucraini. Al pari degli idealisti dell'accoglienza indiscriminata, ora anche in Nord Africa i migranti del mare vengono paragonati ai rifugiati ucraini. Francesca Galici il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.
La propaganda contro l'Europa ha valicato i confini stessi del Continente diffondendosi anche dall'altra parte del mar Mediterraneo. Il continuo insistere da parte della sinistra radicale sull'accoglienza indiscriminata dei migranti economici ha generato in loro stessi la convinzione di poter a loro volta attaccare il sistema europeo, lo stesso che da anni garantisce accoglienza e supporto a chi sbarca irregolarmente. Mentre l'Europa, ma soprattutto l'Italia, sono in affanno per garantire accoglienza dignitosa a tutti, infatti, si creano polemiche nel tentativo di equiparare i migranti che arrivano dall'Africa con quelli che arrivano dall'Ucraina.
In questo contesto si inserisce una vignetta che è stata pubblicata alcune ore fa su uno dei tanti gruppi dedicati al mondo dei migranti africani. Una rivisitazione di un vecchio classico dei meme che è stato modificato nella chiave più utile alla propaganda immigrazionista. Nell'immagine sono raffigurati due banchetti, uno per il supporto all'Ucraina e un altro per il supporto al Sudan. Le tante persone raffigurate in fila, ognuna con una bandiera di uno Stato o di una organizzazione, sono tutte in attesa di fornire il loro aiuto al Paese invaso da Putin mentre nessuno viene raffigurato mentre offre il suo sostegno al Paese africano.
Una vignetta vittimista e provocatoria, che vuole sottolineare come dall'Europa non ci siano aiuti per i Paesi africani in difficoltà ma solo interventi palliativi sulle migrazioni, come viene detto da un utente. Ma c'è chi mette in evidenza che questo parallelismo Ucraina-Sudan, che viene spesso fatto anche dalla sinistra del nostro Paese e non solo quando si vuole avanzare l'ipotesi di razzismo latente per le posizioni del centrodestra sugli sbarchi, non regge. "Donne e bambini che arrivano dall'Ucraina sono pronti a tornare nel loro Paese a guerra finita... Sudan... 90% sono uomini che fisicamente possono essere fatti passare per sudanesi. Questa è ipocrisia infinita", scrive un utente a commento di quella vignetta.
La sua critica si basa sul fatto che spesso gli immigrati che entrano illegalmente in Europa, e in Italia, distruggono preventivamente i loro documenti per complicare l'identificazione e dichiarano una provenienza e una nazionalità compatibile con una di quelle meritevoli di protezione internazionale. Questo per poter ottenere lo status di rifugiati pur non avendone diritto perché, in realtà, cittadini di Paesi che non presentano criticità tali da prevedere una misura simile. E sul fatto che siano sempre per lo più uomini quelli che sbarcano, a differenza degli arrivi dall'Ucraina, è sotto gli occhi di tutti. Ancora una volta dall'altro lato del Mediterraneo piovono accuse e attacchi all'Europa, fomentati dagli idealisti dell'accoglienza che spingono sempre più migranti a prendere il mare, illusi dalle false speranze.
“Meloni ingiusta e disumana”. L'ennesimo schiaffo della Francia all'Italia. Dopo l'attacco da parte di Gerald Darmanin, dalla Francia è stato mandato un altro siluro diplomatico contro l'Italia sulla questione migranti. Stavolta è Stéphane Séjourné, portavoce del partito di Emmanuel Macron. Francesca Galici il 10 Maggio 2023 su Il Giornale.
Dalla Francia non sembrano esserci segnali di distensione dopo la crisi diplomatica aperta da Gerald Darmanin con il suo attacco al governo Meloni. Mentre l'Italia e il governo francese tentano di ricucire, è arrivata l'ennesima bordata contro l'esecutivo di Giorgia Meloni, stavolta da parte di Stéphane Séjourné, portavoce di Reinassance, il partito di Emmanuel Macron che in Europa è alleato con il Partito democratico.
"L'Italia pretende rispetto: la Francia chieda scusa"
"L’estrema destra francese prende per modello l’estrema destra italiana. Si deve denunciare la loro incompetenza e la loro impotenza. Meloni fa tanta demagogia sull’immigrazione clandestina: la sua politica è ingiusta, disumana e inefficace", ha tuonato sulle colonne de Le Figaro. Ma non è tutto, perché tra qualche settimana Séjourné sarà a Roma, dove ha organizzato un incontro Renew Europe per il Pd. E in quell'occasione, ha dichiarato, intende replicare il suo messaggio. Mentre dall'Italia arrivano segnali per un distensione, la Francia continua ad alimentare le tensioni con l'Italia per meri scopi interno. Macron e il suo partito sanno di aver perso molti consensi e in questo moto, usando Giorgia Meloni come spauracchio, pensano di riuscire a recuperare qualche voto in Francia, screditando Marie Le Pen.
"Nessun boom di migranti al confine". I numeri che sbugiardano la Francia
Ancora una volta il Paese transalpino si dimostra scarsamente interessato agli interessi dell'Europa, avanzando la pretesa di poter agire con prepotenza anche sugli interessi nazionali di altri. Una presunzione che il partito di Macron ha dimostrato già in altre occasioni e che ora si ripete, con l'Italia messa nel mirino. Gli attacchi di Darmanin sono stati giustificati da una pressione crescente dei migranti ai confini tra Italia e Francia a causa dell'incapacità del governo italiano di gestirli. Ma questa versione è stata smentita dalle associazioni che operano sul confine, che non hanno registrato alcun aumento. Anzi, hanno rivelato che i numeri addotti dal governo francese per il suo attacco all'Italia sono viziati dal conteggio multiplo degli stessi migranti che tentano di raggiungere la Francia più e più volte.
Tutto questo nonostante Marine Le Pen abbia ribadito in più occasioni che il suo partito e quello di Giorgia Meloni non hanno elementi di affinità ma che ci siano maggiormente con quello di Matteo Salvini. Ma Fratelli d'Italia è il partito che ha ottenuto la maggioranza dei voti alle ultime elezioni in Italia e Macron vuole evitare che Le Pen replichi l'impresa di Meloni.
"È contro i lavoratori". Ora anche il vicepremier spagnolo attacca l'Italia. Diaz, ministro del Lavoro spagnolo, si aggiunge agli schiaffi francesi contro il governo. Meloni replica: "Da noi record storico di occupati, non ci conosce bene". L'ira di Tajani: "Giudizi inaccettabili". Luca Sablone il 10 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
L'attacco della Spagna
Meloni zittisce il vicepremier spagnolo
La replica di Tajani
L'ira del centrodestra
Ora anche la Spagna si aggiunge all'ennesimo schiaffo tirato dalla Francia all'indirizzo del governo guidato da Giorgia Meloni. L'intento sarebbe quello di smascherare chissà quali anomalie in Italia in seguito alla vittoria del centrodestra alle elezioni, ma in realtà questo tipo di atteggiamento conferma un certo nervosismo a causa del delicato momento politico che i due Paesi stanno attraversando. Vorrebbero pertanto spostare l'attenzione cercando di colpire il nostro esecutivo, che invece continua a pretendere rispetto per l'Italia.
L'attacco della Spagna
A sferrare l'attacco nei confronti di Giorgia Meloni è stata Yolanda Diaz, che ha messo nel mirino il decreto approvato dal Consiglio dei ministri l'1 maggio che - tra le altre cose - contiene aumenti in busta paga fino a 100 euro. Per il vicepremier spagnolo e ministro del Lavoro si tratta di una dimostrazione del fatto che Meloni vorrebbe "governare contro lavoratori e lavoratrici" in quanto farebbe tornare il modello dei "contratti spazzatura".
Diaz - esponente del governo socialista di Pedro Sanchez - ha colto la palla al balzo sferzando il nostro governo nel tentativo di scagliarsi contro gli ultraconservatori di Vox, accusandoli di voler fare lo stesso nel Paese iberico in futuro se dovessero arrivare alla guida del governo. Il vicepremier farebbe bene a occuparsi delle proprie vicende politiche interne piuttosto che intromettersi ed ergersi a paladino per pontificare e dare valutazioni sull'operato dell'esecutivo italiano.
Meloni zittisce il vicepremier spagnolo
Dal suo canto Giorgia Meloni ha posto l'attenzione sul fatto che il governo italiano viene citato quando si fa riferimento ai partiti dell'opposizione interna. Il presidente del Consiglio non le ha mandate a dire a Yolanda Diaz: "Parla di precarietà ma mi pare si conosca molto poco la situazione, visto che l'Italia ha appena segnato il suo record storico come numero di occupati e il suo record storico di contratti stabili". Comunque Meloni non si è detta preoccupata: sostiene che sia una "dinamica poco sensata, se non per difficoltà interne per le quali si utilizzano altri governi".
La replica di Tajani
Le dichiarazioni di Yolanda Diaz non sono ovviamente passate inosservate, visto che fanno il paio con le bordate che continuano ad arrivare dalla Francia. Sulla questione è intervenuto Antonio Tajani, che ha affidato al proprio profilo Twitter una secca reazione all'uscita del ministro del Lavoro spagnolo. "Spiace che interferisca nella vita politica italiana dando giudizi inaccettabili sulle scelte del governo", ha scritto.
Il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri ha fatto notare che "le difficoltà elettorali del suo partito non giustificano offese ad un partner e alleato europeo". In effetti lo schema è inammissibile: l'Italia viene usata come pretesto e bersaglio per un regolamento politico interno. Per Tajani "non è questo il modo di collaborare".
L'ira del centrodestra
Ormai siamo di fronte a una fiera dell'insulto verso il governo Meloni. Al veleno il messaggio di Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: "L'Italia ha avuto la fortuna di avere il grande Armando Diaz, vincitore della Prima Guerra Mondiale, la Spagna ha la sventura di avere Yolanda Diaz, che dice sciocchezze disonorando la Spagna".
Non si è fatta attendere la replica di Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera: "A quasi 2mila chilometri di distanza è facile avere una visione distorta di quella che è la realtà italiana e di quello di cui i cittadini italiani hanno bisogno. Quella di oggi rappresenta l'ennesima mancanza di rispetto di chi 'sa di non sapere'".
L'imboscata dei socialisti. La sinistra europea ha due grossi problemi: il primo è l'emorragia di voti che la coinvolge in tutto il continente. Francesco Maria Del Vigo l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.
La sinistra europea ha due grossi problemi: il primo è l'emorragia di voti che la coinvolge in tutto il continente. Il secondo ha un nome e cognome: Giorgia Meloni. Le due cose, almeno nella mente dei vertici socialisti, sono strettamente legate: l'Italia è la pecora nera della Ue, perché dimostra che un'altra Europa è possibile e che la destra al governo non è uno spauracchio ma, anzi, è un'alternativa valida e credibile. Infrange la narrazione progressista che vuole che tutto ciò che si muove al di fuori della sua zona a traffico limitato sia impresentabile. Specialmente se arriva dall'Italia. Non è una novità: le risatine di Sarkozy e Merkel nei confronti di Berlusconi sono una delle pagine più disgustose della storia dell'Unione.
Adesso il copione si ripete, ma con un tasso di isteria e di stizza superiore: perché il vento è cambiato e le fortezze del progressismo Ue sono diventate l'emblema di un pensiero politico che manifesta sempre più la sua debolezza. Come se non bastasse, a far schiantare al suolo la chimera della superiorità morale, c'è stato anche lo scandalo del Qatargate e delle Ong usate come taxi per portarsi a casa sacchi di soldi, nel senso letterale del termine. Così, a meno di un anno dalle elezioni per rinnovare l'europarlamento, si è solidificata una «internazionale anti italiana» che ha lo scopo unico di screditare il nostro esecutivo per allontanare l'ipotesi di una maggioranza del Partito popolare europeo e dei Conservatori. Solo così si possono spiegare gli attacchi, ripetuti e sguaiati, di Francia e Spagna nei confronti di Roma. Come diceva Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». E noi siamo di fronte a un'evidenza. Lo scorso 4 maggio, il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin - quello che, per intenderci, da mesi non riesce a gestire una Parigi in balìa delle proteste di piazza - definisce la Meloni «incapace nella gestione dei migranti». Ma la furia contro di noi, incontenibile e scomposta, testimonia che il governo è sulla strada giusta: sta facendo l'interesse dei suoi cittadini.
Ieri è stata messa in atto addirittura una tenaglia: due colpi nel giro di poche ore. Prima Stéphane Séjourné, il capo del partito di Macron, definisce «ingiusta e disumana» la politica italiana sui flussi migratori. Poi, a sorpresa, arriva anche l'attacco di Yolanda Díaz, numero due del premier spagnolo Sanchez e storica militante del Partito Comunista (che caso...) che attacca «il dl lavoro e i suoi contratti spazzatura». Un tema che, peraltro, non crediamo incida molto sulla vita degli spagnoli. Ma tutto va bene pur di attaccare l'Italia.
Il disegno è chiaro: i sedicenti «europeisti» di sinistra utilizzano la Ue da una parte per sistemare le beghe interne - come ha giustamente sottolineato la premier Meloni - e dall'altra per tentare di azzoppare un nuovo assetto politico continentale, cioè quello di centrodestra. L'unica cosa più squallida degli attacchi dell'«internazionale anti italiana» sono i nostri stessi connazionali che gli tengono bordone. Ma per fortuna sono sempre meno.
Monsieur Micron. Adolfo Spezzaferro su L'Identità l' 11 Maggio 2023
Ci risiamo, la Francia torna ad attaccare pesantemente l’Italia. Stavolta a puntare il dito contro il governo italiano è Stéphane Séjourné il capo di Renaissance, il partito del presidente francese Emmanuel Macron. Ma l’obiettivo finale dell’attacco non è Roma: è la destra francese di Marine Le Pen, i cui consensi sono aumentati parallelamente al crollo della popolarità di Macron a causa della riforma delle pensioni. “L’estrema destra francese prende per modello l’estrema destra italiana. Si deve denunciare la loro incompetenza e la loro impotenza. Meloni fa tanta demagogia sull’immigrazione clandestina: la sua politica è ingiusta, disumana e inefficace”. Così Séjourné, citato dal quotidiano Le Figaro in un articolo sulla crisi tra Italia e Francia dal titolo “Nonostante le loro differenze, Meloni agitata come uno spauracchio anti-Le Pen dal governo”.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni dal canto suo mette il dito nella piaga di Macron: “Io credo che si utilizzi la politica degli altri governi per regolare i conti interni. Non mi sembra una cosa ideale sul piano della politica e del galateo, però ognuno fa le scelte che vuole fare”. Così la premier replica a Parigi nel corso della visita ufficiale a Praga. Sottolineando poi che Macron e i suoi hanno appunto un problema di calo del consenso interno. “Toni inaccettabili e offensivi. La Francia non può dare lezioni a nessuno. Portino rispetto al governo italiano”. Lo scrive su Twitter il leader della Lega e vicepremier, Matteo Salvini, replicando anche lui alle parole di Séjourné.
È l’ennesimo capitolo dello scontro tra Italia e Francia. Il clima tra i due governi è diventato teso dopo la dichiarazione del ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin: la Meloni è “incapace di risolvere i problemi migratori” dell’Italia, che conosce “una gravissima crisi migratoria”, ha detto intervistato da Rmc su alcune affermazioni del Rassemblement National della Le Pen sulla situazione alla frontiera franco-italiana. Dopo queste parole, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annullato la prevista visita a Parigi e l’incontro con la collega francese Catherine Colonna. L’improvvida uscita di Darmanin, già questa strumentale più al dibattito politico interno che a un attacco premeditato nei confronti dell’Italia, si è comunque trasformata in un autogol. E dopo aver definito l’esecutivo Meloni “un governo di estrema destra scelto dagli amici della signora Le Pen”, è stato bersagliato dalla destra francese.
“Proseguono le assurde dichiarazioni da parte di alcuni politici francesi nei confronti del governo italiano. Affermazioni che dimostrano la presunzione di chi pensa più ad impartire lezioni agli altri invece che gestire la caotica situazione in casa propria. I ‘macroniani’ dovrebbero guardare all’ordine pubblico devastato in Francia, tra proteste e manifestazioni infuocate al centro di Parigi, piuttosto che preoccuparsi della politica italiana sull’immigrazione. Noi non ci faremo intimidire dalle critiche, il governo di centrodestra va avanti con decisione nelle sue scelte, necessarie per la sicurezza del Paese e la tutela dei cittadini”. A sottolinearlo è il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (FI).
Stiamo assistendo dunque a un vero e proprio paradosso nella fase geopoltica attuale: Italia e Francia che in teoria avrebbero tanti interessi in comune spesso finiscono per litigare. Peraltro a solo due anni dalla firma del Trattato del Quirinale tra Parigi e Roma. Molto voluto dai francesi e un po’ imposto se vogliamo agli italiani è il primo trattato bilaterale e ricorda da lontano quello dell’Eliseo del 1963 Francia-Germania, che ha fatto da base alla guida Ue di questi due paesi. Ora che la Germania non è più egemone, quel ruolo lo vorrebbe la Francia. Tuttavia i nostri cugini d’Oltralpe, come tutti gli altri Paesi Ue, sono scarsamente sensibili alla questione migranti posta dal governo italiano. Parigi, come tutti gli altri Stati membri lo ripetiamo, si fa gli affari suoi. Anche perché non esiste una politica migratoria Ue per via di interessi ovviamente divergenti. Anzi, la Francia fa la sua politica migratoria di respingimento sulle nostre spalle. Non dimentichiamo infatti che in passato la polizia francese a Mentone ha pure sconfinato per ricacciare da noi i clandestini.
GLI ETERNI LITIGANTI CHE DOVREBBERO ESSERE ALLEATI
Tuttavia Roma e Parigi dovrebbero avere interessi comuni da gestire insieme – l’unione fa la forza – nella Ue (sul fronte dei conti pubblici e del Patto di stabilità, per esempio), nel Mediterraneo e in Africa. A livello geopolitico e di sicurezza e non solo sul fronte dell’emergenza migranti. Ma, come insegna la storia recente, anche qui Parigi spesso – si veda la Libia di Gheddafi – ha perseguito i suoi interessi a discapito di quelli italiani.
Certo è che fintanto che la destra della Le Pen continuerà a crescere nei sondaggi, Macron e i suoi non cesseranno di puntare il dito contro la destra della Meloni. Sebbene, come chiarito dalla stessa leader di Rn, se proprio si dovesse parlare di convergenze e somiglianze tra formazioni francesi e italiane, è la Lega di Salvini quella più vicina al partito della Le Pen. Macron però non va per il sottile, anche perché il premier è la Meloni, non Salvini.
Il Bestiario, il Francesigno. Il Francesigno è un leggendario animale molto irritato con il governo italiano e non solo perché non usa il bidet. Giovanni Zola l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.
Il Francesigno è un leggendario animale molto irritato con il governo italiano e non solo perché non usa il bidet.
Il Francesigno è un essere mitologico che quando scopre che il formaggio prodotto in casa puzza accusa i vicini di casa che non sanno fare il Parmigiano Reggiano. Nel suo tipico atteggiamento d’oltralpe, famoso per esportare simpatia in tutto il mondo, e tra una sbofonchiata, un sollevamento di spalle e una R alla francese causata da una scorretta posizione della lingua durante l’emissione del suono, il Francesigno afferma: “La signora Meloni, primo ministro italiano di estrema destra, scelta tra gli amici di Marine Le Pen, è incapace di gestire i problemi migratori per i quali è stata eletta”, e ancora: "L’estrema destra francese prende per modello l’estrema destra italiana. Si deve denunciare la loro incompetenza e la loro impotenza. Meloni fa tanta demagogia sull’immigrazione clandestina: la sua politica è ingiusta, disumana e inefficace".
Il Francesigno nasconde tra le righe una certa avversione per quello che definisce erroneamente “estrema destra” e ciò smaschera la sua falsa preoccupazione per la gestione dell’immigrazione mostrando l’alta tensione che sta vivendo internamente.
Il governo del Francesigno è innanzitutto una maggioranza relativa e alle ultime elezioni ha visto decuplicarsi i seggi dell’opposizione di destra cominciando a temere l’arrivo della grande baguette. Il Francesigno, inoltre, per quanto riguarda le accuse di ingiustizia e disumanità, farebbe bene a fare un esame di coscienza per quanto concerne il suo operato al confine con Ventimiglia per cui un vero e proprio esercito ha iniziato, nelle ultime settimane, a respingere anche i minorenni soli cosa che secondo le normative non potrebbe fare.
Il Francesigno sembra dimenticare che uno dei motivi scatenanti la migrazione di massa è, ed è stata, la sua politica coloniale che ha impoverito a dismisura i paesi dell’Africa nord-occidentale. Infine il Francesigno che si nutre a ostriche e champagne, deve affrontare da quasi un mese una sorta di guerra civile che mette a ferro e fuoco le sue città e alla quale risponde con una violenza che se al suo posto ci fosse “l’estrema destra” si sarebbe gridato al ritorno dello squadrismo fascista.
Il Francesigno, oltre a restituire la Gioconda e qualche altra opera d’arte che ci appartiene ma di cui possiamo tranquillamente fare a meno, dovrebbe, prima di pronunciare accuse insensate, sciacquarsi la bocca magari con la marca di vino italiano che quest’anno ha vinto il premio di miglior vino al mondo.
Sul confine di Mentone, dove la Francia mostra il suo vero volto sui migranti. Elena Colonna su L'Indipendente l'08 maggio 2023
«Siamo qui per dire: i nostri prima dei loro» dichiara Thierry Chave. Assieme a lui, un altro centinaio di persone sono radunate fuori da una palestra municipale a Mentone, nella quale dal 19 aprile sono temporaneamente ospitati circa cinquanta minori non accompagnati. «A causa della presenza di questi migranti sedicenti minorenni, i nostri bambini non possono più usare la palestra per fare sport» continua il cittadino di Mentone di 58 anni, responsabile di zona del partito di estrema destra Reconquete. «Non vogliamo questi migranti qui» conclude Thierry.
Nella cittadina francese, la migrazione è un tema caldo da anni. Nel 2015, la polizia francese ha introdotto controlli sistematici al confine tra Mentone e Ventimiglia e iniziato a respingere i migranti, una pratica che di fatto viola gli accordi di Shengen. Nonostante ciò, i migranti hanno continuato a tentare di raggiungere la Francia: ancora oggi, a decine cercano di passare il confine, spesso ricorrendo a percorsi pericolosi, e vengono solitamente fermati e respinti dalle autorità francesi.
Negli ultimi mesi, c’è stata però un’impennata senza precedenti nel numero di minori non accompagnati arrivati al confine. In un comunicato, la prefettura del dipartimento francese delle Alpi Marittime ha affermato che il flusso forte e in crescita di minori non accompagnati provenienti dal confine italiano ha portato alla saturazione delle strutture d’accoglienza. Al 19 Aprile, erano 1.202 i minori non accompagnati arrivati dall’inizio dell’anno, 110 nella sola settimana precedente. Questa situazione va inquadrata anche nel contesto più ampio di conflittualità tra Italia e Francia sulla questione migratoria: proprio la settimana scorsa, il ministro dell’Interno francese ha accusato il governo italiano di essere incapace di fornire una soluzione al problema dei flussi dal nord Africa, addossando ogni responsabilità sul tema interamente al Belpaese e dimenticando che quella delle migrazioni è una questione di pertinenza europea che va risolta con la collaborazione di tutti i Paesi membri. Continua invece lo scarico di responsabilità da parte di Parigi che già in passato aveva accusato Roma di non rispettare il diritto internazionale e i diritti umani. Tuttavia, soprattutto al confine con l’Italia, la condotta della polizia francese non è affatto irreprensibile, in quanto spesso vengono violati, oltre ai diritti umani, diversi accordi comunitari.
“Mentone, perla della Francia, è felice di accogliervi” si legge sul cartello paradossalmente situato a pochi metri dalla stazione di polizia dove i migranti vengono trattenuti prima di essere respinti.
«Gli accordi di Dublino stabiliscono che i migranti devono rimanere nel Paese da cui entrano nel territorio dell’Unione Europea fino a quando la loro richiesta di asilo non viene processata,» spiega Federica, una giovane studentessa italiana che abita a Mentone e che lavora come volontaria per la Caritas. Per questo motivo, la polizia francese può legalmente respingere i migranti al confine. Tuttavia, questo regolamento non è applicabile nel caso di minori non accompagnati: il diritto europeo prevede infatti che un Paese debba prendere in carico un minore anche se questo è entrato sul suolo europeo da un altro Paese, e ha già avviato una procedura di asilo altrove. «La Francia è quindi tenuta per diritto europeo – spiega Federica – ad accogliere i minori che arrivano alla frontiera di Mentone».
Questo, però, non sempre avviene. Sono anni che le associazioni per i diritti umani denunciano la pratica illegale della polizia di frontiera francese di respingere i minori non accompagnati tra Mentone e Ventimiglia. «Continuiamo a raccogliere testimonianze di minori – racconta – che non vengono lasciati passare alla frontiera, le cui date di nascita vengono falsificate, o i cui documenti vengono strappati o requisiti dalla polizia di frontiera». Ogni domenica, assieme ad altri volontari, la ragazza trascorre qualche ora sul lato italiano del confine per incontrare i migranti respinti dalla Francia. Questi arrivano ad essere anche 100 al giorno, e il numero è in costante aumento dalla fine dell’emergenza Covid. Negli ultimi mesi, racconta Federica, sono soprattutto i minori a essere sempre più numerosi.
È qui, sul lato italiano del confine, che incontriamo Kalidou. Kalidou viene dalla Guinea e ha quindici anni. È arrivato a Lampedusa il 28 Marzo, su un barcone. Dopo essere rimasto per qualche settimana in un centro per minori non accompagnati a Catania, ha deciso di continuare il suo viaggio per andare in Francia, in particolare a Parigi, dove abita sua zia. Ci racconta che ha perso i suoi genitori in Guinea e che vuole raggiungere la Francia per diventare un elettricista. «In Guinea c’è troppa precarietà, mentre in Francia le opportunità sono molte». Ci spiega che in Italia è stato accolto molto bene, ma che, parlando francese e avendo parenti in Francia, ha deciso di attraversare il confine.
La sera prima, ci racconta Kalidou, ha tentato di raggiungere Mentone prendendo un treno da Ventimiglia. «I poliziotti francesi sono saliti sul treno, mi hanno chiesto i documenti e poi mi hanno fatto scendere, mi hanno lasciato tutta la notte in un container per poi respingermi in Italia questa mattina». Al momento del rilascio i poliziotti francesi hanno registrato i dati anagrafici di Kalidou, cambiando però la sua data di nascita: «Il poliziotto mi ha detto “non hai 15 anni, ne hai 20” e ha poi scritto una data di nascita inventata». Kalidou ci mostra un certificato di nascita che testimonia che il ragazzo è nato il 6 Settembre 2008, e spiega di aver mostrato questo certificato ai poliziotti che però «non hanno voluto saperne nulla: decidono loro per te, quando sei nato, se sei un minore o no». Tale pratica è del tutto illegale, dal momento che, anche nell’ipotesi che il documento di identità esibito dal ragazzo fosse falso, anche in Francia vige la presunzione di minore età.
La stazione di polizia di confine francese, all’ingresso di Mentone: è qui che i migranti vengono trattenuti prima di essere respinti.
L’avvocato Jacopo Colomba, collaboratore di WeWorld e della Caritas di Ventimiglia, racconta che casi come quello di Kalidou sono all’ordine del giorno. Innanzitutto, perché sempre più minori non accompagnati giungono in Italia. In particolare, spiega Jacopo, si sta osservando un aumento inedito nel numero di minori non accompagnati provenienti da due Paesi, la Costa d’Avorio e la Guinea, che arrivano in Italia tramite la rotta tunisina e sbarcano a Lampedusa. Provenienti da Paesi francofoni, questi ragazzi hanno la Francia come meta ultima e si concentrano quindi alla frontiera tra Mentone e Ventimiglia. Molti vengono respinti e rimangono bloccati in Italia, ma sempre di più riescono a raggiungere la Francia: questo perché, spiega Jacopo, negli ultimi mesi la polizia di confine italiana ha iniziato a riportare in Francia i minori respinti dai colleghi francesi.
«È un vero e proprio ping-pong» spiega l’avvocato: i minori tentano di attraversare il confine e vengono fermati e respinti dalla polizia francese, vengono poi fermati dalle autorità di confine italiane che, se vedono che i migranti erano stati registrati come minori allo sbarco, li riportano in Francia. «Nei primi tre mesi del 2023, secondo dati del prefetto di Imperia, le forze dell’ordine italiane hanno riportato in Francia circa 360 minori – racconta – tutti ragazzi che si erano dichiarati minori alla polizia francese ma che erano stati respinti, e che sono riusciti a entrare in Francia solo grazie all’intervento della polizia italiana». Sta quindi emergendo, spiega l’avvocato, quanto diffuse siano queste pratiche illegali di respingimento di minori.
Le associazioni francesi lottano da anni per denunciare le pratiche della polizia al confine. Un gruppo di cinque ONG francesi, tra cui Amnesty International, sono riuscite a fine 2019 a far istituire una commissione d’inchiesta parlamentare per documentare le pratiche illegali e le violazioni di diritti umani alla frontiera. A fine 2021, la commissione aveva portato alla luce queste pratiche, soprattutto i respingimenti di minori non accompagnati. «La commissione d’inchiesta ci aveva dato molta speranza – dice Martine Landry, attivista di Amnesty International a Mentone – purtroppo, però, al confine non è cambiato nulla».
Martine si dichiara ormai molto più inquieta che fiduciosa in un miglioramento della situazione. «Le cose rischiano solamente di aggravarsi con la nuova legge sull’immigrazione» dichiara l’attivista. Una nuova proposta di legge su asilo e immigrazione è stata presentata dal governo francese a febbraio. «Amnesty International si è dichiarata fortemente contraria a questo disegno di legge, ritenendone molti articoli illegali secondo il diritto internazionale» spiega Martine. L’organizzazione internazionale ha definito questa legge “l’ennesimo testo pericoloso” che conferma “l’erosione dei diritti dei migranti in Francia”.
“La frontiera uccide” si legge sul muro di una galleria a Ventimiglia.
Nonostante la polizia italiana riporti sempre più minori dai colleghi francesi, sono ancora molti i migranti minorenni che vengono rimandati in Italia e che si ritrovano in situazioni di precarietà e vulnerabilità a Ventimiglia. Nella località ligure, infatti, da quando è stato chiuso il Campo Roja nel 2020, non ci sono strutture dove i migranti possono alloggiare. «Di fatto, da tre anni non c’è nessuno spazio per accogliere tutti i migranti che arrivano a Ventimiglia, e questi si ritrovano per strada, obbligati a creare insediamenti informali come quello sotto il ponte della Roja o davanti alla stazione» spiega Jacopo. Questi insediamenti informali vengono costantemente sgomberati, come è successo recentemente ai migranti che si erano riparati nel cortile della chiesa delle Gianchette. Save The Children e Diacone Valdese hanno aperto un dormitorio per i minori, ma i posti sono solo 12, e tanti ragazzi rimangono ancora per strada.
«Dalla chiusura del campo Roja, il contesto di Ventimiglia è fortemente decaduto – racconta Jacopo – ci siamo dovuti inventare soluzioni alternative, emergenziali e informali, senza nessun tipo di finanziamento statale». A Ventimiglia, nonostante siano moltissimi i migranti che rimangono bloccati al confine, tutto il sistema di accoglienza è in mano al terzo settore, che si ritrova sotto una pressione costante. L’emergenza alla frontiera va avanti dal 2016, ma in tutti questi anni, invece che creare strutture adeguate, sia i francesi che gli italiani hanno solo cercato modi per scaricare il problema dall’altra parte del confine, conclude l’avvocato.
Con l’arrivo della bella stagione e l’aumento degli sbarchi, la situazione alla frontiera è solo destinata a peggiorare. «Nel 2022 ci sono stati circa 33.000 respingimenti alla frontiera, la cifra più alta dal 2017, confermando la tendenza di costante crescita dalla fine dell’emergenza Covid» spiega Jacopo. Questa tendenza fa pensare che l’estate, ormai alle porte, farà segnare con ogni probabilità cifre record, che metteranno gravemente in difficoltà il terzo settore.
«La crisi migratoria esiste, ma non è causata dai migranti che si spostano scappando da situazioni difficili o cercando migliori opportunità, bensì dal fatto che non c’è una risposta adeguata» dice Federica. «La situazione tra Mentone e Ventimiglia – conclude – è dovuta alla manza di strutture adeguate su entrambi i lati del confine: non risolveremo le cose impedendo alle persone di spostarsi, perché un modo per migrare lo troveranno sempre, ma creando un sistema che le accolga». [di Elena Colonna]
I MAESTRINI DELLA FRANCIA PEGGIORE. LE OFFESE DEL MINISTRO DARMANIN ALLA MELONI CONSEGNANO IL SUO PAESE ALLA GERMANIA E SEPPELLISCONO L'UNIONE FISCALE EUROPEA. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 4 Maggio 2023
Non si può accettare che un Presidente del Consiglio italiano venga attaccato in modo così volgare e incivile dal ministro dell’Interno di un altro Paese europeo. Senza contare che parliamo dell’attacco di un Fondatore a un altro Fondatore che dimostra plasticamente la dissoluzione politica del nucleo fondante dell’Europa. Servono subito scuse pubbliche al massimo livello. Stupisce che non ci sia stata una levata di scudi delle opposizioni italiane, con le eccezioni di Conte e Provenzano, perché la difesa della dignità di un Paese viene prima di ogni lotta di politica interna. Visto che l’Italia mostra di superare nel confronto Francia e Germania non solo in dinamismo economico, ma anche nelle performance relative di finanza pubblica, è legittimo porsi l’interrogativo di fino a che punto si vuole nuocere in casa all’interesse generale per ragioni di cabotaggio elettorale.
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha fatto benissimo a non andare a Parigi per il previsto incontro con la ministra Catherine Colonna. Perché le offese al governo ed all’Italia pronunciate dal ministro degli Interni, Gérald Darmanin, ancorché figura screditata della politica francese, sono inaccettabili da ogni punto di vista. Appartengono queste offese al vocabolario dei maestrini della Francia peggiore e sono anni luce distanti dallo spirito con cui due grandi Paesi europei dovrebbero affrontare impegnative sfide comuni come quelle della immigrazione.
Ma come si permette un esponente del governo francese, addirittura con la responsabilità degli Interni, di affermare che “c’è un afflusso di migranti a Mentone perché Meloni, che guida un governo di estrema destra scelto dagli amici di Le Pen, è incapace di risolvere i problemi migratori per cui è stata eletta»? La reazione di Tajani oltre che sacrosanta è obbligata. Perché è in gioco la dignità di un Paese. Non si può accettare che un Presidente del Consiglio italiano, chiunque sia, venga attaccato in maniera così volgare e incivile dal ministro dell’Interno di un altro Paese europeo.
Senza contare che stiamo parlando dell’attacco di un Fondatore dell’Europa a un altro Fondatore che dimostra, senza scuse pubbliche a stretto giro al massimo livello, la dissoluzione politica del nucleo fondante dell’Europa. Non bastano, a nostro avviso, le parole riconciliative della ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna. Stupisce, inoltre, sul fronte interno italiano, che non ci sia stata una levata di scudi anche da parte delle opposizioni, con le eccezioni di Conte e Provenzano, perché la difesa della dignità di un Paese viene prima di ogni lotta di politica interna.
Se a tutto questo aggiungiamo che l’Italia mostra giorno dopo giorno di superare nel confronto Francia e Germania non solo nell’ormai assodato maggiore dinamismo economico, ma anche in termini di migliore performance relative di finanza pubblica, è legittimo porsi l’interrogativo di fino a che punto si vuole nuocere in casa all’interesse generale per ragioni di piccolo cabotaggio elettorale. In questo caso i francesi dimostrano di avere difetti della politica peggiori di quelli della peggiore politica italiana. Il ministro di un governo che non gode di grande salute e pensa che in un rimpasto sarà fatto fuori, crede di potere uscire dalle sue sabbie mobili francesi offendendo il capo del governo di Destra italiano.
Lo fa, addirittura, per caratterizzarsi come diga contro la crescita della sua destra interna che sta guadagnando consensi. Ma stiamo scherzando o stiamo facendo sul serio? Queste sono cose che un ministro non si può permettere di fare e di cui gli si deve chiedere conto immediato nelle sedi istituzionali più alte del suo Paese. Anche perché questa grave scivolata, addirittura stupida prima che vergognosa, danneggia la credibilità della Francia sul piano europeo.
La politica europea è oggettivamente surriscaldata dalla imminenza delle nuove elezioni. Il partitello di Macron non sa dove andare, la Meloni sta giocando una partita europea che può essere la partita della sua vita, ma anche una partita superiore alle sue forze e, quindi, per lei compromettente. Nel senso che finirebbe con indebolirla se le grandi ambizioni non si realizzassero. Tanto per dire con chiarezza che la priorità se si ha visione non può non essere la saldezza dell’alleanza italo-francese dentro lo schema della nuova Europa. Anche perché tutto questo avviene in un momento in cui nessuno sa come stanno andando davvero le cose in Ucraina e chi ha fatto cadere i droni sul Cremlino.
Tutto questo avviene, cioè, in un momento in cui servirebbe il massimo di coesione sia all’interno che all’esterno dell’Europa. Che non ha bisogno di essere frenata, paradossalmente soprattutto nell’interesse comune di Francia e Italia. La prima non ha affatto bisogno di aprire altri contenziosi con la seconda e non crediamo che Macron sia contento della sortita a uso interno di questo Darmanin. Peraltro il giorno dopo che Macron ha vinto perché la Corte Costituzionale gli ha dato ragione impedendo il referendum sulle pensioni.
Siamo fuori da ogni logica e da ogni interesse nazionale francese. Che è, invece, quello di combattere e vincere insieme con l’alleato italiano la battaglia di costruire subito un minimo di unione fiscale europea e di costruire su queste basi il fondo di garanzia europeo per i depositi e un punto più avanzato di mercato unico dei capitali. Se esce da questo scenario di alleanze, la Francia si consegna con le mani e i piedi legati alla Germania. Il discorso vale ovviamente anche per l’Italia e, con i tassi della Bce che continuano a salire e tutte le altre incognite globali, evitare la dissoluzione di questo nucleo fondante dell’Europa diventa un imperativo assoluto.
Scaricabarile migratorio. Tra Italia e Francia il solito gioco, ma le accuse di Darmanin sono tutte vere. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 6 Maggio 2023
Può darsi che il ministro dell’Interno di Macron abbia usato la retorica cattivista in maniera puramente strumentale per non perdere la faccia e la poltrona. Ma, in fondo, è quello che fa la destra dalle nostre parti da molto tempo.
Chi ha memoria dello scoppiettante inizio della legislatura ricorderà il caso della Ocean Viking, la nave della Ong francese Sos Mediterranée, a cui l’Italia rifiutò un porto di sbarco per i suoi duecentotrentaquattro malconci passeggeri e che fu costretta a tornarsene, per così dire, in patria. «Bene così! L’aria è cambiata» festeggiò sui social Matteo Salvini e la ritorsione francese non si fece attendere, con il blocco dell’accordo di redistribuzione volontaria di tremilacinquecento richiedenti asilo sbarcati in Italia e destinati in Francia e il rafforzamento del controllo alla frontiera di Ventimiglia.
Che dunque nello scaricabarile migratorio tra Francia e Italia, memore degli esordi, il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin non voglia essere quello che ci rimette la faccia e la poltrona è del tutto comprensibile.
In difficoltà in patria, attaccato da Marine Le Pen e incline di suo a una retorica “cattivista” – particolarmente redditizia nella vecchia Europa messa così male da temere di più i nuovi boat people che il nuovo Hitler e più le navi di Medici Senza Frontiere che i carri armati della Wagner – Darmanin ha attaccato Giorgia Meloni, che nel frattempo, proprio nelle stesse ore, provava a contendergli i favori di Khalifa Haftar. Embè?
Non è vero che questo Governo è in balia degli sbarchi esattamente come i governi precedenti e che governa pragmaticamente l’eccesso degli afflussi con un sovrappiù di deflussi (anche verso la Francia) altrettanto incontrollati? Non è vero che Meloni aveva promesso che col suo arrivo a Palazzo Chigi sarebbe cambiato tutto?
Non bisogna affatto pensare che Darmanin sia in buona fede e non anche lui – come molti suoi omologhi – solo interessato a scansare la responsabilità delle azioni e delle omissioni e a riversarne il peso oltre confine, per concludere che l’accusa a Meloni di essersi dimostrata incapace di fare quanto aveva promesso – blocco navale, frontiere chiuse, ingressi azzerati – è provata non solo dai numeri degli sbarchi in Italia, ma anche dagli alibi grotteschi che la maggioranza di destra continua ad invocare per giustificare il proprio fallimento.
Cosa sarebbe successo di così eccezionale dal 25 settembre a oggi da impedire a Meloni, Salvini e Matteo Piantedosi di far quello che prima accusavano Mario Draghi e Luciana Lamorgese di non sapere o addirittura di non volere fare?
Far credere che i flussi migratori legati alle crisi politiche e umanitarie disseminate attorno al bacino del Mediterraneo fossero fronteggiabili a forza di respingimenti e rimpatri è stata la sostanziale ragione del successo politico-elettorale della destra italiana dall’inizio degli anni 2000. Che qualcuno faccia notare la contraddizione non è oltraggioso per l’Italia, visto che è vero, anche se non conviene illudersi che si riveli salutare.
Denunciando in questo fenomeno planetario un dispositivo di distruzione e di annientamento dell’Italia e quindi in ogni barcone il cavallo di Troia della sostituzione etnica, economica e politica orchestrata dall’Europa “usuraia”, si è costruito non solo un racconto propagandistico efficace, ma anche la sola pedagogia politica, che la destra italiana abbia saputo concepire con ambizioni e esiti egemonici. Il “popolo della destra” si è costruito attorno al totem di una sovranità frustrata e al tabù di una invasione immaginata. Sarà molto difficile riconvertire questo consenso senza sfidarne il cuore irrazionale: è comunque cosa politicamente molto più complicata di un fact-checking.
Intanto, però, sarebbe bene non offrire alcuna sponda alla costernazione e allo scandalo per la presunta offesa francese.
Chi è Gerald Darmanin, il ministro francese che "imbarazza" Parigi. Storia di Federico Giuliani su Il Giornale il 4 Maggio 2023
Le ultime dichiarazioni di Gerald Darmanin hanno imbarazzato, di nuovo, Parigi. Il ministro dell’Interno francese ha sparato a zero contro Giorgia Meloni, accusandola di non essere "in grado di risolvere i problemi migratori" dell'Italia, un Paese che sta vivendo una "gravissima crisi migratoria". Parole di fuoco, che non a caso hanno fatto saltare la visita in Francia del ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. Dando un’occhiata al recente passato del ministro scelto da Emmanuel Macron, scopriamo che l'alto funzionario in questione ha più volte creato problemi al suo governo.
Le controversie di Darmanin
Due anni fa il sito Politico ha definito Darmanin "la scommessa rischiosa di Macron". Mai parole furono più azzeccate, a giudicare dalle innumerevoli controversie che hanno fin qui contraddistinto la carriera del ministro francese.
Poco dopo essere entrato in carica, nel 2020, ha subito suscitato scalpore minimizzando il termine "violenza della polizia", dicendo ai parlamentari che sentire quei termini lo aveva fatto "soffocare". "Quando sento il termine 'violenza della polizia', personalmente soffoco", dichiarava Darmanin.
L'uso da parte di Darmanin della parola "soffocamento" in relazione alla violenza della polizia è stato ampiamente criticato dai suoi oppositori. Anche perché aveva fatto eco alle parole dell'autista delle consegne Cédric Chouviat che, secondo testimoni oculari, aveva gridato "sto soffocando" sette volte mentre veniva trattenuto dagli agenti di polizia nel gennaio del 2020. "È un'espressione francese di uso comune. Non c'erano secondi fini", ha in seguito provato a giustificarsi il suo entourage all’AFP.
Nel 2023 è stato invece accusato di "revisionismo storico" dopo alcune osservazioni sulla schiavitù. "Le isole dei Caraibi francesi erano colonie, ma non per insediamento. Vi ricordo che, contrariamente a quanto si dice (...) ,fu la Repubblica francese ad abolire la schiavitù. In circostanze straordinariamente difficili, la Francia ha indubbiamente creato condizioni disastrose per le popolazioni colonizzate, ma è la Repubblica che ha abolito la schiavitù. Chiediamo loro di amare la Repubblica, non tutta la storia della Francia", ha dichiarato Darmanin.
L’accusa di stupro
Il nodo più spinoso di Darmanin coincide senza dubbio con le accuse di stupro mosse nei suoi confronti da tale Sophie Patterson-Spatz e archiviate dalla Corte d'appello di Parigi. La presunta vittima ha affermato che continuerà la sua battaglia legale anche in seguito alle ultime decisioni dei giudici.
I fatti contestati risalgono a un incontro tra le parti avvenuto a Parigi nel 2009, quando Gerald Darmanin lavorava per l'ufficio legale del partito di destra UMP, poi ribattezzato Les Républicans. Sophie Patterson-Spatz accusa il ministro dell'Interno di averla stuprata, quando lavorava come project manager nel dipartimento affari legali dello stesso partito. All'epoca, Darmanin era consigliere comunale nel nord della Francia. La signora Patterson-Spatz afferma di di esser stata costretta a consumare un rapporto sessuale dal futuro ministro, dopo aver chiesto il suo aiuto per revocare una pena sospesa per ricatto.
I funzionari hanno avviato un'indagine preliminare nel 2017 quando la donna è fatta avanti con l'accusa, chiusa dopo che i pubblici ministeri avevano affermato di non poter stabilire una "mancanza di consenso". Gli avvocati del signor Darmanin, nel frattempo, l'hanno accusata di un "rozzo tentativo di fargli del male" e hanno detto che la stava facendo causa per calunnia. Insomma, mentre Darmanin sostiene di essere stato sedotto da una giovane donna affascinante e determinata, Patterson-Spatz afferma di essere stata costretta a fare sesso contro la sua volontà.
Gli imbarazzi di Parigi
Tornando alle dichiarazioni su Meloni, la Francia ha cercato di gettare acqua sul fuoco. Parigi "spera" che la visita del capo della diplomazia italiana, Antonio Tajani, alla sua omologa Catherine Colonna venga "riprogrammata rapidamente", ha fatto sapere il governo francese dopo la decisione del numero uno della Farnesina di annullare la sua visita a Parigi.
"Il governo francese auspica di lavorare con l'Italia per far fronte alla sfida comune rappresentata dalla rapida crescita dei flussi migratori", ha quindi informato il Quai d'Orsay intervenendo sulle affermazioni contro l’Italia dello stesso ministro francese.
Doppiezza transalpina. Augusto Minzolini il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.
Eppure con la Francia dovremmo avere, per storia e cultura, un rapporto fraterno. E, invece, ogni due mesi con Parigi c'è uno scontro.
Eppure con la Francia dovremmo avere, per storia e cultura, un rapporto fraterno. E, invece, ogni due mesi con Parigi c'è uno scontro, un battibecco, un diverbio che vengono sanati dal solito comunicato accomodante dell'Eliseo per poi riproporsi nello stesso copione esattamente sessanta giorni dopo con l'ennesima contesa, l'ennesima diatriba. Come quella aperta ieri a ciel sereno dal ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin, che non sapendo cos'altro fare ha visto bene di intervenire in una trasmissione dell'emittente Rmc per sparare contro il governo italiano sul tema dell'immigrazione: «Meloni, alla guida del governo di estrema destra scelto dagli amici della Le Pen, è incapace di risolvere i problemi migratori per i quali è stata eletta».
Parole sprezzanti nei toni e rozze nei contenuti, non c'è che dire. Ma il paradosso è che la critica viene da un personaggio che negli ultimi mesi, mentre gli sbarchi si sono moltiplicati, si è solo preoccupato di inviare 150 poliziotti francesi al confine con l'Italia per picchiare e rispedire indietro i migranti clandestini che provavano a varcare la frontiera. Lui che accusa il governo italiano di non saper gestire il problema, si è limitato a prendere la misura più banale, più egoista, intrisa della peggior ipocrisia. Seguendo la sua logica se le coste francesi fossero prese d'assalto dai barconi come quelle italiane, il genio transalpino per essere coerente con le sue azioni dovrebbe rigettarli in mare. Invece, al solito, predica bene e razzola male: accusa l'Italia d'incapacità e magari anche di peggio, ma intanto non muove un dito per risolvere il problema e, nei fatti, ripropone la stessa ricetta di Orbán: chiudere le frontiere.
È la conferma, purtroppo, che l'Italia deve vedersela da sola. E il governo deve arginare l'esodo come può: tentare un'intesa con il generale Haftar per coprirsi sul versante libico e inviare aiuti economici per non far scoppiare la Tunisia. E ancora: salvare i barconi in mare, ma nel contempo restringere la protezione speciale e rendere più efficienti i centri per il rimpatrio. E probabilmente infischiarsene delle critiche che di tanto in tanto vengono da Parigi: da un pulpito che lesina ogni tipo di solidarietà non si accettano lezioni.
Anche perché le parole di ieri del ministro dell'Interno francese sono figlie anche di un retropensiero politico. Il tirare in ballo nelle relazioni tra Roma e Parigi i rapporti della destra italiana con la Le Pen - pensiero dal sen fuggito - dimostra che l'ostilità verso la Meloni e il suo governo ha ragioni anche di politica interna. Rappresenta il classico diversivo di un esecutivo che è assediato dalle piazze che si ribellano alla riforma delle pensioni voluta da Macron. Piazze che hanno la benedizione della destra e della sinistra. Non per nulla la polemica ha avuto come protagonista proprio quel ministro dell'Interno che non riuscendo ad arginare la protesta è finito sul banco degli imputati.
È però inaccettabile che per ragioni di cortile francese, si vada allo scontro con un Paese amico, descrivendolo come incapace e in fondo anche xenofobo. In realtà se si guardano i fatti e non la retorica pure sull'immigrazione, gli italiani sono buona gente, i francesi non so.
Picchiano gli immigrati ma danno lezione a noi. L'ipocrisia di un Paese sommerso dai problemi. Tra disordini in piazza e manganellate, La Francia ha ben poco da insegnare. Francesco De Remigis il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.
I durissimi scontri tra manifestanti e polizia per le proteste contro la riforma delle pensioni; gli arresti arbitrari della famigerata Brav-M, con i giornalisti che sui social testimoniano quanto il sistema antisommossa «francese» sia fallace, con alcuni cronisti trascinati di peso dietro le sbarre come delinquenti, salvo poi uscire senza neppure un biglietto di scuse; gli scontri con i black bloc del 1° maggio; le città messe a ferro e fuoco, gli alberghi di lusso alla mercé dei casseur; l'incubo banlieue tornato d'attualità per lo spaccio di droga; le sparatorie a Marsiglia con protagonisti minorenni diventati capibanda, perché lasciati fuori dal sistema di sorveglianza, abbandonati alla vita di strada; fino alle espulsioni di massa di clandestini dall'isola francese di Mayotte, nell'Oceano Indiano, a 8 mila km da Parigi, dove Salime Mdéré, vicepresidente del consiglio dipartimentale, ha suggerito di «uccidere» i «delinquenti». Clamore iniziale. Poi? Gérald Darmanin ha scelto le maniere forti per rimuovere i migranti senza permessi di soggiorno dalle baraccopoli, dispiegando oltre 1.800 agenti e rinforzi in tenuta da guerriglia.
Molte di queste operazioni, tutte raccontate sui media da inizio anno, caratterizzano la Francia il cui ordine pubblico è affidato al metodo Darmanin. Un «disordine» permanente come risultato, che ha colpito pure i mercati e le agenzie di rating, con Fitch che ha appena declassato la Francia perché considerata sostanzialmente a rischio instabilità. Alcune delle azioni più muscolari dei gendarmi sono già state giudicate irregolari da un tribunale di Parigi. Il prefetto su Mayotte ha fatto appello, ma la Commissione per i diritti umani ha parlato di «strategia del terrore», per quello sgombero. E in una Francia in vena di dar lezioni all'Italia sull'accoglienza, si è riaperto anche il tema dello ius soli, con i respingimenti di donne incinte a Mentone: documentati. E manganellate sui minori che tentano di scavalcare il confine. E che dire del progetto che vede espulsioni più rapide per i clandestini, e permessi speciali solo per chi vuol fare mestieri cosiddetti «sotto tensione» che i francesi non vogliono più fare? La legge, sbandierata, è stata rimandata all'autunno perché il governo non ha la maggioranza per approvare alcunché, senza alleanze. O senza ricorso alla forzatura costituzionale che permette di far passare una legge senza sottoporla al voto del Parlamento: come fatto con la riforma delle pensioni che ha scatenato il caos, dopo che la premier Borne aveva promesso il jolly 49.3 solo per provvedimenti di natura urgente. E mentre un sondaggio Csa rivela che oltre 6 francesi su 10, il 64%, sono favorevoli a fermare l'immigrazione extra-Ue in Francia, e una maggioranza ritiene l'Esagono ormai saturo di migranti, il governo è incastrato nell'altalena macroniana tra destra e sinistra, fermezza e accoglienza. Le Pen è pronta a passare all'incasso alle europee. Darmanin a mandare in malora anche il riavvicinamento Italia-Francia.
Confini, violenze e respingimenti: tutta l'ipocrisia francese sui migranti. Parigi attacca Roma sulla gestione del flusso migratorio, ma l'Eliseo dimentica i propri errori commessi nel recente passato. Mauro Indelicato il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.
Tabella dei contenuti
Dal caso Mayotte al caso Ocean Viking
I gendarmi che "scaricano" i migranti a Ventimiglia
I ministri francesi non sono certo nuovi a critiche dirette contro l'Italia. Nel momento dell'insediamento del governo Meloni, un esponente dell'esecutivo di Parigi ha dichiarato di "dover vigilare" sui diritti umani nel nostro Paese. Nelle scorse ore il ministro dell'Interno francese, Gerald Darmanin, ha invece attaccato l'Italia sull'immigrazione. Il titolare del ministero ha dichiarato che Giorgia Meloni, definita come l'amica di Le Pen, non è in grado di gestire i flussi migratori. Una critica diretta che è però arrivata da un pulpito tutt'altro che esente da errori nel passato.
"Meloni incapace". Il nuovo attacco choc della Francia all'Italia sui migranti
Dal caso Mayotte al caso Ocean Viking
Nell'estate del 2019 la "doppia veste" francese sull'immigrazione è emersa in tutte le sue contraddizioni. In quei mesi Emmanuel Macron parlava contro l'atteggiamento italiano sui migranti, nel momento in cui al Viminale sedeva Matteo Salvini. Erano infatti i mesi dello stop agli ingressi in Italia delle navi Ong, con tutte le critiche poi arrivate dall'Europa e dalla Francia in particolar modo. Ma mentre Macron si allineava alle accuse contro Salvini, all'Eliseo elaborava uno dei piani più drastici sul fronte migratorio.
Nell'ottobre successivo infatti il presidente francese si è presentato nell'arcipelago di Mayotte per presentare un importante giro di vite contro i migranti. Mayotte viene definita la "Lampedusa dell'Oceano Indiano". Qui Parigi ha piena sovranità, visto che le due isole che compongono l'arcipelago sono considerate come dipartimento d'oltremare. Vuol dire che qui sbarca da queste parti mette materialmente piede in Francia e quindi in Unione Europea. Circostanza che negli ultimi dieci anni ha attratto migliaia di migranti.
Macron, stretto dalle proteste degli abitanti delle isole, ha promesso una rapida risoluzione. Quel piano prevedeva 25mila espulsioni rapide e controlli molto serrati lungo le coste e dentro i principali porti. Un programma che, se presentato nella Francia continentale, avrebbe ricevuto critiche dall'Europa e sarebbe stato accostato a Marine Le Pen.
Pochi anni dopo, l'ipocrisia francese sarebbe emersa nel caso Ocean Viking. Nel novembre del 2022 infatti, il divieto di sbarco imposto dal governo Meloni alla nave Ocean Viking, dell'Ong francese Sos Mediterranée, ha mandato su tutte le furie Parigi. Soprattutto perché la nave è dovuta approdare a Tolone, esponendo Macron a critiche molto serrate da parte dell'opposizione. Il ministro dell'Interno Darmanin ha parlato in quell'occasione di un mancato rispetto dei diritti umani da parte italiana. Ma quei migranti scesi dalla Ocean Viking, sono stati alloggiati in una zona dichiarata di "attesa internazionale". Per diverse settimane, le persone scese dalla nave dell'Ong francese sono state di fatto confinate, guardate a vista dalle autorità e poi in alcuni casi anche rimpatriate a loro insaputa. Come testimoniato da alcuni migranti ritrovatisi nel Mali dopo un viaggio diretto ufficialmente in altri centri di accoglienza francesi.
"Brutto gesto dall'Italia". E Parigi respinge oltre la metà dei migranti della Ocean Viking
I gendarmi che "scaricano" i migranti a Ventimiglia
Ma la vera questione ha a che fare con i cosiddetti "movimenti secondari". Quelli cioè proibiti dal trattato di Dublino e che riguardano coloro che, dal Paese europeo di primo approdo, si dirigono in altri Paesi. La Francia è tra gli Stati che denuncia i movimenti secondari. Il problema però è che le autorità transalpine più volte non si sono fatte scrupolo di lasciare i migranti scoperti al loro destino al confine di Ventimiglia.
Respingimenti spesso criticate dalle stesse organizzazioni umanitarie. Un ulteriore elemento che sottolinea il comportamento francese non sempre consono e non sempre privo di problemi, sia per i migranti che per gli altri Paesi dell'Ue.
La Francia chiude le frontiere ma nessuno li chiama fascisti. Maurizio Zoppi su L'Identità il 27 Aprile 2023
La Francia pensa di risolvere l’emergenza migranti piazzando altri 150 agenti al confine italiano. Questa è la mossa strategica della fedelissima di Macron, Elisabeth Borne, che ha annunciato il dispiegamento delle forze dell’ordine ai media francesi. “Dalla prossima settimana, 150 poliziotti e gendarmi in più nelle Alpi Marittime, nel sud-est del Paese, per far fronte all’aumento della pressione migratoria al confine italiano”. Ha affermato il presidente del Consiglio a Parigi. Il primo ministro francese ha dichiarato mercoledì scorso, che spingerà i piani per una nuova legge sull’immigrazione in autunno per mancanza di un sostegno sufficiente in parlamento per farla adottare in questa fase.
Ciò avviene dopo che il governo, che non ha la maggioranza assoluta in parlamento, ha utilizzato poteri costituzionali speciali per adottare una legge sulle pensioni profondamente impopolare senza un voto finale, dopo mesi di proteste di piazza. “Ora non è il momento di avviare un dibattito su un disegno di legge che potrebbe dividere i francesi”, ha detto Borne in una conferenza stampa.
Inoltre ha dichiarato di non essere riuscita finora a raggiungere un accordo con il partito conservatore Les Republicains (LR) sul disegno di legge sull’immigrazione, che mira ad accelerare l’espulsione dei migranti illegali rendendo più facile ottenere i permessi di soggiorno per coloro che lavorano in settori in difficoltà per trovare lavoratori. Proprio il presidente dei Repubblicani, Éric Ciotti, il quale è anche deputato delle “Alpi Marittime”, ha reagito al rinvio del disegno di legge chiedendo nuovamente un referendum sull’immigrazione. “Accolgo con favore l’annuncio del Primo Ministro” ha affermato Ciotti. Il deputato però ritiene che “questi rinforzi non siano all’altezza della vera ondata migratoria che si sta verificando da diverse settimane a Mentone” e “chiede rinforzi ancora maggiori”. Ritiene che “il ricorso al referendum sia ormai l’unica soluzione”. Per Charles Ange Ginésy, presidente del consiglio dipartimentale delle Alpi Marittime, l’annuncio del primo ministro “è una buona notizia. Speriamo che questa decisione si concretizzi rapidamente e non sia una semplice risposta rispetto ad un’ondata di flussi migratori”, ha scritto in un comunicato stampa. Charles Ange Ginésy ha anche aggiunto che “questa decisione non risolverà il problema dei minori non accompagnati che ci spetta automaticamente, mentre da tempo chiedo allo Stato di assumersi le proprie responsabilità”.
E se la Francia trova soluzioni tampone rispetto al problema, dai Paesi Bassi arrivano ulteriori manovre sul fronte “migranti e Italia”. Tecnicamente: i Paesi Bassi non rimanderanno più i richiedenti asilo in Italia perché c’è il “rischio reale” che finiscano a vivere per strada e che “non siano in grado di soddisfare i loro bisogni primari più importanti, come riparo, cibo e acqua corrente” e questo “è contro i diritti umani”. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato della nazione che sostiene che al momento non ci sono le condizioni per rispettare i termini dell’accordo di Dublino, che stabilisce che i casi dei rifugiati devono essere valutati nel primo Paese di ingresso dell’Ue.
Il caso è nato da un ricorso di due uomini entrati in Europa attraverso la nostra nazione, un nigeriano e un eritreo, con il primo ha chiesto asilo prima tre volte in Italia e poi di nuovo in Olanda. Il sottosegretario per la Giustizia e la Sicurezza, Eric van der Burg, si era rifiutato di prendere in considerazione le loro richieste di asilo nei Paesi Bassi e voleva rimandarli entrambi indietro. Ma ha ricevuto lo stop dalla più alta corte nazionale. “Questo non aiuta”, ha dichiarato il politico in risposta alla sentenza. “L’Italia è un Paese importante e molte persone arrivano lì”.
Nel frattempo la Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Catania ha coordinato le indagini che, ieri, hanno portato al fermo di 17 persone, accusate di far parte di un gruppo criminale specializzato in grado di far giungere in Italia migranti in maniera irregolare, con un’offerta che comprendeva l’imbarco ed il raggiungimento della destinazione finale. Sono tutti imputati di “associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravata dall’aver agito in più di dieci persone e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina pluriaggravata”. Le indagini sono nate in seguito alle dichiarazioni rese da una minore straniera, giunta nel gennaio del 2021 presso il porto di Augusta e successivamente collocata presso una struttura di accoglienza nel catanese. Il suo obiettivo era raggiungere la Francia seguendo le indicazioni avute in Libia da una donna che l’aveva avvicinata mentre si trovava in attesa di imbarco.
Estratto dell'articolo di Paolo Bracalini per “il Giornale” il 29 Marzo 2023
Mentre l’Italia si trova a fronteggiare da inizio anno quasi 27mila arrivi di migranti, c’è Malta, isola nel cuore del Mediterraneo tra Sicilia e nord Africa, che ha accolto un solo migrante in tutto il 2023. La mappa è dell’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
I numeri spiegano meglio di tutti l’isolamento italiano: su 33.982 immigrati via mare nei primi tre mesi dell’anno, circa il 77% è sbarcato sulle nostre coste. In Spagna, separata dal Marocco da poche miglia di mare, ne sono arrivati solo 3852. In Grecia ancora meno, 3216, eppure i porti greci vengono costeggiati dalle barche provenienti dalla Turchia, un’altra delle rotte dei migranti, proprio quella seguita dall’imbarcazione che è poi affondata a Cutro. […]
Ma il vero scandalo è Malta, con un solo migrante accolto, nonostante la posizione e l’estensione della sua zona Sar («Search and rescue») in piena rotta del Mediterraneo centrale. Di fatto la Valletta ha appaltato all’Italia il soccorso dei barconi anche nelle acque di sua competenza, liberandosi del problema migranti, scaricato sull’Italia, in particolare sulla vicina Lampedusa.
Le navi Ong conoscono bene la situazione. I loro allarmi vengono sistematicamente ignorati dalle autorità maltesi. Malta se ne lava le mani, così il problema ricade sulla Guardia costiera italiana costretta a gestire migliaia di arrivi. Può succedere che Malta intervenga, ma non per soccorrere le barche cariche di immigrati, bensì per respingerle, come è successo il 26 settembre scorso con un barcone con 23 migranti a bordo, in avaria in acque maltesi.
Le autorità maltesi hanno preso in carico il coordinamento dei soccorsi come previsto dalle norme internazionali. Ma invece di inviare una motovedetta hanno ordinato ad un mercantile panamense di passaggio, di caricare i migranti e portarli in Egitto. Di fatto un respingimento. Ed è successo anche che Malta indicasse l’Italia come porto dove sbarcare.
I naufragi in acque maltesi sono frequenti, l’ultimo di pochi giorni fa: due barchini, con a bordo migranti subsahariani. Tra il 24 e il 25 marzo un gommone con 78 persone è stato soccorso da Emergency. [...]
Nessuno però a Malta (o a Bruxelles) ha chiesto le dimissioni del ministro dell’Interno o le scuse del premier maltese. É quello che Piantedosi ha definito «fattore attrattivo» dell’Italia: «Un’opinione pubblica (in Italia, ndr) che annovera l’accettazione di questo fenomeno mentre in altri Paesi, piccoli e meno piccoli, sono intransigenti in maniera trasversale tra posizioni politiche diverse, senza contrapposizioni». Descrizione che si applica perfettamente a Malta.
Il governo maltese si è mosso anche per via politica e diplomatica per tenere lontani i migranti. Non ha mai sottoscritto gli emendamenti alle Convenzioni Sar e Solas, che affidano al paese responsabile della zona Sar l’individuazione del «Place of safety», il luogo sicuro per lo sbarco. Nel 2020 il premier Robert Abela ha poi firmato un memorandum con la Libia per la creazione di strutture operative finalizzate alla «lotta contro l’immigrazione clandestina». Mentre inchieste giornalistiche hanno documentato metodi informali, come l’uso di pescherecci «fantasma» incaricati di intercettare barconi e rispedirli in Libia, e la pratica di fornire motori nuovi ai gommoni per permettergli di raggiungere la Sicilia. [...]
Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni per corriere.it il 20 marzo 2023.
L’iniziativa viene direttamente dalla Regione Friuli Venezia-Giulia: 65 telecamere sono state acquistate per sorvegliare i confini con la Slovenia. Lo scopo esatto lo spiega al Corriere Pierpaolo Roberti, assessore regionale alle autonomie locali, funzione pubblica, sicurezza, immigrazione (questa è la sua carica esatta che viene specificata sul sito della Regione) che parla di «controllo di un territorio, quello del carso triestino, facilmente penetrabile».
Le telecamere saranno «strumenti per individuare, spostare e rintracciare i flussi di migranti e poter svolgere indagini contro i passeur» che operano sulla rotta balcanica. In passato lo stesso Roberti le aveva definite «fototrappole» e ora scandisce la definizione che compare sulla delibera: quella di «fotocamere ad attivazione automatica» che «se la dici così è meno scandalistica».
Il concetto, in sintesi, resta sempre quello: un «muro tecnologico» — sempre per usare una definizione passata dell’assessore — alla frontiera. Questa settimana gli occhi elettronici — hanno scritto stamane, lunedì, il Messaggero Veneto e il Piccolo — saranno consegnati alle forze dell’ordine di Trieste e Gorizia. Saranno 50 quelle distribuite nel capoluogo regionale: 20 alla questura, 10 al comando provinciale dei carabinieri, 10 a quello della guardia di finanza e le altre resteranno alla polizia locale.
Per quanto riguarda le 15 restanti, saranno in parte consegnate alla questura di Gorizia. Lo stanziamento — 34.710 euro — risale al 2021 ma la concretizzazione del progetto ha avuto una vita piuttosto travagliata. […] Ora invece è tutto pronto: le telecamere, sistemate nelle aree boschive, saranno controllate da remoto, «utili alle indagine», pronte a controllare e distinguere «persone o animali».
Imparare dalla serie “1883”: cosa significa essere emigranti. Una potente scelta di Speranza. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2023
Ha tanto da insegnare il coraggio quasi incosciente con cui una carovana di poveri contadini provenienti dalla Germania percorre duemila miglia attraverso le Grandi Pianure. La qualità del racconto può convincere anche chi dimostra ignoranza della storia
Alla fine sono arrivato anch’io a 1883, la serie tv scritta da Taylor Sheridan sul selvaggio West. E non è stato facile. Incuriosito dal successo planetario di Yellowstone, saga sulle vicende della famiglia Dutton firmata dallo stesso autore, e indeciso se iniziarla dalla prima stagione o saltare direttamente alla quinta adesso in onda, mi sono imbattuto nella pubblicità di un’altra serie che si chiama 1923 -Yellowstone. Ho pensato che fosse un modo di entrare nella storia, e mi sono invece ritrovato nel prequel della serie principale, le cui vicende si svolgono, come avrebbe dovuto suggerirmi il titolo, al tempo dei progenitori dei protagonisti di Yellowstone. Va bene, mi sono detto, seguirò le vicende della famiglia Dutton cominciando dal secolo scorso. Ma 1923 ha il difetto di rilasciare una puntata a settimana, la domenica, e nelle restanti sei serate non sapevo che guardare. Così ho scoperto che esisteva già un prequel del sequel, o viceversa: una serie realizzata dopo il successo di Yellowstone e prima di 1923, ma ambientata in un passato ancora più remoto.
A un certo punto non ci ho più capito niente. La confusione tra personaggi, discendenti, ascendenti, parenti e affini ha raggiunto l’acme; e sono grato al mio amico Michele Anselmi, raffinato critico cinematografico e cultore del genere western, per aver pubblicato sulla sua pagina Facebook un albero genealogico con tanto di foto di tutti i personaggi della famiglia Dutton, dal 1883 fino ai giorni nostri. Una volta raccapezzatomi, ho scoperto un film bellissimo, a quanto capisco anche superiore per qualità e forza drammaturgica alle due serie che lo seguono in linea temporale.
Ma se oggi ne parlo qui è per un’altra ragione: perché 1883 è una storia di emigranti. Racconta il coraggio quasi incosciente con cui una carovana composta da poveri contadini provenienti dalla Germania percorre duemila miglia attraverso le Grandi Pianure per arrivare in Montana, nell’Età dell’oro del sogno americano. Mi sono così tornate in mente le espressioni un po’ scomposte con cui nei giorni successivi alla tragedia di Cutro i profughi dei giorni nostri sono stati invitati a restarsene a casa loro, sulla base del principio che la disperazione non giustificherebbe il rischio che questi viaggi comportano, o perché «partire è un po’ morire».
A parte il cinismo di queste frasi, ho pensato che chi le usa dimostra una profonda ignoranza della storia: basterebbe infatti vedere film come 1883, o anche L’emigrante girato un secolo fa da Charlie Chaplin, se proprio non si vuole leggere un libro, che so, Furore di Steinbeck, per sapere che non solo la disperazione, ma ancor di più la speranza, il sentimento più potente che esista, ha spinto in tutte le epoche milioni e milioni di esseri umani a immani sacrifici e a rischi inimmaginabili, pur di cercare un futuro migliore, pur di costruire qualcosa di nuovo e di grande per i propri figli e nipoti. È un comportamento così umano, che non comprenderlo rivela davvero una mancanza di umanità.
L'Europa è tutto un muro. Duemila km di barriere per fermare i migranti. Storia di Giovanni Maria Del Re, Bruxelles, su Avvenire il 27 gennaio 2023.
Tornano a crescere i flussi migratori e riappare la parola «magica»: muri alle frontiere esterne. Il tema è tornato alla ribalta, sulla scorta dei dati diffusi da Frontex (l’agenzia delle frontiere esterne Ue): il 2022 ha registrato 330.000 ingressi irregolari, il «più elevato numero dal 2016». Il tema è stato evocato ieri al Consiglio informale dei ministri dell’Interni Ue a Stoccolma e lo sarà al Consiglio europeo informale del 9 e 10 febbraio.
Partiamo subito da un punto: i «muri» sono già ampiamente realtà. Secondo un documento pubblicato dal Parlamento Europeo lo scorso ottobre, a fine 2022 si contavano 2.048 chilometri di barriere ai confini Ue in 12 Stati membri, nel 2014 erano appena 315, nel 1990 zero.
A dare l’esempio fu la Spagna, che tra il 1993 e il 1996 realizzò 20,8 chilometri di recinzione intorno alle sue exclave in Marocco di Ceuta e Melilla. Pochi anni dopo è stato il turno della Lituania, che ha costruito barriere (71,5 chilometri) con la Bielorussia già tra il 1999 e il 2000, dunque prima di entrare nell’Ue (muri poi «ereditati» dall’Ue). In seguito alla crisi dei profughi “inviati” da Minsk in Europa, la repubblica baltica ha ampliato la recinzione a 502 chilometri.
Possiamo citare i 37,5 chilometri di barriera (con pali d’acciaio alti cinque metri) al confine tra Grecia e Turchia lungo il fiume Evros, Atene ha già annunciato che costruirà altri 35 chilometri.
Anche la Bulgaria ha eretto al confine turco una recinzione a partire dal 2014, che oggi conta 235 chilometri.
Come dimenticare l’Ungheria, che tra il 2015 e il 2017 ha costruito 158 chilometri di recinzione al confine serbo e 131 al confine con la Croazia (oggi membro Ue e di Schengen). Muri li troviamo anche ai confini esterni in Polonia, Estonia, Lettonia, in Francia all’imbocco del tunnel della Manica, per non parlare dell’Austria che nel 2015 ha «innovato», costruendo la prima recinzione (3,7 km) al confine con uno Stato Schengen, la Slovenia.
I muri insomma “crescono” e molti Stati membri vogliono che a finanziarli sia l’Ue (il primo a chiederlo fu il premier ungherese Viktor Orbán). Ed è di questi giorni la richiesta del cancelliere austriaco Karl Nehammer che Bruxelles eroghi due miliardi di euro per rafforzare la barriera eretta dalla Bulgaria al confine con la Turchia. Richiesta ribadita ieri a Stoccolma dal suo ministro dell’Interno Gerhard Karner. «So che è oggetto di dibattiti accesi – ha detto ottimista - ma penso anche che recentemente ci sia stato un movimento sul tema, perché molti Paesi sono coinvolti e le frontiere esterne hanno bisogno di aiuto».
L’Austria è sotto forte pressione migratoria, come lo è l’Olanda (soprattutto per i flussi secondari da altri Stati Ue), che ha dato man forte a Vienna. A suo sostegno anche il presidente del Partito Popolare Europeo, Manfred Weber. «A nessuno piace costruire recinzioni – ha dichiarato - ma dov’è necessario, deve essere fatto».
Già nell’ottobre 2021, dodici Stati membri (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia) hanno inviato alla Commissione una lettera chiedendo finanziamenti Ue per i “muri”. «Barriere fisiche – scrivevano – appaiono un’efficace misura di protezione dei confini che servono gli interessi di tutte l’Ue» e dunque «devono essere oggetto di fondi aggiuntivi adeguati dal bilancio Ue con la massima urgenza». La Commissione per ora ha resistito. «Non ci saranno fondi per fili spinati e muri» replicò allora la presidente Ursula von der Leyen.
Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, è stato però più morbido, parlando di «finanziamento giuridicamente possibili». E ieri a Stoccolma la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson è apparsa più sfumata. «Gli Stati membri – ha detto - sono quelli che meglio sanno quali sono le misure più efficaci per proteggere le frontiere esterne».
Quanto ai soldi, «gli Stati membri hanno tagliato i fondi proposti dalla Commissione per il bilancio 2021-27 per la gestione delle frontiere e la migrazione, se si vogliono finanziare nuove misure bisogna tagliare altrove».
E l’Italia? La premier Giorgia Meloni, che all’opposizione chiedeva il “blocco navale” davanti alla Libia, oggi parla di resuscitare la missione navale Ue nel Mediterraneo antiscafisti Sofia (chiusa nel 2020, per volontà dell’allora governo italiano), in particolare la “fase tre” mai attuata, che prevede il pattugliamento nelle acque libiche. Ci vorrebbe il via libera della autorità di Tripoli.
Milano: la polizia carica i migranti in coda per la richiesta di asilo. di Valeria Casolaro su L'Indipendente il 24 Gennaio 2023.
Alle prime ore dell’alba di lunedì 23 gennaio erano all’incirca 700 i richiedenti asilo in attesa all’esterno degli uffici Immigrazione di via Cagni, a Milano. In seguito al tentativo di alcuni di questi di raggiungere le porte principali e piazzarsi in testa alla fila, la polizia ha deciso di intervenire con i lacrimogeni per disperdere la folla e ristabilire la “sicurezza”. Quello di lunedì non rappresenta, tuttavia, un caso isolato: già a dicembre le forze dell’ordine erano intervenute con manganelli per gestire la grande folla di persone riunitesi davanti alla sede decentrata degli uffici di via Cagni, che ancora ad oggi non vengono accolte in numero adeguato. « Invece di trovare soluzioni strutturali, predisponendo modalità giuste ed efficaci di ingresso sul territorio italiano e di accesso alla protezione internazionale, si ripete lo stesso metodo di sempre: un approccio emergenziale gestito con la violenza» aveva dichiarato in quell’occasione Anna Radice, presidente dell’Associazione Naga.
L’intervento coi lacrimogeni si è reso necessario, secondo quanto riportato dalla questura, nel momento in cui un gruppo di migranti si è diretto verso la porta di ingresso “in maniera repentina e compatta”, probabilmente per conquistare i primi posti della fila. A quel punto, la questura ha ritenuto mettere in campo “un intervento deciso della forza” al fine di “evitare contatti diretti che avrebbero potuto compromettere la sicurezza anche di soggetti estranei a questa azione”. Grazie al “lancio di lacrimogeni a mano” è stato possibile “disperdere subito i facinorosi” e “avviare regolarmente le operazioni di accesso”.
Alcune delle persone presenti lunedì mattina erano arrivate già il venerdì precedente, per poter guadagnare un posto in fila e aver accesso a un diritto costituzionale, ovvero la possibilità di avanzare richiesta di asilo. Tuttavia, ad oggi, la questura di Milano non ha ancora trovato la maniera di gestire le richieste in modo ottimale. Il sistema adottato dallo scorso dicembre è una specie di gioco a premi: le prime 120 persone che si presentano il lunedì mattina agli uffici potranno ricevere l’appuntamento per presentare la domanda di asilo, gli altri dovranno ritentare. «Si tratta di problematiche che in misura inferiore si riscontrano anche in altre questure d’Italia, ma a Milano è veramente una tragedia» commenta a L’Indipendente Lorenzo, attivista della rete Mai più lager – No ai CPR. «È un comportamento molto ipocrita da parte delle istituzioni, perché la richiesta di asilo è uno degli unici strumenti che i migranti hanno a disposizione per poter accedere a canali di ingresso regolari».
«Il processo di criminalizzazione dell’immigrazione è in atto da decenni e si manifesta a volte subdolamente nel linguaggio, nella formulazione della norme, nella rappresentazione del fenomeno migratorio, altre volte in modo plastico, violento e spudorato, come è successo davanti agli uffici della Questura di via Cagni a Milano» sostiene Anna Radice, commentando quanto avvenuto nella mattina di lunedì. Le denunce dell’associazione riguardo all’inadeguatezza dei sistemi adottati per gestire le domande di asilo risalgono già al 2021, ma da allora non vi sono stati miglioramenti. [di Valeria Casolaro]
Milano, via Cagni sembra Calais: il diritto d’asilo è una corrida tra urla, spintoni, tende, bambini al gelo. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2023
A Niguarda ogni domenica c’è il caos fuori dall’Ufficio immigrazione della Questura. Tra le centinaia di migranti in attesa, solo 120 potranno presentare richiesta d’asilo
C’è una tenda da otto posti piantata nel fango. Tra gli alberi del parco si vedono le luci di cinque falò. Si staccano i rami, ci si scalda come se fossimo dispersi sulle montagne, nell’attesa di trovare un varco nel buio della notte per passare il confine. Le luci di Porta Nuova s’intravedono in lontananza. Il Duomo è a una manciata di chilometri. La strada che separa il confine con l’Europa è lunga invece meno di dieci metri. Oltre le transenne, dall’altra parte del marciapiedi, dove nella notte si ammassano i 120 che hanno vinto la corsa più importante della loro vita. Per alcuni è la sopravvivenza, la libertà. Per altri semplicemente il futuro.
L’ufficio nella caserma
Non c’è luogo più esplicito per guardare in faccia la distanza della politica, lo strabismo delle leggi sull’immigrazione scritte a tavolino, della fame di Europa di questa gente, del valore reale, per chi dovrà dare una risposta al bisogno di questi migranti, della parola accoglienza. È notte in via Cagni, periferia quasi estrema di Niguarda. I muri della caserma Annarumma nascondono alla vista l’Eldorado. Lì dentro ci sono le stanze che ospitavano la Celere, che oggi Reparto mobile e oggi sono state riadattate in emergenza per l’Ufficio immigrazione della questura. Non è l’abito buono dello Stato che mostra il volto accogliente e ricco dell’occidente. È qualcosa che somiglia a un ospedale da campo, alle banchine del molo Favarolo di Lampedusa, ai campi profughi di Calais, ma anche alle braccia tese di chi è la sola speranza per questi migranti, di chi accoglie senza chiedere nome né documenti, di chi davanti a norme buone solo per la teoria, affronta invece la pratica della realtà. Sono mediatori linguistici, culturali, ma soprattutto poliziotti.
Personale che il questore Giuseppe Petronzi ha distaccato qui, per garantire il rifugio internazionale a chi ne ha diritto, ai tanti fantasmi di questa città (e non solo) ai quali sarà comunque garantita la speranza di una nuova vita. In questo luogo niente è bianco o nero. Assicurare la possibilità per chi ha davvero diritto d’asilo, significa anche scontrarsi, a volte letteralmente, con una massa di cinquecento, settecento persone che cercano in ogni modo di oltrepassare il confine della transenne e raggiungere i 120 in fila dall’altra parte della strada. Sono scene ruvide, gli agenti con gli scudi che spingono la massa oltre lo steccato, giovani ragazzi che cercando di scavarsi un varco a costo di schiacciare contro le transenne bambini e le loro famiglie. È cruda la notte di via Cagni, ma è la faccia reale di un Paese che non ha mai fatto pace con la parola immigrazione, che ha scordato queste scene cent’anni fa sulle coste americane e nelle città del Nord Europa, quando in coda c’eravamo noi.
Nel fango
La tenda piantata nei giardini di via Cagni è di una famiglia peruviana: «Siamo qui da cinque giorni en la carpa (la tenda, ndr), è la quinta settimana che ci proviamo. Oggi siamo davanti. Se aprono dall’altra parte non riusciremo a entrare. Abbiamo freddo», racconta Gloria in Italia da meno di un anno. Davanti a lei c’è la nipotina di cinque anni, avvolta in una giacca a vento rosa: «Ci faranno passare, vero? La niña non può stare qui ancora...». Nella coda spontanea creata dai sudamericani c’è chi viene dalla Colombia, da Honduras, Venezuela, Bolivia: «Perché non ci fanno passare? Perché non c’è niente di organizzato?».
Non è ancora mezzanotte. C’è chi è qui da giorni. Qualcuno ha sedie da giardino, altri borse con viveri e coperte. Lascia la fila solo chi durante il giorno lavora. C’è chi viene qui per un amico che lavora come lavapiatti in un ristorante. Si aggira come impaurito: «Come farò a tenergli il posto se non ci sono file, non ci sono numeri?». La questura ha tentato varie strade in questi mesi, ma sul sistema delle «file» c’era chi speculava prenotando posti e rivendendoli ai migranti. Così i varchi si aprono come in una lotteria. Anche gli operatori del Naga e della comunità di Sant’Egidio che sono qui a tentare di dare un minimo di assistenza e auto-organizzazione ai migranti non sanno cosa succederà: «E stasera sono pochi, solo cinquecento. A volte il doppio».
L’assalto alla coda
A far saltare il banco delle code sono i nordafricani. Un po’ fanno la fila, un po’ parlano intorno al fuoco. Assalamu alaikum, la pace sia con te. Molti non parlano neppure inglese. Sventolano la fotocopia del passaporto, con gli occhi indicano la caserma: «Help me». Il gruppo si riunisce di corsa quando la polizia apre il primo varco. È una drammatica corrida verso un buco aperto tra i blindati nell’area intermedia tra chi sta fuori e la coda per l’indomani mattina. Spintoni, scudi della polizia a respingere la folla, urla, e poi nuovi tentativi di sfondare. L’orda fa saltare qualsiasi coda. I poliziotti in borghese cercano nella massa famiglie e bambini che hanno la priorità.
Le mani di un agente si allungano, apre una breccia tra chi cerca di sfondare: «Il bambino, il bambino». Il papà, egiziano, tiene il figlio alto sopra le teste. Ha 5 anni. Sembra galleggiare in mezzo a 70 persone che pestano contro gli scudi della polizia. Dietro alla prima linea c’è Mohamed. Giacca a vento bianca, si sdraia sotto un albero: «Provo da cinque mesi». Dove vivi? «Stazione».
La strada che ha portato qui i migranti è disseminata di imbroglioni, truffatori, personaggi che si muovono nel sottobosco delle comunità straniere facendosi pagare per qualsiasi cosa. Come la dichiarazione di ospitalità che vale dai 200 ai 400 euro. Un migrante in carico a un’altra questura non può presentare la richiesta a Milano. Il trucco è dichiararsi «dimorante» qui e avere un documento a comprovarlo. Non tutti arrivano da territori di guerra o dove sono in atto persecuzioni religiose o politiche. Alcuni dichiarano di essere omosessuali perché l’elenco dei Paesi in cui i gay vengono discriminati è ampio. Non tutti lo sono realmente. Per alcuni è la sola possibilità di accedere all’asilo.
Lotta alle transenne
Il caos arriva anche dall’altra parte del piazzale, dai sudamericani. Si spinge. Ne passano una trentina, poi la polizia cerca curdi, pachistani e ucraini. Sono pochi, ma hanno la precedenza. Chi è contro le transenne viene schiacciato, urla. Da dietro arrivano botte micidiali. Una famiglia si lancia fuori dalla coda: la figlia di 13 anni piange a dirotto. È stata schiacciata e spinta via dagli agenti. È terrorizzata. Anche qui si arriva alle mani con la polizia. Nel cordone resta quasi disperso Patricio, 8 anni, peruviano. Il padre lo ritrova, ma ha perso la possibilità di entrare. È su uno sgabello pieghevole: «Viviamo a Legnano, io vado a scuola. Il treno parte alle 5 e mezza, cosa facciamo?».
Un buon samaritano si ricorda di quel bambino tornato indietro quando aveva ormai quasi raggiunto la fila dei 120 e lo riporta lì insieme al padre. Non si torna, oggi si entra. E con lui entrano la famiglia della tenda e il piccolo egiziano che galleggiava tra la folla. «Basta, tornate domenica prossima». Molti restano per tutta la notte. Anche perché il metrò è chiuso e nessuno sa dove andare. Chi è nella fila dei 120, attende sul marciapiedi avvolto in coperte e teli termici che smetta di piovere. Mamme e bambini (anche uno autistico) vengono fatti entrare, gli agenti fanno una colletta per prendergli qualcosa di caldo alle macchinette. Fuori ci sono tre gradi, sull’asfalto si gela. Bisognerà aspettare le 7 per l’apertura degli uffici, ma l’attesa di chi ha vinto un posto in paradiso è dolce e calda come la salvezza.
Tende e giacigli in strada: l'accampamento abusivo degli immigrati davanti alla Questura. Così come a Milano, anche a Roma è nato un insediamento fuori dall'ufficio immigrazione della questura della Capitale. Francesca Galici su Il Giornale il 28 Febbraio 2023
Al pari di quanto da mesi accade a Milano, davanti alla caserma di via Cagni, anche a Roma è nato un accampamento nei pressi di uno degli uffici immigrazione della Capitale. Il nuovo insediamento abusivo, generato dai migranti che aspettano di poter entrare per fare la domanda di regolarizzazione, si trova in via Salviati, proprio a ridosso del muro di recinzione dell'ufficio immigrazione e dell'ufficio stranieri della questura di Roma. A fare la denuncia è stato il Sindacato unitario lavoratori polizia locale, il Sulpl, tramite il suo segretario Marco Milani, che in una nota denuncia l'imbarazzo di alcuni tra i suoi stessi colleghi.
"Dapprima pochi giacigli, di chi probabilmente intendeva assicurarsi un posto tra i primi della fila al momento dell'apertura degli uffici ma con il passare dei giorni, sono comparse ed aumentate vere e proprie tende, un insediamento spontaneo che ha inglobato marciapiede, fermata del bus e pensiline, riducendo visibilità e sicurezza per chi si trovi a transitare su una strada dove le macchine transitano anche abbastanza veloci", si legge nella nota. Un problema che non ha al momento soluzioni, come dimostra il caso di via Cagni a Milano. E lo dimostra il fatto che a pochi passi da lì si trovano costantemente le auto della polizia locale: "Il paradosso è che a pochi metri si trovino a stazionare autopattuglie della Polizia Locale di Roma Capitale, ormai da anni impegnate a piantonare l'ingresso del limitrofo campo nomadi mai autorizzato ma "tollerato", di via Salviati e spesso, proprio personale di quel gruppo speciale (Sicurezza Pubblica Emergenziale), che di controllo e sgombero degli insediamenti abusivi, stando all'organigramma del corpo si dovrebbe occupare".
Marco Milano, nella sua nota, spiega: "Quello a cui assistiamo è il risultato del cattivo impiego dei gruppi speciali preposti e dell'inutilità dei piantonamenti di facciata davanti l'ingresso dei campi rom della Capitale, che come sindacato definiamo ormai da anni 'effetto vetrina'". Il sindacalista, quindi, sottolinea che i colleghi hanno espresso la loro preoccupazione per il fenomeno e per l'impossibilità di intervenire: "La sicurezza stradale dovrebbe essere uno dei compiti principali per chi svolge il nostro lavoro ma che sicurezza possiamo offrire alle persone costrette a camminare in mezzo alla strada o ad attendere l'autobus al centro della carreggiata? Forse è ora che qualcuno riprenda in mano le redini di un Corpo che, tra carenze di organico e bizzarrie gestionali, ogni giorno lascia parlare di sé".
Trisnonni e lattanti, la strana italianità. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2023.
Aveva otto mesi Doris Nneka Egwu, 39 anni, lettrice di inglese, esperta nei rapporti coi bambini dislessici, quando i genitori la portarono qui dall’Africa: ma senza un certificato che non ha commesso reati in quegli otto mesi non ha diritto alla cittadinanza italiana
«Dov’è il certificato che non ha commesso reati in Nigeria prima di immigrare in Italia?» Aveva otto mesi Doris Nneka Egwu, 39 anni, lettrice di inglese, esperta nei rapporti coi bambini dislessici, soprannominata «Dorissima», quando i genitori la portarono qui dall’Africa: otto mesi. E in Italia ha fatto l’asilo nido, la scuola d’infanzia, le primarie, le medie, il liceo scientifico e l’Università poi lasciata per dedicarsi a una scuola di British Language e all’insegnamento negli istituti umbri: Roma, nonostante la donna viva in Italia dal 1983 (al governo c’era Craxi, lo scudetto andò alla Juve di Platini e l’Oscar fu conteso da Ghandi e E.T), continua a pretendere quella carta bollata senza cui, come raccontò mesi fa a Avvenire, non ha ancora il nostro passaporto. «In Italia, dove la responsabilità penale comincia a 14 anni, mi chiedono un documento che attesti che io non abbia commesso reati quando avevo da zero a 8 mesi, in Nigeria». Risultato? «Richiesta di cittadinanza respinta. Due volte. Una perché il documento, faticosamente recuperato in Nigeria e valido sei mesi, tra una cosa e l’altra era appena scaduto». Come accertare dunque la sua immacolatezza penale mentre veniva allattata?
Una storia insensata. Figlia di una legge sulla cittadinanza così cervellotica e ostile agli immigrati da fornire centinaia di esempi paradossali di ferocia xenofoba. E nello stesso tempo, restando inchiodata al 1992 tra mille polemiche, risse e ambiguità anche a sinistra, una legge sempre più aperta verso i discendenti più remoti della Grande Emigrazione Italiana. Porte chiuse agli immigrati come a suo tempo fu il nostro León (Leone) Gambetta che, nato a Cahors da un padre genovese, firmò a Parigi la proclamazione nel 1870 della Troisième Republique 11 anni dopo (undici!) esser stato naturalizzato francese.
Porte spalancate «secondo il principio del jus sanguinis», dice la legge, ai discendenti di cittadini italiani «senza limite generazionale». Come pare vogliano diventare italiani, per mettersi al riparo da eventuali grane giudiziarie brasiliane, i fratelli Edoardo e Flavio Bolsonaro, figli dell’ex presidente Jair omaggiato nel 2021 con la cittadinanza (onoraria) di Anguillara per un trisnonno padovano e oggi accusato d’aver ordito il tentato golpe a Brasilia. Bella parità costituzionale: di qua basta un nonnetto tra i trisavoli ottocenteschi, di là occorre la fedina penale di una lattante.
Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.
[…] «Non ci sarà alcun patto sull'immigrazione almeno fino alla primavera del 2024», dice al Financial Times Lars Danielsson, ambasciatore a Bruxelles della Svezia che ha appena assunto la guida del Consiglio Ue per il primo semestre dell'anno. Parole che gelano l'ambizione italiana di imporre ai 27 Paesi Ue l'urgenza di un accordo per la gestione dei flussi migratori, dagli sbarchi alla redistribuzione dei richiedenti asilo, dai movimenti secondari ai rimpatri.
Uno schiaffo inatteso per il governo Meloni che arriva proprio da un esecutivo espressione di uno schieramento di estrema destra a conferma che sarà proprio dagli "amici" sovranisti che verranno le maggiori resistenze alla riforma del regolamento di Dublino e al varo del nuovo patto migrazione e asilo in stallo da due anni.
«A fare i sovranisti trovi sempre qualcuno più sovranista, che difende solo gli interessi del proprio Paese. La destra europea, i migliori amici del governo Meloni», commenta il deputato dem, Enzo Amendola. Il ministro per gli affari Europei Raffaele Fitto, però, prova a gettare acqua sul fuoco: «Le parole dell'ambasciatore svedese non sono contro l'Italia e non possono essere strumentalizzate politicamente».
Settima nella classifica europea tra i Paesi che nel 2021 hanno accolto più richiedenti asilo in rapporto alla popolazione (l'Italia è solo quindicesima), la presidenza svedese non ha comunque alcuna intenzione di spingere sull'acceleratore del nuovo patto sui migranti.
[…] Nelle more di trovare un accordo sul nuovo patto migrazione e asilo, la commissione, per venire incontro alle pressanti richieste dell'Italia, nelle scorse settimane ha presentato un Action plan per la rotta del Mediterraneo prima e per la rotta balcanica dopo, che ha trovato ampio favore politico ma senza approdare a nessun fatto.
Tanto che, sfumato presto l'entusiasmo per le grandi dichiarazioni di intenti al G7 dei ministri dell'Interno a Wiesbaden e per le due successive riunioni del Consiglio Ue dell'Interno, alla fine l'Italia ha deciso di non aspettare e di adottare i primi provvedimenti conseguenziali alle politiche migratorie del nuovo governo, con il decreto antiOng.
[…] Ad allontanare di fatto la soluzione europea a quella che l'Italia rivendica come emergenza sbarchi per gli oltre 100.000 arrivi del 2022, ci sono i numeri (assai diversi) delle richieste d'asilo nella Ue che vedono l'Italia solo quinta nell'ultimo anno tra i grandi paesi europei e addirittura quindicesima nel rapporto tra richieste d'asilo e popolazione residente in cui, ad esempio, proprio la Svezia nel decennio tra il 2012 e il 2021 è al primo posto.
Nel mirino dei Paesi del centro nord Europa, poi, ci sono i cosiddetti movimenti secondari, cioè quelli dei migranti che, sbarcati in Italia o in altri paesi costieri, non rispettano l'obbligo di chiedere asilo dove approdano e si spostano in altri Stati, Germania e Francia su tutti, che non a caso svettano nella lista dei paesi che continuano ad accogliere di più.
L'Italia, per altro, è anche accusata di non adempiere all'obbligo di identificare e registrare tutti le persone che sbarcano e di lasciarne andare via quote importanti proprio per non doversi accollare l'onere dell'accoglienza e dei rimpatri pressocché impossibili dei migranti economici.
(ANSA il 19 maggio 2023) - Un video shock pubblicato in esclusiva dal New York Times mostra un gruppo di 12 migranti, tra i quali donne e bambini, caricati di forza su un autobus sull'isola di Lesbos, portati su una nave della Guardia Costiera greca e quindi su un gommone mandato alla deriva nell'Egeo. I fatti, scrive il Nyt, risalgono ad aprile.
Estratto dell'articolo di open.online il 19 maggio 2023.
«La Grecia sostiene di non abbandonare i migranti in mare. È stata colta sul fatto». Non lascia spazio a troppe interpretazioni il titolo dell’articolo-denuncia pubblicato oggi dal New York Times.
Il quotidiano statunitense ha ottenuto in esclusiva un video che mostra un gruppo di 12 migranti, tra cui alcune donne e bambini, caricati con la forza su un autobus all’isola di Lesbos, portati su una nave della Guardia costiera greca e infine su un gommone lasciato alla deriva nel Mar Egeo. «Non ci aspettavamo di sopravvivere quel giorno. Quando ci hanno messo sulla zattera gonfiabile, lo hanno fatto senza alcuna pietà», ha raccontato Aden, una donna di 27 anni originaria della Somalia.
Secondo i giornalisti del New York Times, il calvario vissuto da Aden e dalle altre 11 persone caricate sul gommone è lo stesso di tanti altri migranti respinti dalle autorità greche. Non è la prima volta che in Grecia si discute di questi metodi di respingimento. Finora, però, le autorità e il governo hanno sempre negato ogni accusa.
Ora, per la prima volta, un attivista – l’austriaco Fayad Mulla – è riuscito a riprendere integralmente tutti i passaggi in un video e a condividerli con il giornale americano.
Gli eventi raccontati risalgono all’11 aprile e avrebbero coinvolto un gruppo di richiedenti asilo provenienti da Somalia, Eritrea ed Etopia. I giornalisti del New York Times, autori dell’inchiesta, li hanno incontrati in un centro di detenzione a Izmir, sulla costa turca. «Molti indossavano ancora gli stessi vestiti che avevano nel video – si legge nell’articolo -. Hanno fornito resoconti dettagliati di ciò che è accaduto».
[…] Il quotidiano americano ha mostrato il filmato anche a tre alti funzionari della Commissione Europea. L’esecutivo di Bruxelles ha affermato di essere «preoccupato per il filmato» e si è impegnato a chiedere conto di quanto accaduto alle autorità di Atene […]
La Grecia abbandona i migranti in mare: la prova in un video pubblicato dal New York Times. Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2023
Nel filmato si vedono i richiedenti asilo, tra cui alcuni bambini, scendere da un furgone e salire su una barca della Guardia Costiera che poi li abbandonerà al largo su un gommone. «Non pensavamo di sopravvivere quel giorno»
Il governo di Atene ha sempre negato le accuse di respingimento dei migranti ma un video, pubblicato in esclusiva dal New York Times, inchioda la Grecia alle sue responsabilità a due giorni dalle elezioni. Il filmato risale all’11 aprile ed è stato girato da un attivista austriaco, Fayad Mulla, che lo ha condiviso con il quotidiano americano.
L’arrivo con il furgone
Nelle immagini si vedono i migranti, tra cui un bambino di pochi mesi, scendere da un furgone e salire su una barca della guardia costiera che poi li lascia andare alla deriva su un gommone di salvataggio. I migranti sono stati poi recuperati da una motovedetta turca e sono ora in un campo profughi a Smirne.
Il gommone alla deriva
«Non pensavamo di sopravvivere quel giorno — ha detto al Nyt Naima Hassan Aden, 27 anni, somala, con un bimbo di sei mesi —, quando ci hanno messo sul gommone l’hanno fatto senza un briciolo di compassione».
I giornalisti del Nyt sono riusciti a rintracciare 11 dei richiedenti asilo che quel giorno furono abbandonati alla deriva. Vengono dalla Somalia, dall’Eritrea e dall’Etiopia. Alcuni indossano ancora gli stessi vestiti che avevano nel video.
Lo stesso giorno il team di Medici Senza Frontiere (Msf) aveva saputo di 103 persone arrivate sull’isola che avevano bisogno di cure mediche urgenti ma ne ha assistite solo 91 senza riuscire a trovare le altre 12 che, probabilmente, erano quelle mandate alla deriva. A Lesbo i pazienti di Msf hanno più volte raccontato di essere state vittime di respingimenti traumatici da parte delle autorità di frontiera.
Interpellato sulla vicenda il governo greco ha preferito trincerarsi dietro un no comment. Ma nei giorni scorsi il premier Kyriakos Mitsotakis, in un’intervista rilasciata ad Associated Press, ha rivendicato la politica rigida sull’immigrazione e ha promesso che se verrà rieletto la manterrà. La Grecia ha attuato piano per impedire a migranti e richiedenti asilo di entrare nel Paese aumentando i pattugliamenti delle frontiere terrestri e marittime e ampliando notevolmente la recinzione lungo il confine terrestre con la Turchia.
La Turchia accusa regolarmente Atene di respingere i migranti che tentano di raggiungere illegalmente l’Unione Europea dirigendosi verso le isole greche dalla vicina costa turca.
Frontiera chiusa. Tutte le rotte dei migranti portano a Ventimiglia (e si fermano lì). Valerio Nicolosi su L’Inkiesta il 18 Gennaio 2023.
I reportage dal campo di Valerio Nicolosi tra Balcani, Ucraina e Mediterraneo, denunciano i limiti dell’Occidente e l’uso dei profughi come arma impropria delle guerre. Esce per Rizzoli un racconto del grande gioco sporco del nostro secolo
Se la rotta balcanica possiamo considerarla chiusa a Trieste, in realtà il percorso verso il Nord Europa continua e arriva a Ventimiglia, dove passare il confine con la Francia negli anni è diventato sempre più difficile a causa della militarizzazione della frontiera. Questo è il punto in cui le due rotte che attraversano l’Italia, quella del Mediterraneo e quella balcanica, confluiscono per poi continuare verso Nord. Destinazione Parigi, Berlino, Londra o Stoccolma. […]
La stazione di Ventimiglia è sempre un via vai di persone migranti. Aspettano il treno che passa il confine, salgono cercando di essere disinvolti, fingendosi turisti proprio come ha fatto Khalid. Il viaggio costa 3,30 euro e dura diciotto minuti. Chi riesce a sfuggire ai controlli passa in un modo così semplice ed economico che questa potrebbe risultare la frontiera più facile del mondo per le persone senza documenti. Invece la polizia francese pattuglia binario per binario, un’operazione ormai collaudata.
Qualcuno ce la fa ma sono davvero pochi, la maggior parte finisce nella rete della Fortezza Europa. Dopo qualche tentativo in treno, passano alle soluzioni più rischiose: di notte, a piedi lungo i binari della ferrovia o attraverso quello che viene chiamato il «sentiero della morte», che passa tra le montagne sopra i ponti dell’autostrada che collegano Italia e Francia.
Il centro della Caritas di Ventimiglia, nello spazio che ospita lo sportello legale, ha esposto un manifesto delle ferrovie francesi che in diverse lingue dice che «camminare e attraversare i binari è pericoloso». Ma il ragazzo nero rappresentato nell’immagine con un piccolo zaino in spalla, più che scappare da una guerra sembra uno scolaretto che attraversa i binari per divertimento e non perché le frontiere sono chiuse, anche ai minori.
Sembra che con questo manifesto le ferrovie francesi stiano cercando di assolvere anticipatamente se stesse e lo Stato in caso di incidenti, omettendo però che chi intraprende quel percorso, camminando di notte lungo i binari, lo fa per necessità.
«Ci risulta che in Francia abbiano messo delle telecamere termiche, con cui la polizia può vedere i migranti anche di notte» mi informa un mediatore culturale che ha appena finito il giro tra i ragazzi venuti per la colazione. […]
Camminando lungo il fiume Roja appena fuori dal centro di Ventimiglia, è possibile vedere i microaccampamenti informali che si sono creati lungo il cavalcavia che costeggia il corso d’acqua. Tante famiglie, e uomini soli di età media non superiore ai venticinque anni. Tra le sterpaglie incontro una famiglia afghana con due figli di otto e undici anni, che è passata da Trieste poche settimane prima, quando anche io ero là.
«Italian police crazy» dice Hazim, che un po’ in inglese e un po’ a gesti racconta che la polizia è arrivata alla stazione per arrestarli e di come siano riusciti a scappare per puro caso.
«Vogliamo andare in Germania, ma l’Austria è troppo pericolosa, per questo abbiamo scelto di passare dalla Francia» aggiunge, mentre finisce di sistemare le poche coperte e i cartoni per la notte.
Hazim, la moglie e i due figli hanno seguito una rotta lungo i Balcani piuttosto singolare: «Dalla Serbia siamo passati in Ungheria, grazie a un trafficante che conosceva la polizia di frontiera ungherese, evitando la Bosnia e la Croazia, molto difficili da superare». A quel punto sono andati a ovest, tracciando un’ideale linea retta da Lubiana a Trieste, poi a Milano e ora a Ventimiglia. Non appena riusciranno a passare questa frontiera riprenderanno verso nord, diretti a Lione dove «ci verranno a prendere degli amici dalla Germania».
Ancora una volta è la comunità a orientare le migrazioni in un punto o in un altro. «Catene migratorie» è il termine tecnico con cui i sociologi spiegano questo fenomeno a volte incomprensibile. Ho conosciuto persone che volevano andare in paesetti mai sentiti con poche migliaia di abitanti, persi nelle campagne del Centro Europa, dove per molti mesi dell’anno il sole e il bel tempo sono qualcosa di sconosciuto e le temperature non superano i cinque gradi, perché là avevano un amico o un cugino.[…]
Una terrazza sul ciglio della strada ospita una primissima accoglienza per chi è stato respinto. Sono i volontari di Kesha Niya e di Progetto 20k a offrire un ristoro, con una colazione improvvisata sotto l’ombra di due alberi.
Chi arriva entro l’ora di pranzo vuol dire che ha passato la notte ammassato in un container dove la polizia francese, se ne ha voglia, ti picchia. Donne, minori e uomini vengono indifferentemente respinti senza considerare i singoli casi. La polizia trascrive velocemente i nomi sul refus d’entrée, il documento che notifica l’espulsione, spesso sbagliando di proposito le generalità in modo da evitare ricorsi.
La polizia italiana non fa altro che prendere atto del respingimento, trascrivendo anch’essa i dati sbagliati indicati dai colleghi francesi.
«È capitato spesso che scrivessero date di nascita errate, per registrare i minorenni come maggiorenni e poterli respingere. Il problema è che alla polizia italiana la cosa evidentemente sta bene» mi spiega Ghufran, il mediatore culturale di WeWorld, un’altra ONG che lavora sul campo. Ghufran è pakistano e si occupa principalmente di chi arriva dalla rotta balcanica.
«Questo è il punto in cui le due rotte si incontrano, trovi nordafricani, subsahariani, mediorientali e asiatici. Hanno fatto percorsi diversi, tutti lunghi e pericolosi, ma alla fine si incontrano qui» mi racconta il mediatore. In questo momento effettivamente ci sono persone di Mali, Sudan, Siria, Tunisia, Afghanistan e Pakistan, un melting pot di culture, lingue e tradizioni che si confrontano tutte con lo stesso problema, la frontiera chiusa.
Incontro un ragazzo siriano che ha urgenza di raccontarmi la sua storia: «Sono di Aleppo, mi chiamo Yassir, sono uno studente universitario. Sono scappato dalla guerra e sono sunnita. All’università chiedevamo democrazia. L’esercito siriano è arrivato e ha ucciso dei miei amici. Io sono andato via, volevo studiare, non fare la guerra. Mi mancano pochi esami per diventare ingegnere». Yassir qui ha un attimo di esitazione, forse sa che parlare al presente della sua condizione di universitario ha poco senso, appartiene al passato.
Ne approfitto per osservarlo meglio e quella che prima mi sembrava una piccola diversità rispetto al contesto, è invece una differenza sostanziale. Occhiali tondi da ragazzo studioso, polo nei pantaloni e mocassini, sembra davvero appena uscito dall’università.
Forse accorgendosi della mia sorpresa, mi dice: «Non scappo per fame ma per la guerra, la mia famiglia era benestante. Ci siamo fermati in Turchia, ma poi è diventato tutto difficile. Ho un amico in Germania, voglio andare da lui e ricominciare a studiare ingegneria». Fino a qui è la storia di moltissimi siriani che ho conosciuto sulle diverse frontiere, non mi meraviglio del suo racconto.
Yassir però riprende fiato per il rush finale, prima che arrivi il pullman che lo riporterà a Ventimiglia. «Ero in Slovenia con un mio caro amico, ci hanno fermato e preso le impronte. Volevamo andare via, ma eravamo in pieno lockdown e si sarebbero accorti facilmente di noi lungo le strade slovene».
«Alla fine il mio amico mi ha detto: “Io parto, ti aspetto in Italia”. Lo hanno trovato morto nei boschi due settimane dopo, vicino al confine di Trieste. Lo ha visto un elicottero dell’esercito sloveno. Questo è quello che ti volevo dire, che noi siamo stanchi e alla fine la morte arriva».
Resto paralizzato, sta arrivando il pullman e lui si rimette in spalla lo zaino, come se stesse andando a lezione. Vorrei fargli molte più domande, ma non ci riesco.
«Good luck» gli dico, nient’altro.
Da “Il gioco sporco” di Valerio Nicolosi, Rizzoli, 288 pagine, 19 euro. Il libro sarà presentato a Milano venerdì 20 gennaio, alle ore 18.30, nella Libreria Rizzoli della Galleria Vittorio Emanuele II, con Caterina Bonvicini e Cecilia Strada.
La rivelazione del ministro: "Quando partono i barconi, le Ong..." Storia di Federico Giuliani su Il Giornale il 23 luglio 2023.
Quando le barche cariche di migranti lasciano il Marocco per tentare la traversata verso l'Europa, i passeggeri che sono a bordo hanno già i numeri telefonici delle Ong da contattare per farsi recuperare in mare aperto. Lo ha detto in maniera chiara ed esplicita Nasser Bourita, ministro degli Esteri e dell'Emigrazione del Marocco, tra gli ospiti della prima Conferenza Internazionale su sviluppo e migrazioni, organizzata a Roma dal governo italiano. La rivelazione di Bourita accredita ulteriormente lo sforzo di Giorgia Meloni volto a contrastare la rete dei trafficanti che gestiscono le migrazioni illegali, giocando di sponda con i Paesi nord africani e del Medio Oriente.
I migranti e il numero delle Ong
Tornando alle dichiarazioni di Bourita, le rivelazioni del ministro marocchino, riportate da alcune fonti diplomatiche, sono emblematiche del malaffare celato dietro alla maggior parte dei flussi migratori provenienti dal nord Africa. "Il nostro punto di osservazione è che quando una barca carica di migranti passa dalle coste marocchine, i migranti hanno già il numero di telefono della nave Ong che li raccoglierà", ha dichiarato l'alto funzionario di Rabat.
Secondo quanto si apprende dalle stesse fonti, Bourita avrebbe anche apprezzato il format e i contenuti della Conferenza. "La novità del processo di Roma - ha spiegato - è che arriva al momento giusto e ha un valore aggiunto: l'idea di tradurre il dialogo in collaborazione operativa sia sul fronte del contrasto all'immigrazione illegale, sia sullo sviluppo, in una dialettica che supera lo scambio tra sicurezza e integrazione con un approccio pragmatico".
L'importanza della collaborazione Ue-Africa
Come ha sottolineato Bourita, la collaborazione tra Europa e Africa è una conditio sine qua non per debellare la piaga dell'immigrazione irregolare. Non a caso, a margine della Conferenza, il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, ha incontrato l'omologo saudita Abd al-Aziz bin Sàud Al Sàud e quello tunisino Kamel Fekih. "Occasione per rinnovare la comune volontà di rafforzare la collaborazione per la sicurezza e per il contrasto ad ogni traffico illecito", ha informato il Viminale.
Meloni, artefice principale dell'iniziativa, ha postato sul proprio profilo Facebook una foto di gruppo dei partecipanti alla Conferenza accompagnando il tutto con una frase significativa. "Avviare un percorso condiviso in grado di attuare misure concrete per la crescita e lo sviluppo del Mediterraneo allargato e l'Africa, per affrontare le cause profonde dei flussi irregolari e per sconfiggere l'attività criminale dei trafficanti di esseri umani. Animati da questo spirito, siamo onorati di ospitare oggi a Roma la Conferenza internazionale su sviluppo e migrazione", si legge sul post condiviso da Meloni.
Contrastare l'immigrazione illegale
Anche l'Europa si muove nella stessa direzione indicata da Meloni. Bruxelles è pronta a creare rapporti operativi che rafforzino la cooperazione fra le diverse forze dell'ordine, per le operazioni di ricerca e soccorso e per rafforzare le frontiere, garantendo al contempo tutele a chi ne ha bisogno, ha sottolineato il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento alla Conferenza.
"Vogliamo costruire ponti fra le due comunità" europea ed africana, ha detto von der Leyen, invitando a "formare la nuova forza lavoro di cui le nuove economie emergenti hanno bisogno". "Con questo principio in mente abbiamo sviluppato nuovi partenariati per i talenti, mirati in particolare ai giovani, che vogliono realizzare i loro sogni. Troppi di loro mettono le loro vite in mano a trafficanti che non possono mai garantire una nuova ripartenza", ha proseguito la stessa von der Leyen. In attesa di capire come concretizzare tutte le proposte emerse in azioni concrete, i partecipanti sono concordi su un punto: è necessario contrastare l'immigrazione illegale in tutte le sue forme.
Quando il Pd contestava l'azione delle Ong. "Sono privati e non possono creare corridoi". Domenico Ferrara il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.
Il documento del 2017 del democratico Latorre, sostenuto pure da Minniti
Ma la sinistra che oggi difende le Ong è la stessa che ieri voleva metterle in riga? Le carte ci danno la risposta. Non quelle di una cartomante, ma quelle di Palazzo Madama. Era il 24 marzo 2017 quando il dem Nicola Latorre, all'epoca presidente della commissione Difesa del Senato, annunciava l'avvio di una indagine conoscitiva su quello che succedeva nel Mediterraneo. Così dal 28 marzo, la quarta commissione permanente della Difesa si riunisce ben 17 volte e il 16 maggio 2017 approva il documento finale dal titolo: «Sul contributo dei militari italiani al controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo e l'impatto delle attività delle organizzazioni non governative». E sapete quali sono i punti salienti scritti nero su bianco?
Innanzitutto che «in nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno e internazionale, né peraltro desiderabile, la creazione di corridoi umanitari da parte di soggetti privati, trattandosi di un compito che compete esclusivamente agli Stati e alle organizzazioni internazionali o sovranazionali». Insomma, no ai corridoi umanitari organizzati dalle Ong, che dovrebbero operare esclusivamente in una cornice regolamentata e coordinata dalle autorità italiane.
Inoltre, «dal momento che i soccorsi effettuati non possono prescindere dal contatto con le autorità italiane, si rende necessaria una razionalizzazione della presenza delle ONG, che potrebbe portare a un aumento dell'efficienza dei soccorsi e dei margini per salvare vite con la contestuale riduzione delle relative imbarcazioni nell'area, peraltro dalle caratteristiche tecniche molto variegate». La stretta riguarda anche la trasparenza e l'introduzione di una sorta di white list. «Si dovranno adottare disposizioni - recita il testo - che obblighino le Ong interessate a rendere pubbliche nel dettaglio le proprie fonti di finanziamento, oltre che i profili e gli interessi dei propri dirigenti e degli equipaggi delle navi utilizzate».
Per non inficiare la lotta ai trafficanti di esseri umani, il Senato ravvisa poi la necessità di «consentire l'intervento tempestivo della polizia giudiziaria», permettendo anche che possa salire a bordo e di «potenziare la forza e gli strumenti investigativi, favorendo ad esempio l'intercettazione dei telefoni satellitari».
Nel documento ci sono infine aspre critiche nei confronti di Malta e Tunisia, colpevoli di non rispondere alle chiamate di soccorso e di non intervenire nelle loro acque Sar, lasciando interamente all'Italia l'onere dei salvataggi. Come se non bastasse, il presidente dem Latorre rincarava la dose annunciando la chiusura dei porti per quelle Ong che non si sarebbero mostrate collaborative. E neanche un mese dopo l'approvazione, un altro esponente dem, il ministro dell'Interno Marco Minniti, esprimeva soddisfazione per il documento prodotto dal Senato e lanciava questa provocazione: «Io vorrei che una nave, una soltanto, si dirigesse in un altro porto europeo, certo non risolverebbe i nostri problemi ma sarebbe il segnale di un impegno solidale dell'Europa». Non sappiamo se qualche capitano raccoglierà il suo auspicio, ma speriamo di aver fatto un favore al Pd, rispolverandogli la memoria.
Le Ong sui media stranieri accusano l'"Italia crudele". Francesca Galici il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Metodicamente al nostro Paese arrivano attacchi pretestuosi dalle Ong, che dai giornali stranieri tentano di delegittimare il governo
La Ocean Viking e la Geo Barents sono tornate in mare, nel Mediterraneo centrale, per nuovi interventi. Lo avevano annunciato e a distanza di due settimane dallo sbarco dei migranti ad Ancona si sono dirette nuovamente verso la Tripolitania. Resta da capire il motivo per il quale, nonostante dai rapporti della guardia costiera emerga che dalla Libia partano due rotte, l'altra dalla Cyrenaica, le navi delle Ong preferiscano stanziare in un solo punto, pressappoco nei pressi di Zuara, dove attendono in acque internazionali l'arrivo dei barchini. Il decreto firmato da Matteo Piantedosi ha reso più stringente e controllabile la loro azione, obbligandoli a effettuare un solo intervento nel caso in cui vogliano chiedere il porto all'Italia. In caso contrario ci sono sempre Malta e la Tunisia o tutti gli altri porti dell'area mediterranea.
Grazie al continuo servilismo della sinistra, che per anni ha sacrificato la sovranità nazionale, dall'estero tutti si sentono in diritto di fare pressioni sull'Italia affinché il nostro Paese spalanchi le sue porte a navi battenti bandiere straniere con a bordo migranti irregolari senza documenti, che per la maggior parte non hanno diritto di protezione internazionale. Sui giornali esteri, nelle radio e nelle tv europee le Ong vanno in processione per lamentarsi di quanto l'Italia sia brutta e cattiva. Gli ultimi affondi contro il nostro Paese arrivano dall'Olanda e, ancora, dalla Spagna, i cui media sembrano essere quelli preferiti dalle Ong per attaccare l'Italia.
Il sito spagnolo laMarea.com dedica al nostro Paese un articolo dal titolo significativo: "L'Italia soffoca le navi di soccorso umanitario". Il giornalista parla dell'esecutivo Meloni come di un governo di "estrema destra" che "ha iniziato una vera crociata contro le organizzazioni ". Nell'articolo si critica il sistema di assegnazione dei porti. "se rimani due o tre giorni per vedere se arrivano più barche, possono essere sanzionati. E le grandi navi sono pronte a stare diversi giorni, anche una settimana a salvare", dice Íñigo Mijangos, presidente del Salvamento Marittimo Umanitario che arma la barca Aita Mari. Ma se possono stare sette giorni in mare al largo della Libia in acque internazionali, possono benissimo raggiungere porti a quattro giorni di distanza dalla loro area operativa.
Dalle colonne del sito olandese Nos.nl, invece, da Medici senza frontiere riferiscono che le percentuali di sbarco dalle Ong sono del 10-15% del totale ma la Guardia costiera in audizione alla Camera ha spiegato bene questi numeri, in riferimento alla scelta delle Ong di eleggere solo una rotta migratoria sulla quale agire. Infatti, le Ong intervengono sul "34% dei migranti giunti in Italia attraverso il flusso della Tripolitania". Ancora una volta, all'estero viene fatta una narrazione di quanto avviene in realtà nel Mediterraneo centrale e in Italia. Ma la Ong non riconosce nemmeno l'autorità della Guardia costiera italiana: "Il ruolo delle Ong nel numero di persone che arrivano è completamente esagerato per ragioni politiche". Dalle colonne del sito olandese, si riferisce che "Medici Senza Frontiere sta valutando un'azione legale contro la nuova legge".
Arriva la stretta sulle Ong. Confisca e multe a chi sgarra. Varato il decreto per impedire che le navi facciano da "taxi" per i clandestini. Sanzioni fino a 50mila euro. Fausto Biloslavo il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Un solo salvataggio in mare, immediata segnalazione alla Guardia costiera e poi subito verso un porto di sbarco. Se le Ong non rispettano le nuove norme multe e fermi decisi dai prefetti. Il Consiglio dei ministri ha approvato, ieri sera, la stretta su Ong e migranti. Più morbida del previsto, la sua efficacia si vedrà alla prova dei fatti.
Le operazioni di soccorso dei migranti devono essere «immediatamente comunicate al centro di coordinamento per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l'evento e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità». Le Ong non potranno fare più quello che vogliono e dovranno rispettare altri, stringenti, requisiti a cominciare dall'«idoneità tecnico-nautica» per le operazioni di soccorso. Inoltre andranno avviate «tempestivamente iniziative volte a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale nel territorio dell'Unione europea». Questa parte del testo potrebbe subire ulteriori modifiche, ma le Ong hanno sempre detto che si rifiutano di farlo evitando così che la responsabilità ricada sullo stato di bandiera della nave.
Il nuovo decreto prevede che sia «stata richiesta nell'immediatezza dell'evento, l'assegnazione del porto di sbarco». E «il porto di sbarco» deve essere «raggiunto senza ritardo» così le navi delle Ong non potranno attendere in mezzo al mare per imbarcare più migranti possibili. Quelli già recuperati devono essere subito sbarcati nel porto assegnato dal Viminale.
Se le nuove norme non venissero rispettate «si applica al comandante della nave la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000». La sanzione pecuniaria, un po' bassa, «si estende all'armatore e al proprietario della nave». Alla contestazione «della violazione consegue l'applicazione accessoria del fermo amministrativo per due mesi della nave». I prefetti decidono sia sulle sanzioni che sul ricorso delle Ong. «In caso di reiterazione della violazione commessa con l'utilizzo della medesima nave - riporta il decreto - si applica la confisca della nave».
Ulteriori multe da «2000 a 10000 euro» e fermi da 20 giorni a due mesi sono previsti se il comandante o l'armatore «non forniscono le informazioni richieste dalla competente autorità nazionale per la ricerca e il soccorso in mare».
Nel frattempo la nave della Ong francese, Ocean Viking, che ha recuperato davanti alla Libia 114 migranti deve dirigersi verso Ravenna indicato come porto di sbarco dal Viminale. «A 900 miglia nautiche dalla nostra posizione - fanno sapere dalla Ong Sos Méditerranée -. Impiegheremo circa 4 giorni per arrivare a destinazione». Chi il mare lo sorveglia fa notare che se fossero andati in Francia, come l'ultima volta «le miglia sarebbero state 650. E la Corsica è ancora più vicina».
Il 26 dicembre all'una di notte è salpato dalla Cirenaica, un peschereccio di 25 metri che imbarcava 489 migranti egiziani, siriani, pachistani e afghani. Il costo del viaggio dal loro paese fino all'Italia varia da 6mila a 9mila dollari. La novità è che il barcone sia partito vicino a Bardia a soli 35 chilometri dal confine egiziano da dove arrivano almeno parte dei migranti. La Guardia costiera l'ha intercettato al largo della costa siciliana di Portopalo di Capo Passero. Smistati a Augusta, Messina e Catania si sommano ad altri 136 arrivi con carrette del mare a Lampedusa dalla Tunisia. Si aggiungono ai 102.574 sbarchi, fino a ieri, da gennaio.
Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 5 gennaio 2023.
«L'accoglienza della Francia non è stata all'altezza». Sono le parole del maliano Bamissa D., uno dei 230 migranti presenti a bordo della Ocean Viking, l'imbarcazione della Ong Sos Méditerranée finita lo scorso novembre al centro di uno scontro diplomatico molto aspro tra Parigi e Roma. Bamissa, rispedito a casa dalla Francia, è attualmente ospite da un amico a Bamako, la capitale del Mali: senza un soldo e psicologicamente devastato da ciò che gli è accaduto.
In un'intervista-video con il giornale parigino Mediapart, ha raccontato il trattamento disumano riservatogli da Parigi e la sua espulsione brutale verso il Mali decisa dalle autorità francesi dopo un esame sbrigativo della sua richiesta d'asilo. L'incubo per Bamissa è iniziato nella zona d'attesa situata sulla penisola di Giens, vicino a Tolone, dove sono stati ammassati tutti i passeggeri della Ocean Viking in attesa dell'esito della richiesta d'asilo.
«Era come una prigione», ha raccontato a Mediapart. Nella «prigione» è rimasto pochi giorni, perché la richiesta d'asilo è stata subito respinta. «Gli è stato rimproverato di non avere elementi che permettevano di corroborare ciò che diceva. Ma il mio cliente era su un'imbarcazione. È normale che non avesse alcun documento con lui», ha detto a Mediapart il suo avvocato, Aude Mayoussier.
Il 22 novembre, assieme a un connazionale presente a bordo della Ocean Viking, Bamissa viene portato in macchina dalla polizia di frontiera (Paf) all'aeroporto di Marsiglia. Gli agenti assicurano a Bamissa che sarebbero stati trasferiti a Parigi, dove avrebbero iniziato una nuova vita: ma era una menzogna. «Martedì, nella notte, i poliziotti sono venuti a dirci che partivamo per Parigi. Quando abbiamo chiesto loro il motivo, ci hanno risposto che eravamo liberi e che andavamo a Parigi perché c'erano più alberghi e una vita migliore per noi. Ma quando ci hanno ammanettato davanti alla macchina, ho capito che stava accadendo qualcosa», ha testimoniato il giovane maliano a Mediapart.
All'arrivo all'aeroporto parigino di Roissy-Charles-de-Gaulle, un agente della Paf annuncia ai due maliani quale sarebbe stata la loro vera destinazione: «Ci ha chiesto se conoscevamo la nostra destinazione e abbiamo risposto: Parigi. Lui, invece, ci ha comunicato che saremmo andati a Bamako».
Sollecitato dalla deputata del Rassemblement national Mathilde Paris il 22 novembre durante il question time all'Assemblea nazionale, il ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin, si era persino vantato dell'espulsione di Bamissa e del connazionale. «Lei fa finta di non vedere ciò che fa il governo francese. Ha dato prova di umanità accogliendo questa imbarcazione, ha fatto rispettare il diritto internazionale, e, da questa mattina, ha iniziato a espellere alcune persone: proprio oggi è partito un aereo verso il Mali», disse Darmanin.
E i migranti della Ocean Viking che non sono stati espulsi, si sono volatilizzati nella natura a causa della scarsa sorveglianza della polizia francese.
La Spagna di Sanchez perdona i suoi militari...Spagnoli peggio di Salvini: se la strage è di migranti non è reato. Angela Nocioni su Il Riformista il 24 Dicembre 2022
Non sapremo mai quante persone sono state uccise a Melilla, nella enclave spagnola in terra africana, il 24 giugno scorso. Schiacciate contro i cavalli di frisia, soffocate dai gas sparati dagli agenti spagnoli mentre erano in trappola tra due pareti di filo spinato alte sei metri, cadute dalle grate sotto gli occhi della polizia che gli puntava contro i fucili dal lato spagnolo mentre dal lato marocchino le guardie di frontiera li picchiavano con i bastoni spingendoli l’una sull’altra. Forse 23, forse 37.
“Tutto era sangue, pelle strappata, piedi rotti, mani rotte” hanno raccontato testimoni. I video girati ore dopo mostrano persone moribonde, con ferite gravi, lasciate arrostire sotto il sole senza soccorsi, tenute sotto tiro dalle armi degli agenti. Né sapremo mai quante altre persone sono state respinte in Marocco prima che si appurasse se avessero o no il diritto a fermarsi in Europa da rifugiati. Da ieri sappiamo però che non c’è nulla su cui indagare. La Fiscalìa (la procura generale) di Madrid ha stabilito che non ci sono indizi di possibili reati nel comportamento della Guardia civil quel giorno. “Non si può desumere che il comportamento degli agenti intervenuti abbia aumentato per i migranti la possibilità di perdere la vita, né che abbia messo a repentaglio la loro integrità fisica. Nessuno degli agenti dell’operativo terrestre ha avuto contezza del tumulto avvenuto né delle sue fatali conseguenze”, si legge nel testo.
E l’elicottero le cui pale hanno roteato per un tempo lunghissimo a pochi metri della testa dei ragazzi allo stremo delle forze appesi alle grate? Sebbene una telecamera dall’elicottero abbia ripreso la strage, abbia colto persino i dettagli delle persone morte schiacciate, non si può dire che gli agenti a bordo si siano accorti di qualcosa. La Procura afferma che i poliziotti nell’elicottero “non si sono accorti che c’erano persone in situazione di pericolo che avevano bisogno di aiuto”. E anche se l’avessero saputo, aggiunge, non avrebbero potuto dare soccorso senza correre rischi.
Nella parte finale del testo c’è anche una lode dei respingimenti a caldo (ossia migranti acciuffati e ributtati subito di là dal confine senza verificare nulla, né età, né provenienza, nulla). Si è trattato di espulsioni “realizzate con la decisione necessaria e senza perder tempo”. All’alba di quella mattina caldissima di giugno meno di duemila persone, tutte nere, quasi tutti maschi, provarono ad entrare nell’enclave non scavalcando le file di grate, come avviene di solito, ma buttando giù la porta del primo recinto di filo spinato che separa il quartiere cinese della città marocchina di Nador dal territorio europeo dell’enclave. Si sono trovate in trappola tra due reti mentre le guardie marocchine caricavano e quelle spagnole gli sparavano lacrimogeni addosso. Quaranta minuti di gas. Si sono lanciate sulle grate, 133 di loro siono riuscite a passare. Altre sono rimaste lì appese per ore, molte altre sono state travolte nella calca. Video girati da testimoni e diffusi dalla Moroccan Association for Human Rights mostrano corpi ammassati a terra, alcuni immobili, alcuni già cadaveri, presi a calci e bastonate dalle guardie marocchine.
Dalla cronaca di quei giorni di El Pais di Madrid: “Quando la tragedia si verifica dalla parte marocchina, la trasparenza è minore, l’informazione è limitata e difficile da valutare. Le circostanze che hanno segnato questo ultimo assalto sono ancora da chiarire, ma le prime informazioni indicano una grande concentrazione di persone in una vallata a ridosso del perimetro, dove sono rimasti intrappolati diversi migranti. In alcuni video che circolano sui social si possono percepire momenti tesi e pericolosi. In uno si può vedere come le azioni delle forze marocchine abbiano costretto un folto gruppo di migranti a correre, muovendosi parallelamente alla recinzione e la folla si è raccolta per sfuggire ai fumogeni sparati direttamente contro di loro”.
Nota El Pais che “tra i 133 che sono riusciti ad entrare a Melilla, c’è una maggioranza di sudanesi. Questa nazionalità era già molto presente negli ultimi tentativi, il 2 e 3 marzo, quando più di 850 migranti sono riusciti ad entrare nella città autonoma. I sudanesi sono potenziali rifugiati, secondo l’Onu. I sudanesi hanno uno dei più alti tassi di riconoscimento del diritto di asilo in Spagna, oltre l’88% nell’ultimo anno secondo i dati del ministero dell’Interno. Lo Stato riconosce la loro protezione internazionale, perché ritiene che siano a rischio di morte se tornano nel loro paese o che siano perseguitati. Per raggiungere questo obiettivo, finiscono per entrare in Europa in modo irregolare. La rotta libica è stata la più comune, anche se la rotta spagnola, attraverso il Marocco, ha registrato un aumento negli ultimi due anni”. Angela Nocioni
Le nuove norme per le navi umanitarie. Cosa prevede il nuovo codice di condotta per le Ong, il governo prepara percorso a ostacoli. Angela Stella su Il Riformista il 20 Dicembre 2022
Dopo le festività natalizie il Governo è pronto a varare un provvedimento normativo che contenga un codice di comportamento che le ong dovranno rispettare. Lo va ripetendo il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Due giorni fa aveva annunciato: “Per le ong stiamo pensando alla ridefinizione di un quadro di regole, si è parlato molto di codice di condotta. Pensiamo a qualcosa che possa trovare ingresso in una normativa di settore ma è una questione molto tecnica”. Poi ieri in un colloquio sul Foglio ha ribadito: “Non c’è, da parte del governo, alcun tentativo di criminalizzare queste organizzazioni. Nel prossimo codice di comportamento, che contiamo di definire nelle prossime settimane, abbiamo l’ambizione di procedere a rafforzare le sanzioni amministrative anziché perseguire la via penale. Una gradualità che arriva fino al sequestro”.
L’obiettivo primario è distinguere tra missioni di salvataggio non concordate (cui l’Italia sarà disponibile ad assegnare un porto, se sarà quello più vicino) e ricerca di migranti traghettati dai trafficanti. “Nell’annosa questione che esiste tra cos’è la missione di salvataggio e che cosa sono le ricerche sistematiche di persone che partono sotto l’iniziativa dei trafficanti – ha detto il Ministro a SkyTg24 – vogliamo mettere delle regole che possano creare elementi chiari di distinzione, alla cui violazione possono seguire meccanismi sanzionatori. Stiamo lavorando perché questo tipo di regolamentazione possa trovare una nuova edizione in un provvedimento normativo che ci riproponiamo di adottare quanto prima”. Secondo Piantedosi, infatti, “molte volte il comportamento di alcune organizzazioni non governative sembra essere improntato più che a effettuare veri e propri salvataggi a un’azione preordinata a portare solo in Italia i migranti che partono dalla Libia e da altri Paesi”.
Ma quali sarebbero queste regole di comportamento? La principale prevedrebbe che le navi umanitarie delle ong che effettueranno soccorsi nel Mar Mediterraneo dovranno chiedere il porto sicuro, portare a terra le persone subito dopo ogni intervento e non rimanere in zona Sar (Search and Rescue), aspettando altre eventuali imbarcazioni di migranti. Dunque costi maggiori di carburante e tempi più lunghi lontani dalle zone Sar. Non saranno più permessi i trasbordi da una nave umanitaria all’altra. Ciò avviene frequentemente nel momento in cui ad effettuare gli interventi di salvataggio sono imbarcazioni piccole e non sufficientemente attrezzate. Come rivelato da Repubblica le ong che non rispetteranno queste regole e chiederanno un porto sicuro dopo giorni non saranno accolte. Se poi dovessero entrare ugualmente in acque italiane, saranno soggette a sanzioni proprio per la violazione del codice di comportamento. Dunque ci si sposterà dal piano penale a quello amministrativo, di competenza dei prefetti, che potranno immediatamente firmare multe e disporre addirittura sequestri o confische delle navi. Nel provvedimento di inizio 2023 poi saranno previste misure per accelerare i rimpatri e norme più stringenti per la concessione della protezione internazionale.
Oggi nel frattempo il responsabile del Presidio territoriale di emergenza di Lampedusa effettuerà l’ispezione cadaverica su Rokia, la bimba che aveva meno di tre anni, morta due giorni fa al Poliambulatorio dopo che la barca su cui viaggiava si è ribaltata ed è affondata a 10 miglia dalla costa. Sulla vicenda la Procura ha aperto un’inchiesta, a carico di ignoti, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte quale conseguenza di altro reato. Sempre da Lampedusa si è fatto sentire sul tema il vice premier Matteo Salvini che stava incontrando le forze dell’ordine e militari che si occupano dei soccorsi in mare: “Bisogna rivedere le norme nate in passato. Qui siamo di fronte a un traffico organizzato su cui ci sono inchieste in corso. Le vittime sono alla fine i migranti. Che valgono in base all’età e alla nazionalità”. Ieri, invece, Caminando Fronteras, ong specializzata in migrazioni verso il Paese iberico, ha reso noto un rapporto secondo cui negli ultimi cinque anni, almeno 11.286 persone sono risultate morte o disperse mentre tentavano di raggiungere la Spagna lungo rotte migratorie. Angela Stella
Flavia Amabile per “la Stampa” il 30 dicembre 2022.
Ora che il decreto è stato approvato dal Consiglio dei ministri e che sono chiari i dettagli della guerra del governo contro le Organizzazioni non governative, le Ong si preparano alla rivolta. Da parte dell'esecutivo l'obiettivo è esplicito. «La madre di tutte le battaglie - sostiene il sottosegretario all'Interno Emanuele Prisco - da condurre in comune con gli altri stati europei, è limitare le partenze, per evitare che sul bisogno di molti guadagnino i trafficanti e le mafie e perché difendere i confini italiani significa difendere i confini europei».
Oppure, come specifica Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato di Forza Italia, si interviene finalmente contro i «centri sociali del mare, non a caso spesso gestiti dagli stessi personaggi che si distinsero in azione di piazza negli anni passati», e che «svolgono una funzione di supporto ai trafficanti».
Ma le Ong non intendono accettare la stretta nei loro confronti. «Sea-Eye non seguirà alcun codice di condotta illegale o qualsiasi altra direttiva ufficiale che violi il diritto internazionale o le leggi del nostro Stato di bandiera, nel nostro caso la Germania. Rifiutiamo questo cosiddetto codice sulle Ong e temiamo che ciò possa portare a conflitti con le autorità italiane. Ci aspettiamo che il governo tedesco ci protegga», annuncia Annika Fischer, membro del consiglio di amministrazione di Sea-Eye. Secondo Valentin Schatz, giurista dell'Università di Luneburg e membro del team giuridico della Ong, «l'Italia non può imporre le modalità di svolgimento delle operazioni di soccorso in acque internazionali».
Medici Senza Frontiere spiega di essere pronta a ripartire con la Geo Barents. In questo momento la nave è ad Augusta, in Sicilia, e da lì salperà per tornare a navigare tra il 31 dicembre e il 1° gennaio. «La strategia del governo ha l'obiettivo di ostacolare le attività di ricerca e soccorso delle Ong e non fa che aumentare in modo esponenziale il rischio di morte per migliaia di persone.
Salvare vite umane è il nostro imperativo ed è un obbligo sancito da tutte le convenzioni e le leggi internazionali e per questo continueremo a farlo», afferma Juan Matias Gil, capomissione di Medici Senza Frontiere. Emergency ricorda che «quasi 1.400 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale quest' anno» e «le conseguenze di questo provvedimento saranno l'aumento dei morti in mare».
La stretta sui salvataggi in mare viene condannata anche dal mondo cattolico. «È paradossale che uno strumento che in questi anni è stato di sicurezza per almeno il 10% delle persone che sono sbarcate nel nostro Paese e in Europa», cioè le navi delle Ong, «sia considerato uno strumento di insicurezza», afferma in un'intervista a Vatican News monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, presidente della Fondazione Migrantes e della Commissione Cei per le Migrazioni.
Altrettando critico è il quotidiano cattolico Avvenire che in un editoriale dal titolo "L'altra guerra senza senso", scrive: «A scorrere l'elenco delle prescrizioni governative sembra che le navi umanitarie trasportino "rifiuti pericolosi"».
Secondo il decreto, le navi potranno transitare e intervenire solo per i soccorsi sotto il controllo e le indicazioni delle autorità territoriali oltre ad essere tenute a formalizzare la richiesta di un porto sicuro già subito dopo la prima operazione di salvataggio, senza sostare in mare per giorni. In caso contrario, sono previste sanzioni per comandante, armatore e proprietario, fino a 50 mila euro, compresa la confisca del mezzo, che deve anche avere una idoneità tecnica per la sicurezza nella navigazione.
Norme «contro ogni principio di uguaglianza», sostiene Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo delle Capitanerie di Porto e componente del Comitato Diritto al Soccorso.
Imporranno, infatti, «alle navi Ong (e solo a loro, contro ogni principio di uguaglianza) di non spendersi completamente nel salvataggio delle persone in mare».
Inoltre, cancellano «trasbordi, rapidità dell'azione e rapido ricovero in porto, tutto ciò che fa parte della cultura del mare e che le unità del soccorso istituzionale e le navi mercantili praticano quotidianamente», conclude Alessandro. La prima nave che sbarcherà in Italia con il nuovo provvedimento già approvato è la Ocean Viking di Sos Mediterranée, con 113 migranti a bordo, a cui è stato assegnato il porto di Ravenna: l'arrivo è previsto nella tarda mattinata di domani.
Le Ong sfidano il governo: "Non rispetteremo i limiti". I talebani dell'accoglienza contro le nuove regole. E ripartono: "Vale solo il diritto internazionale". Fausto Biloslavo il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Le Ong si ribellano al decreto del governo che riguarda le loro discutibili attività in mare considerandosi al di sopra della legge.
I tedeschi di Sea Eye invocano addirittura l'intervento della Germania. Medici senza frontiere annuncia la ripartenza della loro nave spiegando che rispondono solo alle convenzioni internazionali. Emergency, con la nave che batte bandiera panamense, si rifiuta di raccogliere le richieste di asilo dei migranti recuperati.
Geo Barents, la nave di Msf salperà da Augusta il 31 dicembre per portarci altri migranti, anche se non scappano da paesi in guerra. Il capo missione è Juan Matias Gil. Quando l'allora ministro all'Interno Matteo Salvini voleva bloccare la nave di Open arms twittava: «La Ong spagnola fa vedere il lavoro sporco ed inumano dei governi libico ed italiano». Oggi si scaglia contro l'esecutivo Meloni e dichiara: «La strategia del governo ha l'obiettivo di ostacolare le attività di ricerca e soccorso delle Ong. Salvare vite umane è il nostro imperativo ed è un obbligo sancito da tutte le convenzioni e le leggi internazionali. Per questo continueremo a farlo».
I più spudorati sono i talebani dell'accoglienza tedeschi. Annika Fischer annuncia che «Sea-Eye non seguirà alcun codice di condotta illegale o qualsiasi altra direttiva ufficiale che violi il diritto internazionale o le leggi dello Stato di bandiera, nel nostro caso la Germania».
Quando il governo sostiene che dovrebbero sbarcare i migranti in Germania, lo Stato di bandiera non conta. Adesso, per opporsi al decreto, si aspettano «che il governo tedesco tuteli le organizzazioni di soccorso in mare dal comportamento illegale delle autorità italiane e ci sostenga con decisione in caso di conflitto».
Emergency con l'ammiraglia Life support, batte bandiera panamense. E si oppone al decreto sottolineando il niet all'obbligo da parte dello staff della nave a «raccogliere l'eventuale interesse dei superstiti di chiedere asilo, affinché sia il Paese bandiera della nave a farsi carico delle richieste di protezione internazionale». Come se fosse la corte di Cassazione spiega che secondo le linee guida dell'Organizzazione internazionale marittima «qualsiasi attività al di fuori della ricerca e salvataggio deve essere gestita sulla terra ferma dalle autorità competenti e non dallo staff delle navi umanitarie». In pratica dà ordini al governo.
Veronica Alfonsi, di Open arms, denuncia senza timore del ridicolo, che il vero obiettivo è fermare i testimoni «delle violazioni dei diritti quotidiane e reiterate che l'Europa compie in accordo con Stati illiberali, con dittature, con regimi, ai quali peraltro continua a dare un mucchio di soldi pubblici». Il riferimento è alla Libia, ma le Ong del mare non si pongono mai il problema di agire come pull factor per la gioia dei trafficanti di esseri umani.
I fiancheggiatori della Chiesa sono subito scesi in campo. Tonio Dell'Olio, sacerdote e attivista della non-violenza, ex coordinatore nazionale di Pax Christi, non ha dubbi: «Nel Paese che ha il triste primato delle mafie più potenti del mondo il decreto sicurezza criminalizza chi presta soccorso ai disperati che scappano da mafie, guerre e fame».
E spunta pure Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della Guardia costiera, che fa parte di un «Comitato diritto al soccorso» in compagnia di Luigi Manconi, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky. Per l'ex alto ufficiale il decreto «soffoca in una logica da taxi del mare l'ingegno generoso del salvataggio marittimo. Dice il governo che così diminuiranno le partenze, ma non è vero: la gente continuerà a partire sempre, come può. Saranno gli arrivi a ridursi». Non sarebbe una cattiva idea: ieri siamo arrivati a 103.601 sbarchi da gennaio, compresi gli oltre 11mila delle Ong.
Sea Watch contro il nuovo decreto sicurezza: "Ong ancora criminalizzate". L'Ong tedesca lancia già il guanto di sfida alle nuove direttive emanate dal governo: "Andremo avanti per come abbiamo sempre fatto". Mauro Indelicato il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Non si è fatta attendere la reazione del mondo delle Ong al nuovo decreto sicurezza approvato nell'ultimo consiglio dei ministri. A prendere la parola, tramite alcune dichiarazioni rilasciate all'AdnKronos, sono stati i rappresentanti dell'Ong Sea Watch, una delle più attive.
“Queste norme ci criminalizzano”
La reazione da parte degli attivisti non poteva che essere negativa. Del resto nel nuovo decreto sicurezza, varato nell'ultimo consiglio dei ministri nelle scorse ore, sono contenute norme con le quali si tenta di mettere ordine all'attività delle Ong. Ordine malvisto dagli attivisti, i quali invece hanno parlato di “criminalizzazione” degli equipaggi a bordo delle proprie navi.
In Cdm il codice di condotta per sbarchi e Ong
“Il nuovo decreto Sicurezza, approvato dal consiglio dei ministri del governo Meloni – hanno dichiarato membri di Sea Watch all'AdnKronos – non è altro che l'ennesimo tentativo di ostacolare e criminalizzare le attività delle navi della società civile”.
Tra le nuove norme, l'obbligo di intervenire sotto il controllo e il coordinamento delle autorità competenti e solo per casi di accertato pericolo. Tradotto, vuol dire stop a interventi prolungati fino a diversi giorni in uno stesso specchio d'acqua e senza il coordinamento da parte delle autorità italiane.
Soldi, navi e "guerra" all'Italia Come funziona l'ong di Carola
Fino a oggi le Ong hanno operato spesso avvisando Roma soltanto per chiedere un Pos, ossia un porto sicuro in cui far sbarcare le navi con a bordo i migranti. E questo soltanto dopo essere rimaste a largo a volte per intere settimane. Se le Ong non si conformeranno a queste regole, potrebbero scattare multe molto salate. Tra le pene anche la confisca del mezzo, specie se giudicato non conforme a operare. Del resto, solo poche navi Ong sono formalmente abilitate a ospitare a bordo decine di migranti e a prestare attività di soccorso in tutta sicurezza.
Il guanto di sfida di Sea Watch: “Continueremo a operare”
La reazione di Sea Watch rispecchia probabilmente il pensiero di tutte le altre Ong. Il mondo degli attivisti è pronto a raccogliere quello che viene visto come il guanto di sfida lanciato dall'esecutivo. “Nessun governo – si legge non a caso nelle dichiarazioni rilasciate dai membri dell'Ong tedesca all'AdnKronos – può impedire a una nave di sottrarsi all'obbligo di soccorso e nessuna nave si rifiuterà di accogliere chi chiede aiuto nel Mediterraneo centrale. Rispetteremo il diritto internazionale, come abbiamo sempre fatto”.
Il miglioramento delle condizioni del mare potrebbe portare già nei prossimi giorni a nuove partenze dalla Libia e a nuovi possibili approdi, anche con navi Ong. Si prevede quindi un importante banco di prova tanto per i nuovi decreti sicurezza quanto, dall'altro lato della barricata, per il mondo delle Ong.
Da liberoquotidiano.it il 30 dicembre 2022.
"Non so chi fosse. Un signore in auto allo scattare del semaforo mentre io invece aspettavo il verde per attraversare la strada, si è sentito in obbligo di gridarmi con malcelata veemenza: 'Portateli a casa tua i migranti!'": uno sfogo durissimo quello a cui Fabio Fazio si è lasciato andare nella sua rubrica sul settimanale Oggi. "Era un po’ che non succedeva - ha proseguito il conduttore di Che tempo che fa -. ‘Portateli a casa tua‘ è complementare al più abusato ‘aiutiamoli a casa loro‘ che ormai è diventato quasi un luogo comune".
Fazio, poi, ha fatto una riflessione: "Vorrei dire a quel signore che chiameremo con un nome di fantasia, Gianpirla, che la mia casa così come la sua è assolutamente la stessa. È l’Italia. Gianpirla si deve rassegnare: siamo vicini di casa. I cittadini possono giustamente definire ‘casa’ il proprio Paese e devono sentirsi legittimamente nella posizione di poterne disporre sentendola propria. La casa è il luogo nel quale custodiamo i nostri principi morali, in cui cresciamo, in cui costruiamo felicità e armonia”.
Continuando a parlare di immigrazione, il giornalista ha aggiunto: "Considerarla un fatto privato da risolvere all’interno del proprio appartamento o, per meglio dire, da tenere fuori dal proprio appartamento, è semplicemente senza senso e senza buonsenso. Come era prevedibile di fronte a problemi contingenti di difficile soluzione, si cercano argomenti identitari attorno ai quali raccogliere consenso. Non importa a quale prezzo, con quali mezzi e con quale linguaggio".
"Vi svelo tutte le falsità della sinistra per difendere le Ong". "Le Ong operano senza regole. Finalmente avremo norme chiare". L'onorevole Sara Kelany (Fdi) spiega a ilGiornale.it i vantaggi del nuovo decreto, smontando le obiezioni della sinistra. Marco Leardi il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.
"Esistono delle leggi da rispettare". Il nuovo decreto del governo in materia di Ong è stato pensato per quello. Per introdurre regole precise in un ambito in cui troppo spesso la discutibile prassi ha preso il sopravvento sulle norme. L'avvocato Sara Kelany, onorevole di Fratelli d'Italia ed esperta di tematiche migratorie, lo spiega con chiarezza, elencando i punti salienti di un provvedimento studiato proprio per tutelare gli interessi del Paese rispetto a un argomento delicatissimo. Di stretta attualità. Osteggiato da sinistra e Ong, il decreto è già diventato materia di scontro politico, usato come grimaldello contro il governo. Ma è proprio sulle obiezioni alle nuove norme che, in una conversazione con ilGiornale.it, l'avvocato Kelany ha smontato punto su punto le argomentazioni di area progressista.
Onorevole, andiamo con ordine. Quali sono, secondo lei, i vantaggi del nuovo decreto?
Finalmente viene normata una situazione che sinora era stata lasciata completamente a se stessa. A oggi, infatti, le Ong non sono sottoposte a nessun codice di condotta e operano nel Mediterraneo sulla base dei loro desiderata, peraltro in maniera molto arrogante. Ora però vogliamo impedire che queste navi, attive in un settore molto delicato per la sicurezza interna e per l'incolumità degli stessi migranti, possano creare dei problemi.
Le Ong sostengono però che questo decreto lascerà il Mediterraneo senza soccorsi...
È falso. Le Ong non sono affatto gli unici occhi nel Mediterraneo. L'area Sar (Search and Rescue) italiana si estende ben oltre le acque le nostre acque territoriali e in questo spazio operano la Guardia costiera, la Guardia di finanza, la Marina militare e le centrali operative di queste forze hanno sempre contezza di quel che accade, sia nelle acque territoriali, sia in quelle esterne. Infatti molto spesso effettuano soccorsi.
Secondo Riccardo Gatti di Medici Senza Frontiere è "ampiamente dimostrato" che le navi umanitarie non siano un fattore d'attrazione per i barconi dei migranti. Le risulta?
Non è così, c'è una narrazione strumentale delle Ong anche su questo. Gatti sostiene che l'unico pull factor sarebbero le condizioni metereologiche, ma non è vero. Ci sono plurimi rapporti di Frontex nei quali le Ong sono indicate tra i fattori di attrazione per gli scafisti. In questi report si dice chiaramente che la presenza delle Ong fa sì che gli scafisti decidano di mettere in mare i barconi, perché sanno che qualcuno li andrà a raccogliere, peraltro sotto le coste libiche.
Il nuovo decreto prevede anche regole più precise sull'assegnazione e il raggiungimento dei porti per lo sbarco. Per quale motivo?
C'è un problema di sicurezza interna e di logistica dei migranti. Solo sull'hotspot di Lampedusa, dimensionato per 350 persone, sono stati stipati purtroppo oltre 2mila profughi e questo ha comportato un collasso nella gestione. Nel momento in cui si deve assegnare il porto più sicuro, che non è necessariamente il più vicino, deve essere l'Italia a decidere quale sia il luogo più adeguato, tanto per la gestione interna quanto per il migrante soccorso. Le Ong pretendono anche scegliere il porto? Quanta arroganza c'è nella loro prospettazione. Gatti di Medici Senza Frontiere sostiene poi che attualmente, a legge invariata, le Ong sarebbero vessate dai controlli della Guardia costiera, come se questi accertamenti fossero funzionali a impedirne l'attività. Segnalo però che, solo nel 2021, su 7.300 navi straniere la Guardia costiera ne ha controllate a campione un quinto, quindi 1360. Questi sono controlli standardizzati dalle norme del diritto internazionale; non si vede perché si possano controllare tutti i natanti ma non quelli delle Ong.
Le Ong ora dovranno svolgere un soccorso per volta e raggiungere in tempi brevi il porto assegnato. Qual è la ratio di questo adeguamento?
Per ragioni di sicurezza, una volta che viene salvato un naufrago, questi deve essere portato nel porto più sicuro e non lasciato in attesa che ne arrivino altri. Spesso si lamenta che l'Italia lascerebbe in navigazione per giorni le navi delle Ong senza un porto sicuro. Ma anche un recente caso smentisce questa ricostruzione: la nave Geo Barents, nell'ultimo approdo in Italia, ha trasportato 530 migranti che erano il frutto di plurimi salvataggi avvenuti nell'arco di oltre una settimana. Significa che queste navi stazionano nel Mediterraneo, anche per dieci o venti giorni, e attendono che arrivino i barconi. Quindi non è l'Italia che le lascia al largo. Come ci si può lamentare del fatto che ora le Ong possano essere indirizzate verso un porto ritenuto troppo lontano quando a volte le stesse organizzazioni stanno in mare anche 10 o 20 giorni? Ne va della sicurezza degli stessi migranti.
Le Ong lamentano però un problema di costi, dovuto all'eventuale allungamento dei tempi di navigazione per arrivare ai porti...
Sono ben foraggiate da vari soggetti privati e anche da alcuni governi, come ad esempio quello tedesco. Non credo che abbiano di questi problemi.
Di recente alcuni parlamentari di sinistra sono saliti a bordo delle navi Ong per portare la loro solidarietà. Come avete interpretato questo gesto?
Questo non mi stupisce affatto, ma l'ho trovato alquanto inopportuno. Evidentemente c'è una contiguità politica tra la sinistra e le Ong, dimostrata peraltro dall'atteggiamento tenuto da alcuni governi del passato, con il quale si è evitato che venissero normate le attività di queste organizzazioni. Le Ong molto spesso non consentono che vengano coordinati i soccorsi, operano senza regole e poi si accostano all'Italia chiedendo di raggiungere un porto che loro decidono. Non riesco a comprende che cosa ci sia di sbagliato nel normare, nel coordinare e nel far sì avvenga tutto in trasparenza.
La sinistra accusa il governo di ostilità all'azione umanitaria delle Ong. Cosa risponde?
Questo è un errore nella narrazione della sinistra. Il decreto non dice che da domani le Ong sono nemiche, ma che esistono delle leggi da rispettare. Sembra invece che noi dobbiamo sottostare ai desideri estemporanei delle Ong. Peraltro sui siti di queste organizzazioni c'è scritto esplicitamente che non hanno solo finalità umanitarie ma anche politiche, in quanto spingono affinché vengano cambiate le politiche in materia di immigrazione. Non credo che uno Stato possa consentire un'ingerenza da parte di associazioni private nell'organizzazione delle proprie politiche migratorie. Sennò si invertono completamente i principi democratici per i quali i governi sono espressione della volontà popolare.
Open arms, spuntano le mail a Merkel. Bongiorno: la Ong è stata coccolata. Il Tempo il 09 giugno 2023
Sono emersi ulteriori dettagli sul processo Open Arms che vede imputato l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per avere impedito, nell’agosto 2019, per 19 giorni, lo sbarco di 163 migranti che si trovavano a bordo della nave della Ong che chiedeva lo sbarco dei naufraghi a Lampedusa. Salvini ha presenziato a Palermo all’udienza in aula bunker, accompagnato dal suo avvocato difensore Giulia Bongiorno. Il primo a deporre è stato Oscar Camps, fondatore della Ong che ha sottolineato: «Noi chiedevamo un porto per sbarcare a Malta e all’Italia. Malta disse subito di no, ma l’Italia non ha mai risposto. C’era il decreto che impediva l’attracco. Aspettavamo che un giudice accogliesse il nostro ricorso sul decreto che ci impediva di sbarcare - ha detto - a bordo le condizioni mediche erano difficili, la situazione dei bagni terribile. Molte persone si erano lanciate in acqua, diverse avevano tentato il suicidio. Tra il 14 e il 15 agosto la nave Open Arms è entrata nelle acque italiane - ha poi sottolineato - avevo chiamato il capitano e mi aveva detto che non potevamo entrare nelle acque italiane perché un’unità della Guardia di finanza ce lo impediva. Io ho insistito con lui dicendo che poteva entrare. Ho spiegato che il decreto non aveva più vigenza in quel momento e che avevamo bisogno di essere accolti perché c’era cattivo tempo e la situazione a bordo era difficile. Eravamo davanti a Lampedusa».
Nel corso dell’udienza a Palermo il fondatore della Ong ha raccontato anche che «Richard Gere, venuto a conoscenza delle difficili condizioni a bordo - ha detto - mi ha chiamato per chiedere cosa poteva fare, gli ho detto di vederci a Fiumicino e di andare insieme a Lampedusa. Gere si occupò di comprare frutta e verdura e abbiamo affittato una imbarcazione per portare quello che avevamo acquistato».
Il presidente della II sezione penale di Palermo ha disposto l’acquisizione della documentazione mail delle comunicazioni intercorse tra Oscar Camps, fondatore di Open Arms e Angela Merkel. Camps, infatti, avrebbe chiesto l’intervento dell’allora cancelliera tedesca per un aiuto per lo sbarco dei naufraghi a bordo della nave. «Aspettavamo la ripartizione dei naufraghi. Gli sbarchi precedenti al nostro necessitavano del bisogno della comunità europea. Nel caso di Sea Watch, per i tedeschi. In quella occasione ci siamo messi in contatto con la Merkel per chiedere il suo intervento perché la situazione a bordo era molto difficile - ha detto Camps - abbiamo chiesto un porto sicuro possibile, il più vicino possibile». La risposta di Angela Merkel però «non è mai stata fornita al giudice, quindi non è stata acquisita perché non è pubblica», ha detto Camps.
«Oggi è stato dimostrato che Open Arms era al centro dell’attenzione da parte di tutte le autorità, ha ricevuto più volte mail in cui si diceva che se avesse attestato le condizioni di salute i migranti scendevano subito e telefonate in cui i medici dicevano di essere pronti a dare la massima disponibilità. Forse è l’udienza che in assoluto ha fatto emergere in maniera nitida, più delle altre, quanto in realtà la Open Arms sia stata accudita e quasi direi coccolata. Quindi è l’esatto opposto della ricostruzione che fornisce il capo d’imputazione che parla di una nave abbandonata», ha detto l’avvocata Giulia Bongiorno, legale di Salvini, alla fine dell’udienza parlando con i cronisti. Dalla testimonianza del fondatore di Open Arms Oscar Camps, secondo Giulia Bongiorno, «viene fuori in maniera assolutamente chiara che in realtà Oscar Camps parlava con le autorità europee, contemporaneamente in Italia si pensava alle redistribuzione dei migranti, la Spagna offriva porti, la guardia costiera diceva che potevano scendere se certificavano che stavano male a bordo. Non si capisce perché non sono scesi subito».
Nave sequestrata, Senaldi inchioda la sinistra: "Se inverti la legalità...". Il Tempo il 09 giugno 2023
La notizia lanciata dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, nel corso del Forum in Masseria di Bruno Vespa ha aperto la puntata di venerdì 9 giugno di Stasera Italia, su Rete4. I fatti sono clamorosi: un gruppo di immigrati clandestini, alcuni dei quali armati di coltello, ha sequestrato una nave turca diretta in Francia, in porto a Napoli. Per mettere in salvo l'equipaggio sono dovuti intervenire i militari del Battaglione San Marco.
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Per Pietro Senaldi, ospite di Barbara Palombelli, questi eventi estremi sono la diretta conseguenza di una deriva che ha preso piede negli ultimi anni. "Quando dai una patina di impunità all'immigrazione clandestina, quando assolvi una persona che sperona una nave della Guardia di Finanza e processi per sequestro di persona un ministro che si oppone all'immigrazione clandestina, quando tu inverti la legalità, hai queste conseguenze estreme", argomenta il condirettore di Libero. Il riferimento è ovviamente a Carola Rackete e al caso Open Arms. Proprio oggi a Palermo, mentre i clandestini occupavano con la violenza una nave, si è celebrata un'udienza del processo in cui l'attuale vicepremier Matteo Salvini è accusato di sequestro di persona...
Open Arms smascherata: pressioni su Merkel e Macron per sbarcare in Italia. Dario Martini su Il Tempo il 10 giugno 2023
Nell’agosto 2019 la ong Open Arms si rifiutò di portare i migranti in Spagna nonostante avesse avuto il benestare del governo di Madrid. Voleva a tutti i costi farli sbarcare sulle coste italiane, tanto che fece pressioni sulla Germania affinché l’aiutasse in tal senso. Cosa alquanto difficile, dal momento che il Viminale, allora diretto da Matteo Salvini, non faceva altro che applicare la legge, ovvero il decreto Sicurezza bis.
Sono proprio le pressioni su Berlino la novità maggiore emersa nell’udienza di ieri del processo in cui Salvini è imputato per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per avere impedito lo sbarco dei migranti rimasti a bordo della nave battente bandiera spagnola dal 2 al 20 agosto di quattro anni fa. La notizia è emersa durante la deposizione del fondatore di Open Arms, Oscar Camps, nell’aula bunker dell’Ucciardone. Camps ha rivelato di aver inviato due mail all’allora cancelliera Angela Merkel. La prima il 7 agosto 2019, la seconda il 16. Le due lettere sono state messe agli atti del processo. Manca, invece, la risposta di Merkel. Non è stata fornita al giudice, Camps si è rifiutato di farlo con la motivazione che è «privata». La Procura ne ha chiesto l’acquisizione, altrimenti ha fatto sapere di essere pronta a chiedere direttamente la testimonianza dell’ex cancelliera.
Secondo quanto riferito dal fondatore della Ong la risposta tedesca sarebbe stata favorevole: «Ci dissero che stavano lavorando su questo argomento e che sarebbero intervenuti nella riunione del Parlamento europeo». Per il team legale «si poteva attendere una risposta positiva e confidavamo che l’Ue rimuovesse quel divieto».
Camps, al termine dell’udienza, ha rivelato di aver scritto anche al presidente fracese Emmanuel Macron e all’allora presidente del parlamento europeo David Sassoli. «Ho ricevuto la risposta dall’ufficio di gabinetto di Macron, ma anche questa è privata come la lettera di Merkel». Occorre ricordare la precisa cronologia dei fatti. Era il primo agosto quando Open Arms prese i primi 124 migranti a bordo (seguirono altri due salvataggi). Il giorno seguente, il 2 agosto, fece richiesta ufficiale di un «porto sicuro» sia a Malta che all’Italia. In entrambi i casi ricevette un rifiuto. Il divieto notificato dalle autorità italiane si basava sulle norme del decreto Sicurezza bis.
Cinque giorni dopo, il 7 agosto, Camps incontrò l’ambasciatore tedesco a Madrid. È lui stesso a raccontarlo: «Abbiamo parlato e gli ho consegnato una richiesta per Angela Merkel nella quale chiedevo un intervento della Commissione europea per favorire la collaborazione e parlare dell’atto che impediva di entrare in una Paese europeo che non ritenevamo giusto né legale».
Questo il testo della prima lettera scritta da Camps a Merkel: «Le scrivo per informarla su una situazione molto difficile in atto nel Mediterraneo e per chiedere un suo intervento. Da cinque giorni la nave Open Arms naviga nel Mediterraneo. A bordo ci sono 121 persone salvate, di cui 30 minorenni. La condizione di salute a bordo è molto precaria, perché a numerosi adulti e minori servono delle cure immediate. Abbiamo chiesto un porto sicuro a Malta e in Italia per potere fare sbarcare i migranti. Ma le nostre richieste sono state tutte respinte. Abbiamo cercato tutte le possibili soluzioni. Noi pensiamo che ci sia una responsabilità da parte della Commissione europea, che dovrebbe coordinare una distribuzione dei migranti nei diversi paesi dell’Ue. E questo meccanismo può essere attivato solo su richiesta di uno Stato membro. Noi siamo convinti che la Germania, che si è sempre augurata l’attivazione di un meccanismo di solidarietà, possa essere lo Stato ideale.
Per favore, ci aiuti in nome delle persone che sono state vittime di ogni tipo di violenza e chieda alla Commissione europea un intervento di solidarietà per fare sì che si possa avviare un meccanismo di distribuzione». Il 16 agosto la nuova missiva: «Eccellenza, in seguito alla prima lettera la ricontatto per informarla che dopo 15 giorni dal soccorso dei migranti la situazione a bordo è estremamente grave - si legge - Abbiamo provato a cercare tutte le soluzioni possibili per trovare un porto sicuro. Negli ultimi giorni siamo stati costretti ad eseguire sei evacuazioni mediche e, nonostante avessimo informato le autorità, la situazione si è ulteriormente aggravata. Le condizioni sia fisiche che psichiche dei migranti a bordo sono notevolmente peggiorate e vista la situazione umanitaria catastrofica, siamo costretti a entrare nel porto di Lampedusa perché la situazione a bordo è insostenibile. La preghiamo di fare tutto ciò che è in suo potere per mettere in sicurezza le persone a bordo e che ci venga dato unporto sicuro dove fare sbarcare i migranti». È lo stesso Camps, quindi, a ricordare come tutti i migranti in difficoltà furono fatti scendere.
Elemento confermato anche dal medico di bordo Inas Urrosolo Martinez De Lagos nel corso del controesame di Giulia Bongiorno, legale di Salvini: «Le autorità italiane non ci hanno mai negato un’evacuazione medica». Infatti, dei 163 migranti salvati, 39 furono evacuati. C’è anche un altro aspetto degno di nota. A Camps è stato chiesto per quale motivo, a fronte della disponibilità della Spagna, il 3 agosto la Open Arms non abbia fatto rotta sul Paese iberico. Risposta: «Non era il porto sicuro più vicino. Ci sarebbero voluti quattro giorni per arrivare in Spagna». La ong, quindi, preferì restare più di due settimane davanti alla Sicilia. La disponibilità di Madrid fu rinnovata il 18 agosto. La risposta fu ancora una volta negativa. La soluzione proposta, infatti, era il porto di Algeciras, considerato troppo distante. Oltre a rifiutare un porto in Spagna, Open Arms avrebbe detto "no" anche alla richiesta d’aiuto di un’altra imbarcazione. «Alan Kurdi aveva chiesto di poter trasferire dei migranti sulla Open Arms - ha spiegato Bongiorno - Era il primo agosto 2019, quando la nave spagnola era ancora vuota, ma incassò un rifiuto».
Il motivo? Sarebbero mancate «le condizioni legali per un accordo». Al termine dell’udienza, Bongiorno fa notare come Open Arms «sia stata accudita, quasi coccolata, questa nave era come sotto monitoraggio con aerei che sorvolavano per dare una mano, Merkel disponibile a chiedere un aiuto a livello europeo, la Spagna che diceva di essere disponibile a ricevere e l’Italia che diceva "se state male veniamo"». Tutto ciò dimostra, commenta Salvini, come l’«unico obiettivo fosse lo sbarco in Italia».
Diffusi gli audio della deposizione di Giuseppe Conte resa dinanzi ai giudici del processo Open Arms contro Matteo Salvini. Ilaria Minucci su Notizie.it il 19 Gennaio 2023
Gli audio della deposizione di Giuseppe Conte, proferita dinanzi ai giudici del processo Open Arms contro Matteo Salvini, sono stati diffusi da Quarta Repubblica e commentati dal giornalista Nicola Porro.
Nel corso dell’ultima puntata di Quarta Repubblica, il conduttore e giornalista Nicola Porro ha mandato in onda alcuni audio della deposizione resa dal presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, ai giudici del processo Open Arms contro Matteo Salvini. L’ex ministro dell’Interno del Governo Conte I è, infatti, a processo per sequestro di persona.
Gli audio della testimonianza dell’ex premier sono stati registrati e diffusi da Radio Radicale.
A questo proposito, Porro non si è limitato a trasmettere le parole di Conte ma ha anche postato sul suo sito un articolo intitolato “Mi imbarazzo, è così clamoroso”. L’eurofiguraccia di Conte al processo. Nell’articolo vengono riportate le parti più imbarazzati della deposizione del leader pentastellato.
Il presidente dei 5S ha risposto alle domande con molti “non mi ricordo” rispetto a situazioni che, come sottolinea Porro, lo avrebbero visto protagonista in qualità della sua carica di presidente del Consiglio.
Porro: “Mi imbarazzo”
Il processo Open Arms rappresenta il primo caso in cui un premier testimonia in Tribunale contro un ex ministro del suo Governo.
Intanto, per quanto riguarda l’articolo di Porro, il conduttore ha sottolineato: “Giuseppi dice di non aver mai sentito parlare di terroristi sulla Open Arms, di non aver avuto informazioni di contatti tra scafisti e Ong, di non aver mai parlato con Salvini sul caso Open Arms.
Ma anzi che era il leghista a voler indebolire il primo ministro – e ha aggiunto con ironia –. Conte sembra ben preparato alle domande del pubblico ministero, quando viene interrogato dall’avvocato della difesa non fa una bella figura. E risponde con tanti ‘non ricordo’, ‘la mia memoria è limitata’, ‘nella mia testa ronzano tante questioni’, ‘dovrei rileggere questa memoria’”.
Open Arms, la vera storia: Conte fece saltare lo sbarco in Spagna. Libero Quotidiano il 15 gennaio 2023
La vera storia sulla Open Arms, la storia che lo smemorato di Cortina Giuseppe Conte finge di non ricordare e chissà perché, è che la "nave umanitaria" spagnola rimasta dal 14 al 20 agosto 2019 al largo di Lampedusa dove poi ha sbarcato 147 migranti aveva già ricevuto l'ok dal proprio governo per farli sbarcare ad Algeciras, in Andalusia, solo che la Ong riteneva la destinazione troppo lontana - questa la motivazione ufficiale - e quindi giù di attacchi all'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini che non voleva concedere il porto siciliano. Il governo socialista di Pedro Sánchez a quel punto aveva offerto le Baleari, alla Open Arms, ma nemmeno Maiorca e Minorca erano di gradimento al comandante della nave: o l'Italia o niente.
Sánchez, durissimo in quei giorni con Salvini che non voleva derogare alla politica dei "porti chiusi" o comunque aperti ma solo con giudizio, aveva proposto alla Ong anche Barcellona, di nuovo vanamente. Eppure Italia e Spagna, sorprendentemente visto l'opposto indirizzo politico e clima tesissimo - avevano l'accordo: lo stesso ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli aveva detto «grazie alla Spagna per aver offerto un posto alla Open Arms», evidenziando che «un Paese che consente a una Ong di issare la propria bandiera su una nave, poi non può girarsi dall'altra parte».
CALCOLO POLITICO
Ma allora se Madrid e Roma pur tra le polemiche erano d'accordo che la nave attraccasse in Spagna, perché non è andata così? Il governo gialloverde era al capolinea: la Lega un giorno sì e l'altro pure accusava gli "alleati" Cinque Stelle di «immobilismo», di ostacolare interventi ritenuti fondamentali per il Paese, e Conte nei giorni caldi della Open Arms stava lavorando da tempo all'accordo con Enrico Letta e il Pd, operazione che avrebbe consentito all'allora avvocato del popolo ora dei poveri e di se stesso di imbullonarsi a Palazzo Chigi. Conte, ieri testimone dell'accusa, cioè di Open Arms nel processo che vede imputato Salvini per sequestro di persona e per cui Salvini rischia15 anni di carcere, ha accusato il leader leghista di averlo voluto far «apparire debole», all'epoca, che era una macchinazione politica ai suoi danni.
Ma il sospetto, qualcosa di più riferisce chi ha vissuto da dentro quelle vicende, è che sia stato Conte a voler far apparire debole Salvini e a lavorare dietro le quinte perché la nave sbarcasse i migranti a Lampedusa. I suoi ministri grillini aprivano pubblicamente alla soluzione spagnola, e lui che doveva guadagnarsi la conferma come premier dal Pd ostacolava l'operazione. D'altronde, ricordano a Libero le stesse fonti, bisognava erodere consensi al leghista (il ritorno al voto era più di un'ipotesi) e spettacolarizzare la vicenda, tanto che il 10 agosto - i movimenti della nave sono agli atti - dopo che Open Arms era ferma al largo di Malta da 6 giorni il comandante ha fatto salire a bordo il divo di Hollywood Richard Gere, diventato anche lui testimone ma soprattutto testimonial anti-Salvini. Sennonché Conte, ieri, ha affermato che era Salvini, e non certo lui - no di certo- a voler rendere «il clima incandescente rispetto a una competizione elettorale che poteva essere imminente e si voleva rappresentare un presidente del Consiglio debole sul fenomeno immigratorio mentre il ministro dell'Interno aveva una posizione di rigore». «Questo era il clima politico di quel periodo», ha tenuto a sottolineare il leader grillino.
LA VICENDA DICIOTTI
Conte, nell'aula bunker di Palermo, ha distinto ancora una volta il caso Open Arms da quello della nave Diciotti, che ad agosto 2018 era rimasta 5 giorni al largo di Lampedusa con 190 migranti a bordo e a seguito di quell'episodio i Cinque Stelle si erano opposti alla richiesta approdata in Senato di mandare a processo il capo della Lega. «Nel caso della Diciotti», aveva già dichiarato Conte, concetto ribadito ieri, «ero d'accordo a impedire lo sbarco». Chissà perché. In quel caso non c'era nessuna crisi di governo in corso e Conte non aveva alcun interesse a sfasciare l'operato di Salvini: il suo ruolo di premier non era in pericolo.
Titti Beneduce per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 13 Gennaio 2023.
«Oggi sono per l’ennesima volta a Palermo, nell’aula bunker dell’Ucciardone famosa a causa dei maxiprocessi contro i mafiosi, per il processo Open Arms. Rischio fino a 15 anni di carcere per aver difeso l’Italia e i suoi confini, salvando vite e facendo rispettare la legge». Così il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini stamane su Facebook, prima di arrivare nell’aula.
«Sono attesi come testimoni dell’accusa Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese, non ci annoieremo», aggiunge il leader della Lega. Salvini è assistito dall’avvocato Giulia Bongiorno e sta seguendo il processo udienza per udienza. La Procura gli contesta i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio.
Conte: «Salvini voleva farmi apparire debole»
Nel frattempo Conte, che era stato citato come teste, ha deposto e ha parlato della lettera inviata il 14 agosto 2019 proprio a Salvini, che poi fu resa pubblica dal leader della Lega. «Il tema dell’immigrazione è stato sempre un tema di propaganda politica - ha detto Conte - È chiaro che in questa fase il ministro a cui scrivere (Salvini ndr) ha sempre avuto delle posizioni molto chiare per quanto riguarda la gestione del problema migratorio.
A me infastidiva il fatto che una lettera mirata a risolvere un problema fosse stata diffusa dal destinatario senza chiedere al mittente l’autorizzazione - ha aggiunto - Fermo restando che se il presidente del consiglio scrive al ministro ci può stare, ma avrei gradito che fosse rappresentata nella sua puntualità. Qui invece colgo il clima incandescente rispetto a una competizione elettorale che poteva essere imminente: si voleva rappresentare un presidente del consiglio debole sul fenomeno immigratorio mentre il ministro dell’Interno aveva una posizione di rigore, questo era il clima politico di quel periodo».
«Ingiusto trattenere a bordo i minori»
Conte ha ribadito di aver chiesto lo sbarco immediato dei soli minori soccorsi dalla Open Arms ad agosto del 2019 e ha ammesso di non aver sollecitato, invece, lo sbarco degli altri profughi a bordo della nave spagnola. Rispondendo alle domande dell’avvocato Bongiorno, l’ex premier ha aggiunto: «Le persone fragili, a partire dai minori, non era dal mio punto di vista giustificato trattenerle. Per le altre un trattenimento poteva protrarsi per qualche giorno, ma certo non ho mai detto che si doveva prima raggiungere l’accordo di redistribuzione e solo dopo era possibile concedere loro il porto sicuro. E comunque in una lettera del 16 agosto - ha spiegato ancora Conte - rassicuravo Salvini di aver ottenuto la redistribuzione dei profughi soccorsi dalla ong da ben sei Paesi».
Botta e risposta con l’avvocato Bongiorno
«Ma nella parte finale della lettera inviata al titolare del Viminale non si dice mai di far sbarcare tutti», ha contestato Bongiorno: «Premesso che lo sbarco era una decisione del Viminale, invitai Salvini ad abbandonare rispetto ai minori una posizione difficilmente sostenibile», ha replicato Conte, il quale ha anche sostenuto di non aver mai saputo che il comandante della Open Arms fosse indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Lamorgese: «Mentre c’ero io mai violate le acque territoriali»
Rispondendo alle domande del pm Gery Ferrara, l’ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, che succedette a Salvini, ha sottolineato la differenza di linea del suo dicastero rispetto a quello del predecessore. «La condotta del comandante dell'imbarcazione intervenuta in soccorso dei profughi incideva sulla concessione del porto sicuro?», le ha chiesto il pm.
«No - ha risposto la teste - e poi le ong durante il mio dicastero non hanno mai violato le regole entrando nelle acque territoriali prima della concessione del pos. Eventuali irregolarità potevano riguardare il mancato rispetto della filiera nella comunicazione dei salvataggi, non altro. Noi abbiamo messo sempre in primo piano il salvataggio delle persone».
Lamorgese ha precisato che durante la sua permanenza alla guida del Viminale i tempi di attesa del pos per le navi delle ong era di media 2 o 3 giorni. «Si arrivava a 7-8 solo se c'era da concordare la redistribuzione con altri Paesi», ha precisato.
Open Arms, Conte e Di Maio rinnegano se stessi sullo sbarco dei migranti. Gaetano Mineo su Il Tempo il 14 gennaio 2023
È costellata soprattutto da una serie di «non ricordo», la deposizione di Giuseppe Conte al processo Open Arms. Ma anche di contraddizioni in termini, quando afferma, per esempio, in qualità di presidente del Consiglio, di non essere d'accordo con Matteo Salvini (ai tempi suo ministro) su come ha gestito lo sbarco dei migranti, scaricando di conseguenza, da capo del governo, la colpa al solo ex titolare del Viminale. Una sorta di temporanea "abdicazione", quella dell'allora premier pentastellato. La nota pirandelliana, invece, la dà l'ex vice premier, Luigi Di Maio, secondo cui nel Conte 1 non ci sono mai state riunioni del Consiglio dei ministri sulla questione della concessione del porto sicuro alle navi con i migranti.
È uno spaccato dell'udienza di ieri a Palermo svoltasi nell'aula bunker dell'Ucciardone e che vede il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio. La vicenda risale all'agosto del 2019, quando l'allora ministro dell'Interno e vicepremier, costrinse l'ong spagnola Open Arms ad attendere 19 giorni davanti al porto di Lampedusa prima di permettere alle 160 persone soccorse di sbarcare in un porto sicuro. Salvini arriva in aula alle 9 accompagnato dal suo legale, Giulia Buongiorno, pronta all'attacco dalla prossima udienza per «evidenziare quella che è la nostra posizione», annunciando anche che «ci sarà un intervento del ministro Salvini in aula».
«Non ricordo di aver mai sentito parlare della presenza di terroristi a bordo della Open Arms che aveva soccorso i migranti ad agosto del 2019» dichiara Conte. «Non ricordo neppure che qualcuno mi abbia parlato di possibili accordi tra la Open Arms e gli scafisti alla guida dei barconi soccorsi», aggiunge l'ex premier. Conte sostiene anche di non aver mai saputo che il comandante della Open Arms era indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il capo dei 5 Stelle, invece, risponde alle domande del procuratore aggiunto Marzia Sabella sulla lettera da lui stesso inviata il 14 agosto a Salvini in cui si chiedeva proprio di far sbarcare i minori. «Cercai di esercitare una moral suasion sulla questione perché mi pareva che la decisione di trattenerli a bordo non avesse alcun fondamento giuridico».
E ancora: «Non ricordo come venne riassunta la mia lettera del 14 agosto che venne diffusa ma il mio disappunto era dovuto al fatto che Salvini stava facendo passare il messaggio che il presidente del Consiglio era debole con il problema dei migranti mentre il ministro dell'Interno molto più duro». Poi la kafkiana questione sulla redistribuzione dei migranti. «Non ho mai sostenuto che senza redistribuzione non si potesse concedere il Pos (porto sicuro, ndr)», ripete più volte in aula Conte. Eppure, allora fonti governative affermavano che la linea del Conte 1 era «per una redistribuzione immediata di tutti i migranti. E se non ci saranno risposte dai partner (altri Paesi Ue, ndr) non sarà consentito di sbarcare».
Dichiarazioni mai smentite dallo stesso ex premier che, comunque, nella sua testimonianza ammette che «nel primo vertice europeo del giugno 2018 presentai un documento con 10 obiettivi che voleva affrontare il tema complessivamente. E c'era un passaggio centrale sulla redistribuzione come momento di organica politica per la gestione e la regolazione dei flussi a livello europeo». «E comunque in una lettera del 16 agosto - spiega Conte sempre in aula - rassicuravo Salvini di aver ottenuto la redistribuzione dei profughi soccorsi dalla ong da ben sei paesi». «Ma nella parte finale della lettera inviata al titolare del Viminale non si dice mai di far sbarcare tutti», contesta invece la Bongiorno In tal senso, secondo la difesa del capo del Carroccio, un assist arriva dall'ex ministro dell'Interno del Conte II, Luciana Lamorgese, anch' ella ieri in aula in qualità di testimone. «I tempi di attesa del Pos per le navi delle ong era di media 2 o 3 giorni» dichiara, evidenziando che si poteva «arrivare a 7 o 8 giorni se c'era da concordare la redistribuzione con altri Paesi».
Rispondendo alle domande del pm Gery Ferrara, da ex ministro dell'Interno, la Lamorgese sottolinea che «noi abbiamo messo sempre in primo piano il salvataggio delle persone» rimarcando il cambio di passo rispetto al suo predecessore. In sostanza, per la Bongiorno, la dichiarazione della Lamorgese è «significativa», in quanto, «il meccanismo della redistribuzione, emerso oggi (ieri, ndr) per la prima volta in udienza, sia fondamentale per comprendere che non si tratta di ritardi nello sbarco ma solo di momenti diretti a individuare quale può essere una redistribuzione». Poi è la volta del testimone Di Maio che esordisce con una sparata: «Tutto ciò che veniva fatto in quel periodo era per ottenere consenso». Come dire, alla faccia del buon governo. E denuncia: «Non ci sono mai state riunioni del Consiglio dei ministri né informali, né formali, sulla questione della concessione del porto sicuro alle navi con i migranti».
Processo Open Arms, i timori di Salvini: "Rischio 15 anni". E il testimone Conte lo accusa in aula. Nel bunker dell'Ucciardone, l'ex premier scarica il suo ministro: "La nave? Era competenza sua io lo sollecitai a far scendere i minori...". Ma il leader leghista contrattacca e denuncia in sei Procure il caso del sottomarino ignorato. Stefano Zurlo il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Assesta due colpi in rapida successione, come nemmeno in un incontro di boxe. Giuseppe Conte parla nell'aula bunker dell'Ucciardone di Palermo e si smarca, anzi prende le distanze da Matteo Salvini. Prima bordata: «Non mi sono mai occupato del Pos», ovvero il place of safety, insomma il porto sicuro che viene assegnato a una nave, in questo caso la Open Arms che aveva a bordo 147 profughi. «Per me la competenza era scontata, era del ministro dell'Interno», ovvero di Salvini. Rasoiata numero due: «Sollecitai il ministro Salvini a far scendere i minori a bordo della Open Arms perché secondo me era un tema da risolvere al di là di tutto».
Nell'aula bunker dell'Ucciardone, si consuma una sorta di resa dei conti e rivive lo scontro che infiammò l'agonia del moribondo governo Conte 1 nell'agosto del 2019. Salvini, presente in aula come uno scolaro diligente che prende appunti, scrive su Facebook che per questa storia, in cui è accusato di sequestro di persona, rischia fino a 15 anni di carcere, e annuncia battaglia: nei prossimi giorni il suo legale Giulia Bongiorno depositerà in sei procure una denuncia sul dossier Venuti. Il sottomarino Venuti infatti il 1 agosto di quell'estate senza requie avvistò la Open Arms al largo della Libia; furono scattate foto e girati video: in un'immagine vicino al natante si vedono due gommoni e un barchino in legno blu. Chi sono? Scafisti pronti a consegnare il loro carico umano all'Ong? Open Arms nega sdegnata, Salvini chiede accertamenti e vuole capire perché questi documenti siano rimasti sconosciuti a tutti per oltre tre anni, fino al dicembre scorso quando sono riemersi dall'ombra.
Ma Conte anche su questo punto toglie qualunque appiglio al suo ex ministro: «Non ho mai sentito parlare di terroristi a bordo di Open Arms e non mi risulta che mi abbiano detto di accordi con gli scafisti. Nessuno mi mostrò video di alcun genere». Niente di niente. Tutto il contrario di quel che sottolinea Salvini: «Confermo di essere sconcertato anche perché sono emerse solo a procedimento in corso le informazioni raccolte da un sottomarino della Marina: registrò l'attività di Open Arms nell'agosto del 2019, certificando alcune anomalie che facevano ipotizzare il traffico illegale di esseri umani».
Nulla di tutto ciò per l'ex premier che ricostruisce invece il feroce duello di quelle settimane sulle macerie dell'agonizzante governo gialloverde: «Il clima era incandescente. Il tema dell'immigrazione è sempre stato un tema di propaganda politica, e allora c'era la possibilità di una competizione elettorale che poteva essere imminente. Lui voleva rappresentare me come debole sul fenomeno immigratorio, e lui come rigoroso». Questa, per il capo dei 5 Stelle, era la posta in gioco, mentre molti scommettevano che presto si sarebbe andati alle urne. Più articolata e in qualche modo favorevole a Salvini è invece la testimonianza di Luciana Lamorgese che si insediò al Viminale il 5 settembre di quel travagliato 2019, proprio al posto del numero uno della Lega. «Durante il periodo in cui sono stata ministro - spiega Lamorgese - non ho mai negato la concessione di un porto sicuro». Poi però aggiunge: «Prima della pandemia la permanenza in mare dei migranti a bordo era di 3-4 giorni di media, poi ci sono stati dei casi che sono durati di più, anche 7 o 8». Anzi, 11 per la Ocean Viking che aspettò il via libera del Viminale dal 18 al 29 ottobre del 2019. Non sono numeri neutri. Almeno per Salvini che rilancia quelle cifre: «Rischio una condanna per il mancato sbarco della nave della ong spagnola fra il 14 e il 20 agosto 2019, nonostante Luciana Lamorgese abbia confermato di aver trattenuto gli immigrati a bordo in più di una occasione, in attesa di trovare un accordo con gli altri partner europei». Due pesi e due misure? Domande che scandiscono una lunga giornata, chiusa dalle parole dell'allora vicepremier Di Maio: «Tutto quello che veniva fatto da Salvini era per il consenso».
Dall'idillio al grande gelo le vendette di "Giuseppi". Finita l'alleanza giallo-verde, il capo grillino ha provato a impallinare quello che era il suo vice. Domenico Di Sanzo il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Giuseppe Conte contro Giuseppe Conte. Quella andata in scena ieri, durante la testimonianza del leader del M5s al processo Open Arms contro Matteo Salvini, è solo l'ultima puntata della soap opera in cui Conte prende le distanze da se stesso. «Scrissi due volte a Salvini, non ero d'accordo con lui», dice l'allora premier a proposito dei fatti accaduti ad agosto 2019. L'ex presidente del Consiglio si smarca ancora una volta dalle scelte di quello che allora era il vicepremier e ministro dell'Interno del suo governo. L'avvocato di Volturara si smentisce, fa l'equilibrista. Proprio come aveva fatto a gennaio del 2021, quando fu sentito dal Gip di Catania sul caso della nave Gregoretti, un'altra imbarcazione di immigrati trattenuta in mare dal primo esecutivo a guida Conte, a luglio del 2019. Secondo quanto riferito dai giudici dopo l'udienza di due anni fa, l'attuale capo dei Cinque Stelle anche all'epoca si era sfilato. «La coralità delle azioni di governo atteneva alla politica generale, i singoli eventi erano curati dai singoli ministri», il resoconto della deposizione di Conte sul caso Gregoretti. E se adesso l'ex premier si giustifica dicendo che ai tempi della Open Arms il governo gialloverde era già in piena crisi, la scusa non vale per ciò che successe il mese precedente. Eppure Conte si era tirato fuori pure da quella vicenda. Per quanto riguarda la Gregoretti, Salvini è stato prosciolto a maggio 2021. Ma il suo ex presidente del Consiglio ci aveva provato, a mandarlo alla sbarra.
Restano surreali le parole pronunciate dall'allora premier a fine 2019, quando l'avvocato prometteva di «verificare il suo ruolo» nel caso Gregoretti. Altra nave, altre alleanze, altra storia. Sulla vicenda della Diciotti - del tutto simile a quella della Gregoretti - a marzo 2019 il M5s di Conte e Luigi Di Maio fu decisivo per risparmiare l'incriminazione a Salvini.
Gli iscritti su Rousseau appoggiarono l'allora titolare del Viminale, i senatori grillini negarono l'autorizzazione a procedere. La differenza sostanziale, rispetto agli altri due casi, era che all'epoca dei fatti contestati (agosto 2018) Conte e Salvini andavano d'amore e d'accordo. Così come erano ancora alleati nei primi mesi del 2019, quando appunto i pentastellati decisero di difendere il segretario della Lega. La musica cambia nel 2020, con il Movimento passato al governo con il Pd. A febbraio e poi a luglio di tre anni fa i senatori dei Cinque Stelle mandarono a processo Salvini senza fare troppi complimenti. Diventato giallorosso, Conte non condivideva più la linea leghista sull'immigrazione.
E però è difficile dimenticare l'istantanea dell'avvocato del popolo italiano che, tutto sorridente, sventola un foglietto con la scritta «#decretosalvini sicurezza e immigrazione». Accanto a lui c'è un Salvini altrettanto soddisfatto, sono stati approvati i decreti sicurezza, siamo a fine settembre del 2018. Conte comincia a fare il pesce in barile con la fine dell'alleanza con la Lega. Nel famoso discorso dello strappo pronunciato al Senato ad agosto nel 2019, in 16 pagine di arringa contro Salvini l'avvocato non parla mai di immigrazione. Trascorsi due anni, Conte in un'intervista al Corriere della Sera arriva a dire che i decreti sicurezza «hanno messo per strada decine di migliaia di migranti». E ancora: «Salvini da ministro dell'Interno sull'immigrazione ha fallito». Tutta colpa del Conte 1, secondo il Conte 2.
"Ipocrita". Dalla sinistra bordate a Conte: ecco cosa è successo. La sfilza di "non ricordo" di Conte in tribunale sul processo Open Arms non è stata gradita nemmeno dalla sinistra: "Conte-Zelig". Francesca Galici il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.
A Palermo va in scena il processo Open Arms in cui Matteo Salvini risulta essere l'unico imputato per sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio. Quest'oggi davanti al giudice ha sfilato parte dell'esecutivo che era in carica nel 2019. In particolare, si sono presentati a Palermo Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese. Tutti hanno cercato di tirarsi fuori dalla vicenda, facendo ricadere per intero la responsabilità su Matteo Salvini, che in quella composizione ricopriva il ruolo di ministro dell'Interno. In particolare, a non prendersi alcuna responsabilità davanti ai giudici è stato Giuseppe Conte, presidente del Consiglio di quell'esecutivo, con una lunga sfilza di "non ricordo".
"Gli scrissi due volte". Ma Conte si contraddice su Open Arms
I fatti imputati a Matteo Salvini si sono svolti nel 2019 e Giuseppe Conte davanti ai giudici ha dichiarato: "Non ricordo delle interlocuzioni con il ministro Salvini". L'ex premier ha tentato di giustificare la sua affermazione: "Parliamo però di una deduzione logica. Eravamo nella fase annunciata della crisi di governo, escluderei una maggiore occasione di dialogo visto il clima che si era instaurato". Dichiarazioni piuttosto sconcertanti da parte di un presidente del Consiglio, che rendono bene l'idea del non governo dell'Italia in quel periodo. Al di là di questo, le parole di Giuseppe Conte sono state prontamente smentite da due esponenti di punta di Italia viva, Francesco Bonifazi ed Ettore Rosato, che sui loro social hanno pubblicato una foto che sembra raccontare una verità ben diversa rispetto a quella ricostruita dal leader del Movimento 5 stelle in tribunale.
"Intervenendo al processo di Palermo, l'ex premier Conte ha detto che sui migranti non aveva 'nessuna interlocuzione' con il suo ministro dell'Interno. Quanta ipocrisia in quest'uomo", ha scritto Francesco Bonifazi condividendo la foto che vede ritratti insieme Salvini e Conte durante la presentazione del decreto Salvini su sicurezza e immigrazione. Dello stesso tenore anche il messaggio lasciato da Ettore Rosato: "Leggo dichiarazioni di Conte in cui in tribunale racconta che lui era in disaccordo con Salvini sull'immigrazione. Non so, io lo ricordo così...".
Da Azione arriva anche l'attacco di Daniela Ruffino: "Quando era presidente del Consiglio, Giuseppe Conte sostiene di non aver condiviso la decisione del suo ministro dell'Interno Matteo Salvini di far sbarcare gli immigrati a bordo dell'Open Arms. Un'affermazione che trasuda un'intollerabile ipocrisia da parte di una persona che, pur avendo rivestito una carica istituzionale, non esita a negare l'evidenza dei fatti. Tutti ricordano Conte trasformato in uomo-sandwich con tanto di cartello che inneggiava al blocco degli sbarchi, e Salvini al suo fianco. Conte-Zelig ha eretto oggi, nella sua deposizione a Palermo, un monumento all'ipocrisia".
Il Conte smemorato, al processo Open Arms contro Salvini rinnega il suo governo: “Voleva farmi apparire debole sui migranti”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 13 Gennaio 2023
Rinnega l’operato del governo che guidava da Palazzo Chigi. Giuseppe Conte è il grande protagonista della giornata odierna nell’aula bunker dell’Ucciardone, a Palermo, dove si è tenuta una nuova udienza del processo a carico di Matteo Salvini.
Il contesto è quello del procedimento contro il ministro delle Infrastrutture, quando era titolare del Viminale, per la gestione della nave Open Arms e dei 147 migranti costretti a restare per tre giorni a bordo dell’imbarcazione nel porto di Catania prima che le Autorità ne obbligassero lo sbarco, che il governo giallo-verde continuava a negare.
E nell’aula va in scena proprio un revival di quel governo, con le dichiarazioni di Conte, di Luigi Di Maio e dell’ex ministero dell’Interno Luciana Lamorgese.
La Procura contesta a Salvini i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio e il leader della Lega, come non manca di sottolineare sui social, rischia “fino a 15 anni di carcere per aver difeso l’Italia e i suoi confini, salvando vite e facendo rispettare la legge”.
Da Conte, che pure da Palazzo Chigi diede il suo sì ai decreti sicurezza dell’alleato Salvini, arriva una operazione di disconoscimento dell’operato di quell’esecutivo.
Alla procuratrice aggiunta Marzia Sabella e all’avvocato di Salvini, la parlamentare Giulia Bongiorno, racconta una sua versione dei fatti che scarica su Salvini ogni responsabilità per quanto accaduto alla Open Arms e ai migranti a bordo.
Il leader dei 5 Stelle spiga di aver chiesto lo sbarco immediato dei minori soccorsi dalla Ong in quell’agosto 2019, pur ammettendo di non aver fatto lo stesso per gli altri profughi a bordo della nave spagnola.
“Le persone fragili, a partire dai minori, non era dal mio punto di vista giustificato trattenerle. Per le altre un trattenimento poteva protrarsi per qualche giorno, ma certo non ho mai detto che si doveva prima raggiungere l’accordo di redistribuzione e solo dopo era possibile concedere loro il porto sicuro”, racconta Conte.
Quindi l’attacco all’ex alleato: “Il tema dell’immigrazione è stato sempre un tema di propaganda politica – ha detto Conte – È chiaro che in questa fase il ministro a cui scrivere (Salvini ndr) ha sempre avuto delle posizioni molto chiare per quanto riguarda la gestione del problema migratorio”.
Sulla sfondo quella che già all’epoca era una maggioranza tutt’altro che coesa. Non è un caso se il leader dei pentastellati sottolinea che “si voleva rappresentare un presidente del consiglio debole sul fenomeno immigratorio mentre il ministro dell’Interno aveva una posizione di rigore, questo era il clima politico di quel periodo”.
A dare manforte a Conte, dopo la clamorosa rottura politica degli scorsi mesi, è anche Luigi Di Maio. L’ex capo politico dei 5 Stelle e vicepresidente del Consiglio nel Conte I addossa a Salvini ogni responsabilità: “C’erano riunioni informali dopo che Salvini negava i porti alle navi delle Ong – accusa in aula – Tutto quello che veniva fatto da Salvini era per il consenso”.
Quanto all’ex ministro Lamorgese, l’ex numero del Viminale racconta le differenze tra il suo operato, nel Conte II, e quello di Salvini. “Durante il periodo in cui sono stata ministro non ho mai negato la concessione di un porto sicuro – dice l’ex ministra rispondendo alle domande del pm Geri Ferrara – e non ho mai emesso un decreto di interdizione tranne durante la pandemia, quando l’Italia non era più un paese sicuro, ma per ragioni sanitarie“.
Paradossalmente l’unico a ‘difendere’ in un certo verso Salvini è Oscar Camps, il fondatore di Open Arms a sua volta presente in Aula. “Sono sette anni che le Ong del mare vengono indagate, diffamate, ostacolate, bloccate, eppure finora l’unico indagato è l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini”, scrive su Twitter Camps, lasciando intendere che secondo lui quello in corso all’Ucciardone non dovrebbe essere il solo processo contro un esponente di quel governo.
Prossima udienza il 24 marzo, per l’audizione di alcuni consulenti. La Procura ha annunciato di rinunciare agli altri testimoni, fra cui l’attuale ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Cosa succede in Libia.
Derna dopo il crollo delle dighe, la guardia costiera libica cerca i corpi delle vittime: «Recuperiamo cadaveri anche 100 km al largo». Storia di Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera sabato 16 settembre 2023.
«Oggi troppe onde. Non usciremo in mare a pescare corpi. Ma se ne trovano ancora tanti, ieri ne abbiamo recuperati 27», dice il capitano Ali Jumali. Lo incontriamo sulla plancia della sua motovedetta P301 dei guardiacoste libici attraccata al molo centrale del piccolo porto di Derna. Ha 35 anni, da 15 lavora in mare, ma non gli era mai capitata un’incombenza tanto tragica. Saliamo a bordo. Dal ponte è più facile osservare la devastazione appena alle spalle delle banchine. Dove prima c’erano i depositi e le baracche dei pescatori, adesso dominano rottami interrotti dagli spiazzi polverosi dove i bulldozer hanno appena ripulito. Ci sono centinaia di carcasse d’auto, macerie, alberi divelti. Nel caos di questa sporcizia puzzolente si vedono ogni tanto vestiti, pezzi di mobili, materassi, frammenti di vite interrotte dalla violenza dell’acqua mista a detriti.
Il bacino del porto ha funzionato da catino, raccogliendo una parte di tutto ciò che prima dell’alba di lunedì scorso è stato trascinato verso il mare. I morti già gonfiati dal caldo hanno iniziato a galleggiare tra le barche ormeggiate. Molti altri sono al largo. «Noi siamo venuti con la nostra motovedetta martedì mattina dallo scalo di Zawia, dove in genere siamo di servizio. L’ordine del comando di Tripoli è stato di correre qui al più presto per aiutare. Ma è un incubo, si trovano cadaveri in mare a molte miglia dalla costa, sino a 80 o 100 chilometri da Derna, sia verso Tobruk a est, che in direzione di Misurata a ovest», dice. Mostra i video. I suoi 14 uomini dell’equipaggio si adoperano per armare due gommoni, quindi, li si vede prendere i corpi dall’acqua e chiuderli in sacchi di plastica nera. «Molti sono stati gravemente menomati. Dopo ogni missione trascorriamo ore a pulire sia il gommone che la barca. Abbiamo trovato i resti di tanti bambini, ma anche anziani, forse i più deboli non sono riusciti a scappare in fretta verso i piani alti. Erano le due e mezza di notte, tutti stavano dormendo. Infatti, i pochi ancora vestiti sono in pigiama», continua il capitano. Da inizio missione ne hanno raccolti una sessantina. Ma ci sono ancorate vicine altre unità della marina libica, almeno 5 guardiacoste e 7 grandi gommoni d’altura. E gli equipaggi di ognuno hanno le loro storie da raccontare.
«Grazie Italia!»
Lasciamo a fatica l’area del porto. Appena al largo, di fronte al frangiflutti incrociano la due grandi navi della marina militare italiana: la San Giorgio e la San Marco, questa seconda è appena arrivata e sta sbarcando materiale di soccorso per la protezione civile, tra cui un migliaio di tende e materiale necessario per accogliere gli sfollati. «Grazie Italia!», grida un soldato arrivato dalla zona di Misurata, che ci aiuta a superare la barriera dei posti di blocco imposta dai comandi militari agli ordini del colonnello Khalifa Haftar.
Video correlato: Reportage dalla nave della guardia costiera tunisina: il radar vede il barchino che punta Lampedusa (RaiNews multimedia)
Ma questa presenza massiccia di soldati e militanti giunti dalle province della Libia occidentale è talmente importante, anche dal punto di vita politico, che non può non essere commentata. È, infatti, la prima volta dalla guerra fratricida, che tra il 2016 e il 2019 ha diviso la Tripolitania dalla Cirenaica, che i due governi e le loro forze militari sembrano cooperare per fronteggiare l’emergenza umanitaria.
I turchi e la «tregua»
Il centro di Derna è tra i quartieri più devastati. Lungo il letto del fiume vede impegnati centinaia e centinaia di giovani arrivati dalla Tripolitania, che sino a meno di quattro anni fa sparavano contro i soldati di Haftar impegnati per cercare di catturare Tripoli manu militari. Oggi stanno lavorando spalla a spalla. Anche se, va aggiunto, i rispettivi apparati di sicurezza restano all’erta per evitare incidenti. E c’è un elemento in più assolutamente degno di nota. Oltre agli italiani, gli algerini, gli egiziani, i tunisini e le altre squadre di soccorso, i 200 uomini delle squadre turche hanno un significato molto più che umanitario. Nel 2019 furono infatti i soldati le armi mandate da Erdogan a salvare Tripoli e l’allora governo Sarraj contro l’attacco dell’esercito della Cirenaica. Ma oggi Haftar accetta l’aiuto turco: sintomo di una possibile svolta filoccidentale dell’uomo forte di Bengasi e un suo allontanamento da Mosca? I russi hanno inviato ieri sera un grande ospedale da campo. L’aiuto umanitario ha senza dubbio rilevanti connotazioni politiche.
La domanda si ripropone mentre visitiamo la zona della città vecchia, presso il letto del fiume, dove sino a una settimana fa si leggevano ancora i nomi delle vie costruite durante il periodo coloniale fascista e la vecchia chiesa cattolica era stata trasformata sia in moschea che in centro culturale, ma con il campanile e l’altare ancora perfettamente conservati. Qui, Jamal, un soldato ventenne arrivato dalla periferia di Tripoli, ci mostra le zone dalle quali due giorni fa si erano udite le urla di gente intrappolata. I bulldozer scavano senza sosta. Della chiesa non resta assolutamente più nulla. A forse 400 metri torreggiano ancora i minareti della moschea Sabah. Ma dalle macerie ora non giunge più alcuna voce.
Estratto dell'articolo di Lorenzo Cremonesi per il "Corriere della Sera" mercoledì 13 settembre 2023.
Voci di donne e bambini fanno da sottofondo al mugghiare dell’acqua melmosa che dall’imboccatura della wadi tra le montagne si riversa irrefrenabile tra le abitazioni. È notte fonda, le luci nel centro si spengono una a una, sino al buio vibrante di paura.
In pochi secondi quello che solitamente, anche nei mesi invernali, è un rigagnolo di fogna puzzolente si trasforma in un’onda terrificante di distruzione e morte alta anche 3 metri. Le voci si fanno acute, invocano Allah. Un altro video mostra decine e decine di cadaveri, che diventano centinaia alla luce del giorno, deposti dalla gente sulla strada di fronte all’ospedale Wahda, nella zona del centro, non lontano dal mare, dove adesso i pescatori stanno cercando di recuperare i corpi di quelli trascinati al largo.
«Nessuno era pronto. Dormivamo quando ci ha colpiti il disastro. È avvenuto velocissimo, non c’è stato tempo per fare nulla», raccontano i testimoni che fanno arrivare video tramite i pochi che sono riusciti ad abbandonare la zona o li postano sui social tramite i rarissimi collegamenti satellitari.
Probabilmente non è sbagliato né esagerato definirlo il «Vajont libico». Anzi, facilmente pecca per difetto. Perché se il dramma italiano del 1963 causò circa 2.000 morti, quello a Derna due giorni fa potrebbe superare i 10.000. Queste sono, almeno per il momento, le stime delle autorità locali. Quasi 1.000 sono già stati seppelliti. Secondo le autorità dell’est almeno 5.200 sarebbero morti nella sola Derna.
Al momento mancherebbero all’appello 20.000 in tutta la Cirenaica. Tripoli manda aiuti. Ieri sono arrivati a Derna gli uomini della protezione civile italiana per valutare cosa inviare. […] Una tragedia causata dalla tempesta che i meteorologi hanno battezzato «Daniel» e alla fine della settimana scorsa aveva già causato danni nell’Italia meridionale e in Grecia, ma che ha scatenato tutta la sua forza dirompente sulla Cirenaica e in particolare nella zona delle «Montagne verdi» sopra Derna. Soprattutto, anche la tragedia libica riguarda le dighe, non una come fu per l’Italia 60 anni fa, bensì due.
«La causa principale dei danni all’abitato è stato il cedimento strutturale di due sbarramenti idrici costruiti nei primi anni Settanta sulle montagne a sud di Derna», ci confermano alcuni esperti stranieri in Cirenaica. […]
Quindi l’acqua s’infila a cascata nei letti dei torrenti in secca e raggiunge lo snodo maggiore di wadi Derna, che sbocca nel mare. Qui si trovano due sbarramenti artificiali costruiti dall’ex Jugoslavia tra il 1970 e il 1973, figli dell’epoca in cui il giovane Muammar Gheddafi, fresco di golpe e desideroso di rompere con i governi occidentali, andava a braccetto con Tito e cercava alleati nel fronte dei Paesi non-allineati.
Il primo, quello di Mansour, è alto 45 metri e largo 130, contiene circa un milione mezzo di metri cubi d’acqua e sta a 12 chilometri da Derna. Non regge l’impatto e si sfascia. L’onda avanza altri 11 chilometri verso il mare e incontra lo sbarramento più grande, a solo un chilometro dalle periferie meridionali di Derna. La seconda diga è alta 75 metri e larga 300, contiene 18 milioni di metri cubi d’acqua. E anch’essa non regge. A questo punto è uno tsunami: sono le due e mezza di notte quando si abbatte sulla città addormentata. […]
Catastrofe in Libia, l’uragano Daniel fa migliaia di morti. Derna devastata. Il video del ciclone Daniel che ha colpito la Libia. MICOL MACCARIO su Il Domani il 12 settembre 2023
Dopo aver attraversato Grecia, Bulgaria e Turchia il ciclone si è abbattuto sulla Libia. Intere città sono state sommerse dall’acqua. Il bilancio è di diverse migliaia di morti, 6 mila solo nella città di Derna, e 10 mila dispersi in tutto il paese. Il maltempo si sta spostando verso il nord dell’Egitto
In Libia il ciclone Daniel ha causato diverse migliaia di morti e più di 10 mila dispersi secondo le stime della Croce rossa. Le piogge hanno interessato in particolare la zona della Cirenaica, nell’est del paese, e hanno spazzato via intere aree residenziali.
Derna è la città più colpita, si trova ancora in parte isolata e senza elettricità. Nella notte di domenica 10 settembre, secondo quanto riporta Lybia Observer, un torrente è straripato distruggendo decine di abitazioni. La situazione si è ulteriormente aggravata a causa del crollo contemporaneo di due dighe che, come scrive Ansa, hanno «liberato oltre 33 milioni di metri cubi d’acqua». Secondo il centro meteorologico nazionale, le precipitazioni hanno superato i 400 millilitri all’ora. Erano almeno 40 anni che non si registravano precipitazioni così intense.
Ci sarebbero almeno 6 mila morti solo nella città di Derna. Lo riporta la tv araba Al Hadath citando fonti locali. Il ministro della Sanità del governo orientale della Libia, Othman Abdul Jalil, ha detto che a Derna sono già state seppellite 700 persone e che «gli ospedali sono pieni di corpi».
Il primo ministro del governo della Libia orientale, Ossama Hamad, ha detto che la città è stata dichiarata «zona disastrata» e ha annunciato due giorni di stop dal lavoro per tutti i settori, fatta eccezione quello sanitario e i servizi di sicurezza.
Il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale della Libia ha chiesto alle organizzazioni internazionali e regionali, «e anche ai nostri paesi fratelli», di inviare «convogli medici» e fornire «squadre specializzate per far fronte ai disastri, al fine di aiutare a estrarre le vittime da sotto le macerie, cercare le persone scomparse e curare i feriti».
La devastazione non riguarda solo Derna, anche le città di Misurata, Al-Bayḍāʾ e Al-Marj sono state colpite dal ciclone con venti che hanno toccato i 180 chilometri orari.
Il ciclone Daniel, definito in gergo tecnico un Tlc (mediterranean tropical-like cyclones), è arrivato sulle coste della Libia orientale nelle prime ore di sabato 9 settembre, dopo aver colpito diversi paesi del Mediterraneo. Nei giorni scorsi aveva portato piogge torrenziali, allagamenti, morti e dispersi in Grecia, Bulgaria e Turchia.
IL PASSAGGIO DEL CICLONE
I temporali in Grecia sono iniziati martedì 5 settembre. Le operazioni di salvataggio sono state complicate dal maltempo che ha impedito agli elicotteri di prelevare le persone nelle zone alluvionate. Secondo le stime dell’esercito, sono state dispiegate più di 25 imbarcazioni per salvare chi era intrappolato dall’acqua.
La regione della Magnesia, situata nella Grecia centrale, è stata colpita da 600-800 millimetri di pioggia in 24 ore. Larissa, una zona di produzione di cotone e tabacco, è stata sommersa dalle piogge e stima la perdita di un quarto della produzione agricola. La tempesta è stata descritta nel giornale greco Ekathimerini come «un fenomeno naturale estremo che capita una volta ogni millennio». Il bilancio del paese è di almeno 10 morti.
In Turchia, le inondazioni hanno colpito con particolare violenza un campeggio situato nei pressi del confine con la Bulgaria. Secondo i dati forniti da La presse, almeno cinque persone sono morte nel campeggio e altre due sono annegate nei quartieri di Istanbul. Una vittima si è registrata anche ad Aksaray, in Anatolia centrale. Ci sono ancora dispersi e i feriti sono almeno una trentina.
In Bulgaria, il primo ministro Nikolay Denkov ha parlato di un «disastro naturale» senza precedenti. Almeno tre sarebbero i morti nella città di Tsarevo, una località balneare sulla costa del mar Nero.
Da lunedì sera il ciclone Daniel si sta spostando sulle zone nord dell’Egitto e, secondo le previsioni, continuerà a indebolirsi, ma potrebbe provocare piogge forti ad Alessandria nelle prossime 24 ore.
GLI AIUTI DALL’ITALIA
«Le inondazioni provocate dall’uragano Daniel, che ha così duramente colpito la parte orientale della Libia e in particolare la città di Derna, provocano profonda tristezza e sentimenti di sincera partecipazione al dolore dell’amico popolo libico», ha detto il presidente Sergio Mattarella promettendo che l’Italia contribuirà ai soccorsi.
È atterrato alle 18.30 in Libia il team italiano. «Il gruppo opererà, d’intesa con le autorità locali, nei territori devastati dall’uragano Daniel, nella zona orientale del Paese nordafricano», ha comunicato il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci. Avrà il compito di valutare la situazione nella zona e acquisire le informazioni necessarie per l’organizzazione di un intervento previsto per i prossimi giorni.
MICOL MACCARIO. Laureata in lettere e in giornalismo e comunicazione multimediale. Frequenta la scuola di giornalismo Giorgio Bocca di Torino
L'ecatombe della Libia: "Già migliaia di vittime. I dispersi sono 10mila". Bilancio disastroso che rischia di aggravarsi. A Derna crollate 2 dighe e 4 ponti. L'Italia invia una squadra. Chiara Clausi il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.
Macerie, morte, distruzione, strade, case, interi quartieri travolti dal fango. Il numero delle vittime per le inondazioni causate dal ciclone «Daniel» che si è abbattuto nell'est della Libia, in Cirenaica, potrebbe superare la soglia dei 10mila solo a Derna. La città, 90mila abitanti, è stata travolta dalle piogge torrenziali e dal crollo di due dighe, un fiume di acqua e fango ha trascinato in mare un pezzo dell'abitato. L'alluvione ha colpito anche Bengasi, Soussa, Al Bayda e Marj con temporali e venti fino a 180 chilometri orari. Le precipitazioni hanno superato i 400 millilitri all'ora, una cifra mai registrata negli ultimi quattro decenni. Gli allagamenti hanno sommerso le case e il vento continua a devastare le strutture.
Le autorità libiche parlano di oltre 3mila morti e più di 6mila dispersi. La Croce Rossa riporta i dati del responsabile della delegazione libica: «Le sue fonti parlano di circa 10mila dispersi» E Ali al-Gatrani, vice primo ministro del governo nell'est, ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire «con urgenza» nella città di Derna, la più colpita, bloccata via terra, priva di elettricità e comunicazioni e «zona disastrata». Gran parte di Derna infatti è sott'acqua dopo il crollo delle due dighe e di quattro ponti che ha liberato oltre 33 milioni di metri cubi d'acqua. Il primo ministro, Osama Hammad, ha annunciato due giorni di stop sul lavoro per tutti i settori dell'est del Paese, ad eccezione dei servizi di sicurezza, sanitari e di emergenza. «Migliaia di persone sono disperse, interi quartieri sono scomparsi, insieme ai loro residenti spazzati via dal mare», ha raccontato Hammad. «Sono rimasto scioccato da quello che ho visto, è come uno tsunami», ha esordito invece Hisham Chkiouat, ministro dell'aviazione e membro del comitato di risposta alle emergenze del governo con sede nell'est del Paese. Oltre alle aree orientali, anche la città occidentale di Misurata è stata tra quelle colpite dalle inondazioni.
«Il bilancio delle vittime della tempesta in Libia è enorme», ha avvertito Tamer Ramadan della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. E si prevede che il bilancio dei morti aumenterà drammaticamente. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani è intervenuto e ha precisato che «al momento non ci risultano italiani coinvolti». E ha poi aggiunto: «Una squadra è già in partenza coordinata dalla nostra protezione civile». Alla tempestività degli aiuti si è aggiunta anche la preoccupazione di Tommaso Della Longa, portavoce della Croce Rossa Internazionale: «La situazione è complicatissima. C'è bisogno di tutto, di cibo, di acqua potabile, che ovviamente in questo momento manca, di un riparo sicuro per le persone». L'amministrazione orientale della Libia ha fatto sapere che accetterà l'aiuto del governo di Tripoli, che ha inviato un aereo con 14 tonnellate di forniture mediche, sacchi per cadaveri e più di 80 medici e paramedici. L'inviato speciale degli Stati Uniti in Libia, Richard Norton, ha confermato che pure Washington invierà soccorsi. Così anche Egitto, Germania, Iran, Qatar e Turchia.
Intanto anche in Marocco la conta dei morti per il terremoto non si ferma. In molte località del Paese si continua a scavare tra le macerie, anche se le probabilità di salvare vite umane sono ormai quasi nulle. E Marrakech torna poco a poco alla normalità. Nonostante sia un'ecatombe. È di 2.901 morti l'ultimo bilancio. A questi si aggiungono 5.530 feriti. I decessi hanno raggiunto quota 1.643 solo nella provincia di Al Haouz, la più colpita. Qui le squadre di soccorso stanno ancora tentando di raggiungere i villaggi più remoti, mentre le forze armate hanno allestito ospedali da campo e sorvolato le vette con elicotteri nel tentativo di distribuire aiuti e trasportare i feriti. Ieri il re Mohammed VI dopo giorni di silenzio ha fatto visita ai terremotati ricoverati in ospedale e donato il sangue.
Ecatombe in Libia, almeno 3mila morti e 10mila dispersi per la tempesta Daniel: Derna spazzata via dall’acqua. Carmine Di Niro su L'Unità il 12 Settembre 2023
Un quarto della città di Derna, nella Libia dell’est, la Cirenaica governata dal maresciallo Khalifa Haftar, non esiste più: è stata spazzata via dalle inondazioni provocate dalla tempesta Daniel che, dopo la Grecia, ha colpito il Paese nordafricano. Il bilancio è gravissimo e fa ‘impallidire’ quello altrettanto drammatico del vicino Marocco devastato da un terremoto che ha sfiorati la magnitudo sette: secondo il ministro della Sanità del governo libico dell’Est, Othman Abdul Jalil, che ne ha parlato all’agenzia di stampa turca Anadolu, i morti sarebbero già oltre tremila, secondo i primi bilanci sulle distruzioni causate dal passaggio della tempesta Daniel.
Ancora più allarmanti i numeri relativi ai dispersi. Parlando ai giornalisti in collegamento video da Tunisi, Tamer Ramadan, della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, ha spiegato che “dalle nostre fonti di informazione indipendenti finora il numero delle persone scomparse ha raggiunto le 10.000 persone”.
Si prevede che il bilancio delle vittime aumenterà drammaticamente, con migliaia di persone scomparse, ha avvertito oggi l’organizzazione: “Il bilancio delle vittime è enorme e potrebbe raggiungere le migliaia“, ha aggiunto Ramadan durante un briefing Onu a Ginevra.
Alla violenza della tempesta Daniel si è aggiunta la scarsa resistenza e qualità delle abitazioni libiche, non costruire per resistere a venti e piogge così devastanti, ma soprattutto il crollo di due dighe nell’Est del Paese, di fatto due invasi a monte della città: il loro crollo avrebbe provocato la “liberazione” di oltre 33 milioni di metri cubi d’acqua che sono andate a travolgere parte dell’abitato di Derna, città da 100mila residenti che si affaccia sul Mediterraneo, e di Bayda, a poche decine di chilometri da Derna.
Il delegato governativo responsabile della regione orientale del Paese, Osama Hammad, ha dichiarato lo stato di emergenza mentre il portavoce dell’Esercito nazionale libico, Ahmed Mismari, ha definito “catastrofica” la situazione, raccontando in una conferenza stampa andata in onda sui canali locali che a Derna l’uragano ha “spazzato via i palazzi trascinando con sé i loro residenti”.
Derna, già al centro di una furiosa battaglia tra i miliziani dell’Isis, che la conquistarono nel 2014, e le truppe fedeli al colonnello Haftar, che ne riottennero il controllo a carissimo prezzo soltanto quattro anni dopo e con furenti battaglie, in alcune parte somiglia ad una città fantasma: le comunicazioni sono bloccate, manca energia elettrica e acqua potabile, i cadaveri dei cittadini galleggiano in strada ma a decine sono stati travolti dall’acqua e trasportati fino al Mediterraneo.
“Sono tornato da Derna. È un disastro. Corpi giacciono ovunque: nel mare, nelle valli, sotto gli edifici“, ha detto telefonicamente a Reuters Hichem Chkiouat, ministro dell’aviazione civile e membro del comitato di emergenza. “Il numero dei corpi recuperati a Derna supera i mille“, ha detto. Si aspetta che il bilancio finale sarà “davvero, davvero grande“. “Non esagero quando dico che il 25% della città è scomparso. Moltissimi edifici sono crollati“, ha aggiunto il ministro.
Una situazione gravissima e che rischia di peggiorare quando arriveranno notizie e primi bilanci dai villaggi minori alla periferia di Derna, dove ampie aree desertiche risultano inondate.
L’Europa si è detta “pronta ad aiutare le persone colpite da questa calamità” tramite il suo presidente del Consiglio Ue Charles Michel. Sulla Libia si è soffermato anche l’Alto Rappresentante Ue Josep Borrell. “Siamo rattristati dalle immagini di devastazione in #Libia, devastata da condizioni meteorologiche estreme che hanno causato la tragica perdita di molte vite. L’Ue segue da vicino la situazione ed è pronta a fornire il proprio sostegno“, ha scritto in un tweet.
Soccorsi che però faticano ad arrivare: in parte per le condizioni avverse e lo stato delle strade disastroso, in parte per la complicata situazione politica nel Paese, con la spaccatura tra i governi contrapposti di Tripoli e Bengasi che senza dubbio non facilita le operazioni di aiuto. In ogni caso il governo di Tripoli ha già inviato aiuti alla città di Derna, con almeno un volo di soccorso in partenza dalla città occidentale di Misurata: a bordo 14 tonnellate di rifornimenti, farmaci, attrezzature, sacchi per cadaveri e 87 medici e paramedici ed è diretto a Bengasi, ha scritto su X il capo del governo libico di unità nazionale Abdulhamid al-Dbeibah.
Carmine Di Niro 12 Settembre 2023
Libia travolta dal ciclone Daniel: "Almeno 2mila morti". Si temono almeno duemila morti a causa della tempesta Daniel e delle inondazioni che stanno interessando la Cirenaica, nella Libia orientale, dove la città di Derna è stata sommersa dall'acqua. Federico Giuliani il 12 Settembre 2023 su Il Giornale.
Una catastrofe ha colpito la Libia. La tempesta Daniel ha causato devastanti inondazioni e almeno 2mila morti in tutto il Paese, e il bilancio potrebbe peggiorare con il passare delle ore. L'area più critica è localizzata nella Cirenaica, dove la città di Derna è stata sommersa dall'acqua. Il primo ministro dell'autoproclamato governo della Libia orientale, Osama Hamad, ha raccontato la vicenda ai media loacali, parlando anche di migliaia di persone disperse, oltre alle innumerevoli vittime. Data la situazione critica, ha chiesto aiuto con urgenza all'Italia e ad altri Stati.
Libia in ginocchio
A Derna sono crollate due dighe liberando 33 miloni di metri cubi d'acqua. I video condivisi online mostrano interi isolati residenziali distrutti lungo il fiume che scende dalle montagne e attraversa il centro della città. Causa scatenante della tragedia è stato l'uragano Daniel, che nei giorni scorsi si è abbattuto anche su Turchia e Grecia. Hamad ha descritto la situazione in loco come "catastrofica". "Migliaia di persone sono disperse, interi quartieri sono scomparsi insieme ai loro residenti spazzati via dal mare", ha dichiarato.
Il consigliere comunale di Derna Ahmed Amdur ha chiesto un intervento internazionale "urgente" per "salvare la città". Il crollo delle aree residenziali e il crollo di edifici e infrastrutture pubbliche e private ha provocato la chiusura delle vie di comunicazione terrestri, e Amdur ha chiesto l'apertura di un corridoio marittimo per assistere i residenti.
Situazione critica
Il primo ministro del Governo di Unità Nazionale (Gnu) di Tripoli, Abdulhamid Dbeibeh, ha promesso che lo Stato risarcirà tutte le persone colpite dalle inondazioni e ha decretato tre giorni di lutto per le vittime. Allo stesso tempo, ha annunciato l'invio a Derna di 50 ambulanze e di un team di 75 medici e infermieri, nonchè di un convoglio per rafforzare gli ospedali rurali.
Il capo della General Services Company di Tripoli, Mohamed Ismail, ha dichiarato che sono stati inviati 53 camion e 10 macchine pesanti per sostenere gli sforzi di soccorso. La missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ha dichiarato in un comunicato di stare monitorando da vicino la situazione di emergenza e di essere "pronta a fornire supporto alle persone colpite".
Aiuti per il ciclone
Dopo aver colpito la Grecia e la Turchia nei giorni scorsi, il ciclone Daniel è stato declassato a tempesta subtropicale il 9 settembre e si prevede che da lunedì si indebolisca nel Paese maghrebino mentre si dirige verso il vicino Egitto, secondo un rapporto del Centro meteorologico regionale arabo.
I danni fin qui causati sulla Libia sono stati ingenti. Hisham Abu Shkewat, ministro del trasporto Aereo e membro della commissione di crisi nel governo di Bengasi, è stato chiaro: "La regione orientale della Libia ha affrontato un uragano senza precedenti che ha provocato danni in diverse città, come Al-Bayda e Al-Marj, ma ciò che è accaduto nella città di Derna rappresenta una catastrofe umanitaria sotto tutti gli aspetti, poiché ha causato il crollo di dighe e di edifici" travolti mentre la gente dormiva.
"Auspichiamo da tutti i Paesi amici, in particolare dall'Italia, un aiuto urgente nelle operazioni di ricerca e soccorso e tutto ciò che possa alleviare le sofferenze degli abitanti della città di Derna", ha concluso il ministro.
Mal di Libia. La storia di una rivoluzione vinta, anche se persa. Alessandro Balbo su L'Inkiesta il 18 Maggio 2023.
La corrispondente Nancy Porsia racconta gli anni vissuti sull’altra sponda del Mediterraneo nel post-Gheddafi. Guerra, disperazione, mafia, portate alla luce pagando sulla propria pelle le conseguenze del giornalismo indipendente
«Chiamate Malta». 11 ottobre 2013, mezzogiorno. Il barcone, salpato la sera prima e finito poco dopo sotto il fuoco dei guardacoste, imbarca acqua a causa dei fori di proiettile. È a sessanta metri da Lampedusa, a bordo ci sono quattrocentottanta persone. Chiamate Malta, dice Roma dall’altro capo del telefono. Poco lontano c’è una nave militare italiana, la Libra, ma l’ordine è di non intervenire. Alle 17.07, dopo cinque ore di chiamate concitate, il barcone affonda.
Delle duecentosessantotto vittime, sessanta sono bambini. Fra loro ci sono anche Mohamed e Ahmed, arrivati in Libia dalla Siria nel novembre del 2012, con la famiglia. Volevano andare in Svezia, perché avevano sentito che lì i bambini potevano studiare. I loro corpi non sono mai stati ritrovati.
«Li cerco ancora nel buio dei miei incubi», scrive Nancy Porsia nelle pagine di “Mal di Libia – I miei giorni sul fronte del Mediterraneo” (Bompiani). Porsia, giornalista freelance, li aveva incontrati poche settimane prima, il 21 settembre, a Misurata. La loro storia è solo uno degli elementi chiave di un libro che, di fatto, è una dettagliatissima enciclopedia di quella “Nuova Libia” formatasi immediatamente dopo la morte del dittatore Muammar Gheddafi, nel 2011.
Un manuale storico, giornalistico, geopolitico, ma soprattutto umano, in cui la reporter italiana, per anni unica corrispondente fissa nel Paese dopo la rivoluzione, racconta l’inesorabile discesa nel caos di una realtà politica e sociale che riguarda l’Italia, con cui condivide il Mar Mediterraneo, molto da vicino. Le speranze democratiche e le contraddizioni, l’affermarsi di una costellazione di poteri armati, la guerra civile, il dramma migratorio, le responsabilità europee. La denuncia della mafia, le intercettazioni da parte delle autorità italiane, la solitudine e la paura. Storia di una «rivoluzione vinta, anche se persa» che Porsia condivide con Linkiesta.
Nancy, tu arrivi per la prima volta in Libia nel 2011, poco dopo l’uccisione di Gheddafi. Nel 2012 decidi di andarci a vivere. Perché?
Mi sembrava la cosa più naturale restare in un Paese e raccontarlo. Per questioni storico-politiche, l’Italia considera la Libia quasi come politica interna, quindi pensavo che da freelance avrei avuto la possibilità di lavorare molto di più sin dall’inizio. Non c’era nessun giornalista: dopo la rivoluzione, sono andati via tutti.
Nel libro dici che, durante la rivoluzione, nel Paese c’erano più giornalisti che combattenti.
È ovviamente una provocazione, ma è quello che succede sempre nelle breaking news, la Libia era abbondantemente coperta. Con la morte di Gheddafi, il 20 ottobre 2011, la Libia viene dichiarata liberata, e insieme alla Nato vanno via tutti i colleghi. Come dicevano già i libici all’epoca, la Nato ha iniziato il lavoro ma non l’ha finito: il Paese era ancora in una fase assolutamente sensibile e delicata, c’erano ancora tantissimi nostalgici che spingevano per una restaurazione. Per me era una storia ancora tutta da raccontare, mi sembrava assurdo come non ci fossero colleghi. Io ero alle prime armi con il giornalismo freelance, avevo quell’occhio vergine in grado di stupirsi su cose importanti. Il tempo mi ha dato ragione. I primi mesi non c’era verso di scrivere: ho lavorato tanto come trainer per citizen journalist, cosa che mi ha permesso di crearmi una rete importante in tutto il Paese.
I piccoli poteri nati dopo la rivoluzione si sono trasformati, nel tempo, in milizie sempre più strutturate, in molti casi puramente criminali, con le mani su politica, economia, traffico di idrocarburi e di esseri umani. Quando hai capito che le speranze di democrazia, di libertà e di unità nazionale erano svanite del tutto?
Il primo passo ufficiale della spaccatura del fronte rivoluzionario è, nel 2013, la legge che prevede il divieto per dieci anni dell’ex figure senior del regime di Gheddafi da qualsiasi mandato governativo nella nuova Libia. Il contesto è quello di un confronto tra città-stato, nella fattispecie Zintan e Misurata: la prima con finanziatori Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania ed Egitto, la seconda con alle spalle i Fratelli Musulmani, quindi la Turchia. Entrambe vogliono il controllo su Tripoli, il porto di mare su cui avere un piede nei palazzi governativi. Le elezioni del 2012 sono vinte, di fatto, dalla lobby Zintan, e la legge, spinta dai misuratini, allontanerebbe molti membri del congresso vicini a essa. Entrambe le forze hanno milizie nella capitale, che tengono in ostaggio il Congresso in alternanza. Sei mesi dopo la legge, Zintan spinge per una manifestazione della società civile contro le milizie misuratine a Tripoli, che arriva fino al loro quartier generale. I misuratini aprono il fuoco, muoiono circa ottanta persone. Per via di questo massacro, le milizie di Misurata vengono costrette a lasciare la capitale. È in questo clima che si arriva alle elezioni del 2014, volute da Zintan, che era l’unica forza a Tripoli: vince ancora Zintan, e Misurata non riconosce il risultato elettorale, rientrando nella capitale a luglio e dando così inizio alla guerra civile. Gli Zintan avevano l’appoggio di Khalifa Haftar, che aveva già lanciato la sua guerra contro i terroristi a Bengasi e piano piano contro anche i terroristi di Tripoli. Di conseguenza, il congresso generale, che rappresenta Misurata, resta a Tripoli, mentre il nuovo governo, uscito dalle elezioni del 2014, se ne va a Tobruk.
Uno dei protagonisti del libro è Dumi, rivoluzionario della prima ora e rimasto poi, tragicamente, vittima dell’Isis. Ce lo racconti?
Dumi rappresenta il cuore della Libia, e allo stesso tempo il ventre molle della politica. Sembra una sorta di “ladro gentiluomo”, è un ragazzo particolarmente intelligente e aperto nonostante il contesto intellettualmente “povero” e conservatore in cui cresce. Rappresenta il nuovo paradigma sociale che si viene a creare nel post rivoluzione: la generazione “pre-Libia”, gli over 30 che conoscevano bene gli ingranaggi del regime, inizialmente non favorevoli alla rivoluzione per paura del vuoto di potere – il tempo darà loro ragione – versus i giovani ventenni come Dumi, abbastanza grandi per combattere, ma troppo piccoli per capire la struttura e l’establishment di un regime. Dumi decide di combattere insieme ai suoi amici, e si distingue per le gesta eroiche. Lui è molto raffinato, nel pensiero. È l’unico musulmano che non ha nessun problema a prendere parte a serate in cui si parla di ateismo. Nel post-rivoluzione continua a vivere di adrenalina, sempre alla ricerca dell’affare del secolo: una volta mi chiese di fare import-export di rame. In questa sua smania adrenalinica si trovava in situazioni in cui lui per primo si rende responsabile di crimini. Mi raccontava la Libia underground di cui nessuno osava parlare: le orge, le droghe. Riesce a uscire da queste dinamiche aprendo con alcuni amici, molti dei quali atei, un business di Art design decorazioni a Misurata, ma dopo pochi mesi l’Isis prova con un attentato a sfondare il muro per entrare proprio a Misurata. Lui decide di tornare a combattere: non era una questione ideologica, ma di vita o di morte.
Anche perché non c’era un esercito.
A differenza di Egitto e Tunisia, che in momenti di transizione importanti hanno visto l’esercito come ago della bilancia, in Libia questo non è accaduto. Gheddafi, in maniera strategica, a parte alcuni corpi non ha mai creato un esercito, proprio per paura di un colpo di stato militare. Morto lui, le brigate rivoluzionarie non hanno non hanno mai deposto le armi come il Governo di transizione generale chiedeva, perché in una dimensione di città-stato tutti temevano la mossa del vicino. La NATO aveva sostenuto le Brigate rivoluzionarie fino alla morte del dittatore, ma poi se n’era andata. Piano piano, le brigate si sono trasformate in milizie, che non hanno necessariamente accezione negativa. Accanto a quelle dei signori della guerra e dei trafficanti, infatti, ci sono milizie che proteggono il territorio. Noi garantisti europei non ci rendiamo conto di quanto sia fondamentale un esercito in alcune circostanze, come quella di un cambio epocale, per garantire la sicurezza nazionale. Tra le brigate c’è ovviamente chi è diventato signore della guerra, chi è entrato nel business delle armi dei migranti. Le potenze straniere, poi, hanno iniziato a finanziare le parti per creare instabilità. C’è invece chi, come molti miei amici, è rimasto allo stato primordiale, ossia di difesa del proprio territorio, della propria città. Che è un’altra cosa.
Leggendo la storia di Ahmed e Mohamed, «morti di politica» come scrivi nel libro, veniamo in contatto con il dramma delle partenze di migranti verso il Mediterraneo. Indichi nell’accordo tra UnioneeEuropea e Turchia il punto di non ritorno sulle politiche migratorie, proseguite con il memorandum Italia-Libia del 2017. Cosa pensi dell’Europa oggi?
L’Europa come è stata pensata dai padri fondatori non esiste più. Laddove i diritti umani hanno valore ce l’hanno sul proprio territorio, e ne hanno un altro quando si tratta di persone cittadini che vengono da altri Paesi. Gli Stati membri dell’Unione europea non possono più dichiararsi Paesi con uno Stato di democrazia, con uno Stato di diritto: si fa di tutto attraverso la politica di esternalizzazione, uno stratagemma machiavellico per depistare la giurisprudenza internazionale, ma che comunque non salva i Paesi che si macchiano di questi crimini dalle proprie responsabilità. È oramai evidente come i Paesi europei cerchino costantemente nuovi strumenti per raggirare le convenzioni internazionali, e credo sia proprio entrato in crisi lo Stato di diritto a livello mondiale perché stiamo affrontando nuove sfide, come il nuovo fenomeno dello spostamento in massa di persone da una parte all’altra del pianeta. Credo sia in crisi l’idea di democrazia, e anche di cittadinanza: nel nostro Paese si fa fatica a riconoscere la cittadinanza a persone che sono nate e cresciute in Italia. Tocca reinventare il senso della cittadinanza per ristabilire una sorta di equilibrio democratico.
Con la tua inchiesta sul “cartello libico”, nel dicembre del 2016, ti inimichi uomini e istituzioni potenti, che ti impediscono di tornare nel Paese. Com’è stato scoprire, mentre eri in Tunisia, di essere protetta dall’intelligence algerina e non da quella italiana?
Sicuramente quel giorno, seduta a quel tavolino, davanti a quel tè alla menta, ho tirato un sospiro di sollievo. Perché ero veramente terrorizzata. Però non riuscivo neanche a lasciare il Paese: non riuscivo a lasciare il mio presidio perché la Tunisia era in realtà una sorta di retrovia libica. Mi ha dato la misura del gioco in cui mi ero infilata, ma è stata la prova provata che non ero una pazza: ho vissuto questo stato di terrore in solitudine, con poche persone accanto a me, senza nessuno del mondo mediatico o politico italiano che mi avesse dato un cenno di vicinanza e sostegno. Anzi, mi hanno intercettata proprio in quel periodo. Nonostante avessi detto loro di essere in pericolo, non hanno attivato nessun sistema di sicurezza, né mi hanno dato consigli. È stata un’occasione per imparare come funziona la politica.
Le autorità italiane, però, come hai anticipato ti tenevano d’occhio. Nel 2021 scopri di essere stata oggetto per sei mesi di intercettazioni nell’ambito di un’inchiesta della procura di Trapani sui presunti collegamenti tra Ong e trafficanti, una sorveglianza i cui contenuti (come prevedibile) non risulteranno utili ai fini processuali. Quali pensi siano state le ragioni dietro questa attività?
Ovviamente entriamo nel campo delle ipotesi. In una democrazia cosiddetta tale il potere esecutivo dovrebbe essere separato da quello giudiziario, ma in Italia abbiamo visto che la polarizzazione sul discorso migratorio a livello politico ha fortemente influenzato anche la magistratura. In molti casi sono stati adottati metodi al limite della violazione di diritti. Nel mio caso sono proprio stati violati: pur di dimostrare una tesi predefinita, hanno deciso di mettere nel registro degli indagati decine di persone per provare una tesi che poi non è stata confermata. Il mio è un caso importante: da non indagata, sono l’unica persona a cui hanno intercettato le conversazioni direttamente. Siccome era il periodo in cui l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti stava presentando il suo memorandum di intesa, credo ci fosse anche una sorta di indirizzo politico per la magistratura a provare che chi si opponeva a esso avesse degli interessi. Temevano che magari io da giornalista potessi alzare l’asticella, pubblicare altro.
Parli anche del momento in cui nel 2017 Minniti, in occasione di un summit a Tunisi, mette fine alla conferenza stampa nel momento in cui in cui arriva il tuo turno, lasciando l’intera platea sbigottita.
Sì. Io mi presento, lui scappa. Penso che loro volessero sapere cosa io avessi in mano, perché avevano paura che io potessi rilanciare.
“Così l’Italia finanzia la tratta dei clandestini nel sud della Libia”. Adolfo Spezzaferro su L'Identità il 17 Maggio 2023
“In Libia il governo italiano sta rischiando di peggiorare il quadro già drammatico nel Fezzan e di vanificare l’impegno per la pacificazione e riconciliazione del Paese”.
Ce lo spiega Vito Petrocelli, già presidente della commissione Esteri del Senato e presidente dell’Istituto Italia-Brics. “La Farnesina sta finanziando un progetto che invece di aiutare la popolazione locale copre lo sfruttamento degli immigrati clandestini”, avverte l’esperto, sottolineando come in Italia tale delicata situazione non faccia notizia.
Che cosa sta succedendo in Libia, visto che è stato arrestato il coordinatore di un progetto finanziato dalla Farnesina organizzato da una Ong italiana, con l’accusa di aver impiegato immigrati clandestini?
Notizia che peraltro non è stata riportata dai media italiani, ci tengo a sottolineare. Il coordinatore in Fezzan della Ong italiana Ara Pacis è stato arrestato per aver aiutato questa Ong a sistemare in maniera permanente migranti irregolari che arrivano dal Sahel nel sud della Libia sotto la copertura del progetto che dovrebbe promuovere lo sviluppo dell’agricoltura locale e contribuire alla coesione sociale e all’integrazione della popolazione. Questa notizia è importante anche per un altro motivo.
Quale?
Dal 2011, ossia dall’attacco Nato alla Libia, il Fezzan è diventato il “terzo mondo della Libia”, visto che tutti si occupano soltanto della Tripolitania e della Cirenaica. Ebbene, in questi anni questa area, ricca di petrolio ed altre risorse naturali, è caduta nelle mani di bande locali. Bande che organizzazioni sequestri a scopo di estorsione o di ricatto. Bande di trafficanti di esseri umani che arrivano anche da Stati confinanti. Gruppi che organizzano contrabbando di carburante fuori e dentro la Libia. E soprattutto si verificano puntualmente interventi di milizie dei Paesi vicini che contribuiscono all’immigrazione clandestina.
E quindi?
Se la Farnesina finanzia con cinque milioni di euro un progetto per lo sviluppo sostenibile, non dovrebbe permettere che questo progetto nasconda altre intenzioni. Ad aprile infatti organizzazioni della società civile del Fezzan hanno espresso preoccupazione alla Farnesina sulla situazione creata da questo progetto. Diversi sindaci infatti hanno annunciato il loro esplicito rifiuto dell’idea di insediare gli immigrati nel sud della Libia, sottolineando di aver informato la parte italiana che qualsiasi accordo di questo tipo deve essere concluso con lo Stato rappresentato dal ministero del governo locale e non direttamente con i comuni. Le associazioni temono anche che questi clandestini, una volta finiti i soldi del progetto, possano diventare manovalanza delle bande che scorrazzano nel sud Paese. In questo contesto l’arresto rientra nella contrapposizione tra forze politiche e militari in Libia.
In che modo? C’entra forse la visita di Haftar in Italia?
Credo di sì. Proprio nei giorni in cui Haftar preparava il viaggio a Roma e poi incontrava Meloni e Tajani, è aumentata la repressione del dissenso e delle forze politiche legalmente riconosciute contrarie alla linea di dialogo – reale o presunta che sia – tra Tripoli e la Cirenaica.
Che cosa è successo?
Soprattutto nella città di Sirte, dove già da diverse settimane si assisteva a intimidazioni, arresti ed estorsioni nei confronti del partito Insieme per la patria. Esponenti di questo partito sono stati prelevati dalle loro case e portati in arresto a Bengasi. Così come altri attivisti che cercano la riconciliazione nazionale. Ma soprattutto il giornalista Agila Dalhum a capo del team della comunicazione di Saif Gheddafi, il figlio del Colonnello, è scampato a un tentativo di omicidio a Malta. Questo si collega a quanto chiesto da Haftar a Roma.
Cosa ha chiesto?
Secondo le mie fonti, ha chiesto l’appoggio occidentale per portare la Libia a libere elezioni e avviare il processo di riunificazione a patto che venga tagliato fuori dalla corsa al voto proprio Saif Gheddafi, dato per favorito nei sondaggi. E proprio in quei giorni la repressione contro le persone a lui vicine è aumentata in maniera esponenziale. In quegli stessi giorni il progetto finanziato dalla Farnesina viene denunciato sulla stampa locale come progetto sospetto. E mi dicono – spero che non sia vero – che a questo progetto sarebbe interessato uno dei figli di Haftar, Saddam. Se così fosse sarebbe molto grave, visto il lavoro di altissimo profilo della Farnesina per il processo di pacificazione del Paese. Il governo italiano rischia di incappare in lotte intestine che vogliono escludere dal processo democratico una parte politica, oltre che una figura che sarà pure ingombrante ma che ha il diritto di candidarsi alle presidenziali. Ma non finisce qui.
Ci spieghi.
Il vice ministro degli Esteri Edmondo Cirielli, che ha ricevuto la protesta delle organizzazioni del Fezzan di sospendere il progetto della Ong italiana che sta insediando clandestini nel sud del Paese, proprio in questi giorni è andato in visita ufficiale alla Ciheam di Bari, partner di Ara Pacis nel progetto finanziato dalla Farnesina. Occasione – ci auguriamo – per fare chiarezza. Bisogna verificare se è vero – come sostengono le associazioni libiche ricevute da Cirielli – che queste iniziative nell’ambito del progetto siano state sottoscritte da amministratori locali del Fezzan senza l’avallo dei ministeri di competenza. A quanto pare, Ciheam Bari e Ara Pacis avrebbero inviato un aereo privato ai sindaci dei comuni del Fezzan, tra cui il sindaco di Ubari, e li hanno portati nella città di Bari e hanno firmato lì in solitaria l’accordo sul progetto.
Tornando al processo di pacificazione della Libia, se al ballottaggio in Turchia non dovesse rivincere Erdogan, cambierebbe la postura di Ankara nei confronti di Tripoli?
Premesso che la mia impressione è che le elezioni le rivincerà Erdogan, anche se non ce la dovesse fare, la politica estera turca non cambierebbe. Perché loro sono molto più nazionalisti di noi italiani e per loro conta mantenere centri di controllo strategico, come la Libia per l’appunto. Gli interessi nazionali turchi vengono tutelati a prescindere.
Libia di nuovo al collasso per i migranti. Raid nelle città contro i trafficanti di esseri umani. Isabel Demetz il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.
Scontri tra la popolazione e gruppi di trafficanti di esseri umani a Zawiya, cittadina libica hotspot delle partenze dei migranti. Rischio per l'aumento dei flussi verso l'Italia
Tabella dei contenuti
Il video delle torture
Gli scontri in Libia
Il rischio di ripercussioni
La popolazione della Libia è insorta contro i trafficanti di esseri umani. In uno dei principali luoghi di partenza dei barconi di migranti sulla costa libica si sono verificati diversi scontri, in cui, tra l’altro, la popolazione ha fatto irruzione nei nascondigli dei mercenari uccidendo e ferendo numerosi africani immigrati.
Il video delle torture
A Zawiya, cittadina situata sulla costa libica, i cittadini si sono scontrati con milizie armate di africani e le forze di sicurezza locali, bloccando le vie di accesso, nonché le valvole della raffineria di petrolio locale, isolando così di fatti la città dal resto della Libia e rischiando ripercussioni sulla fornitura di petrolio e di energia elettrica. La protesta è nata in seguito a delle immagini messe in circolazione sui social media in cui presunti immigrati africani torturano un giovane libico. Purché non sia possibile un'identificazione certa degli attori coinvolti, è possibile scorgere un giovane appeso per le mani mentre viene bastonato. La popolazione è dunque insorta contro la presenza di mercenari africani nella città – e in realtà in molte parti del Paese – accusati di essere responsabili dell’aumento della criminalità nella città e di aver assoldato africani per rapire e torturare giovani arabi.
Rapiti, bastonati e torturati: il video choc dei migranti
I gruppi armati oggetto degli attacchi sono perlopiù formati da uomini di origine africana/sub-sahariana. Questi sfruttano una situazione di controllo precario da parte delle municipalità e delle autorità locali che caratterizza la Libia sin dalla fine della Primavera araba, per accrescere il proprio giro di affari illegali. Motivo per il quale la rabbia della popolazione si è riversata anche sulle postazioni dei servizi di sicurezza locali, accusati di inefficenza.
Gli scontri in Libia
Zawiya, a 40 km a ovest da Tripoli, è uno snodo cruciale per quanto riguarda l’esportazione del petrolio, ma soprattutto, come detto, per la partenza dei barconi di migranti diretti verso l’Italia. Se l’arrivo, e la presenza, di questi presenta un problema cruciale per l’Italia e il governo italiano, il traffico di esseri umani pesa anche sulla popolazione libica. Il Paese, tornato il primo in classifica per il numero di partenze di migranti, spodestando quindi la Tunisia, conta la presenza di circa 684mila migranti, secondo quanto riportato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni.
Media libici hanno riportato diversi scontri tra la popolazione e milizie locali contro le forze dell’ordine, intervenute per placare le proteste dei cittadini. Questi chiedono l’eliminazione delle milizie armate di africani, accusate di “proteggere gli immigrati responsabili di aver torturato un ragazzo”, nonché l’allontanamento degli immigrati che usano la città come punto di partenza per attraversare il Mediterraneo e che nel frattempo vengono assoldati dagli africani.
Sono stati registrati numerosi attacchi alle basi delle milizie africane nel tentativo di cacciare i criminali dalla città. Come risultato vi sonos stati numerosi africani arrestati o addirittura uccisie i cittadini chiedono ulteriori raid per l'eliminazione di tutti i covi di immigrazione clandestina.
Accusando la municipalità di inazione per contrastare la criminalità, i cittadini chiamano inoltre a nuove elezioni. Ma non è la prima volta che Zawiya viene scossa da simili tensioni. Già nelle scorse settimane vi erano stati diversi scontri, in quel caso però riconducibili a rivalità tribali, che hanno causato la morte di numerosi civili.
Il rischio di ripercussioni
“Chiediamo a tutte le città della Libia di unirsi a noi. Queste bande criminali devono essere espulse dalla nostra città. Non permetteremo più la tortura e il rapimento dei nostri giovani!”, ha dichiarato Muhammad Khaled, un residente di Zawiya, all’agenzia Nova.
Se la manifestazione, come sta attualmente avvenendo in alcune città limitrofe di Zawiya, dovesse propagarsi per il Paese, questo potrebbe avere allarmanti conseguenze sul flusso di migranti verso l’Italia, nonché per la Libia stessa, essendo che le tensioni, tribali e politiche del Paese, sono sempre in uno stato di altissima fragilità e un movimento come quello attualmente registrato nella città costiera potrebbe essere sfruttato per motivi politici e causare l'aumento dei flusso migratorio. Le proteste esplose potrebbero, infatti, generare una "caccia ai migranti".
Un nuovo rapporto ONU certifica le torture in Libia e accusa l’Europa. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 31 marzo 2023.
Secondo il Consiglio per i diritti umani, sostenuto dalle Nazioni Unite, le prove sono ormai chiare e inconfutabili: in Libia – un Paese che negli ultimi anni è diventato un punto di transito per milioni di persone di diversa nazionalità che cercano di arrivare in Europa – sono stati commessi crimini contro l’umanità ai danni di residenti e migranti. Abusi a cui, secondo il gruppo di esperti, avrebbe contribuito anche l’Unione europea, supportando economicamente le forze armate e finanziando l’intercettazione e la detenzione di migranti.
Che le forze dell’ordine nazionali utilizzino metodi poco ortodossi per contenere la migrazione è cosa ormai nota. Basti pensare all’episodio del 25 marzo scorso, quando una motovedetta libica ha minacciato la nave Ocean Viking della ong Sos Méditerranée e un gommone carico di migranti, sparando in aria e in acqua. Certo, il fatto che per la prima volta un rapporto ufficiale ne certifichi le violenze, ammonendo al contempo Bruxelles, è invece di per sé una grossa novità.
I risultati sono stati raccolti dalla Missione indipendente di accertamento dei fatti sulla Libia (FFM), partita il 22 giugno 2020 per indagare sulle violazioni e gli abusi dei diritti umani in tutta la Libia, e al fine di prevenire un ulteriore deterioramento della situazione e individuare possibili responsabili. Negli anni gli esperti hanno condotto centinaia di interviste, ascoltando i racconti di migranti e testimoni che hanno vissuto sulla propria pelle il caos di un Paese diviso tra amministrazioni rivali e milizie in guerra.
Mohamed Auajjar, capo della missione conoscitiva, ha dichiarato che la sua squadra ha portato alla luce «numerosi casi di detenzione arbitraria, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, anche sessuale e sparizione forzata», spesso sotto la minaccia delle armi. Gli intervistati hanno raccontato di abusi sessuali ai danni di donne e uomini, anche da parte di guardie che lavorano sia per le autorità statali che per gruppi di trafficanti – «abbiamo fondati motivi per ritenere che il personale di alto rango della Guardia costiera libica sia colluso con trafficanti e contrabbandieri». Le vittime «includevano bambini, uomini e donne adulti, difensori dei diritti umani, politici, rappresentanti della società civile, membri delle forze armate o di sicurezza, legali e persone omosessuali o presunte tali».
Tuttavia, secondo il gruppo, negli ultimi tre anni sono le donne ad aver visto maggiormente la propria condizione sprofondare. Nel rapporto infatti si scrive di discriminazione “sistematica” contro di loro, sfociata in aumento della violenza domestica e sessuale, non punita da alcuna legge, e una generale impunità per i crimini commessi contro importanti donne ‘leader’, tra cui la parlamentare Sihem Sergiwa, sparita nel nulla nel 2019, e l’attivista Hannan Barassi, uccisa nel 2020.
Molti dei migranti che arrivano in Libia nella speranza di poter muoversi altrove, finiscono per essere trattenuti seppur senza alcun capo d’accusa, lasciati morire in condizioni orribili e\o «sottoposti regolarmente a torture e isolamento», senza avere accesso ad acqua, cibo o altri beni di prima necessità. Condizioni che per il Consiglio per i diritti umani – che tra l’altro ha condiviso il suo rapporto con la Corte penale internazionale – non sono più tollerabili, e alla luce delle quali le autorità dell’UE dovrebbero rivedere le loro politiche e gli accordi presi con la Libia.
La guardia costiera del Paese, infatti, riceve addestramento e attrezzature direttamente dall’UE, ed entrambe le entità coordinano vicendevolmente gli interventi, in un lavoro che potremmo definire ‘di squadra’. Certo, «l’UE non è responsabile di crimini di guerra, ma il sostegno fornito ha aiutato e favorito i crimini». Immediata la reazione della Commissione europea, il cui portavoce, Peter Stano, ha ribadito che «l’UE non ha finanziato la guardia costiera libica». Ma che, piuttosto, l’aiuto fornitogli «aveva lo scopo di migliorare le loro prestazioni in termini di ricerca e soccorso».
Prendendo per vere tali affermazioni, il problema è che i modi di sostenere le violazioni dei diritti umani non sono sempre e solo quelli che si vedono. L’Italia, ad esempio, oltre a fornire motovedette e addestramento, con la Libia ha uno stretto rapporto basato sul gas. Proprio lo scorso gennaio Claudio Descalzi, Amministratore Delegato dell’ENI e da Farhat Bengdara, presidente della compagnia petrolifera di Stato ‘National oil corporation’ (NOC) hanno stipulato un accordo da 8 miliardi di dollari di investimenti per l’esplorazione di nuovi giacimenti. Senza dimenticare poi il famoso “Memorandum Italia-Libia”, un’alleanza in cui l’Italia si impegna a fornire alla Libia supporto finanziario e tecnico per contrastare la migrazione verso la nostra penisola. Da quando è stato siglato (nel 2017) ad oggi, sono più di 100 mila le persone riportate indietro, dopo essere state intercettate dalla Guardia Costiera Libica nelle acque del Mediterraneo centrale. [di Gloria Ferrari]
MISSIONE WAGNER. Rita Cavallaro su L’Identità il 29 Marzo 2023
Il controspionaggio che non spia e la cortina fumogena sulla brigata Wagner. Mentre l’Italia si ritrova con un’imponente ondata di sbarchi e tiene il fiato sospeso per il rischio default della Tunisia, i servizi segreti nostrani non solo lanciano allarmi vecchi di sei anni sull’imminente invasione di clandestini in arrivo sulle nostre coste, ma fanno addirittura spallucce di fronte alla fake news che vedrebbe i mercenari della Wagner caricare sui barchini i migranti e dirottarli verso l’Italia per destabilizzare l’Europa, rea di appoggiare la causa Ucraina. Peccato che di questo piano di immigrazione clandestina 2.0 non ci sia nulla di vero. Anzi, se fossimo in un’aula di tribunale, potremmo pronunciare la formula “il fatto non sussiste”, visto che nel “reato” manca proprio l’elemento per l’accusa: la Wagner. Infatti, il gruppo paramilitare di mercenari è del tutto assente dalla Tunisia, il porto di partenza dei “dirottati”. E a dirlo sono i documenti stessi dei nostri 007, che nell’ultima relazione del 2022 sottolineano come la brigata sia presente in diversi paesi dell’Africa ma non certamente a Tunisi, “secondo Paese di partenza dei flussi via mare diretti in Italia”, si legge a pagina 33-34 nel paragrafo intitolato “Le dinamiche della immigrazione irregolare”.
Nel dossier, l’intelligence sottolinea che in Tunisia “l’immigrazione irregolare è gestita da gruppi criminali prevalentemente autoctoni, non strutturati, talvolta attivi nel settore ittico, dediti alla gestione di un’ampia gamma di attività criminali che vanno dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina al contrabbando di tabacchi, al traffico di sostanze stupefacenti e di idrocarburi”. Nessun dubbio, se carta canta, che la Wagner non stia caricando clandestini sui barchini e che l’allarme sia una fake news ben strutturata, una cortina fumogena per nascondere la missione più elevata affidata alla brigata. L’Identità ha avuto conferma da fonti autorevoli a Mosca che, da pochi giorni, la Wagner ha aperto, su ordine del presidente Vladimir Putin, ben quaranta uffici in Russia ed ha avviato sul territorio una vasta operazione di reclutamento di combattenti, al fine di inviarli rapidamente in guerra in Ucraina, dove la situazione lo richiede. Il Cremlino, infatti, nelle ultime settimane ha dovuto affrontare una serie di problemi interni proprio sul fronte ucraino, dal quale 650 soldati russi hanno disertato. E in un momento così delicato del conflitto, con lo Zar pronto a sferrare attacchi mirati e più violenti, la fuga dei militari dalla battaglia potrebbe costare cara a Putin, il quale è corso ai ripari e ha deciso di affidare la massiccia operazione di reclutamento dei combattenti alla struttura paramilitare russa. Che sta allineando le file nel massimo riserbo e senza alcun fastidio, alla faccia dell’Italia e delle altre cancellerie europee fuorviate dal falso allarme barchini.
Il tutto nel più totale silenzio dei vertici del Dis, che avrebbero dovuto, secondo la legge 124 che regola l’intelligence, non solo relazionare al governo, elaborando “anche sulla base delle informazioni, dei rapporti e delle analisi di cui alla lettera C, analisi globali da sottoporre al Cisr (Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica) ovvero consiglio dei ministri ristretto”. Ma tra i compiti che spettano al capo del Dipartimento delle informazioni per la Sicurezza, Elisabetta Belloni, c’è anche quello di bloccare le notizie false, soprattutto se creano allarme sociale. Insomma sarebbe bastata una dichiarazione alla stampa per smentire l’esistenza del disegno strategico geopolitico internazionale dei russi contro l’Europa con i suoi barchini caricati dalla Wagner. Eppure nulla, la Belloni non ha ritenuto necessario tranquillizzare i cittadini, né fornire un report al governo Meloni, che ogni giorno fa i conti con le centinaia di sbarchi e che si è messo in prima linea per sostenere la causa di Tunisi. E l’analisi strategica non è arrivata neppure dal capo dell’analisi strategica del Dis, Michele Baiano, un ex ambasciatore che stava alla Farnesina, fortemente voluto in quel ruolo proprio dalla collega Belloni, ma ultimamente troppo impegnato a desiderare il posto dell’attuale vice al Dis, Alessandra Guidi, amica dell’ex sottosegretario con delega ai Servizi, Franco Gabrielli e della moglie.
Una situazione di impasse che ricorda, per paradossi, la frase di Maria Antonietta: “Non hanno il pane? Date le brioche”. Giusto per restare in tema con la passione della Belloni per la buona cucina. Quando stava alla Farnesina, il capo del Dis incontrò un maresciallo dell’Aeronautica che è uno chef di altissima qualità e lei fece il diavolo a quattro per portarselo agli Esteri come cuoco personale. Allora non ci riuscì ma, al vertice dei servizi, ha finalmente ottenuto dall’amministrazione l’assenso per avere il suo personal chef, molto capace in sogliole e frullati. E anche una palestra piccolina, all’interno dell’ufficio, per tenersi in forma. Mentre imperversano le fake news sulla Wagner in Tunisia, che invece sta lavorando alacremente in Russia. E mentre dal pulpito ora rispunta Gabrielli, che critica il governo pontificando sulla gestione dell’immigrazione e puntando il dito perfino contro il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, per le frasi sui morti di Cutro. Eppure non sembra aver funzionato la strategia di Gabrielli sul tema “epocale” dell’immigrazione, né quando stava all’autorità delegata né prima come capo della polizia. Ora dice che è inutile prendersela con gli scafisti, “gli sfigati della filiera, mentre i veri criminali sono i trafficanti che fanno commercio di esseri umani”. In mancanza di quell’entità superiore, però, meglio prendersela con chi fa morire le persone in mare che non prendersela con nessuno. E allora la premier Giorgia Meloni ha ragione da vendere a dare la caccia agli scafisti, visto che Gabrielli non lo ha fatto, né con gli sfigati né con i veri criminali.
Mosse Nato per cacciare i Wagner dalla Libia. Gian Micalessin il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.
Haftar tratta con gli Usa per rinunciare ai mercenari russi. E c'è l'incognita Erdogan
La trattativa è già iniziata, ma il risultato non è scontato. Il negoziato riguarda l'allontanamento dalla Cirenaica dei mercenari della Wagner, la compagnia militare privata guidata da Evgeny Prigozhin, e molto attiva nella guerra in Ucraina, ma presente anche in Libia dal settembre 2019. Secondo alcune indiscrezione di fonte governativa riprese dal quotidiano Ean Libya il generale Khalifa Haftar, comandante dell'autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) si sarebbe finalmente deciso a discutere con gli americani le contropartite per rinunciare all'assistenza dei «musicisti» di Prigozhin. Gli stessi musicisti accusati dal nostro ministro della Difesa Guido Crosetto di facilitare il traffico di uomini e la partenza dei migranti dalle coste della Cirenaica.
Ma proprio le condizioni poste da Haftar - deciso a ottenere in cambio la fornitura di aerei americani e il ritiro dei mercenari siriani pagati dalla Turchia dalla «nemica» Tripolitania - rendono il negoziato alquanto spigoloso. Gli americani preoccupati dalla presenza dei Mig 29 russi nella base di Al Jufra, al confine tra Tripolitania e Cirenaica, stanno però aumentando le pressioni.
Il pressing sulle autorità della Cirenaica e sul generale Haftar è iniziato lo scorso 12 gennaio. Quel giorno il direttore della Cia William Burns, arrivato a Tripoli per incontrare il primo ministro del governo di unità nazionale Abdelhamid Dabaiba, prolungò la sua missione volando a Rajma, il quartier genera le di Haftar nei pressi di Bengasi in Cirenaica. All'incontro del direttore della Cia con il generale ha fatto seguito una riunione, segnalata su Twitter l'ambasciata statunitense a Tripoli, tra lo stesso Haftar e Barbara Leaf l'assistente del segretario di Stato americano per il Medio Oriente.
Ancora una volta il vero ago della bilancia della trattativa per l'allontanamento della Wagner sarà però il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. E questa, nonostante l'appartenenza della Turchia alla Nato, non è una garanzia di successo per gli Stati Uniti. Erdogan, oltre a essere uno dei principali interlocutori del presidente russo Vladimir Putin, non ha infatti intenzione di rinunciare al controllo dell'esecutivo di Tripoli esercitato grazie alla presenza di alcune migliaia di mercenari siriani pagati da Ankara. Un presenza essenziale non solo per garantire la sopravvivenza di un premier, Al Dabeiba, tenuto sotto scacco dalle milizie, ma anche per continuare a firmare contratti energetici preservando gli accordi - controfirmati dalla Libia del 2019 - che assegnano alla Turchia il controllo di buona parte del Mediterraneo orientale.
Un'altra incognita riguarda la disponibilità statunitense a fornire forze aeree a un leader scarsamente controllabile come Haftar. Soprattutto nell'imminenza delle delicatissime trattative con le altre formazioni libiche per lo svolgimento di elezioni e la successiva formazione di un governo di unità nazionale.
La terza più grossa incognita sulla cacciata della brigata Wagner dalla Libia riguarda, però, la disponibilità russa a farsi mettere alla porta. Insediatasi in Cirenaica d'intesa con Haftar, la Russia ha progressivamente ridimensionato le relazioni con l'inaffidabile generale appoggiando sia il presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Issa Saleh, sia Saif Gheddafi, figlio dell'ex dittatore libico. I mercenari russi, per quanto coinvolti nelle lotte di potere interne al Paese, sono in Libia soprattutto per difendere i contratti sul petrolio firmati a suo tempo con il deposto regime del colonnello Gheddafi. Grazie al controllo delle quattro basi di Brak al Shati nel sud ovest della Cirenaica di Jufrah (Centro-Sud), Qardabiyah (Centro-Nord) e di al-Khadim (Nord-Est), la Wagner mantiene una presenza di 1.500/2.000 uomini con i quali controlla le attività dei terminali petroliferi di Ras Lanuf, Brega ed Es Sidr oltre che quelle dei pozzi di El Feel e Sharara.
Italia-Libia, la destabilizzazione del 2011 e dei rapporti mai recuperati. Francesca Musacchio su Il Tempo il 29 gennaio 2023
Separazioni e riavvicinamenti. Intese e matrimoni di convenienza. La storia dei rapporti tra Italia e Libia è a tratti schizofrenica, quasi come una storia d’amore travagliata nella quale gli amanti, pur nelle difficoltà, non riescono a fare a meno l’uno dell’altra. Per amore, ma soprattutto per convenienza. E adesso proviamo a riannodare i fili di un rapporto un po’ sfilacciato, nel quale si sono inseriti, negli anni, altri attori che hanno contribuito a destabilizzare il già fragile «equilibrio di coppia». Il governo Meloni torna in Libia con il piglio che mancava da tempo, oltre dieci anni a questa parte. Da quando l’Italia decise di appoggiare, nel 2011, l’intervento aereo contro la Libia promosso da Francia e Gran Bretagna come risposta alla repressione che Gheddafi stava mettendo in atto contro le proteste della Primavera araba. Non che prima di questa data i rapporti tra i due paesi fossero idilliaci. Proprio l’ex rais, una volta preso il potere, portò avanti le note richieste di risarcimento per il periodo coloniale. Nel 2008, a Bengasi, Gheddafi e Silvio Berlusconi firmarono il «Trattato di amicizia Italia-Libia» che impegnava il nostro Paese a risarcire i danni dell’era coloniale attraverso investimenti economici importanti, ma anche di collaborazione politica e in tema di sicurezza. Anche nel 2008, tra gli obiettivi di Roma c’era quello di fermare l’immigrazione irregolare.
Nacque così una fase nuova che vide anche la presenza (spesso contestata) di Gheddafi in Italia. Ma nel 2008 forse nessuno immaginava quello che sarebbe accaduto di lì a pochi anni. Il vento della Primavera araba arrivò fino in Libia e destabilizzò il Paese. Francia e Gran Bretagna, e non solo, soffiarono sul fuoco delle proteste per eliminare un dittatore con il quale l'Italia, tra alti e bassi, ha sempre avuto un rapporto privilegiato. E così, il governo di allora, pur manifestando attraverso vari esponenti politici la convinzione di non dover intervenire militarmente in Libia per fermare i presunti bombardamenti sui manifestanti (che poi sarebbero anche stati gettati in fosse comuni) alla fine cedette nel timore di uscire fuori dalla cornice di appartenenza della Nato. Tra gli esponenti del governo che manifestarono perplessità nei confronti della missione in Libia, l’allora ministro degli Esteri, Franco Frattini, che evidenziò, tra le altre cose, le ripercussioni legate all’immigrazione. Alla decisione di partecipare alla missione, notevole fu il contributo di alte cariche dello Stato. Fu l’inizio della fine.
L’instabilità della Libia, che continua ancora oggi, ha aperto le porte a presenze straniere che hanno reso sempre più difficile il ruolo dell’Italia in Libia. Nonostante l’ambasciata italiana a Tripoli fu la prima a riaprire dopo il 2011, la concretezza politica di Roma è sempre mancata. Il dossier Libia, negli ultimi dieci anni, è stato trattato con insufficienza e forse anche con svogliatezza da una classe politica incapace di comprendere fino in fondo l’importanza strategica del Paese. E non solo per quanto riguarda l’immigrazione irregolare, ma soprattutto per l’energia, tema che oggi ritorna con prepotenza. Dopo il 2011, il peso dell’Italia nell’area è quasi nullo. A dimostrazione di ciò, solo nel 2015 furono rapiti 5 italiani, di cui due uccisi. A gennaio fu la volta del chirurgo ortopedico Ignazio Scaravilli, rilasciato poi a giugno dello stesso anno. A distanza di un mese, furono rapiti quattro operai della Bonatti, due dei quali in seguito morirono durante uno scontro a fuoco. Una pagina dolorosa per l’Italia, che non aveva aderenza su un territorio nel caos politico, in costante guerra civile e nel quale forte era la presenza di milizie jihadiste. Negli anni, i vari governi che si sono succeduti hanno fatto poco o niente per il Paese nordafricano, in alcuni casi lasciando che talune aziende italiane presenti provvedessero autonomamente alla sicurezza. Ma non solo.
L’emergenza immigrazione, poi divenuta europea, non è stata mai affrontata fino in fondo. L’illusione di risolvere il problema consegnando vecchie motovedette alla guardia costiera libica, ha solo peggiorato la situazione. Mentre altri Stati, come la Turchia e la Russia, garantivano presenza sul territorio, armi e supporto anche economico alle varie fazioni in campo. Un modo per dividere il Paese in aree di influenza non consentendo la presenza di un interlocutore unico e indipendente in grado di relazionarsi con la comunità internazionale. I motivi dell’assenteismo italiano sono da ricercare in molteplici motivazioni, che vanno dall’incapacità politica di prendere decisioni all’assenza di uomini sul territorio, fino al timore di un rigurgito colonialista che permea soprattutto taluni ambienti della sinistra moralista e buonista. E così, negli anni in Libia sono entrati e si sono messi comodi Paesi come la Russia e la Turchia. Ankara, in particolare, ha giocato e gioca un ruolo fondamentale con una presenza militare notevole. Adesso, dunque, è necessario riannodare i fili di questo travagliato rapporto a cominciare dalla dimostrazione di affidabilità, caratteristica fondamentale in ogni rapporto, e il posizionamento in uomini competenti in campo.
Bisignani boccia la campagna in Libia di Meloni: errori, l'Italia potrebbe uscirne indebolita. Luigi Bisignani su Il Tempo il 29 gennaio 2023
Caro direttore, con la «sua Africa» Giorgia Meloni rischia di perdere i punti sinora guadagnati con merito sulla scena internazionale. Il pasticciaccio brutto di Tripoli, per dirla alla Gadda, e le solite manovre sulle nomine sono infatti le prime crepe nel deep state intorno al capo del Governo. Quella che viene celebrata come una grande vittoria con la visita del premier italiano a Tripoli, rischia invece di trasformarsi nel primo clamoroso inciampo. È indubbio che l’accordo firmato tra Eni e la libica Noc (National Oil Corp) abbia il suo peso, essendo l’investimento singolo più importante (8 miliardi di dollari) per il settore degli idrocarburi libico dal rovesciamento del regime di Gheddafi nel 2011. Tuttavia Muhammad Aoun, ministro del Petrolio e del Gas nello scaduto governo di Tripoli, ha disertato la cerimonia ufficiale della firma, e addirittura si è scagliato contro il capo della Noc, Farhat Omar Bengdara contestando che non si sarebbe potuto negoziare né stringere accordi con Eni senza il via libera del Consiglio dei Ministri. Quindi ora il rischio è che quest’accordo possa diventare carta straccia, trascinando l’Eni e lo stesso nostro governo in un contenzioso legale dalle conseguenze imponderabili, sia sul piano delle forniture di gas che su quello dell’immigrazione. E qualora accadesse, l'Italia perderebbe il proprio - già ridimensionato - ruolo di mediazione nell’area mediterranea.
Meloni è stata accolta in Libia come una vera star, ma con uno strascico di polemiche nel mondo dei social musulmani per l’atteggiamento fuori dal protocollo del primo ministro, a cui è vietato anche solo toccare un ospite, per di più donna. Per tutta risposta, il governo della Cirenaica, riconosciuto dal Parlamento e guidato da Fathi Bashaga, del tutto ignorato da Meloni, poco dopo la firma ha deciso di denunciare all’autorità giudiziaria il memorandum d’intesa, come motivato nell’atto d’accusa: «Il governo uscente di Tripoli non è qualificato a firmare accordi in conformità con gli accordi politici internazionali siglati a Ginevra sotto gli auspici delle Nazioni Unite, per di più in un contesto in cui si aumenta la quota del partner estero e si riduce quella del partner nazionale». Beghe legali quindi, che si sommano ai problemi di sicurezza interna in un paese dove tutti gli operatori petroliferi presenti in loco ben ne conoscono le dimensioni. Inoltre, i vecchi pozzi libici sono in grosso declino e richiederebbero consistenti investimenti, mentre i primi pozzi nuovi potranno entrare in funzione solo fra non meno di cinque anni, a nazione pacificata. Sebbene la sede amministrativa della Noc sia a Tripoli, dove è stata allestita in pompa magna la cerimonia della firma, la maggior parte dei pozzi sono invece in Cirenaica e nel Fezan, dunque fuori dal territorio controllato dalle milizie del premier uscente Abdelhamid Dbeibah. Ma, per le conseguenze negative che può avere questo protocollo d’intesa sull’immigrazione, va ricordato che anche il controllo dei confini e della maggior parte delle coste è sotto il controllo di Bengasi, come peraltro sa bene il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Basterebbe un cenno per scatenare l’inferno.
Il capo della Noc Bengdara, pare abbia preteso la presenza di Meloni alla firma, altrimenti avrebbe rinviato tutto a data da destinarsi. Ma chi ha suggerito al Presidente del Consiglio italiano questa trasferta libica «a metà»? E chi se ne assumerà la responsabilità, soprattutto dopo che i ministri degli Esteri arabi si sono rifiutati solo pochi giorni fa di ri-legittimare il governo uscente, boicottando a Tripoli il summit del Consiglio della Lega Araba, a cui hanno partecipato solo due dei ventun ministri che ne fanno parte? Pesantissime le assenze dei ministri degli Esteri delle monarchie del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, così come del segretario generale della Lega Araba Ahmed Aboul Gheit, che non riconosce più questo esecutivo. Tornando all’interrogativo su chi abbia suggerito al Premier la trasferta libica, sembra strano che la missione possa essere stata caldeggiata dall’Aise, il nostro servizio di sicurezza, guidato dal generale Gianni Caravelli, profondo conoscitore da sempre delle vicende libiche. Probabile quindi che a dare l’ok sia stato il DIS di Elisabetta Belloni o il ministero degli Esteri, che conta in loco su un ambasciatore modesto, Giuseppe Maria Buccino, ormai in uscita, e su un inviato, Nicola Orlando, totalmente ininfluente. E a proposito di ambasciatori uscenti, il governo dovrà anche decidere a breve, entro febbraio, la nomina del nuovo capo missione a Tripoli. Nella scarna lista di nomi, per un attimo è comparso anche quello di Nicola Orlando, poi subito rimosso vista l’esiguità della prestazione fino ad ora fornita. Il ruolo necessita infatti in un alto profilo di competenza, in grado di agire anche in autonomia e non solo a seguito della mail inviata da Roma. Più verosimilmente ad organizzare il blitz della Meloni è stata invece la stessa Eni, dove Descalzi è in corsa per il quarto agognato rinnovo e che a rafforzare la sua posizione ha richiamato accanto a se uno dei Rasputin di Draghi, Antonio Funiciello.
Eccitata dal cosiddetto nuovo «piano Mattei», Meloni si è buttata a capofitto in Africa con l’entusiasmo e la grinta che le appartiene per poi farsi prendere dalla sindrome delle strutture consolidate, affidandosi a interessi abilissimi a imbastire teatrini e slogan che però poi lasciano i problemi a chi ha il mandato per governare veramente. A non credere nel «piano Mattei», che funziona in realtà solo in Algeria, sono soprattutto francesi e spagnoli, che hanno appena firmato un trattato bilaterale molto robusto. Quanto al gas dall’Algeria, in drastico declino, è diventato come le mucche di Mussolini: viene spostato avanti e indietro. L’aumento delle importazioni dall’Algeria venne annunciato dall’allora ministro Cingolani e dall’Ad di Eni a giugno 2022, suggellato da una visita di Stato di Draghi a luglio e ribadito in un «inutile» accordo siglato pochi giorni fa. Nel frattempo, l’Algeria ha comprato 7,2 miliardi di euro di armi dalla Russia, ha chiesto l’adesione al blocco economico Brics, ha effettuato esercitazioni militari congiunte con le truppe russe ai confini con il Marocco, ha chiuso l’unica radio indipendente (Radio M), arrestando il giornalista Ihsane El Kadi. Scelte politiche che hanno provocato la reazione di ben 26 senatori americani che, in una lettera indirizzata al Segretario di Stato, hanno affermato che «le relazioni dell’Algeria con la Russia sono una minaccia per ogni nazione del mondo».
Ma se il gas è protagonista sullo scenario internazionale, in Italia è tutto un fuoco e fiamme sul rinnovo delle nomine. L’ultima news, in attesa di sapere se Flavio Cattaneo, sponsor La Russa, voglia o meno essere della partita, riguarda Alessandro Profumo che, contravvenendo alle direttive del Mef, vorrebbe spostare, per le sue dolorose scadenze giudiziarie, l’assemblea di Leonardo a maggio inoltrato. Riuscirà il suo principale protettore, il commissario Ue Paolo Gentiloni, a difenderlo ancora, così come ha fatto per conservare la cadrega al Demanio dell’amata cognata Alessandra Dal Verme? Giorgetti, almeno questa volta, pare abbia detto un secco no. E così mr. Arrogance prepara gli scatoloni. Dopo Alessandro Rivera, fuori un altro.
Polveriera lacerata da appetiti interni ed esterni. Ernesto Ferrante su L’Identità il 27 Gennaio 2023
La Libia è una polveriera territorialmente divisa fra due governi rivali. La situazione resta instabile e manca una vera strategia multidimensionale che possa condurre il Paese ad elezioni libere, pacifiche e democratiche. Le ultime consultazioni nazionali risalgono al 2014. Gli interessi e gli appetiti dei vari attori stranieri interessati creano continuamente nuovi fronti di scontro locali.
La capitale Tripoli ed il nord ovest del paese sono controllati dal Governo di unità nazionale. Il governo di Tripoli è riconosciuto a livello internazionale e occupa il seggio della Libia alle Nazioni Unite e all’Unione africana, ma è lacerato al suo interno. Il primo ministro Abdul Hamid Dbeibah è un “pontiere” poco carismatico scelto per mantenere gli equilibri tra le milizie islamiste di Tripoli e Misurata e gli interessi economici delle reti clientelari dell’ovest.
L’est del paese e la fascia centrale, formalmente sotto il controllo della Camera dei Rappresentanti e del governo parallelo guidato da Fathi Bashagha, sono di fatto governati dal generale Khalifa Haftar. Il governo “tripolino” gode dell’appoggio militare della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Haftar può contare invece sul sostegno di Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti.
Qualcuno, semplificando, parla di un conflitto di matrice islamista interno a Misurata, data la provenienza sia di Bashagha che di Dbeibah. Lo stesso Esercito nazionale libico dell’autoritario generale può annoverare diversi battaglioni salafiti.
La Libia è un “petrostato”, se si considera che nel 2021 i proventi dell’oro nero hanno rappresentato il 98% delle entrate pubbliche, secondo dati forniti dalla Banca centrale della Libia. Le autorità di Tripoli controllano la compagnia petrolifera nazionale, la National Oil Corporation (Noc), e la Banca centrale, e incassano tutti i proventi della produzione di idrocarburi. I tentacoli delle forze di Haftar si allungano sull’intera “mezzaluna del petrolio” nell’est e sui cinque porti petroliferi di Es Sider, Ras Lanuf, Zueitina, Hariga e Brega.
Haftar non può vendere il petrolio direttamente sui mercati internazionali ma può bloccare fino a tre quarti della produzione e delle esportazioni come ha già fatto più volte per ricattare il governo di Tripoli e costringerlo a riconoscergli una fetta abbondante della torta. Solidi anche i legami con gli Emirati Arabi Uniti, che hanno favorito l’ascesa di Farhat Bengdara al vertice della Noc nel luglio 2022.
Negli ultimi anni di Gheddafi, la Libia produceva 1,6 milioni di barili di petrolio al giorno. La produzione attuale si attesta invece intorno agli 1,2 milioni di barili. Dal 2004 esporta anche gas all’Italia attraverso il gasdotto GreenStream, di proprietà di Eni e Noc. La maggior parte della produzione di gas libico tuttavia è destinata al mercato domestico per produrre elettricità e alimentare le raffinerie di petrolio e l’industria dei fertilizzanti. L’Eni rimane la prima compagnia internazionale per investimenti.
La stabilizzazione è priorità strategica non solo per l’Italia ma per gran parte dell’Europa. Con le faide intestine non può esserci una gestione efficace dei flussi migratori e la necessaria sicurezza che possa garantire approvvigionamenti energetici regolari. Solo con un governo legittimato e coeso, potrebbe essere condotta una guerra a tutto campo per debellare le organizzazioni criminali che dissanguano tanti territori.
Quella del ritorno alle urne con le necessarie garanzie è l’unica ricetta per restituire dignità e valore ad un processo politico partecipato in cui i cittadini non credono più. Anche se c’è da vincere la resistenza dei “capi” interni e delle potenze straniere che puntano a posticiparla ulteriormente per consolidare nel frattempo il rispettivo potere politico e le reti affaristiche costruite.
Sotto accusa anche da parte dell'Onu. L’incontro segreto di Tripoli tra governo italiano e lestofanti libici. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 13 Gennaio 2023
Dovevano preparare una missione top secret, i membri della delegazione del Ministero degli Interni volati a Tripoli lo scorso 3 gennaio. Una delegazione guidata dal capo della Polizia, il prefetto Lamberto Giannini, e dal Direttore dell’Aise, il generale Giovanni Caravelli. Il più alto rappresentante dei servizi di intelligence all’estero non va se non per questioni di primaria importanza. E muovendosi in gran segreto. Ma qualcosa è andato storto: i libici tradiscono il patto di riservatezza e fanno irrompere un fotografo nel bel mezzo della riunione. Due agenti italiani, al comparire del fotografo, hanno avuto la prontezza di voltarsi di schiena. Ma la frittata è fatta e i libici rendono pubblico l’incontro.
Alessandro Scipione è responsabile del desk Nord Africa e Medio Oriente dell’agenzia Nova. Produce da Roma un notiziario in arabo che tiene conto anche delle notizie locali. È lui che il 3 gennaio scorso riceve da Tripoli una segnalazione. Una nota che ai libici serve far uscire dal paese: devono accreditare il raffazzonato governo di unità nazionale e la visita delle massime autorità del Viminale è affare sin troppo ghiotto. Oggetto della riunione? La visita di Stato del Ministro Matteo Piantedosi in Libia, già nell’immediato. E con ogni probabilità anche quella della premier Giorgia Meloni, che ha già messo nell’agenda dei desiderata, dopo Baghdad, e le preannunciate Kiev e Algeri, anche Tripoli. Per la quale è al lavoro anche la Farnesina. Il Ministro Antonio Tajani ha messo in agenda di recarsi a Tunisi.
Il “Piano Mattei” è ambizioso, partirà dall’Algeria e si estenderà a Libia e Tunisia. Punta a ricucire i Paesi del Maghreb nella cerchia degli amici nel duplice scambio che vuole il governo: più gas e meno migranti. E poi c’è qualche tensione da tenere sotto controllo. In Libia è andato negli stessi giorni anche il generale Figliuolo, con la rimodulazione della missione di sanità militare Miasit. La contestazione della popolazione di Misurata è vibrante, il permanere di una missione militare italiana con oltre trecento effettivi inizia a essere mal tollerata. E forse le pressioni turche, che hanno messo l’occhio sulla possibilità di installare una base militare a Misurata, hanno esercitato un qualche peso sul malcontento dei civili. Ecco che il personaggio centrale dell’incontro della delegazione italiana diventa preziosissimo. Quasi da blandire. O per lo meno da perdonare, per certi eccessi di pubblicità. Stiamo parlando del leader delle milizie armata di Zintan, Emad Trebelsi (o Imad Trabelsi, secondo altre traslitterazioni).
È lui l’uomo che il capo della polizia e il direttore dell’Aise hanno incontrato. Di recente è stato nominato ministro dell’Interno dal primo ministro Dbeibah malgrado le resistenze internazionali e gli imbarazzi dei servizi di intelligence. È lui a diramare il comunicato con cui si certifica l’avvenuto vertice, che ha “discusso le prospettive di una cooperazione congiunta in materia di sicurezza tra Libia e Italia, e sono state scambiate visioni e strategie sul contrasto al fenomeno dell’immigrazione irregolare come fenomeno che a carattere non solo nazionale, ma regione e internazionale”. Emad Trebelsi, da parte sua, avrebbe “espresso la profondità del rapporto libico-italiano, passando in rassegna i piani di sicurezza relativi al fascicolo dell’immigrazione clandestina e le ricadute che ne derivano, illustrandone obiettivi ed elementi, oltre a sottolineare la formazione di un comitato che lavori per attuare gli assi di questo piano, secondo il ministero libico”. Al termine dell’incontro sarebbe stato concordato di formare una squadra simile da parte italiana in preparazione allo svolgimento di un incontro tecnico tra le due parti che rafforzerebbe la cooperazione congiunta e attiverebbe il lavoro bilaterale tra i due Paesi. Peccato che gli analisti, al nome di Emad Trebelsi, abbiano avuto un sussulto.
Gli esperti Onu hanno relazionato sulle attività pregresse dell’attuale ministro degli Interni di Tripoli: aveva imposto “un tariffario per i transiti sul suo territorio dai quali lucrava 3600 dollari per ogni autocisterna di prodotti petroliferi contrabbandati attraverso i posti di blocco sotto il suo controllo nel nord-ovest della Libia”, si legge nel documento. Quando Trebelsi, allora sceriffo locale, ricevette un primo incarico di governo, diventando sottosegretario agli Interni, il capo della Commissione nazionale per i diritti umani in Libia (Nchrl), Ahmed Hamza, protestò con il premier Dbeibah affermando che l’uomo dei clan di Zintan «è uno dei peggiori violatori dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale in Libia». Il suo nome ricorre in più blacklist, inclusa una un po’ datata – ma di fonte Cia – che ricorda come fino a qualche anno fa le milizie ribelli venivano associate a Al Qaeda nelle aree periferiche meridionali della Libia. Un impresentabile, si direbbe alle nostre latitudini. Ma non per il Viminale. Senza incontrarlo, e senza farsi fotografare, anche il capo della Cia, William Joseph Burns, era ieri in visita a Tripoli. Nella capitale ha incontrato il premier Dbeibah e poi Haftar a Bengasi. In previsione di una possibile “criticità forte” in Russia, che potrebbe determinare lo stop del gas, la Libia e il Nord Africa tornano essenziali.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Valeria D'Autilia per “la Stampa” il 5 gennaio 2023.
I loro compagni di viaggio li hanno riconosciuti immediatamente. Imad e Ahmed sono due star del calcio siriano, finiti sul barcone dei disperati. La loro famiglia ha pagato 7 mila dollari con la speranza di metterli in salvo. Affinché non facessero la fine di altri ragazzi, uccisi per non aver dato soldi ai trafficanti libici. Come quel giovane, giustiziato sotto ai loro occhi. «Sono stato ricoperto dal suo sangue» ha raccontato uno dei due fratelli.
Imad e Ahmed, nomi di fantasia per rispetto di certe storie dolorose, vivevano nei campi di rifugiati palestinesi in Siria, lì dove sono nati. Famosi per il loro essere talentuosi, discriminati per le loro origini. Sono arrivati in Italia insieme, a bordo della Geo Barents sbarcata ieri al porto di Taranto con il suo carico di umanità: 85 migranti tra cui 9 minori non accompagnati. Sono quasi tutti uomini e giovanissimi.
Alcuni erano su un barchino che si era capovolto il primo giorno del mese, gli altri erano stati soccorsi da un mercantile e, lunedì, trasferiti sulla nave di Medici Senza Frontiere. Tutti in salvo, prima dell'entrata in vigore del nuovo decreto sicurezza. Nei loro sguardi e nelle ferite il segno indelebile delle sevizie subite. «Vengono violentati e torturati dai loro carcerieri, spesso ripresi con dei video che mandano alle famiglie per chiedere in cambio denaro.
A volte li torturano in diretta con delle videochiamate su WhatsApp o Messenger per costringerli a pagare». Riad è un mediatore ed era sulla Geo Barents. Tutte le volte raccoglie testimonianze diverse, con in comune le torture e la promessa di un futuro migliore. «Un lavoro in Libia o in Europa, poi- appena arrivano in aeroporto da Paesi come Siria, Pakistan, Egitto - ad attenderli c'è l'autista che li vende ai trafficanti o alle milizie libiche». Chi non ha i soldi per il riscatto o per pagare il viaggio va eliminato. Chi sopravvive è costretto a salire sui barconi con la minaccia delle armi.
Nel frattempo, colpisce l'età: sono sempre più giovani. Syed è pakistano, ha perso una ventina di chili. Nelle foto che conserva sul suo cellulare sembra un'altra persona. In quelli che chiamano centri di detenzione spesso si resta a digiuno. Quando va bene, un tozzo di pane e, da bere, acqua salata. Chi non ha lesioni evidenti, è debilitato dalla prigionia. Stavolta, all'arrivo in Puglia, in 4 sono stati trasportati in ospedale, ma le loro condizioni non sono gravi.
Sulla nave di Medici Senza Frontiere si sono ritrovati anche altri due fratelli che viaggiavano da soli. Eman era disperato, pensava di aver perso sua sorella quando la piccola imbarcazione, soccorsa dalla Ong, si era capovolta. In mare aperto, nel cuore della notte. Invece lei si trovava sull'altro gommone: era stata tratta in salvo dal naufragio. Fulvia Conte ha coordinato i soccorsi. «In casi come questo occorre fare in fretta». Erano in balia del mare da tre giorni, qualcuno era caduto in acqua durante la traversata. Per tappare i buchi hanno usato i loro vestiti.
La Geo Barents è intervenuta su richiesta del Coordinamento del soccorso marittimo. Durante il salvataggio, il barcone con a bordo 41 persone si è capovolto. «In pochissimi istanti bisogna scegliere chi soccorrere prima, sulla base di chi sta combattendo tra la vita e la morte. In questi momenti, con un'occhiata veloce, si decide di procedere verso una persona per tirarla fuori dall'acqua e, nel frattempo, di lanciare un giubbotto di salvataggio a un'altra. A volte c'è il timore di non farcela. Anche l'altro giorno, pensavamo che qualcuno fosse affogato o disperso». Invece all'appello non mancava nessuno e così Eman ha potuto riabbracciare il suo pezzetto di famiglia.
La seconda operazione è stata più semplice: un trasbordo di 44 persone da un mercantile, sempre su richiesta delle autorità italiane. All'arrivo a Taranto, si erano ipotizzate sanzioni e il sequestro della nave per il nuovo «decreto Ong» che prevede l'autorizzazione delle autorità competenti e l'immediata richiesta del porto di sbarco da raggiungere in tempi rapidi. Ma il capo missione di Msf, Juan Matias Gil, era tranquillo: «Nessuna violazione».
I migranti, infatti, erano sulla nave prima dell'entrata in vigore del decreto. Approvato lo scorso 28 dicembre, ha efficacia dal 3 gennaio. «Il diritto internazionale non prevede che ci sia qualcuno che può fare il traghetto nel Mediterraneo e fare la spola per trasferire gente da una nazione all'altra» ha detto nelle ultime ore la presidente Meloni.
Per Gil, che promette di «continuare a salvare vite», questa strategia del Governo ha l'obiettivo di «ostacolare i soccorsi delle Ong e fa aumentare il rischio di morte». Intanto Fulvia e il resto dell'equipaggio sono pronti per un'altra missione umanitaria. La nave è già ripartita, in viaggio verso il Mediterraneo.
Cosa succede in Africa.
Perché sui media africani non si parla mai dell'emergenza migranti. In pochi dall'altra parte del Mediterraneo sembrano dare rilevanza all'emergenza sbarchi nel nostro Paese e non solo perché la regione è stata interessata di recente da importanti eventi calamitosi. Mauro Indelicato il 21 Settembre 2023 su Il Giornale.
L'emergenza Lampedusa sta avendo, in Italia così come in molte parti d'Europa, un'importante eco mediatica. Del resto, l'arrivo di migliaia di migranti nel giro di poche settimane preoccupa l'intero Vecchio continente e suscita non poche reazioni di rango politico. In Francia si sta procedendo a una sostanziale blindatura del confine, con tanto di elicotteri che sorvolano le aree poco distanti dalla frontiera di Ventimiglia. In Austria sono stati potenziati i controlli al Brennero.
Parigi schiera mezzi anti terrorismo e elicotteri: confini con l'Italia sempre più blindati
Ma l'emergenza è percepita come tale anche nei Paesi di origine e di transito dei flussi migratori? Per la verità, dall'altra parte del Mediterraneo di Lampedusa se n'è parlato ben poco. Complice il ciclone Daniel e la sua profonda scia di morte e distruzione lasciata in Libia. Ma non solo: l'impressione, spulciando i media nordafricani e sub-sahariani, è che l'argomento non venga considerato di primo piano. Sono stati altri i temi trattati: dal golpe in Niger agli scontri di Tripoli, passando per notizie di rango economico che sembrano interessare molto soprattutto in Africa occidentale. L'esodo verso Lampedusa, in poche parole, viene percepito come un affare lontano e non di propria pertinenza.
Come viene raccontata l'emergenza Lampedusa in Tunisia
Aprendo un quotidiano tunisino negli ultimi giorni è possibile imbattersi in diverse notizie relative al meteo. Il disastro nella vicina Libia ha lasciato tracce e preoccupazioni in tutto il nord Africa e la gente segue da vicino le evoluzioni meteorologiche. Per scovare notizie sull'immigrazione bisogna cercare parecchio e spesso, tra i vari giorni e siti locali, non si trova nulla. Poche tracce dell'emergenza in corso a Lampedusa, così come sono scarne le ultime novità sulle attività di contrasto ai trafficanti.
“I telegiornali – conferma ai microfoni de IlGiornale.it Giorgia, una ragazza italiana che lavora a Tunisi – hanno fatto vedere qualche immagine da Lampedusa e poco più. La notizia non ha aperto di recente alcuna edizione e questo anche prima del passaggio del ciclone Daniel dalla Libia”. Nei servizi, ha ribadito ancora la giovane, è stato specificato che i numeri degli sbarchi a Lampedusa sono in notevole aumento e che questo rischia di creare problemi politici tra l'Italia e l'Europa.
“Senza dubbio di quanto sta accadendo a pochi chilometri da qui si è parlato – conclude Giorgia – ma ovviamente non si è dato lo stesso risalto visto in Italia”. E questo non sembra sorprendere più di tanto. Di immigrazione in Tunisia si parla soprattutto quando la questione tocca da vicino il Paese nordafricano. Quando cioè i migranti arrivano in territorio tunisino dall'Africa subsahariana. Il presidente Kais Saied a febbraio ha dichiarato che la presenza di irregolari è una minaccia per la Tunisia, anche da un punto di vista identitario. “Vogliono cancellare – ha detto in più occasioni – la nostra identità araba”.
L'urlo del leader tunisino: "Via gli immigrati irregolari"
A Sfax a luglio forti tensioni sono esplose per strada, con vere e proprie risse tra tunisini e migranti subsahariani in pieno centro. C'è anche scappato il morto e da allora il governo ha promesso un giro di vite per facilitare le espulsioni. Ogni tanto viene data notizia di operazioni volte a fermare i barconi in partenza oppure a trattenere migranti visti girovagare per strada. Quando però i barconi partono, la notizia diventa di secondo piano.
Poco interesse verso gli sbarchi
“Il discorso è che in Africa il problema degli sbarchi in Italia non è percepito allo stesso modo che da voi”, confida un giornalista di un quotidiano egiziano. La tematica interessa, ma solo fino a un certo punto. Se l'Italia o l'Europa subiscono continui approdi di barconi, il problema non è visto come prioritario.
Anzi, molti commentatori temono di dover vedere diventare i propri Paesi dei campi profughi per migranti non voluti dall'Europa. Oppure ancora di dover agire come guardiani delle frontiere europee. Lo si è letto, ha rimarcato il collega egiziano, in molti editoriali di diversi quotidiani nordafricani. Non solo in Egitto, Paese comunque solo marginalmente coinvolto dal fenomeno delle partenze dei barconi, ma anche in Libia, in Tunisia e in Algeria.
Un'opinione sempre più diffusa negli ultimi anni, in virtù del fatto che buona parte di coloro che raggiungono l'Europa non ha origine magrebina bensì subsahariana. E dunque, in poche parole, per i Paesi della sponda africana del Mediterraneo il vero problema non è quando i migranti vanno verso nord e verso l'Italia, ma trovare un modo per riportarli nei propri Paesi di origine. Anche questo è un elemento che spiega il perché del poco interesse verso gli sbarchi. Il problema di Lampedusa rimane italiano ed europeo. I problemi in nord Africa legati all'immigrazione sono percepiti tali solo in caso di disordini a Sfax, a Tripoli, nelle aree attorno Ceuta e Melilla e in altre zone di transito e partenza dei migranti.
Le preoccupazioni politiche nel Sahel
A questo punto sorge spontaneo chiedersi se a sud del Sahara quanto sta avvenendo in Italia sia o meno preso in considerazione. LeFaso.net, quotidiano del Burkina Faso, apre da giorni con la notizia del via libera del locale parlamento all'alleanza con Mali e Niger. La questioni legate proprio al golpe nigerino hanno preso il sopravvento. In diversi articoli, è stato messo in risalto il nuovo corso politico nel Sahel, così come il timore di un intervento esterno tanto in Burkina Faso quanto a Bamako e Niamey volto a destabilizzare la situazione.
I recenti scontri nel Mali tra forze regolari e tuareg ha fatto ulteriormente focalizzare l'attenzione sul possibile braccio di ferro con l'Ecowas, con la Francia e con altri Paesi occidentali. Di Lampedusa non c'è traccia. Vale per il Burkina Faso, così come per la stampa degli altri Paesi dell'area del Sahel.
Dal Niger al Burkina Faso: la lunga crisi dell’Africa che apre le porte a Putin e Xi (ed è un allarme per l’Europa). Terremoto geopolitico. Un altro colpo alla Francia, ma con i migranti anche noi paghiamo il prezzo. Roberto Fabbri il 31 Agosto 2023 su Il Giornale.
Quello messo a segno ieri in Gabon è il settimo colpo di Stato nell’Africa occidentale in soli tre anni (l’ottavo se si include la transizione avvenuta in Ciad, grazie al sostegno dei militari). Eppure, i golpisti in divisa che hanno preso il potere in una capitale che si chiama – ironicamente – Libreville sembrano avere poco in comune con quelli che hanno scalzato presidenti più o meno democraticamente eletti in Mali (due volte, nel 2020 e ’21), Guinea, Burkina Faso (due volte nel 2022) e il mese scorso nel Niger.
Infatti, nel caso del Gabon, non sembra di assistere a un putsch orchestrato con l’intervento esterno di potenze ostili all’Occidente come la Russia e – più indirettamente – la Cina. Qui i militari hanno agito sull’onda dell’esasperazione popolare dopo la diffusione di risultati elettorali che proclamavano vincente per l’ennesima volta in oltre mezzo secolo un membro della famiglia (ma sarebbe meglio dire: dinastia) Bongo. Una dinastia che, nel classico cliché delle satrapie postcoloniali africane, lascia nella miseria gran parte della popolazione, riservando all’élite al potere la gran parte degli enormi proventi dell’estrazione di ricchezze naturali come petrolio, gas naturale, diamanti, metalli e legname pregiato.
In pratica, anche se al momento è tutt’altro che chiaro chi sia il nuovo autoproclamato padrone del Paese, al popolino va benissimo essersi liberato di quelli vecchi, ormai odiatissimi.
Nessuno sa dunque come la nuova giunta (ammesso che sia in grado di stabilizzarsi al potere e che l’appello di Ali Bongo «agli amici di tutto il mondo» a «fare rumore» in suo sostegno non produca l’effetto di rimetterlo in sella) collocherà il Gabon a livello internazionale: per ora c’è solo la certezza dell’instabilità e non è cosa da poco. Perché si tratta comunque di un altro colpo inferto alla presenza francese in Africa occidentale, con il presidente Macron che già fatica a gestire un tracollo J storico in una regione che era appartenuta all’impero di Parigi fino a sessant’anni fa e che in seguito aveva continuato a esistere sotto mentite spoglie come «Françafrique», quella collezione di Stati africani deboli e corrotti in cui la Francia era abituata ad agire come nel cortile di casa propria, controllando le economie locali a partire da una moneta legata alla sua (il Franco Cfa) e mantenendo sul posto contingenti militari pronti a garantire equilibri antichi e collaudati.
Sappiamo cosa sta succedendo adesso in Africa occidentale. Le nuove autocrazie, dal Mali in poi, scacciano i francesi e aprono le porte ai russi, mentre Bruxelles si limita a condannare. Fanno venire, al posto dei militari di Parigi, i miliziani della Wagner ad aiutarli a combattere il terrore islamista e soprattutto a puntellare il loro potere illegittimo: a Putin – così come ai cinesi e diversamente dagli europei e dagli americani – nulla importa dei valori democratici dei suoi alleati africani, non pretende che si tengano inutili elezioni e incoraggia traffici di materie prime e armi che arricchiscono i satrapi locali e permettono a lui di aggirare le sanzioni occidentali imposte a Mosca per l’aggressione all’Ucraina. I popoli locali, che detestano tuttora gli ex colonialisti francesi, godono nel vedere scacciati questi ultimi e si bevono volentieri la falsa retorica della Russia erede dell’anticolonialismo d’epoca sovietica, «amico dei popoli oppressi del Terzo Mondo».
Il prezzo di questi terremoti geopolitici, però, lo paghiamo pure noi italiani. Alla Russia fa comodo destabilizzarci anche facendo arrivare masse di migranti sulle coste nordafricane, che alimentano traffici umani la cui ricaduta è disastrosa sul nostro equilibrio economico, sociale e – in ultima analisi – politico. Un’evidenza che ai putiniani di casa nostra, palesemente, sfugge.
Per il Cacao. C’è un’Africa che sfida le multinazionali del cacao: basta sfruttamento o vi cacciamo. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 18 gennaio 2023.
Da una parte l’Europa, il più grande consumatore al mondo di cioccolato, dall’altra l’Africa occidentale, il principale coltivatore delle fave di cacao. In mezzo il cioccolato, tema su cui entrambe le parti si scontrano da tempo nel tentativo di regolamentare su diversi fronti – principalmente sostenibilità e costi – un mercato che ad oggi penalizza chi il cacao lo produce. Come Ghana e Costa d’Avorio. Motivo per cui, dopo aver boicottato a ottobre la partecipazione all’evento del World Cocoa Foundation di Bruxelles, entrambi i Paesi hanno chiesto all’UE di mostrarsi concretamente intenzionata a rispettare gli impegni presi, pena il divieto di accedere alle piantagioni per fare previsioni sui raccolti e la sospensione dei programmi di sostenibilità. Scadenza: 20 novembre scorso.
Cos’è successo dopo quella data?
Nel concreto non molto. La Ivory Coast-Ghana Cocoa Initiative (CIGCI), un’organizzazione regionale nata nel 2018 con il fine di aumentare in modo sostenibile i guadagni percepiti dai coltivatori di cacao nei rispettivi paesi, ha riferito in un comunicato che “è stato preso atto degli sforzi compiuti da alcune aziende e della loro disponibilità a trovare insieme soluzioni per una produzione sostenibile di cacao che ponga i produttori al centro di questa strategia”. È fondamentalmente un inizio, anche se arrivati a questo punto il processo sarebbe dovuto essere già molto più avanti di così.
L’intenzione dei coltivatori è comunque quella di continuare a discutere per arrivare ad una soluzione, a sostegno della quale è stato istituito “un gruppo di lavoro di esperti composto da rappresentanti dei Paesi membri e degli stakeholder del settore del cacao per studiare soluzioni per meglio risolvere alcuni problemi e garantire un meccanismo di prezzo sostenibile nel lungo termine. Ci aspettiamo che il gruppo fornisca raccomandazioni entro il primo trimestre del 2023, con l’auspicio che tutte le parti interessate si impegnino in modo trasparente” a trovare un “compromesso intelligente“, come lo ha definito Patrick Achi, il Primo Ministro ivoriano.
È chiaro che non sarà facile, dal momento che le due parti coinvolte hanno interessi fondamentalmente diversi, seppur concatenati. Entrambe le parti vorrebbero che il settore del cioccolato fosse più sostenibile ed equo. Per i Paesi africani questo comporterebbe una riduzione dell’impiego di forza-lavoro minorile – l’unica che ad oggi molti agricoltori possono permettersi di pagare – e una diminuzione della pratica di deforestazione – che negli ultimi dieci anni ha distrutto in Africa 24mila chilometri quadrati di foresta – ad oggi portata avanti dai coltivatori di cacao per produrre quanta più materia prima possibile. Se quest’ultima invece venisse pagata di più, come chiedono Ghana e Costa d’Avorio, gli agricoltori potrebbero permettersi di produrre cacao in condizioni migliori. Il problema è che le multinazionali non sono disposte a spendere di più.
«Le aziende del cioccolato vogliono accumulare il massimo profitto, ma quando danno la priorità a questo aspetto, sono i poveri a soffrire. Devono capire che si tratta di sfruttamento e che deve finire», ha detto Kobenan Adjoumani Kouassi, Ministro dell’agricoltura della Costa d’Avorio ad Al-Jaazera. Infatti per il suo Paese la produzione di cacao rappresenta il 14% del PIL, coprendo il 45% della richiesta di fave di cacao del mondo, «ma riceve solo il 4% circa del valore annuo stimato dell’industria del cioccolato di 100 miliardi di dollari». Basti pensare che, secondo le stime del World Economic Forum, milioni di agricoltori di cacao guadagnano una media di 0,78 dollari al giorno. L’unica soluzione, per i due Paesi, è quella di aumentare il prezzo delle fave di cacao.
Un’esigenza comune che nel 2019 li ha spinti a creare un “cartello” – definito la OPEC del cacao – basato sul principio del Living Income Differential (LID): le aziende compratrici sono tenute a pagare una “tassa” di 400 euro in più per ogni tonnellata di cacao venduta, per coprire i costi di produzione. Anche se la reazione pubblica dei grandi marchi – tra cui – Ferrero, Lindt e Nestlé – è sembrata piuttosto positiva, in realtà le organizzazioni locali hanno invece dichiarato che le aziende hanno provato a ridurre ulteriormente il prezzo della materia prima, utilizzando altri escamotage. Episodi dopo i quali i due Paesi hanno deciso di agire come riportato all’inizio dell’articolo.
Se non si interviene con una regolamentazione messa per iscritto e che sia equa e condivisa da tutti i partecipanti coinvolti, il rischio è che si sviluppi un mercato parallelo ancora meno rispettoso dei diritti umani e dell’ambiente, che sfugga agli enti di controllo. Se da una parte alcune multinazionali del cioccolato stanno mostrando un certo interesse per il problema – come Mondelez, proprietaria di Côte d’Or e Toblerone che di recente ha detto di voler devolvere volontariamente 600 milioni di dollari alla causa ambientale e sociale dell’Africa occidentale – dall’altra le ONG dicono che le “donazioni” fatte di tanto in tanto non hanno l’impatto che l’Occidente crede di ottenere. Obbligare le aziende a pagare equamente i coltivatori, questo sì che potrebbe avercelo. [di Gloria Ferrari]
Gli ostaggi liberati a spese nostre.
Andrea Costantino è rientrato in Italia: «Emozione indescrivibile, è stata dura». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera 24 dicembre 2022.
L’imprenditore milanese era stato arrestato in un hotel di Dubai nel 2021 e, scarcerato nel 2022, si trovava all’ambasciata italiana di Abu Dhabi
Andrea Costantino, il trader milanese arrestato il 21 marzo dello scorso anno negli Emirati arabi, è stato liberato ed è rientrato in Italia. È successo questa notte, dopo che lo Stato italiano ha versato 270 mila euro al Paese arabo, la pena pecuniaria scontata alla quale era stato condannato (in origine si trattava di 550 mila euro) e il cui pagamento costituiva condizione minima indispensabile per lasciare Abu Dhabi. Costantino, che si è impegnato a restituire la somma allo Stato, è atterrato alle 3 di stamane a Malpensa, dove ad attenderlo c’erano la compagna Stefania e la figlia.
«È stata un’emozione indescrivibile, non riesco ancora a crederci, è successo tutto in breve tempo e fino all’ultimo non ho avuto certezze perché c’è stato un problema di conto corrente emiratino nel quale versare il denaro. È stata dura, restituirò i soldi versati per me dallo Stato italiano», sono state le prime parole di Costantino. Il trader, che commerciava in gasolio con i Paesi arabi, era stato accusato di aver favorito il terrorismo, accusa da lui sempre fermamente respinta. Arrestato in un hotel di Dubai, ha trascorso 14 mesi nel carcere di Al Whatba per poi essere trasferito in una dependance dell’ambasciata italiana di Abu Dhabi, dove è rimasto fino a questa notte. «La detenzione è stata più che orribile» ha dichiarato Costantino ricordando la detenzione in celle sovraffollate, i morsi dei topi, il cibo in terra.
«Ce l’ho fatta, sono tornato a casa alle sette di stamattina. Ancora adesso non ci credo. Rivedere in aeroporto dopo due anni mia moglie Stefania e mia figlia è stato qualcosa di indescrivibile».
L’imprenditore Andrea Costantino: «In cella ad Abu Dhabi tra cibo in terra e torture. I miliziani dell’Isis tentarono di uccidermi». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 27 Dicembre 2022
Costantino è rientrato in Italia dopo 21 mesi, dei quali 15 di carcere duro nel blocco dei terroristi: «Era l’inferno, incatenato e lasciato sotto il sole per 12 ore... Lo Stato ha pagato per me 270 mila euro, li restituirò»
«Era il primo maggio di quest’anno, la festa del sacrificio dopo la fine del Ramadan. Al termine di un’ispezione alle quattro del mattino, una delle tante in cui camminano sul cibo, ti mettono nudo e ti danno nuove tuniche bordate di rosso, due dell’Isis decidono che vogliono ammazzarmi, così, di colpo, perché sono cristiano e avevo pregato. I due mi saltano letteralmente addosso e per fortuna che intervengono due ragazzi yemeniti e un siriano a difendermi. Ho portato a casa la pelle per miracolo. Qualche giorno prima un altro dell’Isis mi voleva tagliare la testa…».
Andrea Costantino ha ancora negli occhi quelle brutalità: carcere di Al Wathba, Abu Dhabi, 15 mesi che non si dimenticano. Era entrato nel marzo del 2021 dopo essere stato arrestato in un hotel di Dubai, né è uscito il 30 maggio di quest’anno contestualmente alla condanna del tribunale degli Emirati Arabi a una pena pecuniaria di 540 mila euro per aver favorito il terrorismo. Poi Costantino, cinquantenne milanese, professione trader (commerciava prodotti petroliferi nel Paese arabo) ha trascorso oltre sei mesi in una dependance dell’ambasciata italiana di Abu Dhabi, fino all’antivigilia di Natale, quando è arrivata la lieta notizia: lo Stato italiano ha pagato, lui si è impegnato a restituire la somma ed è potuto rientrare in Italia. Ed eccolo, nel suo appartamento del centro di Milano, smagrito, capelli cortissimi, ancora scosso dalla lunga prigionia. Ci sono la compagna Stefania e la loro bimba che gli scorrazza intorno e ogni tanto si fa prendere in braccio e lo bacia.
Partiamo dalla fine: come si è arrivati a questa soluzione?
«Al cambio di governo in Italia gli Emirati Arabi hanno concesso uno sconto del 50% della pena pecuniaria. Rimanevano così 270 mila euro da pagare. Il dottor Vignali della Farnesina, che ringrazio per quel che ha fatto, ha trovato l’escamotage tecnico».
Com’è stato il rientro?
«Non mi sembra ancora vero, la mia famiglia, i figli, Milano, il Natale. Stefania è venuta con la bambina a prendermi a Malpensa. Stava dormendo, poi si è svegliata e non mi si è più scollata di dosso. Un’emozione indescrivibile. Dopo 21 mesi davvero duri, soprattutto il primo anno».
Il carcere?
«Era l’inferno: 14 detenuti in 16 metri quadri, il cibo te lo buttavano per terra, spedizione punitive organizzate dai capò, pestaggi... Una volta succede che faccio lo sciopero della fame per essere spostato dopo che i topi mi avevano morso e vengo punito: in manette con i piedi incatenati per 12 ore sotto il sole. Per non parlare delle sevizie fisiche e delle torture: ammanettato al pianale di un blindato con le bende agli occhi mentre loro si divertivano a frenare, sbandare, accelerare».
Lo Stato ha dunque anticipato la somma. Si sente ancora un cittadino di serie B?
«Adesso sono a casa ma a differenza degli altri prigionieri politici io devo pagarmi il riscatto e rimborsare la somma all’Agenzia delle Entrate, come da impegni presi. Sono stato trattato diversamente e se mi chiede le ragioni gliele dico: sono imprenditore, sono bianco, sono cattolico...».
Lei si considera prigioniero politico ma l’accusa parla di collaborazione con il terrorismo e di armi. Non crede che questo possa aver inciso?
«Come posso aver favorito il terrorismo con due carichi di gasolio venduti allo Yemen, perché di questo stiamo parlando, autorizzati dagli stessi Emirati? (nello Yemen era in corso la guerra civile nella quale intervenne anche Abu Dhabi contro gruppi considerati terroristici, ndr). Guardi: questo è l’articolo di legge che ha portato alla mia scarcerazione: “Interessi superiori dello Stato”».
Che farà ora?
«Devo ripartire da zero... vedremo, il mondo si sta spostando molto sull’energia verde... Il problema sono i soldi, perché per mettere in piedi qualsiasi attività devi averne e io in questo momento sono di fatto indigente. Mi hanno bloccato l’attività e confiscato tutti i conti, tenendosi il denaro. Non potevano farlo ma l’hanno fatto. Con quello che avevo avrei pagato senza problemi anche i 540 mila euro. Comunque, l’importante ora è essere qui».
Qualcosa di cui si pente?
«No, i carichi erano leciti».
Lei ringrazia Vignali, e il governo?
«Ringrazio Vignali ma anche Ramunno e l’ambasciatore Fanara della Farnesina. Devo riconoscere poi che Salvini si è dato molto da fare. La Meloni, che aveva promesso molto, un po’ meno».
Costantino: «Ecco come mi hanno liberato dalla prigionia ad Abu Dhabi» Carlo Cambi su Panorama il 24 Dicembre 2022.
Dopo oltre due anni, l'imprenditore Andrea Costantino, è rientrato stamani da Abu Dhabi dove era ostaggio «per motivi politici».
A Costantino: «Ecco come mi hanno liberato dalla prigionia ad Abu Dhabi» Panorama ha raccontato la sua storia
C’eravamo sentiti martedì 20 dicembre. Andrea Costantino era depresso: «Spero di tornare, ma non so quando anche se ormai sono al limite. Da due anni mi tengono in ostaggio qui ad Abu Dhabi per ragioni politiche, so che Matteo Salvini sta cercando di riportarmi a casa. Ho chiesto il miracolo di Natale, ma non ci spero».
Il resto lo raccontiamo nell’intervista che comparirà sul numero di Panorama di mercoledì 28 dicembre in edicola per conoscere la storia di questo ostaggio dimenticato. Una vicenda che si porta dietro moltissimi interrogativi e però ha una sola, felicissima certezza: Andrea Costantino, 50 anni, uno dei più dinamici trader di petrolio e gas, è da stamani di nuovo a Milano, è da stamani un uomo libero! La sua storia rischiava di finire nell’oblio. E’ cominciata con un processo senza fondamento giuridico. Le autorità degli Emirati Arabi Uniti lo accusavano di terrorismo perché aveva spedito un carico di greggio, autorizzato dagli stessi Emirati, in Yemen come aiuto umanitario. E’ seguito più di un anno di carcere in mezzo ai topi, poi una sorta di limbo. Dopo la visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad Abu Dhabi Costantino è stato scarcerato e si è rifugiato in uno sgabuzzino dell’ambasciata italiana, ma non aveva passaporto. Lo hanno infine condannato a una multa che però non poteva pagare lui, gli Emirati pretendevano un pagamento dallo Stato italiano. «Ho capito in quel momento di essere un ostaggio politico» - racconta ora – «e sapevo che senza un intervento politico non sarei mai più tornato». Si è messa in moto la macchina del sostegno, attraverso Radio Libertà sono stati lanciati appelli, è cominciato uno sciopero della fame, è partita una petizione. Il direttore di Radio Libertà Giulio Cainarca e il reporter Antonio D’Anna hanno iniziato collegamenti giornalieri con il «tugurio» dove viveva Andrea fino a ieri sera. Così la Lega si è convinta a passare all’azione. «Avevo chiesto al nostro ambasciatore il regalo di Natale. Il dottor Lorenzo Fanara mi ha detto: "ci proviamo, ma no ti prometto nulla". Lo so gli ho risposto. Eppure Cainarca e D’Anna mi dicevano che si stava studiando una soluzione, ma non pensavo che ci riuscissero. Quando ci siamo sentiti martedì – mi confida adesso quasi tra le lacrime Andrea Costantino – ero convinto che ci sarebbero voluti mesi». Invece tutto si è sbloccato in pochissimo tempo. Matteo Salvini è riuscito insieme al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a trovare un modo per pagare la famosa multa da un milione di dirham attraverso lo Stato che era condizione esiziale per la liberazione dell’ostaggio. E’ un prestito che l’Italia fa a Costantino che contrare un mutuo con lo Stato, ma il bonifico per gli Emirati parte dall’Italia. «Devo dirti che voi di Panorama mi avete portato fortuna. Avevo perso le speranze nonostante avessi chiesto all’ambasciatore che stava intervenendo alla conferenza dei nostri diplomatici il regalo di Natale. Ieri sera invece il dottor Fanara che è stato straordinario è venuto a bussare al mio rifugio insieme alla moglie; avevano tre bicchieri di vino. Mi hanno detto: Andrea brindiamo, sei libero. E’ arrivato il tuo passaporto, prendi il primo volo e torna a Milano». Dunque nessun Falcon della Repubblica? Ma lo sapevo che non ci sarebbe stato nessun Falcon: io sono un ostaggio di serie B. Sono bianco, cattolico, non sono di sinistra in più sono un imprenditore mica faccio notizia. Di me i giornaloni, le televisioni non hanno dato notizia. Quando l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio è venuto a Doha per l’Expo mica si è interessato a me. Di me non si sono occupati nessuno degli alti papaveri della Farnesina e del «cerchio magico» Paolo Gentiloni-Elisabetta Belloni-Federica Mogherini. Fortuna che se ne è data pena la Lega. Ma ora non m’importa più nulla. Avrò modo di riflettere e peraltro a voi di Panorama ho già detto molto. Alle 3 e 30 di stanotte ho preso il primo aereo per Malpensa e alle 7 sono atterrato. La prima cosa che ha fatto? Lo confesso: ho pianto quando ho visto le luci di Malpensa. E poi c’erano ad aspettarmi all’uscita come se stessi tornando da un viaggio qualsiasi Stefania la mia compagna e Bibola, la mia Agata che ha 5 anni e non la vedevo da oltre due. Mi hanno stretto forte e Bibola – sarebbe Agata - non mi lascia un minuto! Questa è la vita. E’ il più straordinario regalo di Natale che mi si potesse fare. Ringrazio Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, ringrazio i ragazzi di Radio Libertà e voi di Panorama. Ma è stata una liberazione improvvisa? Sì, assolutamente. Credo come succede nei sequestri di persona. So che c’è stato un intoppo nel versamento del milione di dirham perché era a nome mio e la banca che mi ha bloccato tutti i conti voleva trattenerlo. Poi quelli degli Emirati non sapevano su che conto versare i soldi perché non si aspettavano che il bonifico arrivasse, come loro avevano chiesto, dallo Stato italiano. So che il dottor Fanara ha parlato con tutti e per due notti di fila per rassicurare, per accelerare i permessi. Insomma è stato un grande alla fine è venuto con quel bicchiere di vino che profumava di libertà. E ora? Ora è festa, stasera ho tanti amici a cena, domani facciamo il pranzo di Natale; mi ha detto che passa anche il ministro Matteo Salvini a salutarmi. E poi rimetterò insieme i cocci. Mi godo gli abbraccioni della Bibola, il sorriso di Stefania. Ripenserò a questa storia, magari leggendo mercoledì Panorama. Ma avremo modo di riparlarne. Per ora, Buon Natale!.
Il Caso dei Marò & C.
I martiri di Nassiriya.
Gianmarco Bellini.
Latorre e Girone.
Estratto dell’articolo Francesco Grignetti per “La Stampa” lunedì 13 novembre 2023.
Il maresciallo dei carabinieri Riccardo Saccotelli aveva 28 anni il giorno in cui rimase ferito nell'attentato di Nassiriya. Si salvò per miracolo ma fu gravemente menomato all'udito dall'onda d'urto. È uno dei 19 sopravvissuti della base Maestrale. Uno di quelli che la politica ieri esaltava. […]
Eppure la Difesa sta schiacciando questo piccolo maresciallo che ha osato l'inosabile. Il maresciallo Saccotelli, infatti, non si è accontentato della verità ufficiale. Ha portato il generale Bruno Stano, che quel giorno in Iraq comandava il contingente italiano, in tribunale. Venti anni di cause.
Il tribunale di Roma gli ha riconosciuto un diritto al risarcimento. E però ora la Difesa sta facendo causa a lui: gli hanno revocato la cosiddetta «pensione privilegiata», rivogliono indietro i 24 mila euro che gli avevano concesso nel 2013 come «equo indennizzo» per le lesioni riportate, gli hanno addirittura ipotecato la casa.
Perché questo trattamento, Saccotelli?
«È un chiaro messaggio non verbale. Un trattamento persecutorio».
La Difesa le chiede davvero i soldi indietro?
«Sostengono che non ne avevo diritto. L'equo indennizzo è stato pagato ai famigliari dei commilitoni deceduti, non a noi sopravvissuti. Io ho fatto ricorso e c'è una causa in corso al tribunale di Gorizia. Intanto, tramite l'Agenzia delle Entrate, mi hanno ipotecato la casa senza aspettare che la causa si concluda. Per notificarmi un banale atto amministrativo come questo, l'Arma mi ha inserito nella banca-dati dei ricercati come fossi un delinquente».
Lei che ha fatto per meritarsi questo atteggiamento?
«Diciamo che ho rotto le scatole. Non mi sono accontentato della verità ufficiale sull'attentato. Loro sapevano che cosa si stava preparando e non hanno fatto niente».
Fa riferimento agli allarmi dei servizi segreti che nel 2003 furono sottovalutati?
«Esatto».
E quindi?
«Quindi ho fatto causa al generale Bruno Stano, che comandava il contingente. E di colpo le gerarchie militari si sono chiuse a riccio. Pensi solo che il generale, per evitare gli effetti della mia causa, è stato richiamato in servizio dall'ausiliaria, e in questo modo è stato impossibile pignorargli la liquidazione. […]».
Lei ha ricevuto un'onorificenza per Nassiriya?
«Sì, ma mi fa ridere, per non dire altro, che sia stata una onorificenza civile e non militare. La motivazione ufficiale è che ci trovavamo lì in missione di pace e non di guerra.
Però, tu guarda il caso, al mio comandante, il generale Gino Micale, hanno dato una medaglia all'Ordine militare d'Italia. […]».
Le hanno revocato anche la "pensione privilegiata". Di che cosa vive, maresciallo? «Di un assegno che si sono inventati con circolare interna, chiamato "assegno di attività", pari all'ultimo stipendio ricevuto vent'anni fa. Se avessi la pensione privilegiata incasserei almeno 1000 euro in più e altri benefici. La mia colpa è di non essere morto».
Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera” lunedì 13 novembre 2023.
«Dichiara di vivere ancora con i genitori, non ha un’occupazione». Yair Netanyahu viene sentito come testimone dai poliziotti che stanno indagando sul padre Benjamin, adesso sotto processo per corruzione. Il primogenito del capo di governo più longevo nella Storia di Israele – quasi sedici anni in totale – un’occupazione in realtà ce l’ha: è il consigliere ombra per le strategie mediatiche molto appariscenti del leader conservatore, è lui ad aver messo insieme gli ingranaggi della macchina digitale che il capo del Likud fa girare nelle campagne elettorali e non ha fermato neppure in questi giorni di campagna militare.
Da prima dell’estate Yair con i genitori nella residenza a Gerusalemme non vive più. Ad agosto era ospite a Puerto Rico di un miliardario delle criptovalute, questi 37 giorni di conflitto contro Hamas li sta passando invece a Miami, anche se a 32 anni sarebbe in età per arruolarsi con i riservisti, ha prestato il servizio obbligatorio nell’ufficio dei portavoce militari.
[…] Yair non si esprime nelle piazze più visibili (X, Instagram) ma usa il suo profilo Telegram per allontanare dal padre qualunque responsabilità legata al disastro del 7 ottobre e per cercare di addossarle ai vertici militari o dell’intelligence.
I giornali locali avevano rivelato in primavera che il genitore gli aveva suggerito di prendersi una lunga vacanza all’estero e di concederla anche agli israeliani sommersi da migliaia di suoi messaggi su varie piattaforme, silenzio stampa elettronico dopo una sparata contro il Dipartimento di Stato accusato dal più conosciuto dei fratelli — il minore Avner se ne sta ritirato — di manipolare le manifestazioni contro il piano giustizia anti-democratico portato avanti dalla coalizione di estrema destra.
Qualche suo intervento è già stato condannato per diffamazione: quando Benny Gantz stava all’opposizione e non sedeva ancora nel consiglio di guerra ristretto con papà, Yair ha diffuso il nome della donna che avrebbe dovuto essere l’amante dell’ex capo di Stato Maggiore e ha perso in tribunale. […]
Estratto dell’articolo di Manuela Dviri per “il Fatto quotidiano” lunedì 13 novembre 2023.
Psicologa infantile, terza moglie di Netanyahu, ex hostess, Sara ha conosciuto il futuro marito in aereo. Hanno due figli, Yair e Avner. Lui ha anche una figlia da un precedente matrimonio, ma Sara preferisce che i rapporti avvengano da lontano.
Si dice che esista tra i due un contratto (scritto, pare, dopo un tradimento di Bibi) secondo il quale lei avrebbe potuto partecipare a tutti i viaggi del premier, salendo e scendendo dalla scaletta tenendosi per mano, e che lui si sarebbe dovuto consigliare con lei nelle sue decisioni. E così è stato. […]
Ormai è cosa nota che chi non “passa” per Sara, non arriverà lontano. Dai ministri all’ultima delle segretarie. È nota per le sue scenate e le sue urla allo staff della residenza ufficiale, compresa, anni fa, la scarpa tirata a una governante. Ultimamente ha dovuto risarcire lo Stato per aver ordinato interi pasti a ristoranti pur avendo lo chef in residenza.
Ama lo champagne rosé, del quale siamo venuti a conoscenza attraverso il processo per corruzione frode e abuso di potere del marito. Non le dispiacciono i gioielli come regalo di compleanno.
[…] I Netanyahus sono da anni le star della trasmissione satirica “un paese meraviglioso”, lei nella parte della regina, il marito in quella del re, il figlio Yair Netanyahu in quella del principino viziato e nullafacente che vive in casa.
Se la madre è l’eminenza grigia, il giovane Netanyahu è l’occulto consigliere del padre. Estremista di destra, portatore di fake news, oggi si trova a Miami e certo non combatte alcuna guerra. E tutti e tre sono convinti che anche dopo continueranno a regnare. Ci stanno già lavorando. Ogni legge antidemocratica verrà usata a questo proposito. Ogni guerra. Il loro principale interesse non è il bene del Paese, ma il loro stesso bene.
Resteranno abbarbicati al potere fino all’ultimo momento, malgrado sappiano di essere odiati dalla maggioranza del loro stesso popolo. […]
Il maresciallo Saccottelli e quelle dimenticanze sui risarcimenti incassati. Al carabiniere indennizzo da 378mila euro, più 4.300 fissi. La cartella dell'Agenzia delle Entrate per un altro assegno della previdenza. Gian Micalessin il 14 Novembre 2023 su Il Giornale.
Anche gli eroi a volte dimenticano. È il caso di Riccardo Saccottelli, un maresciallo dei Carabinieri ferito a Nassiriya congedatosi nel 2005. Ieri il nostro direttore ne ha raccontato la vicenda in prima pagina chiedendosi le ragioni per cui lo Stato italiano gli avesse inviato, tramite Agenzia delle Entrate, una «comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria al fine di recuperare le somme erogate per equo indennizzo». Oggi il Giornale è in grado, attraverso le sue fonti alla Difesa, di spiegare i motivi di quella richiesta. Iniziamo dal 14 marzo 2005 quando Riccardo Saccottelli viene posto in congedo assoluto per «disturbo post traumatico da stress di grave entità» a seguito delle ferite subite e delle conseguenti ricadute psicologiche. Stando a quanto risulta a il Giornale nel periodo precedente e successivo al congedo il maresciallo incassa varie somme a titolo di risarcimento. La principale, pari a euro 210.690,79, è la speciale elargizione riconosciuta per legge alle «vittime del terrorismo». A quella s`aggiungono 117.509,35 euro riconosciutigli dai Lloyd`s di Londra, l`assicurazione con cui la Difesa aveva una convenzione per risarcire i militari vittime di infortuni o attentati durante le missioni all`estero.
Conseguentemente all`entrata in congedo la Cassa Sottufficiali gli versa un`indennità di buonuscita e liquidazione pari a euro 40.914,93. Nel frattempo sul conto del maresciallo arrivano 8.955,87 euro di sussidi per varie spese sanitarie. A questo gruzzolo, assolutamente legittimo e giustificato, di 378.075,94 euro s`accompagna il riconoscimento di una pensione privilegiata ordinaria di prima categoria (euro 2.767,60) e di un assegno vitalizio (euro 1.533) che gli garantiscono ogni mese un fisso di 4.300,60 euro. Gli incassi non finiscono qui. A un certo punto sul conto di Saccottelli arrivano 19.350,14 giratigli da Previmil (direzione generale della previdenza militare e della leva).
E qui iniziano i guai che spingono l`Agenzia delle Entrate a emettere per conto di Previmil la cartella di pagamento da 23.727 euro (19.350,14 euro + 4.377,36 di spese legali) ricevuta il 22 dicembre. Saccottelli incassando quella cifra «dimentica» di aver già beneficiato, a titolo di equo indennizzo, dei 117.509,35 euro pagatigli dai Lloyd`s di Londra. E continua a «dimenticarlo» anche dopo aver perso il ricorso amministrativo al Consiglio di Stato. Ricorso a cui si riferiscono i 4.377 euro di spese legali citate nella cartella. Queste «dimenticanze» s`accompagnano a un atteggiamento di rivalsa nei confronti dei vertici dell`Arma dei carabinieri. Saccottelli, assieme ad altri feriti e parenti dei caduti di Nassirya, pretende la condanna degli ufficiali accusati di aver scelto un posizionamento poco sicuro della base Maestrale e si è costituito parte civile nella causa contro di loro. Inoltre come altri superstiti di Nassirya invoca la concessione di una Medaglia d`Oro al valor militare e si rifiuta di ritirare la speciale «Croce d`onore per le vittime del terrorismo» istituita nel 2005. Scordando, anche qui che, per guadagnarsi una medaglia d`Oro non basta, per legge, morire o venire feriti, ma è indispensabile distinguersi per «un atto di ardimento che avrebbe potuto omettersi senza mancare al dovere e all`onore».
Non dimenticherò mai l'odore della morte". Gian Micalessin il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.
La mattina del 12 novembre 2003 una cisterna carica di esplosivo si lanciò contro la base Maestrale in Irak facendo 28 vittime, di cui 19 italiane. Il racconto del sopravvissuto: "Rivedo ancora quelle immagini"
Il camion della morte arriva alle 8.40. Avanza lentamente sulla strada ingolfata dal traffico, poi con uno scatto imbocca il viale che porta all'ingresso della base Maestrale. Dalla garitta di guardia l'appuntato dei carabinieri Andrea Filippa osserva la strana manovra di quella enorme cisterna. La segue con lo sguardo. La inquadra nel mirino della sua mitragliatrice. E mentre la motrice assassina prende velocità capisce, preme il grilletto.
La raffica uccide i due uomini in cabina, ma non ferma la macchina della morte. È un attimo. Pochi secondi dopo una palla di fuoco inghiotte Andrea e la garitta. Trasforma in scheletri di cemento le palazzine di base Maestrale. È la strage. Immane. Inaspettata. Tra le macerie ci sono i corpi straziati di 19 italiani e 9 iracheni. Tra i morti italiani si contano 12 carabinieri, 5 militari dell'esercito, e 2 civili, il cooperante Marco Becci e il regista Stefano Rolla arrivato sul posto per raccontare la ricostruzione di Nassiriya. E poi ci sono i feriti. Più di venti, straziati nelle carne, provati nell'animo da ferite che ben difficilmente rimargineranno. Un colpo ai carabinieri che hanno voluto insediarsi nel cuore di Nassiriya per esser più vicini alla popolazione. Un colpo alle nostre Forze Armate arrivate in Irak per contribuire alla stabilizzazione e alla pacificazione dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Un colpo all'Italia intera.
Ma il vero obbiettivo dei terroristi di Al Qaida, autori dell'attentato, è la coalizione internazionale chiamata a gestire il dopo Saddam. L'obbiettivo è tanto semplice quanto efficace. Nei piani di Al Qaida l'Italia è l'anello debole della coalizione, il Paese dove un attentato può scuotere le coscienze dell'opinione pubblica e spingerla a chiedere il ritiro della missione. Il che metterebbe a dura prova la credibilità della coalizione e innescherebbe altre defezioni.
Ma in quel tragico novembre di 20 anni fa l'Italia guidata dal governo di Silvio Berlusconi non molla. E soprattutto non molla la sua opinione pubblica. Gli italiani esterrefatti, ma composti, piangono quei morti, si stringono intorno alle proprie Forze Armate. Si riscoprono nazione come raramente sono stati. Ma chi è testimone di quella strage non dimentica l'orrore, il dramma, lo smarrimento di quella mattina di sangue.
«Quando siamo arrivati sul ponte ho incominciato a sentire quell'odore. Un tanfo dolciastro, un misto di carne bruciata e altri miasmi. Mi entrava nella gola, mi scendeva nei polmoni, mi torceva lo stomaco. Da quel giorno non se n'è mai più andato. Mi è rimasto dentro. Da quel 12 novembre quando respiro qualcosa di simile rivedo le immagini tornare». Così dieci anni fa Mattia Piras, caporal maggiore capo della brigata Sassari raccontava l'incontro con l'orrore di Nassiriya. Quel giorno aveva 24 anni. Lo scatto - pubblicato sopra - di Anja Niedringhaus, una fotografa tedesca morta 11 anni dopo in un attentato simile in Afghanistan, lo trasformò nel simbolo vivente della strage. Da allora e per sempre è il militare con una mano sull'elmetto ed il mitragliatore abbassato. Il militare che scruta impotente quel baratro davanti alle rovine spettrali della palazzina sventrata dal camion bomba è Mattia.
«Quella foto mi insegue - raccontò a Il Giornale -: quando me la scattarono pensavo al tenente Massimo Ficuciello e al maresciallo Silvio Olla. Erano i miei due compagni di scrivania dell'ufficio Pubblica Informazione. Quella mattina toccava a loro alzarsi presto e accompagnare ad Animal House il regista Stefano Rolla. Mentre la fotografa mi inquadrava scrutavo il baratro e pensavo ai loro volti. Sapevo già che non li avrei più rivisti. Sapevo che erano stati inghiottiti, triturati da quell'inferno nero. In quel momento facevo i conti con la loro morte. In quel momento respiravo l'orrore che m'invadeva lo stomaco e mi rovesciava le budella».
Nassiriya viaggio nella città che ci ha tradito Nassiriya nel 2003. Giovanni Porzio su Panorama il 12 Novembre 2023
Come Eravamo Da Panorama del 27 novembre 2003 «Movimento ore 6»: il parà del Tuscania che seguo nella missione di pattugliamento prende posizione al riparo di un muretto di pietra e punta il raggio laser del mitra verso la moschea. Solo le lampadine verdi del minareto e una debole falce di luna rischiarano la strada deserta. Si sentono alcuni colpi di fucile o di pistola. Vediamo uomini che imbracciano il kalashnikov correre a testa bassa e allontanarsi a bordo di un pick up.
«Movimento cessato». Possiamo avanzare dalla sponda dell'Eufrate in direzione del Saddam hospital, ribattezzato al-Jumhurriah, ospedale della repubblica, dove sono ancora ricoverati gli iracheni feriti nell'attentato terroristico del 12 novembre. Sono le 2 di una notte di ramadan e la città è immersa in un'oscurità quasi totale. Gli unici suoni sono i latrati dei cani randagi e i ragli degli asini. Attraversiamo miserabili quartieri addormentati: fogne a cielo aperto, mucchi di rifiuti, macerie di edifici crollati, pozze di putridi liquami e paludi di fango. Illuminata da un potente faro, la facciata di Animal House, la palazzina investita dall'esplosione che ha fatto strage dei nostri soldati, e che è poi stata saccheggiata da un'orda di famelici Ali Baba, è uno spettrale monumento all'11 settembre italiano: nel gigantesco cratere sono finite matasse di filo spinato, risme di carta, schegge di legno e frammenti di metallo contorto. «Movimento ore 3, non sparate»: è il pick up che si avvicina, questa volta scortato da un'auto della polizia. Sono miliziani di al-Dawa, il più antico partito islamico iracheno: danno la caccia a un furgone senza targa, segnalato nei paraggi. «Bisogna stare attenti» spiegano i carabinieri. «C'è molto nervosismo, non è agevole distinguere tra amici e nemici. E le forze dell'ordine locali hanno il grilletto facile». A Nassiriya, come a Baghdad e nel resto del paese, la sicurezza è l'incubo dei civili e dei militari della coalizione. Lo ripetono i leader religiosi e i capi delle tribù, i commercianti del bazar e i cittadini che al tramonto si barricano in casa rispettando la tacita consegna di un coprifuoco imposto dal pericolo costante di assalti, rapine a mano armata, attentati, sparatorie. Ogni giorno i 1.200 soldati italiani che battono a tappeto la provincia di Dhi Qar scoprono nuovi depositi di armi, munizioni ed esplosivi: lunedì la task force Dimonios del colonnello Angelo Mura ha sequestrato 22 lanciagranate Rpg-7 di fabbricazione russa e irachena. Erano interrati in un campo nei pressi del villaggio di al-Shatra. «E' evidente» dice il generale Bruno Stano, comandante della Brigata Sassari «che la nostra presenza sul territorio, finalizzata al ripristino delle condizioni di sicurezza necessarie per garantire la ricostruzione, non è gradita a chi punta sulla destabilizzazione». La guerriglia ha ampliato nelle ultime settimane il raggio delle operazioni: gli scontri a fuoco, le azioni terroristiche e gli agguati contro i militari occidentali si moltiplicano in tutte le province irachene, dal Kurdistan allo Shatt al-Arab, da Mosul a Bassora. E per la sua posizione strategica Nassiriya, che fino al 12 novembre i kamikaze della jihad avevano risparmiato, rischia di trasformarsi in uno dei fronti più caldi del dopo Saddam. Da Nassiriya passa la principale via di comunicazione tra la capitale e Bassora. A sud, oltre le paludi dell'Haur al-Hammar, in parte prosciugate da Saddam per stanare i ribelli sciiti, si estendono i giacimenti petroliferi del grande bacino peninsulare da cui pompano greggio anche il Kuwait e l'Arabia Saudita. L'Iran è a poco più di un centinaio di chilometri di distanza. E a poche ore di jeep corre il lunghissimo e incontrollato confine saudita: una frontiera incerta, mai definita con precisione sulle carte, attraversata da piste che s'inoltrano nelle propaggini settentrionali del temibile deserto del Nafud. Spiega Sayed Abady al-Batat, presidente del consiglio municipale di Nassiriya, il «sindaco» della città che, arrestato nel 1996, ha passato sette anni nella sinistra prigione di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad: «I terroristi che hanno ucciso gli italiani sono probabilmente venuti dall'estero. Nessuno è in grado di tenere sotto controllo i confini con la Siria, l'Iran, il Kuwait e soprattutto con l'Arabia Saudita. Non ci riescono gli americani, con i loro satelliti e la loro tecnologia, tanto meno noi, che non abbiamo neppure i mezzi di trasporto». Lungo le piste che da secoli percorrono i pastori nomadi con le greggi di pecore e cammelli transitano oggi i militanti di Al Qaeda e i mujaheddin arabi, confusi con i pellegrini diretti alle città sante di Kerbala e Najaf, travestiti da commercianti di bestiame o di elettrodomestici, aiutati dai contrabbandieri che, per una mazzetta di dollari, sono disposti a chiudere gli occhi e a non fare domande. Anche il sindaco, che dice di apprezzare i soldati italiani («Il loro è un compito tecnico, non politico: sono qui per garantire la nostra sicurezza»), ha parole durissime contro gli americani: «Hanno cacciato Saddam e questo ci sta bene. Ma se ne devono andare subito. Non accettiamo l'occupazione militare del nostro paese: se resteranno, li combatteremo armi in pugno. Tutti qui sono pronti a farlo». Identico l'atteggiamento dell'ayatollah Mohammed Baqr al-Nasri, che mi riceve nella piccola biblioteca di testi islamici attigua alla vecchia moschea nel centro storico di Nassiriya: «Il terrorismo è un'eredità di Saddam. Ma quando sono rientrato dall'esilio in Europa e in Iran, mi sono rifiutato di collaborare con gli americani. Nei 5 mila anni della nostra storia abbiamo sempre lottato contro gli oppressori e gli invasori stranieri. Vogliamo libertà e giustizia, non elicotteri e carri armati». Nassiriya conta più di 800 mila abitanti, quasi tutti sciiti di stretta osservanza religiosa: non c'è una sola donna che non indossi l'abaya imposta dalla tradizione, non c'è un negozio che venda una lattina di birra e non c'è una famiglia che non sia in lutto per la morte di un parente ucciso durante le sanguinose repressioni del regime nei primi anni Novanta. Ma ovunque, negli istituti coranici e nelle stazioni della polizia, nei vicoli del bazar e nei ristoranti che alle 5 della sera si riempiono per celebrare la rottura del quotidiano digiuno, si coglie un atteggiamento ambivalente, che oscilla tra la gratitudine e lo sconforto, la delusione e la rabbia. Nassiriya è l'unica città irachena dove i ragazzini e i lustrascarpe hanno imparato a salutarti con un «ciao». Ma la simpatia nei confronti degli italiani e il sincero dolore per la strage della scorsa settimana sono offuscati dal crescente risentimento verso le forze di occupazione. «Americani» è scritto sui muri e sui cartelli stradali della città «la vostra missione è finita: andatevene». Sulle porte e ai davanzali sono stesi i drappi neri con i nomi dei martiri di questa nuova guerra, nella quale la sottile distinzione tra «costruttori di pace» e nemici anglo-americani, sempre meno comprensibile alla gente, è stata forse definitivamente seppellita sotto le macerie di Animal House. Le critiche nei confronti degli italiani, anche se velate, del resto non mancano. «Devono aiutarci invece di sequestrarci le armi» afferma lo sceicco Ali Mohammed al-Munshid, capo della potente tribù dei Ghazi, seduto sotto una grande tenda beduina di fronte alla sua casa di campagna e circondato da notabili armati di pistole e fucili. Al-Munshid, che prima dell'attentato del 12 novembre aveva segnalato alla polizia la presenza di individui sospetti («Non un preciso avvertimento come hanno scritto alcuni giornali»), era entrato a Nassiriya in aprile con i tank americani e, dopo un breve periodo come governatore, è stato emarginato. «Qui, a differenza di Kerbala e Najaf, i religiosi non sono l'unico interlocutore: le tribù hanno conservato un ruolo importante ed è un errore non cercarne la collaborazione». Anche lo sceicco Abu Haidar, dirigente di spicco di al-Dawa, ha qualcosa da recriminare: i militari italiani hanno arrestato alcuni militanti armati del partito. «Così ci impediscono di lavorare» sostiene Abu Haidar, che organizza i comitati di sicurezza di quartiere in collaborazione con le milizie religiose. «Solo noi, che viviamo in mezzo alla gente, siamo in grado di svolgere un'efficace attività antiterroristica. Grazie a noi, a Bassora, due giorni fa è stato sventato un attentato: abbiamo bloccato due siriani e un poliziotto iracheno che stavano piazzando del tritolo sotto un ponte». La carenza di «humint» (human intelligence), che la stessa Cia ha riconosciuto e che sta cercando di colmare, è stata una delle cause dei molti errori compiuti dall'amministrazione Bush nella gestione del dopo Saddam. Gli informatori e gli infiltrati sono decisivi nella prevenzione degli atti terroristici in un ambiente di guerriglia generalizzata, in cui le rivendicazioni più o meno attendibili e le sigle dei movimenti armati si moltiplicano. Il comando italiano intensifica i rastrellamenti casa per casa, i pattugliamenti notturni, le incursioni nei villaggi e i posti di blocco, ma sta soprattutto operando per rafforzare il settore dell'intelligence. Nassiriya, infatti, pullula di individui sospetti. Nelle ultime settimane sono giunti in città, apparentemente senza motivo, numerosi wahabiti barbuti partiti da Ramadi, nel nord sunnita: tentano di spacciarsi per predicatori itineranti, ma la polizia non esclude un loro coinvolgimento nell'attentato contro gli italiani. Altri sunniti di nazionalità irachena sono arrivati da Falluja e da Tikrit, terra natale del deposto rais, alimentando le illazioni sul «patto scellerato» che i feddayin di Saddam avrebbero stretto con Al Qaeda e con gli integralisti sciiti del Sud. Da Najaf, dove lo sceicco fondamentalista Muqtada al-Sadr recluta i futuri martiri della guerra santa contro Bush, filtrano le cellule armate dell'esercito del Mahdi. E dal Kuwait e dall'Arabia Saudita proviene un flusso incessante di pachistani ufficialmente in cerca di lavoro. Alcuni di loro sono stati arrestati: nel loro bagaglio, insieme al Corano, sono state scoperte armi, confezioni di esplosivo e una foto di Osama Bin Laden.
Nassiriya fuoco amico in tribunale. Fausto Biloslavo su Panorama l'11 Novembre 2023
Come Eravamo Da Panorama del 6 maggio 2010 «Per me i feriti di Nassiriya sono 19, quelli rientrati in barella. Poi ne esistono altri che si dichiarano feriti e lanciano accuse sulla mancata sicurezza» sbotta l’ex brigadiere Cosimo Visconti. «Pensi che io, invalido al 100 per cento, mi sono sentito chiedere al telefono, da un ufficio governativo, se facevo parte dei feriti veri o di quelli finti». Carabiniere tutto d’un pezzo, a Visconti hanno dato due volte l’estrema unzione dopo l’attentato di Nassiriya del 12 novembre 2003. Una strage che ha ucciso 19 italiani (12 carabinieri, 5 militari dell’Esercito e 2 civili). Oltre ai 19 feriti gravi, ricoverati in ospedale, c’è chi è stato riformato, tempo dopo l’attentato, per stress post traumatico. Alcuni di questi carabinieri in congedo sono i più decisi nel sostenere che la base Maestrale, attaccata dai terroristi suicidi, non fosse adeguatamente protetta. Il 26 aprile si è chiusa la fase istruttoria del processo presso il tribunale militare di Roma contro il colonnello dell’Arma Georg Di Pauli, allora comandante della base. Fra il 19 e il 22 maggio ci saranno le arringhe finali e poi la sentenza. «Mi lecco le ferite e non mi sono costituito parte civile» sottolinea Visconti a Panorama. «Le insinuazioni e accuse su Nassiriya infangano noi che abbiamo subito lesioni gravissime e pure chi non c’è più». Non è l’unico a pensarla così. Il 12 marzo il luogotenente in congedo Vittorio De Rasis ha ricevuto, come gli altri militari feriti e familiari dei caduti della strage, una lettera del ministro della Difesa Ignazio La Russa. Il ministro informava che per legge aveva la facoltà di bloccare il processo contro Di Pauli (poi non l’ha fatto). E tastava il terreno sui definitivi risarcimenti per i lutti o le lesioni subite. De Rasis ha risposto a La Russa il 19 marzo: «Signor ministro, vorrei fare notare il comportamento di dubbia correttezza di alcuni miei colleghi». Il sopravvissuto alla strage, pur non facendo nomi, afferma che altri carabinieri feriti «al momento dell’attentato erano lontani dalla base Maestrale; terminata la missione Antica Babilonia (a Nassiriya, nda) hanno partecipato ad altre missioni; solo dopo tre anni si sono accorti di essere stati feriti e hanno ottenuto tutti i benefici di legge; si sono costituiti parte civile davanti alla magistratura militare e si sono sentiti gli unici depositari della verità circa l’attentato». De Rasis ricorda con Panorama che «siamo andati in Iraq sapendo i rischi che potevamo correre. Per proteggere la base contro un camion pieno di esplosivo ci voleva un muro di cemento armato spesso 8 metri». Il ferito grave punta il dito contro «chi non ha avuto neppure un graffio. Quando è saltato tutto, alcuni erano alla base Libeccio, dall’altra parte del fiume Eufrate, 100 metri in linea d’aria dalla palazzina colpita. Portavano i bagagli, perché stavano tornando a casa. Tempo dopo, in Italia, hanno accusato sintomi e disturbi ottenendo il congedo per stress post traumatico». Secondo l’ex carabiniere, che ha avuto il naso semi staccato dall’esplosione, alcuni suoi colleghi riformati «lanciano accuse sulla sicurezza della base che non esistono. E si sono costituiti parte civile. Qualcuno ci sta marciando». I carabinieri hanno avuto 19 feriti ospedalizzati, due dei quali con lesioni gravissime. Sette sono rimasti in servizio e 12 congedati. Altri 3 carabinieri hanno riportato ferite fisiche non così gravi da ricoverarli. In seguito sono stati congedati per la sindrome di stress post traumatico. Una lesione psicologica causata da un evento violento o catastrofico, che ha colpito molti soldati americani in Iraq impegnati in combattimenti feroci e ripetuti. I sintomi sono problemi a prendere sonno, scoppi di collera, difficoltà a concentrarsi. Otto carabinieri presenti a Nassiriya, che non hanno subito ferite fisiche, sono stati congedati solo per lo stress post traumatico saltato fuori a distanza di tempo dall’attentato. Può capitare, anche se due di loro vennero ritenuti abili, dopo la strage, per una missione in Bosnia e un’altra in Iraq. I 19 feriti ospedalizzati sono stati risarciti dall’assicurazione stipulata dalla Difesa, con i Lloyd’s di Londra, in proporzione all’invalidità. Non solo: ai 12 congedati per ferite gravi e agli 11 per stress è stata riconosciuta la speciale elargizione di 200 di 200 mila euro per le vittime del terrorismo. Oltre a un vitalizio di 1.553 euro e altri benefici. L’Arma ha assistito i feriti senza distinzioni. Però 13 carabinieri si sono costituiti parte civile nel processo militare sulla strage di Nassiriya. L’avvocato Enrico Donati ne difende due, compreso il più noto dal punto di visto mediatico, Giantullio Maniero. «Mi sembra una guerra fra poveri» sostiene il legale con Panorama. «I feriti hanno riportato conseguenze, alcuni più fisiche, altri più psicologiche. Tutto certificato da perizie medico-legali e commissioni militari». Maniero sostiene di avere subito ferite alla schiena, ma dopo l’Iraq è andato in Bosnia. Alla fine è stato congedato per lo stress. «Ho raccolto i brandelli di carne dei miei compagni a mani nude. Qualcosa che non si dimentica» dichiara a Panorama. «Se gli altri feriti accusano me, procederò per vie legali. Mi sembrano giudizi gratuiti». Fra i più presenti sui media, l’ex maresciallo dell’Arma si è costituito parte civile. «Sono un paladino della giustizia con la coscienza a posto. Ho perplessità sulla mancanza di responsabilità di Di Pauli, ma se verrà assolto fino alla Cassazione mi inchinerò di fronte alla sentenza». Ai familiari dei caduti nessun risarcimento porterà in vita i loro cari. «Conosco colleghi di mio marito rimasti feriti, che non hanno chiesto un euro in più. Qualcun altro, invece, si preoccupava perché aveva perso la catenina d’oro del battesimo». Parla con dolore Alessandra, vedova del sottotenente Filippo Merlino morto nell’attentato. I familiari di 9 caduti si sono costituiti parte civile. «Vogliamo la verità. Se la missione in Iraq è stata sottovalutata, che ci venga detto» afferma la signora Merlino. «Chiediamo la medaglia d’oro e che si pensi ai nostri figli. Io ne ho uno su una sedia a rotelle».
Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni per corriere.it il 23 Febbraio 2023.
(…) La politica la chiamò “operazione di polizia internazionale”. Ma per noi era una guerra di liberazione, c’era da soccorrere un Paese invaso, oppresso: il massimo del romanticismo per chi come me vede il mondo in un certo mondo, indossando una divisa: nel mio caso azzurra». Gianmarco Bellini, 65 anni, generale in congedo, è il pilota del Tornado italiano che nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1991 fu abbattuto — con a bordo anche il navigatore Maurizio Cocciolone «che sento un paio di volte l’anno» — durante la prima missione di volo dell’operazione Desert Storm sull’Iraq di Saddam Hussein. Dopo essersi lanciati con il paracadute i due aviatori vennero catturati.
L’altro giorno, nel corso delle celebrazioni avviate a Firenze, a Palazzo Vecchio, per il centenario dell’Aeronautica, il topgun ha rievocato —; davanti a tre ex capi di Stato Maggiore (Mario Arpino, all’epoca comandante della war room italiana in Kuwait, Leonardo Tricarico e Alberto Rosso) e all’attuale Luca Goretti — con il Corriere, quei 47 giorni di prigionia. «Quella sera ci dissero che stavolta si faceva sul serio e che non era più un’esercitazione... la nostra era una missione a bassa quota, avevamo come target un deposito di munizioni in Kuwait, al confine con l’Iraq»
E voi piloti?
«Molti di noi non riuscirono a dormire. Il giorno dopo ci preparammo per il briefing, rivedemmo i rapporti dell’intelligence. Decollammo in piena notte, otto Tornado nostri e altri 25 velivoli della coalizione. Ma il leader ebbe subito una noia al carrello e dovette rientrare».
Cosa pensaste?
«Che qualcosa non stava andando nel verso giusto. Il volo aveva una durata di circa quattro ore, più uno slot di mezzora di rifornimento. Ma il meteo era pessimo, per un motivo o per l’altro tutti gli aerei dovettero rientrare. Io fui l’unico a riuscire ad agganciarmi all’aerocisterna e l’unico in grado di continuare. Così proseguii, chiedendo l’autorizzazione che mi venne accordata. Fummo i soli a raggiungere il target e a sganciare».
Ciò le valse l’ammirazione di americani, britannici e francesi... Poi però che successe?
«Gli iracheni avevano riempito la costa di contraerea. Ci beccarono in pieno sul piano di coda e dopo che ci abbassammo, rientrando verso il mare, mi resi conto che il Tornado era ingovernabile: così ordinai l’eiezione. Da quel momento ho un buco di memoria di quattro o cinque giorni. Non ricordo cosa accadde. So che ho subito diverse fratture, una alla spina dorsale e un’altra alla mandibola. Dettagli...».
Momenti da incubo, pestaggi, le torce sulla faccia...
«Sì, ma non tanto per le violenze fisiche: la parte peggiore è quando ti rendi conto di non avere alcun potere e controllo sulla situazione, di essere in balia di volontà altrui. Da questo però trassi anche molta forza: sballottato in diverse prigioni, interrogato con metodi brutali, tra me e me pensavo: non posso fare nulla, ma non è che mi metto in ginocchio o faccio salamelecchi se entra una guardia».
Il giorno più brutto?
«Fu durante un bombardamento della coalizione, non ricordo esattamente quando: eravamo in un bunker della polizia segreta di Saddam Hussein. Sopra sorgeva un palazzo piuttosto alto. Una delle nostre bombe esplose proprio fuori dalla nostra cella, sbriciolando tutto.. In qualche modo ci salvammo. Sarebbe stato assurdo sopravvivere alla contraerea di Saddam e andarsene a causa dei nostri».
Lei, giuridicamente, non fu mai considerato un prigioniero di guerra perché l’Italia non aveva mai dichiarato guerra all’Iraq...
«Proprio così. È una cosa strana. Nel mio foglio matricolare quel periodo è segnato come a disposizione del comandante di corpo».
(...)
Ricomincerebbe daccapo?
«Senza alcun dubbio. Metterei la firma per rivivere tutto quello che ho vissuto, specialmente il periodo dell’Aeronautica, fu esaltante».
Oggi cosa fa?
«Mi sono congedato nel 2011 stabilendomi negli Usa, vivo a Virginia Beach dove sono console onorario, assisto i nostri connazionali anche nella Carolina del Nord. Volo ancora come comandante di linea con la compagnia Atlas. Sto sul 737 e piloto gli aerei cargo. Con mia moglie Gilda e mia figlia Giusy — gli altri sono Riccardo, Gianluca e Michael, ndr — ho anche un ristorante, sebbene la mia mansione sia solo quella di “addetto agli assaggi”».
(...)
Ma è vero che si è sposato tre volte?
«(Si mette a ridere) Sì... E ho quattro figli. Evidentemente credo in questa istituzione».
(…)
Estratto dell'articolo di Antonio Rapisarda per Libero Quotidiano il 25 luglio 2023.
Massimiliano Latorre è uno dei due “marò” del Battaglione San Marco che insieme a Salvatore Girone è stato vittima dell’odissea giudiziaria intentata dall’India con l’accusa – infondata, come ha stabilito il Tribunale italiano, archiviando il caso – di aver ucciso due pescatori del Kerala durante un’operazione anti-pirateria a bordo della petroliera “Enrica Lexie”.
A distanza di dieci anni da quel 15 febbraio del 2012, l’inizio di una vicenda che tenne l’Italia per mesi e mesi col fiato sospeso, Latorre ha scelto di raccontare la sua storia in un libro a quattro mani con Mario Capanna: “Il sequestro del marò”. A Libero ha affidato le sue riflessioni: quelle di un soldato rimasto fedele – pagando ciò in prima persona – alla parola data. E che, calato il clamore mediatico, ha visto emergere da certe istituzioni a cui lui ha sempre dato tutto non un briciolo di riconoscenza per il servizio svolto ma, lo dice senza mezzi termini, una crescente «volontà di isolarmi, di ridurmi in silenzio...». Il motivo lo spiega in questa lunga intervista: la storia dei due marò attende ancora una parola chiara. «Si chiama verità».
Latorre, il calvario suo e di Girone è finito solo nel dicembre scorso: archiviazione piena da parte del Gip di Roma. Tutto dopo dieci lunghissimi anni. Cosa resta al termine di questa odissea?
«Restano tante cose: positive e negative. Il bicchiere è mezzo pieno. Volendo vedere solo le positive, posso dire che mi è rimasto il sostegno e l’affetto vero, sincero, della gente che mi sostiene ora come allora».
La sua vita è uscita stravolta da questa vicenda.
«Per senso di dignità personale non le faccio un elenco. Le posso assicurare, però, che non c’è aspetto sotto cui la mia vita non sia stata stravolta. In particolare la mia salute, fisica e psicologica, è stata segnata da quel vissuto. Mi riferisco all’ictus che purtroppo mi ha colpito e mi ha condizionato per sempre: anche se mi ritengo comunque fortunato per il semplice fatto di esser qui a poter raccontare, nonostante diverse problematiche con cui devo convivere».
(…)
Il coautore del libro, lo scrittore e storico attivista Mario Capanna, ha riportato le accuse dell’allora ministro, Giulio Terzi, contro la decisione del governo Monti: quando foste rispediti in India nonostante l’allora titolare della Farnesina (che si dimise in polemica per questo motivo) aveva annunciato la volontà di tenervi in Italia...
«L’11 luglio il gruppo parlamentare di Fdi ha organizzato la presentazione del libro con i senatori Malan, Russo e Terzi. Ecco, per me è stata un’occasione importante per l’affetto e il supporto ricevuto dagli organizzatori.
Ma ancor più importante, anche se frustrante da uomo e da militare, è stato ascoltare le parole dell’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, che ha ammesso le motivazioni per cui fummo rispediti in India il 21 marzo 2013, proprio così come fu riferito dall’allora suo ministro degli Esteri, Giulio Terzi, in un’intervista rilasciata dopo anni dalle sue dimissioni. Quando, ricordando le motivazioni giuntegli da Monti e dal ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, spiegò – cito testualmente – che erano “fondate su ragioni di natura economica, dei danni che avrebbero subito le nostre imprese e delle reazioni indiane”...».
Insomma siete finiti, da innocenti, in un ingranaggio più grande di voi...
«Purtroppo sì. Non mi sono reso subito conto subito di quel che accadeva realmente.
Sopravvivevo grazie alla forza datami dall’innocenza e dalla fiducia che riponevo nei rappresentanti istituzionali di allora dai quali mi aspettavo coerenza ed affidabilità. Invece ho trovato solo l’ordine di obbedire nell’assoluto e rigoroso silenzio chiesto ad un militare, ma per fortuna la gente che ci sosteneva zitta e ferma non è stata».(...)
Proprio l’esecutivo guidato dalla Meloni è stato decisivo per la liberazione di Patrick Zaki. Quest’ultimo ha fatto di tutto per evitare di stringere la mano alla premier e al ministro Tajani. Come giudica questa scelta?
«Io sono un militare: purtroppo questa esperienza mi ha aperto gli occhi su altri aspetti a me prima sconosciuti, ciò non mi consente di giudicare a priori senza conoscere fatti e protagonisti.
Posso dirle che, personalmente, non ne avrei fatto una questione ideologica e politica, mi sarei fatto guidare dal buonsenso, dall’educazione, dal rispetto e soprattutto dalla riconoscenza.
La stessa per cui oggi sono impegnato nel ringraziare gli italiani nelle varie città: approfittando delle tante occasioni di incontro organizzate da chi allora mi ha sostenuto e che, anche grazie a questo libro, continua a tenere viva l’attenzione sulla vicenda che mi ha coinvolto e a chiedere verità».
Il ministero della Difesa rifiuta di trattare con Latorre e Girone: nessun risarcimento. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Dicembre 2022
Il ministero della Difesa ha confermato la stessa decisione del precedente esecutivo, guidato da Mario Draghi, cioè quella di respingere le richieste senza lasciare alcuno spiraglio né disponibilità a discutere la cifra. Ed il governo presieduto da Giorgia Meloni, si è adeguato allo stesso criterio.
La vicenda è nota a tutti: dopo anni di processi per l’uccisione di due marinai al largo delle coste indiane, un arresto (eseguito dalle autorità locali) e infine un proscioglimento per il fuciliere Massimiliano Latorre e il suo compagno, il fuciliere Salvatore Girone, avevano deciso di chiedere un risarcimento allo Stato per l’ingiusta detenzione subita a suo tempo. La segretezza delle trattative aveva imposto il massimo riserbo anche sulla cifra richiesta che, tuttavia, si presume milionaria, considerati i problemi di salute che erano derivati a Latorre dai suoi guai giudiziari. Ora resta la strada della vertenza.
Anche Girone aveva chiesto al suo avvocato, il civilista Enrico Loasses, di assisterlo in una analoga iniziativa legale. L’incontro con il ministero era stato fissato per il prossimo 10 gennaio ma dopo la decisione assunta su Latorre le speranze sembrano a questo punto minime. Dice Loasses: “Prendiamo atto che l’orientamento di questo esecutivo è lo stesso del precedente. Tuttavia se ci convocheranno ascolteremo il loro ragionamento“.
Il Ministero della Difesa
Il ministero della Difesa al quale gli avvocati Silvia Galeone e Fabio Anselmo difensori del marò Latorre, si erano rivolti ha confermato la stessa decisione del precedente esecutivo, guidato da Mario Draghi, cioè quella di respingere le richieste senza lasciare alcuno spiraglio né disponibilità a discutere la cifra. Ed il governo presieduto da Giorgia Meloni, si è adeguato allo stesso criterio.
Marò, Girone eletto presidente Unione militari interforze. Usmia: «Impresse compostezza e fermezza in vicenda indiana». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Dicembre 2022
L’Unione sindacale militari interforze associati (Usmia) ha eletto presidente del comitato nazionale il fuciliere di Marina Salvatore Girone che nel 2012 fu arrestato in India con il commilitone Massimiliano Latorre con l’accusa, archiviata dopo dieci anni dal gip di Roma, di aver ucciso due pescatori scambiandoli per pirati. «Siamo orgogliosi e lusingati - si legge sul sito dell’Unione sindacale - della scelta di Salvatore di iscriversi a Usmia; ci rimangono impresse nelle menti le immagini di grande compostezza, fermezza, serenità, dignità e coraggio che lo hanno sempre contraddistinto nella nota vicenda indiana del 2012. Salvatore Girone trasmette a tutti noi la forza d’animo che lo caratterizza: ciò consentirà all’Usmia di agire con maggior impegno, lealtà e risolutezza per raggiungere i nostri obiettivi sindacali tesi ad assicurare ai servitori dello Stato e ai tanti 'eroi invisibilì che quotidianamente vegliano sulla sicurezza dei nostri concittadini, il più efficiente e adeguato supporto morale, sociale, logistico ed economico».
L’Usmia «è pronta per promuovere al meglio i bisogni e gli interessi dei militari, potendosi avvalere delle competenze e delle professionalità che nell’ambito del servizio si sono particolarmente distinte per la competenza, l’abnegazione, il coraggio, la lealtà e la determinazione, quali requisiti indispensabili per poter adempiere ai propri doveri nell’interesse del bene comune, per la sicurezza nazionale e delle Istituzioni».
«Sono molto compiaciuto - commenta Salvatore Girone - dalla fiducia che il congresso nazionale dell’Usmia mi ha conferito. Durante i miei anni difficili ho ricevuto molta vicinanza, affetto e ammirazione da tanti colleghe e colleghi. Adesso, in cuor mio, sento il dovere di ricambiare rendendomi utile per i diritti, doveri e professionalità che caratterizzano un militare italiano». «In collaborazione con gli esperti dell’Usmia - conclude - ci impegneremo al fianco di ogni singolo collega».
Riccardo Pelliccetti per “il Giornale” l'1 febbraio 2022.
Sono serviti dieci lunghi anni per mettere la parola fine alla scandalosa vicenda dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Una vera e propria odissea che vede finalmente il suo epilogo con l'archiviazione dell'indagine decisa ieri dal Gip di Roma.
D'altronde, la stessa Procura il 9 dicembre scorso aveva chiesto al giudice di far cadere le accuse contro i due militari perché gli elementi di prova non erano sufficienti per istituire un processo. Il caso dei due marò è rimbalzato a lungo su tutti i media, aprendo anche un conflitto diplomatico con l'India, dopo che furono accusati dalle autorità di Delhi di aver ucciso due pescatori, il 15 febbraio 2012 al largo del Kerala, scambiando il loro peschereccio per un'imbarcazione pirata. Latorre e Girone erano a bordo della nave Enrica Lexie in servizio antipirateria con altri commilitoni.
Il governo indiano costrinse la nave italiana a tornare in porto e fece arrestare i due fucilieri. Le relazioni tra Italia e India furono messe a dura prova, tanto da aprire una controversia internazionale a cui si aggiunsero notevoli tensioni politiche interne, che spinsero l'allora ministro degli Esteri Giulio Terzi a dimettersi perché sconfessò la politica del governo Monti, il quale aveva deciso di «abbandonare» i due marò in attesa di un pronunciamento internazionale.
Dopo il carcere e il lungo confino in India, Latorre rientrò in Italia nel 2015, mentre Girone l'anno successivo, dopo che il loro caso era sbarcato alla Corte permanente di arbitrato. Le udienze si sono protratte fino al 2020, quando i giudici internazionali stabilirono che i due fucilieri di Marina dovevano godere dell'immunità funzionale, poiché erano impegnati in una missione per conto dello Stato italiano. In sintesi, l'India non aveva alcuna giurisdizione: per le accuse mosse contro i nostri due militari era competente esclusivamente la giustizia italiana.
Le autorità indiane chiusero così tutti i procedimenti dopo che il nostro Paese garantì un risarcimento di 1,1 milioni di euro alle famiglie dei due pescatori. Dopo essere stati ascoltati dai magistrati italiani, che avevano disposto anche alcune perizie, è stata chiesta per loro l'archiviazione al termine di tutti gli accertamenti. «Sono felice per l'archiviazione», ha commentato Latorre senza aggiungere altro.
«C'è sollievo da parte della nostra famiglia - ha spiegato la moglie Paola Moschetti -. Attendiamo però di conoscere nel dettaglio le motivazioni del provvedimento, sperando che ci restituiscano la serenità sottratta in questi anni di sofferenze». «Sono soddisfatto, ma anche curioso di leggere il decreto con cui il Gip ha archiviato questa indagine - ha affermato l'avvocato Fabio Anselmo, difensore di Latorre -. Mi auguro che restituisca giustizia e verità per Massimiliano Latorre dopo dieci lunghissimi anni».
«È stato un autentico calvario, sopportato con dignità e fierezza da Salvatore Girone, che hanno reso onore all'Italia intera - spiegano i legali Fabio Federico e Michele Cinquepalmi -. Ciò significa che non c'era nulla alla base delle accuse nei loro confronti».
Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” il 3 novembre 2022.
Potrebbe diventare molto imbarazzante per il governo di Giorgia Meloni la vicenda dei due marò, i fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per anni e fino all'altroieri cavallo di battaglia della destra contro i governi che non li avrebbero protetti abbastanza.
La storia è nota: arrestati per aver ucciso due pescatori indiani durante una missione a bordo della petroliera italiana Enrica Lexie nel 2012, Latorre e Girone furono detenuti in India per 106 giorni, poi rimandati in Italia e di nuovo rispediti nel Kerala e infine archiviati, lo scorso giugno, dal giudice di Roma, dopo un complesso arbitrato internazionale all'Aja, che aveva consentito di processarli nel nostro Paese.
[…] Ora il luogotenente Latorre, impiegato allo Stato maggiore, chiede milioni di euro di danni al governo italiano: perché lo rimandò in India dove rischiava la pena di morte ed ebbe anche un gravissimo ictus; perché un decennio di processi gli ha impedito di fare carriera, di mettere su famiglia e per diversi altri motivi.
[…] L'Avvocatura dello Stato, che rappresenta il governo chiamato in causa, sembra assai poco conciliante, anche perché l'Italia ha pagato diversi milioni di euro al pool internazionale di legali che si occupò del caso e oltre un milione di danni alle famiglie dei pescatori indiani. Anche il sergente Salvatore Girone, 44 anni e tuttora in Marina, potrebbe agire legalmente […]
La posizione dell'Avvocatura di Stato cambierà ora che la destra è al governo? La tesi di Latorre e Girone, infatti, è sostanzialmente quella di Fratelli d'Italia. […] Giorgia Meloni stessa lo scorso 15 giugno, dopo l'archiviazione del procedimento disposta dal giudice Alfonso Sabella come richiesto dalla Procura di Roma, aveva festeggiato i due fucilieri […]
Marò, il pugliese Latorre fa causa allo Stato e chiede un maxi-risarcimento. Per il momento è in corso all’Ordine degli avvocati di Roma la mediazione che precede obbligatoriamente le cause civili. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Novembre 2022
Il marò Massimiliano Latorre fa causa allo Stato chiedendo un maxi-risarcimento milionario per averlo fatto tornare in India dove rischiava la pena di morte. Il luogotenente - rimasto in carcere nel Kerala per 106 giorni insieme con il collega Salvatore Girone - chiede un risarcimento per non aver potuto fare carriera, mettere su famiglia e per diversi altri motivi.
A difendere il militare, tuttora in Marina, sono gli avvocati Fabio Anselmo, già legale della famiglia Cucchi, e Silvia Galeone. Per il momento, rivela il Fatto Quotidiano, è in corso all’Ordine degli avvocati di Roma la mediazione che precede obbligatoriamente le cause civili. Ma presto potrebbe arrivare anche un’altra causa, da parte dell’altro marò Girone. "Abbiamo scritto una lettera alla Marina chiedendo di riparare al sacrificio patito da Girone, con toni amichevoli - spiega il suo avvocato, Enrico Loasses -, ma è arrivata una risposta negativa di una sola riga. Ora stiamo valutando».
L’azione legale per la richiesta di risarcimento danni allo Stato da parte del fuciliere di Marina Massimiliano Latorre è stata promossa nei confronti «del precedente governo. Credo sia una cosa che non sconvolge e che anche l’altro militare, Salvatore Girone, ne abbia una in cantiere uguale. E’ chiaro che quello che hanno sofferto i due militari merita considerazione da parte dello Stato. La gestione della vicenda da parte del governo italiano non è stata soddisfacente e in linea con il rispetto delle loro situazioni personali, umane e familiari». Lo dice all’ANSA l’avvocato Fabio Anselmo, legale del fuciliere Massimiliano Latorre che ha richiesto un risarcimento danni allo Stato per la gestione della vicenda che lo ha visto coinvolto dal 2012, quando con il commilitone Girone fu accusato di aver ucciso due pescatori indiani scambiandoli per pirati, fino al 2021 quando il gip di Roma ha archiviato le accuse nei loro confronti.
«Penso - sottolinea il legale - si confidi anche sul fatto che l'attuale governo, i cui esponenti politici sono sempre sembrati particolarmente sensibili nei confronti dei due militari, si faccia carico di ciò che deve essere loro riconosciuto».
La richiesta di risarcimento, ha spiegato il legale, è nella fase che precede la causa vera e propria, ovvero una mediazione in cui si tenta di comporre in maniera "amichevole" la lite giudiziaria. Nella richiesta «vengono rappresentate - evidenzia l'avvocato Anselmo - le sofferenze patite per tutta la gestione che viene criticata ivi compreso il ritorno in India con la pena di morte». Quanto all’ammontare della richiesta di risarcimento, il legale non entra nel dettaglio ma spiega che «è chiaro che hanno passato circa dieci anni un calvario molto pesante, personale, giudiziario e non solo».
L'ALTRO MARO'
«Insieme al pool di avvocati che mi segue, composto da internazionalisti, civilisti e penalisti, stiamo studiando la situazione. Abbiamo inviato una lettera conciliativa ai dicasteri più importanti, a Palazzo Chigi, agli Esteri e alla Marina. Chiedevamo un dialogo, ma non abbiamo avuto la risposta dialogante che cercavamo». Così commenta il marò Salvatore Girone la notizia dell’avvio della causa contro lo Stato del suo commilitone Massimiliano Latorre, per la lunga contesa internazionale con Nuova Delhi legata all’incidente avvenuto nel 2012 nelle acque del Kerala.
«La nostra situazione è paradossale: l’Italia - spiega Girone - ha cercato a lungo un dialogo con l’India. Invano. Stavolta abbiamo chiesto noi un dialogo al nostro Stato e siamo stati messi in difficoltà. Senza dare colpe a nessuno, ho solo chiesto di discutere un riconoscimento alla mia famiglia e a me per compensare il sacrificio a cui siamo stati sottoposti per quello che è accaduto ingiustamente».
«Sono deluso - aggiunge - e ho un malcontento dentro perché ho faticato tantissimo a vedere la mia famiglia soffrire per lunghi anni. Sono scontento da uomo dello Stato perché ci tengo alla Marina militare: cose come quelle accadute a me non devono accadere. Abbiamo avuto una risposta totale di chiusura che ci lascia spiazzati. Ho difeso con l’immagine e la dignità la nostra nazione». Poi un appello al ministro della Difesa Guido Crosetto, che domani sarà a Bari per il 4 novembre. «Da barese mi vien da dire 'benvenuto ministrò. Gli chiedo di prestare molta attenzione a noi militari, ci mettiamo l’anima. E poi gli gli chiedo di trovare tempo per dedicarsi alla nostra vicenda», conclude Girone.
Il marò Massimiliano Latorre chiede un maxi-risarcimento allo Stato “per il ritorno in India”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Novembre 2022.
La richiesta di risarcimento ammonterebbe a milioni di euro per le vicissitudini subite. A cominciare dal fatto che il marò è stato costretto a ritornare in India, dove è stato colpito anche da un'ischemia
La vicenda dei due marò che in realtà sono due fucilieri della Marina militare italiana, apre un nuovo capitolo con la causa civile allo Stato intentata da Massimiliano Latorre con la richiesta di un maxi-risarcimento milionario per averlo fatto rientrare in India, dove aveva trascorso 106 giorni in carcere ed avrebbe rischiato la pena di morte, lamentandosi di non aver potuto fare carriera e metter su famiglia. Latorre, era stato colpito tra l’altro da un’ischemia proprio durante la reclusione in India. Dopo la lunga vicenda giudiziaria durata dieci anni, i due marò chiedono il conto attraverso le azioni legali avviate dagli avvocati. Analoga azione infatti potrebbe essere intentata anche dall’altro marò, Salvatore Girone.
La posizione dei due marò sembrava essere conclusa definitivamente a febbraio 2022, quando il gip Alfonso Sabella del Tribunale di Roma, aveva archiviato le accuse nei confronti dei due fucilieri pugliesi della Marina, dopo l’uccisione di due pescatori al largo delle coste indiane del Kerala nel febbraio del 2012. “È chiarissimo come, più che legittimamente Latorre e Girone si trovassero in una situazione tale da far pensare a un attacco di pirati alla Enrica Lexie” si legge nelle motivazioni del Gip Sabella “ragion per cui nessuna perplessità potrebbe giammai residuare sul fatto che i due militari abbiano agito in stato di legittima difesa, almeno putativa“. E anche qualora, scrive ancora il Gip “residuasse nella loro condotta un qualche profilo colposo, ovviamente tutto da accertare, il relativo reato di omicidio colposo sarebbe definitivamente prescritto”.
il fuciliere della Marina militare italiana Massimiliano Latorre
Gli avvocati del fuciliere Latorre, Silvia Galeone e Fabio Anselmo quest’ultimo diventato noto per aver patrocinato le cause di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, conclusesi con le condanne dei responsabili di quei delitti, a dare slancio all’iter giudiziario sono già invece in fase più avanzata: attualmente è in corso, all’Ordine degli avvocati di Roma, la mediazione che precede obbligatoriamente le cause civili. “L’azione è stata promossa nei confronti del precedente Governo – dichiara l’ avv. Anselmo – Credo sia una cosa che non sconvolge e che anche l’altro militare, Salvatore Girone, ne abbia una in cantiere uguale. È chiaro che quello che hanno sofferto meriti considerazione da parte dello Stato. La gestione della vicenda da parte del Governo italiano non è stata soddisfacente e in linea con il rispetto delle loro situazioni personali, umane e familiari”.
All’Ansa l’avvocato Fabio Anselmo rivela dettagli sulla richiesta di risarcimento danni allo Stato: “Penso – sottolinea il legale – si confidi anche sul fatto che l’attuale governo, i cui esponenti politici sono sempre sembrati particolarmente sensibili nei confronti dei due militari, si faccia carico di ciò che deve essere loro riconosciuto“. Nella richiesta “vengono rappresentate – aggiunge l’avvocato Anselmo – le sofferenze patite per tutta la gestione che viene criticata ivi compreso il ritorno in India con la pena di morte“. Sull’ammontare della richiesta di risarcimento, il legale preferisce non entrare nel dettaglio spiegando che “è chiaro che hanno passato circa dieci anni un calvario molto pesante, personale, giudiziario e non solo“.
il fuciliere della Marina militare italiana Salvatore Girone
“Abbiamo inviato insieme al pool di avvocati che mi segue – commenta il marò Salvatore Girone – composto da internazionalisti, civilisti e penalisti, stiamo studiando la situazione. na lettera conciliativa ai dicasteri più importanti, a Palazzo Chigi, agli Esteri e alla Marina. Chiedevamo un dialogo, ma non abbiamo avuto la risposta dialogante che cercavamo“. “La nostra situazione è paradossale: l’Italia – aggiunge Girone – ha cercato a lungo un dialogo con l’India. Invano. Stavolta abbiamo chiesto noi un dialogo al nostro Stato e siamo stati messi in difficoltà. Senza dare colpe a nessuno, ho solo chiesto di discutere un riconoscimento alla mia famiglia e a me per compensare il sacrificio a cui siamo stati sottoposti per quello che è accaduto ingiustamente“.
“Sono deluso e ho un malcontento dentro perché ho faticato tantissimo a vedere la mia famiglia soffrire per lunghi anni – prosegue Girone – Sono scontento da uomo dello Stato perché ci tengo alla Marina militare: cose come quelle accadute a me non devono accadere. Abbiamo avuto una risposta totale di chiusura che ci lascia spiazzati. Ho difeso con l’immagine e la dignità la nostra nazione” lanciando un appello al ministro della Difesa Guido Crosetto, che domani per il 4 novembre sarà a Bari: “Da barese mi vien da dire ‘benvenuto ministrò’. Gli chiedo di prestare molta attenzione a noi militari, ci mettiamo l’anima. E poi gli gli chiedo di trovare tempo per dedicarsi alla nostra vicenda” .
L’Italia con il governo Monti quando l’ammiraglio Giampaolo Di Paola era ministro della Difesa raggiunse un accordo con le famiglie dei pescatori e con il proprietario del peschereccio: vennero pagati circa 142 mila euro a testa per permettere che le famiglie e l’amatore si ritirassero dal processo agevolando il rientro dei due fucilieri in Italia. L’Avvocatura dello Stato al momento sembrerebbe poco conciliante anche perché l’Italia ha pagato diversi milioni di euro al pool internazionale di legali che si occupò del caso e oltre un milione di danni alle famiglie dei pescatori indiani. Redazione CdG 1947
I marò Girone e Latorre a Cuorgné, ma l’amministrazione si divide. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.
Davide Pieruccini, consigliere di minoranza è critico: «Nella Domenica delle Palme si dovrebbe parlare di pace». La sindaca Giovanna Cresto: «Evento culturale».
«Se una situazione dove sono morti due poveri pescatori è una iniziativa di richiamo culturale per i cittadini di Cuorgnè mi chiedo cosa sia davvero per l’Amministrazione comunale un evento culturale. Ma soprattutto perché è stata scelta la data della domenica delle Palme per l’incontro con i Marò. Una giornata in cui si dovrebbe parlare di pace. È tutto senza senso». Commenta così in modo lapidario il consigliere comunale di minoranza di Cuorgnè, Davide Pieruccini la presenza dei Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ospiti di un incontro a Cuorgnè.
Non tanto per il loro arrivo, organizzato dall’Associazione Paracadutisti del Canavese per il prossimo 10 aprile nella sala conferenze di via Ivrea 100. Ma perché proprio quell’evento, patrocinato dal Comune di Cuorgnè e dal Consiglio Regionale del Piemonte, è stato definito come «culturale». Una classificazione che ha subito innescato la polemica per il «taglio» dato all’iniziativa. Alla minoranza ma anche a tanti cittadini l’accostamento tra la presenza dei due Marò e il senso culturale dell’incontro sfugge proprio.
La decisione sta facendo discutere l’intero: è paese diviso tra chi considera la partecipazione dei due Marò un incontro a cui non si può mancare per ascoltare dal vivo il racconto della loro vicenda e invece chi non vuole definire quella occasione d’incontro come un momento culturale.
È così che la pensa la minoranza che — proprio in Pieruccini — ha trovato modo di esporre il suo essere contraria alla scelta. «Mi chiedo ancora quale scopo abbia organizzare un evento che tratta un tema del genere mentre l’Europa è ad un passo dalla guerra totale. E poi prevedere questa iniziativa proprio nel giorno della domenica delle Palme? — dice il consigliere comunale —. Ribadisco che per me questo non è un evento di richiamo culturale. Anzi, se proprio devo pensare a qualcosa, mi sento di fare i complimenti alla giunta per il tempismo».
Il discorso secondo il consigliere è semplice: la giunta ha deciso di sostenere l’ iniziativa con il patrocino, il costo di affitto della sala, le attrezzature e l’eventuale utilizzo di personale comunale come scritto nel verbale Delibera di Giunta numero 22 del 23 febbraio. «Questo perché — spiega Pieruccini — tra i compiti istituzionali dell’ente rientrano anche quelli di promuovere e organizzare iniziative di richiamo culturale per la popolazione residente. Ma sono dell’idea che ogni associazione legalmente riconosciuta possa organizzare eventi come questo in modo autonomo e seguendo il regolamento per l’utilizzo dei locali comunali, ma a mio parere il comportamento della giunta è assolutamente fuori luogo».
Smorza molto i toni e parla al contrario di polemica inutile la sindaca Giovanna Cresto. «Aiutiamo tutte le associazioni del territorio — spiega la prima cittadina —. Tutto ciò che può essere considerato come culturale deve essere assecondato. Poi ognuno può ovviamente avere un’opinione personale contraria. Ma noi abbiamo ritenuto fosse importante sostenere questa iniziativa. Così come facciamo con tutte quelle che abbiamo sul territorio. Questo è solo uno dei primi eventi che saranno organizzati a Cuorgnè. Noi andiamo avanti. Non saranno le polemiche a fermarci».
Il dieci aprile i presenti potranno ascoltare il racconto dei due Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone arrestati e poi assolti dall’accusa di omicidio in India. Era il 15 febbraio 2012 quando due pescatori indiani, Valentine Jelastine e Ajeesh Pink, furono uccisi nelle acque al largo dell’India. Secondo la polizia indiana i proiettili che li colpirono furono sparati dalla nave italiana Enrica Lexie. Quest’ultima fu fatta attraccare dalle forze dell’ordine locali che poi arrestarono i due fucilieri della Marina italiana. Seguirno giorni tormentati per i due Marò e le loro famiglie oltre, naturalmente, ad una mobilitazione generale nel nostro Paese che coinvolse ministeri e fonti diplomatiche: tutti in campo per venire a capo di una situazione che — intanto — costava giorni di prigionia e la minaccia della pena capitale. La Torre e Girone si sono sempre dichiarati innocenti rispetto ai fatti contestati dalle autorità indiane e sono rimasti a lungo prigionieri. Proprio nei giorni scorsi il Comune di Rocca Canavese ha conferito loro la cittadinanza onoraria.
Parla il Marò Latorre: "La paura della condanna a morte, le umiliazioni e l'ictus. Ma ora rinasco". Andrea Ossino su La Repubblica il 15 Febbraio 2022.
Salvatore Girone (a sinistra) e Massimiliano Latorre, i due marò al centro di una battaglia diplomatica e giudiziaria durata quasi dieci anni.
Ha affrontato il carcere in India e un'accusa per cui è prevista la pena di morte. È stato al centro di un delicato caso internazionale e di un'inchiesta italiana appena terminata. Adesso può lasciarsi tutto alle spalle. Il caso è stato archiviato.
"So di non avere le capacità fisiche di una volta, ma dietro una scrivania mi sento come un leone in gabbia". Un calvario giudiziario lungo dieci anni non ha scalfito lo spirito di Massimiliano Latorre. Ha affrontato il carcere in India e un'accusa per cui è prevista la pena di morte. È stato al centro di un delicato caso internazionale e di un'inchiesta italiana appena terminata.
"Un'odissea di dieci anni. In divisa anche in cella con l'incubo della forca". Fausto Biloslavo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Il marò accusato dall'India per la morte di due pescatori: "L'archiviazione ci restituisce l'onore".
Massimiliano Latorre è in divisa, impeccabile, da marò, orgoglioso delle medaglie e mostrine di tante missioni dalla liberazione del Kuwait, al Kosovo fino all'Afghanistan. Il tribunale di Roma ha chiuso con l'archiviazione l'inchiesta sulla morte di due pescatori indiani in alto mare, dieci anni fa, quando Latorre e l'altro fuciliere di marina, Salvatore Girone, difendevano la nave italiana Enrica Lexie dai pirati.
Come descriveresti questi 3.683 giorni?
«È stata un'Odissea psicologica e umana».
Avete ottenuto la definitiva archiviazione delle accuse.
«Sul primo momento ho sentito al telefono Salvatore e non ci credevamo entrambi. Si vive nell'ombra dei traumi di questi dieci anni, ma finalmente è stata riconosciuta la nostra innocenza. Il motivo per cui ho sofferto tanti anni con dignità e in silenzio. Era una questione d'onore come uomo e militare. Siamo stati scagionati da qualsiasi reato ed è riconosciuto che abbiamo rispettato appieno le regole d'ingaggio».
Cosa è successo quel giorno di dieci anni fa in alto mare?
«È tutto scritto negli atti. Abbiamo visto che un'imbarcazione di avvicinava e sono state adottate le regole d'ingaggio in caso di attacco dei pirati. Abbiamo sparato solo colpi di avvertimento oltre ad avere utilizzato le altre misure previste come flash e sirene. L'archiviazione corrisponde a una piena assoluzione».
Perché siete tornati indietro nel Kerala?
«Ripeto che è tutto scritto negli atti. Gli indiani sostenevano che dovevamo identificare gli equipaggi che avevano fermato. Noi non abbiamo mai visto i due pescatori morti, non abbiamo nulla a che vedere con loro».
Alle loro famiglie vorresti dire qualcosa?
«Mi sento vicino, ma adesso, come allora, non sono responsabile della perdita dei loro cari. Umanamente mi dispiace, ma non sono io la causa del dolore».
Gli indiani che sono venuti a prendervi a bordo vi hanno trattato da criminali?
«Quando ci hanno portato a terra volevano farci scendere incappucciati. Non lo accettavamo perché indossavamo la divisa, che non abbiamo mai abbandonato neppure in carcere. Il console Giampaolo Cutillo si è battuto per evitare che incappucciassero due militari italiani».
Se non violenza avete subito pressioni dagli indiani?
«Pressioni sì, ma abbiamo sempre preteso rispetto reciproco. Qualche volta è venuto a mancare».
Qual è stato il momento più difficile?
«All'arresto e quando siamo rientrati per due volte in India con la pena di morte che gravava sulle nostre teste. C'era stato un accanimento giudiziario nei nostri confronti che avvertivamo a pelle. La pena capitale era un pericolo non tanto lontano».
Volevano a tutti i costi un colpevole?
«Assolutamente sì. Volevano un colpevole a prescindere. Eravamo sotto processo con delle norme che non solo prevedevano la pena di morte, ma l'inversione dell'onere della prova. Insomma il dado era tratto. Mi sono immaginato sulla forca con la consapevolezza di essere innocente».
Vi siete sentiti abbandonati?
«Sì, quando la nostra vicenda ha perso di interesse nell'opinione pubblica. Siamo stati lasciati un po' al nostro destino. Ho stretto i denti per continuare ad andare avanti in silenzio ingoiando tanti bocconi amari».
Ed è arrivato anche l'ictus.
«Un'aspra battaglia, ma non ti nascondo che sono vivo grazie a mia moglie Paola che era presente e si è accorta di tutto chiedendo un medico. Se non ci fosse stata non saremo qui a parlarne. Mi ha salvato la vita. Purtroppo l'ictus me l'ha stavolta perché non posso fare più il lavoro operativo di marò, che mi manca tanto. Nella vita di ogni giorno ho delle carenze con le quali convivo. Però metto anche questo nello zaino: carico e vado avanti con dignità».
La gente ti ferma ancora per strada?
«Sì, le attestazioni di affetto ancora oggi sono numerose. Voglio ringraziare tutti a cominciare dalle associazioni d'arma e pure i media che ci sono stati vicini nei momenti più bui. Non dimenticherò mai la gente comune che ci mandava il gadget, il pensierino, il disegno del bambino sul marò, di tutto. Adesso che sono un uomo libero vorrei andare a trovare chi ha creduto in noi, uno ad uno».
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
Nicola Pinna per "il Messaggero" l'1 febbraio 2022.
Nel lungo viaggio in treno tra Trento e Roma, Massimiliano Latorre ha il tempo di ripensare a tutto. A ognuno dei 3638 giorni che ci sono voluti per sentirsi dire da un giudice di essere innocente.
«Di non essere un criminale, anzi un terrorista, visto che l'India aveva associato la nostra vicenda ai reati che prevedono anche la pena di morte». Dal 15 febbraio 2012 il marò di Taranto ha sempre declinato gli inviti per le interviste. Niente tv e niente foto in prima pagina.
Oggi rompe le righe e racconta: la consegna del silenzio è finita, il Gip di Roma ha scritto su una sentenza che lui e il collega Salvatore Girone non dovranno essere processati. Perché i due marinai italiani, accusati di aver ucciso due pescatori indiani, in realtà non hanno commesso alcun reato. Caso chiuso e indagine archiviata.
Scusi ma perché proprio oggi se n'è andato fino a Trento?
«Non sapevo che oggi sarebbe arrivata la decisione, ero andato a fare un corso, ero fuori da alcuni giorni. Ma appena è arrivata la telefonata sono ripartito».
Cosa ha pensato?
«Non ci ho creduto subito, perché in questi anni tante volte sono arrivate notizie che poi sono state smentite».
L'archiviazione a 10 anni esatti: quanto è stata dura?
«Durissima, in tutto questo tempo la mia vita è cambiata. E di mezzo c'è stato pure il momento terribile dell'ictus. L'archiviazione dopo 10 anni, comunque, non è l'unica coincidenza di questa vicenda, quando siamo usciti dal primo carcere indiano era il giorno del mio compleanno, il 25 maggio».
È questo il momento più bello?
«Uno dei tre più importanti. Il primo è quando il direttore del carcere ci ha comunicato che saremmo usciti, il secondo quando ho riabbracciato Paola, mia moglie: grazie a lei ho avuto la forza di resistere fino a oggi. Non mi aspettavo che la magistratura italiana fosse così celere e per questo ringrazio i magistrati che hanno seguito il caso».
Cosa è successo quel giorno al largo delle coste indiane?
«I dettagli dell'inchiesta verranno fuori con la motivazione della sentenza. Io e Girone facevamo da scorta alla petroliera Enrica Lexie che trasportava combustibile, eravamo partiti in Sri Lanka e non mi ricordo neanche dove fossimo diretti.
Mentre costeggiavamo l'India la nave viene avvicinata da un natante, io e il collega siamo stati chiamati a intervenire per respingere questo attacco e lo abbiamo fatto seguendo tutte le procedure. La petroliera riesce quasi subito ad allontanarsi dalla barca e dopo un certo lasso di tempo viene poi contattata dalla capitaneria di porto indiana, che chiede di entrare in porto per riconoscere gli equipaggi che erano stati appena fermati».
E i due pescatori morti?
«Io vengo da una città di mare e per loro umanamente ho sempre provato grande dispiacere. Ma a loro non è successo nulla con noi. Noi non li abbiamo mai visti».
Quando è scattato l'arresto?
«Il giorno dopo alcuni uomini della Capitaneria di porto indiana salgono a bordo e chiedono al comandante di attraccare in porto. Erano armati fino ai denti e ci costringono a scendere a terra. Volevano portarci incappucciati, seguendo la procedura di arresto locale.
Ma noi eravamo in divisa e non potevamo accettare questa umiliazione e per questo è stato fondamentale l'intervento immediato del nostro console. Per fortuna siamo scesi senza manette ma subito ci hanno tolto il passaporto».
Poi che è successo?
«Da lì siamo stati in una casetta che loro chiamavano guest house, una specie di pre-carcere, con tutte le restrizioni della detenzione».
Dopo dove vi siete ritrovati?
«Siamo usciti il 3 giugno e siamo stati trasferiti in diversi hotel e ogni mattina avevamo l'obbligo di firma in un commissariato di polizia. Dopo abbiamo cambiato città siamo andati a vivere in ambasciata. Questo è durato fino a febbraio 2013».
Avete mai subito violenza?
«Hanno tentato in ogni modo di umiliarci, ma violenza vera no. Noi non ci siamo mai tolti la divisa della Marina e abbiamo fatto in modo che non venisse offesa».
Vi siete mai sentiti abbandonati?
«Per noi è stato molto importante sapere che nel nostro Paese erano iniziate le campagne per la nostra liberazione. Questo, insieme alla certezza di essere innocenti, mi ha consentito di essere fiducioso e di mantenere la dignità. Quando siamo usciti dal carcere mi sono portato via un sacco pieno di cartoline spedite da tutto il mondo».
A un certo punto rischiavate la pena di morte. Che sensazione si prova?
«Mi sono immaginato sulla forca, sì, perché per come era l'accanimento nei nostri confronti mi faceva pensare che nei nostri confronti la condanna fosse già stata scritta».
Poi è arrivato l'ictus: ha rischiato la vita ma è stata anche la salvezza?
«Certo non è stata la salvezza, perché 10 anni sono stati durissimi, ma quella disavventura ha accelerato il rientro in Italia».
Oggi ha cambiato lavoro: ma si considera ancora un marò?
«Certo, lo sarò per sempre».
Come sono i rapporti con Salvatore Girone?
«Da quando siamo arrivati lo scorso anno abbiamo avuto il divieto di sentirci: faceva parte di un accordo tra Italia e India. Quando c'è stata la sentenza della Corte dell'Aja, che assegnava all'Italia la giurisdizione sul caso, abbiamo riallacciato i nodi della nostra amicizia».
Gli italiani non sapevamo cosa fossero i marò. Siete diventati meme nei social e vi hanno dedicato persino due canzoni. La gente vi riconosce in strada?
«Sì, è bello che ancora tante persone si avvicinano per stringerci la mano e per esprimere solidarietà e apprezzamento».
Da leggo.it il 9 dicembre 2021. La Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta sui due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, accusati dell'omicidio di due pescatori, uccisi a largo delle coste del Kerala, nell'India sud occidentale a colpi di arma da fuoco. L'episodio risale al febbraio del 2012 e lo scorso ottobre il Tribunale arbitrale dell'Aja aveva chiuso ufficialmente il caso dopo che l'Italia ha assicurato all'India che il processo giudiziario sarebbe andato avanti nel nostro Paese. Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Erminio Amelio hanno chiesto al gip di fare cadere le accuse nei confronti dei due fucilieri di Marina in quanto il quadro degli elementi di prova raccolti in questi anni non è sufficiente a garantire l'instaurazione di un processo. I due fucilieri erano stati interrogati in Procura lo scorso luglio. Latorre e Girone furono già ascoltati dai pm di Roma il 3 gennaio del 2013 e nello stesso anno i pm capitolini disposero una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie, la nave su cui erano in servizio Latorre e Girone.
Marò, Corte India: «Caso si chiude con risarcimento da un milione». Secondo i media indiani, le famiglie dei pescatori accettano la proposta d'indennizzo dall'Italia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Aprile 2021. Mancava ancora un ultimo passo per chiudere del tutto il contenzioso con l’India sul caso dei due marò, dopo la sentenza di luglio scorso dell’arbitrato internazionale: il risarcimento dovuto dall’Italia per la perdita di vite umane, i danni morali e materiali. Ora, dopo l'accordo sull'ammontare di 100 milioni di rupie (pari a 1,1 milioni di euro), la Corte Suprema di New Delhi si è detta pronta ad archiviare il dossier non appena lo Stato italiano avrà versato la somma su un conto corrente del ministero degli Esteri di Delhi. Resta poi da definire la vicenda processuale italiana: la procura di Roma, competente a indagare, ha aperto un fascicolo per omicidio che dovrà essere ora definito. Secondo i media locali, dopo una settimana dal deposito, il caso tornerà davanti all’Alta Corte per essere definitivamente chiuso, probabilmente il 19 aprile. A quel punto decadranno anche le ultime restrizioni cui Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono sottoposti dal loro rientro in Italia, sempre per decisione della Corte indiana. Sarà poi la stessa Corte Suprema a distribuire i soldi versati alle vittime che hanno accettato la proposta di indennizzo: le famiglie dei due pescatori uccisi, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, riceveranno 40 milioni di rupie ciascuna, mentre i restanti 20 milioni andranno a Freddy Bosco, l’armatore del peschereccio Saint Antony su cui navigavano le vittime, rimasto a sua volta ferito nella sparatoria di 9 anni fa al largo del Kerala. Il risarcimento pattuito si somma ai 245 mila euro già versati in passato dall’Italia ai familiari. Il 15 febbraio 2012 i due fucilieri di Marina stavano prestando servizio antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie: all’avvicinarsi del peschereccio, temendo un attacco di pirati non insolito in quel tratto dell’Oceano Indiano, aprirono il fuoco sparando, come raccontarono, colpi di avvertimento in acqua. Ma a bordo del Saint Antony morirono i due pescatori. La vicenda scatenò un’aspra crisi diplomatica tra l’Italia e l'India - con Latorre e Girone prima fermati in Kerala, poi costretti per anni a risiedere nell’ambasciata italiana di Delhi - e un estenuante contenzioso su chi dovesse processare i due militari italiani. Quando tutte le strade intraprese si erano dimostrate senza uscita, nel 2016 il governo italiano decise di ricorrere all’arbitrato internazionale, conclusosi con una sentenza inappellabile dalle due parti nel luglio 2020: la giurisdizione del caso è di competenza italiana perché al momento dei fatti i due fucilieri godevano dell’"immunità funzionale», ma al tempo stesso l’Italia avrebbe dovuto risarcire «la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony». Conclusa la vicenda internazionale, a 9 anni dall’accaduto, tocca quindi alla magistratura italiana entrare nel merito della vicenda. Sin dal 2012, la procura di Roma ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, affidato al sostituto procuratore Erminio Amelio. Latorre e Girone furono ascoltati dai pm capitolini il 3 gennaio del 2013, quando fecero ritorno in Italia per alcuni giorni. E sempre nel 2013 su incarico della Procura fu eseguita una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie. I magistrati di piazzale Clodio stanno ora analizzando gli atti inviati dal Tribunale arbitrale per poi procedere a una definizione del fascicolo.
Marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre devono pagare: quanti soldi andranno ai familiari dei pescatori indiani, cosa non torna. Libero Quotidiano il 10 aprile 2021. Il caso internazionale dei due marò italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre si chiuderà dopo 9 anni, pagando. Secondo Asia News, i giudici di Nuova Delhi avrebbero accettato di porre fine al dossier giudiziario relativo alla morte di due pescatori indiani avvenuta il 15 febbraio 2012 a causa, sostiene l'accusa, dei colpi partiti dai due fucilieri della marina in servizio sulla nave mercantile italiana Enrica Lexie. In cambio, però, le famiglie delle due vittime del peschereccio, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, dovranno ricevere un bonifico di 100 milioni di rupie, circa 1,1 milioni di euro, come risarcimento per la perdita di vite umani, danni morali e materiali. Girone e Latorre, una settimana dopo il pagamento della somma (che si aggiunge ai 245mila euro già versati in passato dal governo italiano) torneranno in piena libertà. Dopo un lunghissimo contenzioso, con l'India che ha tenuto bloccati i due marò nell'ambasciata italiana a Nuova Delhi, di fatto prigionieri. intenzionata a processarli, solo nel luglio 2020 l'arbitrato internazionale ha stabilito che la giurisdizione del caso fosse italiano in quanto i due militari godevano dell'immunità funzionale. Restano comunque, come ricorda anche il Messaggero, ancora molti dubbi sulla responsabilità dei due italiani, su cui sta indagando la procura di Roma che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario. A gravare sul conto di Girone e Latorre sono sostanzialmente le testimonianze degli altri pescatori presenti sulla St. Antony. La perizia balistica ha poi stabilito come i proiettili che hanno ucciso i due pescatori siano gli stessi in dotazione ai militari, ma l'autopsia assicura al contrario che i proiettili sarebbero di un altro tipo, e peraltro diversi tra loro e collegati ad armi con numero di matricola differente rispetto a quelle dei due marò.
Marò, la soddisfazione di Giorgia Meloni: "Fratelli d'Italia, i primi a battersi per la giurisdizione italiana". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Il Tribunale arbitrale internazionale aiuta i Marò e dà ragione all'Italia: "Avevano l'immunità" in India. Una svolta importante sulla giurisdizione dei due fucilieri della Marina, una vittoria importante per il nostro Paese che da anni si batte per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per poterli affidare ai tribunali italiani. E la decisione viene commentata con enorme soddisfazione da Giorgia Meloni, su Twitter, dove cinguetta: "Il Tribunale arbitrale internazionale ha deciso che la giurisdizione sul caso dei nostri Marò Latorre e Girone spetterà alla nostra Nazione", premette. Dunque, la Meloni sottolinea che "Fratelli d'Italia è stato il primo partito a chiedere venisse riconosciuta la giurisdizione italiana. Oggi come ieri siamo al loro fianco", conclude la Meloni.
"Otto anni di infamia targata Mario Monti". Marò, una Maglie definitiva: "Assassini?", lo schifo di una sinistra a senso unico. Maria Giovanna Maglie sui Marò: "Otto anni di infamia targata Monti. E la sinistra li bollò come assassini". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. “Otto anni di infamia targata governo Monti, tolto il ministro degli Esteri che si dimise per protesta”. Maria Giovanna Maglie esulta per l’esito dell’arbitrato internazionale sul caso dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Accolta la tesi dell’Italia nella controversia con l’India: è stato stabilito che i due fucilieri di marina godono dell’immunità in relazione all’incidente del 15 febbraio 2012 e quindi all’India viene precluso l’esercizio della propria giurisdizione nei loro confronti. “La sinistra li bollò come assassini - sottolinea la Maglie - ma l’arbitro dà ragione all’Italia, i marò erano nell’esercizio delle loro funzioni”. La sentenza ripaga anche il gesto nobile di Giulio Terzi di Sant’Agata, che si dimise dal ministro in aperta polemica con il governo presieduto da Mario Monti.
Giu. Sca. per “il Messaggero” il 10 aprile 2021. Si sta per chiudere anche davanti alla Corte suprema indiana il caso dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, dopo la sentenza di luglio scorso emessa nell' ambito dell' arbitrato internazionale. Secondo Asia news, i giudici di New Delhi hanno stabilito che il dossier sarà chiuso quando lo Stato italiano avrà versato su un conto del ministero degli Esteri di Delhi 100 milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) come risarcimento per la perdita di vite umane, i danni morali e materiali. Le famiglie dei pescatori hanno infatti accettato l' indennizzo e la somma di denaro si aggiunge a quella già versata in passato dall' Italia: circa 245mila euro. A distanza di una settimana dal deposito, il caso tornerà davanti all' Alta Corte per essere definitivamente chiuso, probabilmente il 19 aprile. A quel punto decadranno anche le ultime restrizioni cui Girone e Latorre sono sottoposti dal loro rientro in Italia. In realtà, il caso è tutt'altro che chiaro: ci sono molte incongruenze sulle responsabilità dei due fucilieri italiani. A fare chiarezza dovrebbe pensarci la procura di Roma, che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, affidato al pm Erminio Amelio. I fatti sono del 15 febbraio 2012. I due fucilieri della Marina sono in servizio antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie. Quando si avvicina un peschereccio, temendo un attacco, sparano alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo dell' imbarcazione ci sono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, che perdono la vita. È l' inizio di una grave crisi diplomatica tra Italia e India: Latorre e Girone vengono fermati in Kerala, poi costretti per anni a risiedere nell' ambasciata italiana di Delhi, mentre si consuma un lunghissimo contenzioso su chi li debba processare. Nel 2016 il governo italiano decide di ricorrere all' arbitrato internazionale, che si chiude nel luglio 2020: la giurisdizione del caso è di competenza italiana visto che, al momento dei fatti, i due marò godevano dell' immunità funzionale - erano funzionari dello Stato italiano, impegnati nello svolgimento della loro missione, cioè difendere un mercantile da eventuali abbordaggi di pirati -, ma l' Italia viene chiamata a risarcire i danni. A 9 anni dai fatti, scende in campo la magistratura italiana. Girone e Latorre sono già stati ascoltati dal pm Amelio nel 2013 e nello stesso anno è stata anche eseguita una perizia sul computer e su una macchina fotografica che si trovavano a bordo della Enrica Lexie. Adesso i magistrati di piazzale Clodio stanno analizzando gli atti inviati dal Tribunale arbitrale per poi procedere a una definizione del fascicolo. Ma ecco le incongruenze. La tesi dell' accusa in India si basa principalmente sulle testimonianze dei pescatori della St. Antony: hanno tutti quanti riconosciuto nella petroliera italiana il punto di partenza degli spari. Bisogna però sottolineare che l' equipaggio della Lexie è stato riconosciuto soltanto dopo che da giorni si parlava della vicenda ed erano state diffuse le immagini dell' imbarcazione, con il nome della nave visibile. Poi c' è la perizia balistica: secondo il consulente i proiettili estratti dai corpi delle vittime provengono dalle armi in dotazione ai militari. Ma questa conclusione è stata smentita dall' autopsia, secondo la quale le misure dei proiettili sarebbero diverse da quelli delle armi dei fucilieri. Un altro dettaglio importante: i due proiettili che hanno colpito a morte i pescatori sarebbero diversi tra loro, mentre armi e munizioni in dotazione ai militari italiani sono uniformi. Una circostanza emersa da una perquisizione sulla nave mercantile. In una relazione allegata alla perizia balistica, inoltre, è emerso che i proiettili rinvenuti nei cadaveri sarebbero collegati ad armi con numero di matricola differente rispetto a quelle dei due marò. I fucili di Latorre e Girone, però, avevano il caricatore vuoto, visto che, come hanno raccontato, i due avevano sparato i colpi di avvertimento in acqua. I periti balistici, inoltre, non riusciti a ricondurre i frammenti di proiettili ritrovati sul peschereccio a nessuna delle armi in dotazione ai fucilieri.
La calunnia indiana sui marò. Alle istanze di risarcimento avanzate dai parenti dei pescatori uccisi dai marò si sono aggiunte quelle promosse da altri undici soggetti. Gerry Freda, Lunedì 25/01/2021 su Il Giornale. L’Italia sarebbe pronta a versare un risarcimento milionario per chiudere la vertenza con l’India relativa al caso giudiziario dei due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La stampa indiana ha infatti ultimamente rilanciato la notizia che Roma avrebbe proposto un ristoro finanziario ai familiari di Valentine Jalastin e di Ajesh Pink, ossia i due pescatori uccisi dai marò citati in quanto erano stati scambiati per pirati da questi ultimi. La bufera giudiziaria abbattutasi nel subcontinente su Latorre e Girone risale al febbraio del 2012, quando i due fucilieri, ufficialmente in servizio con funzioni anti-pirateria a bordo della petroliera italiana Enrica Lexie, spararono e uccisero, al largo della costa dello Stato indiano sudoccidentale del Kerala, quei pescatori, il 44enne Valentine e il 20enne Ajesh, nella convinzione di respingere un assalto di predoni diretto contro la medesima petroliera. I due fucilieri pugliesi finirono così in un carcere locale, con conseguente inizio di una battaglia legale e diplomatica tra Roma e Nuova Delhi, dato che entrambe rivendicavano il diritto di giudicare i due militari. Tale controversia si è conclusa di recente con un verdetto della Corte permanente di arbitrato internazionale, che ha riconosciuto l'immunità funzionale ai due italiani, rilevando come gli stessi fossero impegnati in una missione navale per conto dello Stato di appartenenza. Contestualmente, l'Italia è stata condannata dal medesimo tribunale internazionale a erogare un equo risarcimento per la morte dei due pescatori e per i danni morali subiti dai marittimi del peschereccio oggetto degli spari effettuati da Latorre e Girone. Proprio per dare applicazione alla decisione della Corte e al proprio obbligo di indennizzo, le autorità italiane, ha riferito in questi giorni la versione inglese del Mathrubhumi, ossia uno dei giornali più letti del Kerala, avrebbero offerto come ristoro “10 crore di Rs”, pari a 100 milioni di rupie, ovvero 1.125.733 euro. In merito al risarcimento milionario che Roma avrebbe offerto di pagare, il giornale indiano afferma infatti: “Il Governo italiano ha fatto la sua mossa con il governo centrale (di Delhi) e statale (del Kerala) per chiudere il caso”. L’Italia, prosegue la testata indiana, avrebbe offerto la somma in questione dopo che i familiari dei pescatori uccisi avevano avanzato nei riguardi di Roma richieste di ristori pari almeno a 150 milioni di rupie. In precedenza, puntualizza l’organo di stampa del Kerala, sarebbero stati in realtà già versati dal Belpaese alle famiglie delle vittime risarcimenti per 20 milioni di rupie. Nel dettaglio, i 100 milioni di rupie, precisa il quotidiano, verrebbero erogati da Roma suddividendoli in “40 milioni di rupie ciascuno ai familiari dei due pescatori deceduti. Gli altri 20 milioni di rupie saranno dati a Freddy, il proprietario del peschereccio, per i danni”. Tale Freddy è stato uno dei più accaniti oppositori della scarcerazione e del rientro in Italia dei marò pugliesi. A dimostrazione dell’ostilità di quest’ultimo verso l’ipotesi di un rientro in patria dei due soldati è il fatto che lo stesso, quando Latorre è tornato in Italia per curarsi, aveva sollecitato le autorità indiane a bloccare la “fuga” del militare italiano in nome della necessità di effettuare ulteriori accertamenti medici sulle reali condizioni di salute dello stesso Latorre. La proposta italiana di un risarcimento milionario alle vittime del caso-Enrica Lexie potrebbe però non essere l’ultimo capitolo della vicenda giudiziaria, dato che, alle richieste di indennizzo avanzate dai parenti di Valentine e di Ajesh, si sono aggiunte in questi anni quelle presentate dai colleghi di lavoro dei due deceduti, ossia dagli undici membri dell'equipaggio in servizio sul peschereccio al momento degli spari esplosi dai due marò. Ci sono di conseguenza delle istanze indiane di risarcimento che attendono ancora di essere accolte dalle autorità di Roma.
(ANSA il 15 giugno 2021) - La Corte Suprema indiana ha ordinato la chiusura di tutti i procedimenti giudiziari nel Paese a carico di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due Marò coinvolti nella morte di due pescatori indiani nel 2012. Lo riporta il giornale indiano in lingua inglese The Hindu. La Corte Suprema indiana aveva rinviato la chiusura del caso lo scorso 19 aprile perchè l'indennizzo di cento milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) che l'Italia doveva versare alle famiglie delle vittime non era stato ancora depositato. Nel corso dell'udienza del 19 aprile, che era stata presieduta dallo stesso presidente della Corte - Sharad Arvind Bobde - il procuratore generale dello Stato, Tushar Mehta, aveva dichiarato che "l'Italia ha avviato il trasferimento di denaro", aggiungendo però che la somma non era ancora disponibile. Il nove aprile scorso la Corte aveva deciso che il caso sarebbe stato chiuso solo dopo il deposito del risarcimento pattuito. I due militari erano accusati di aver ucciso nel 2012 due pescatori indiani, al largo delle coste del Kerala: i fucilieri, che erano impegnati in una missione antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie, videro avvicinarsi il peschereccio Saint Antony e, temendo un attacco di pirati, spararono alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo della piccola imbarcazione, però, morirono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, e rimase ferito l'armatore del peschereccio, Freddy Bosco. Dopo un lungo contenzioso, nel luglio del 2020 il tribunale internazionale dell'Aja, che aveva riconosciuto "l'immunità funzionale" ai fucilieri, aveva stabilito che la giurisdizione sul caso spettava all'Italia e aveva disposto il risarcimento alle famiglie delle vittime.
Girone Latorre: Corte Suprema indiana chiude il caso. Il commissario Ue Gentiloni: «Successo della diplomazia italiana». La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Giugno 2021. La Corte Suprema indiana ha ordinato la chiusura di tutti i procedimenti giudiziari nel Paese a carico di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due Marò coinvolti nella morte di due pescatori indiani nel 2012. Lo riporta il giornale indiano in lingua inglese The Hindu. «Si chiude il caso con l’India. Un successo della diplomazia italiana», twitta il commissario Ue, Paolo Gentiloni, che nel 2015, da ministro degli Esteri, decise di ricorrere all’arbitrato internazionale sul caso dei due fucilieri di Marina. La Corte Suprema indiana aveva rinviato la chiusura del caso lo scorso 19 aprile perché l'indennizzo di cento milioni di rupie (circa 1,1 milioni di euro) che l’Italia doveva versare alle famiglie delle vittime non era stato ancora depositato. Nel corso dell’udienza del 19 aprile, che era stata presieduta dallo stesso presidente della Corte - Sharad Arvind Bobde - il procuratore generale dello Stato, Tushar Mehta, aveva dichiarato che «l'Italia ha avviato il trasferimento di denaro», aggiungendo però che la somma non era ancora disponibile. Il 9 aprile scorso la Corte aveva deciso che il caso sarebbe stato chiuso solo dopo il deposito del risarcimento pattuito. I due militari erano accusati di aver ucciso nel 2012 due pescatori indiani, al largo delle coste del Kerala: i fucilieri, che erano impegnati in una missione antipirateria a bordo della nave commerciale italiana Enrica Lexie, videro avvicinarsi il peschereccio Saint Antony e, temendo un attacco di pirati, spararono alcuni colpi di avvertimento in acqua. A bordo della piccola imbarcazione, però, morirono i due pescatori Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, e rimase ferito l’armatore del peschereccio, Freddy Bosco. Dopo un lungo contenzioso, nel luglio del 2020 il tribunale internazionale dell’Aja, che aveva riconosciuto «l'immunità funzionale» ai fucilieri, aveva stabilito che la giurisdizione sul caso spettava all’Italia e aveva disposto il risarcimento alle famiglie delle vittime.
LA MOGLIE DI LATORRE - «Da 9 anni sono costretta a parlare a nome di mio marito. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. Non può nemmeno partecipare a qualsiasi manifestazione pubblica. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma». Così Paola Moschetti, moglie di Latorre.
L'INCHIESTA DELLA PROCURA DI ROMA - Girone e Latorre verranno ascoltati nelle prossime settimane in Procura, a Roma. Per l'omicidio dei due pescatori indiani, i pm romani hanno aperto un fascicolo di indagine fin dal 2012. Il pm Erminio Amelio in questi mesi ha analizzato gli atti inviati dal Tribunale internazionale dell’Aja - che nel luglio del 2020 ha deciso in favore dell’Italia la competenza giurisdizionale - per poi procedere alla conclusione delle indagini che potrebbe arrivare in estate. «A chiusura della lunga e dolorosa parentesi indiana mi resta un dubbio - dice ancora la moglie di Latorre - considerato che sarà la procura di Roma a stabilire se vi sono prove sufficienti a portare a processo Massimiliano, sarà la Magistratura italiana a stabilire se è colpevole oppure innocente. Quel che mi chiedo ora è questo: se mio marito è innocente così come il suo compagno di sventura Girone, e saranno entrambi riconosciuti tali, come è giusto che sia, cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?». Una dichiarazione riportata da Paola Moschetti su Facebook a proposito del risarcimento danni di 1,1 milioni di euro alle famiglie dei pescatori indiani morti.
Marò, l'India li perdona ma l'Italia no: l'ultimo sfregio (di Stato) ai nostri militari. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. La buona notizia, accompagnata dal suono delle fanfare politiche, è che la Corte suprema dell'India ha chiuso tutti i procedimenti ancora aperti contro i marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di avere ucciso due pescatori del Kerala nel 2012. La cattiva - mentre le forze politiche esulta- no - è che l'accusa di omicidio volontario resta aperta presso la procura di Roma, cui spetta giudicare i due fucilieri dopo la pronuncia del Tribunale del mare di Amburgo, che ha riconosciuto la competenza giurisdizionale italiana. Per questo le famiglie di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non si uniscono al coro di chi, in queste ore, si lancia in dichiarazioni trionfalistiche. «Per la politica italiana siamo stati carne da macello», si sfoga Paola Moschetti, moglie di Latorre. La donna, costretta a parlare a nome del marito da nove anni (i militari sono vincolati al silenzio, ndr), ha affidato a Facebook i suoi pensieri. «Mi resta un dubbio», premette. E il «dubbio» è: visto che l'Italia ha versato alle famiglie dei due pescatori indiani circa 1,1 milioni di euro come indennizzo, «se mio marito è innocente così come il suo compagno di sventura Girone e saranno entrambi riconosciuti tali come è giusto che sia, cosa ha pagato lo Stato italiano all'India?». La signora Paola, raggiunta telefonicamente da Libero, preferisce non aggiungere altro: «A chi ha seguito la vicenda, credo sia evidente a chi mi riferisca...».
NODI DA SCIOGLIERE. Molto più loquace l'avvocato Fabio Anselmo, il legale che assiste Latorre a piazzale Clodio nell'ambito del procedimento aperto nel 2012 e affidato al sostituto procuratore En rico Amelio. «È lo sfogo comprensibile di una donna e di una famiglia che nove anni fa hanno avuto la loro vita distrutta. Va bene la vittoria diplomatica, ma qui stiamo parlando di persone. Massimiliano continua a portare sulle spalle il peso di un'accusa di omicidio». E il caso - purtroppo - ancora non è chiuso: «A breve sarà ascoltato dai magistrati romani. E lì non ci sarà alcun segreto militare che tenga. Massimiliano ci tiene a dire perché è innocente, ha voglia di raccontare quello che ha dovuto subire e che non dimenticherà mai». Insomma, mentre l'arco parlamentare si congratula con se stesso- «tutti si fanno i complimenti...», nota Anselmo - la famiglia Latorre guarda già al prossimo step giudiziario: «Queste esultanze ci lasciano molto freddi. Adesso, come avvocato di Massimiliano, mi aspetto di vedere quali prove ci sono a suo carico». E qui si torna alle parole di Paola su Facebook: sei due fucilieri sono innocenti, «cosa ha pagato lo Stato italiano all'India?». «Adesso vediamo che prove ci sono», insiste il penalista: «La procura di Uno dei primi ad esultare è stato Luigi Di Maio, ministro degli Esteri: «Grazie a chi ha lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico». Parole che stavolta provocano la reazione di Vania Ardito, moglie di Salvatore Girone: «Interessante leggere i ringraziamenti del ministro nei confronti di chi ha lavorato sodo. Ma prima di tutto è importante ringraziare i due soldati che si sono sacrificati alla sottomissione indiana per tanti anni, che non gli saranno più restituiti. Auspichiamo una rapida soluzione del caso anche in Italia». Nel frattempo, i due militari resteranno in silenzio. «Avevamo chiesto l'autorizzazione a poter fare dichiarazioni, ma ci è stata negata. In tutti questi anni Massimiliano e Salvatore non hanno potuto dire la loro», è l'ennesima coda velenosa che l'avvocato Anselmo mette su una storia ancora da chiudere.
Silenzi e ammissione di colpa. Le domande aperte sui marò. Riccardo Pelliccetti il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. I due fucilieri di Marina hanno sempre negato di aver sparato, ma da 9 anni non possono esporre la loro versione. Ci sono voluti nove anni per chiudere il contenzioso con l'India sul caso dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, coinvolti nella morte di due pescatori del Kerala nel 2012. Ma la vicenda non è conclusa, anzi. In primo luogo, perché c'è ancora l'inchiesta aperta in Italia dalla Procura di Roma, ma soprattutto perché manca una risposta a molti interrogativi. Hanno poco da gongolare i nostri politici, con Luigi Di Maio in prima fila. «Chiusi tutti i procedimenti giudiziari in India ha scritto su twitter il nostro ministro degli Esteri. Grazie a chi lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico. Si mette definitivamente un punto a questa vicenda». A parte il fatto che non è vero che ci sia un punto definitivo sulla questione, ma qualcuno crede veramente che sia tutto chiarito? L'Italia ha pagato 1,1 milioni di risarcimento, di fatto un'ammissione di responsabilità, eppure Latorre e Girone hanno sempre negato di aver sparato contro il peschereccio. I due fucilieri del San Marco hanno mentito per nove anni? E perché viene severamente proibito di esporre pubblicamente la loro versione dei fatti? La stessa moglie di Latorre, ieri, non ha trattenuto l'indignazione. «Da 9 anni sono costretta a parlare a nome di mio marito ha detto Paola Moschetti -. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. Non può nemmeno partecipare a qualsiasi manifestazione pubblica. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma». Già, perché le autorità militari impongono il segreto? C'è qualcosa di scomodo che l'opinione pubblica è meglio non sappia? Anche la moglie di Girone non risparmia critiche. «Interessante leggere i ringraziamenti del ministro Di Maio nei confronti di chi ha lavorato sodo ha detto Vania Ardito -, ma prima di tutti è importante ringraziare i due soldati che si sono sacrificati alla sottomissione indiana per tanti anni che mai più gli saranno restituiti». Non occorre riepilogare l'intera la vicenda, molti ricordano bene il gioco allo scaricabarile della politica, che ha portato addirittura alle dimissioni del ministro degli Esteri Giulio Terzi, nel 2013. Ma il tempo passa, i ricordi si affievoliscono e quello che è stato il più grande schiaffo diplomatico (non dimentichiamo che l'India trattenne come «ostaggio» il nostro ambasciatore a New Delhi affinché l'Italia rispedisse laggiù i due marò, che godevano di un permesso in patria) ora viene dipinto come un grande successo. Certo, il Tribunale internazionale di Amburgo nel 2020 ha riconosciuto l'immunità funzionale dei nostri militari, ma allo stesso tempo non ha ammesso la giurisdizione italiana e ha stabilito che l'incidente andava sanato con un risarcimento alle famiglie delle vittime, all'armatore del peschereccio indiano e agli altri membri dell'equipaggio. Di fatto, ha affermato che i nostri due marò sono responsabili delle morti anche se non possono essere giudicati in India. E i nostri politici si sono accodati, senza andare a fondo nel caso, senza ravvisare alcuna necessità di portare alla luce quello che è realmente accaduto. Sul caso Regeni, l'Italia è stata come un mastino con l'osso. Ma l'Egitto non è l'India. E nessuno affigge manifesti per chiedere «verità per i due marò». Speriamo lo faccia la Procura di Roma. Riccardo Pelliccetti
Marò, parla la moglie di Latorre: «L’ictus di mio marito, le ingiustizie e il tempo che ci hanno rubato» . Carlo Vulpio su Il Corriere della Sera il 15/6/2021. Paola Moschetti, la moglie di uno dei due marò: lui e Girone sono stati esemplari.
Signora Paola Moschetti, per suo marito Massimiliano Latorre e per il collega Salvatore Girone è finito un incubo.
«Lo spero. Voglio crederlo. Ma ne dubito».
Non le è tornata un po’ di fiducia dopo questi anni difficili?
«No. È troppo presto per la fiducia. La speranza non mi ha mai abbandonato, questo sì, anche nei momenti più bui. Ma la fiducia è un’altra cosa, e io ancora non ne ho».
«Perché dopo nove anni e mezzo di tribolazioni mi sento come una bambina che deve imparare a camminare e ha paura di cadere. Se per me è così, figuriamoci per Massimiliano. Per lui è ancora peggio, le sue ferite sono ancora più profonde e tutt’ora aperte».
Teme che non possano rimarginarsi, anche se l’esito giudiziario di questa vicenda fosse favorevole?
«Sì, ho questo timore. Anche perché da quando Massimiliano è stato colpito da un ictus, nel 2014, non ha potuto opporre la stessa resistenza psicofisica a una situazione assurda che ci ha travolti e stremati».
Lei, subito dopo la notizia della chiusura del caso davanti alla Corte suprema indiana, ha detto: «Per la politica italiana siamo stati carne da macello». Cosa intende dire?
«Mi pare chiaro, c’è ben poco da aggiungere. Basta guardare le facce di bronzo che presentano questo esito come un successo della politica e della diplomazia italiana»
Sul suo profilo Facebook ha anche scritto: «Se mio marito è innocente, così come il suo compagno di sventura Girone, e saranno entrambi riconosciuti tali come è giusto che sia, che cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?».
«Le rispondo riproponendo la domanda: che cosa ha pagato lo Stato italiano all’India?».
«Non lo so. Lo sta dicendo lei. Se è questo ciò che le viene in mente, forse è questa la risposta esatta».
A ogni modo, oggi è un bel giorno per i sottufficiali della Marina italiana, Latorre e Girone, possiamo dirlo?
Uno Stato irriconoscente?
«Dico solo che è lo stesso Stato che, con la giustificazione del segreto militare, adesso impone a Latorre e a Girone di tacere e addirittura di non partecipare nemmeno a manifestazioni pubbliche».
Se si guarda indietro, cosa pensa vi abbia aiutato di più ad andare avanti?
«L’affetto, il calore e il sostegno della gente comune. Anche degli sconosciuti. In tutto questo tempo ci hanno scritto e ci sono stati davvero vicino in tanti. Una solidarietà commovente».
Quali sono stati invece i momenti più neri?
«Quelli in cui avvertivamo la distanza o addirittura il senso di fastidio di chi doveva darsi da fare per risolvere questa vicenda. Sembrava volessero dirci: ancora con questa storia dei due marò? In quei momenti, ci guardavamo negli occhi e ci sentivamo sconfitti. Pensavamo di non doverne più venir fuori».
Si offende se le chiedo quanti anni ha?
«No. Perché ne intuisco il motivo. Ho 50 anni. Dieci anni fa quindi ne avevo 40. Ci hanno rubato quasi dieci anni. E quali anni...».